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Indice / Contents Relazione suolo, pianta, atmosfera: sicurezza e qualità delle produzioni agroalimentari e tutela dell’ambiente, Varanini Z. 3 Qualità del suolo, concetti ed applicazioni. Un’analisi critica, Buondonno A., Coppola E. 5 La qualità del suolo: chiave delle produzioni sostenibili, Benedetti A., Mocali S. 13 Speciazione e biodisponibilità degli elementi nel suolo: effetto sulla qualità della produzione agraria e sull’ambiente, Barberis E., Celi L., Martin M. 23 Valutazione dell’impatto economico dei cambiamenti climatici sui sistemi agro-forestali, Gallerani V., Bartolini F.,Viaggi D. 33 Potenziale impatto dei cambiamenti climatici nell’evoluzione floristica di fitocenosi spontanee in agroecosistemi mediterranei, Benvenuti S. 45 L’ortoflorofrutticoltura italiana al cospetto delle nuove opportunità offerte dalla genetica e dalla genomica di settore, Allavena A., Corino L., Quarta R., Rotino G.L., Velasco R. 69 Basi genetiche e fisiologiche della qualità degli alimenti di origine animale, Secchiari P.L., Carnier P., Priolo A., Mele M. 81 Determinanti della qualità delle produzioni ortofrutticole, Mezzetti B., Leonardi C. 103 Modelli di coordinamento verticale compatibili con lo sviluppo di filiere bio-energetiche, Nardone G., De Meo E., Seccia A., Viscecchia R. 115 Modelli produttivi agri-energetici: l’integrazione di filiera dalla scala aziendale a quella territoriale, Monteleone M., Cosentino S.L., De Mastro G., Mazzoncini M. 125 Risorse energetiche tradizionali ed innovative dalle attività microbiche nel sistema agroindustriale, De Philippis R., Vincenzini M. 141 An International Journal of Agroecosystem Management January-March 2009 Supplement Issue Vol. 4, No. 1 Suppl. Italian Journal of Agronomy Rivista di Agronomia

Qualit� del suolo, concetti ed applicazioni. Un'analisi critica

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Indice / Contents

Relazione suolo, pianta, atmosfera: sicurezza e qualità delle produzioni agroalimentari e tutela dell’ambiente, Varanini Z. 3

Qualità del suolo, concetti ed applicazioni. Un’analisi critica, Buondonno A., Coppola E. 5

La qualità del suolo: chiave delle produzioni sostenibili, Benedetti A.,Mocali S. 13

Speciazione e biodisponibilità degli elementi nel suolo: effetto sulla qualità della produzione agraria e sull’ambiente, Barberis E.,Celi L., Martin M. 23

Valutazione dell’impatto economico dei cambiamenti climatici sui sistemi agro-forestali, Gallerani V., Bartolini F., Viaggi D. 33

Potenziale impatto dei cambiamenti climatici nell’evoluzione floristica di fitocenosi spontanee in agroecosistemi mediterranei, Benvenuti S. 45

L’ortoflorofrutticoltura italiana al cospetto delle nuove opportunità offerte dalla genetica e dalla genomica di settore, Allavena A.,Corino L., Quarta R., Rotino G.L., Velasco R. 69

Basi genetiche e fisiologiche della qualità degli alimenti di origine animale,Secchiari P.L., Carnier P., Priolo A., Mele M. 81

Determinanti della qualità delle produzioni ortofrutticole, Mezzetti B.,Leonardi C. 103

Modelli di coordinamento verticale compatibili con lo sviluppo di filiere bio-energetiche, Nardone G., De Meo E., Seccia A., Viscecchia R. 115

Modelli produttivi agri-energetici: l’integrazione di filiera dalla scala aziendale a quella territoriale, Monteleone M., Cosentino S.L.,De Mastro G., Mazzoncini M. 125

Risorse energetiche tradizionali ed innovative dalle attività microbiche nel sistema agroindustriale, De Philippis R., Vincenzini M. 141

An International Journal of Agroecosystem Management

January-March 2009 Supplement Issue Vol. 4, No. 1 Suppl.

Italian Journal of AgronomyRivista di Agronomia

Innovazioni impiantistiche per la produzione e valorizzazione dell’olio di oliva nel rispetto dell’ambiente, Amirante P., Clodoveo M.L.,Leone A., Tamborrino A. 147

Alimenti e salute – Il contributo dell’Economia agro-alimentare, Baraldi F.,Canavari M., Regazzi D., Spadoni R. 163

Ruolo delle sostanze antiossidanti negli alimenti, Gambacorta G.,Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E. 171

Difesa delle colture e sicurezza degli alimenti: considerazioni sulla filiera cereali, Trematerra P., Gullino M.L. 185

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Relazione suolo, pianta, atmosfera:sicurezza e qualità delle produzioni agroalimentari

e tutela dell’ambiente

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:3-3

L’agricoltura può essere rappresentata comepunto di intersezione fra aspetti biofisici (pian-te, animali, microrganismi, terreno, acqua, at-mosfera ecc.), tecnico economici (produzioni,tecnologie, mezzi tecnici, mercati, prezzi ecc.) esocio-politici (popolazioni, culture, istituzionipolitiche ecc.). I problemi che un sistema siffat-to pone alla ricerca sono di conseguenza digrande complessità soprattutto nel momento incui si vogliano perseguire soluzioni rispettosedella qualità dei prodotti della sicurezza deiconsumatori e in armonia con l’ambiente. Que-ste problematiche presentano una vera e pro-pria sfida per i ricercatori che operano nel set-tore agricolo e che si trovano di fronte ad unsistema che deve essere analizzato con il più ele-vato livello di specializzazione disciplinare pos-sibile senza però perderne di vista l’unitarietà ela complessità. L’avanzamento delle conoscenzee l’individuazione delle migliori soluzioni tecni-che risultano pertanto strettamenti legati ad unapproccio multidisciplinare che preveda l’inda-gine a tutti i livelli di scale spazio-temporalicoinvolgenti una problematica.

Sulla base di queste premesse l’AssociazioneItaliana Società Scientifiche Agrarie (AISSA), incollaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Uni-versità di Foggia, organizza il suo V Convegno an-nuale che verterà sul tema:“Relazione suolo, pian-ta, atmosfera: sicurezza e qualità delle produzioniagroalimentari e tutela dell’ambiente”.

Il Convegno, articolato in sessioni nelle qua-

li verranno presentati i contributi che le diver-se Società Scientifiche che costituiscono l’AISSAstanno fornendo per lo studio e la soluzione dispecifiche problematiche, deve essere inteso co-me un tentativo di fornire una visione il più pos-sibile integrata relativamente all’argomento, checoinvolge aspetti di rilevante interesse per ilmondo produttivo e che riguardano l’uso otti-male delle risorse biofisiche, l’impatto dei cam-biamenti climatici, il contributo del sistemaagroindustriale ai problemi energetici e i rap-porti fra alimenti e salute. Ogni sessione scien-tifica sarà completata dalla presenza di posterdando così la possibilità ai diversi gruppi di ri-cerca di far conoscere il loro lavoro e di discu-terlo anche con ricercatori appartenenti ad am-bienti culturali diversi, o che operino nell’ambi-to di una stessa tematica su scale spazio-tem-porali diverse.

Si auspica che un Convegno così impostatopossa attirare l’attenzione non solo di ricerca-tori, studenti e tecnici di enti pubblici e privatima anche di imprenditori della filiera agroali-mentare interessati ad un aggiornamento multi-disciplinare e con i quali è indispensabile con-solidare un rapporto tale da valorizzare l’inten-so lavoro scientifico che con impegno, in perio-di non facili per la ricerca italiana, viene porta-to avanti dai ricercatori.

Zeno VaraniniPresidente AISSA

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Qualità del suolo, concetti ed applicazioni.Un’analisi critica

Andrea Buondonno*, Elio Coppola

Dipartimento di Scienze Ambientali, Seconda Università di NapoliVia Vivaldi 43, 81100 Caserta

Società Italiana di Pedologia

RiassuntoNell’accezione comune, il concetto di “qualità del suolo” si basa su criteri di valutazione di tipo soggettivo “antro-pocentrico” più che non oggettivo “pedocentrico”, ricercando e valutando condizioni e caratteristiche definite “de-siderabili” o “indesiderabili” dal punto di vista dell’uomo, ma che non tengono conto delle peculiarità pedogeneti-che. Tale approccio porta pericolosamente a sostenere una sorta di “discriminazione pedogenetica” che separa apriori suoli di qualità “superiore” ed “inferiore”, ed implica dequalificare ipso facto non solo una gran parte di Sot-togruppi, Grandi gruppi e Sottordini, ma anche interi Ordini tassonomici, quali ad esempio Aridisols, Gelisols, Oxi-sols, Ultisols. Si misconosce così il valore intrinseco del suolo nella complessità delle sue funzioni, in quanto riser-va genica garante della biodiversità spazio-temporale, bene ambientale culla della civiltà, elemento imprescindibiledel paesaggio, custode del patrimonio evolutivo dell’uomo. Se si consolidasse il principio che la qualità è attributoesclusivo di suoli ricchi e fertili, allora diventerebbe elevatissimo ed incombente il rischio di sottrarre ulteriormen-te e definitivamente i suoli di “scarsa qualità” all’agricoltura, al paesaggio, al patrimonio pedologico globale. È ne-cessario riconsiderare il concetto di “qualità” del suolo essenzialmente in termini di “funzionalità” intesa come “at-titudine ad esprimere le proprie potenzialità”, valorizzando i fondamentali ruoli ambientali, socio-economici e cul-turali del suolo sulla base dei caratteri intrinseci derivanti dalla sua peculiare storia pedogenetica.

Parole chiave: suolo, qualità.

Summary

SOIL QUALITY, THEORY AND APPLICATIONS. A CRITICAL ANALYSIS

In its common meaning, the concept of “soil quality” is based on evaluating criteria that are subjective and “an-thropocentric” rather than objective and “pedocentric”. Several “desirable” or “undesirable” soil conditions andcharacteristics are considered from the human point of view, disregarding the pedogenetic features. Such an ap-proach perilously leads to support the idea of a “pedogenetic discrimination”, which a priori privileges “superior”vs. “inferior” soils, thus discrediting a large part of soil Subgroups, Great Groups, Suborders, and even whole taxo-nomic Orders. So, a number of soil functions, such as genic reserve guarantee of space-temporal bio-diversity, en-vironmental good cradle of civilization, foundation of the landscape, as well as upholder of man heritage, are ne-glected at all. If “quality” only concerned rich and fertile soils, there would be the great and looming risk to de-finitively take “poor” soils away from agriculture, landscape and global pedological reserve. It is necessary to re-consider the concept of “soil quality” as “soil functionality”, that is to say “aptitude of soil to express its own po-tential”, bringing out the essential environmental, socio-economic and cultural soil roles on the basis of the inher-ent conditions and characteristics arising from its peculiar pedogenetic history.

Key-words: soil, quality.

* Autore corrispondente: tel.: +39 0823 274606; fax: +39 0823 274605. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:5-12

Introduzione

In un appropriato contesto, il sintagma nomi-nale “qualità del suolo” assume senso compiu-to solo se sono noti e chiari sia il significato deitermini “qualità” e “suolo”, sia il nesso relazio-nale esistente tra di essi. Pertanto, la conformitàdel concetto di “qualità del suolo”, nonché la suavalida applicazione, dipendono sia dalla corret-tezza delle definizioni di suolo e di qualità siadalla esatta individuazione delle relazioni che le-gano il concetto di qualità a quello di suolo.

Il concetto di suolo

Nell’ultimo decennio, la definizione di suolo hasubito una notevole evoluzione. Nell’accezionepiù comune, il suolo è il sistema naturale depu-tato allo sviluppo dei vegetali ed alle produzio-ni agrarie. In realtà, il suolo assolve numerosealtre funzioni, e le stesse definizioni di suolo sisono evolute nel tempo, soprattutto nell’ultimodecennio. Nel 1998, il World Reference Base(WRB) (FAO-ISRIC-ISSS. 1998) definiva suo-lo “un corpo naturale continuo, con tre dimen-sioni spaziali ed una temporale, […] formato dacostituenti organici ed inorganici, comprenden-ti fasi solide, liquide e gassose, […] organizzatiin strutture specifiche per ciascun sistema pe-dologico, […] in continua evoluzione, acquisen-do così il tempo come quarta dimensione.

Nel 1999, la Soil Taxonomy (USDA-NRCS,1999; USDA-NRCS Soil Survey Staff, 2006) de-finisce suolo “un corpo naturale formato da fa-si solide (minerali ed organiche), liquide ed ae-riformi che si ritrova alla superficie terrestre, oc-cupa volume, ed è caratterizzato da almeno unadelle seguenti proprietà: i) presenza di orizzon-ti, o strati, distinguibili dai materiali iniziali inconseguenza di aggiunte, perdite, trasporto etrasformazione di materia ed energia, e/o ii) ca-pacità di sostenere, in ambienti naturali, vege-tali dotati di apparati radicali ipogei”1.

Nel 2005 Nachtergaele assimila, con brillan-

te sintesi, il concetto di suolo a quello di “epi-dermide della Terra”. Ne scaturisce la più re-cente definizione fornita dal WRBSR (FAO-ISRIC-IUSS 2006): “Il suolo è […] qualsiasi ma-teriale entro 2 m dalla superficie terrestre chesia in contatto con l’atmosfera, con esclusionedegli organismi viventi, delle aree con ghiacciocontinuo non coperte da altri materiali e deicorpi idrici più profondi di 2 m”. Tale inqua-dramento offre, in particolare, il significativovantaggio di affrontare i rapporti suolo-am-biente in modo olistico e deterministico, e dievitare sterili discussioni finalizzate alla ricercadi una definizione basata sull’individuazione dispecifiche caratteristiche o funzioni. In partico-lare, non fa menzione di alcuna specifica carat-teristica, quale la fertilità, o funzione, quale laproduttivà: il suolo è tale in quanto esiste.

Il concetto di qualità

La “qualità”, formalmente identificata da Ari-stotele come una delle dieci categorie generalidell’ente, è stata, ed è tuttora, un predicato trai più variamente investigati, discussi e interpre-tati dalle varie scuole filosofiche (Geymonat,1973a). Il dibattito si sostanzia essenzialmentesulla interpretazione, o sulla risoluzione, delladicotomia “soggetto-oggetto”. Già i presocrati-ci, quali Parmenide e gli Eleatici (Peri, 1994),opponevano l’interpretazione “soggettivistica”,ovvero la qualità è intrinseca nel soggetto, a quel-la “oggettivistica” di Aristotele, ovvero la qua-lità è intrinseca nell’oggetto. Il progressivo rifiu-to della fisica Aristotelica nella sua accezione“qualitativa” della natura, già manifestatosi sulfinire del Medioevo, trova il suo epilogo nelladefinitiva affermazione della fisica di GalileoGalilei nella sua accezione quantitativa, basatasulla matematica e sulla geometria. La dicoto-mia soggetto-oggetto porta quindi alla distin-zione tra le “qualità primarie”, oggettivamentemisurabili in termini quantitativi, quali la gran-dezza, e le “qualità secondarie”, o “sensibili”, in-dividualmente percepite e misurabili con para-metri soggettivi. Le prime sono quindi oggetti-ve e reali, le seconde soggettive e illusorie. Glistessi concetti, peraltro, erano già stati sostenu-ti della scuola atomistica democritea, e costitui-ranno successivamente uno dei capisaldi delmeccanicismo di vari filosofi, quali René De-scartes, Thomas Hobbes, John Locke, perma-nendo sostanzialmente invariati fino alla secon-

Buondonno A., Coppola E.

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1 La nuova definizione ha ampliato la precedente del1975 (Soil Survey Staff, 1975), includendo quei suoli evo-lutisi in particolari ambienti, quali ad esempio l’Antar-tide, in cui il clima è tale da consentire l’espressione deiprocessi pedogenetici, ma troppo rigido ed avverso perfavorire lo sviluppo delle piante superiori.

da metà del XVIII secolo, allorquando la por-tentosa rivoluzione del pensiero moderno com-piuta da Immanuel Kant rinnova completa-mente l’impianto logico e metodologico dellecategorie. Esse non designano più modi di esse-re della realtà, ma bensì modi di percepire e co-noscere la realtà stessa. Le categorie sono fun-zioni a priori dell’intelletto, o concetti puri, chedeterminano le condizioni trascendentali dell’e-sperienza ovvero le forme universali che i fe-nomeni devono assumere per divenire oggettidi conoscenza. La dicotomia “soggetto-oggetto”è quindi superata nella sintesi della conoscenzae del giudizio. Come opportunamente rilevatoda Peri (1994), per Kant la conoscenza implical’esistenza di un oggetto percepibile e una fun-zione a priori, intrinseca nel soggetto, in gradodi organizzare la percezione dell’oggetto. Lostesso Peri (1994) ricorda che, nella Critica delGiudizio, Kant afferma: “Il bello non è una pro-prietà delle cose, ma nasce dal rapporto tra lecose e noi, e precisamente dal rapporto fra laloro immagine e il nostro sentimento”. Quindi,secondo Kant, “il giudizio estetico ci fa coglie-re il bello ed il sublime, e l’uomo percepisce ilbello quando l’oggetto sensibile2 su cui egli ri-flette si presenta in accordo con la sua esigen-za di libertà; allora sorge in lui un vivo com-piacimento: esso è il riverbero di questo liberoe felice incontro del sensibile con il razionale”(Geymonat, 1973b). E la rappresentazione men-tale della “libertà”, in Kant, coincide con quel-la della “autodeterminazione” (Riconda, 1991).

Nella lezione di Kant trova riscontro l’evo-luzione del concetto di qualità nella storia con-temporanea. Citiamo, paradigmaticamente, Jo-seph Moses Juran, padre della moderna gestio-ne della qualità (Juran, 1951) che definisce laqualità come “idoneità all’uso”. Le posteriorinorme ISO formalizzeranno e affineranno ulte-riormente il concetto di qualità: “insieme delleproprietà e caratteristiche di un prodotto o ser-vizio che gli conferiscono l’attitudine a soddi-sfare bisogni espressi o impliciti” (UNI EN ISO8402-1995), “capacità di un insieme di caratteri-stiche inerenti ad un prodotto, sistema, o pro-cesso di ottemperare a requisiti di clienti e dialtre parti interessate” (ISO 9000-2000), “gradoin cui un insieme di caratteristiche intrinsechesoddisfano i requisiti” (ISO 9000-2005).

In sintesi, nell’accezione moderna, la qualitàdi un oggetto o di un sistema è una funzione

sovrastrutturale che garantisce che la strutturadell’oggetto, o del sistema stesso, soddisfi com-piutamente i bisogni personali del soggetto.

Il concetto di qualità del suolo

Il sintagma “qualità del suolo” viene utilizzatocon sempre maggiore frequenza, e con differentifinalità, in diversi contesti socio-culturali e tec-nico-scientifici. A tale termine tuttavia non cor-risponde un “concetto” univocamente condivi-so, né una definizione stabilmente consolidata.L’eterogeneità di accezioni ed applicazioni, chetalora conduce a paradossi interpretativi, derivasostanzialmente dalle incongruità sia dell’ap-proccio all’analisi del sistema suolo, non semprestrettamente pedologico, sia dei criteri di valu-tazione del suo stato di “qualità”, di tipo sog-gettivo “antropocentrico” più che non oggettivo“pedocentrico”.

Frequenti, ma non coerenti, sono le associa-zioni del concetto di “qualità” a quelli di “pro-duttività” e di “sostenibilità d’uso”, ovvero infunzione della capacità del suolo di soddisfareparticolari bisogni dell’antroposfera. Si identifi-ca infatti la qualità del suolo come la capacitàdi “funzionare all’interno dei confini di un eco-sistema ed interagire positivamente con l’am-biente esterno all’ecosistema stesso” (Larson ePierce, 1991), o di “ricevere, immagazzinare e ri-ciclare acqua, minerali ed energia per sostene-re a livelli ottimali la produzione vegetale e, al-lo stesso tempo, preservare la salute dell’am-biente” (Arshad e Coen, 1992), o di “fungere damezzo naturale per la crescita delle piante chesostengono la vita umana ed animale” (Karlenet al., 1992), o ancora come la “misura integra-ta sia della capacità del suolo a funzionare, siadel grado di espressione di tale funzionalità inrelazione ad un determinato uso” (Gregorich etal., 1994). La Soil Science Society of AmericaAd Hoc Committee on Soil Health comprendee sintetizza tali definizioni, considerando la qua-lità del suolo come “la capacità di uno specifi-co tipo di suolo di funzionare, all’interno deiconfini di un ecosistema naturale o antropizza-to, di sostenere la produttività animale e vege-tale, di mantenere o accrescere la qualità del-l’acqua e dell’aria, e di sostenere la salute e gli

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2 “Sensibile” è l’oggetto che viene percepito dai sensi.

insediamenti umani” (Karlen et al., 1992). Sin-ger e Ewing (2000), infine, affermano che le “ca-ratteristiche del suolo possono essere desidera-bili o indesiderabili.

Limiti e incongruenze del concetto di qualità delsuolo

Dal punto di vista pedologico, le definizioni da-te appaiono inconsistenti per almeno quattroordini di motivazioni:1. Prendono in considerazione solo alcune del-

le numerose funzioni del suolo. In buona so-stanza, il concetto di qualità richiama fun-zioni quali la produttività e la depurazione ericiclo di acqua ed elementi, senza ricono-scere il suolo stesso quale riserva genica ga-rante della biodiversità spazio-temporale, be-ne ambientale culla della civiltà ed elemen-to del paesaggio, custode del patrimonio evo-lutivo dell’uomo.

2. Sono basate su un approccio che astrae ilsuolo dal suo contesto reale, senza tenereconto della pedodiversità globale. La SoilTaxonomy (USDA-NRCS, 1999; USDA-NRCS Soil Survey Staff, 2006) inquadra isuoli in 12 Ordini, 68 Sottordini, oltre 300Grandi Gruppi, oltre 1200 Sottogruppi, oltre10000 Famiglie, e oltre 17000 Serie; per altroverso, il WRBSR (FAO-ISRIC-IUSS, 2006)classifica, al primo livello gerarchico, 32 Re-ference Soil Groups, ed individua 149 quali-fiers e 10 specifiers per l’inquadramento ai li-velli tassonomici inferiori; tenuto conto, perciascun sistema, della incompatibilità, o del-la mutua esclusione di alcune chiavi tasso-nomiche ai diversi livelli gerarchici, il nume-ro di pedotipi classificabili a livello globaleè dell’ordine di 104; si perviene così ad unapedodiversità nominale ragguardevole, e pie-namente congruente con la variabilità com-binatoria compatibile di fattori e processi pe-dogenetici; ne consegue necessariamente unanotevole differenziazione tra le funzionalitàconnaturate ai diversi pedotipi, e quindi l’im-possibilità di formulare un concetto di “qua-lità” generalizzabile e coerente.

3. Mistificano la nozione di “qualità”, plagian-do di fatto concetti e criteri di valutazionedei suoli già noti e consolidati a livello in-ternazionale. Ad esempio, il Land CapabilityClassification System (Klingebiel e Montgo-mery, 1961) stima la “capacità” dei suoli ad

essere lavorati senza che si instaurino feno-meni di degradazione, e quindi classifica isuoli in base ai possibili compromessi tra li-mitazioni esistenti e potenzialità d’uso; ilLand Suitability Classification System (Dente Young, 1981) accerta l’idoneità di un suo-lo ad essere utilizzato per uno specifico fine,producendo benefici senza pregiudizio dellerisorse proprie e di quelle dei suoli vicinio-ri; il Fertility Capability Classification Sy-stem (Buol, 1975; Sanchez et al., 2003) clas-sifica i suoli in base alla fertilità potenzialeintrinseca, ed alle limitazioni alla sua espres-sione. Calzolari, Costantini e Venuti (2006)richiamano inoltre i concetti di “Land Cha-racteristic, LC”, quale “attributo semplice diun’area che può essere misurato o stimato”,e di “Land Quality, LQ” come “attributocomplesso di una parte di territorio che in-fluenza in modo specifico le attitudini delterritorio a specifici usi”.

4. Utilizzano criteri di stima di tipo soggettivo,ricercando e valutando condizioni e caratte-ristiche definite “desiderabili” o “indesidera-bili” su base “antropocentrica”. Tali criterinon tengono conto dell’identità pedologicadei differenti suoli, della loro storia evoluti-va e della loro funzionalità intrinseca. La ta-bella 1 riporta l’estensione superficiale deidodici Ordini della Soil Taxonomy sull’insie-me delle terre emerse non coperte da ghiac-ci perenni, nonché la loro distribuzione in re-lazione ai differenti regimi di temperatura edi umidità del suolo (Wilding, 2000).È evidente come, per tutti gli Ordini, in par-

ticolare per sette di essi, esistano significativealiquote di suoli sviluppati in condizioni estre-me di temperatura e/o di umidità (tab. 1). I Ge-lisols si ritrovano esclusivamente nella tundra enelle foreste boreali artiche, antartiche e subar-tiche, 82% degli Spodosols e 71% degli Histo-sols in regioni boreali, 98% degli Oxisols e 69%degli Ultisols nelle regioni tropicali. In relazio-ne all’umidità, 95% degli Aridisols e 65% degliEntisols sono caratterizzati da regime aridico, e90% degli Spodosols, 68% degli Histosols e65% degli Oxisols da regime udico-perudico econdizioni aquiche. È significativo evidenziarecome l’insieme degli Ordini citati rappresenti il56.5% dell’intero patrimonio pedologico mon-diale. Altra incongruenza delle definizioni dateè quella di considerare come “indicatori” della

Buondonno A., Coppola E.

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qualità del suolo parametri strettamente con-nessi invece con la fertilità, le attitudini d’uso ela produttività, quali il contenuto di sostanza or-ganica, la disponibilità dei nutritivi, il grado direazione, la capacità di ritenzione idrica, l’atti-vità biologica. Tale criterio implica dequalifica-re ipso facto non solo una gran parte di Sotto-gruppi, Grandi gruppi e Sottordini, ma anche in-teri Ordini tassonomici. Ad esempio, negli Aridi-sols, Gelisols, Oxisols, e Ultisols, tutte le caratte-ristiche concorrono a determinare bassissimi li-velli di fertilità chimica e fisica, e notevoli pro-blematiche di gestione e conservazione (tab. 2).

Gli Aridisols (diffusione 12%) sono caratte-rizzati da carenza di acqua disponibile per lun-ghi periodi (AWC < 90 d consecutivi), a causadi insufficiente ritenzione idrica, bassi contenu-ti di argilla e di sostanza organica (SO) e quin-di bassa Capacità di Scambio Cationico (CSC),e sbilancio precipitazioni/evapotraspirazione,con accumulo di prodotti di alterazione relati-vamente solubili e conseguente elevata salinità.

I Gelisols (diffusione 13%) sono caratteriz-

zati dalla presenza di permafrost3, che ostacolail movimento della fase liquida del suolo versoil basso. I fenomeni di crioturbazione concorro-no a determinare deformazioni e fratture degliorizzonti pedogenetici e accumulo di sostanzaorganica, in parte segregata all’interno del per-mafrost e quindi non disponibile. Sono fre-quentemente acidi, con complesso di scambiodesaturato, e, nei deserti polari, possono pre-sentare condizioni di salinità a causa della scar-sità di acqua libera.

Gli Ultisols (diffusione 8.5%), caratteristicidelle regioni tropicali, sono suoli alterati for-matisi a seguito della combinazione di due con-dizioni climatiche particolari: una in cui le pre-

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Tabella 1. Estensione superficiale degli Ordini secondo la Soil Taxonomy, e loro distribuzione in funzione dei principali re-gimi di umidità e di temperatura del suolo (da Wilding, 2000; modificata).

Table 1. Order expanse according to Soil taxonomy and their distribution as function of main moisture and soil tempera-ture regimes (from Wilding 2000 modified).

Estensione Distribuzione per Distribuzione perregime di umidità del suoloa regime di temperatura del suoloa

Ordine Aridico Xerico Ustico Udico1 Tropicale4 Temperato5 Boreale6 Tundra7

km2 (x103) % % % % % % % % %Alfisols 12.621 9,6 0 8 56 36 38 39 23 0Andisols 912 0,7 4 3 30 63 49 23 28 0Aridisols 15.728 12,0 95 1 3 1 12 74 14 <<1Entisols 21.137 16,2 60 4 22 14 28 68 4 0Gelisols 11.260 8,6 N/A2 N/A2 N/A2 N/A2 0 0 0 100Histosols 1.527 1,2 8 1 23 68 21 8 71 0Inceptisols 12.830 9,8 0 6 42 52 47 42 11 0Mollisols 9.006 6,9 0 13 663 22 4 50 46 0Oxisols 9.810 7,5 <<1 0 35 65 98 2 0 0Spodosols 3.354 2,5 <<1 1 9 90 <<1 18 82 0Ultisols 11.054 8,5 0 <<1 42 58 69 31 <<1 0Vertisols 3.160 2,4 28 3 56 13 47 52 1 0

a Definiti in accordo con la Soil Taxonomy (USDA-NRCS Soil Survey Staff, 2006):1 Include il regime perudico (permanentemente umido) e le condizione aquiche (saturo d’acqua, condizioni riducenti con figure

redoximorfiche);2 non applicabile all’ordine dei Gelisols;3 una modesta percentuale di Mollisols collocata nel regime di umidità ustico è di fatto ascrivibile al regime di umidità aridico, in

particolar modo nelle aree di steppa dell’Eurasia che presentano una situazione al limite tra i regimi aridico e ustico;4 isomesico, isotermico e isoipertermico (temperatura media annua del suolo > 8 °C con differenza tra la media delle temperatu-

re estive e invernali < 6 °C ad una profondità di 50 cm;5 mesico, termico e ipertermico (temperatura media annua del suolo > 8 °C ad una profondità di 50 cm);6 frigido, isofrigido e cryico (temperatura media annua del suolo 0-8 °C ad una profondità di 50 cm);7 pergelico (temperatura media annua del suolo < 0 °C ad una profondità di 50 cm.

3 Strato ghiacciato di suolo (o di roccia), di spessore mi-surabile fino ad una determinata profondità dalla su-perficie, in cui la temperatura resta al di sotto di 0 °Cper almeno due anni consecutivi, in un ambiente in cuiil riscaldamento estivo non produce temperature suffi-cienti a disciogliere il limite inferiore delle strato ghiac-ciato.

cipitazioni sono in deficit rispetto all’evapotra-spirazione, favorendo la formazione di orizzon-ti illuviali di tipo argillico o kandico4, ed una incui le precipitazioni sono tali da eccedere la ca-pacità di ritenzione idrica del suolo, favorendola lisciviazione delle basi e la desaturazione delcomplesso di scambio, con conseguente incre-mento dell’acidità e rischio di tossicità da allu-minio. La CSC è tipicamente molto bassa, an-

che per la prevalenza di minerali argillosi a bas-sa carica anionica quali la kaolinite.

Gli Oxisols (diffusione 7.5%) rappresentanoben il 25% dei suoli tropicali. Presentano talu-

Buondonno A., Coppola E.

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Tabella 2. Valori tipici di alcune caratteristiche dei suoli afferenti agli Ordini degli Aridisols, Gelisols, Ultisols, Oxisols(USDA-NRCS, 1999; modificata).

Table 2. Typical values of some characteristics of soils afferent to Aridisols, Gelisols, Ultisols, Oxisols Order (USDA-NRCS,1999; modified).

Aridisols

Profondità Orizzonte pH Argilla C N C/N K CSC1 GSB2 H2O H2O-cm H2O % % % meq/100g meq/100g % 1/3 bar 15 bar

0-33 Ap1 7.8 17.2 0.90 0.093 10 1.7 15.1 100 14.833-56 Ap2 8.0 18.3 0.60 0.067 9 2.0 14.5 100 15.656-81 Bk1 8.1 29.2 0.34 1.6 9.4 100 15.381-107 Bk2 8.1 38.1 0.18 1.3 10.9 100 15.3107-135 Bk3 8.1 45.1 0.16 1.5 11.5 100 14.7135-269 Bk4 8.1 50.2 0.11 1.5 9.6 100 16.3269-279 2C 8.0 40.2 0.03 2.0 15.4 100 14.6

Gelisols

Profondità Orizzonte pH Argilla C N C/N K CSC1 GSB2 H2O H2O-cm H2O % % % meq/100g meq/100g % 1/3 bar 15 bar

0-7 A 5.2 23.7 7.54 0.331 23 0.4 29.7 57 38.3 22.57-12 AB 5.7 8.7 0.65 0.064 10 0.1 11.4 81 18.5 5.812-38 Bw1 6.6 13.0 0.56 0.065 9 0.1 12.6 90 6.538-59 Bw2 6.8 15.5 0.48 0.065 7 0.2 14.7 100 8.859-78 Bw3 6.8 15.4 0.44 0.066 7 0.2 13.5 100 20.8 8.378-94 Bw4 7.3 15.2 0.44 0.068 6 0.2 13.1 95 18.3 7.794-110 Cf 7.3 13.5 0.39 0.059 7 0.2 11.2 100 6.9

Ultisols

Profondità Orizzonte pH Argilla C N C/N K CSC1 GSB2 H2O H2O-cm H2O % % % meq/100g meq/100g % 1/3 bar 15 bar

0-12 Ap 5.1 12.3 1.25 0.057 22 0.1 4.2 43 9.6 4.412-40 Bt1 5.0 35.0 0.51 0.037 14 0.1 5.7 4 15.1 11.840-86 Bt2 5.0 35.0 0.32 0.019 17 0.1 5.3 38 18.1 12.786-140 Bt3 5.0 40.9 0.20 0.1 5.6 11 16.0 14.0140-280 Bt4 4.9 44.6 0.19 0.1 5.3 15 17.2 14.8

Oxisols

Profondità Orizzonte pH Argilla C N C/N K CSC1 GSB2 H2O H2O-cm H2O % % % meq/100g meq/100g % 1/3 bar 15 bar

0-18 Ap 4.1 53.9 2.12 0.139 15 10.4 6 25.1 18.218-30 A 4.3 53.8 1.59 0.098 16 9.1 1 30.2 17.830-38 BAg 4.4 56.9 1.00 0.084 12 7.1 28.4 18.338-70 Bg1 5.0 60.0 0.48 0.028 17 6.3 29.7 19.770-110 Bg2 5.1 59.7 0.26 0.027 10 6.5 29.5 21.0110-180 BCg 5.3 60.7 0.18 0.013 14 5.4 28.2 22.1

1 Capacità di Scambio Cationico; 2 Grado di Saturazione in Basi.

4 Orizzonti subsuperficiali di deposizione di materiali fi-ni (argille) eluviati dagli orizzonti sovrastanti; in parti-colare, l’orizzonte kandico è caratterizzato da accumulodi argille 1:1 a bassa attività (“kanditi”, quali kaolinite).

ne analogie con gli Ultisuoli, prevalentementesotto l’aspetto climatico, ma presentano un oriz-zonte subsuperficiale di tipo kandico o oxico5, esono generalmente molto più alterati, quindifortemente desaturati e acidi. Sono prevalente-mente argillosi, e relativamente ben dotati diSO, ma nel contempo sono poco fertili ed han-no bassa CSC. Ciò è dovuto alla concorrenza didue fattori: la frazione minerale è costituita es-senzialmente da materiali profondamente alte-rati, con attività di scambio da scarsa a nulla(quarzo, kaolinite, ossidi di Al e Fe), e la dina-mica dell’umificazione è scarsa, a causa della re-frattarietà della SO. Tale circostanza evidenziatra l’altro come, contrariamente a quanto co-munemente sostenuto dal punto di vista ecolo-gico, elevati contenuti di argilla e di SO non dia-no garanzia di “qualità”.

Conclusioni

Il concetto di “qualità del suolo”, così come at-tualmente strutturato, riconduce ad una inter-pretazione teleologica del ruolo del suolo, e por-ta inevitabilmente a sostenere una sorta di di-scriminazione pedogenetica, di pericolosa “pe-do-eugenica”, che separa a priori suoli di qua-lità “superiore” da quelli di qualità “inferiore”,misconoscendo così il valore intrinseco del suo-lo nella complessità delle sue implicazioni am-bientali, socio-economiche e culturali. Se si con-solidasse il principio che la qualità è attributoesclusivo di suoli ricchi e fertili, allora divente-rebbe elevatissimo ed incombente il rischio disottrarre definitivamente i suoli di “scarsa qua-lità” all’agricoltura, al paesaggio, al patrimoniopedologico globale, già di per sé ampiamenteminacciato e ormai in parte degradato. L’inade-guatezza dell’approccio si riflette inevitabil-mente anche nella continua ricerca di “indica-tori” idonei a misurare la qualità. In assenza diuna rigorosa definizione e delimitazione delcampo e dell’obiettivo di indagine, anche glistrumenti e le unità di misura restano non ri-gorosamente definiti. Infatti, a tutt’oggi, sonostati proposti differenti insiemi di “indicatori”chimici, fisici e biologici della qualità del suolo,ciascuno formato da un rilevante numero di pa-rametri, con inevitabile ridondanza di informa-zioni e spreco di risorse. Si resta tuttavia benlontani da tentativi efficaci di riduzione delle

informazioni superflue e di accorpamento delledati essenziali, con conseguente rischio di arbi-trarietà ed aleatorietà. La problematica è ag-gravata dalla circostanza che il suolo è un si-stema naturale estremamente complesso, e chepertanto offre una serie pressoché innumerevo-le di parametri atti ad essere misurati, ma il cuisignificato e la cui importanza spesso sono de-finiti dal misuratore stesso, senza riscontri og-gettivi.

Ogni suolo è un unicum, evolutosi nel tem-po in equilibrio con le specifiche condizioni diclima, geomorfologia, natura dei materiali geni-tori, attività biotica, influenza dell’uomo, ed ècapace di trasferire materia ed energia tra icomparti ambientali nei limiti delle risorse del-l’ambiente stesso.

Come argutamente notato da Chesworth(2008), “lo stato, qualità o salute, del suolo è mo-st parsimoniously spiegato come conseguenzadella co-evoluzione delle componenti biotiche eabiotiche sulla superficie della Terra, senza im-plicazioni teleologiche”, e “la vita si è evolutacome migliore adattamento a tutte le possibilicircostanze, […] in accordo con la teoria diDarwin”.

È necessario quindi riconsiderare il concet-to di “qualità” del suolo essenzialmente in ter-mini di “funzionalità” intesa come “attitudine adesprimere le proprie potenzialità”, valorizzandoi fondamentali ruoli ambientali, socio-economi-ci e culturali del suolo sulla base dei caratteriintrinseci derivanti dalla sua peculiare storia pe-dogenetica.

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Buondonno A., Coppola E.

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6 Sono seguite, per gli stessi tipi, successive edizioni negli anni 1962, 1974, 1988, 1999.

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La qualità del suolo: chiave delle produzioni sostenibili

Anna Benedetti*, Stefano Mocali

CRA – Centro per lo Studio delle Relazioni tra Pianta e SuoloVia della Navicella 2, 00184 Roma

Società Italiana della Scienza del Suolo (SISS)

RiassuntoNegli ultimi anni sono state formulate molte definizioni sulla qualità del suolo, ma tra tutte certamente la più ap-prezzata è quella di Doran e Parkin del 1994 nella quale la qualità del suolo viene definita come “la capacità diinteragire con l’ecosistema per mantenere la produttività biologica, la qualità ambientale e promuovere la saluteanimale e vegetale”. In realtà molti studiosi del suolo attribuiscono ad essa un significato concettuale fondamenta-le nella programmazione territoriale e nella gestione aziendale, altri invece sostengono che in tale definizione nonrisieda alcun valore aggiunto nella comprensione e descrizione delle proprietà del suolo ma che il concetto di qua-lità del suolo viene a sovrapporsi con il concetto di “adatto per “ e quindi impone di definire in primo luogo la suadestinazione d’uso. La qualità degli alimenti è caratterizzata da un insieme di proprietà che vanno in primo luogodalla salubrità al valore nutritivo, alle quantità prodotte, alla conservabilità, alla tipicità, alle proprietà organoletti-che, ecc. Molte di queste proprietà dipendono dalla qualità ambientale ed in modo particolare dalla qualità del suo-lo. Il suolo rappresenta il substrato naturale per la crescita e produttività della maggior parte degli organismi ve-getali che popolano la terra in quanto dal suolo le piante traggono gli elementi nutritivi indispensabili al loro svi-luppo; conseguentemente ogni elemento presente nel suolo in forma biodisponibile alle piante è destinato poten-zialmente ad entrare nella catena alimentare degli animali e dell’uomo. Nel controllo di qualità del processo pro-duttivo degli alimenti dunque sarà fondamentale garantire la giusta qualità del suolo in termini sia di elementi in-desiderati, che non costituiscono l’oggetto della presente nota, quanto degli elementi della fertilità , essenziali a ga-rantire quantità e qualità nelle produzioni. Nella presente nota verranno discusse le relazioni che legano la qualitàe la biodiversità del suolo alla qualità ed alla sostenibilità delle produzioni. Infine verrà discussa la peculiarità delsuolo come “biota”, nodo di tutti gli equilibri ambientali e pertanto comparto chiave nella regolazione della vitasulla terra, e degli indicatori come strumenti di valutazione della qualità del suolo.

Parole chiave: biota suolo, indicatori di qualità del suolo, sostenibilità delle produzioni, qualità del suolo, biodiver-sità del suolo.

Summary

SOIL QUALITY: KEY FOR SUSTAINABLE PRODUCTION

In the last few years several definitions of “soil quality” have been advanced, but among them the most appreciated is“the ability of soils to interact with the ecosystem in order to maintain the biological productivity, the environmentalquality and to promote animal and vegetal health” as defined by Doran and Parkin in 1994. Many researchers placemore emphasis on its conceptual meaning for land planning and farm management, while others consider that defini-tion to be worth nothing in order to understand soil properties and the concept of soil quality looks like the conceptof “to be suitable for”. For this reason a definition of “soil use” is needed. The food quality is characterized by sever-al properties: the healthiness and the nutritional value, the amount of the production, the typicalness and organolepticproperties, etc.. A lot of these properties depend on environmental quality and, in particular, on soil quality. In fact soilrepresents the natural substrate for growth and productivity of most of the plants that live on the Hearth because theyget all the essential nutritional elements from it for their own development; consequently each nutritional element pre-sent into the soil as bioavailable form for the plants is potentially destined to entry in the animal (and human) foodchain. In the quality process of food productive process it will be important to assure the best soil quality as possible,without any unwanted element (which will not be discussed in this note) and with the right amount of fertility elementsin order to guarantee the best production. In this paper the relationships between soil quality, soil biodiversity and cropsustainability will be discussed. Finally the concept of soil “biota” as nodal point for the environment regulation andthe application of the indicators for soil quality will be discussed.

Key-words: indicators of soil quality, production sustainability, soil biota, soil quality, soil biodiversity.

* Autore corrispondente: tel.: +39 06 7008721; fax: +39 06 7005711. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:13-21

Premessa

Dall’inizio degli anni Ottanta si sta verificandonel mondo un decremento della capacità pro-duttiva del suolo in oltre il 10% delle terre col-tivate, come risultato dell’erosione, dell’inqui-namento dell’atmosfera, delle coltivazioni in-tensive, dell’eccesso di pascolamento, della sali-ficazione e soprattutto della perdita di sostanzaorganica e della biodiversità (Jones et al., 2004).Come per l’aria e per l’acqua anche per il suo-lo la sua qualità complessiva ha un impatto di-retto sulla produttività dei sistemi agricoli.

Molte le proposte da parte della comunitàscientifica per individuare un’insieme di indica-tori in grado di definire e stimare la qualità delsuolo a supporto dei decisori politici e dei pia-nificatori territoriali. Doran e Parkin (1994)hanno definito la qualità del suolo “la capacitàdel suolo di interagire con l’ecosistema per man-tenere la produttività biologica, la qualità am-bientale e promuovere la salute animale e ve-getale”. Il dibattito a livello scientifico non è an-cora concluso e in realtà molti studiosi attribui-scono ad essa un significato concettuale fonda-mentale nella programmazione territoriale enella gestione aziendale, altri invece sostengonoche in tale definizione non risieda alcun valoreaggiunto nella comprensione e descrizione del-le proprietà del suolo ma che il concetto di qua-lità viene a sovrapporsi con il concetto di “adat-to per” e quindi impone di definire in primoluogo la sua destinazione d’uso. In realtà appa-re evidente come non sia sufficiente un solo in-dicatore o anche un set di indicatori universaleper definire la qualità del suolo, ma di volta involta debbano essere individuati e tarati in fun-zione della diversa destinazione d’uso (Brookes,1995).

Per l’Italia e per l’area mediterranea in ge-nere le problematiche principali di perdita del-la fertilità riguardano il pericolo della desertifi-cazione dei suoli (Jones et al., 2004). In questocontesto gli indicatori legati alla sostanza orga-nica ed alla fertilità biologica dei suoli sembra-no essere i più rispondenti alla caratterizzazio-ne delle “funzioni del suolo”, così come defini-te dalla strategia tematica sulla conservazionedel suolo.

Nella presente relazione verrà brevementedescritto il “soil biota” quale moderatore del-l’intera vita sulla terra.

Il suolo come “biota”

“Soil biota” è un termine praticamente intradu-cibile che sta ad indicare l’intera comunità mi-crobica vivente nel suolo e che esprime le fun-zioni vitali del suolo quasi a rappresentarlo co-me un unico organismo vivente; esso è caratte-rizzato anche da una significativa diversità spa-ziale con macroscopiche differenze tra suolo ri-zosferico e non rizosferico, tra macropori e mi-cropori, tra diversi orizzonti lungo il profilo, ecc.Numerosi sono i fattori noti che possono inte-ragire con il biota come, ad esempio, condizio-ni di eterogeneità spaziale e temporale (tratte-nuta d’acqua, presenza di nutrienti, aggregazio-ne, composizione granulometrica, ecc.), nonchéfattori di stress negativi o positivi che vanno di-rettamente ad interagire con il potenziamentodella stabilità, resilienza e resistenza agli stressed in ultima analisi con la produttività delle spe-cie vegetali. È stato osservato che a volte le di-mensioni delle particelle di suolo hanno un im-patto sulla diversità e la struttura delle comu-nità microbiche più evidente di quanto non fac-ciano pH e sostanza organica (Sessitsch et al.,2001). Tuttavia è stato osservato che il parame-tro che influenza maggiormente i microrganismisono la qualità del suolo e soprattutto il suo pH(Girvan et al., 2003; Fierer e Jackson, 2006).

Nonostante i fattori ambientali e la tipologiadi suolo influenzino la diversità microbica delsuolo, spesso è la tipologia di pratica agricolautilizzata o il tipo di trattamento applicato chepossono determinare rilevanti alterazioni dellabiodiversità (Gomez et al., 2006) con conse-guenze che talvolta sono difficili – se non im-possibili – da recuperare (Mocali et al., 2008).

Il suolo naturale è infatti un sistema ecolo-gico aperto, che riceve e perde energia. Le mo-dificazioni energetiche a cui va incontro sonodeterminate dalla nutrizione e dalla respirazio-ne delle popolazioni microbiche, dal trasferi-mento e circolazione ciclica degli elementi, dal-la sintesi e degradazione della sostanza organi-ca. Si può affermare, quindi, che l'equilibrio delsuolo naturale, cioè non coltivato, sia governa-to essenzialmente da quattro parametri: bioe-nergetica, trasformazioni cicliche, umificazione epedogenesi, strettamente connessi l'uno con l'al-tro in modo da mantenere in equilibrio ecolo-gico il terreno con l'ambiente. Lo sfruttamentoagricolo modifica questi rapporti: le pratiche

Benedetti A., Mocali S.

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agronomiche ad esempio accelerano le trasfor-mazioni cicliche, pertanto questa maggiore di-namicità fa si che il terreno agrario abbia un mi-nor grado di stabilità rispetto al terreno natu-rale. Una delle funzioni più importanti dei mi-crorganismi dei suoli agrari è, appunto, quelladi presiedere alle trasformazioni a carico deglielementi nutritivi in modo da mantenere unequilibrio di scambio tra suolo e pianta, contri-buendo così allo stato di fertilità dei terreni.Pertanto la moderna agricoltura dovrebbe pre-figgersi lo scopo di raggiungere la massima pro-duttività consentita dalle condizioni edafiche,mantenendo elevato non solo il livello della fer-tilità chimica, ma anche quello della fertilità biologica.

La fertilità biologica di un suolo può esseredefinita come una espressione della vita micro-bica dei suoli e dipende soprattutto dalla so-stanza organica e dall'ambiente (Benedetti,1983). L'ambiente inteso come clima non solocondiziona lo sviluppo dei microrganismi maanche la loro attività e quindi l'evoluzione del-la sostanza organica, che è la fonte di energianecessaria per lo svolgimento della vita micro-bica. In particolare, per quanto riguarda la so-stanza organica, si deve sottolineare che i resi-dui vegetali sono costituiti da circa il 75% dicellulosa, il 15% di lignina, il 5% di proteine edil 5% di ceneri. La quantità dei residui vegeta-li che si accumula nel terreno varia moltissimo,specie in rapporto alle diverse condizioni am-bientali. Le proteine vengono trasformate inproteine microbiche, attraverso una serie di pas-saggi intermedi, la cellulosa viene ossidata ingran parte ad anidride carbonica dai microrga-nismi, quale fonte di energia, oppure utilizzataper la formazione di sostanza microbica. La li-gnina è molto più resistente alla degradazioneed è considerata il materiale principale da cuisi produce l’humus (Sequi, 2005).

La sostanza organica dunque è un parame-tro molto importante per la fertilità biologicaperché interviene non solo sulla formazione del-l'humus, ma anche sulla formazione di sostanzespecifiche microbiche e sul loro metabolismo. Imicrorganismi eterotrofi si servono infatti dimonosaccaridi e azoto per le loro sintesi cellu-lari ed è stato dimostrato che il tenore in car-bonio di un terreno influenza grandemente ilmetabolismo dell’azoto: un substrato con un ele-vato C/N favorisce l'immobilizzazione dell'azo-

to, mentre un C/N basso favorisce la mineraliz-zazione (Sequi, 1992).

La fertilità biologica unitamente alla fertilitàchimica ed a quella fisica costituisce la fertilitàagronomica o integrale dalla quale dipende laproduttività. La fertilità tuttavia non è sinonimodi produttività in quanto la prima dipende dalterreno mentre la seconda sia dal terreno chedalla pianta. Inoltre le basi biologiche della pro-duttività riferite ad un terreno naturale noncoincidono con quelle della produttività agro-nomica in quanto quest'ultima rappresenta unlivello produttivo superiore a quello naturale.

Sono state avanzate proposte sulle procedu-re da adottare a livello internazionale per la va-lutazione della qualità del suolo, e sono stati in-dicati dei parametri fisici, chimici e biologici co-me indicatori base per la qualità del suolo(Sparling et al., 2006). I microrganismi, ad esem-pio, vengono utilizzati come indicatori dellaqualità del suolo perché svolgono delle funzio-ni chiave nella degradazione e nel ricircolo del-la sostanza organica e dei nutrienti o rispondo-no prontamente ai cambiamenti dell’ambientesuolo. Inoltre l’attività microbica nel suolo ri-specchia la somma di tutti i fattori che regola-no la degradazione e la trasformazione dei nu-trienti (Bloem et al., 2006).

La biodiversità del suolo

In genere nello studio della diversità biologica(biodiversità) le teorie ecologiche sono semprestate sviluppate essenzialmente per gli ecosiste-mi presenti sulla superficie del suolo, per gli ani-mali e le piante superiori, trascurando per lun-go tempo tutte quelle forme di vita che sonopresenti all’interno di esso, in particolare i mi-crorganismi, che rappresentano una enormequantità di “vita invisibile” di fondamentale im-portanza per l’intera vita sulla terra (Wardle eGiller, 1996). Basti pensare che nel suolo è pos-sibile trovare dal 95 al 98% della biodiversitàdella Terra. Infatti la microflora rappresenta laparte più rilevante della biomassa del suolo, edè quella che maggiormente influisce sulle sueproprietà biologiche, regolando tutti i processibiochimici che ne determinano le proprietà nu-trizionali (Bloem et al., 2003).

Nonostante la biodiversità sia così impor-tante, al momento è ancora molto difficile riu-

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scire a “misurarla”. Questo non è dovuto solo amotivi tecnici ma anche concettuali: basti pen-sare alla definizione classica di diversità biolo-gica e la sua suddivisione in diversità “ecosiste-mica, di specie e genetica” attribuita ad anima-li e piante e alla difficoltà di definire il concet-to di diversità di “specie” microbica in quantonon applicabile ad organismi che si riproduco-no per via asessuata come batteri e virus. La di-versità microbica è quindi comunemente defi-nita in termini di richness, ovvero il numero de-gli individui appartenenti a diversi “gruppi” det-ti taxa, e di eveness cioè alla loro distribuzioneall’interno dei taxa stessi (Atlas e Bartha 1998).Inoltre lo studio dei microrganismi richiede ne-cessariamente strumenti e metodologie diffe-renti rispetto a quelli utilizzati per lo studio de-gli organismi superiori. Nonostante l’utilizzo disofisticate apparecchiature abbia consentito lastima di circa un miliardo di batteri per gram-mo di suolo, suddivisi in svariate migliaia di taxadifferenti, la maggior parte di questi microrga-nismi rimane ancora sconosciuto. Utilizzandotecniche di microscopia, infatti, è stato dimo-strato che solo l’1% del numero totale delle cel-lule batteriche presenti in campioni di suolo puòessere coltivato sui terreni di coltura di labora-torio e successivamente caratterizzato (Torsviket al., 1990), lasciando quindi ancora aperta lagrande sfida di mettere in relazione la funzionecon l’individuo (Nannipieri et al., 2003).

Come detto la composizione delle comunitàmicrobiche può variare nel tempo in conse-guenza dei cambiamenti che si verificano nelmicroambiente o per azione dei microrganismiche ne fanno parte (o di quelli che vi vengonoimmessi). Tuttavia molti microrganismi possonomantenere la medesima composizione all’inter-no di una comunità, ma modificare alcuni pro-cessi metabolici con conseguenze a livello fun-zionale ed ecologico. Ecco che si deve parlareanche di diversità funzionale dei microrganismidel suolo. Questa visione comporta anche unacorrelazione degli individui alla loro funzione,associando lo studio della singola cellula conquelli genomici e proteomici del suolo.

La biodiversità dei microrganismi del suolo,in virtù della varietà dei processi chimico-meta-bolici coinvolti, ha perciò un ruolo importantenel mantenere gli ecosistemi naturali in uno sta-to funzionalmente efficiente. L’equilibrio che siinstaura nell’ecosistema microbico del suolo, do-

vuto alla stabilizzazione delle interrelazioni fun-zionali tra i vari microrganismi, si riflette posi-tivamente sulle piante e, conseguentemente, sul-la comunità animale sovrastante. L’agricolturaintensiva ad esempio, basata sulle monocolturee l’utilizzo di pesticidi ed erbicidi, può influiresulla biodiversità del suolo ed in particolare sul-la biodiversità dell’ecosistema, alterando gliequilibri strutturali della comunità microbicapresenti e la composizione delle varie popola-zioni che compongono tale comunità (Bolton etal., 1985; Doran, 1980; Ramsay et al., 1986).

Come già accennato in precedenza, la com-posizione e la struttura delle comunità microbi-che del suolo dipendono, oltre che dalle intera-zioni tra le singole specie presenti, anche e so-prattutto dalla natura chimico-fisica del terreno(Garbeva et al., 2004). La composizione del suo-lo rappresenta quindi uno dei principali fattoriche influenzano significativamente la comunitàmicrobica a livello sia interspecifico sia intra-specifico (McCaig et al., 2001; Girvan et al.,2003), agendo sia sulla densità microbica chesulla struttura della comunità microbica rizo-sferica (Chiarini et al., 1998) ed è responsabiledella diversità fenotipica di popolazioni rizo-batteriche (Latour et al., 1996). I cambiamentinella composizione microbica del suolo sonoquindi il punto cruciale del mantenimento del-le funzioni vitali del suolo. Nannipieri e colla-boratori in una recente review hanno eviden-ziato le relazioni esistenti tra diversità microbi-ca e funzioni del suolo (Nannipieri et al., 2003).

Intorno agli anni Cinquanta si è sviluppatala teoria secondo la quale i concetti di diversitàbiologica e stabilità ecosistemica sono diretta-mente relazionate per cui la fluttuazione dellepopolazioni fornisce una misura della stabilitàecosistemica. MacArthur ha ipotizzato che lastabilità di una comunità microbica dipendasempre dalle reti trofiche del sistema piuttostoche da fenomeni di autoregolazione da parte dicerte specie. Secondo questa ipotesi in un eco-sistema dotato di numerose vie metaboliche edenergetiche l’alterazione di una specie determi-na un effetto minore sulle altre specie presentidi quanto potrebbe causare la medesima alte-razione a carico di una specie di un ecosistemadotato di una scarsa rete energetica. Sulla basedel modello proposto da MacArthur sono natenumerose teorie ecologiche per spiegare la re-lazione tra la biodiversità e la stabilità o la pro-

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duttività di un suolo (Lynch et al., 2004). Unadi queste è la “ipotesi dell’eterogeneità delle ri-sorse” (Resource heterogeneity hypothesis –RHH) proposta da Tilman (1982): essa parte dalpresupposto che un suolo uniformemente aridoavrà una bassa biodiversità. All’aumentare dellafertilità del suolo, aumenteranno anche la distri-buzione e la diversità delle risorse nutrizionali de-terminando, di conseguenza, un incremento dellabiodiversità e della produttività. Ad un certo pun-to però la tendenza si inverte e ad una elevatafertilità del suolo corrisponde un abbattimentodella eterogeneità delle risorse e quindi della bio-diversità. Questo fenomeno è dovuto al fatto che,all’aumentare della fertilità, il suolo si avvicinasempre di più ad un plateau di nutrienti che sa-ranno uniformemente distribuiti su tutto il suolo,selezionando così quei microrganismi che megliosi adattano a quelle condizioni.

Indicatori chimici e microbiologici

Verranno di seguito descritti alcuni indicatoriutili per la qualificazione del suolo da poter uti-lizzare come stima della fertilità integrale.

Indicatori chimici

Tra i numerosi indicatori chimici del suolo, lasostanza organica, caratterizzata sotto diversiaspetti, è stata scelta come indicatore di qualità.Il suo contenuto nel suolo, infatti, è un poten-ziale indicatore ambientale in quanto si correlacon numerosi aspetti della produttività e soste-nibilità degli agroecosistemi e della conserva-zione ambientale (Sequi, 1992; Smith et al.,2000). In generale, alla presenza di elevatequantità di sostanza organica nel suolo vengo-no attribuiti molteplici benefici: la sostanza or-ganica esplica infatti la propria azione sulle pro-prietà nutrizionali del terreno, sia perché costi-tuisce una riserva di elementi nutritivi ed ener-getici per i microrganismi del suolo e di ele-menti nutritivi per le piante, sia perché attra-verso i meccanismi di scambio, adsorbimento,complessazione e chelazione, modula la dispo-nibilità degli elementi medesimi.

La sostanza organica influenza non solo leproprietà chimiche e biologiche del suolo, maanche quelle fisiche. La sola proprietà fisica nonmodificabile è la tessitura, mentre la stabilità distruttura, la ritenzione idrica, il colore e la ca-

pacità termica sono in relazione con la quantitàe qualità della sostanza organica nel suolo. Pro-prio questa relazione tra stabilità di struttura esostanza organica sta alla base della scelta diquest’ultima, insieme ad altri parametri correla-ti, come indicatore di qualità del suolo. Inoltrealla sostanza organica vengono attribuite atti-vità fisiologiche da parte di alcune molecole or-ganiche, in particolare le sostanze umiche, chemodificano direttamente il metabolismo dei mi-crorganismi e delle piante.

Pertanto sono stati considerati i seguenti pa-rametri, il cui elenco non è da considerarsi esau-stivo:– C organico totale– C delle frazioni umica e fulvica– Parametri dell’umificazione (grado, tasso ed

indice di umificazione)– Azoto totale e rapporto C/N– Il comportamento alla focalizzazione isoe-

lettrica e la stabilità all’analisi termica.Le motivazioni della scelta della sostanza or-

ganica come indicatore chimico della qualità delsuolo sono molteplici; infatti tra i diversi costi-tuenti del suolo la sostanza organica è di granlunga la parte più reattiva dal punto di vista chi-mico. Essa, insieme ai minerali argillosi, contri-buisce in maniera sostanziale alla superficie spe-cifica totale. Infatti nel suolo la maggior partedelle reazioni chimiche avvengono all’interfac-cia tra la fase solida e la fase liquida, dove i nu-merosi gruppi funzionali reattivi delle molecoleumiche e degli altri costituenti della sostanza or-ganica interagiscono con i soluti presenti nellasoluzione del terreno.

La media nazionale del contenuto di sostan-za organica dei suoli agrari italiani si aggira in-torno al 1,5%; inoltre in ambiente mediterra-neo, senza le dovute reintegrazioni, si perde me-diamente ogni anno l’1,5% di humus. Un data-base pedologico sul contenuto di carbonio or-ganico negli orizzonti superficiali (0-30 cm) disuolo nell’Europa meridionale è stato elabora-to a cura dell’European Soil Bureau (Montana-rella e Jones, 1999). Stime preliminari sono sta-te effettuate assegnando le unità della mappadei suoli europei a due sole classi di contenutodi carbonio organico: valori ≤ 2% e valori > 2%.Secondo tali stime l’86,4% della superficie disuolo totale in Italia è caratterizzata da valoridi carbonio organico ≤ 2% mentre solo il 12,4%ne contiene più del 2% (Zdruli et al., 2004).

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Indicatori microbiologici

È estremamente difficile utilizzare parametrimicrobiologici, biochimici o molecolari del suo-lo per la definizione delle qualità di un suoloperché i microrganismi reagiscono molto rapi-damente anche a variazioni stagionali e si adat-tano alle diverse necessità ambientali (Benedet-ti et al., 2006). È problematico distinguere flut-tuazioni naturali da alterazioni causate da atti-vità antropiche, specialmente quando il dato vie-ne determinato tardi e sprovvisto di controllo.

Domsh (1980, 1983) ha stabilito che qualsia-si alterazione provocata sia da agenti naturaliche da inquinanti che ritorna a valori micro-biologici normali entro 30 giorni è da conside-rarsi come una fluttuazione normale. Diversa-mente, alterazioni che durano 60 giorni sono tol-lerabili, mentre quelle che persistono per più di90 giorni sono veri e propri agenti di stress.Brookes (1996) ha affermato che nessun para-metro possa essere utilizzato da solo, ma che sidovrebbero identificare altri parametri correlatida utilizzare insieme come “controllo interno”.

Bloem et al. (2006) hanno invece propostoun insieme di indicatori da utilizzare secondoun livello gerarchico prestabilito e funzionale al-la diversa problematica da affrontare. In termi-ni di qualità del suolo è fondamentale preser-vare sia la diversità genetica che quella funzio-nale del suolo, secondo il principio che per de-finire la fertilità biologica di un suolo occorreconoscere: il numero di individui presenti, la lo-ro attività, la loro diversità genetica e funzio-nale, le relazioni che possono instaurare con lecolture (tab. 1). In particolare disponiamo dimetodi in grado di definire:

– Biomassa e titolo microbico nel suolo. Que-sti includono tutti i metodi capaci di defini-re il peso ed il numero dei microrganismi delsuolo, sia come carica totale che come grup-pi fisiologici o nutrizionali, come ad esempiola conta su piastra, la microscopia colorime-trica, metodi biochimici in grado di fornireinformazioni sulle popolazioni attive.

– Attività microbica nel suolo. Questo gruppoabbraccia tutti i metodi biochimici dandoinformazioni sui processi metabolici della co-munità microbica, sia nella sua totalità chein gruppi funzionali.

– Diversità microbica del suolo e struttura del-la comunità. Questo gruppo include tra i piùaggiornati metodi di acquisizione di dati eco-logici e molecolari.

– Interazioni pianta-microrganismi. La rizosfe-ra viene riconosciuta come zona di influen-za di tutte le radici sui biota e sul suolo cir-costante. Molti degli studi danno una descri-zione ecofiosiologica della regione, con par-ticolare enfasi per quanto riguarda l’influen-za dei nutrienti sulle piante, comprendenteanche quella mediata da simbionti e da mi-crorganismi liberi, e per gli efflussi della fo-tosintesi come i prodotti della deposizione ri-zosferica per fornire i substrati per i biotaassociati. Questi studi qualitativi e quantita-tivi sono stati molto rivalutati allo scopo difare stime energetiche per le piante e di pro-duttività dei raccolti.Da quanto sino ad ora discusso appare evi-

dente che, sia pure con una certa difficoltà e conun certo margine di approssimazione, è possibi-le definire la diversità microbica di un suolo e

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Tabella 1. Gruppi di metodi selezionati come indicatori microbici per la qualità del suolo.

Table 1. Selected microbial methods as indicators assessing soil quality.

I II III IV

Biomassa e carica Attività microbica Diversità microbica nel Relazioni microbica del suolo del suolo suolo e struttura della pianta-microrganismi

comunità

– Tecniche di fumigazionecon cloroformio

– Respirazione indotta da substrato

– ATP

– Conte dirette

– Respirazione del suolo

– Mineralizzazione dell’azoto

– Nitrificazione

– Incorporazione di timidina e leucina

– Test ecotossicologici

– Metodi molecolari

– Profili di utilizzo disubstrati (CLPP)

– Phospholipid FattyAcids (PFLA)

– Profilo di attività enzimatica

– Micorrize

– Fissazione N2

– Capacità repressive

– Microrganismi associativi

di darne una caratterizzazione temporale in ter-mini di fluttuazioni naturali o patologiche.

La caratterizzazione della fertilità biologicae della diversità microbica di un suolo va co-struita per livelli di approssimazione:– Il primo livello di conoscenza dovrà basarsi

sulla caratterizzazione di base del suolo intermini fisici, chimici e biologici. In quest’ul-timo caso sarà molto utile definire in primoluogo la fertilità biologica del suolo come pa-rametro routinario, veloce e sintetico. Do-vranno essere determinati parametri quali latessitura, il pH, la capacità idrica di campo,il contenuto in N totale, C organico totale esostanza organica. Sarà, inoltre, indispensa-bile determinare la respirazione microbica eil suo contenuto in biomassa totale.

– Sarà poi indispensabile procedere, per il se-condo livello di approfondimento, alla carat-terizzazione della diversità genetica dei mi-crorganismi del suolo, ma anche in questocaso sarà fondamentale disporre di dati com-plessivi ottenuti secondo procedure standar-dizzate da correlare con le caratteristicheambientali, gestionali ed evolutive del sito inesame. Si procede con l’estrazione degli aci-di nucleici (DNA, RNA) dal suolo e si pro-cede con le opportune tecniche molecolaricome, ad esempio, la DGGE (DenaturingGradient Gel Electrophoresis).

– Il terzo livello è da effettuarsi su base com-parativa. È questa la fase più delicata e dimaggiore difficoltà interpretativa sarà defi-nire la diversità microbica specifica, checomporterà l’isolamento di singoli organismie l’attribuzione ad essi della corrispondentefunzione.

– Infine nel quarto livello di intervento si pas-serà dalla definizione di diversità attuale, checorrisponde all’osservazione analitica delmomento, alla definizione di diversità asso-luta, intendendo con questa, la dotazione intermini sia di ricchezza che di abbondanzadi specie con le relative funzioni di un de-terminato sito costante nel tempo. Sarà que-sta la biodiversità di quel suolo. A tale defi-nizione si giungerà solo nel tempo dopo unlungo periodo di monitoraggio spazio-tem-porale conseguito con l’applicazione delleprocedure sopraelencate.Le analisi di IV livello prevedono la possi-

bilità di intraprendere o meno un percorso di

monitoraggio spazio-temporale della biodiver-sità del suolo sulla base dell’analisi comparati-va dei risultati ottenuti nei livelli precedenti. Èbene specificare che questo livello di approfon-dimento può essere correlato indipendente-mente sia alle analisi di I, che di II che di IIIlivello, in funzione della fitness for use, ovveroil livello di approfondimento sulla conoscenzadella biodiversità del suolo: fertilità biologica eabbondanza del biota (I livello), richness eevenness (II livello), identificazione degli indi-vidui (III livello).

Appropriati metodi di studio biologici delsuolo combinati con proprietà fisico-chimichepotrebbero servire come indicatori dei cambia-menti della qualità del suolo e fornire delle pri-me indicazioni se vi sia stata una alterazione omodificazione del “soil biota”.

Conclusioni

La definizione di sostenibilità più conosciuta èquella della Commissione mondiale per l’am-biente e lo sviluppo (la cosiddetta CommissioneBrundtland) che consiste in “uno sviluppo chesoddisfa le esigenze del presente senza compro-mettere la possibilità per le generazioni future disoddisfare i propri bisogni” (WCED, 1987).

Nel 1992 l’OCSE stabilisce tre requisiti irri-nunciabili per il raggiungimento di uno svilup-po sostenibile:– sostenibilità delle risorse;– sostenibilità della salute umana;– sostenibilità delle risorse economiche.

Relativamente alla sostenibilità delle risorseè importante sottolineare che alcuni elementiche concorrono alla dotazione di capitale natu-rale non possono essere sostituiti (se non su ba-se limitata) da capitale costruito dall’uomo. Al-cune delle funzioni e dei servizi degli ecosiste-mi, sostengono Turner et al. (2003), sono essen-ziali per la sopravvivenza umana, in quanto ser-vizi di sostegno alla vita (ad esempio i cicli bio-geochimici) e non possono essere rimpiazzati daaltri. Altri beni ecologici sono altrettanto es-senziali per il benessere umano, quali il paesag-gio, lo spazio nonché una certa pace e tranquil-lità. Questi beni costituiscono un bene capitalecritico e non essendo facilmente sostituibili de-vono essere tutelati secondo la regola della sostenibilità forte.

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L’uso di indicatori di qualità del suolo puòcontribuire a focalizzare le problematiche rela-tive alla sostenibilità della risorsa suolo ed inmodo particolare l’uso combinato di indicatoridi tipo microbiologico, biochimico e molecola-re, associati all’uso di indicatori chimici caratte-rizzanti la sostanza organica può contribuire, so-prattutto nei paesi del bacino del Mediterraneo,a monitorare possibili fenomeni di innesco diprocessi degradativi (che preludono a fenome-ni di desertificazione) e rendendo possibile unaquantificazione relativa alle funzioni del suolo.

La nuova strategia tematica sulla conserva-zione del suolo focalizza l’attenzione sulle se-guenti minacce: erosione, inquinamento, perditadi sostanza organica e biodiversità. È impor-tante, dunque, che gli sforzi maggiori del mon-do della ricerca si concentrino sullo sviluppo distrumenti idonei all’implementazione della nor-mativa, al fine di mantenere e migliorare la ri-sorsa suolo al pari dell’aria e dell’acqua per lasostenibilità delle produzioni destinate all’ali-mentazione umana.

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Speciazione e biodisponibilità degli elementi nel suolo: effetto sulla qualità della produzione

agraria e sull’ambiente

Elisabetta Barberis*, Luisella Celi, Maria Martin

Dipartimento di Valorizzazione e Protezione delle Risorse Agro-Forestali, Università di TorinoVia Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO)

Società Italiana di Chimica Agraria

RiassuntoLa produzione agraria, da cui deriva la qualità degli alimenti, dipende dalle caratteristiche biologiche dei vegetalie dalle proprietà dell’ambiente, in cui gioca un ruolo di fondamentale importanza il comparto suolo. Dal suolo i ve-getali traggono acqua ed elementi nutritivi indispensabili al loro metabolismo, ma possono anche assorbire elementitossici. I potenziali benefici o rischi legati alla presenza di un elemento nel suolo sono fortemente dipendenti dal-la sua speciazione, cioè dalla sua distribuzione tra diverse forme o specie, che ne governa biodisponibilità, tossicità,mobilità nell’ambiente e comportamento biogeochimico. Un elemento infatti può essere presente nel suolo in di-versi stati di ossidazione ed in numerose forme organiche o inorganiche e può andare incontro a svariati processiche possono avvenire in soluzione, in fase solida o all’interfaccia solido-soluzione. La speciazione e la biodisponi-bilità degli elementi sono fortemente influenzate non solo dalle proprietà del suolo e dell’ambiente ma anche damodificazioni ambientali naturali o indotte dall’attività antropica. A titolo di esempio vengono riportati gli aspettilegati alla speciazione, biodisponibilità e destino ambientale di due elementi che, pur essendo molto simili dal pun-to di vista chimico, sono rispettivamente un macronutritivo essenziale per la crescita delle piante, il fosforo, ed unelemento fortemente tossico, l’arsenico.

Parole chiave: speciazione, biodisponibilità, reattività, produttività, qualità degli alimenti, fosforo, arsenico.

Summary

SPECIATION AND BIOAVAILABILITY OF SOIL NUTRIENTS: EFFECT ON CROP PRODUCTION ANDENVIRONMENT

The agricultural production, determining the quality of the foodstuffs, depends on the biological characteristics ofthe crops and on the environmental properties, where soil environment plays a central role. Crops absorb waterand nutritive elements from soil, but they can intake toxic elements as well. The potential benefits, or dangers, dueto the presence of a certain element in soil, depend on its chemical speciation regulating its bioavailability, toxici-ty, environmental mobility, and biogeochemistry. Elements may exist in soil in different redox species and organicor inorganic forms. They may thus undergo different chemical processes occurring in solution, in the solid phase, orat the solid-water interface. The chemical speciation and bioavailability of the elements are affected by soil and en-vironmental properties, which may undergo natural or anthropogenic modifications. As an example, we reportedhere some aspects linked to the chemical speciation, bioavailability and environmental fate of two chemically sim-ilar elements. The former, phosphorus, is a macronutrient element, essential for plant growth, while the latter, ar-senic, is strongly toxic for most living organisms.

Key-words: speciation, bioavailability, reactivity, productivity, food quality, phosphorus, arsenic.

* Autore corrispondente: tel.: +39 011 6708520; fax: +39 011 6708692. Indirizzo e-mail: [email protected]

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1. Introduzione

La salute e il benessere dell’uomo dipendono ingran parte dalla disponibilità di alimenti inquantità sufficiente e di buona qualità, nonchédalla possibilità di vivere in un ambiente salu-bre; a tutt’oggi infatti le malattie legate al tipodi alimentazione, compresa la denutrizione, so-no la più importante causa di morte.

La qualità degli alimenti è un concetto mol-to complesso alla cui definizione concorrononumerosi fattori: l’aspetto nutrizionale, cioè laconcentrazione delle sostanze nutrizionali o sa-lutistiche, e l’aspetto igienico-sanitario, in parti-colare l’assenza di sostanze tossiche, sono ac-compagnati da aspetti organolettici ed estetici.

La produzione agraria, primo anello della fi-liera alimentare, dipende dalle caratteristichebiologiche dei vegetali e dalle proprietà am-bientali, tra le quali le caratteristiche del suoloed il clima svolgono un ruolo centrale. Dal suo-lo i vegetali traggono l’acqua e tutti gli elementiindispensabili al loro metabolismo ad eccezionedel carbonio, ma solo determinate forme chimi-che di ciascun elemento possono essere assor-bite ed utilizzate.

Il suolo è un sistema eterogeneo, compostoda fasi solide e fluide, con una piccola ma es-senziale proporzione dello spazio disponibileoccupato da microrganismi, i quali sono coin-volti in gran parte delle reazioni che avvengo-no nel suolo. La superficie delle fasi solide col-loidali è in continua interazione con la soluzio-ne del suolo: può subire processi di solubilizza-zione e di neoformazione e può adsorbire, a se-conda della carica negativa o positiva, cationi,anioni e biomolecole, influenzando la specia-zione degli elementi presenti.

La speciazione degli elementi nel suolo è te-ma di grande interesse ed attualità poiché bio-disponibilità, tossicità, mobilità nell’ambiente,comportamento biogeochimico ed, in generale,i potenziali benefici o rischi legati alla presen-za di un elemento nel suolo sono fortemente di-pendenti da essa. La speciazione è la distribu-zione di un elemento tra diverse forme o spe-cie. Con “speciazione fisica” si intende la distri-buzione dell’elemento tra forme solubili, colloi-dali o particolate, mentre la “speciazione chimi-ca” indica la ripartizione tra le varie specie chi-miche, in soluzione o in fase solida, presenti nelsuolo. Un elemento infatti può essere presente

nel suolo in diversi stati di ossidazione ed in nu-merose forme organiche o inorganiche la cuibiodisponibilità e tossicità è spesso molto diffe-rente. Il fatto, ad esempio, che l’alluminio, cheè per abbondanza il terzo elemento del suolo,sia fitotossico solo quando il pH è acido, atte-sta l’importanza della specie chimica nel rego-lare la solubilità e quindi la biodisponibilità de-gli elementi nel suolo.

La speciazione degli elementi nutritivi o in-quinanti è regolata da numerosi processi checoinvolgono le fasi del suolo, il biota in esso pre-sente e gli input/output dal sistema suolo. Taliprocessi prevedono reazioni di idrolisi, com-plessazione ed ossidoriduzione, che possono av-venire in soluzione, reazioni di adsorbimento escambio, che avvengono all’interfaccia solido-soluzione, reazioni di solubilizzazione o ripreci-pitazione che coinvolgono la trasformazionedelle fasi solide e reazioni di mineralizzazio-ne/organicazione della sostanza organica delsuolo. Modificazioni ambientali naturali o in-dotte dall’attività antropica possono fortementemodificare queste reazioni e quindi la specia-zione e biodisponibilità degli elementi nel suo-lo. I principali fattori ambientali che regolano laspeciazione sono infatti il pH, il potenziale re-dox (Eh), la disponibilità di specie reattive insoluzione, quali, ad esempio, i ligandi organici ola quantità e le caratteristiche delle superfici ad-sorbenti (fig. 1). Numerose pratiche agronomi-che volte ad influenzare questi fattori, come la-vorazioni, sistemazioni idrauliche, calcitazioni,gessature e fertilizzazioni minerali ed organiche,possono avere effetti diretti o indiretti sulla spe-ciazione degli elementi. In figura 2 sono ripor-tate le principali proprietà fisiche, mineralogi-che e chimiche del suolo che influenzano la spe-ciazione di nutritivi e contaminanti nel suolo,evidenziando i possibili effetti della gestioneagronomica, la scala temporale nella quale av-vengono le modificazioni ed i processi chimico-fisici coinvolti.

I processi che controllano la speciazione chi-mica e fisica degli elementi, nonché i fattori am-bientali che li regolano, sono sostanzialmenteanaloghi per tutti gli elementi presenti nel suo-lo, ma la loro relativa importanza nonché l’ef-fetto sulla produzione primaria, sulla qualità de-gli alimenti e dell’ambiente sono specifici perciascun elemento. A titolo di esempio sono quidiscussi gli aspetti legati a speciazione, biodi-

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sponibilità e destino ambientale di due elemen-ti che, pur essendo molto simili dal punto di vi-sta chimico, sono rispettivamente un macronu-tritivo essenziale per la crescita delle piante, ilfosforo, ed un elemento fortemente tossico, l’ar-senico.

2. Speciazione, biodisponibilità e destino am-bientale del fosforo

Il contenuto totale di fosforo nel suolo è relati-vamente basso, normalmente compreso tra 0,2e 3 g kg-1. È presente quasi esclusivamente allostato di ossidazione +5 in forma inorganica od

organica (tab. 1). Nelle forme inorganiche si tro-va come acido ortofosforico, fosfati, o polifo-sfati. In tali forme può essere presente nella so-luzione del suolo, nei minerali primari e secon-dari o adsorbito sulle superfici degli ossidi diferro e alluminio nonché dei minerali argillosi.In forma organica si trova in quantità variabilidal 2 all’80% del totale e deriva da residui ve-getali o animali. Fino al 90% del fosforo orga-nico è in forma di monoesteri, in prevalenza ino-sitol-fosfati, tra cui predominano il mio-inosito-lesafosfato (IHP), comunemente noti come fiti-ne. Diesteri del P sono presenti nel suolo inquantità esigue, a differenza di quanto si ri-

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Figura 1. Processi che re-golano la composizionedella soluzione del suolo.

Figure 1. Processes regu-lating the composition ofsoil solution.

Figura 2. Proprietà delsuolo che influenzano laspeciazione degli elemen-ti: effetti della gestioneagronomica.

Figure 2. Soil propertiesaffecting element specia-tion: effects of the agro-nomic management.

scontra nei vegetali e nei microrganismi, con so-lo il 2% di P da acidi nucleici e il 5% da fo-sfolipidi. Gli inositol-fosfati formano complessistabili con numerosi cationi e sono fortementeadsorbiti dagli ossidi di ferro e di alluminio edai fillosilicati (Celi e Barberis, 2005; 2007): aquesto è probabilmente dovuta la loro elevatastabilità nei suoli.

Le trasformazioni fra le diverse specie con-tenenti P sono regolate da fattori abiotici e daprocessi biologici (fig. 3). I fattori abiotici sono

rappresentati da reazioni di precipitazione-dis-soluzione e di adsorbimento-desorbimento. L’ad-sorbimento prevale a basse concentrazioni del-la soluzione del suolo, < 10 mg P L-1, mentre laprecipitazione diventa importante a concentra-zioni > 20 mg P L-1 (Matar et al., 1992). La pre-cipitazione provoca la formazione di compostiCa-P, Al-P o Fe-P a seconda della composizio-ne della soluzione del suolo e del pH. La dis-soluzione dei fosfati precipitati o dei mineraliprimari è fortemente pH-dipendente: la solubi-

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Tabella 1. Principali forme di fosforo e di arsenico presenti nel suolo e nelle acque

Table 1. Main forms of phosphorus and arsenic in soil and water environments

Fosforo Arsenico

Ioni inorganici H2PO4-, HPO4

2-, PO43-, H2PO4

2-, P2O74-, H3AsO4

0, H2AsO4-, HAsO4

2-, AsO43-, AsO2

-,in soluzione1, 2 H3P2O7

-, H2P2O72-, HP2O7

3-, HAsO20, AsO3

3-, HAsO32-, H2AsO3

-, H3AsO30

Complessi CaP2O72-, CaHP2O7

-, CaOHP2O73-, H2As3S6

-, H2AsS2-, HAsS2

2-, As(CO3)2-,

inorganici solubili1, 3 FeH2PO4+, FeH2PO4

2+, FeHPO40, FeHPO4

+, As(CO3)(OH)2-, AsCO3

+

CaH2PO4+, CaHPO4

0, CaPO4-, MgHPO4

0,

Composti inorganici2, 4 3Ca3(PO4)2·CaF2, 3Ca3(PO4)2·Ca(OH)2, As2S3, As2S2, AsS, FeAsS, As2O3, As2O5,3Ca3(PO4)2·CaCO3, 3Ca3(PO4)2·CaO, AlPO4· Ba3(AsO4)2, BaHAsO4, Ca3(AsO4)2, FeAsO4,H2O, Al3(OH)3(PO4)2·5H2O, FePO4·2H2O, Fe3(AsO4)2, AlAsO4, Mn3(AsO4)2,Fe3(PO4)2·8H2O, Ca(H2PO4)2, CaHPO4, Cd3(AsO4)2, Ni3(AsO4)2, Pb3(AsO4)2,Ca3(PO4)2 Zn3(AsO4)2

Composti organici3, 5 Inositolfosfati, acidi nucleici, fosfolipidi, (CH3)AsO(OH)2, (CH3)2AsO(OH),acidi teicoici (CH3)3AsO, (CH3)As(OH)2, (CH3)2As(OH)

1 Lindsay, 1979. 2 Sadiq, 1997. 3 Frankenberger, 2002. 4 Barberis e Fusi, 2003. 5 Magid et al., 1996.

Figura 3. Ciclo biogeochi-mico del fosforo.

Figure 3. Biogeochemicalphosphorus cycling.

lità è in genere massima in condizioni debol-mente acide, pH 6,0-6,5.

Le piante assorbono il P presente nella so-luzione del suolo sotto forma di anione mono-valente, H2PO4

-, o bivalente, HPO42-, e lo utiliz-

zano per la sintesi di trasportatori di energia edi altri importanti composti biochimici. La so-luzione del suolo ha una concentrazione com-presa tra 0,01 mg L-1, in suoli poco fertili, e 1mg L-1 in suoli ben fertilizzati: ciò significa cheè presente in soluzione una quantità di P infe-riore ad 1 kg ha-1 e di conseguenza, durante lastagione vegetativa, la soluzione deve essererifornita dalla fase solida. A queste concentra-zioni è l’adsorbimento che regola la disponibi-lità del P per i vegetali. Tale processo avvienetramite un meccanismo di scambio anionico sul-le superfici ossidrilate. I principali siti di adsor-bimento, sia per il fosfato inorganico sia perl’IHP, sono gli ossidi di ferro e di alluminio, iminerali argillosi nonché la sostanza organica eciascuna fase solida mostra diversa capacità ad-sorbente nonché diversa affinità di legame (tab.2). Inoltre, nel suolo, le fasi solide sono rara-mente presenti come particelle discrete ma so-no associate a formare aggregati di diverse di-mensioni e stabilità: la formazione di tali ag-gregati influenza anche fortemente la capacitàadsorbente delle singole fasi nei confronti dellemolecole contenenti P. Ad esempio, è sufficien-te la presenza di 1% di ferridrite per aumenta-re da 4 a 10 µmol g-1 la capacità adsorbente del-la caolinite (Celi et al., 1999, 2003). Il P adsor-bito è solo parzialmente e lentamente biodi-

sponibile ed in grado di riequilibrare la con-centrazione della soluzione in risposta agliasporti dei vegetali. Tuttavia nella rizosfera lecontinue asportazioni del vegetale abbassanocontinuamente la concentrazione della soluzio-ne del suolo, per cui non si raggiunge mai unasituazione di equilibrio e la reazione è spostataverso il desorbimento. Valori elevati di pH, altasaturazione fosfatica e presenza di ligandi chepossono competere per gli stessi siti di adsorbi-mento (ad es. citrato, ossalato o carbonato, chesono anioni tipici della rizosfera) aumentano ladesorbibilità e dunque la biodisponibilità del fo-sfato (He et al., 1991; 1994; Cabrera et al., 1991;Martin et al., 2002). Quando è l’IHP ad essereadsorbito sui minerali, la reversibilità della rea-zione è molto inferiore, specialmente a pH aci-di. Nel caso dell’adsorbimento sulla goethite lareversibilità della reazione risulta molto bassaanche in presenza di citrato o di bicarbonato,probabilmente a causa della loro limitata capa-cità a distaccare i quattro gruppi fosfato coin-volti nella reazione di adsorbimento e a causadell’elevata carica superficiale negativa del com-plesso goethite-IHP che impedisce l’avvicina-mento dello ione competitore alla superficie(Martin et al., 2004). Le piante, come i microrga-nismi, non possono utilizzare il P contenuto nel-l’IHP a meno che la molecola non sia prima mi-neralizzata ed i legami estere (C-O-P) subiscanouna reazione di idrolisi, generalmente mediata dafitasi che possono essere prodotte da alcuni mi-crorganismi presenti nel suolo e, in modo menoefficiente, dalle piante (Richardson et al., 2005).

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Tabella 2. Isoterme di adsorbimento ottenute a pH 4,5 e KCl 0,01 M. xmax = massimo di adsorbimento, K = costante di le-game, calcolate utilizzando l’equazione di Langmuir. Per tutte le isoterme n ≥ 8 e R2 ≥ 0,978.

Table 2. Adsorption isotherms at pH 4.5 in KCl 0.01M. xmax = adsorption maximum, K = binding constant, calculated ac-cording Langmuir equation. For all isotherms n ≥ 8 and R2 ≥ 0.978.

SSA Fosfato IHP(m2/g) xmax K xmax K

(mg P/gsuolo) (l/g P) (mgP/gsuolo) (l/g P)

Goethite1 42 3,1 181 4,9 258Ematite3 38 0,9 6774 2,5 9097Ferridrite2 274 38,8 10323 107,9 7742Gibbsite3 48 2,1 3710 4,8 11968Illite1 78 2,4 242 5,6 3226Kaolinite1 18 0,2 2516 0,9 20000Fh-KGa22 52 4,8 2935 21,6 7097Argilla A3 66 2,9 1139 8,4 4710Argilla B3 68 2,7 2487 5,7 17645

1 Celi et al., 1999. 2 Celi et al., 2003. 3 Giaveno et al., in press.

Elevate concentrazioni di P nei suoli noncreano, generalmente, alcun problema di tossi-cità per i vegetali ma possono contribuire al de-terioramento della qualità delle acque di super-ficie e di profondità. Il P è il principale respon-sabile dei fenomeni di eutrofizzazione dei cor-pi d’acqua con forte impatto negativo a causadella crescita abnorme di alghe e della diminu-zione dell’ossigeno disciolto (Foy, 2005).

L’agricoltura è in parte responsabile dell’ar-ricchimento di P nelle acque: l’uso di fertiliz-zanti fosfatici, che ha notevolmente incremen-tato le rese agricole, ha provocato un aumentonella dotazione fosfatica di molti suoli, in parti-colare in vaste aree europee e degli USA. InItalia, nel periodo 1961-2002, sono stati utilizza-ti 562 Gg P2O5 anno-1 di fertilizzanti mineraliche corrispondono ad una addizione al suolo di14,6 kg P ha-1 anno-1. Tale dose è di poco supe-riore alla quantità mediamente asportata dallecolture, 12,1 kg P ha-1 anno-1 (FAO, 2005), maad essa è necessario addizionare la quantità diP trasferita al suolo tramite l’uso dei reflui zoo-tecnici che, in Italia, è stata stimata pari a 13 kgP ha-1 anno-1 (Torrent et al., 2007). Tale surplusè ovviamente non uniformemente distribuito sulterritorio nazionale: Breeuwsma e Silva (1992)hanno evidenziato che il surplus annuale di P èpari a 10-60 kg P2O5 ha-1 nella Pianura Padana,mentre Sacco et al. (2003) riportano valori finoa 112 kg P ha-1; valori molto inferiori sono in-vece riportati per la Toscana e la Sardegna (Tor-rent et al., 2007). I suoli agricoli hanno così rag-giunto una elevata dotazione in P: ad esempioil 48% dei suoli piemontesi, il 58% di quellilombardi e il 32% degli emiliani hanno con-centrazioni di P Olsen maggiori di 20 mg kg-1

(Torrent et al., 2007), valore considerato otti-male per i fabbisogni delle colture.

Mentre la speciazione chimica gioca un ruo-lo dominante nel determinare la disponibilitàdel fosforo per le piante, è principalmente laspeciazione fisica che ne determina il destinoambientale. Il fosforo infatti può essere trasfe-rito dal suolo alle acque in forma particolata,colloidale o disciolta e, a causa dell’elevata af-finità del P per la fase solida, è la prima che do-mina (Sharpley e Rekolainen, 1997). Le mag-giori perdite avvengono tramite erosione o ru-scellamento superficiale mentre sono general-mente limitate, almeno in Italia, le perdite perlisciviazione. Le situazioni più a rischio sono

quelle nelle quali sono erose particelle di argil-la ricche in sostanza organica: è infatti su di es-se che si verifica il maggior accumulo di P, siain forma organica sia inorganica (Gburek et al.,2005). In questi casi il fenomeno erosivo può ar-rivare ad essere anche 100 volte più importan-te della lisciviazione nell’immettere P nell’am-biente. Dunque le strategie agronomiche ed am-bientali che possono essere utilizzate per limi-tare il trasferimento di P dai suoli coltivati alleacque di superficie devono essere mirate nonsolo a limitare l’accumulo di P nell’orizzonte su-perficiale ma anche a prevenire il trasporto oriz-zontale di particolato solido o la possibilità perle particelle arricchite in P di raggiungere i cor-si d’acqua.

3. Speciazione, biodisponibilità e destino am-bientale dell’arsenico

L’arsenico è tossico per tutti gli organismi, an-che se la sensibilità relativa alla quantità e allespecie di As è largamente variabile. La formapiù tossica per l’uomo è l’arsina (AsH3); l’arse-nito [As(III)] è più tossico dell’arseniato[As(V)], mentre i composti organici quali acidomono- e dimetil arsenico (tab. 1) sono moltomeno tossici (Bissen e Frimmel, 2003).

Circa il 99% dell’As presente nel pianeta èimmagazzinato nella litosfera, da cui può rag-giungere altri comparti ambientali, in particola-re suoli ed acque (fig. 4), sia per cause natura-li, quali l’attività vulcanica e l’alterazione deiminerali, sia in seguito alle attività antropiche,come quelle legate all’estrazione mineraria, al-la lavorazione dei metalli, alla combustione dicarbone o allo stoccaggio e trattamento dei ri-fiuti. L’uso di fitofarmaci contenenti As in agri-coltura ha avuto in passato una certa incidenzamentre attualmente l’utilizzo dell’arsenico è perlo più limitato al trattamento del legname(Frankenberger, 2002).

Qualunque sia la sua provenienza, nel siste-ma suolo-pianta-acqua l’As subisce numerosereazioni chimiche e biologiche, regolate dallecondizioni ambientali, che contribuiscono a de-terminarne le specie predominanti, la sua reat-tività e la sua biodisponibilità (fig. 4). Le speciedi As più diffuse nei suoli e nelle acque conta-minate (tab. 1) sono le specie inorganiche arse-niato e arsenito, mentre le forme organiche so-

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no presenti di solito in piccole quantità. La for-ma pentavalente è quella dominante nei suoli enelle acque ricche di ossigeno, mentre quella tri-valente tende a prevalere in condizioni di anae-robiosi (Sadiq, 1997). Tuttavia, la trasformazio-ne per ossidoriduzione delle due forme è, negliambienti naturali, un processo cineticamentelento: è quindi possibile trovare entrambe le for-me anche in condizioni di pH ed Eh favorevo-li ad una sola di esse (Masscheleyn et al., 1991).

Le principali reazioni che regolano la con-centrazione di As in soluzione sono quelle diprecipitazione/dissoluzione e di adsorbimen-to/desorbimento sulla fase solida. Solitamentequeste ultime predominano negli ambienti na-turali. L’arseniato, come il fosfato, è fortementeadsorbito dai colloidi del suolo, in particolaredagli ossidi di Fe e Al, come complesso inner-sphere, per lo più bidentato e binucleare. L’ar-senito si adsorbe invece in modo rilevante qua-si esclusivamente sugli ossidi di Fe, con una pre-valenza di legami inner-sphere (Frankenberger,2002). In ambienti molto riducenti e in suoli aci-di l’As(III) può precipitare sotto forma di sol-furi, mentre gli arseniati che si possono forma-re in ambienti ossidanti sembrano meno impor-tanti nel regolare la solubilità dell’As (Sadiq,1997).

I microrganismi sono mediatori di numero-se reazioni dell’As, incluse riduzione, ossidazio-ne, metilazione, sia per la sua detossificazione,sia per l’utilizzo metabolico dell’As come ac-

cettore o donatore di elettroni (Oremland eStolz, 2003). Le piante superiori, incluse quelledi interesse agricolo, possono assorbire As e uti-lizzare meccanismi di difesa, diversi a secondadella specie in questione, per limitarne gli effettifitotossici. Mentre alcune specie tendono ad evi-tarne l’assorbimento, altre ne limitano la traslo-cazione e compartimentano l’elemento, adesempio nei vacuoli della radice. La trasloca-zione verso la parte epigea può fornire delleprospettive per la “phytoremediation” dei suolicontaminati da parte di bio-accumulatori (es. lafelce Pteris vittata); quando invece la trasloca-zione coinvolge parti edibili di piante di inte-resse agrario (tabb. 3 e 4), il pericolo dell’in-gresso nella catena alimentare diventa reale(Meharg e Rhaman, 2003).

Una delle più importanti vie di ingestionedell’arsenico, con conseguenti casi di intossica-zioni croniche, è la presenza di questo contami-nante nelle acque, in particolare nelle falde. IlWHO raccomanda concentrazioni di As nelleacque potabili < 10 µg l-1, limite superato in va-ste zone del mondo. Tra queste ricordiamo va-stissime aree della Pampa argentina e del Cile,alcune zone degli Stati Uniti e del Canada, edell’Australia. In Europa si hanno casi di con-taminazione che riguardano aree relativamentecontenute. Una delle zone più vaste interessaparte del bacino del Danubio (Ungheria e Ro-mania), dove si è avuto il rilascio di As negli ac-quiferi in seguito all’istaurarsi di condizioni ri-

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Figura 4. Ciclo biogeochimicodell’arsenico.

Figure 4. Biogeochemical arseniccycling.

ducenti, mentre altre zone contaminate, in Fran-cia, Germania, Italia e altri Paesi, sono spessoconnesse ad attività minerarie o industriali. InAsia si hanno i casi più gravi per quanto ri-

guarda il numero delle persone coinvolte e quel-lo più noto e più allarmante interessa il deltadel sistema fluviale Gange-Brahmaputra-Megh-na, dove il Paese più colpito è il Bangladesh(Smedley e Kinniburgh, 2002). L’As si è proba-bilmente liberato nelle acque di falda in questezone in seguito alla dissoluzione riduttiva degliossidi di Fe e Mn su cui è adsorbito ed alla tra-sformazione dell’As(V) in As(III) dovute al-l’ambiente fortemente riducente che si è in-staurato in seguito all’azione di microrganismianaerobi (Nickson et al., 2000). Si ritiene che inBangladesh oltre 30 milioni di persone stianocorrendo gravi rischi per la salute in seguito al-l’ingestione diretta di acqua contaminata; inol-tre non è ancora del tutto chiarito il destino am-bientale dell’As che raggiunge i suoli in segui-to all’irrigazione [1360 tonnellate/anno nel soloBangladesh (Ali et al., 2003a)]. Esso potrebbeessere adsorbito sulla fase solida del suolo e im-mobilizzato, coprecipitare con altri composti insoluzione, permanere in soluzione per tempi re-lativamente lunghi ed essere direttamente di-sponibile per le colture, o legarsi alla fase soli-da in modo facilmente reversibile (Martin et al.,2007).

A seconda del clima, delle caratteristichechimiche, fisiche, mineralogiche del suolo, dellacomposizione chimica dell’acqua di falda e del-la soluzione del suolo, delle condizioni di pH edEh, della flora microbica presente, delle prati-che agronomiche e della coltura in campo, gliscenari possono essere molto diversi. In suoliben aerati, coltivati in condizioni non sommer-se, specialmente se ricchi di minerali a carica va-riabile, l’arsenico, che si trova nella falda so-prattutto come As(III) (BGS-DPHE, 2001),verrà ossidato ad arseniato e adsorbito sulla fa-se solida con un legame difficilmente reversibi-le, come accade per il fosfato. Le condizioni disommersione tendono a favorire la persistenzadell’As(III) per tempi più lunghi, con la conse-guenza di un adsorbimento più labile da partedei colloidi del suolo (Martin et al., 2007). Inol-tre la dissoluzione riduttiva degli ossidi di Fe, acominciare dalle forme a scarso ordine cristalli-no, causa una diminuzione delle superfici in gra-do di trattenere l’As(III). In suoli a pH acido esub-acido è favorito l’adsorbimento dell’As(V),mentre nel caso dell’As(III), l’adsorbimento èmassimo a pH neutro o sub-alcalino, ed è di-

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Tabella 3. Concentrazioni di arsenico nel suolo e nella gra-nella di riso provenienti da risaie irrigate con acqua conta-minata da arsenico.

Table 3. Arsenic concentration in soil and rice grain fromrice fields irrigated with arsenic polluted water.

As nel As nei tessuti Riferimentosuolo (µg/g sostanza (mg/kg) secca)

3.2-19 < 0.05-1.23 Ali et al. (2003b)7-27 < 0.05-1.52 Ali et al. (2003b)4.9-15.5 0.058-0.104 Meharg e Rahman (2003)10.9-14.6 0.043-0.206 Meharg e Rahman (2003)11.7 0.203 Meharg e Rahman (2003)15.7-20.9 1.747-1.775 Meharg e Rahman (2003)24.3-26.7 1.835 Meharg e Rahman (2003)

Tabella 4. Correlazione tra il contenuto di arsenico nelleparti edibili di alcune colture e la concentrazione di arseni-co totale o disponibile in suoli contaminati della Cina.Adattato da Huang et al. (2006).

Table 4. Correlation between arsenic content in the edileparts of some crops and the total or available arsenic con-centration in contaminated soils of China. Adapted fromHuang et al. (2006).

Coltura As nei tessuti edibili vs. As nel suolo

(r2)

As totale As disponibile (mg/kg) (mg/kg) §

Cavolo cinese 0.29* 0.58**(B. campestris L. ssp.Pekinensis (Lour.) Olsson)Lattuga .ns 0.51*(Lactuca sativa L.)Sedano 0.79** 0.68**(Apium graveolens L.)Cavolfiore 0.72** 0.82**(B. oleracea L. var.botrytis L.)Melanzana .ns 0.52*(Solanum melongena L.)Cipolla 0.61** 0.90**(Allium schoenoprasum L.)Aglio 0.77** .ns(Allium sativum L.)Taro 0.72** 0.88**(Colocasia esculenta(L.) Schott)

§ Estratto in 0.5 M NaH2PO4; * significatività 5%; ** significa-tività 1%.

minuito in condizioni di acidità (Frankenberger,2002). Questo dipende dalle diverse costanti didissociazione di acido arsenico (pKa1 = 2.3; pKa2= 6.8; pKa3 = 11.6) e acido arsenioso (pKa1 = 9.2;pKa2 = 12.7). Altro importante parametro è lapresenza nel suolo di anioni, quali lo ione fosfa-to, che possono competere per gli stessi siti reat-tivi, limitando l’adsorbimento di As e favoren-done il desorbimento (Violante e Pigna, 2002).

A parità di concentrazione e forme di Aspresenti nel sistema suolo-soluzione, l’assorbi-mento da parte delle colture varia fortemente aseconda della specie vegetale (tab. 4). Partico-lare attenzione va prestata alle colture con mag-giore capacità di assorbimento e traslocazioneverso i tessuti edibili. Il riso, invece (tab. 3), ten-de a confinare l’As assorbito nella radice, tra-slocandolo al fusto e alle foglie, ma molto me-no alla granella (Abedin et al., 2002). Tuttavia,quando le concentrazioni di As biodisponibilesono molto elevate, la traslocazione alla granel-la può diventare consistente anche per il risoche può arrivare a contenere concentrazioni diAs allarmanti per il consumo umano, soprattut-to in Paesi dove esso costituisce la base dell’a-limentazione (Meharg e Rahman, 2003). Adesempio, è stato rilevato che il riso coltivato inalcuni Distretti bengalesi può apportare quoti-dianamente alla dieta una quantità di As supe-riore alla dose giornaliera totale raccomandata(Williams et al., 2006).

Conclusioni

Da questi esempi emerge come elementi chimi-camente simili diano origine nel suolo e negliorganismi viventi a specie molto diverse. Ne de-riva che, benché i processi abiotici a cui questielementi partecipano siano sostanzialmente si-mili, quelli biologici siano totalmente diversi: ilfosforo, a causa dell’elevata energia di legameP-O-P, è la base degli scambi energetici negli or-ganismi viventi mentre l’arseniato impedisce laformazione di ATP ed è dunque fortemente tos-sico. Diverso è anche il comportamento dellespecie organiche che mostrano stabilità e dun-que biodisponibilità fortemente differenziate.

La produzione in quantità sufficienti di der-rate alimentari di buona qualità richiede dun-que una approfondita conoscenza non solo dei

sistemi di produzione agricola ma anche del-l’intero ecosistema agrario a scala sia macrosco-pica sia molecolare. Solo la conoscenza dei mec-canismi che regolano ogni aspetto della filiera ali-mentare ne permetterà il miglioramento qualita-tivo e quantitativo garantendone la redditività esalvaguardando le risorse ambientali.

Ringraziamenti

Si ringrazia il MIUR (PRIN 2002, 2004 e 2006) per icontributi alle presenti ricerche.

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Barberis E., Celi L., Martin M.

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Valutazione dell’impatto economico dei cambiamenti climatici sui sistemi agro-forestali

Vittorio Gallerani, Fabio Bartolini*, Davide Viaggi

Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie, Università di BolognaViale Fanin 50, 40127 Bologna

Centro Studi di Estimo ed Economia Territoriale

RiassuntoIl cambiamento climatico sta influenzando notevolmente i sistemi agro-forestali. Le attuali previsioni stimano chesia la variazione delle condizioni climatiche medie, sia l’aumento di eventi estremi legati al cambiamento climaticoavranno effetti ancora più marcati in futuro. Questo contributo intende illustrare l’articolazione dei problemi di va-lutazione economica legati al cambiamento climatico, mettendo in evidenza i risultati, le problematiche e le lineedi ricerca future. Le ricerche su questo tema, pur potendo utilizzare teorie e metodi già sviluppati nelle disciplinerelative all’economia delle risorse, vedono tuttora numerosi problemi aperti, in particolare nel campo dello studiomultidisciplinare delle relazioni uomo-ambiente, della valutazione delle politiche e della messa a punto di tempe-stivi supporti decisionali per il decisore pubblico.

Parole chiave: cambiamento climatico, politiche di adattamento, politiche di mitigazione, valutazione economica,sistemi agro-forestali.

Summary

EVALUATION OF ECONOMIC IMPACT OF CLIMATIC CHANGE ON AGRO-FORESTRY SYSTEMS

Climate change has a strong influence on agro-forestry systems. Present estimations evisage that changes in climatepatterns and extreme events connected to climate change will have greater impacts in the future. This paper seeksto illustrate the articulation of the problems concerning the economic evaluation of climate change, with particu-larly attention to open problems and future lines of research. Research on this topic, though using methods and ap-proaches consolidated in the disciplines of resource economics and evaluation, still have several open problems, par-ticularly in the field of multidisciplinary studies of the man-environmental relations, policy evaluation and devel-opment of decision support systems for decision makers.

Key-words: climate change, adaptation policy, mitigations policy, economic valuation, agro-forest systems.

* Autore corrispondente: tel.: +39 051 2096116; fax: +39 051 2096116. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:33-44

1. Obiettivi

Il cambiamento climatico è una tema di cre-scente attualità ed è oggetto di forte dibattitonon solamente scientifico. L’interesse scientifi-co per queste tematiche si è concentrato sull’a-nalisi delle relazioni di causalità tra i fattori di

natura antropica e il riscaldamento globale, sul-l’identificazione di scenari e sulla misurazionedegli impatti che le nuove condizioni climatichepotrebbero determinare sui sistemi fisici, biolo-gici, umani, e sulle attività economiche. Tra lericadute di tali fenomeni sui sistemi sociali, leconseguenze economiche hanno una notevole

importanza. Queste riguardano diverse sfere,quali la capacità di produrre ricchezza, la di-stribuzione dei redditi e il governo del cambia-mento climatico attraverso opportune politiche.

Questo contributo intende illustrare l’artico-lazione dei problemi di valutazione economicalegati al cambiamento climatico, mettendo inevidenza i problemi aperti e le linee di ricercafuture.

Il lavoro è organizzato in cinque parti. Il pa-ragrafo 2 descrive i termini del problema e lestrategie di intervento. Il paragrafo 3 approfon-disce il ruolo dell’analisi economica, il paragrafo4 riassume i risultati e i criteri di lettura dell’a-nalisi economica e il paragrafo 5 riporta un’a-nalisi delle politiche esistenti. Infine, nel para-grafo 6, sono formulate alcune considerazioniconclusive.

2. Il problema e le strategie di intervento

In letteratura sono presenti numerosi studi cheanalizzano le tematiche relative al cambiamen-to climatico e le identificano come un proble-ma “reale ed urgente” (Stern et al., 2006). A par-tire dagli inizi del ventesimo secolo sono statiregistrati continui aumenti di temperatura. Que-sti sono mediamente quantificabili in circa 0,7

°C dagli anni cinquanta ad oggi ed hanno inte-ressato in modo disomogeneo l’intero globo ter-restre (Murphy et al., 2004; Brohan et al., 2006;Stern et al., 2006). Nella comunità scientifica èstato raggiunto un certo grado di consenso sul-le cause dirette e indirette dell’innalzamentodelle temperature, individuate sia nelle emissio-ni di anidride carbonica e di altri gas legati al-l’effetto serra (GHGs) nell’atmosfera, sia neicambiamenti dell’uso del suolo, ad esempio ladeforestazione. Entrambi i fattori sono di natu-ra antropica e sono direttamente collegati alleattività economiche e produttive. Nella figura 1sono rappresentate le relazioni tra l’attività an-tropica e il cambiamento climatico.

L’innalzamento della temperatura atmosferi-ca e degli oceani sta modificando i sistemi fisi-ci e biologici in tutto il pianeta. Alcuni degli ele-menti di cambiamento più rilevanti riguardanol’innalzamento del livello del mare, la riduzionedelle quantità e l’alterazione della distribuzionedelle precipitazioni, la riduzione della biodiver-sità, con aumento del rischio di estinzione dimolte specie animali e vegetali, l’aumento delrischio di carestie e di malattie infettive per mi-lioni di persone ed, infine, danni diretti alla sa-lute umana ed animale, a seguito dell’aumentodei fenomeni meteorologici estremi (Commis-sione Europea, 2007a).

Gallerani V., Bartolini F., Viaggi D.

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Figura 1. Relazioni traemissioni di gas legati al-l’effetto serra e cambia-mento climatico.

Figure 1. Relations bet-ween emissions and cli-mate change.

Fonte: Stern et al. (2006) modificato.

Le emissioni prodotte direttamente dall’a-gricoltura sono pari al 14% del totale delleemissioni di gas legati all’effetto serra, a cui sipuò aggiungere il 18% che deriva dalla defore-stazione e dai cambiamenti di uso del suolo. Lemaggiori componenti delle emissioni diretta-mente collegate alle attività agricole sono costi-tuite dal rilascio di ossido di azoto (N2O) du-rante il processo di nitrificazione e di denitrifi-cazione a seguito della concimazione (38%) edalla produzione di metano derivante dalla fer-mentazione enterica dei ruminanti (31%). Laparte restante deriva dalla coltivazione del riso(11%), dallo smaltimento delle deiezioni ani-mali (7%) e da altre attività (13%), come la bru-ciatura di residui colturali (US-EPA, 2006)1.

Il raggiungimento del consenso scientifico sul-l’esistenza e sulle cause del cambiamento clima-tico ha stimolato i decisori ad intervenire con po-litiche volte alla riduzione delle emissioni e alcontenimento degli effetti del riscaldamento glo-bale. Le possibili strategie a disposizione dei de-cisori sono di tre tipi: a) non-intervento (businessas usual), b) adattamento e c) mitigazione.

La prima strategia consiste nella scelta dinon mettere in atto alcun intervento per la ri-duzione delle emissioni nell’atmosfera. In que-sta situazione i livelli di produzione e i consu-mi non sono vincolati da politiche aggiuntivespecifiche; ciò non impedisce che subiscano al-terazioni a seguito degli impatti del cambia-mento climatico. Questa strategia rappresenta larealtà controfattuale con la quale si confrontanole strategie di adattamento2 e di mitigazione.

Le strategie di adattamento rappresentanogli aggiustamenti volti alla diminuzione dellavulnerabilità dei sistemi agli effetti del cambia-mento climatico (Stern et al., 2007). Le strate-gie di adattamento comprendono meccanismiautonomi e meccanismi pianificati (IPCC,2007b). I primi sono costituiti da adattamentigenerati dalle forze di mercato e da comporta-menti spontanei, mentre i secondi corrispondo-no a politiche specifiche. Le strategie di adatta-mento sono rilevanti in agricoltura, in quanto èpossibile contenere gli effetti del riscaldamentoglobale mediante diversi meccanismi, tra i qua-li l’aumento delle superfici irrigue, l’uso di mag-giori volumi irrigui, le modifiche delle succes-sioni colturali, l’adozione di nuove colture e l’in-gegneria genetica (ad esempio con lo sviluppo

di varietà tolleranti la siccità) (Tol et al., 1998).Le strategie di mitigazione si riferiscono agli

interventi che hanno per obiettivo l’abbatti-mento delle emissioni (IPCC, 2007c). Le politi-che di mitigazione sono riconducibili a sistemidi pricing, ovvero tassazione delle emissioni, re-strizione delle quantità di emissione (permessi,quote) e definizione dei diritti di proprietà trainquinatore e inquinato (Stern et al., 2006).Rientrano in questa strategia anche gli investi-menti in innovazione, ricerca e sviluppo al finedi identificare e promuovere il ricorso a fontienergetiche alternative non inquinanti, ad esem-pio l’idrogeno.

3. Valutazione dell’impatto economico

L’approccio economico prevalente utilizza la va-lutazione monetaria al fine di misurare i cam-biamenti di benessere e la fattibilità delle azio-ni dell’amministrazione pubblica (Spash, 2005).Il processo di valutazione economica è rappre-sentabile come la sequenza di quattro fasi(EEA, 2007). La prima fase consiste nella defi-nizione di una baseline al momento della stima,espressa come “fotografia” dei valori di alcuniindicatori socio-economici rappresentativi, tracui popolazione, produzioni, tecnologie e con-sumi. La seconda fase è basata sulla modelliz-zazione dello scenario socio-economico che rap-presenta l’evoluzione della baseline nel futuro(scenario business as usual). Questa fase identi-fica l’evoluzione nel tempo (50-100 anni) degliindicatori socio-economici usati nella fase pre-cedente per misurare le condizioni di baseline.La terza fase consiste nella identificazione discenari alternativi rispetto allo scenario di busi-ness as usual e nella valutazione degli effetti di

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1 Per un’analisi esaustiva delle emissioni e degli impattiper il settore agricolo si veda Olesen e Bindi (2002) eIPCC (2007a). I dettagli di questi effetti sono ampia-mente trattati dai contributi di altri ambiti disciplinari.Di seguito ci si soffermerà pertanto principalmente suiloro effetti economici.2 Con riferimento alla valutazione delle politiche, la stra-tegia business as usual rappresenta la Baseline; la suaidentificazione consente di poter misurare gli effetti ad-dizionali delle politiche, isolando, nella valutazione, glieffetti determinati dall’inerzia dei sistemi. Per appro-fondimenti si veda Gallerani (2008).

questi scenari. Gli scenari alternativi sono defi-niti da ipotesi di modifica delle variabili che era-no state mantenute costanti nello scenario bu-siness as usual (temperature medie, variabilitàdelle temperature, pattern delle precipitazionied eventi estremi). Gli effetti di tali variabili ne-gli scenari di cambiamento climatico vengonoquantificati mediante analisi degli impatti fisici(es. modelli che simulano le variazioni delle re-se e delle produzioni agricole o studi epide-miologici che legano la salute umana ad au-menti della temperatura) o mediante analisieconometriche (es. modelli che simulano com-portamenti umani, come l’attitudine ad investi-re)3. Nonostante la valutazione sia strutturataper isolare gli effetti dell’evoluzione delle va-riabili socio-economiche da quelli relativi alcambiamento climatico, nella modellizzazione ènecessario tenere conto anche delle interrela-zioni tra i due gruppi di variabili (ed. un au-mento della popolazione corrisponde ad un in-cremento dei consumi e quindi a maggiori emis-sioni nell’atmosfera).

Infine nella quarta fase vengono monetizza-ti gli impatti del cambiamento climatico, espres-si come differenza tra i valori delle variabili de-gli indicatori economici rispetto allo scenariobusiness as usual a seguito dell’incremento del-le temperature e degli altri effetti legati al cam-biamento climatico4.

4. Risultati e interpretazione della valutazioneeconomica

I risultati delle valutazioni economiche sul cam-biamento climatico sono espressi come costi to-tali o costi marginali. In questo paragrafo ven-gono dapprima analizzati i costi totali e succes-sivamente i costi marginali.

I costi totali derivano dal confronto, de-scritto nel precedente paragrafo 2, tra lo scena-rio di business as usual e scenari alternativi diintervento. Il costo totale del cambiamento cli-matico (FC) è dato dalla differenza tra il costodel non intervento (Ki), il saldo tra i benefici(Ba) e i costi (Ka) dell’adattamento e il saldo trai benefici (Bm) e i costi (Km) della mitigazione.

FC = Ki – (Ba – Ka) – (Bm – Km)

Il saldo tra i benefici e i costi dei singoli in-terventi di adattamento e mitigazione è utiliz-

zato per valutare la convenienza all’implemen-tazione di specifiche politiche. Un’ulteriore gran-dezza utilizzata è il costo residuale (RC), defi-nito come:

RC = Ki – Ba – Bm

Esso rappresenta quella parte del costo delcambiamento climatico che non è eliminato dal-le politiche di adattamento e di mitigazione ipo-tizzate nello scenario. Pertanto può essere con-siderato un indicatore della gravità del cambia-mento climatico e della necessità di intervento.

Le tre strategie (non-intervento, mitigazione,adattamento) ed i relativi costi sono fortemen-te correlate collegati tra di loro. Ad esempio, ilnon-intervento è influenzato dai meccanismi diadattamento spontanei; dal canto suo, l’adatta-mento può servire a ridurre gli effetti negativinon mitigabili.

Il quadro logico presentato per il calcolo delcosto totale del cambiamento climatico forniscela base per l’analisi costi-benefici (ACB) dellepolitiche di intervento. L’analisi costi benefici èuno strumento di supporto alle decisioni basa-to sul confronto intertemporale tra costi e be-nefici di una decisione. Nel caso in esame, unastrategia o un insieme di strategie è convenien-te se il costo totale del cambiamento climatico,a seguito dell’attivazione della strategia, è infe-riore al costo del non-intervento. Tra diverse al-ternative di intervento risulta più convenientequella che genera il più basso costo totale delcambiamento climatico.

Al fine di ottenere un benchmark compara-bile tra i diversi studi, la maggior parte delle sti-me del costo sociale totale è stata riferita allostesso target di emissioni. Quello più frequenteè riconducibile a concentrazioni di CO2 nell’at-mosfera doppie rispetto a quelle dell’epoca pre-industriale (1800) identificate in 550 ppm di CO2,Per quanto riguarda la lunghezza dell’orizzontetemporale, le valutazioni considerano normal-mente gli effetti fino all’anno 2100.

Gallerani V., Bartolini F., Viaggi D.

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3 Per un approfondimento sulla identificazione della ba-seline, degli scenari di business as usual e di cambia-mento climatico si veda Russ et al. (2007) e i lavori del-l’IPCC (2007a).4 Per una formulazione matematica dell’analisi econo-mica e delle relazioni tra gli impatti economici e l’au-mento delle temperature si veda Pearce (2003).

Nella tabella 1 sono riportati i valori di al-cune stime di costo totale comparabili tra loro.

I risultati mostrano un’estrema variabilitànella quantificazione dei costi sociali totali. Lavariabilità deriva sia dalla stima dell’aumentodelle temperature all’aumento delle concentra-zioni di CO2, sia dalla interpretazione degli im-patti economici collegati all’aumento della tem-peratura. A parità di concentrazione di CO2 nel-l’atmosfera, diversi autori hanno ipotizzato in-crementi di temperature medie da 1 a 2,5 °C.Inoltre, a parità di incrementi di temperatura,sono stati stimati diversi range di variazione delPIL, che, in aggiunta possono assumere direzio-ne diversa (aumento/diminuzione) a secondadella temperatura ipotizzata. Infatti, con incre-menti delle temperature medie di 1 °C sono sta-ti stimati aumenti del PIL mondiale pari al2,3%, mentre nel caso di aumenti di tempera-ture maggiori sono state stimate riduzioni delPIL mondiale pari al 2%.

Il costo marginale sociale corrisponde al Va-

lore Attuale Netto (VAN6) dei flussi di costi ebenefici generati, nell’orizzonte temporale con-siderato (i prossimi 100 o più anni), dai cam-biamenti climatici causati dall’emissione (al mo-mento della stima) di una tonnellata aggiuntivadi carbonio (C). La stima dei costi e beneficimarginali sociali consente sia di identificare illivello di inquinamento ottimale, sia di suppor-tare il disegno di strumenti di politica capaci diraggiungere tale obiettivo (es. il livello ottimaledi una tassa) (Pearce e Turner, 1989).

I lavori orientati al calcolo dei costi margi-nali sociali riportano risultati compresi tra 5 e850 $ per la riduzione di una tonnellata di C (figura 2).

Analogamente a quanto riscontrato per i co-sti totali, anche le valutazioni dei costi margi-nali presenti in letteratura sono estremamentevariabili. Esse, inoltre, sono di difficile compa-razione in quanto gli autori hanno sviluppato levalutazioni sulla base di diverse assunzioni, avolte non completamente reperibili dai lavoripubblicati. Un tentativo di analisi aggregata del-le stime esistenti è stato compiuto recentemen-te da Tol (2005). L’autore ha analizzato ed adat-tato 30 stime di costo marginale sociale presen-ti in letteratura, identificando un valore moda-le del costo marginale pari a 2 $/t di C, un va-lore mediano corrispondente a 14 $/t di C edun valore medio di 93 $/t di C, mentre il no-vantacinquesimo percentile assume un valorepari a 350 $/t di C.

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Tabella 1. Costi sociali aggregati derivanti dal cambiamento climatico (% del PIL).

Table 1. Aggregate social cost of Climate Change (% of GDP).

Incremento di temperatura Pearce et al. Mendelsohn et al. Nordhaus e Tol (2002) corrispondente a 2xCO2 (1996) (1999) Boyer (2000) rispetto all’epoca pre-industriale 2,5°C 1,5°C 2,5°C 2,5°C 1,0°C

Paesi sviluppati - +0,12 +0,03 da -0,5 a +0,4Paesi meno sviluppati - +0,05 -0,17 da -0,2 a -4,9Mondo da -1,5 a -2,00 +0,10 -1,5 +2,3

Fonte: Pearce (2003).

5 Il target di concentrazione più frequentemente utiliz-zato in letteratura si riferisce a 550 ppm di CO2 equi-valenti, che corrisponde al doppio della concentrazionedi CO2 rispetto all’epoca pre-industriale.6 Il VAN è il più noto parametro di valutazione utiliz-zato nell’ACB. È dato dalla differenza tra i flussi di be-nefici attualizzati ed i flussi di costo attualizzati genera-ti da una decisione/investimento.

Figura 2. Costi sociali marginali per l’emissione di carbonionell’atmosfera ($/T di C).

Figure 2. Marginal social cost of the carbon emissions ($/Tof C).

Fonte: EEA (2007).

L’ACB offre una lettura sintetica degli im-patti economici basata su parametri di imme-diata comprensione, quali il valore monetariodegli effetti. L’interpretazione corretta dei ri-sultati richiede tuttavia la consapevolezza dellelimitazioni e dei punti di debolezza di tale mo-dello. Nella tabella 2 sono riportate le principa-li assunzioni e la caratterizzazione metodologi-ca di alcuni lavori recenti.

I metodi utilizzati per la quantificazione deicosti e dei benefici appartengono agli strumen-ti classici dell’economia delle risorse. Tali meto-di sono principalmente suddivisi in due catego-rie, ovvero metodi diretti e metodi indiretti(mercati surrogati). Il primo gruppo di metodipermette di stimare direttamente il valore di unbene o di un servizio sia attraverso l’analisi di-retta degli adattamenti del mercato (prezzi dimercato, spese di preservazione della risorsa, co-sti di recupero), sia stimando una disponibilitàa pagare (WTP) o ad accettare (WTA) me-diante la creazione di un mercato ipotetico (va-lutazione contingente). Il secondo gruppo dimetodi permette di attribuire indirettamente unvalore ad un bene o servizio attraverso la mi-surazione indiretta del costo per surrogare talebene o il servizio (Kuik et al., 2006). Tra questi

metodi rientrano il costo del viaggio, il prezzoedonico, nel caso in cui esista un mercato e lachoice experiment nel caso sia simulato un mer-cato ipotetico. Inoltre è utilizzato il metodo delbenefit transfert (Kuik et al., 2006) per ottenerevalori di disponibilità a pagare o di disponibi-lità ad accettare in aree in cui manchino studioriginali. Il metodo si basa sull’adattamento distime riguardanti contesti territoriali diversi daquelli in cui si pone il problema di valutazione.Per un’analisi approfondita dei metodi di valu-tazione dei beni ambientali si veda Freeman(2003).

I metodi illustrati ed i relativi risultati nonsono esenti da problemi. Le debolezze più rile-vanti possono addebitarsi al fatto che le basiteoriche di questi metodi furono sviluppate perl’analisi di progetti o politiche su piccola scala.Ne deriva che la loro applicazione è robusta perpiccoli cambiamenti dei livelli di reddito e percontesti territoriali limitati. Al contrario, questimetodi evidenziano i loro limiti quando sonoutilizzati per valutare fenomeni globali, come ilcambiamento climatico.

I principali punti di debolezza degli approc-ci adottati riguardano i seguenti aspetti:a) incertezza circa l’identificazione degli scena-

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Tabella 2. Aspetti metodologici in alcuni studi recenti.

Table 2. Methodological aspects considered in some recent papers.

Autori

WTA/ Benefit Impatti Impatti Tasso Tasso Con Senza Analisi Incertezza WTP Transfert diretti indiretti costante decrescente equity equity di statistica

weights weights sensitività

Bosello et al 2004 a,b X X X X X XDarwin e Tol 2001 X X X X X X XLi et al 2005 X XNewell e Pizer 2004 X X X X X XNordhaus e Boyer 2000 X X X X X X XRive et al.2005 X X X X XStern et al.2006 X X X X XTol 2005 X X X X XTol e Dowlatabadi 2001 X X X X X X X

Fonte: Kuik et al. (2006) modificata.

Metodo usato nella valutazione

Stima Costi di adatta-mento

Aggregazione temporale

Aggregazione spaziale

Incertezza e rischio

ri di previsione del cambiamento climatico;b) monetizzazione degli effetti del cambiamen-

to climatico;c) modellizzazione dei meccanismi di effetto

del cambiamento climatico e delle ipotesi diadattamento/mitigazione;

d) aggregazione temporale;e) aggregazione spaziale;f) interazione tra le politiche.

Un punto ampiamente discusso in letteratu-ra è la copertura e la completezza delle valuta-zioni degli impatti dei cambiamenti climatici inrelazione alla plausibilità degli scenari di cam-biamento climatico e alla monetizzazione degliimpatti.

I risultati dei modelli impiegati sono in primoluogo legati all’incertezza nella previsione degliimpatti fisici derivanti dal cambiamento climati-co, specialmente per gli “eventi estremi” (a).

Ad essi si aggiungono delle difficoltà nellafase di trasformazione in moneta di tali im-patti fisici (b) (Watkiss et al., 2005). Nella ta-bella 3, gli studi di valutazione economica delcambiamento climatico sono classificati in re-lazione alla plausibilità degli scenari relativiagli effetti del cambiamento climatico e alleincertezze degli elementi valutati nell’analisieconomica.

Da quest’ultimo punto di vista, le stime de-gli impatti del cambiamento climatico esistentiin letteratura sono in genere incomplete. Infat-

ti, la maggior parte delle valutazioni economi-che si è limitata all’analisi di quei beni per iquali esiste un mercato o dei beni senza mer-cato per i quali è possibile identificare una di-sponibilità a pagare e facendo riferimento aisoli fenomeni di cambiamento climatico rite-nuti meno incerti. Al contrario, non vi sono stu-di attendibili che includano sia plausibili mo-netizzazioni delle contingenze sociali (migra-zione, conflitti sociali), sia gli effetti di eventiestremi.

All’interno delle componenti valutate, le sti-me si differenziano a seconda del modello di si-mulazione utilizzato (c)7 (FUND; PAGE; RI-CE/DICE; MERGE ecc) (Whatkiss, 2004). Talimodelli si differenziano infatti per l’adozione didiverse ipotesi relativamente alla definizionedella baseline, alla scelta degli indicatori socioeconomici, alla scelta degli scenari di cambia-mento climatico, al livello di analisi territoriale,al tipo di ottimizzazione e all’inclusione deimeccanismi di adattamento.

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Tabella 3. Stime degli impatti del cambiamento climatico.

Table 3. Estimations of the impact of Climate Change.

Incertezza nella valutazione economica

Mercato (es. beni Non-Mercato Effetti sociali contingenti alimentari, mercato (es. salute umana, (es. migrazione,

dell’acqua) biodiversità) equità, conflitti)

Proiezioni (es. innalzamento La prevalenza delle stime appartiene Alcuni effetti plausibili del livello del mare, aumento a queste categorie sono stati identificati, ma nontemperatura) adeguatamente valutati

nelle stime

Previsioni plausibili (rischio di errore limitato)(es. siccità, alluvioni, tempeste)

Cambiamenti dei Sistemi Nessuno studio ed eventi estremi credibile(es. eventi catastrofici)

Fonte: Downing et al. (2005), modificata.

Qualche modello ha identificato scenari plausibili. Tuttavia la prevalenza

degli studi si riferisce a livelli target di emissioni (2xCO2)

Pochi studi per lo più esplorativi. Si vedaNordhaus e Boyer (2000); Ceronsky

et al. (2005)

Ince

rtez

ze n

ella

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one

dei

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enti

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i

7 Esistono oltre venti modelli in letteratura sviluppatiper quantificare i costi sociali relativi al cambiamentoclimatico. Si tratta spesso di modelli ottimizzanti, spessodinamici o recursivi distinguibili in modelli con approc-cio bottom-up o approccio top-down (IPCC, 2007c).

L’aggregazione temporale (d) ha un ruoloestremamente importante nelle valutazioni re-lative al cambiamento climatico per almeno duemotivi:– l’entità degli orizzonti temporali considerati,

che variano in genere tra 50 e 100 anni, mapossono anche andare oltre;

– il fatto che le cause e gli effetti del cambia-mento climatico sono separati nel tempo, ov-vero le strategie di mitigazione e di adatta-mento vengono messe in atto oggi o nel me-dio-breve periodo, mentre le loro ricadute(benefici e costi) si verificano nel lungo pe-riodo.Per rendere comparabili tra loro i costi e i be-

nefici futuri delle scelte effettuate oggi, i flussiannuali vengono scontati facendo ricorso al sag-gio di preferenza temporale. Il saggio di prefe-renza temporale quantifica il peso che hanno lepreferenze future rispetto alle preferenze attuali(Pearce, 2003). Formalmente lo sconto dei flussimonetari futuri è basato sulla moltiplicazione deibenefici e dei costi per un coefficiente di sconto

dove r rappresenta il saggio di preferenza tem-porale e n l’anno in cui si verifica il costo o ilbeneficio. Vi sono due ragioni per scontare i co-sti e i benefici futuri: a) gli individui preferisco-no consumare oggi piuttosto che domani; b) ilcapitale investito, nel tempo, fornisce produzio-ni e redditi (Davidson, 2006). Nella letteraturasul cambiamento climatico vi è un’ampia di-scussione relativamente al valore e all’anda-mento nel tempo del saggio di preferenza tem-porale da utilizzare (Kuik et al., 2006; Guo etal., 2006). Per quanto riguarda il valore, in let-teratura sono stati utilizzati saggi di sconto com-presi tra l’1% e il 3%. Circa l’andamento neltempo, possono essere usati saggi di preferenzatemporali costanti o decrescenti. Il primo pena-lizza maggiormente le generazioni future ri-spetto al secondo. I tassi di sconto decrescentiutilizzati nelle stime di costo sociale presenti inletteratura, sono compresi tra il 7% e il 3% neiprimi anni della stima e scendono fino all’1%nel lungo periodo (Gau et al., 2006). Recente-mente Guo et al. (2006) hanno confrontato i co-sti marginali sociali utilizzando sia il tasso disconto sociale costante, sia il tasso decrescente.I risultati ottenuti con i due metodi sono forte-

mente diversificati (58$/tC nel primo caso e185$/tC nel secondo caso).

Per loro natura le cause e gli effetti del cam-biamento climatico non sono collegabili a spe-cifiche unità territoriali, ma sono globali. Unpunto rilevante dell’analisi economica consistenel fatto che la globalità delle problematiche re-lative al cambiamento climatico, rende necessa-ria la confrontabilità tra i costi e i benefici inPaesi caratterizzati da diversi livelli di sviluppo(e). L’espediente più diffuso per garantire laconfrontabilità è costituito dagli equity weights,ovvero “pesi” che tengono conto dell’utilitàmarginale decrescente della spesa per consumiin aree diverse. La pesatura si ottiene moltipli-cando i valori di WTP o WTA ottenute in cia-scuna area per i relativi equity weights. Appli-cando gli equity weights viene incrementato ilvalore dei costi sociali del cambiamento clima-tico nei Paesi più poveri. Tecnicamente, la ne-cessità di pesatura deriva dal fatto che la di-sponibilità a pagare o ad accettare è funzionedel reddito dei singoli individui o del Paese.Inoltre, per paesi più poveri è teoricamente fon-dato supporre che la stessa unità di valore mo-netario abbia una utilità superiore rispetto aipaesi più ricchi, in quanto il reddito è utilizza-to prioritariamente per beni e servizi di primanecessità. Inoltre la pesatura esprime una con-cetto di equità, in quanto i Paesi più poveri so-no quelli più vulnerabili agli effetti del cambia-mento climatico (Kuik et al., 2006), a seguitodella localizzazione geografica, dei sistemi eco-nomici meno sviluppati e della minore capacitàdi adottare strategie di adattamento (Watkiss etal., 2005). In un recente lavoro Tol (2005) con-fronta i costi marginali sociali in presenza e inassenza di equity weights. La pesatura determi-na un incremento dei costi sociali da 10$/t di Ca 54 $/t di C.

La globalità e la multisettorialità delle pro-blematiche relative al cambiamento climaticonon consentono una facile valutazione degli im-patti di ogni singola politica (f), in quanto le po-litiche di adattamento e mitigazione determina-no effetti indiretti sui mercati dei prodotti mo-dificando ad esempio le produzioni, gli scambi,i trasporti ecc. Inoltre, altre politiche non diret-tamente orientate a contrastare gli effetti delcambiamento climatico, ad esempio la rinatura-lizzazione o la direttiva nitrati, generano impat-ti indiretti sulla quantità di emissioni cambian-

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1–––––––(1 + r)n

do gli usi del suolo e le quantità di input im-messi nei processi produttivi.

Le incertezze e i limiti delle valutazioni oraesposti non consentono un uso deterministicodell’ACB nel produrre direttamente un giudiziocirca la decisione di attuare o no una politica.L’ACB, tuttavia, rappresenta un importantestrumento di supporto alle decisioni in quantopermette di delineare i termini del problema edi fornire elementi di giudizio basati sulla con-sapevolezza del valore delle risorse in gioco.

In diversi casi si preferisce adottare il crite-rio dell’analisi costi-efficacia. In tal caso la mi-sura ritenuta migliore è quella che, a parità dirisultati, presenta il costo minore. Anche questoorientamento, sebbene meno ambizioso in ter-mini di stima dei benefici, risponde ad un crite-rio di efficienza puramente economica.

A fini operativi, la scelta della strategia edello strumento di politica dipende da almenoaltri due criteri a) l’analisi degli effetti distribu-tivi in termini di equità e giustizia, sia all’inter-no della società, sia tra le generazioni e b) lafattibilità istituzionale, ovvero la legittimità el’accettabilità degli strumenti (IPCC, 2007c).

5. Politiche per la riduzione delle emissioni

Questa articolazione dei meccanismi di valuta-zione economica e la complessità del processocon cui gli elementi di valutazione contribui-scono al processo decisionale, possono spiegarela varietà e la diversa tempistica con cui i di-versi paesi e la comunità mondiale hanno rea-gito al fenomeno del cambiamento climatico.

L’amministrazione pubblica ha la possibilitàdi intervenire nel ridurre le emissioni di gas le-gati all’effetto serra mediante strumenti di po-litica coercitivi, strumenti misti e strumenti vo-lontari (Howlett e Ramesh, 1995) che riflettonol’allocazione dei diritti di proprietà tra inquina-tore e inquinato. Più in dettaglio gli strumentidi politica per ridurre le emissioni possono es-sere ricondotti alle seguenti tipologie: a) tasse,b) regolamenti e standard; c) accordi volontari;d) permessi negoziabili; e) sussidi e incentivi; f)strumenti di sensibilizzazione e g) attività di Ri-cerca e Sviluppo (Hahn, 1989; IPCC, 2007c).Questi strumenti sono stati applicati sia a livel-lo nazionale sia a livello internazionale, me-diante decisioni individuali, accordi bilaterali o

multilaterali e in tutto il mondo si possono con-tare oltre mille interventi, mediante politiche dimitigazione o di adattamento implementante apartire dagli anni ottanta8.

La politica più discussa, sia per la complica-ta implementazione, sia per la moltitudine degliattori coinvolti, è il protocollo di Kyoto. A par-tire dal summit mondiale della terra su am-biente e sviluppo, tenutosi a Rio de Janeiro nel1992, alcuni Paesi, definiti successivamente An-nex 1 (Paesi più ricchi più i Paesi dell’ex bloc-co sovietico) decisero di limitare la concentra-zione dei gas responsabili dell’effetto serra a li-velli inferiori a quelli registrati nel 1990. I mec-canismi proposti all’interno del protocollo diKyoto prevedono la definizione di quantitativimassimi di emissioni e la possibilità di instau-rare un mercato delle emissione con gli altriPaesi che hanno ratificato il protocollo. Aglistati membri è stato concesso di ottenere deicrediti di carbonio per incrementare il quanti-tativo assegnato mediante la realizzazione diprogetti di riduzione delle emissioni nei Paesinon compresi nell’Annex 1 all’interno deiClean Development Mechanism (CDM) o del-la Joint Implementation (JI)9.

La possibilità di scambiare crediti suppletivioriginariamente non prevista dal trattato di Rio,fu inserito su richiesta dei paesi più sviluppati.L’introduzione di questi meccanismi produce unabbattimento dei costi sociali per raggiungere gliobiettivi di riduzione delle emissioni sfruttando ladifferenza di costo marginale di abbattimento trai settori produttivi e tra i diversi Paesi.

Il calcolo (o la percezione) dei costi/benefi-ci sociali marginali di abbattimento ha portatoa risultati opposti in diversi paesi, con l’attesa

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8 Considerata l’eterogeneità e la vastità delle politichedi adattamento e mitigazione implementate si è ritenutodi limitare l’analisi al solo protocollo di Kyoto e alle po-litiche europee, con particolare riferimento al settore agri-colo. Per un’analisi completa delle politiche implementa-te si veda il database delle politiche di mitigazione e diadattamento dell’Agenzia Internazionale per l’Ambienteal link: http://www.iea.org/textbase/pm/?mode=cc.9 Per la completa documentazione dei meccanismi pre-visti dal protocollo di Kyoto e della sua implementazio-ne si veda il sito: http://unfccc.int/kyoto_protocol/ items/2830.php.

di un beneficio netto in alcuni casi e di un co-sto netto in altri. Questo ha giustificato opposticomportamenti circa la ratifica del protocollo diKyoto, sfociati, rispettivamente, nella scelta diaccettare o respingere l’accordo (Nordhaus eBoyer, 1999; Pearce, 2003).

In Europa sono state implementate sia mi-sure intersettoriali di riduzione delle emissioni(cross-cutting measures), sia misure settoriali. Inmerito alle prime misure sono stati applicati imeccanismi previsti dal protocollo di Kyoto co-me i permessi negoziabili (direttiva CE 87/2003); il CDM, le JI (direttiva CE 101/2004) eil monitoraggio e gli ulteriori meccanismi di im-plementazione previsti dal protocollo di Kyoto(decisione CE 280/2004).

In merito alle misure settoriali, per il setto-re agricolo non vi sono piani specifici per la ri-duzione delle emissioni, ma sono previste azio-ni all’interno dei Piani di Sviluppo Rurale perfavorire il sequestro di carbonio dall’atmosfera,principalmente mediante il rimboschimento econtributi per la produzione di colture energe-tiche all’interno della Politica Agricola Comune(PAC). Inoltre, anche la direttiva nitrati (diret-tiva CEE 676/1991), originariamente previstaper migliorare la qualità delle acque, prevedemisure che, limitando l’uso dei concimi azotatinei suoli, riducono il rilascio di ossido di azotonell’atmosfera.

Nonostante l’agricoltura possa ritenersi tra isettori che finora hanno contribuito in modo piùrilevante alla riduzione di emissione di gas ser-ra, nei paesi sviluppati (IPCC, 2007c), l’ulterio-re miglioramento del suo ruolo in tal senso co-stituisce uno degli elementi centrali dell’agendapolitica (Commissione Europea, 2007b). Ne èesempio la proposta di health check della PACformulata dalla Commissione Europea. Questaproposta contiene almeno tre linee di azione ri-guardanti le relazioni tra agricoltura e cambia-mento climatico, ovvero la creazione di nuovemisure di mitigazione ed adattamento al cam-biamento climatico nell’ambito delle misure disviluppo rurale; l’incorporamento degli obietti-vi di riduzione delle emissioni nelle misure dicondizionalità ambientale; il riesame dei siste-ma di supporto alle colture energetiche tenutoconto degli aumenti dei prezzi dei prodotti agri-coli. Cambiamento climatico, gestione dell’ac-qua e biodiversità costituiscono tre delle nuovesfide identificate dall’UE per le politiche nelsettore agricolo; di queste, il cambiamento cli-

matico è ritenuto l’elemento centrale, che in-fluenza tutte le altre (Commissione Europea,2007b).

6. Conclusioni

Il cambiamento climatico, per le sue caratteri-stiche, sollecita uno sforzo di ricerca che neces-sariamente deve essere olistico, multidisciplina-re ed interdisciplinare. All’interno di tale sfor-zo, l’analisi economica porta le sue specificità,contribuendo in diversi ambiti, che vanno dalmero calcolo degli impatti economici attesi, alcontributo alla definizione delle reazioni al cam-biamento climatico attraverso il supporto al di-segno delle politiche.

L’analisi costi benefici è il principale stru-mento di valutazione utilizzato, che consente difornire un supporto alle politiche indirizzando ledecisioni soprattutto sulla base di criteri di effi-cienza economica. Inoltre, tale strumento costrin-ge ad affrontare (seppure in modo non risoluti-vo) problematiche complesse quali l’equità nelladistribuzione di costi e benefici tra diverse areegeografiche e tra generazione presente e genera-zioni future, la dipendenza del benessere socialedalla disponibilità di beni di consumo, servizi am-bientali, salute ecc. (Pearce, 2003; Spash, 2005).Tuttavia le valutazioni economiche considerano inmaniera parziale e imperfetta le motivazioni po-litiche, culturali ed etiche; pertanto non forni-scono dei criteri di scelta assoluti per i decisoriquanto piuttosto informazioni per orientare lescelte (Pearce, 2003).

Le ricerche su questo tema, pur potendo uti-lizzare metodi ed approcci già sviluppati dallediscipline valutative e di economia delle risor-se, vedono tuttora numerosi problemi aperti, inparticolare nel campo dello studio multidisci-plinare delle relazioni uomo-ambiente, della va-lutazione e gestione del rischio, della capacità ditrattare fenomeni globali e di lungo periodo edella messa a punto di tempestivi supporti de-cisionali per il decisore pubblico.

Al di là delle specificità metodologiche, tut-tavia, la sfida maggiore delle scienze economi-che si identifica con la sollecitazione di una vi-sione proattiva, in cui l’azione umana costitui-sce una componente positiva della soluzione deiproblemi, piuttosto che un mero elemento ge-neratore di danno ambientale.

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Gallerani V., Bartolini F., Viaggi D.

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Potenziale impatto dei cambiamenti climatici nell’evoluzione floristica di fitocenosi spontanee

in agroecosistemi mediterranei

Stefano Benvenuti*

Dipartimento di Biologia delle Piante Agrarie, Università di PisaVia Delle Piagge 23, 56124 Pisa

Società Italiana per la Ricerca sulla Flora Infestante

RiassuntoAlla luce degli scenari climatici previsti nei periodi futuri sono state esaminate le più probabili ripercussioni chequesti eventi possono comportare sulla dinamica della flora infestante. A tal fine sono stati presi in considerazionei singoli parametri climatici che sono stati poi sovrapposti alle caratteristiche biologiche delle varie specie in mododa prevedere sia la loro evoluzione floristica che loro sostenibilità di gestione nei vari agroecosistemi mediterranei.Emerge come sia gli incrementi termici che l’aumento della concentrazione di CO2 tendano ad esaltare le caratte-ristiche di ruderalità a livello quantitativo e di brevità della fase riproduttiva. Inoltre, l’aumento dei fattori di stress(termici, idrici, UV-B, ecc.) incrementano quella tendenza alla de-specializzazione che è una caratteristica tipica dimolte delle più temute malerbe. La dinamica delle condizioni ambientali avverse, derivante persino da eventi estre-mi di opposta azione biologica (ad esempio siccità e sommersione), sembra destinata ad avere un impatto sinergi-co con quei disturbi agronomici che fin dalla nascita dell’agricoltura hanno selezionato le specie definite “segetali”in quanto tipicamente in grado di persistere in ambiente altamente disturbato. Le caratteristiche di resilienza sem-brano quindi destinate ad accrescere la loro importanza selezionando così fitocenosi sempre meno diversificate.Questa riduzione della biodiversità sembra incrementare il rischio di ingresso di specie esotiche, spesso provenien-ti da aree più calde e siccitose, alcune delle quali di tipo parassita. In ogni caso la loro aggressività nei confrontidella flora nativa può persino essere esaltata da quei fattori di stress biotico od abiotico non presenti nelle aree diorigine. Specie già oggi rare sembrano destinate all’estinzione soprattutto se la loro biologia presuppone fragili in-terazioni mutualistiche con organismi animali come ad esempio nel caso della flora entomogama. Tale simultaneapresenza risulta infatti minata dal progressivo scollamento tra foto-periodo e termo-periodo che tende a de-sincro-nizzare le rispettive fasi fenologiche. Questa probabile evoluzione floristica, destinata ad aumentare le specie auto-game ed anemofile, tenderà a peggiorare i già degradati aspetti paesaggistici del territorio agrario nonché a favo-rire problemi alla salute umana derivanti dall’aumento di polline aerodisperso ad attività allergenica. Si concludeche le fitocenosi spontanee appaiono molto meno vulnerabili delle colture in seguito ai previsti cambiamenti cli-matici. Ciò sembra presupporre un crescente uso di fitofarmaci come già previsto sia nel settore entomologico chefitopatologico. È stato infine ipotizzato che una delle possibili strategie agronomiche del futuro possa prevederepiani di miglioramento genetico delle colture volti alla ottimizzazione della loro plasticità ambientale mediante l’u-tilizzo del germoplasma dei loro progenitori spontanei.

Parole chiave: biodiversità, agroecosistema, cambiamenti climatici, flora infestante, evoluzione floristica.

Summary

POTENTIAL IMPACT OF CLIMATIC CHANGES ON FLORISTIC EVOLUTION OF PHYTOCOENOSES INMEDITERRANEAN AGROECOSYSTEMS

In order to predict the potential agronomic scenarios of the future, the probable involvements of climatic changeson weed dynamics were analyzed. In this perspective the several climatic parameters were examined and overlap-ped to the biological characteristics of the different species to predict both: weed evolution and the sustainabilityof the relative management. Thermal and CO2 increasing favour the weed ruderality in terms of seed quantity and

* Autore corrispondente: tel.: +39 050 2216500; fax: +39 050 2216524. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:45-67

velocity of seed set. In addition the increasing of stress factors (thermal, drought, UV-B, etc.) favour the de-spe-cialization trend as typically occurs in the most persistent weeds. Adverse climatic dynamics, even due to events ofopposite biological action (for example drought and flooding), appears to have a synergistic impact with the agro-nomic disturbances. Indeed these additive disturbances increase the selective pressure of the phytocoenoses andplay a crucial role in the allowing survival only to the “segetal” weeds as well it occurs from the origin of agricul-ture. Consequently, the different degree of resilience induces a decreasing of the phytocoenoses complexity. Thisbiodiversity reduction appears to increase the risk of exotic weed invasion overall regards to species from warmerand more arid environments (potentially even parasite species). Their invasivity could be increased by biotic orabiotic stress factors that are not present in their native environment. The fate of rare weeds appears to go to theirextinction, overall if their dynamics is linked to fragile mutualistic interaction as it occurs in the case of entomo-gamous species. Indeed such simultaneous presence (flora and pollinator fauna) is mined by the progressive diffe-rences between photoperiod and thermoperiod and the consequent de-synchronization of their phenological pha-ses. This virtual weed evolution through the increasing of the richness of self- and wind-pollinated weeds will in-volve both: 1) the agricultural landscape degradation; 2) a worse human health because of atmosphere rich of al-lergenic pollen. In conclusion, weed phytocoenoses appear to be less vulnerable of the relative crops to the clima-tic injuries. This higher crop vulnerability will increase the pesticides use as well as already predicted regards to en-tomologic and phytopatologic aspects. Finally, an agronomic strategy of the future was hypothized. This is based onthe germplasm utilization of the wild types in order to increase the environmental crop plasticity in the predictedclimatic scenarios.

Key-words: agroecosystem biodiversity, climatic changes, floristic evolution, weeds.

Benvenuti S.

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Introduzione

La crescente sensibilità alle problematiche am-bientali che si sono verificate negli ultimi de-cenni ha determinato un conseguente allarmi-smo sulle ripercussioni negative che l’uomo puògenerare sia nei confronti degli ecosistemi na-turali che degli agroecosistemi. Non è facile di-stinguere i cambiamenti climatici naturali daquelli antropogenici, anche se questa ultimaipotesi è ritenuta altamente probabile (Collinset al., 2007). Tuttavia, indipendentemente dallecause, risulta evidente che il clima sta repenti-namente e progressivamente cambiando met-tendo a dura prova l’equilibrio delle interazio-ni reciproche di biocenosi animali e vegetali. Inquesto ambito, risulta di cruciale importanzapoter prevedere se, ed in che misura, tali cam-biamenti climatici possono interferire sulla so-stenibilità ecologica dell’uomo nelle future ge-nerazioni (Schneider et al., 1998). Ne consegueche assume un crescente interesse poter preve-dere la dinamica della produttività e sostenibi-lità dei vari sistemi colturali sia nel medio chenel lungo periodo. Tra gli aspetti di maggioreimportanza agronomica risulta di notevole in-teresse poter simulare l’evoluzione floristicadelle fitocenosi spontanee dato che esse risul-tano fortemente coinvolte nel processo produt-tivo in quanto in grado di interagire negativa-mente sia con il risultato quantitativo e quali-

tativo della coltura. E’ stato infatti dimostratoche nei periodi futuri alcune malerbe possanoavvantaggiarsi più di altre nei nuovi scenari cli-matici tanto che la loro diffusione può essereutilizzata come “indicatore biologico” dell’af-fermazione delle nuove condizioni ecologiche(De Groot et al., 1995). La modificazione deiparametri ambientali darà, in altre parole, unimpulso di nuove dinamiche evolutive in quan-to i nuovi scenari ecologici si ripercuoterannoin nuove interazioni (sia allelopatiche che com-petitive), in grado di selezionare comunità ve-getali più adatte a persistere alle mutate condi-zioni climatiche (Brooker, 2006).

Prima di iniziare l’analisi delle probabili in-terazioni dei cambiamenti climatici nei con-fronti dell’evoluzione floristica dell’agroecosi-stema risulta opportuno evidenziare le caratte-ristiche generali che contraddistinguono le ma-lerbe. Queste ultime sono le specie vegetali chesono risultate particolarmente resilienti ai di-sturbi agronomici grazie a strategie di persi-stenza come ad esempio la rapida ed elevata eattività riproduttiva, la spiccata dormienza elongevità dei semi, l’adattabilità a numerose si-tuazioni pedo-climatiche ed agronomiche (Jor-dan e Jannink, 1997).

E’ curioso notare che da sempre le malerbesi sono co-evolute in funzione della tipologia efrequenza dei disturbi agronomici effettuati al-l’interno dell’agroecosistema (Baker, 1974),

mentre oggi, al contrario, i cambiamenti clima-tici rappresentano un ulteriore fattore di evolu-zione floristica derivante, in questo caso, dal-l’attività dell’uomo riflessa da ambienti lontanicome quelli urbani, peri-urbani ed industrialispesso inseriti a mosaico all’interno delle più va-ste aree agricole. Sorge spontanea una conside-razione: ma perchè questi cambiamenti climati-ci possono rappresentare una minaccia per lasostenibilità ecologica dei nostri agroecosistemianche sotto un profilo malerbologico? Il moti-vo ruota intorno al fatto che le complesse fito-cenosi infestanti hanno una biodiversità geneti-ca, sia intra- che inter-specifica, straordinaria-mente più elevata rispetto alle colture. Questeultime sono infatti estremamente minori sia nu-mericamente che geneticamente in quanto ilgermoplasma delle colture risulta decisamenteproduttivo ma “appiattito” in termini di base ge-netica. Gran parte dei geni presenti nei biotipioriginari nonché nelle antiche cultivar sono sta-ti infatti persi nei programmi di miglioramentogenetico. Ne consegue che mentre la flora spon-tanea può evolvere rapidamente i biotipi piùadatti alle nuove condizioni climatiche, le col-ture sono legate ad una minore flessibilità am-bientale con la conseguenza che esse risultanopenalizzate nell’interazione con l’elevata dina-micità delle comunità vegetali che tendono amodificarsi nel tempo. In altre parole viene ipo-tizzato che la produttività delle colture agrariepossa risultare più “vulnerabile” dai cambia-menti climatici rispetto alla dinamica delle fito-cenosi infestanti che sembrano destinate a tro-vare vantaggio dalla rottura degli equilibri eco-logici coltura-malerba in scenari agronomici an-cora sconosciuti (Goudriaan e Zadoks, 1995).Tale analisi dei vari aspetti di vulnerabilità del-l’agroecosistema ha infatti destato un crescenteinteresse per la prevedibilità della sua sosteni-bilità non solamente in un futuro prossimo maanche nel medio e nel lungo termine (Metzgeret al., 2006). Lo scopo di questo lavoro è statoquello di esaminare le potenziali ripercussioniche i singoli cambiamenti climatici possono in-durre nella dinamica delle singole specie pertentare poi di sintetizzarne le più probabili evo-luzioni floristiche complessive nei futuri agroe-cosistemi. A questo scopo sono stati rilevati inletteratura i più importanti mutamenti climaticirilevati sia a livello mondiale che del nostro am-biente mediterraneo per tentare di prevedere lespecie destinate a “vincere” ed a “perdere” (Ba-

skin, 1998) in questa nuova sfida fitosociologicadel futuro.

Andamento termico

Durante l’ultimo secolo la temperatura ha mo-strato aumentati che sono stati stimati tra gli 0,6(Walther et al., 2002) e gli 0,75 °C (Osborne etal., 2000). Nonostante questa non perfetta coin-cidenza dei dati numerici, sono ormai tutti con-cordi nel ritenere che i “gas serra” siano i prin-cipali responsabili del riscaldamento del nostropianeta. Tra questi il vapore acqueo risulta il piùdirettamente coinvolto nel fenomeno anche sela sua azione risulta affiancata dall’attività dauna complessa miscela di gas la cui concentra-zione risulta strettamente in funzione dell’atti-vità umana. Sono ad esempio molto attivi gascome anidride carbonica (CO2), metano (CH4),ossido nitroso (N2O) ed i clorofuorocarburi(CFCs) (O’Neill e Oppenheimer, 2002). Traquesti “gas serra” l’N2O risulta avere una mar-cata azione biologica dal momento che una suasola molecola mostra la stessa azione di 200 mo-lecole di CO2 (Ashmore, 1990). Risulta impor-tante evidenziare al riguardo la prevalente ori-gine antropica dell’ossido nitroso (tende pur-troppo ad incrementare annualmente dello0,25%) dal momento che esso deriva per alme-no il 20% delle emissioni totali dalla denitrifi-cazione dei fertilizzanti azotati distribuiti inagricoltura (Patterson, 1995). Indipendentemen-te dalle cause di questo incremento termico èevidente che tale progressiva tendenza porteràdei marcati cambiamenti nelle fitocenosi spon-tanee dal momento che questo parametro risul-ta di cruciale importanza nel favorire, od osta-colare, lo sviluppo delle singole specie. Il ritmodi crescita di ogni malerba è infatti fortementeinfluenzato dalla temperatura in quanto essapuò risultare più o meno vicina agli ottimi ter-mici nei quali risulta massima la fotosintesi clo-rofilliana (Benvenuti et al., 1994). Un cambia-mento apparentemente irrilevante risulta inve-ce in grado di mutare gli equilibri competitivi(Patterson, 1995), sia malerba-malerba che ma-lerba-coltura, causando così l’affermazione del-le specie meglio in grado di esaltare la crescitain concomitanza con tali modificazione termi-che. Ne consegue come le specie definibili più“macroterme” siano quelle destinate ad incre-

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mentare la propria incidenza nelle varie asso-ciazioni floristiche presenti nell’agroecosistema.Le varie specie appartenenti al genere Ama-ranthus (A. retroflexus, A. hybridus, A. blitoides,A. graecizans, etc.), possono rappresentare unchiaro esempio di malerbe destinate ad aumen-tare la loro invasività in funzione della loro spic-cata risposta fisiologica alle elevate temperatu-re (Selinioti et al., 1985). Anche le interazionicompetitive coltura-malerba sono destinate amodificarsi in seguito all’aumento della tempe-ratura e solitamente ciò a viene a scapito dellaproduttività della coltura (Wright et al., 1999;Tungate et al., 2007). Risulta inoltre opportunosottolineare che, in generale, le specie macro-terme hanno anche il vantaggio di dar luogo aflussi di emergenza primaverili in epoca preco-ce dal momento che il verificarsi delle soglie mi-nime richieste per la germinazione (Benvenutie Macchia, 1993) risultano meno limitanti. È cu-rioso notare che l’incremento termico dei pe-riodi autunno-invernali, unitamente alle condi-zioni solitamente umide del suolo, potrebbecomportare un potenziale “handicap” per alcu-ne malerbe in quanto in grado di favorire ma-lattie fungine dei semi interrati. Ciò sembra es-sere tuttavia escluso a causa della spiccata ru-sticità dei semi (Leishman et al., 2000) spessodotati di apposite sostanze allelopatiche sul te-gumento come dimostrato in Abutilon theoph-rasti (Paszkowski e Kremer, 1988). Al contrario,un ulteriore vantaggio consegnato a molte ma-lerbe dagli incrementi termici si verifica in epo-ca autunnale da momento che le ormai tipichetemperature miti di questi periodi tendono arallentare la loro senescenza consentendo cosìdi allungarne il ciclo e, conseguentemente, la re-lativa produzione di seme come rilevato in di-verse malerbe (Benvenuti et al., 2007). È statoinfatti osservato in varie parti d’Europa che lastagione di crescita di molte specie a ciclo pri-maverile-estivo si sia ampliata consentendo unamaggiore crescita stagionale soprattutto per lespecie a sviluppo spiccatamente indeterminato(Menzel et al., 1999). Tale mutamento è statoosservato soprattutto alle maggiori latitudini do-ve la temperatura risulta un fattore maggior-mente limitante (Myneni, 1997) e conseguente-mente possono completare il ciclo biologico an-che specie più esigenti in termini di “somme ter-miche” necessarie al completamento della faseriproduttiva. Alle minori latitudini tale amplia-

mento del termoperiodo sembra destinato nontanto a modificare il numero di specie in gradodi completare il proprio ciclo biologico, quantoad aumentare quelle specie in grado di prolun-gare la fioritura e disseminazione in virtù delrelativo “opportunismo” ecologico. Un chiaroesempio è fornito dalla Datura stramonium, spe-cie che tende a protrarre il periodo di fioriturafino all’arrivo delle prime gelate. Non è inoltreescluso che alcune specie a ciclo breve possanomostrare più generazioni all’anno dal momentoche il loro “range” di crescita risulta ampliatosia nei periodi primaverili che autunnali. Le po-polazioni di seconda generazione, di malerbe aciclo estivo, potrebbero persino infestare le pri-me fasi della successiva coltura autunno-verni-na come nel caso del frumento. Durante i de-corsi autunnali miti sono infatti in crescita i ca-si di infestazioni di specie macroterme nella col-tura di frumento nelle prime fasi di crescita, fe-nomeno che al momento risulta avere scarsa im-portanza agronomica dal momento che le pri-me gelate sono sufficienti ad eliminare tali in-festazioni. Se tuttavia tali eventi dovessero ra-refarsi, scomparire, o comunque ritardare, l’in-terferenza con la coltura non sarebbe più tra-scurabile e sarebbero quindi necessari interven-ti mirati alla gestione di tale infestazione.

Oltre che una maggiore propagazione per se-me l’aumento della temperatura potrebbe favo-rire anche la propagazione vegetativa. Infatti gliinverni miti tendono a rendere perenni speciesolitamente annuali, come nel caso di alcunespecie appartenenti alla famiglia delle Solana-cee, che terminano il loro ciclo biologico in con-comitanza con le prime gelate invernali. Ciò èstato già notato in “isole di calore” di ecosiste-mi urbani nei quali il Solanum nigrum, solita-mente a ciclo annuale, tende a divenire peren-ne (Benvenuti, 2004). È stato infatti mostratoche negli ultimi decenni si è drasticamente ri-dotta la frequenza delle gelate invernali anchein aree dell’Europa centrale (Walther et al.,2002) e ciò potrebbe portare ad un incrementodella capacità di sopravvivenza di molte speciecome già osservato in Canada nel caso di alcu-ne colture foraggere (Bélanger et al., 2002). Siritiene quindi probabile che tale fenomeno pos-sa estendersi anche alle comunità vegetali del-l’agroecosistema. Comunque l’incremento ter-mico non risulta importante solamente nell’af-fermazione ecologica delle specie più esigenti

Benvenuti S.

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ma anche nella riduzione delle specie definibili“microterme” in quanto adattatesi a trascorre-re alcune fasi di sviluppo in condizioni di freddo.Ne consegue che tali specie possano andare in-contro a rarefazione, almeno nelle aree più a suddel Bacino mediterraneo, e risultare circoscrittesia alle maggiori latitudini nord europee che allemaggiori altitudini delle zone montane. Alcunespecie a ciclo biologico autunno-invernale hannotalvolta persino esigenze, più o meno marcate, di“vernalizzazione” e cioè necessitano di periodifreddi. Ciò in quanto questi ultimi inducono ilpassaggio dalla fase vegetativa a quella riprodut-tiva (Michaels e Amasino, 2000). Esempi di spe-cie con probabili problemi di “viraggio” (da fasevegetativa a riproduttiva) sono dati da alcune gra-minacee microterme come l’Alopecurus myosu-roides (Chavel et al., 2002) od appartenenti ad igeneri Bromus (Meyer, 2004) ed Avena (Dar-mency e Aujas, 1986).

L’ingresso di specie esotiche pervenute daambienti più caldi, essenzialmente dal sud delBacino mediterraneo, è comunque il più proba-bile e negativo dei fenomeni biologici derivan-ti dall’incremento della temperatura (Cronk,1995) aspetto che sarà più ampiamente discus-so nei successivi paragrafi.

De-sincronizzazione termoperiodo-fotoperiodo

Il fotoperiodismo è il ben noto fenomeno at-traverso il quale le piante riescono a percepirela stagione a loro ecologicamente idonea perpoter passare dalla fase vegetativa a quella ri-produttiva (Salisbury, 1961) e ciò avviene me-diante vari recettori tra cui il più importante èil fitocromo (Lin, 2000). Tale fenomeno si è evo-luto nel tempo in modo sostanzialmente sincro-nizzato al termoperiodo consentendo alle variespecie di “scegliere” la lunghezza del giorno me-glio correlata con le proprie esigenze di tempe-ratura. Gli incrementi termici prima esaminatihanno però creato una sorta di “confusione”ecologica (McCarty, 2001) con conseguenze sianel regno animale che vegetale (Wuethrich eHow, 2000) in quanto l’andamento termico ten-de a risultare sempre meno coincidente con ladurata del periodo di luce. Ne consegue che neiperiodi futuri possa verificarsi per molte speciedi malerbe una sorta di “pressione di selezione”che potrà indurre l’abbandono delle pregresse

esigenze fotoperiodiche (longidiurne o brevi-diurne) verso l’indifferenza fotoperiodica (spe-cie neutrodiurne). In altre parole le varie spe-cie sembrano destinate ad essere dipendenti so-lamente dal termoperiodo mostrando un’attivitàdi crescita e riproduzione esclusivamente in fun-zione delle disponibilità termiche. Già oggi mol-te specie di brassicacee come Sinapis arvensis,Raphanus raphanistrum, Myagrum perfoliatume Rapistrum rugosum, un tempo sostanzialmen-te longidiurne, tendono ormai a fiorire già in au-tunno nei casi di decorsi autunnali miti. In pra-tica il termoperiodo tende ormai ad avere unprevalente od assoluto controllo della fiorituradi molte specie spontanee analogamente aquanto osservato in colture sia arboree che er-bacee (Chmielewski et al., 2004). Ciò potrebbenon sembrare un problema ecologico ma inrealtà risulta prevedibile che in futuro tale fe-nomeno possa favorire quelle sole specie chenon necessitano di alcun mutualismo con la fau-na circostante come nei casi di disseminazionezoocora (Benvenuti, 2007) e/o della impollina-zione entomofila (Benvenuti e Raspi, 2007). Ta-le “disordine” ecologico nella de-sincronizzazio-ne tra fotoperiodo e termoperiodo è comunqueun fenomeno generale ed è sta mostrando i suoieffetti in varie parti del mondo (Fuhrer, 2003)compresi gli ecosistemi mediterranei (Peñuelaset al., 2000). I fenomeni di maggiore rilevanzaecologica riguardano il Regno vegetale in ter-mini di epoca di fioritura e maturazione dei se-mi mentre nel Regno animale si rilevano feno-meni di alterati periodi di migrazione e ripro-duzione. In pratica sembra delinearsi un “ideo-tipo” di malerba che tende ad acquisire un at-teggiamento definibile “opportunistico” nei con-fronti delle disponibilità termiche riuscendo ariprodursi anche in occasionali inverni miti in-dipendentemente dalle condizioni fotoperiodi-che. Si potrebbe riassumere tale fenomeno co-me tendenza ad abbandonare i rigidi schemi didinamica fenologica favorendo invece l’aumen-to della plasticità di adattamento alle mutevolisituazioni termiche come già osservato in ecosi-stemi naturali (Parmesan, 2006).

Aumento della CO2

Durante l’ultimo secolo la concentrazione dellaCO2 atmosferica è progressivamente aumentata

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da circa 295 ppm a più di 360 ppm (Osborne etal., 2000). È bene chiarire che l’anidride carbo-nica non è certamente un fattore di stress maal contrario una disponibilità limitante per lacrescita dei vegetali. Ne consegue che tale au-mento di anidride carbonica è destinato ad au-mentare il tasso di crescita sia delle malerbe chedelle relative colture. In questo caso il quesitodi cruciale importanza è: quali specie troveran-no vantaggio in termini di competitività? Inquesto ambito risulta di fondamentale impor-tanza il tipo di “pathway” fotosintetico in quan-to è ben noto che, salvo eccezioni, che non è ilcaso di riportare in questo contesto, sia coltureche malerbe sono suddivise in due categorie: C3e C4. Senza entrare nei dettagli fisiologici diquesti due raggruppamenti risulta di fonda-mentale importanza sottolineare che la lorocompetitività risulta diversamente influenzatadalle condizioni ambientali presenti (Roush eRadosevich, 1985). Tra queste ultime gioca unruolo cruciale proprio la concentrazione di CO2che avvantaggia le C4 solamente allorquando es-sa risulta limitante. Ciò avviene soprattutto nel-la concomitante presenza di elevate temperatu-re e scarse risorse idriche. Conseguentemente ilprogressivo aumento dell’anidride carbonicatende al contrario a spostare le interazioni com-petitive a vantaggio delle specie C3 la cui effi-cienza energetica risulta maggiore. Ne consegueche colture C4 come mais (Zea maize L.) e sor-go (Sorghum vulgare L.) possono perdere la lo-ro competitività nei confronti delle loro più te-mute malerbe C3 come ad esempio Abutilontheophrasti, Datura stramonium, Chenopodiumalbum e Xanthium strumarium(Ziska, 2001a). Sperimentazioni effettuate al ri-guardo in ambiente controllato, hanno dimo-strato che molte malerbe risultano più compe-titive con le colture in presenza di elevate con-centrazioni di anidride carbonica (Ziska, 2003a).Va inoltre sottolineato che alcune malerbe C4,come nel caso di Amaranthus retroflexus (Ziskae Bunce, 1997), sono avvantaggiate nelle inte-razioni competitive con altre specie C4 (mais esorgo) nei casi di aumento della concentrazio-ne di anidride carbonica. In ogni caso l’aumen-to della CO2 sembra destinato a divenire un im-portante fattore in grado di influenzare l’evolu-zione floristica nei futuri agroecosistemi (Ziska,2003b) e ciò appare avvantaggiare in ogni casole malerbe (Ziska e George, 2004). Risulta op-

portuno evidenziare che tale aumento di CO2rappresenta una sorta di inversione di tenden-za evolutiva dal momento che le specie C4 si so-no evolute successivamente alle C3 (Ehleringere Monson, 1993) in quanto la progressiva dimi-nuzione dell’anidride carbonica, avvenuta du-rante le varie ere geologiche (periodi di accu-mulo delle riserve di carbone, metano e petro-lio nel sottosuolo, Monnin et al., 2001), rappre-sentava una spinta evolutiva verso una maggio-re tolleranza a scarse disponibilità di CO2. Ilprogressivo rilascio di tale magazzino di carbo-nio fossile tende quindi a ripristinare antichecondizioni di anidride carbonica che non pre-miano affatto le successive spinte evolutive ten-denti ad ottimizzare la fotosintesi in condizionidi carenza.

Oltre al sopra esaminato cambiamento degliequilibri competitivi tra le varie specie, è statoosservato che l’aumento dell’anidride carbonicatende ad accelerare il passaggio da attività vege-tativa a riproduttiva (Navas et al., 1977) ed, al-meno nel caso dell’Avena selvatica (O’Donnell eAdkins, 2001) ed altre graminecee (Edwards etal., 2002), anche ad incrementare il numero di se-mi prodotti. Se ciò fosse confermato come fe-nomeno generale tra le varie malerbe esso ten-derebbe a favorire una delle più importanti stra-tegie di sopravvivenza: la ruderalità. Con taletermine (Grime, 1977) si intende infatti la rapi-dità con la quale molte specie riescono a pro-durre elevati quantitativi di seme già dopo po-che settimane dalla loro emergenza dal suolo.Risulta opportuno sottolineare al riguardo chetale ruderalità risulta una caratteristica già pos-seduta da molte delle più temute malerbe inquanto costrette a riprodursi prima dei vari di-sturbi agronomici (lavorazioni, diserbo, raccolta,etc.) tipicamente effettuati nell’agroecosistema.

Diminuzione piogge e desertificazione

Il livello delle precipitazioni meteoriche si sonoridotte negli ultimi anni pressoché in tutte learee mediterranee (Le Houérou, 1996), com-prese quelle italiane (Ferrara, 2003), con cre-scenti problematiche di desertificazione soprat-tutto nelle zone più meridionali. L’impatto sul-la vegetazione di tale fenomeno risulta partico-larmente negativo non solamente per la ridu-zione complessiva della piovosità annua ma an-

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che per il fatto che la sua distribuzione risultaconcentrata in quei pochi eventi che tendonospesso a creare problemi di erosione piuttostoche quella infiltrazione in falda che renderebbepoi disponibile la risorsa idrica in periodi pro-lungati. Ne consegue che le disponibilità idrichedel suolo sono progressivamente limitanti conla conseguenza di una spinta floristico-evoluti-va verso l’aumento di quelle specie xerofite cherisultano più adatte a sopravvivere in condizio-ni di stress idrico (Turner, 2004). In questo ca-so la siccità tende a selezionare specie e/o bio-tipi in grado di limitare l’azione negativa dellostress idrico attraverso adattamenti fisiologici(osmoregolazione, conduttanza stomatica) e/omorfologici (cerosità, tomentosità, spinescenza,ecc.) in grado di poter superare periodi avversimantenendo poi una elevata competitività incondizioni di meno marcata carenza (Morgan,1984; Fowler, 1986).

Sia nel caso di colture a ciclo primaverile-estivo (Lososová et al., 2004) che autunno-ver-nino (Espigares e Peco, 1995) vengono spessosegnalate in aumento proprio le specie infe-stanti meglio in grado di limitare i danni biolo-gici dello stress idrico tanto che questo cambia-mento floristico è segnalato come uno degliaspetti agronomici più significativi dei recenticambiamenti climatici (Olesen e Bindi, 2002).

Per quanto in molti agroecosistemi il deficitidrico risulta rimediabile con l’irrigazione, è bennoto che ciò non sempre risulta possibile o perla mancanza della sua disponibilità e/o dell’e-conomicità di tale intervento. Ne consegue chele interazioni coltura-malerba in condizioni distress idrico risultano di estrema importanza intermini di produttività (Munger et al., 1987). Ri-sulta cruciale al riguardo la cosiddetta “effi-cienza nell’uso dell’acqua” che è una caratteri-stica peculiare di ogni specie. Contrariamente aquanto riportato sull’aumento della CO2 (checomporta vantaggi competitivi per le specie C3),in questo caso, sono le specie a ciclo fotosinte-tico C4 (ad esempio Cynodon dactilon, Sorghumhalepense, Amaranthus retroflexus), a risultarepiù efficienti in condizioni di carenza idrica(Patterson, 1985). È chiaro quindi che questedue contrapposte tendenze climatiche tendonoad avvantaggiare l’una o l’altra delle due cate-gorie di piante a seconda della prevalente ten-denza futura.

Tuttavia, l’effetto della siccità nei confrontidelle fitocenosi spontanee non si ripercuote so-lamente a vantaggio delle specie più “stress tol-leranti” ma anche verso quelle più idonee allacolonizzazione nello spazio di aree ciclicamen-te sottoposte a periodi di forte carenza idrica.In altre parole sono destinate ad incrementareanche le specie in grado di poter disseminareanche in aree ormai pressoché prive di vegeta-zione a causa della prolungata siccità. Una del-le famiglie botaniche che appare in grado di av-vantaggiarsi della crescente siccità appare esse-re quella delle asteraceae sia in quanto specia-lizzate per la colonizzazione di aree degradate(Sakai et al., 2001) che a causa dei loro mecca-nismi di disseminazione anemocora o zoocora(Benvenuti, 2007). Sono infatti sempre più dif-fuse nei vari agroecosistemi molte asteracee co-me ad esempio Conyza canadensis, Aster squa-matus, Cirsium arvense, Sonchus oleraceus, Se-necio vulgaris e Xanthium strumarium. Risultainoltre ipotizzabile un loro drastico incrementonei pascoli e prati-pascoli del sud Europa inquanto le sempre più scarse produzioni forag-gere dovuta dalla crescente siccità possono in-durre un eccessivo pascolamento (Ibáñez et al.,2007) in grado esercitare una drastica “pressio-ne di selezione” sulle fitocenosi presenti. In que-sto caso sono destinate ad aumentare le speciemeno od affatto appetite. Conseguentemente,appare logico ritenere che siano avvantaggiatedal crescente stress idrico le specie infestantiche risultano indesiderate soprattutto a causadella loro marcata spinescenza come ad esem-pio nei casi di Xanthium spinosum, Tribulus ter-restris e Sylibum marianum.

Comunque, indipendentemente dal tipo dicoltura effettuata, le specie più idonee a man-tenere elevate popolazioni nelle fitocenosi pre-senti sono quelle che riescono ad avvantaggiar-si, in modo opportunistico, delle fluttuanti di-sponibilità idriche (Davis et al., 2000) come nelcaso di molte graminacee annuali che comple-tano il loro ciclo biologico prima dell’arrivo del-la siccità estiva (Naveh, 1975).

Resilienza ad eventi estremi

Nonostante la sopra esaminata tendenza clima-tica, orientata verso incrementi termici e ridu-zione delle precipitazioni meteoriche, sono tut-

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tavia sempre maggiori i casi di eventi estremiche tendono a contraddire la direzione climati-ca prevalente con fenomeni opposti (ad esem-pio gelate, inondazioni, ecc.) con effetti talvoltacatastrofici sugli ecosistemi (Wright e Erickson,2003). Sempre più frequenti sono infatti i re-pentini abbassamenti termici talvolta concomi-tanti ad eventi piovosi straordinari spesso asso-ciati con eccezionale ventosità (Easterling et al.,2000). In questi casi risultano fondamentali leattitudini di resilienza della flora spontanea intermini di potenzialità di recupero in seguito acondizioni critiche di opposta natura come nelcaso di gelate seguite da elevate temperature op-pure periodi di siccità seguiti da stress anossicidovuti a prolungati periodi di sommersione idri-ca (Parmesan et al., 2000). Riguardo a questo ul-timo caso sono infatti crescenti i casi di danni dainondazioni verificatisi nelle varie parti del mon-do (Milly et al., 2002). In generale, indipenden-temente dalla tipologia dello stress verificatosi, lemalerbe sono quasi sempre più resilienti rispet-to alla coltura in quanto più rustiche. Va infattisottolineato che mentre le fitocenosi spontaneesi sono evolute nel tempo selezionando le carat-teristiche di rusticità, nelle colture questi carat-teri sono stati spesso “sacrificati” a vantaggio del-la produttività. Sono infatti frequenti le speri-mentazioni che hanno dimostrato come l’intera-zione coltura-malerba tenda ad avvantaggiarequesta ultima in condizioni di stress sia da ele-vate (McDonald et al., 2004) che basse tempera-ture (Kropf, 1988). Tale maggiore rusticità dellemalerbe è stata dimostrata anche in termini ditolleranza allo stress da anossia (Vartapetian eJackson, 1997), indotto da eventi piovosi ecce-zionali in quanto la maggiore variabilità geneti-ca delle malerbe consente di poter selezionaregenotipi idonei al superamento di tale stress. Neè un chiaro esempio l’Echinochloa crus-galli cheevidenzia popolazioni adattatesi a persistere incolture di mais gestito in “asciutta” mentre al-tre si sono evolute per infestare la coltura delriso in completa e prolungata sommersione(Barrett e Wilson, 1983).

Va inoltre ricordato al proposito che tale ru-sticità nella tolleranza a periodi di carenza diossigeno tende a predisporre alcune specie aduna maggiore tolleranza a quelle patologie a lo-ro spesso associate (Schoeneweiss, 1975) con-sentendo così una doppia resilienza sia di tipoabiotica che biotica.

Considerazioni simili possono essere esteseanche ai danni da quella ventosità eccezionaleche molto spesso accompagna gli eventi di ec-cezionale piovosità. Infatti, per quanto le coltu-re siano state spesso migliorate geneticamenteanche in termini di aerodinamica, e quindi tol-leranza al vento (Farquara et al., 2000), apparechiaro che tale tolleranza non può essere para-gonata a malerbe decisamente poco od affattodanneggiabili a causa del loro habitus prostra-to. Pur non essendo facile generalizzare qualispecie siano più adatte a superare eventi clima-tici estremi le graminacee ne sono risultate par-ticolarmente tolleranti (Milbau et al., 2005), so-prattutto se in grado di propagarsi anche da ri-zoma (Buckland et al., 2001). Ciò deriva, pro-babilmente, dalla loro spiccata attitudine a ri-sultare resilienti ai tipici disturbi ecologici do-vuti al pascolamento (Lavorel, 1999).

Salinizzazione del suolo

Il fatto che vi siano terreni salini in varie partidel mondo non è certo una novità né tanto me-no ciò è da attribuirsi ai recenti cambiamenticlimatici. Tuttavia, i crescenti problemi di sali-nità che si verificano su molte aree agricole so-no indirettamente indotti dai sempre più fre-quenti problemi di siccità. L’eccessivo sfrutta-mento di falde freatiche, utilizzate per l’irriga-zione delle colture, tendono spesso a richiama-re acque ad elevata salinità sodica (Williams,2001) e ciò accade, ovviamente, nelle aree lito-ranee (Cucci et al., 2003). Ad incrementare ta-le tendenza alla salinizzazione va a sommarsi illento ma continuo innalzamento del livello delmare stimato intorno agli 0,2 mm annui (Ferra-ra, 2003) a causa dello scioglimento dei ghiac-ciai nell’emisfero artico (Cavalieri et al., 1997).Se tale tendenza sarà confermata nei periodi fu-turi è chiaro che pressoché tutte le aree defini-te di “bonifica” saranno sottoposte ad un lentoma costante incremento della salinità dal mo-mento che il dislivello tra il cosiddetto “francodi bonifica” ed il livello del mare sarà destina-to a ridursi fino alla teoricamente possibile in-versione della direzione di flusso idrico. Lostress salino è un forte fattore di selezione flo-ristica nelle comunità di malerbe dell’agroeco-sistema. Le specie tolleranti tendono infatti atrasportare poco od affatto gli ioni Na+ e Cl-

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verso le foglie con meccanismi diversificati(Zhu, 2001) ma solitamente mediante la loro“compartimentalizzazione” nei vacuoli per ri-durre od eliminare la loro tossicità (Muns,2002). Molte malerbe, definite alotolleranti pro-prio per la loro marcata tolleranza allo stresssalino, sono quindi destinate ad aumentare nel-le aree nelle quali la crescente siccità induce adun progressivo incremento dei volumi idrici sot-tratti dalle falde freatiche come già osservato inalcuni ambienti (Ungar, 2001). Quali saranno lespecie in grado di aumentare la loro incidenzanelle fitocenosi in virtù della loro alotolleranza?Sicuramente la Portulaca oleracea, già amplia-mente diffusa in molti ambienti agricoli, appa-re l’“ideotipo” di malerba in grado di superarebrillantemente lo stress da salinità che è poi fi-siologicamente molto simile a quello indottodallo stress idrico (Munns, 2002). Le sue fogliecerose in grado di ridurre le perdite idriche, uni-tamente alle elevate capacità di osmoregolazio-ne (Zimmermann, 1976) e ruderalità (dissemi-nazione rapida ed elevata), rendono questa spe-cie particolarmente adatta a crescere in terreniad elevata salinità tanto che questa specie vie-ne persino coltivata come strategia agronomicaper la de-salinizzazione del suolo (Grieve e Sua-rez, 1997). Una spiccata attitudine a tollerare lasalinità è inoltre mostrata da gran parte di ma-lerbe appartenenti alla famiglia botanica delleChenopodiaceae, come nel caso di Atriplex pro-strata, Chenopodium album (Reimann, 1992) eKockia prostrata (Francois, 1976). Queste speciesono in grado di germinare ed emergere dalsuolo anche in situazioni di forte stress osmoti-co (Steppuhn e Wall, 1993). Una ulteriore fa-miglia botanica destinata ad incrementare in ri-sposta all’aumento della salinizzazione del suo-lo sono inoltre molte specie di graminacee co-me ad esempio Echinochloa crus galli (Yama-moto et al., 2003) e Setaria viridis (Yenghoo etal., 2004) sia per la loro innata predisposizionea tollerare tale stress che per l’ampia base ge-netica in grado di co-evolvere tale attitudine infunzione della crescente esigenza di stress-tol-leranza.

Incremento di UV-B

L’assottigliamento dello spessore di ozono nel-la stratosfera terrestre, dovuto a cause antropo-

geniche, ha comportato un incremento del li-vello di raggi ultravioletti (in particolare gli UV-B, lunghezze d’onda 280-315 nm) che raggiun-gono la crosta terrestre (Ashmore e Bell, 1991).Tale relazione tra aumento di UV-B e riduzio-ne dello strato di ozono è dovuta al fatto chequesto ultimo è responsabile della “filtrazione”della luce solare incidente. Non è facile tradur-re numericamente l’aumento di UV-B dal mo-mento che esso varia sia nello spazio che neltempo anche se tale problematica è sentita so-prattutto alle elevate latitudini durante i perio-di estivi (Mandronich et al., 1998). Tale feno-meno è ritenuto in grado di modificare le inte-razioni biologiche tra i vari organismi vegetalied animali sia di ecosistemi naturali (Caldwellet al., 1995) che dell’agroecosistema (Ballaré etal., 1992) anche per il fatto che talvolta l’incre-mento di UV-B tende ad interagire con altri pa-rametri climatici (Caldwell et al., 2007). Tutta-via, tali modificazioni dei rapporti ecologici trai vari organismi viventi è più una problematicadel futuro che del presente, dal momento che,alcune sperimentazioni effettuate in campo,hanno evidenziato che fenomeni significativi so-no osservabili solamente con simulazioni di dra-stici incrementi di UV-B (Searles et al., 2001).È comunque un aspetto che sta destando uncrescente interesse scientifico e ciò è testimo-niato da una piuttosto ampia letteratura sia intermini di fisiologia dello stress da UV-B chedella sua tollerabilità da parte sia delle variecolture che delle rispettive malerbe. È stato ri-levato che c’è un ampia variabilità nella suscet-tibilità ai danni che gli UV-B determinano sul-la fotosintesi, in particolare sul fotosistema II esulla funzionalità dei tilacoidi (Björn et al.,1999). Nella fisiologia della tolleranza a questostress risulta di cruciale importanza la capacitàdella pianta di sintetizzare pigmenti che assor-bono gli UV-B, come nel caso dei flavonoidi edelle antocianine, in quanto essi preservano laclorofilla e gli acidi nucleici da fenomeni ossi-dativi (Treutter, 2006). È curioso notare che ilprevalente ruolo ecologico dei flavonoidi, defi-niti metaboliti secondari (Bennett e Wallsgrove,1994), non è sempre quello di filtrare gli UV-Bdella luce incidente ma spesso di proteggere lapianta dagli attacchi di insetti (Salloum e Isman,1989) o per dar luogo ad interferenze allelopa-tiche con la vegetazione circostante (Macías etal., 2007). Fanno eccezione le specie tipicamen-

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te presenti ad elevate latitudini ed altitudini che,al contrario si sono evolute soprattutto per cre-scere in ambienti ricchi di UV-B (Barnes et al.,1987).

Un ulteriore fattore di tolleranza è dato dal-le cere epi-cuticolari (Day et al., 1992) in gradodi ridurre fortemente la penetrazione degli UV-B all’interno dei tessuti fogliari. I sintomi di do-si sub-letali si manifestano con la riduzione del-la fotosintesi, dello sviluppo fogliare e, conse-guentemente, della crescita in biomassa. In ter-mini generali le monocotiledoni sono risultatepiù sensibili al danno da UV-B rispetto alle di-cotiledoni (Barnes et al., 1990), nonostante cheanche tra queste ultime siano stati evidenziaticasi di spiccata intolleranza come nel caso del-la Stellaria media (Dai et al., 2004) specie mi-croterma ampiamente diffusa in molte colture aciclo autunno-vernino. In termini generali, spe-rimentazioni condotte su di un gran numero dispecie hanno evidenziato che le malerbe piùdanneggiate da esposizioni agli UV-B sonoquelle caratterizzate da elevati ritmi di crescita(Smith et al., 2000). Ne consegue come sottoquesto profilo siano destinate ad avvantaggiar-si della pressione selettiva degli UV-B soprat-tutto le specie a lenta crescita ed in grado diprodurre pigmenti protettivi (flavonoidi, anto-cianine, ecc.). Sovrapponendo i due sopraccita-ti requisiti appaiono avvantaggiate specie ap-partenenti alla famiglia botanica delle asteraceecome ad esempio di Senecio vulgaris, Astersquamatus, Conyza canadensis, Sonchus asper ePicris echioides specie già ampiamente diffusein ecosistemi antropizzati (Benvenuti, 2004).

Indipendentemente dai mutamenti delle as-sociazioni floristiche di potenziale futura evolu-zione risulta di ancora maggiore importanza sta-bilire chi tra coltura e malerbe risulta più dan-neggiato da questo crescente fattore di stress.Come purtroppo già precedentemente discusso,anche in questo caso, sono le malerbe che ri-sultano meno vulnerabili in virtù della loro piùampia base genetica sia rispetto a colture mo-nocotiledoni (Yuan et al., 1999) che dicotiledo-ni (Furness et al., 2005).

Invasività specie esotiche

Nell’era della globalizzazione sono in netta cre-scita i casi di invasività di specie non autoctone

ma introdotte accidentalmente dall’uomo(Meyerson e Mooney, 2007) attraverso queimeccanismi di antropocoria che sono le preva-lenti cause di disseminazione delle malerbe nel-l’agroecosistema (Benvenuti, 2007). Nonostantequesta accidentale introduzione, sono poche lespecie in grado di affrancarsi nel nuovo am-biente ed in questo ambito sono talvolta pro-prio i cambiamenti climatici a favorire, talvolta,il successo ecologico delle nuove specie, e ciòaccade non solamente del Regno vegetale maanche animale (Vitousek et al., 1996). Le mag-giori possibilità di affrancamento derivano dalfatto che esse spesso provengono da ambientisimili alle nuove condizioni istauratesi (Walther,2000). Le specie esotiche tendono quindi sem-pre più spesso a prevalere sulla flora autoctona(Thompson et al., 1995) in quanto evolutesi insituazioni simili alle nuove condizioni climatichesoprattutto sotto un profilo di stress-tolleranza(Mitchell et al., 2006). Conseguentemente, intermini generali, si può affermare che i cam-biamenti climatici possono creare i presuppostiper il successo ecologico di specie esotiche(Dukes e Mooney, 1999). Ad esempio, alcunegraminacee evolutesi in ecosistemi caldo-ariditendono a risultare molto invasive in aree a ri-schio di desertificazione in quanto particolar-mente adatte a crescere in condizioni difficili equindi meglio in grado di risultare resilienti aidisturbi ecologici di tipo biotico (Willis et al.,1999) od abiotico (D’Antonio e Vitousek, 1992).

Tale fenomeno è ancora più sentito nell’a-groecosistema dal momento che i piani di con-trollo chimico dell’infestazione difficilmente ri-sultano attivi contro queste nuove malerbe. So-no infatti sempre più frequenti problematicheagronomiche legate al difficile controllo dellacosiddetta “flora di sostituzione” che spesso ècostituita da specie mai segnalate (Dinelli eBenvenuti, 2003) e sottoposte ad un drastico au-mento nei casi di una tardiva individuazionedelle strategie agronomiche mirate al loro con-tenimento. Spesso l’aggressività delle specie eso-tiche risulta ampliata dalle loro spiccate carat-teristiche allelopatiche (Bardsley e Edwards-Jo-nes, 2007) tanto che tale caratteristica risultaspesso un importante parametro per poter pre-vederne il potenziale di invasività (Maillet e Lo-pez-Garcia, 2000). Talvolta le condizioni distress tendono persino ad esaltare le caratteri-stiche allelopatiche come accade in Centaurea

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diffusa (Hierro e Callaway, 2003) e Tribulus ter-restris (El-Ghareeb, 1991) che risultano partico-larmente aggressive soprattutto se sottoposte aforte stress idrico. E’ stato dimostrato ad esem-pio che la Centaurea maculosa tende ad inibirela vegetazione circostante mediante essudati ra-dicali contenenti alcune fitotossine della cate-goria chimica delle catechine (Bais et al., 2003).Risulta sorprendente che questa specie Europearisulta molto più aggressiva nel Nord Americadove tende a formare una rizosfera contenenteil doppio della concentrazione di catechine tipi-camente essudate nell’ambiente di origine. Al-tra asteracea come l’Anthemis cotula risultaanalogamente invasiva grazie all’azione biologi-ca dei suoi essudati radicali nei confronti dellagerminazione dei semi delle specie circostanti(Allaie et al., 2006). Anche in questo caso nel-le condizioni ecologiche dell’ambiente Asiatico,dove risulta accidentalmente introdotto da al-cuni decenni, mostra una maggiore attività alle-lopatica rispetto a quanto mostrato negli am-bienti mediterranei dai quali proviene. In gene-rale ciò non è solamente un problema di tipoagronomico dovuto al loro difficile controllo(Di Tomaso, 2000), ma anche biologico in ter-mini di biodiversità (Callaway e Aschehoug,2000; Ridenour e Callaway, 2001) dal momentoche le specie autoctone sono spesso sostituite daquelle esotiche a causa della loro estrema inva-sività. Sono diverse infatti le segnalazioni di spe-cie che si sono rarefatte od estinte proprio perl’occupazione di determinate “nicchie ecologi-che” da parte di specie esotiche introdotte(Henderson et al., 2006). In questo ambito, l’ag-gressività delle specie introdotte risulta favoritadalla tipologia dei disturbi agronomici esercita-ti in quanto, se eccessivi (Hobbs, 1991), posso-no minare la naturale resilienza delle fitoceno-si autoctone favorendo così l’occupazione della“nicchia ecologica” da parte della flora di sosti-tuzione di origine esotica (Kennedy et al., 2002).

Aumento specie parassite

Alcune delle malerbe più temute al mondo so-no specie totalmente o parzialmente parassite(Joel, 2000). Tra queste ultime vi sono due spe-cie, appartenenti al genere Striga (S. hermonthi-ca e S. asiatica) che sono diffuse rispettivamen-te nel continente africano ed in Asia (Oswald e

Ranson, 2001). Esse invadono diverse coltureappartenenti alla famiglia delle graminacee co-me il sorgo (Sorghum vulgare), il mais (Zeamays) e, soprattutto, la canna da zucchero (Sac-charum officinarum). Il crescente verificarsi diestati calde e prolungate dovute alla persisten-za di masse d’aria calde di origine africana (Ma-racchi, 2000) potrebbero favorire l’affranca-mento di accidentali introduzioni di queste spe-cie anche nelle aree dell’Europa mediterraneasoprattutto nelle regioni più meridionali. La suadinamica di parassitizzazione e sopravvivenzadipende infatti sia dalle elevate temperature(Dawoud e Sauerborn, 1994) che dallo stressidrico (Taylor et al., 1996). Tale ingresso sareb-be particolarmente nocivo non solamente comeimpatto sull’equilibrio delle pre-esistenti comu-nità di malerbe (Press e Phoenix, 2005) ma, so-prattutto, per i danni economici che tali speciepossono comportare sulle colture. Inoltre, a cau-sa della straordinaria produzione di semi estre-mamente longevi queste specie risultano parti-colarmente persistenti nel suolo e difficili daeradicare in quanto i semi interrati germinanosolamente quando percepiscono gli essudati ra-dicali della pianta ospite (Musselman, 1980). Neconsegue che una volta riuscita a disseminarequesta specie tende a mantenere a lungo la suanocività per le colture che saranno effettuateper diversi decenni (Mohamed et al., 1998). Èstato calcolato in USA che un aumento delletemperature medie di 3 °C consentirebbe di al-largare il suo areale geografico dal Sud Caroli-na fino all’area del “Corn Belt” comportandoingenti danni economici alla coltura del mais(Ziska, 2001b). L’ingresso di tali malerbe nellearee cerealicole del sud Italia risulterebbe diparticolare nocività dal momento che è stato re-centemente dimostrato in laboratorio che essaè potenzialmente in grado di parassitizzare per-sino il frumento (Vasey et al., 2005), coltura am-piamente diffusa in tutto il Sud Italia. Comun-que, il riscaldamento dovuto alla permanenzasul Mediterraneo di masse di origine africanatenderebbe ad incrementare l’aggressività e ladelimitazione geografica di altre malerbe pa-rassite già presenti sul nostro territorio sia nelcentro (Benvenuti et al., 2004) che nel sud Ita-lia (Mauromicale et al., 2001): le Orobancacee.Queste specie olo-parassite (essenzialmente O.crenata ed O. ramosa) risultano infatti favoriteda condizioni caldo-aride tanto che è nel Nord

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Africa che esse trovano le condizioni ottimali diinvasività (Joel et al., 1995). È stato ipotizzatoche i recenti cambiamenti climatici possono fa-vorire in futuro la loro diffusione (Mohamendet al., 2006) e la loro pericolosità (Wesseling etal., 2006) dal momento che è proprio la tempe-ratura che tende a limitarne l’areale geografico(Grenz e Sauerborn, 2007). Una ulteriore ma-lerba olo-parassita di potenziale incremento do-vuto ai nuovi scenari climatici è la Cuscuta cam-pestris già ampiamente diffusa su tutto il terri-torio italiano soprattutto nelle colture di erbamedica (Medicago sativa) e barbabietola da zuc-chero (Beta vulgaris). Tale ampliamento po-trebbe derivare da una tipica risposta fisiologi-ca dovuta allo stress idrico che implica un au-mento della concentrazione degli zuccheri nel-la potenziale coltura-ospite per controbilancia-re il deficit osmotico (Pilon-Smits, 1999) favo-rendo così il successo della parassitizzazione.Ciò in quanto il livello delle risorse energetichedella coltura ospite risultano di cruciale impor-tanza in quanto la malerba si trova in forte de-ficit energetico nel periodo che precede la pe-netrazione degli austori nella coltura-ospite(Benvenuti et al., 2005a). Analoga predisposi-zione alla parassitizzazione da parte della Cu-scuta è stata rilevata nella coltura della barba-bietola sottoposta a crescenti livelli di stress sa-lino (Frost et al., 2003).

Problematiche nel controllo dell’infestazione

I sopra descritti fenomeni di incremento termi-co, unitamente all’aumento della concentrazio-ne di anidride carbonica, sembrano favorire nonsolamente una maggiore crescita vegetativa mauna più rapida ed elevata produzione di semi.Tale potenziale fenomeno sembra condurre adun aumento del numero di semi presenti nelsuolo (seedbank) e persino ad anche ad un au-mento del numero di generazioni di malerbe inuna singola stagione di crescita.

Il potenziale aumento del numero di gene-razioni all’anno potrebbe inoltre incrementareil rischio di insorgenza di biotipi resistenti aglierbicidi dal momento che esso aumenterebbe ladisseminazione annuale degli individui soprav-vissuti (Holt et al., 1993).

In sintesi i nuovi scenari climatici sembranoportare ad esaltare quella rapidità di formazio-

ne del seme (ruderalità) che è da sempre unadelle più importanti strategie di persistenza del-le malerbe nell’agroecosistema. Tuttavia, la ve-ra “novità” potrebbe essere il fatto che alcunespecie a ciclo estivo potrebbero interferire, al-meno nei primi stadi di crescita, con le coltureautunno-vernine. Può essere questo il caso dispecie come Abutilon theophrasti, Chenopodiumalbum e Datura stramonium in grado di inter-ferire, almeno durante la fase di crescita autun-nale, con la coltura del frumento. Nonostanteche queste specie risulteranno incapaci di com-pletare il ciclo biologico per gli abbassamentitermici invernali, esse potranno portare ad in-terferire negativamente sul risultato produttivodella coltura per l’interferenza ormai avvenutanei primi stadi di crescita. Inoltre, potrebbe ve-rificarsi il problema che alcune delle specie a ci-clo annuale possano divenire “perennanti” inquanto l’interazione genotipo-ambiente non rie-sce ad innescare la senescenza come già osser-vato in Solanum nigrum nelle isole di calore ti-picamente presenti nell’ecosistema urbano(Benvenuti, 2004). Il problema agronomico ruo-ta intorno al fatto che le specie perenni sono ti-picamente più difficili da controllare in quantopressoché insensibili agli erbicidi “antigerminel-lo” ad applicazione in pre-emergenza (Dixon etal., 2006). Inoltre, anche nel caso di interventidi post-emergenza l’efficacia erbicida risultamarcatamente minore come ad esempio nel ca-so di Sorghum halepense che risulta di difficilecontrollo chimico nel caso di emergenze da ri-zoma (Obrigawitch et al., 1990). D’altra parte èstato dimostrato che altre specie perenni comeil Cirsium arense tendono a risultare meno sen-sibili anche ad erbicidi di post-emergenza inquanto l’aumento di CO2 tende ad incrementa-re la parte ipogea non raggiungibile dal princi-pio attivo (Ziska et al., 2004).

Altre problematiche agronomiche potrebbe-ro derivare dalla minore attività fitocida dei va-ri principi attivi (Chen e McCarl, 2001) in quan-to molte delle fitocenosi destinate ad evolversinei periodi futuri sono caratterizzate da tessutiepidermici che, avendo la funzione di limitarele perdite idriche, esse tendono anche ad osta-colare l’ingresso dell’erbicida all’interno dei tes-suti fogliari. Sono questi i casi di specie ricchedi sostanze cerose (potenzialmente anche perproteggersi dagli UV-B) ma forse più frequen-temente potrebbe verificarsi il caso di malerbe

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dotate di tomentosità, ispessimenti fogliari e/ospinescenze come tipicamente accade per quel-le specie xerofite evolutesi in ambienti caldo-aridi. Ciò tenderebbe a stimolare il già impor-tante filone di ricerca orientato ad individuarequei cosiddetti “surfactanti” in grado favorirel’ingresso dell’erbicida all’interno del suo sito diazione biologica (Ramseya et al., 2005).

L’aumento della concentrazione atmosfericadi CO2 potrebbe inoltre aumentare la tolleran-za agli erbicidi come già osservato in diversespecie (Ziska et al., 1999; Ziska e Teasdale, 2000)impedendo così di poter impiegare gli erbicidia dosaggi convenzionali, analogamente a quan-to già oggi accade per altri fattori che predi-spongono all’insensibilità erbicida (Riethmuller-Haage et al., 2007). Di duplice interpretazioneè inoltre la previsione che i cambiamenti cli-matici siano destinati a ridurre la persistenza deivari erbicidi (Bailey, 2003). Se ciò infatti può daun lato rassicurare l’impatto ambientale del di-serbo chimico sull’ecosistema circostante, dal-l’altro c’è da chiedersi se tale fenomeno possaindurre a mantenere l’azione biologica attra-verso incrementi nelle dosi di impiego. Ancheper quanto riguarda l’incremento di UV-B cheraggiungono la superficie terrestre la sua rica-duta biologica sull’azione erbicida è controver-sa in quanto dipende sia dal tipo di erbicida chedal suo meccanismo di azione. Mentre in ter-mini generali gli UV-B tendono ad ossidare glierbicidi distribuiti, riducendone la durata biolo-gica per fenomeni di foto-degradazione (Kon-stantinou et al., 2001), sperimentazioni effettua-te con simulazioni di scenari climatici ad eleva-ti UV-B hanno evidenziato una loro maggioreefficacia in quanto l’azione erbicida risulta ave-re con questi effetti sinergici (Martínez-Ghersaet al., 2004). A tal proposito, una recente cate-goria di erbicidi, i trichetoni, troverebbe sicura-mente vantaggi dall’aumento degli UV-B dalmomento che la loro azione fitocida è dovutaall’inibizione della sintesi di quei carotenoidiche hanno la funzione biologica di proteggerele molecole di clorofilla dalla foto-ossidazione(Lee et al., 1998).

Biodiversità

La comunità scientifica internazionale risultaconcorde nel ritenere che i cambiamenti clima-

tici siano destinati a contrarre il livello di bio-diversità dei vari ecosistemi (Hitz e Smith, 2004)in quanto essi tendono ad alterare la vasta gam-ma di interazioni trofiche tra i vari organismiviventi (Harrington et al., 1999). Ciò tende adampliare il già elevato rischio di estinzione del-le specie rare presenti sia in ecosistemi natura-li (McCarty, 2001) che in quegli agroecosisteminei quali il basso impatto agronomico ha man-tenuto nel tempo una elevata complessità flori-stica (Benvenuti et al., 2005b). Molte specie ra-re sono infatti divenute tali soprattutto a causadi delicati equilibri mutualistici con la fauna cir-costante all’agroecosistema (Gibbson et al.,2006). A conferma di ciò basta riflettere sul fat-to che gli ambienti nei quali esse sono soprav-vissute sono caratterizzati da una complessa di-versificazione dell’uso del territorio i cui semi-nativi risultano inseriti a mosaico tra pascoli, bo-schi ed aree incolte dove l’entomofauna impol-linatrice può trovare le condizioni idonee per lanidificazione. La persistenza di queste specie di-pende infatti dalla presenza di altri organismianimali, in questo caso gli insetti, in quanto laloro impollinazione risulta operata da apoideisociali e solitari, ditteri nonché lepidotteri (Ben-venuti e Raspi, 2007). Tale entomofauna pre-suppone in sintesi la presenza di un ecosistemaricco di nicchie ecologiche atte alla loro ripro-duzione nel suolo o sulla vegetazione. L’equili-brio di tale biocenosi animale e vegetale risul-ta decisamente vulnerabile dal momento che icambiamenti climatici possono agire negativa-mente in più modi: 1) direttamente sulla com-patibilità ecologica delle piante stesse; 2) indi-rettamente sulla sostenibilità ecologica degli or-ganismi mutualistici la cui persistenza risultaspesso minata dalle difficoltà di poter reperirequelle poche specie in grado di costituire l’am-biente idoneo alla loro riproduzione oppure, 3)sulla de-sincronizzazione tra fotoperiodo e ter-moperiodo di flora ed entomofauna impollina-trice. Nel caso ad esempio di alcuni lepidotteri,spesso impollinatori obbligati di alcune “wild-flowers”, lo scollamento tra termoperiodo e fo-toperiodo può creare difficoltà non solamentenella sua sincronizzazione con il ciclo biologicodella pianta impollinata ma persino con quellepoche specie che risultano idonee all’ovideposi-zione ed in grado di allevare le giovani larve(Fenster et al., 2004). In altre parole la floramaggiormente minacciata dai cambiamenti cli-

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matici appare proprio quella entomofila inquanto la sua dinamica di sopravvivenza pre-suppone il mantenimento di delicate specializ-zazioni spesso incompatibili con i progressivisconvolgimenti climatici. Appaiono al contrarioavvantaggiate le specie prive di mutualismi flo-ra-fauna come nel caso di specie autogame oanemofile che sono già oggi le specie tipica-mente resilienti ai sistemi colturali a maggioreimpatto ambientale (Suarez et al., 2001). In sin-tesi i cambiamenti climatici appaiono destinatia contrarre ulteriormente la già evidente con-trazione di specie un tempo diffuse. Tale con-trazione non risulta solamente un problema le-gato alla tutela ambientale ma anche agrono-mico dal momento che la gestione di comunitàvegetali complesse risulta decisamente più faci-le rispetto a quanto accade nel controllo di quel-le fitocenosi oligo- o persino monospecificheche risultano tipicamente molto aggressive(Benvenuti et al., 2005b). In ogni caso, il “vuo-to biologico” creato dalla sola presenza di po-che specie può ampliare il rischio di invasivitàdelle già discusse malerbe esotiche (Hoegh eBairlein, 2002). È ben noto infatti che un eco-sistema floristicamente degradato risulta piùvulnerabile in quanto è proprio la complessitàfloristica a giocare un ruolo cruciale nel con-trastare l’ingresso di nuove specie (Kennedy etal., 2002).

Aspetti paesaggistici

Non è affatto un caso che le specie mutualisti-che siano quelle contraddistinte da un impattoestetico di indubbia attrattività. Molte specie in-dicate all’estero con il termine di “wildflowers”hanno infatti fiori ed infiorescenze evolutesiproprio per attrarre la fauna impollinatrice me-diante la loro cromaticità e morfologia (John-son e Dafni, 1998). Molte di queste specie fan-no parte degli antichi paesaggi agrari (Baesslere Klotz, 2006) che saltuariamente tendono an-cora oggi a ricomparire ma quasi esclusivamen-te nelle aree gestite in modo ecologicamente so-stenibile. Sono questi i casi di Centaurea cyanus,Agrostemma githago, Nigella damascena, Gla-diolum italicum, Papaver rhoeas e Consolida re-galis che “coloravano” i campi di frumento spes-so senza apportare consistenti danni agronomi-ci in quanto scarsamente competitive nei con-

fronti delle colture. Risulta opportuno premet-tere che la loro rarefazione non è certamentedovuta ad i cambiamenti climatici ma risultascontato prevedere che essi potranno minaccia-re la loro presenza persino nelle oasi agro-eco-logiche ancora rimaste. Come già riportato in-fatti, qualsiasi squilibrio ambientale tende a mi-nacciare i delicati equilibri mutualistici flora-fauna tendendo così ad ostacolare e/o impediread esempio la formazione del seme su questepiante ad impollinazione spesso assolutamenteincompatibile come nel caso del Papaver rhoeas(Thomas e Franking-Tong, 2004). Del resto so-no proprio queste “wildflowers” che sono unaessenziale componente estetica nell’ecologia delpaesaggio di un territorio agricolo (Weitbull etal., 2003). Il verificarsi dei sempre più temutisconvolgimenti climatici potrà certamente av-vantaggiare invece quelle specie che non neces-sitano di alcuna interazione mutualistica e quin-di assolutamente prive di esteticità. Tale speciesaranno infatti in grado di persistere grazie aquella biologia di impollinazione anemogamaod autogama che non presuppone alcuna inte-grità biologica dell’ambiente circostante. Pur-troppo esse sono caratterizzate da fiori od in-fiorescenze che non hanno alcuna componentepaesaggistica positiva in quanto prive di qual-siasi strategia evolutiva basata sull’attrattività(Culley et al., 2002) componente in grado diconferire loro resilienza non solamente ai di-sturbi agronomici ma anche ai potenziali squili-bri climatici previsti. Per quanto i casi delle ma-lerbe “non entomogame” siano molte, e solita-mente prevalenti nell’agroecosistema, si ritienecomunque opportuno fare alcuni esempi. È que-sto il caso di molte graminacee tipicamente dif-fuse nella coltura del frumento come Loliummultiflorum, Avena sterilis, Alopecurus myosu-roides, Phalaris minor e nelle colture primave-rili estive come ad esempio Sorghum halepense,Setaria viridis e Digitaria sanguinalis. Analoga-mente tenderanno ad essere prevalenti anchedicotiledoni prive di esteticità come Rumex cri-spus e Galium aparine nei cereali autunnno ver-nini e Amaranthus retroflexus e Chenopodiumalbum nelle colture a ciclo primaverile-estivo. Ilpaesaggio sembra in sintesi destinato a riflette-re come uno specchio le attività umane che di-rettamente (agrotecnica) ed indirettamente(cambiamenti climatici antropogenici) tendonoa riflettere la il grado di sostenibilità ecologica

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esercitata sia nella gestione del territorio agro-forestale che in altri ecosistemi antropizzati.

Evoluzione floristica e salute umana

È stato previsto in termini generali che i cam-biamenti climatici possano interferire negativa-mente sulla salute umana sia direttamente (Mc-Michael et al., 2006) che indirettamente dal mo-mento che essi tendono ad incrementare il ri-schio di epidemie fungine nelle varie colture(Garrett et al., 2006) tanto da prevedere unacrescente richiesta di fitofarmaci (Epstein,2001). Tale previsione viene estesa anche al par-ticolare caso della difesa dalle malerbe dal mo-mento che, come già ampiamente discusso, glisconvolgimenti climatici sembrano destinati adevolvere fitocenosi di sempre più difficile con-trollo (Ziska, 2001b). In questa evoluzione flo-ristica potrebbero persino verificarsi casi di dif-fusione di specie tossiche e/o velenose acciden-talmente introdotte. Da sempre l’uomo risultavettore spesso inconsapevole di semi di specieesotiche (Benvenuti, 2007) ma sono proprio lecondizioni di stress climatico che ne possono fa-vorire il successo ecologico e quindi il loro af-francamento in un determinato agroecosistema.Già in passato si sono verificati problemi di in-quinamento delle farine in seguito alla presen-za di specie esotiche tossiche come nel caso deisemi di Datura stramonium, ricchi di alcaloidi,negli sfarinati di soia (List et al., 1979). Talvol-ta può accadere che alcune specie, scarsamentetossiche nel loro ambiente di origine, possonoaccrescere la loro pericolosità (William, 1980) acausa di una alterata interazione con l’ambien-te in quanto questo può risultare “elicitore” del-la sintesi di composti allelopatici. Un caso em-blematico è dato da Pastinaca sativa che risultainnocua in Europa ma risulta al contrario tossi-ca negli individui spontaneizzatisi nel NordAmerica. Ciò avviene come meccanismo di di-fesa dall’attacco di un lepidottero (Depressariapastinacella), non presente nell’ambiente di ori-gine, in grado di stimolare la sintesi di furano-cumarine (Zangerl e Berenbaum, 2005). Talecomportamento potrebbe essere esteso non so-lamente per l’introduzione di malerbe esotichema persino di insetti provenienti da altri ecosi-stemi in quanto migrati proprio a causa dei cam-biamenti climatici. È possibile quindi che anche

specie autoctone possano divenire tossiche in ri-sposta alle ben note interazioni ospite-parassita(Jermy, 1984).

La salute umana può trovare nocumento dal-la flora tossica non solamente in quanto poten-zialmente ingeribile, ma anche a causa del pol-line aerodisperso da molte specie anemofile, ingrado di indurre allergie nella popolazione. Delresto, come è stato già discusso, le perturbazio-ni climatiche, analogamente a quelle ecologichee/o agronomiche, tendono ostacolare primaria-mente le specie entomogame favorendo così lacolonizzazione delle varie “nicchie ecologiche”dalle specie anemofile. Sono infatti queste ulti-me che sono responsabili delle più temute al-lergie in quanto la loro biologia di impollina-zione ha indotto la formazione di granuli di pol-line di dimensioni estremamente piccole in mo-do da favorire la loro mobilità nell’atmosfera(Gadermaier et al., 2004). Purtroppo il progres-sivo ingresso di specie esotiche, unitamente alloro affrancamento in vari ecosistemi minati dal-l’eccessiva antropizzazione (Benvenuti, 2004), hafavorito l’ingresso di specie anemofile il cui pol-line è caratterizzato da una spiccata allergeni-cità. È questo il caso di Ambrosia artemiisifolia,ormai da alcuni anni introdotta in Europa(Laaidi et al., 2003), che disperde una granquantità di polline che risulta marcatamente al-lergenico (Lee et al., 1979) anche a notevoli di-stanze. Sono state infatti rilevati casi di pollino-si da questa specie persino nella Toscana litora-nea (Goracci e Goracci, 1996) pur essendo es-sa presente solamente nel nord Italia (Albasser,1992). È stato purtroppo dimostrato che questamalerba tende ad incrementare la produzionedi polline in conseguenza degli aumenti di ani-dride carbonica (Wayne et al., 2002), analoga-mente a quanto accade in altre specie con si-mile attività allergenica (Ziska et al., 2007).Conseguentemente, la sua pericolosità sembradestinata ad aumentare nei periodi futuri. Va in-fine sottolineato che l’azione biologica degli al-lergeni viene purtroppo amplificata dalla sua in-terazione con la vasta gamma di sostanze in-quinanti presenti nell’atmosfera (Beggs, 2004).

Conclusioni

L’analisi effettuata sul potenziale impatto deicambiamenti climatici sulla dinamica sulle fito-

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cenosi infestanti ha validato l’ipotesi che la col-tura sia marcatamente più vulnerabile delle co-munità di malerbe presenti nell’agroecosistema.Tali parametri climatici, sintetizzati nella tabel-la 1, tendono ad indurre una diversificata ri-sposta evolutiva nelle fitocenosi infestanti anchese la loro incidenza sugli scenari climatici delfuturo non è del tutto chiara. Sembra tuttaviaprobabile che alcuni di essi, come ad esempiol’aumento degli UV-B e della CO2, possano ri-sultare decisivi solamente in periodi ancora lon-tani dal momento i loro effetti sono risultati ap-prezzabili solamente in condizioni di incremen-ti estremamente marcati. Al contrario, risultanoavere già iniziato il loro effetto sull’evoluzionefloristica altri parametri come gli incrementi ter-mici, la siccità e talvolta anche la salinizzazione

del suolo. Questi cambiamenti climatici già og-gi avvertibili negli agroecosistemi mediterraneisembrano indurre una sorta di de-specializza-zione floristica che tende ad evitare le fragili di-pendenze dall’equilibrio ecologico dell’agroeco-sistema favorendo così la loro tolleranza e/o re-silienza alle perturbazioni ambientali. Questaflora sembra destinata a creare maggiori pro-blemi di gestione in quanto sempre meno di-versificata e più aggressiva spesso caratterizza-ta da una marcata attività allelopatica. La pro-gressiva rarefazione e scomparsa di specie en-tomogame sembra quindi destinata ad esseresostituita da specie autogame ed anemofile conun drastico peggioramento del paesaggio agra-rio. Le comunità vegetali poco diversificate po-tranno favorire l’ingresso nell’agroecosistema di

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Tabella 1. Schematizzazione di alcune delle più probabili ripercussioni dei recenti cambiamenti climatici sull’evoluzione flo-ristica delle comunità di malerbe in agroecosistemi mediterranei.

Table 1. Schematization of some of the most likely consequences of the late climatic changes on the floristic evolution ofweed communities in Mediterranean agro-ecosystems.

Cambiamento Mutamento nelle fitocenosi spontanee Problematiche agro-ecologicheclimatico

Aumento della Aumento specie macroterme; aumento Elevata “aggressività” delle macroterme;temperatura della loro disseminazione per maggiori aumento dei semi annualmente prodotti

“somme termiche”; aumento (senescenza tardiva); difficoltà controllo “perennanza”; de-sincronizzazione “perennanti”; produzione di seme fotoperiodo-termoperiodo; riduzione opportunistica indipendentemente dal periodospecie microterme soprattutto se esigenti dell’anno (foto-indifferenza); più generazioni di “vernalizzazione”; specie macroterme di malerbe in un solo anno; difficoltà di controlloinfestanti dei primi stadi di sviluppo delle specie parassite; difficoltà di controllo didi colture autunno-vernine; rischio di specie esotiche macrotermeinvasività di specie parassite già presenti (Orobanche) o da Africa (Striga)

Siccità e Aumento specie xerofite, riduzione specie Barriere morfologiche e fisiologiche per desertificazione con rapporti mutualistici; aumento specie l’assorbimento degli erbicidi; minore

“colonizzatrici” come molte asteraceae; biodiversità; peggioramento del paesaggio aumento specie autogame e/o anemofile; agrario; aumento specie “allergeniche”,aumento invasività specie esotiche difficoltà controllo malerbe esotiche invasive;soprattutto se ad azione allelopatica aumento delle malerbe parassite; più facile

affrancamento di specie tossiche e/o velenose

Salinizzazione Aumento malerbe alotolleranti come Fattore di stress osmotico quasi sempre a suolo Portulaca oleracea, alcune Chenopodiacee favore delle malerbe negli equilibri competitivi

e Graminacee

Aumento della Aumento della malerbe C3; più elevata Squilibri competitivi a vantaggio delle malerbe CO2 e rapida produzione seme (ruderalità) C3 soprattutto nei confronti di colture C4

Eventi Aumento specie tolleranti stress di natura Maggiore “vulnerabilità” della coltura con estremi spesso opposta e/o in grado di risultarne squilibri competitivi a vantaggio delle malerbe

“resilienti”

Aumento dei Favorite le specie a crescita lenta, ricche Minore azione generale degli erbicidi per raggi di flavonoidi e di cere epicuticolari foto-degradazione; caso particolare dei Ultra-Violetti trichetoni favoriti da UV-B

specie esotiche talvolta tossiche, velenose o per-sino a spiccata attività allergenica. La gestionedi tali infestazioni sembra presupporre un cre-scente uso di erbicidi in quanto tendono ad au-mentare proprio le specie sempre meno sensi-bili all’azione dei vari principi attivi in quantodotati di tessuti epidermici che ne tendono a li-mitare la permeabilità. Il potenziale aumentodel numero di generazioni di malerbe nelle pro-lungate stagioni più calde, unitamente al rischiodi incremento della sopravvivenza vegetativa dialcune specie, sembrano destinate a complicareancor più le già elevate problematiche odierne.In altre parole, sembra che i cambiamenti cli-matici tendano a minare la già precaria soste-nibilità ecologica ed economica dell’agroecosi-stema. Le aree più povere del Mediterraneosembrano destinate a ridurre ancor più marca-tamente la propria produttività in quanto è pro-prio la loro economia, ancor prima della loroecologia, ad essere più vulnerabile ad i cambia-menti climatici. Ne consegue che gli scenari cli-matici ipotizzati per futuro potranno amplifica-re la divaricazione tra agricoltura delle aree piùricche e quella delle aree sempre più povere(Rosenzweig e Tubiello, 2007).

Non è facile poter ipotizzare una razionalegestione di queste comunità vegetali sempre piùnocive, aggressive e meglio in grado di persi-stere nell’agroecosistema. Tuttavia, riflettendosul fatto che le malerbe debbono alla loro ru-sticità il loro successo in condizioni di stress cli-matico, appare chiaro che l’uomo potrà “imita-re” la natura rispondendo alla ciclica “sfida” del-le malerbe con il miglioramento genetico dellecolture mirato all’incremento della loro rusti-cità. In questo ambito il nuovo obiettivo po-trebbe essere non più mirato ad aumentarne an-cor più le rese, e quindi le loro esigenze am-bientali, quanto ad aumentarne la plasticità al-le varie condizioni climatiche. A tal fine saràsempre più importante il reperimento e lo stu-dio del germoplasma delle specie progenitricidelle attuali colture (“wild tipe”) unitamente aquelle specie spontanee a loro ibridabili per af-finità botanica. Solo in questo modo appare pos-sibile di gestire razionalmente la flora infestan-te nei difficili scenari futuri, ispirandosi, non tan-to a massimizzare le produzioni agricole desti-nate alla nostra generazione ma, piuttosto, ver-so la creazione di quei presupposti di sostenibi-lità agricola che potranno sfamare le genera-zioni che ci seguiranno.

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L’ortoflorofrutticoltura italiana al cospetto delle nuove opportunità offerte dalla genetica

e dalla genomica di settore

Andrea Allavena1, Lorenzo Corino2, Roberto Quarta3, Giuseppe L. Rotino4,Riccardo Velasco*5

1CRA – Dipartimento di Biologia e Produzione Vegetale, Unità di Ricerca per la Floricoltura e le Specie Ornamentali

Corso degli Inglesi 508, 18038 Sanremo (IM)2CRA – Dipartimento di Biologia e Produzione Vegetale, Centro di Ricerca per l’Enologia

Via Pietro Micca 35, 14100 Asti3CRA – Dipartimento di Biologia e Produzione Vegetale, Centro di Ricerca per la Frutticoltura

Via Fioranello 52, 00134 Roma4CRA – Dipartimento di Biologia e Produzione Vegetale, Unità di Ricerca per l’Orticoltura

Via Paullese 28, 26836 Montanaso Lombardo (LO)5Istituto Agrario San Michele all’Adige – Fondazione E. Mach, Dipartimento di Genetica e Biologia Vegetale

Via E. Mach 1, 38010 San Michele all’Adige (TN)

Società Italiana di Genetica Agraria

RiassuntoL’orto-floro-frutticoltura italiana ha l’occasione di rilanciare la ricerca italiana nel settore della genomica dopo unafruttuosa serie di rilevanti investimenti che hanno portato al sequenziamento del genoma della vite, ed oggi pun-tano al genoma del pesco, del melo e di altre specie economicamente rilevanti. La genomica vegetale riscatta unafuoriuscita anzitempo dell’impegno italiano sui genomi, e pone le basi per una ricerca avanzata che necessita ulte-riori sforzi per vedere il completamento della propria opera con le applicazioni delle conoscenze acquisite nel mi-glioramento genetico assistito e nelle applicazioni biotecnologiche. Esempi di rilevante successo realizzati da istitu-ti di ricerca italiani nel settore vengono qui descritti.

Parole chiave: sequenziamento di genomi, biotecnologie vegetali, ortoflorofrutticoltura, genomica vegetale.

Summary

ITALIAN HORTICULTURE, FRUITCULTURE AND FLORICULTURE MAY GAIN FUNDAMENTAL ROLE BY NEW OPPORTUNITIES OFFERED BY GENETICS AND GENOMICS

Horticulture, fruitculture and floriculture in Italy have the opportunity to highlight the Italian research on plant ge-nomics, following a fruitful series of investments leading to the sequencing of the grapevine genome, and today tothe peach and apple genomes, with further species of economical interest that will follow. Plant genomics recoverthe Italian role of Italy on genomics, and pose the basis for advanced research which needs further efforts to seethe workflow completed, from assisted breeding to applied biotechnology. Successful example of research work ma-de by Italian institutes in plant genomics of horticulture, fruitculture and floriculture will follow.

Key-words: genome sequencing, plant biotechnology, horti-fruit-floriculture, plant genomics.

* Autore corrispondente: tel.: +39 0461 615314; fax: +39 0461 615372. Indirizzo e-mail: [email protected]

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Introduzione

Tra le varie branche dell’agricoltura italianaspetta curiosamente a questo ampio settore,l’ortoflorofrutticoltura, rilanciare la ricerca ita-liana nelle genetica agraria e più propriamentenella genomica vegetale. Perso il treno nella ge-nomica umana, quando con estremo rammaricodel premio Nobel Dulbecco, l’Italia rinunciò alsequenziamento del cromosoma Y dell’uomo, laricerca nazionale non è riuscita ad agganciare legrandi imprese del settore vegetale che hannorappresentato altre pietre miliari nella ricercainternazionale quali il sequenziamento del ge-noma dell’Arabidopsis, la pianta modello per igenetisti vegetali al pari della drosofila per i ge-netisti animali, o la costituzione e lo sfrutta-mento per scopi conoscitivi delle grandi colle-zioni di mutanti per studi di reverse genetics chehanno portato alle maggiori scoperte degli ulti-mi dieci anni. Dicevamo sopra, curiosamente,poiché l’ortoflorofrutticoltura non rappresentaquei settori agrari di maggiore forza e dimen-sione quali il cerealicolo o lo zootecnico, bensìsettori talvolta di nicchia, talvolta di forte in-terconnessione paesaggistico-turistica che rendeil nostro Paese una grande attrazione turisticama non certo un Paese fortunato per orografiae caratteristiche dei terreni poco adatti ad unaagricoltura intensiva e remunerativa. La pecu-liarità del nostro Paese, forte di un clima invi-diabile e di una piccola imprenditoria diffusa,ha nell’ortoflorofrutticoltura un punto di forzae proprio da questo settore viene l’occasione delrilancio, che non a caso ha visto, da parte di al-cuni centri di ricerca affacciati del panorama in-ternazionale, un forte impegno sia nel reperirei fondi che nello sfruttamento pieno di questaoccasione. Di seguito si descriveranno alcuni deirisultati che hanno portato la ricerca italiana delsettore a recuperare una certa credibilità con ri-sultati importanti che vanno dalla partecipazio-ne italiana al sequenziamento del genoma del-la vite, che ha visto addirittura l’Italia protago-nista in due progetti indipendenti, ma comple-mentari, raggiungere entrambi nel 2007 il se-quenziamento del genoma di due genotipi di vi-te, uno coltivato e l’altro omozigote, con grandipotenzialità di applicazione nel miglioramentogenetico della specie; ma non solo, prosegue conla realizzazione di altri progetti di sequenzia-mento che vedono gli istituti italiani protagoni-

sti quali il sequenziamento del genoma del me-lo e del pesco, che si affiancano al sequenzia-mento del cromosoma 12 del pomodoro e delcromosoma 5 del grano recentemente finanzia-ti dai Ministeri dell’Agricoltura e dell’Univer-sità e Ricerca Scientifica. A queste eccezionaliesperienze si aggiungono le competenze nellagenomica funzionale applicata ad alcuni ortag-gi, su tutti la melanzana e il pomodoro, ma an-che alle piante ornamentali, le quali presentanouna plasticità straordinaria e rappresentano unaforte peculiarità del nostro Paese.

Risultati

Negli ultimi 4-5 anni il panorama della ricercaitaliano, pur soffrendo croniche carenze di fi-nanziamento, ha raggiunto alcuni obiettivi chepossono rilanciare la ricerca italiana nel mondo,se opportunamente sostenuti. Di seguito si ri-portano alcuni esempi di rilevanti risultati otte-nuti da centri di ricerca italiani nella genetica enella genomica vegetale, sottolineando che so-no solo alcuni dei risultati presentabili in uncontesto relativamente limitato e che voglionorappresentare solo alcuni esempi tra i numero-si disponibili.

Floricoltura

Le specie ornamentali sono molto numerose eda parte Rosa, Crisantemo, Lilium e Garofano sicaratterizzano per possedere ciascuna una mo-desta importanza economica, complessiva e nelsettore. Ciascuna specie mostra un’ampia varia-bilità genetica, fornisce prodotti distinti (es.: fio-re reciso o pianta in vaso) e può essere impie-gata per fini diversi (pianta da appartamento,giardino, aree pubbliche, aree degradate, ecc.).Le specie ornamentali si caratterizzano inoltreper avere strategie riproduzione differenziate epossono manifestare poliploidia, autoincompati-bilità, sterilità. Sul mercato sono considerate unbene voluttuario e come tali si comportano neiconfronti della domanda/offerta. Il consumato-re esige un prodotto perfetto, chiede nuove va-rietà e cambia rapidamente il gusto. Le infor-mazioni scientifiche sulle specie ornamentali so-no generalmente scarse, a parte alcune eccezio-ni. La Rosa ad esempio è considerata una spe-cie modello nella famiglia delle Rosaceae in con-seguenza del suo genoma relativamente piccolo

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ed è la specie più studiata dal punto di vista ge-netico; per essa si dispone una mappa geneticae di marcatori associati a caratteri di rilevanteinteresse. Le basi molecolari di caratteri comeil profumo, l’attitudine alla rifiorenza e la resi-stenza ad alcune malattie come il blackspot so-no state investigate in dettaglio. Altre specie sucui si è concentrata l’attenzione dei ricercatorisono: Anthirrinum (forma dei fiori), Petunia(espressione di transgeni), Pharbitis (induzionedella fioritura), Antirrhinum, Phalaenopsis eClarkia (controllo del profumo).

Nelle piante ornamentali, obiettivi di ricer-ca, che trovano nelle biotecnologie lo strumen-to principale di lavoro, sono il controllo dell’e-poca e dell’abbondanza di fioritura, la modificadella forma e del colore dei fiori, l’allungamen-to della vita dei fiori recisi e delle piante in va-so in ambiente domestico, il controllo della cre-scita e dell’architettura della pianta anche incondizioni di elevata densità di coltivazione e discarsa intensità luminosa, il miglioramento delprofumo della vegetazione e dei fiori, la resi-stenza agli stress.

In contrasto con le potenzialità offerte dallebiotecnologie, nel campo delle specie ornamen-tali, la ricerca italiana nel settore si è mostratapiuttosto limitata. L’unica eccezione è rappre-sentata dalle colture in vitro, utilizzate da nume-rosi laboratori privati e pubblici, finalizzate allapropagazione delle nuove costituzioni, al risana-mento da virus ed al mantenimento di materialiin assenza di patogeni. Tra le applicazioni speci-fiche delle colture in vitro sono da ricordare lacoltura di antere di Anemone utilizzata per laproduzione di linee pure androgenetiche da im-piegare nella costituzione di ibridi F1 (Laura etal., 2006a), l’induzione di hairy roots e la produ-zione di biomassa da destinare all’estrazione dimetaboliti secondari (Bertoli et al., 2008).

Agli inizi degli anni Novanta è stata avviatauna consistente attività di trasformazione gene-tica. La collaborazione tra laboratori nazionalidiversi ha portato alla costituzione di genotipidi Osteospermum con modificata architetturadella pianta mediante espressione dei geni rol(Giovannini et al., 1999) e resistenti a TSWVmediante integrazione del gene del nucleoca-psidio del virus stesso (Vaira et al., 2000). In Pe-tunia sono stati ottenuti genotipi tolleranti a Bo-trytis cinerea mediante espressione del gene ech-42 di Trichoderma harzianum (Esposito et al.,

2000). Successivamente i geni rol sono stati uti-lizzati per ridurre la taglia della pianta anche inLimonium (Mercuri et al., 2001a) mentre geno-tipi di Osteospermum resistenti agli stress sonostati ottenuti sovra esprimendo il gene Myb4 diriso. (Monica Mattana, comunicazione persona-le). Nonostante la rilevanza dei risultati conse-guiti, questi lavori non hanno portato a ricadu-te pratiche per il clima anti OGM lievitato inItalia e nell’Unione Europea. Ben maggiore cla-more ha avuto sui media l’ottenimento di fiorifluorescenti in conseguenza dell’espressione inOsteospermum ed Eustoma del gene GFP (Mer-curi et al., 2001b). Al momento l’attività d’in-gegnerizzazione delle ornamentali è limitata aglistudi di genomica funzionale.

I marcatori molecolari sono una tecnologialargamente utilizzata nei laboratori di ricercapubblici. L’importanza delle informazioni e del-le utilizzazioni dei marcatori molecolari comin-cia ad essere sentita anche da parte delle azien-de. In conseguenza della loro indipendenza daifattori ambientali, i marcatori molecolari sonostati utilizzati nelle specie ornamentali princi-palmente per la distinzione varietale. L’utilizza-zione di AFLP in Anemone ha permesso di di-stinguere le 5 varietà in prova e raggrupparle ininsiemi coerenti con le informazioni disponibilisull’origine delle varietà stesse (Laura et. al.,2006b). Analogamente, marcatori molecolari divaria natura hanno confermato la netta separa-zione delle varietà di Hibiscus rosa sinensis dal-le varietà di H. syriacus. H. arnottianus paren-tale di H. rosa sinensis è stato posizionato dal-l’analisi in una sottobranca separata ma internaal gruppo delle cvs di H. rosa sinensis (Brunaet al., 2008). La capacità discriminante e l’effi-cacia di marcatori AFLP, STMS ed EST è statavalutata per distinguere varietà di Azalea (Sca-riot et al., 2007). Marcatori molecolari di varianatura sono stati utilizzati anche in Osteosper-mum (Faccioli et al., 2000), Rosa (Scariot et al.,2006), Oleandro (Portis et al., 2004) per la di-stinzione varietale, in Mirto per la distinzione digenotipi provenienti da varie aree del bacino delmediterraneo (Bruna et al., 2007), in Limoniumper la distinzione delle specie e degli ibridi de-rivati (Bruna et al., 2005), in Alstroemeria perla verifica dell’origine ibrida degli embrioni (DeBenedetti et al., 2000), in Garofano per la sele-zione assistita di individui resistenti alla sene-scenza (De Benedetti et al., 2006).

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Le ricerche di geni coinvolti in caratteri d’in-teresse ornamentale e la comprensione della lo-ro funzione è ancora una frontiera per la ricer-ca biotecnologica italiana sulle piante orna-mentali. Le due ricerche principali nel settoreriguardano entrambe studi legati alla compren-sione della riproduzione vegetativa. Una primaricerca si è posta l’obiettivo di comprendere glieventi molecolari precoci che avviano la forma-zione di plantule dai bordi delle foglie di Ka-lanchoe xhoughtonii. A tal fine sono stati atti-vati due approcci: a) preparazione e screeningdi una libreria sottrattiva; b) identificazione diortologhi di geni omeotici della famiglia KNOX.La libreria sottratta (Regis et al., 2006) ha per-messo di identificare 270 sequenze differenzial-mente espresse successivamente classificate inclassi funzionali sulla base delle analogie con se-quenze presenti in banca dati. Una delle se-quenze identificata con la libreria, codificanteun gene BELL like, è stata depositata in bancadati (EU622857). Il sequenziamento di geniKNOX ha portato all’identificazione di quattroortologhi di classe 2 (accession number: EU272787, EU272788, EU 272789, EU272790) eduno di classe 1 (accession number: EU240661).Studi di espressione genica hanno permesso diverificare che la sovraespressione del geneKxhKN5 (classe 1) riduce la taglia delle piantee modifica drasticamente la forma delle foglie:da lanceolate a palmate. La sovraespressionedella sequenza parziale di uno dei geni di clas-se 2 riduce la taglia della pianta ed in alcuni deicloni transgenici è drasticamente ritardata l’e-missione dello scapo fiorale. Una seconda ri-cerca, nel settore della genomica, ha permessodi identificare e sequenziare parzialmente genidella famiglia SERK (Somatic EmbryogenesisReceptor Kinase) di Cyclamen persicum:CpSERK1 e CpSER (accession number:EF661828, EF672247, DQ350614). Medianteibridazione in situ, è stata dimostrata l’espres-sione di CpSERK1 nelle masse proembriogeni-che di Cyclamen e negli apici radicali (Savonaet al., 2005).

Orticultura

Melanzana. I risultati conseguiti presso il CRA-Unità di Ricerca per l’Orticoltura di Montana-so Lombardo in collaborazioni con altre istitu-zioni di ricerca nazionali ed estere nell’ambitodella pluriennale attività di miglioramento ge-

netico della melanzana (Solanum melongena)hanno riguardato l’utilizzazione di tecniche bio-tecnologiche finalizzate primariamente all’otte-nimento di materiale genetico con caratteri in-novativi. Tecniche di colture in vitro (rigenera-zione di piante intere da espianti somatici, cellu-le in sospensione, microspore, trasformazione ge-netica, protoplasti e fusione di protoplasti) e mo-lecolari (fingerprinting con differenti tipi di mar-catori, MAS, e recentemente sviluppo di mappemolecolari, silenziamento genico, genetica funzio-nale) sono state spesso utilizzate in combinazio-ne nell’ambito dei programmi di breeding rap-presentando passaggi indispensabili per il rag-giungimento degli obiettivi prefissati.

La tecnica di trasformazione genetica ha per-messo di ingegnerizzare i caratteri di resistenzaall’insetto Leptinotarsa decemlineata (dorifora)ed il carattere partenocarpia (Arpaia et al.,1997; Rotino et al., 1997). Linee ed ibridi F1 dimelanzana esprimenti questi due caratteri sonostati sottoposti ad accurata validazione in pienocampo e/o serra (Acciarri et al., 2000; Donzellaet al., 2000; Acciarri et al., 2002; Mennella et al.,2005).

Introgressione della resistenza a Fusariumoxysporum e di altri caratteri di utilità agrono-mica da specie affini è stata ottenuta medianteibridazione somatica con S. aethiopicum e S. in-tegrifolium. Gli ibridi somatici tetraploidi han-no mantenuto la resistenza alla fusariosi e mo-strato, in generale, tratti fenotipici intermedi omaggiormente simili alla specie affine a melan-zana. Allo scopo di incorporare gli ibridi soma-tici nel programma di miglioramento genetico,la coltura d’antere si è dimostrata essere unatecnica cruciale per ottenere piante androgene-tiche diaploidi, quindi potenzialmente incrocia-bili con la melanzana in quanto hanno il mede-simo livello di ploidia. La popolazione di pian-te diaploidi ha mostrato segregazione di carat-teri fenotipici e molecolari (Rizza et al., 2002).Ulteriori indagini, utilizzando marcatori ISSRed isoenzimi, hanno permesso di evidenziareche almeno parte della variabilità dei diaploidiera generata da effettiva ricombinazione gene-tica tra i genomi di melanzana coltivata e S.aethiopicum (Toppino et al., 2008a). La dimo-strazione dell’esistenza di scambi di materialegenetico tra le due specie oltre ad essere un pre-requisito per l’introgressione della resistenza afusariosi nel pool genetico di S. melongena ha

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evidenziato anche la concreta possibilità che,nelle numerose linee d’introgressione finora svi-luppate, possano essere stati introgrediti dallespecie affini anche altri caratteri, riguardanti adesempio la composizione biochimica del frutto.

Le piante diaploidi resistenti a fusariosi so-no state sottoposte a vari cicli (5-6) di reincro-ci con linee di melanzana possedenti diverse ti-pologie del frutto; tali progenie da reincrociosuccessivamente sono state mantenute median-te autofecondazioni. Durante l’allevamento incampo è stata eseguita selezione sia per resi-stenza a Fusarium sia per caratteristiche morfo-logiche che ha portato all’ottenimento di lineeavanzate d’introgressione di pregio con fenoti-po simili a quelli dei genotipi ricorrenti. È uti-le sottolineare che tale materiale genetico ha su-scitato l’interesse di alcune ditte sementiere chestanno cofinanziando parte dell’attività di bree-ding applicato. Il fingerprinting molecolare me-diante marcatori ha evidenziato che loci SSR eCOSII delle specie affini sono stati stabilmen-te integrati nel genoma delle linee d’introgres-sione. Le linee d’introgressione hanno anchepermesso di dimostrare che la resistenza a Fu-sarium derivata da S. aethiopicum e S. inte-grifolium è controllata da un singolo gene do-minante e che i geni delle due specie affini ri-sultano essere allelici. Il locus di resistenza aFusarium è stato denominato Rfo-sa1. L’anali-si BSA ha permesso d’individuare marcatorimolecolari CAPS codominanti associati al lo-cus Rfo-sa1, questi marcatori sono utilmenteimpiegati nella selezione assistita per resisten-za a fusariosi (Toppino et al., 2008b). Con loscopo di eseguire il mappaggio fine del locusRfo-sa1 e di migliorare l’efficienza del miglio-ramento genetico è in corso di costituzione unapopolazione di mappa segregante sia per resi-stenza a Fusarium sia per importanti caratteriagronomici e tecnologici. Marcatori molecola-ri polimorfici anche tra i parentali di mappa(Stagel et al., 2008), attualmente in fase di svi-luppo, verranno posizionati nella popolazionesegregante per la costruzione di una mappa ge-netica.

Recentemente sono stati avviate ricerche digenetica funzionale e di proteomica per indivi-duare geni e proteine coinvolti nel meccanismodi resistenza a Fusarium (Mennella et al., 2008)e di tolleranza ad un’altra importante micosi va-scolare causata da Verticillium dahliae.

Frutticoltura

Pesco. Le specie da frutto sono le piante su cuisi è maggiormente concentrato l’interesse degliistituti di ricerca italiani che ha prodotto i mag-giori progressi degli ultimi anni. Le Rosaceae,con il pesco ed il melo, come vedremo sotto, so-no le specie regine nelle quali si è focalizzatal’attività di genomica più avanzata.

Nel pesco, sono state realizzate numerose li-brerie di sequenze codificanti (cDNA) che so-no state utilizzate per produrre sequenze brevidi geni espressi (ESTs) codificate e organizzatein banche dati come quella gestita dal ParcoTecnologico Padano ed altri istituti internazio-nali (Jung et al., 2008). Presso il CRA di Frut-ticoltura di Roma, oltre ad aver partecipato al-la realizzazione di sequenze EST, sono state rea-lizzate numerose mappe molecolari necessarieper associare tratti fenotipici e regioni del ge-noma del pesco e di altri Prunus. In particola-re, proprio questa grande omologia tra le variespecie di questo genere e la loro interfertilità(come ad es. pesco-mandorlo) è possibile inter-polare i dati delle analisi dei genomi e realiz-zare mappe genetiche da incroci interspecifici(Testolin et al., 2000; Dettori et al., 2001; Shu-laev et al., 2008). Grazie a questa attività allaquale ha partecipato attivamente l’istituto delCRA sono stati mappati quasi 30 caratteri mo-nogenici o quantitativi. Inoltre si è potuto ap-profondire lo studio della funzione di diversi ge-ni, su tutti i percorsi metabolici dei compostiaromatici nel pesco (Horn et al., 2005).

Le popolazioni di incrocio utilizzate sonouna fonte inesauribile di marcatori molecolari(siti specifici ed identificabili sui cromosomi), iquali, una volta correlati con tratti fenotipicispecifici, possono essere proposti come stru-menti per ridurre i tempi necessari al migliora-mento genetico convenzionale per l’ottenimen-to di nuove cultivar, applicando la selezione as-sistita da marcatori.

Dalle sopraccitate popolazioni di incrociosono stati individuati QTLs (Quantitative TraitLoci), loci responsabili di tratti quantitativi re-sponsabili della qualità del frutto e della resi-stenza a malattie, tra questi: pezzatura frutto,epoca fioritura, diametro del tronco, lunghezzainternodi, resistenza oidio, epoca di maturazio-ne, sovracolore della buccia, contenuto solidi solubili.

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Strumenti genomici importanti quali uno deiprimi microarray a DNA di piante da frutto,contenenti 4.800 geni di pesco (Vecchietti A.,personal communication). I microarrays con-sentono di approfondire lo studio in manieracontemporanea dell’espressione di molti (ideal-mente tutti) geni confrontando l’espressione ge-nica di tessuti diversi per studiare le specificitàdi espressione di classi di geni, o anche genoti-pi diversi in condizioni di crescita diverse o incondizioni diverse quali sotto stress biotico oabiotico.

Melo. La scuola di Bologna ha aperto la stradaall’avvento della genomica nelle Rosaceae inItalia, costruendo una rete di rapporti interna-zionali che è culminata con il risultato più ecla-tante nell’isolamento e clonaggio del gene perla resistenza alla Venturia inaequalis dal Malusfloribunda (Vf) ed il suo inserimento nel back-ground genetico del Malus domestica dimo-strando il ruolo nella resistenza al patogeno daparte della proteina codificata da questo gene(Belfanti et al., 2004; fig. 1). Si può forse ricon-durre a questo successo che ha visto uno deigruppi italiani più attivi nel miglioramento delmelo contribuire in maniera determinante in untipico progetto di genomica applicata, basando-si sullo sviluppo di mappe e marcatori moleco-lari, sull’isolamento di una regione cromosomi-ca ben definita, con un arricchimento di marca-tori molecolari intorno al gene target e chiusu-ra della regione poi isolata in grandi frammen-ti di DNA genomico (cloni BAC) contenenti lasequenza codificante il gene Vf (Patocchi et al.,1999). La trasformazione genetica in un conte-sto omologo come il Malus domestica ha poiconfermato la funzione del gene nel miglioremodo possibile, senza dover interpretare il ruo-lo di questo gene in sistemi modello come l’A-rabidopsis, metodi estremamente utili ma di mi-nor valore rispetto al confermare l’attività di ungene in una specie appartenente al genere dadove il gene è stato isolato (Belfanti et al.,2004).

Rispetto al pesco, il melo ha avuto apici diun certo successo come quello appena descrittoquale risultato di un forte impegno europeo confinanziamenti a progetti di genomica del meloin tre programmi europei consecutivi (http://users.unimi.it/hidras). Queste collaborazioni eu-ropee, che hanno visto l’Università di Bologna,

ma anche Milano e il CRA di frutticoltura diRoma, partecipi nella crescita di una scuola digenomica delle Rosaceae in Italia. Di fatto, l’at-tività di genetica molecolare e di genomica delmelo ha visto crescere le conoscenze genetichedella specie che ad oggi si possono apprezzarenelle numerose mappe genetiche pubblicate ne-gli ultimi dieci anni, nella mappa fisica (allinea-mento di cloni BAC; Han et al., 2007) di unavarietà di melo coltivata, nelle regioni isolatequali responsabili di tratti monogenici (Erdin etal., 2006) o QTLs (tratti quantitativi) di impor-tanza economica rilevante (Liebhard et al.,2004; Antofie et al., 2007). I tempi erano quin-di maturi per il sequenziamento del genoma diquesta specie, iniziato dall’Istituto agrario diSan Michele all’Adige con il sequenziamentodel genoma del varietà Golden delicious e pro-seguito nell’ambito di una collaborazione inter-nazionale che vede la partecipazione dell’INRAdi Angers, dell’Istituto dell’HortResearch neo-zelandese, dell’Università di Western Cape su-dafricana, e dell’Università di Washington Stateamericana. Il progetto è tuttora in corso e si pre-vede la pubblicazione della sequenza del melotra la fine dell’anno 2008 e l’inizio del 2009. Ta-le disponibilità di dati rappresenterà una svoltaepocale nel miglioramento genetico della speciee gli strumenti prodotti, quali i marcatori mole-

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Figura 1. Descrizione della regione fisica contenente il ge-ne Vf per la resistenza alla ticchiolatura in melo (da Xu andKorban 2002, Genetics, 162:1995-2006. Copyright 2002 bythe Genetics Society of America).

Figure 1. Description of the physical map of the Vf region,containing the trait of the resistance to apple scab in apple(from Xu and Korban 2002, Genetics, 162:1995-2006. Copy-right 2002 by the Genetics Society of America).

colari adesso possibili all’interno delle sequen-ze codificanti predette sulla base della ricostru-zione di tutti i 17 cromosomi della specie, so-sterranno programmi di miglioramento geneti-co italiani già di rilevante importanza ma anco-ra più robusti grazie alle recenti conoscenzeprodotte.

Vite. Per ultima, non certo per ordine di impor-tanza, merita un approfondimento la vite inquanto nel corso del 2007 ben due genomi so-no stati resi pubblici, da due attività di sequen-ziamento tra loro complementari, che hanno vi-sto gruppi italiani di Università e Istituti di Ri-cerca nazionali primeggiare in un settore, la ge-nomica, dove l’Italia aveva finora avuto un ruo-lo decisamente da comprimaria. Nell’estate del2007 (Jaillon et al., 2007) un primo lavoro hapresentato un importante contributo a quelloche forse può essere descritto come il maggio-re progresso dell’anno nelle piante da frutto,con la pubblicazione della sequenza di un ge-notipo altamente omozigote di Vitis vinifera, se-guito, nel dicembre del 2007, dalla pubblicazio-ne del secondo lavoro sul genoma del Pinot Ne-ro, sempre della vite europea coltivata (fig. 2;Velasco et al., 2007). Questi due lavori hannoentrambi rivelato la presenza nel genoma dellaspecie di circa 30.000 geni di cui oggi si cono-sce la posizione sui 19 cromosomi della specie.Nel primo progetto di sequenziamento sono incorso analisi di annotazione fine delle sequen-ze codificanti attese per la fine dell’anno, nel se-condo caso gli oltre 30.000 geni sono stati clas-sificati con sistemi automatici e ci si è concen-trati soprattutto nella struttura del genoma diuna specie coltivata, altamente eterozigote, ericca di differenze (polimorfismi) nel confrontotra i due aplotipi (i genomi presenti nei cromo-somi omologhi della vite) identificati in oltre 2milioni di singoli nuclotidi (fig. 3; Troggio et al.,2007; Velasco et al., 2007) e quasi un milione diinserzione e delezioni nel confronto tra i duegenomi. Si è visto addirittura come, all’internodi una varietà coesistano due genomi che tra lo-ro differiscono di oltre l’11% in termini di se-quenze presente nell’uno ed assenti nell’altro,rivelandoci come nelle differenze esistenti tradue varietà di una specie come la vite, ad esem-pio il Cabernet Sauvignon e il Pinot Nero esi-stano porzioni del genoma che sono completa-mente assenti in una varietà e presenti nell’al-tra (Zharkikh et al., 2008). Queste differenze

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Figura 2. Comparazione tra mappa genetica e sequenza ge-nomica nel cromosoma 18 (http://genomics.research.iasma.it, da Zharkikh et al., 2008. Copyright 2008 by theJournal of Biotecnology).

Figure 2. Comparison between the genetic map and the ge-nome sequenze on chromosome 18 (http://genomics.resear-ch.iasma.it, from Zharkikh et al., 2008. Copyright 2008 bythe Journal of Biotecnology).

possono chiaramente giocare ruoli fondamenta-li nelle diverse caratteristiche vinificatorie delledue varietà ed aiutare enormemente nel futurodel miglioramento genetico (Troggio et al.,2008).

A questo proposito vale forse la pena sotto-lineare che nel settore viticolo non abbiamo ri-chieste di rinnovo varietale come per esempionel settore della mela o delle drupacee. Questoanche per l’utilizzo del prodotto uva non tantonel consumo diretto quanto nella produzione dilavorato (vino) che subisce notevoli trasforma-zioni che, si pensa, abbiano maggiore importan-za del prodotto uva. È però un fatto che solo

da buona uva si può produrre buon vino, e chea conti fatti, le varietà di maggiore diffusionemondiale si contano sulla punta delle dita, e chequeste vengano utilizzate spesso per migliorareo stabilizzare il prodotto lavorato di varietà me-no stabili o più scadenti (ENOSIS, 2007). Allaluce di ciò, presentare un programma di mi-glioramento genetico e di costituzione di nuovevarietà utilizzando l’enorme mole di dati che ilsequenziamento del genoma della vite ha pro-dotto si ritiene che possa essere una propostache avrà esiti rivoluzionari anche nel campo del-la viticoltura.

Un discorso a parte merita quanto può es-

Allavena A., Corino L., Quarta R., Rotino G.L., Velasco R.

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Figura 3. Particolari del genoma del Pinot Nero. A) differenze tra i due aplotipi nei due cromosomi omologhi del Pinot;B) rappresentazione grafica della distribuzione dei polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) tra i due aplotipi e numero diSNPs totale per cromosoma; C) numero SNPs in esoni, introni, sequenze intergeneiche; distribuzione degli SNPs nelle se-quenze codificanti; D ed E) analisi delle sostituzioni aminoacidiche utilizzate per studi filogenetici. (da Velasco et al., 2007.Copyright 2007 by PLoSONE, 2, 12:e1326).

Figure 3. Details of the Pinot Noir genome: A) differences between the two haplotypes of the two homologues chromo-somes in Pinot; B) graphic representation of the polymorphism distribution of single nucleotides (SNPs) between the twohaplotypes and total number of SNPs per chromosome; C) number of SNPs in exons, introns and intergenic sequences; di-stribution of SNPs in the coding sequences; D and E) analysis of the aminoacidic substitutions used for phylogenetic analy-sis (from Velasco et al., 2007. Copyright 2007 by PLoSONE, 2, 12:e1326).

sere fatto nel campo del miglioramento geneticodell’uva da tavola, che è da sempre in mano aStati Uniti o Israele, gli unici stati che hanno in-vestito seriamente in questa attività che li vededominare la scena. La viticoltura italiana può ri-prendersi un ruolo importante nel settore di co-stituzione di nuove varietà se saprà utilizzare lamole di dati e competenze che si sono sviluppa-te grazie anche e soprattutto a queste due inizia-tive di elevato profilo che hanno definitivamentesancito il ruolo di centri di genomica e geneticavegetale italiani nel panorama internazionale.

Conclusioni

Gli esempi riportati ci danno un’idea di quellache è stata l’evoluzione della ricerca nel setto-re orto-floro-frutticolo italiano. Il panorama ètutt’altro che deserto dal punto di vista delleidee e delle competenze. Anzi, quando adegua-tamente finanziato, ha dimostrato che anche inItalia si può realizzare un’ottima ricerca chedarà frutti importanti nel settore del migliora-mento genetico dei prossimi anni. La crescita digiovani motivati e competenti è forse il risulta-to migliore. Questi progetti hanno contribuitofortemente alla loro crescita e alla loro produt-tività scientifica.

È evidente che il settore orto-floro-fruttico-lo rappresenti una parte importante dell’agri-coltura italiana, e che possa divenirne il fiore al-l’occhiello, anche perché, a causa degli sviluppidel mercato globale, potremo vedere un ruoloimportante per l’Italia solo se i suoi prodotti sa-ranno sempre chiaramente distinguibili per qua-lità e tracciabilità, più che per l’elevata produ-zione. In quest’ottica, la ricerca italiana nel set-tore può e deve giocare un ruolo determinantenel contribuire al miglioramento degli aspettiqualitativi dei prodotti ad alto valore nutritivoquali ortaggi e frutta, ed a proporre novità ca-ratterizzanti il nostro panorama varietale connovità commercialmente apprezzabili.

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Basi genetiche e fisiologiche della qualità degli alimenti di origine animale

Pier Lorenzo Secchiari11, Paolo Carnier2, Alessandro Priolo3, Marcello Mele1

1Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agro-ecosistema – Sezione di Scienze Zootecniche,Università di Pisa

Via del Borghetto 80, 56124 Pisa2Dipartimento di Scienze Animali, Università di PadovaAgripolis, Viale dell’Università 16, 35020 Legnaro (PD)

3 Dipartimento di Scienze Agronomiche, Agrochimiche e delle Produzioni Animali – Sezione di Scienze delleProduzioni Animali, Università di Catania

Via Valdisavoia 5, 95123 Catania

Associazione Scientifica di Produzione Animale

RiassuntoIl miglioramento della qualità dei prodotti rappresenta, da più di vent’anni, uno degli obiettivi prioritari dell’atti-vità di ricerca nell’ambito delle scienze animali, a causa dell’importanza crescente di questo fattore nelle scelte ope-rate dai consumatori. In questo lavoro vengono passati in rassegna i principali alimenti di origine animale (latte,carni e uova), evidenziando lo stato attuale delle conoscenze genetiche e fisiologiche che sono alla base delle loroprincipali caratteristiche qualitative. In particolare nei bovini e nei suini viene esaminato il ruolo della geneticaquantitativa e l’importanza crescente delle conoscenze derivanti dallo studio del genoma animale e dall’individua-zione di QTL, vale a dire loci aventi effetto sui caratteri quantitativi. L’aumento delle conoscenze sulle regioni ge-nomiche che controllano i QTL può consentire di avviare programmi di miglioramento genetico, utilizzando la Se-lezione Assistita da Marcatori (MAS) e l’Introgressione di geni Assistita da Marcatori (MAI). Accanto a questeproblematiche vengono riportate le conoscenze relative ai processi fisio-metabolici che determinano la qualità deiprodotti soprattutto riguardo la loro componente lipidica e proteica. In riferimento ai prodotti di altre specie ven-gono analizzate le conoscenze relative alla fisiologia della produzione delle uova e al miglioramento genetico del-le ovaiole e sono ricordati gli aspetti qualitativi più rilevanti delle carni avicole e di coniglio, le particolarità fisio-logiche che condizionano l’espressione di quest’ultime e le metodologie di miglioramento genetico oggi attuate.

Parole chiave: alimenti, genetica, fisiologia, qualità.

Summary

GENETIC AND PHYSIOLOGY BASIS OF THE QUALITY OF LIVESTOCK PRODUCTS.

The animal research gives more attention, for more than twenty years, to the improvement of food quality, becausethis aspect plays an important role in the consumer choice. In this paper are browsed the principal foods of ani-mal origin (milk, meat and eggs), paying attention on the actual genetic and physiologic knowledge, which influ-ence the quality characteristic. Particularly, we examined the role of Quantitative Genetic in bovine and swine andthe growing knowledge about animal genomes and individuation of QTL. Information on genomic regions that con-trol QTL, allow to organize genetic improvement programs, using Markers Assisted Selection (MAS) and MarkersAssisted Introgression (MAI). Moreover are reported the knowledge about metabolic processes that influence qual-ity especially on lipid and protein component. About other productions are considered the physiology of eggs pro-duction and the genetic improvement of hens. Finally the qualitative aspects about poultry and rabbit meat and theactual genetic improvement strategy are reported.

Key-words: foods, genetic, physiology, quality.

* Autore corrispondente: tel.: +39 050 599225; fax: +39 050 540633. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:81-102

1. Introduzione

L’agricoltura odierna sta attraversando un’im-portante fase di transizione che la porterà adacquisire un nuovo ruolo nel contesto socio-eco-nomico nazionale e internazionale. L’aumentodella produzione agricola non riveste più il fineultimo delle pratiche agronomiche, perché sistanno sviluppando nuovi aspetti quali la tuteladell’ambiente, l’agricoltura sostenibile, la difesaidrogeologica, la salvaguardia della biodiversitàanimale e vegetale, la qualità della vita, che han-no sostituito e diversificato l’univoca finalità ori-ginaria. L’avvenire dell’agricoltura, per decisionepolitica della Unione Europea, si indica ormai intermini di sviluppo rurale, che riassume tutti icontenuti in cui si declina l’attività agricola nellasua accezione più moderna.

La zootecnia italiana, dal canto suo, si sta ade-guando alle nuove esigenze del settore, grazie an-che all’apporto fondamentale della ricerca scien-tifica. Le conquiste fatte nel campo della geneti-ca, della nutrizione e del management aziendale,hanno permesso di conquistare importanti risul-tati, con lo scopo di migliorare la produzione nonsolo da un punto di vista quantitativo, ma anchee soprattutto, qualitativo. Le principali produzio-ni zootecniche sono rappresentate dal latte deigrandi (bovini e bufali) e piccoli ruminanti (ca-pre e pecore), dalla carne bovina, suina e avicu-nicola e dalle uova. Il miglioramento della qua-lità di questi prodotti rappresenta, da più divent’anni, uno degli obiettivi prioritari dell’atti-vità di ricerca nell’ambito delle scienze animali. Ilperseguimento di questo obiettivo ha consentitolo sviluppo di questo specifico ambito di ricerca.Tale sviluppo, tuttavia, non sarebbe stato possibi-le se non fosse stato accompagnato da un con-temporaneo avanzamento delle conoscenze nelcampo della genetica e della fisiologia degli or-ganismi animali coinvolti nei processi produttivi,da cui derivano gli alimenti che sono considera-ti in questa rassegna.

2. Il latte

Il processo fisiologico, che porta alla sintesi dellatte, è detto lattazione. Le fasi che caratteriz-zano questo processo sono la secrezione, l’eie-zione e l’estrazione del latte.

La cellula mammaria, durante la sintesi del

latte, preleva sostanze dal sangue e le rielaboraper la sintesi dei vari componenti (lattosio, lipi-di e proteine), ai quali aggiunge, assumendoli di-rettamente dal circolo sanguigno, sali minerali ecomponenti minori (azoto non proteico e vita-mine). Per fare questo la cellula epiteliale mam-maria ha sviluppato una straordinaria organiz-zazione ed efficienza nella capacità di converti-re i nutrienti circolanti nei componenti del lat-te (Bauman et al., 2006).

La secrezione di latte da parte della ghian-dola mammaria è sostenuta da una serie di con-trolli di tipo neuroendocrino che stimolano ilmetabolismo mammario e ai quali si accompa-gna un largo aumento nella richiesta di nu-trienti, soprattutto negli individui appartenentia razze di ruminanti selezionate per il loro po-tenziale produttivo. I fabbisogni della ghiando-la mammaria sono parzialmente soddisfatti dal-la maggiore disponibilità di nutrienti che l’alle-vatore mette a disposizione con la dieta e dal-l’aumentata efficienza digestiva e metabolicadell’animale. In aggiunta, la mobilizzazione del-le riserve minerali, lipidiche e proteiche dell’or-ganismo, fornisce alla ghiandola mammaria l’ap-porto di metaboliti necessario per assicurareun’adeguata secrezione di latte. In particolare,all’inizio della lattazione, l’animale è soggettoad una serie di cambiamenti del metabolismodei diversi organi e tessuti, al fine di assicurareun adeguato rifornimento di nutrienti allaghiandola mammaria. Tali adattamenti metabo-lici riguardano: il tessuto adiposo, che, tramitela mobilizzazione degli acidi grassi contenuti neitrigliceridi degli adipociti, consente di sopperireal deficit energetico che si realizza negli anima-li che producono elevate quantità di latte nellafase iniziale della lattazione; il tessuto muscola-re, che, sempre nella fase iniziale della lattazio-ne, mobilizza proteine di riserva per sopperireagli aumentati fabbisogni della ghiandola mam-maria; il fegato, la cui attività di gluconeogene-si, di turnover del glucosio e di ossidazione de-gli acidi grassi, incrementa notevolmente con l’i-nizio della lattazione, per sopperire ai notevolifabbisogni energetici che questo stadio fisiolo-gico necessita, le ossa, che forniscono parte del-le grandi quantità di minerali, soprattutto cal-cio, secreti con il latte. Infine, un ruolo deter-minate nella regolazione del metabolismo del-l’animale in lattazione è svolto dagli ormoni cir-colanti.

Secchiari P.L., Carnier P., Priolo A., Mele M.

82

Alla funzionalità della mammella concorro-no, infatti, molti ormoni; fra questi, per la mam-mogenesi sono importanti gli Estrogeni, che agi-scono sullo sviluppo dei dotti e il Progesterone,che influenza il trofismo delle cellule alveolari;abbiamo poi l’effetto di altri ormoni, quali laProlattina, il Cortisolo, e l’Insulina, gli ormonitiroidei (T3: Trioidiotironina e T4: Tiroxina),l’IGF1 e l’ormone placentare prolattina-simile(HPLC, Ormone Lattogeno Placentare). La lat-togenesi e la galattopoiesi sono sostenute dallaProlattina, secreta dalle cellule lattotrofe dell’a-denoipofisi, che avvia i processi di biosintesi edi secrezione del latte. Nei ruminanti, a diffe-renza dei monogastrici, il mantenimento dellasecrezione di latte durante la lattazione non èstrettamente dipendente dalla concentrazione diProlattina (Delouis et al., 1980).

Gli Estrogeni svolgerebbero un ruolo indi-retto nel favorire la lattogenesi, in quanto l’au-mento della loro concentrazione ematica dopoil parto stimolerebbe la secrezione di prolattinada parte dell’adenoipofisi (Kann e Houdebine,1978), così come la diminuzione della concen-trazione di Progesterone durante la fase finaledella gravidanza è il segnale più efficace nel-l’indurre la secrezione di Prolattina e, pertanto,avviare il processo di secrezione del latte. Alcontrario i livelli di Progesteronemia che si han-no durante la gravidanza inibiscono la secrezio-ne di latte per via diretta tramite la riduzionedell’espressione del gene della prolattina a li-vello dell’adenoipofisi.

Gli ormoni surrenalici e tiroidei sono neces-sari al mantenimento della lattazione; i primi(Cortisolo) sono infatti indispensabili per la for-mazione della quota minerale e idrica del latte,mentre i secondi regolano la funzionalità mito-condriale e, quindi, le vie metaboliche energeti-che cellulari.

Il GH (Ormone dell’accrescimento) ha unruolo importantissimo sullo sviluppo mamma-rio, in quanto esercita un’azione di controllo sulnumero e sulle dimensioni delle cellule mam-marie secernenti durante la lattazione. Inoltre,l’influenza dell’ormone GH, induce l’aumentodella produzione epatica di IGF-1, che favori-sce la moltiplicazione delle cellule del tessutomammario (Duclos et al., 1989). Le bovine piùproduttive avrebbero un’elevata secrezione diGH e questa condizione costituirebbe una ca-ratteristica genetica.

L’eiezione è il passaggio del latte dagli al-veoli alla cisterna della mammella. Il processoè regolato da un meccanismo neuroendocrino,originato dalla stimolazione della mammella edel capezzolo con la poppata o la mungitura. Isegnali nervosi di questi processi giungono al-l’encefalo e, quindi, sono trasferiti ai nuclei ipo-talamici (sede della sintesi dell’ossitocina) e daqui all’ipofisi (sede del suo accumulo), da cui ilneurormone viene rilasciato nel flusso sangui-gno. L’ossitocina agisce sulle cellule mioepite-liali degli alveoli mammari, provocando la lorocontrazione e quindi lo svuotamento dellaghiandola (Pulina e Nudda, 2001). L’assenza diossitocina non consentirebbe il completo svuo-tamento della mammella; nella vacca si riusci-rebbe ad estrarre appena il 30-40% del latte to-tale (Alais, 2000).

La contrazione degli alveoli incrementa lapressione endomammaria, ma non è in grado divincere la resistenza dello sfintere del capezzo-lo; questa sarà vinta solo dalla suzione o dallamungitura (Pulina e Nudda, 2001). Questa faserappresenta l’estrazione vera e propria del lat-te. Il latte secreto dalla ghiandola mammariapuò essere estratto naturalmente dai lattanti,oppure artificialmente con la mungitura.

Questo complesso sistema ormonale, oltre aregolare lo sviluppo della ghiandola mammariae l’avvio dell’attività secretoria, interviene an-che nella regolazione dei processi di sintesi deicomponenti del latte. Tra i diversi componentidel latte quelli che influenzano maggiormentele proprietà chimico, nutrizionali e tecnologichedello stesso sono sicuramente il lattosio, le pro-teine e il grasso. La piena comprensione deimeccanismi fisiologici che sono alla base dellasintesi di queste componenti rappresenta il pri-mo passo verso la messa a punto di adeguatestrategie di miglioramento della qualità dei pro-dotti.

2.1 Sintesi del lattosio

Il lattosio è un disaccaride costituito da una mo-lecola di glucosio e una di galattosio; dal puntodi vista biochimico è osmolaricamente attivo eperciò in grado di richiamare acqua, necessariaa garantire l’osmolarità, entro le membrane delGolgi, poste nel citoplasma cellulare in cui essoviene assemblato. In forza di questo processo illattosio condiziona la quantità di latte prodottopoiché ne determina il suo contenuto in acqua,

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cioè della componente più cospicua del lattemedesimo.

La sua sintesi è catalizzata dalla Lattosio-sin-tetasi, formata dalla UDP-galattosiltransferasi edalla alfa-lattoalbumina. La disponibilità di que-sta ultima proteina è controllata dalla Prolatti-na. Il Progesterone, invece, inibisce la forma-zione dell’alfa-lattoalbumina e pertanto ha uneffetto negativo sulla sintesi del lattosio e, perle ragioni suddette, sulla produzione di latte.

Infine, la disponibilità di glucosio per laghiandola mammaria è un altro fattore limitan-te la sintesi del lattosio.

Dal punto di vista nutrizionale, il lattosiosvolge un ruolo positivo nel metabolismo delCa, favorendone l’assorbimento intestinale.

Inoltre, dopo la sua idrolisi intestinale daparte della Lattasi, i glucidi che ne derivano so-no così utilizzati dall’organismo: il glucosio, a fi-ni energetici e il galattosio per fornire il sub-strato glucidico necessario alla sintesi dei galat-tolipidi. Quest’ultimo aspetto è estremamenteimportante, poiché i galattolipidi sono compo-nenti della mielina, sostanza cha avvolge ester-namente il sistema nervoso centrale e periferico.Come è noto la mielinizzazione nei mammiferisi completa dopo la nascita, e pertanto questoprocesso è favorito dall’assunzione del lattosiodel latte, durante la fase di allattamento.

2.2 Sintesi delle proteine del latte

Le principali proteine del latte vengono sinte-tizzate a partire dagli aminoacidi circolanti, infunzione dell’espressione dei geni codificantiper le quattro caseine (α-s1, α-s2, β e k-casei-na), la beta-lattoglobulina e l’alfa-lattoalbumi-na. La sintesi delle proteine del latte non si av-via subito dopo il parto, ma, in realtà, cominciaassai prima, durante la gravidanza, come testi-monia la presenza di mRNA caseinico nelle cel-lule ghiandolari durante questa fase fisiologica.Tuttavia, è solo con il parto che questo proces-so si amplifica e si estrinseca al suo massimo po-tenziale, favorito da un ambiente ormonale chevede prevalere la presenza di Prolattina, rispet-to al Progesterone. Quest’ultimo, infatti, pre-sente ad elevate concentrazione nel plasma dianimali gravidi, non consentirebbe un’efficientetraduzione di mRNA caseinico in proteina. LaProlattina, al contrario, è il principale ormoneche induce l’espressione dei geni delle proteinedel latte, stimolandone la trascrizione e stabiliz-

zando l’mRNA prodotto. L’effetto stimolantedella Prolattina sarebbe, inoltre, amplificato dal-l’azione dell’Insulina e degli ormoni glucocorti-coidi (Rosa et al., 1982).

La sintesi delle proteine del latte avvienenelle cellule secretici della ghiandola mamma-ria a livello del reticolo endoplasmatico rugoso.Successivamente, le proteine sono secrete nellume dell’alveolo mammario attraverso un mec-canismo che coinvolge la formazione di vesci-cole da parte dell’apparato del Golgi e la lorosuccessiva secrezione attraverso un meccanismodi esocitosi (Secchiari et al., 2008).

Alla quantità e alla qualità delle proteine dellatte sono legate molte delle proprietà nutrizio-nali e tecnologiche del latte. È noto, ad esem-pio, che la resa alla caseificazione è funzionedella quantità di caseina totale e del tipo diisoforme di K-caseina. La presenza, invece, dialcuni importanti peptidi bioattivi, come le ca-sochinine e le casossine, sono legati all’abbon-danza di β e k-caseina. Poiché la quantità dellediverse proteine presenti nel latte è funzionedelle diverse forme alleliche presenti nelle po-polazioni dei ruminanti, nel caso delle proteinele strategie di miglioramento della qualità dellatte sono storicamente fondate sull’individua-zione di alleli favorevoli e sull’impostazione diprogrammi di miglioramento genetico in gradodi sfruttare queste conoscenze. Questo aspetto,tuttavia, sarà trattato nella parte relativa alle ba-si genetiche della qualità del latte.

2.3 Sintesi del grasso del latte

Il grasso del latte è composto per circa il 98%da trigliceridi e la rimanente parte da fosfolipi-di, altri esteri del glicerolo, colesterolo e vita-mine liposolubili. Per la sintesi di questi com-posti, le cellule della ghiandola mammaria uti-lizzano per circa il 50% acidi grassi neosintetiz-zati a partire dall’acetato e dal beta-idrossi bu-tirrato, mentre, per il rimanente 50% utilizzanoacidi grassi preformati prelevati direttamentedal sangue. Questi ultimi derivano dalla dieta edalla mobilizzazione delle riserve lipidiche. Imeccanismi di sintesi del grasso del latte coin-volgono diversi enzimi che sono interessati nelprocesso di captazione dei precursori dal san-gue (Lipoproteinlipasi), nell’allungamento enella desaturazione delle catene carboniose de-gli acidi grassi (Acetil-CoA Carbossilasi; Fattyacid Sintasi, ∆-9 desaturasi); nel trasporto degli

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acidi grassi all’interno del citoplasma (FattyAcid Binding Protein); nell’esterificazione delglicerolo per la formazione di trigliceridi e fo-sfolipidi (Acil-transferasi). Oltre a questi inter-vengono, inoltre, tutti gli enzimi coinvolti nelmetabolismo energetico della cellula ghiandola-re al fine di fornire gli equivalenti riduttivi el’ATP necessario alla realizzazione delle reazio-ni biochimiche e di ossidoriduzione che sono al-la base della sintesi dei grassi del latte. Un ruo-lo importante nella determinazione della dispo-nibilità di precursori ematici per la sintesi mam-maria di grasso del latte è svolto anche dall’e-quilibrio ormonale. Gli ormoni maggiormentecoinvolti sono l’Insulina, l’Epinefrina, il GH ela Leptina. La loro azione si esplica principal-mente sulla capacità dell’animale di mobilizza-re le riserve lipidiche e, pertanto, di rendere di-sponibili gli acidi grassi in esse contenuti sia perla loro β-ossidazione sia per aumentare l’ap-porto di acidi grassi preformati alla ghiandolamammaria, in funzione del bilancio energeticodell’animale.

La conoscenza approfondita dei meccanismifisiologici e biochimici che sono alla base dellasecrezione del grasso del latte ha permesso losviluppo di strategie nutrizionali finalizzate amigliorare la qualità del grasso del latte dei ru-minanti. Data la grande importanza che ha as-sunto il ruolo nutraceutico degli alimenti nellaprevenzione delle principali malattie che afflig-gono le società dei paesi sviluppati, uno degliobiettivi primari della ricerca negli ultimivent’anni è quello di migliorare la composizio-ne degli acidi grassi del latte nel senso di otte-nere un aumento della frazione insatura a di-scapito di quella satura. Tale obiettivo nasce dal-la consapevolezza che, in assenza di adeguati ac-corgimenti nutrizionali, la fisiologia del rumi-nante è indirizzata verso la sintesi di un grassoad alto contenuto di acidi grassi saturi. Questosi deve a due motivi: da un lato gli acidi grassiinsaturi contenuti nella dieta subiscono intensiprocessi di bioidrogenazione a livello del rumi-ne ad opera dei microrganismi ivi presenti; dal-l’altro, l’attività sintetica della ghiandola mam-maria è dedicata in massima parte alla forma-zione di acidi grassi saturi a media catena (in-dicati come fattori di rischio nell’uomo per lemalattie cardiovascolari), grazie ad un sistemaenzimatico che non consente di ottenere allun-gamenti della catena carboniosa degli acidi gras-

si oltre i 16 atomi di carbonio (Mele et al., 2007).D’altra parte le stesse bioidrogenazioni ruminaliresponsabili dell’accumulo di acidi grassi saturisono anche la via biochimica che garantisce laformazione a livello ruminale di acido vacceni-co (trans-11 C18:1), che, a livello delle celluledella ghiandola mammaria, grazie all’azione del-l’enzima ∆-9 desaturasi, viene convertito in ma-niera significativa ad acido rumenico (cis-9,trans-11 18:2), un isomero coniugato dell’acidolinoleico (CLA) dalle riconosciute proprietà an-titumorali, antidiabetiche, immunomodulanti eantiaterosclerotiche. Ad oggi, accanto a quellegenetiche, esistono numerose strategie nutrizio-nali in grado di orientare i meccanismi biochi-mici e fisiologici che intervengono nel metabo-lismo lipidico dei ruminanti, al fine di aumen-tare il contenuto di acidi grassi favorevoli per lasalute umana, a discapito di quelli sfavorevoli. Ta-li strategie si basano sulla modulazione delle bioi-drogenazioni ruminali, sull’interferenza che alcu-ni acidi grassi esercitano sulla neosintesi mam-maria di acidi grassi saturi e sulla modulazionedell’attività desaturasica mammaria.

2.4 Basi genetiche della qualità del latte

Il miglioramento della qualità del latte è statoed è tuttora perseguito attraverso i metodi del-la genetica quantitativa che hanno come baseconcettuale il modello infinitesimale. Tali meto-di hanno conosciuto nel tempo una considere-vole evoluzione nei sistemi di stima dei para-metri genetici, tuttavia si basano sempre suinformazioni fenotipiche e genealogiche, nonconsiderando, fino a pochi anni fa, aspetti lega-ti alla struttura del genotipo degli animali. I si-stemi sopra accennati originano dal modello ge-nerale di stima del Valore genetico additivo conil metodo infinitesimale e dalla derivazione daquesto dei metodi basati su equazioni di mo-dello misto, che hanno generato l’attualeBLUP-Animal Model. All’ottimizzazione diquesto risultato ha dato un grosso contributol’affinamento delle tecniche di rilievo dei datifenotipici basato sul Test-Day-Model. L’agevolestima delle parentele degli animali attraverso ilMetodo tabulare ha permesso la creazione el’inserimento nei modelli delle matrici di pa-rentela, aumentando considerevolmente l’accu-ratezza della stima del Valore genetico, parten-do da dati fenotipici che il Test-Day riesce a rap-

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presentare adeguatamente (Secchiari et al.,2007).

Inoltre, nell’ultimo ventennio, lo sviluppodelle tecnologie di genetica molecolare ha per-messo di ottenere un’enorme quantità di infor-mazioni sul genoma delle specie animali di in-teresse zootecnico. L’utilizzo di queste informa-zioni riveste una particolare importanza perquanto riguarda il miglioramento genetico che,in generale, ha come obiettivi finali il migliora-mento della quantità e della qualità dei prodottizootecnici. A tale scopo, lo sfruttamento dellenuove conoscenze, che derivano dalla geneticamolecolare, si attua attraverso la selezione de-gli animali basata sulle informazioni di marca-tori del DNA, la così detta selezione assistita damarcatori o Marker Assisted Selection (MAS),che si basa appunto sull’individuazione di QTL,vale a dire loci aventi effetto sui caratteri quan-titativi. Attualmente, sebbene l’impiego dellaMAS nei programmi di selezione sia ancora nel-la sua fase iniziale, gli studi compiuti per svi-luppare risorse genetiche e strumenti che per-mettano l’identificazione di geni o regioni delgenoma in grado di influenzare i caratteri di in-teresse economico rappresentano il punto dipartenza per l’identificazione delle strategie fu-ture di ricerca e per le applicazioni in campozootecnico.

Un approccio alternativo alla MAS è rap-presentato dallo studio dei geni candidati, ba-sandosi sulle informazioni che derivano dall’au-mento delle conoscenze sulla fisiologia deglianimali, per identificare direttamente marcatoriassociati con caratteri produttivi. Dato che il nu-mero di potenziali geni candidati è spesso mol-to elevato, l’integrazione dell’approccio del ge-ne candidato con le informazioni ottenute dalmappaggio di QTL permette di ridurre note-volmente il numero dei possibili geni da stu-diare aumentando le probabilità di identificaremarcatori effettivamente associati con i caratte-ri oggetto di studio.

Un esempio di utilizzo del gene candidato èquello delle caseine del latte. La qualità tecno-logica del latte è rappresentata eminentementedalla frazione proteica caseinica: α-s1, β e k-ca-seina. I tre loci, che presentano un ampio poli-morfismo genetico (tab. 1), sono stati mappatisul cromosoma 6 nella specie bovina e sono instretto linkage fra loro occupando uno spazio dicirca 0,25 cM (Ferretti et al., 1990); l’effetto dei

diversi alleli è stato ampiamente studiato (Pa-gnacco e Caroli, 1987; Ikonen et al., 1996) ed èstata sottolineata una migliore attitudine allacoagulazione del latte associata alla k- caseinaB, rispetto alla A (Pagnacco e Caroli, 1987),mentre la variante E, la cui frequenza nella Fri-sona Italiana non è irrilevante, sembrerebbepresentare effetti molto negativi (Leone et al.,1998). Questo approccio, basato sull’associazio-ne tra le forme geniche di un singolo locus e lecaratteristiche produttive degli animali portato-ri dei diversi alleli, ha condotto all’applicazionedella selezione dei riproduttori genotipizzati peril locus della k-caseina, come avviene nelle raz-ze bovine Frisona Italiana e Bruna Italiana (fig.1). Quello della K-caseina è, allo stato attuale,l’unico esempio applicativo di MAS che riguar-da i caratteri qualitativi del latte.

Alcuni autori, tuttavia, hanno recentementeposto l’attenzione sul fatto che i risultati relati-vi agli effetti dei polimorfismi dei singoli locisulle caratteristiche produttive degli animali so-no spesso contrastanti tra loro e, pertanto, glieffetti positivi sulla produzione osservati in al-cuni studi potrebbero essere dovuti all’associa-zione tra il locus caseinico e altri loci presentisul cromosoma 6, piuttosto che all’esclusivo ef-fetto allelico del locus stesso (Braunschweig etal., 2000). Attualmente, pertanto, si ritiene cheuna miglior stima degli effetti dei vari alleli dellocus caseinico si ottenga indirizzando la stimamedesima al cluster caseinico, partendo non daisemplici genotipi, ma dai diversi aplotipi osser-

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FRISONA* BRUNA°°°°

Figura 1. Distribuzione del polimorfismo della k-caseina nel-le razze Frisona Italiana e Bruna Italiana. Legenda: nero =AA; grigio = AB; bianco = BB. Frequenza allelica A in Fri-sona = 82,70%; Frequenza allelica A in Bruna = 38,64%(ANAFI 2005 e ANARB, 2005).

Figure 1. K-casein polymorphism distribution in Italian Hol-stein Friesian and Italian Brown breed. Legend: black = AA;grey = AB; white = BB. Allelic frequency A in Italian Hol-stein Friesian = 82.70%; Allelic frequency in Italian Brown= 38.64% (ANAFI 2005 and ANARB 2005).

vabili in ogni singola razza. Gli aplotipi sono po-limorfismi a due o più loci strettamente asso-ciati su un cromosoma, generalmente ereditaticome un’unità. Recentemente, è stato dimostra-to che medesimi aplotipi tendono ad avere ef-fetti simili in razze differenti e questo sembraconfermare l’importanza del cluster caseinico ri-

spetto ai singoli polimorfismi ivi contenuti, perspiegare gli effetti ad esso associati (Boettcheret al., 2004).

Anche per quanto riguarda la quantità e laqualità del grasso del latte è stato sperimenta-to l’approccio del gene candidato, tuttavia, a dif-ferenza di quanto evidenziato per la frazione

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Tabella 1. Varianti genetiche delle componenti della frazione caseinica del latte.

Table 1. Genetic variants of milk caseins.

Caseina Variante Variazione rispetto alla forma A specifico Riferimentiper ogni classe

Alfa s1 A Thompson et al., 1962caseina B Inserzione Aa 14-26 Thompson et al., 1962

C Glu(192)→Gly Thompson et al., 1962; Kiddy et al., 1963D Ala(53)→Thr P Grosclaude et al., 1966Eyak Glu(192)→Gly Grosclaude et al., 1974, 1976

Gln(59)→LysF Ser(66)→Leu Erhardt et al., 1992; Erhardt 1993G Variazioni a livello nucleotidico, inserzione Rando et al., 1993, 1995

di 371 bp nell’esone 19 Ramunno et al., 1994H Delezione aminoacidi (Aa) 51-58 Mahè et al., 1999

Alfa s2 A Grosclaude et al., 1976caseina B Variante non ancora caratterizzata Grosclaude et al., 1976

C Glu (33)→Gly Grosclaude et al., 1976Ala (47)→ThrThr (130)→Ile

D Delezione Grosclaude et al., 1976, 1978Aa 51-59

Beta A1 Pro(67)→His Peterson e Kopfler, 1966; Kiddy et al., 1963caseina A2 Peterson e Kopfler, 1966; Kiddy et al., 1963

A3 His(106)→Gln Kiddy et al., 1963B Pro(67)→His; Ser(122)→Arg Aschaffenburg, 1961-1963C Pro(67)→His; Glu(37)→Lys; Ser P(35)→Ser Aschaffenburg, 1961-1963D Ser P(18)→Lys Aschaffenburg, 1961-1963E Variante non ancora caratterizzata Voglino, 1972A’ Variante non ancora caratterizzata Abe et al., 1975A3m Variante non ancora caratterizzata Grosclaude, 1975B2 Variante non ancora caratterizzata Creamer e Richardson, 1975A4 (H) [Pro(67)→His]; Arg(25)→Cys Han et al., 1983; Chung et al., 1995;

Han e Shin, 1996F Pro(67)→His; Pro(152)→Leu Visser et al., 1991-1995A5 Mutazione silente C∅T nella 3ª posizione Lien e Rogne, 1993

del codone codificante per Pro (110)

K caseina A Neelin, 1964B Thr(136)→Ile; Asp(148)→Ala Gorodetshij et Kaledin, 1987C Thr(136)→Ile; Asp(148)→Ala; Arg(97)→His Di Stasio e Merlin, 1978E Ser(155)→Gly Erhardt et al., 1989; Erhardt 1989F Arg(10)→His Sulimova et al., 1992G Asp(148)→Ala Sulimova et al., 1996G Arg(97)→Cys Erhardt, 1996H Ile(135)→Thr Grosclaude et al., 1974; Prinzerberg e

Erhardt, 1998; Prinzenberg et al., 1999I Ser(104)→Ala Prinzerberg e Erhardt, 1998; Prinzenberg et

al., 1999J Ser(155)→Arg Mahè et al., 1999

proteica, mancano ancora delle esperienze ap-plicative nell’ambito della selezione.

Come ricordato in precedenza, il controllodel metabolismo lipidico è regolato dall’espres-sione e dall’attivazione di numerosi geni chedanno origine a molteplici enzimi di cui alcunisvolgono un ruolo chiave come il complessoAcetil-CoA-Carbossilasi (ACC) e Sintasi degliacidi grassi (FAS), le Lipoproteinlipasi (LPL),le Aciltransferasi (GPAT, LPAT, DGAT), le de-saturasi degli acidi grassi (∆4, ∆5, ∆6 e ∆9 Stea-roil Co-A Desaturasi, SCD). La loro regolazio-ne è sicuramente di origine multifattoriale inquanto comprende fattori endogeni ed esogeni.I primi sono costituiti essenzialmente da mole-cole prodotte dall’organismo (come gli ormoniInsulina e Leptina), che hanno la capacità di at-tivare fattori che, a loro volta, sono in grado diattivare o reprimere l’espressione dei geni lipo-genici. I fattori esogeni, al contrario, sono lega-ti a stimoli esterni come le condizioni ambien-tali (clima, management e salute dell’animale) ela composizione della dieta. Dal punto di vistadelle relazioni fra polimorfismi genetici e carat-teristiche produttive degli animali i geni più in-vestigati risultano essere quelli relativi agli en-zimi ACC, DGAT e SCD.

Tra gli enzimi lipogenici, le acil-transferasisono quelle responsabili della sintesi dei trigli-ceridi, essendo deputate al trasferimento seletti-vo degli acidi grassi nelle tre posizioni della gli-cerina (sn-1, sn-2 e sn-3). L’enzima DGAT cata-lizza l’ultima fase della sintesi dei trigliceridi, inquanto la reazione comporta l’esterificazione deidiacilgliceroli con gli acil-CoA in posizione sn-3.

Nel bovino è stata dimostrata la presenza diun gene candidato, il DGAT1, che presenta unpolimorfismo a livello proteico, dove in posi-zione 232 si nota la sostituzione non conserva-tiva di una lisina (K) con un’alanina (A)(K232A). Questo polimorfismo ha manifestatoun forte effetto sul contenuto di grasso nel lat-te e su altre caratteristiche del latte nelle razzeJersey, Ayrshire e Holstein neozelandese, olan-dese, tedesca, israeliana e polacca (Grisart et al.,2002; Spelman et al., 2002; Thaller et al., 2003;Weller et al., 2003). L’allele K comporta unaVMAX di reazione superiore all’allele A, inoltreesprime un maggior contenuto di grasso nel lat-te (+0.35%) e una maggiore produzione di lat-te (+10 Kg) (Grisart et al., 2004; Spelman et al.,2002; Winter et al., 2002). Dall’analisi delle se-

quenze presenti in banca dati (GenBank n. d’ac-cesso AW446985) è stata messa in evidenza l’e-sistenza di uno splicing alternativo. Questo com-porta la comparsa di due trascritti che differi-scono per la loro lunghezza. Il più lungo utiliz-za la parte terminale dell’ottavo introne, preci-samente 6 bp a monte del sito polimorficoK232A, con una conseguente “intronificazione”dell’ottavo esone. Amplificando la regione com-prendente il sito di splicing alternativo, è statopossibile verificare che la variante più corta èassociata con l’allele K del locus K232A (Gri-sart et al., 2004). Analisi fatte sulla sequenza delgene DGAT1, hanno mostrato l’esistenza di al-tri polimorfismi oltre al K232A: due SNP(A→G; C→T) a livello dell’introne 12 chiama-ti rispettivamente N984+8(AG) e N984+26(CT);ed uno SNP (C→T) nella regione 3’UTR chia-mato Nt-1501 (Grisart et al., 2001). Esiste ancheun secondo gene, chiamato DGAT2, evidenzia-to in topi transgenici, cui era stata bloccata l’e-spressione del DGAT1, che rappresenta una viaalternativa per la sintesi di trigliceridi (Cases etal., 2001). Riguardo alla specificità nei confron-ti degli acidi grassi, non si sono notate differenzetra DGAT1 e DGAT2, anche se appartengonoa famiglie di geni che non mostrano omologia(Cases et al., 2001). Il DGAT1 è localizzato sulcromosoma 14 bovino nella zona di un QTL as-sociato al miglioramento della produzione digrasso del latte. La zona in cui è contenuto que-sto QTL è compresa tra i marcatori microsatel-litari BULGE13-BULGE9 e i dati ottenuti daGrisart et al. (2001) suggeriscono che il DGAT1sia il gene candidato associato a questo QTL.Tra le desaturasi degli acidi grassi la ∆9 (SCD)svolge sicuramente un ruolo centrale, in quantoè responsabile della produzione di circa la metàdel contenuto di uno degli acidi grassi mag-giormente rappresentato nei lipidi animali: l’a-cido oleico. La SCD è una proteina localizzatasulla membrana del reticolo endoplasmatico deimicrosomi ed ha la funzione di catalizzare la de-saturazione in posizione cis-∆9 di alcuni acidigrassi, tra cui l’acido stearico e l’acido vacceni-co, originando così rispettivamente l’acido olei-co (C18:1 cis-9) e l’acido rumenico (CLA cis-9,trans-11) (Ntambi et al., 2001). La sequenzaaminoacidica è caratterizzata dalla presenza di3 regioni ricche di istidina, che si ripetono intutte le specie con un elevato tasso di similarità,che si estende anche al regno vegetale. Questo

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fa supporre che le tre regioni intervengano at-tivamente nella catalisi della reazione (Ntambi1995; Behrouzian et al., 2003; Heinemann et al.,2003).

Il gene della SCD è costituito da sei esoni ecinque introni. Questa organizzazione è stata ri-trovata nel gene murino, umano, caprino, ovinoe bovino (Bernard et al., 2001). Le sequenzepresenti in banca dati rilevano una notevole si-milarità tra il cDNA della SCD dei caprini equello di ovini e bovini; mentre è più bassa conquello di topo e uomo (Bernard et al., 2001). Ilgene della SCD bovina è lungo 17088 bp ed èlocalizzato a livello del cromosoma 26. Lo stu-dio della struttura del gene ha rilevato la pre-senza di un polimorfismo, esteso a molte razze(Holstein, Jersey e Brown Suisse) (Medrano etal., 1999), costituito da tre mutazioni puntifor-mi (SNP) a carico del quinto esone, le primedue sono mutazioni silenti, mentre la terza com-porta la sostituzione di un amminoacido, preci-samente una valina con un’alanina, nella terzaregione istidinica (Medrano et al., 1999; Tanigu-chi et al., 2004). Questo comporta la presenzadi due aplotipi SCD (A e V), codificanti per dueforme proteiche che differiscono per la sostitu-zione aminoacidica sopra riportata (fig. 2). Apartire da questa evidenza sperimentale sonostate ipotizzate modifiche nell’attività enzimati-ca delle due proteine. Recentemente, nell’ambi-to di un progetto PRIN-MIUR coordinato da P.Secchiari, mediante uno studio condotto su 360bovine da latte di razza Frisona Italiana, è sta-to evidenziato che gli individui portatori dell’a-plotipo A mostravano un contenuto significati-

vamente più elevato di MUFA nel latte e un’at-tività desaturasica, misurata come rapportoC14:1/C14:0, più elevata, rispetto agli individuiomozigoti per l’aplotipo V (Mele et al., 2007).

Il gene della SCD di capra è stato mappatoa livello del cromosoma 26, ma non è stato an-cora sequenziato e poco si conosce riguardo lasua struttura. La lunghezza del cDNA è moltosimile a quello bovino e ovino con una simila-rità del 95% e 98% rispettivamente (Bernard etal., 2001). È stato comunque individuato un po-limorfismo all’interno del gene, non dovuto amutazioni puntiformi, come nel caso dei bovini,ma ad una delezione di tre paia di basi (TGT),a livello della regione 3’UTR; precisamente nel-la zona compresa tra 3178-3180 del cDNA (Ber-nard et al., 2001). In questo caso la presenza delpolimorfismo non è stata ancora associata ad al-cun effetto sulla produzione quantitativa o qua-litativa di latte.

Negli ovini il gene SCD è localizzato a li-vello del ventiduesimo cromosoma e, come perla capra, la sua struttura non è stata ancora com-pletamente sequenziata. Attualmente è cono-sciuta la sequenza del cDNA che è lungo 1986bp. La sequenza aminoacidica del SCD ovinomostra una similarità del 93% con la SCD1 diratto, uomo e bovino (Ward et al., 1998). Unostudio condotto su una popolazione di reincro-cio Sarda x Lacaune ha evidenziato la presen-za di un QTL sul cromosoma 22 che influenzain maniera significativa il rapporto acido rume-nico/acido vaccenico. Dato che il gene SCD nel-la pecora è localizzato sul cromosoma 22 e chel’acido vaccenico rappresenta uno dei substrati

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Figura 2. Aplotipi A e V delgene ∆−9 Stearoil Co-A Desaturasi.

Figure 2. A and V aplotypeof ∆−9 Stearoyl Co-A Desa-turase gene.

dell’enzima SCD, è stato ipotizzato che il QTLsia associato allo stesso gene SCD (Daniel etal., 2004). Il gene SCD è uno dei pochi, insiemecon quello DGAT1 per il quale è stato dimo-strato un polimorfismo genetico associato convariazioni significative nella produzione di gras-so nel latte e nella carne. Questo fatto induce aconsiderare questi due geni come possibili can-didati per l’individuazione di marcatori mole-colari da utilizzare ai fini della selezione.

3. La carne

Si definiscono carni le parti commestibili deimuscoli scheletrici degli animali da macello pro-priamente detti (bovini, bufalini, equini, ovini,caprini, suini), del pollame, dei conigli e dellaselvaggina. Nelle carni, oltre al tessuto musco-lare, possono essere presenti, in proporzioni dif-ferenti, tessuto adiposo, osseo, cartilagineo econnettivale.

La produzione della carne deriva soprattut-to da soggetti giovani, dei quali, con appropria-te tecniche di allevamento e di alimentazione, siasseconda la naturale tendenza all’accrescimen-to e al conseguente sviluppo somatico.

Il tessuto maggiormente rappresentato nellacarne è quello muscolare striato, composto dafibre muscolari. Queste originano dal mesoder-ma embrionale, cioè dal mesenchima (pre-mio-blasti, mioblasti e miotubi) e diventano fibre po-linucleate, dotate di miofibrille.

Mentre durante i primi due terzi dello svi-luppo embrionale e fetale, l’aumento in peso ein volume è dovuto a iperplasia, nell’ultima fa-se della vita prenatale, si ha anche ipertrofia.Dopo la nascita le fibre aumentano sia in lun-ghezza sia in larghezza (ipertrofia) e l’aumentodel loro diametro è dovuto alla proliferazionedi cellule dette satellite ed alla loro successivadifferenziazione che comporta la loro fusionecon le fibre adiacenti e la formazione, pertanto,di cellule polinucleate responsabili dell'accre-scimento ipertrofico.

Il tessuto adiposo è formato da adipociti,che, alla nascita, possono essere presenti in dueforme: tessuto adiposo bruno e bianco. Il primo,caratterizzato da adipociti piccoli di colore bru-no, a causa del maggiore contenuto di citocro-mo nei mitocondri, ha funzioni energetiche peril neonato e, entro poche settimane, scompare o

è convertito in grasso bianco, caratterizzato daadipociti di volume più grande. Ai fini auxinicigli adipociti si accumulano soprattutto, neglianimali giovani, intorno ai visceri e ai reni e, alivello muscolare, nel perimisio, cioè nella mem-brana connettivale che avvolge i singoli musco-li e, infine, sulle fibre muscolari (grasso di ma-rezzatura). Successivamente e in maniera parti-colare durante “l’ingrasso”, il tessuto lipidicoaumenta nelle regioni suddette e anche nel sot-tocute, determinando una “copertura” adiposa,più evidente in certe regioni del corpo (i cosìdetti “tasti” o “maneggiamenti”), a livello deiquali è possibile apprezzare l’entità dell’accu-mulo adiposo e, da questo, stimare lo stato diingrassamento generale.

Sempre dal mesenchima si originano gliosteoblasti, i fibroplasti e i condroblasti. I primidaranno origine alle cellule ossee (osteociti), isecondi, cioè i fibrociti, formeranno i tendini, ilegamenti e i tessuti connettivali lasso e fibro-so; gli ultimi, divenuti condrociti, formeranno lecartilagini. L’accrescimento del tessuto osseo èdovuto, nelle ossa lunghe, all’accrescimento del-la cartilagine epifisaria (centro di ossificazione),che viene gradualmente sostituita da tessuto os-seo. Da analoghi centri di ossificazione, presen-ti nelle ossa piatte, procede la formazione in es-se di tessuto osseo definitivo.

Il tessuto connettivo fibroso, formato da col-lagene, elastina e reticolina, è parte integrantedi tutti i muscoli. Il contenuto di connettivo èmaggiore nei muscoli scheletrici degli arti chein quelli di supporto, quali i toracici e i lomba-ri, che danno i tagli di carne più pregiati.

L’accrescimento somatico è un processo cheinizia già durante la vita prenatale, soprattuttonell’ultimo periodo della gravidanza (nel bovi-no, dal settimo mese in poi) e si continua poi,dalla nascita fino al raggiungimento dello statoadulto. Sempre nel bovino, l’accrescimento hauna accelerazione dalla nascita alla pubertà euna successiva progressiva decelerazione daquesto momento all’età adulta. La maggior ve-locità di accrescimento si osserva nei muscolidegli arti e in quelli della groppa.

Il diametro delle fibre, cioè la capacità di ac-crescere il loro volume (ipertrofia) è da mettersiin relazione a fattori genetici (specie, razza, in-dividuo) e ambientali (alimentazione e attivitàfisica); oltre alla specie (bovini e suini hanno fi-bre più grandi degli ovini), anche il sesso e l’età

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influenzano questo parametro: le fibre musco-lari dei maschi sono più grandi di quelle dellefemmine e il diametro delle fibre aumenta conl’età.

Se si considera l’accrescimento dei vari tes-suti, si osserva che quelli che più precocemente siformano sono il tessuto nervoso, già quasi inte-ramente costituito, salvo l’incompleta mielinizza-zione dei nervi, nel corso della vita intrauterina,e quelli che determinano la struttura somatica,cioè i tessuti osseo e muscolare, mentre il tessu-to adiposo ha un ritmo di sviluppo più ritardatonel tempo. Da ciò discende che la deposizione digrasso è un processo lungo che si realizza con ilprogredire dell’età/peso dell’animale.

Dal punto di vista della produzione dellacarne, con la crescita dell’animale e con il va-riare dei rapporti tra le parti, si modifica anchela “resa”, che tende ad aumentare con l’età. In-fatti, l’incidenza percentuale del peso della car-cassa tende a crescere con l’aumento del pesovivo dell’animale, mentre le percentuali dellapelle e dei visceri tendono a diminuire. Tutta-via, oltre una certa età, fra le componenti dellacarcassa viene sempre più a incidere il tessutoadiposo sui tessuti muscolare e osseo. Questaosservazione è importante perché il valore del-la carcassa è in relazione al rapporto fra mu-scolo, grasso e osso.

Nel corso dell’accrescimento la composizio-ne chimica del muscolo scheletrico si modifica,con differenze dovute a specie, razza, sesso e al-l’età dell’animale. In generale, aumenta la con-centrazione delle proteine sieroplasmatiche e fi-brillari e, in particolare, aumenta la mioglobina,proteina del sarcoplasma, che è responsabile delcolore rosso più carico delle fibre muscolari del-l’adulto, rispetto a quelle dell’animale immatu-ro. La percentuale di acqua muscolare decresceprogressivamente mentre aumenta quella delleproteine e dei lipidi. La diminuzione è più for-te nei primi stadi di sviluppo e rallenta con lamaturità. Anche il contenuto minerale comples-sivo aumenta, con differenze tra i singoli ele-menti minerali (per esempio: dopo la nascita ilcontenuto di K aumenta e quello di Na dimi-nuisce). Se si considera la composizione chimi-ca dell’intero organismo, si vede che dalla na-scita in avanti si riduce il contenuto idrico delcorpo, si ha una lieve contrazione di quello pro-teico, mentre aumenta la componente lipidica.Il grasso, comunque, è la componente più va-

riabile del corpo in relazione al tipo genetico ealla qualità e quantità degli alimenti assunti dal-l’animale. In generale le razze più precoci ten-dono ad ingrassare più precocemente di quellead accrescimento più lento e la carne dei ma-schi contiene meno grasso di quella delle femmine.

Il processo di sviluppo, di cui sono stati de-scritti i momenti fondamentali, è regolato dauna serie di fattori intrinseci ed estrinseci. Fra iprimi ricordiamo quelli genetici (specie, razza,individuo), il sesso e la componente endocrina;fra i secondi hanno un ruolo preminente l’ali-mentazione e le tecniche di allevamento, che de-vono essere in grado l’una di assicurare i sub-strati nutritivi e le altre di creare le condizioniche favoriscano l’accrescimento.

Un aspetto importante è quello legato aimeccanismi endocrini che governano la crescitae lo sviluppo somatico dopo la nascita. Il prin-cipale fattore endocrino che interviene in que-sto processo è il GH (Ormone dell’accresci-mento), la cui azione si esplica sulla crescita cel-lulare e, in particolare, sull’allungamento delleossa. Il GH sembra svolgere la sua azione tra-mite una famiglia di peptidi dotata di attivitàsolfatante e insulinosimile (IGF Insuline-like-growth factors) e le Somatomedine (IGF1 eIGF2), prodotte dal fegato. Il GH agirebbe a li-vello delle cellule delle cartilagini in cui con-sentirebbe la risposta alla stimolazione delle So-matomedine (IGF1), promuovendo la differen-ziazione delle cellule immature (condroblasti) incellule mature (condrociti); il GH, inoltre, sti-molerebbe la produzione epatica e locale dellastessa Somatomedina.

L’Insulina aumenta la secrezione del GH; ta-le azione è molto evidente alla pubertà, in cuil’incremento dell’Insulina corrisponde a una ac-celerazione della velocità di accrescimento.L’Insulina stimola la sintesi proteica, facilita laproduzione di Somatomedina a livello epatico efavorisce la crescita dei tessuti connettivi e mu-scolo-scheletrici.

Gli ormoni tiroidei (T3, Triodiotironina e T4,Tiroxina) hanno un ruolo essenziale sull’accre-scimento e sulla maturazione ossea; la loro ca-renza, infatti provoca il rallentamento e, se as-soluta, l’arresto dello sviluppo (nanismo). L’a-zione degli ormoni tiroidei si esplica essenzial-mente sulla maturazione più che sull’allunga-mento del tessuto osseo.

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Gli ormoni sessuali (Estrogeni e Progestero-ne, prodotti dalle ovaie e Testosterone, prodot-to dal testicolo), ma anche dalle ghiandole sur-renali (Androgeni), influenzano la normale ma-turazione della crescita. In particolare il Testo-sterone, oltre ai noti effetti sulle manifestazionidei caratteri sessuali secondari, ha azione ana-bolizzante sui tessuti muscolare e osseo.

3.1 Qualità della carne dei ruminanti.

Le caratteristiche qualitative della carne sonolegate, per gli aspetti chimico nutrizionali, allasua composizione chimica e, in particolare, allacomponente lipofila, che rappresenta la quotamaggiormente variabile ed influenzabile me-diante opportune strategie nutrizionali. Gliaspetti organolettici sono influenzati sia dallecomponenti lipofile (che influenzano il gusto,l’aroma e la consistenza della carne) sia dallecomponenti proteiche. In quest’ultimo caso gio-ca sicuramente un ruolo importante la quantitàe la qualità di connettivo, ma anche l’organiz-zazione stessa delle fibre muscolari e il grado diframmentazione di quest’ultime (che dipendeanche da caratteristiche endogene dell’animale),nel determinismo di alcune caratteristiche fisi-che come la durezza.

In questi ultimi anni i consumatori hannoposto una crescente attenzione all’aspetto edo-nistico e salutare degli alimenti. Per esempio, ilcolore della carne è il parametro che influenzamaggiormente la scelta di acquisto, mentre l’a-roma e la tenerezza sono valutate durante ilconsumo. Inoltre, la composizione in acidi gras-si della carne ha importanti ripercussioni sullasalute umana. La conoscenza dei meccanismi fi-siologici che regolano lo sviluppo somatico de-gli animali e l’accumulo di grasso nei tessuti hasvolto sicuramente un ruolo importante nell’e-voluzione dei sistemi di alimentazione finaliz-zati ad ottenere carni con caratteristiche quali-tative apprezzate dai consumatori.

I consumatori associano il colore e la lumi-nosità della carne alla sua freschezza in funzio-ne del loro background culturale. Ad esempio,in consumatori spagnoli (Sanudo et al., 1996) egiapponesi (Zembayashi et al., 1999) gradisco-no maggiormente una carne chiara piuttosto chescura. Il colore della carne può essere misuratooggettivamente mediante l’utilizzo dei colori-metri, secondo il sistema CIE L*a*b* ed è de-scritto dalle tre coordinate L* (luminosità: mag-

giore è il valore i L*, più luminosa è la carne),a* (indice del rosso) e b* (indice del giallo).

È evidente che la carne degli animali alle-vati al pascolo è più scura rispetto alla carne de-gli animali allevati in stalla. Effetti diretti delladieta sul colore della carne sono considerati ra-ri. Altri fattori, come l’attività fisica, il pH (fig.3) ed il grasso di marezzatura sono responsabi-li per queste differenze (Priolo et al., 2001). Ingenerale, gli animali alimentati al pascolo pre-sentano valori di pH finale più alti rispetto aglianimali alimentati in stalla. Ciò è dovuto ad unminor accumulo di riserve di glicogeno, e quin-di ad un minor potenziale glicolitico, negli ani-mali al pascolo rispetto agli animali nutriti conmangimi concentrati (Daly et al., 1999). L’atti-vità delle calpaine e delle catepsine (che sonogli enzimi responsabili dell’idrolisi delle protei-ne miofibrillari) dipende dal pH del muscolo(Dransfield et al., 1992) e quindi anche la strut-tura della carne è influenzata dal pH finale delmuscolo. È noto che la struttura del muscolo in-fluenza il colore della carne, dal momento chein funzione della struttura del muscolo la lucepuò essere più o meno riflessa o assorbita (Geayet al., 2001). Inoltre, anche il contenuto di gras-so di marezzatura influenza il colore della car-ne: in generale, gli animali allevati in stalla conmangimi concentrati hanno più grasso di ma-rezzatura degli animali allevati al pascolo(Crouse et al., 1984) e considerando che il gras-so è più chiaro rispetto al muscolo, la sua pre-senza può contribuire all’aumento della lumi-nosità della carne (Priolo et al., 2001).

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Figura 3. Variazione (%) di luminosità strumentale (instru-mental L*) o visuale (visual brightness) nel muscolo Lon-gissimus dorsi bovino dopo pascolamento o alimentazionecon concentrato (Priolo et al., 2001).

Figure 3. Variation (%) of instrumental L* or visual bri-ghtness in cattle m. Longissimus dorsi after grazing on pa-sture or fed concentrate (Priolo et al., 2001).

Il colore della carne dipende anche dal con-tenuto e dallo stato chimico della mioglobina(Mancini e Hunt, 2005). Questo pigmento si tro-va come ossimioglobina, responsabile del colo-re rosso brillante della carne, e come metamio-globina, che è la forma ossidata della mioglobi-na. La metamioglobina è responsabile dell’im-brunimento della carne. Quando gli animali so-no al pascolo, la loro carne è meno soggetta al-l’imbrunimento rispetto alla carne degli anima-li alimentati con concentrato (Scollan et al.,2006). Questo effetto sembra essere dovuto al-le proprietà antiossidative della vitamina E, am-piamente presente nell’erba verde (fig. 3).

Gli acidi grassi ingeriti dagli animali con ladieta possono essere depositati immutati neitessuti adiposi, oppure possono essere elongatie desaturati nel muscolo o nella ghiandola mam-maria. Inoltre, negli animali poligastrici, gli aci-di grassi mono- e poli-insaturi (MUFA e PU-FA) sono bioidrogenati nel rumine. In partico-lare, come già sottolineato in precedenza, labioidrogenazione dell’acido linoleico producetra gli intermedi della reazione Acido rumeni-co (RA) e acido vaccenico, due acidi grassi dal-le riconosciute proprietà nutraceutiche.

Studi pubblicati negli ultimi dieci anni han-no dimostrato che quando gli animali sono al

pascolo la loro carne possiede un contenuto diCLA superiore rispetto agli animali alimentaticon mangime concentrato (French et al., 2000;Santos Silva et al., 2002; Aurousseau et al., 2004)(fig. 4). L’elevato contenuto di fibra presentenell’erba favorisce lo sviluppo nel rumine dellamicroflora cellulosolitica, come ad esempio ilButyrivibrio fibrisolvens, uno dei ceppi batteri-ci responsabili della bioidrogenazione ruminale(Kepler e Tove, 1967). Inoltre, l’erba verde haun contenuto di acido alfa-linolenico, che è unprecursore ruminale dell’acido vaccenico, supe-riore rispetto al concentrato. L’acido alfa-lino-lenico è un acido grasso della serie n-3: esso puòessere elogato e desaturato nel muscolo dandoorigine agli acidi grassi C20:5 n-3 (EPA) e C22:5n-3 (DHA), che sono attivi nella prevenzionedelle malattie cardiocircolatorie (Simopoulos,1999). Quando gli animali ricevono erba verde,il contenuto di acidi grassi n-3 delle loro carnipuò essere persino il doppio rispetto alle carnidi animali alimentati con mangime concentrato(fig. 5). Al contrario, la carne degli animali ali-mentati in stalla ha elevati contenuti di acidigrassi n-6 (Aurousseau et al., 2004). Secondo lelinee guida del dipartimento della salute del Re-gno Unito (1994) il rapporto n-6/n-3 non deveeccedere il valore di 4 nella dieta umana al fi-

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Figura 4. Variabilità del contenuto di 9-cis, 11-trans CLA nei trigliceridi (A) and nei fosfolipidi (B) a seconda del loro con-tenuto in Longissimus thoracis di agnelli alimentati con pascolo (simboli bianchi) o con dieta a base di granella (simbolineri) a due differenti tassi di crescita (basso = triangoli; alto = cerchi) (Aurousseau et al., 2004).

Figure 4. Variability of the amount of 9-cis, 11-trans CLA in triglycerides (A) and in phospholipids (B) according to theircontent in Longissimus thoracis of lambs fed on pasture (white symbols) or on a grain-based diet (black symbols) at twodifferent growth rate (low = triangles; high = circles) (Aurousseau et al., 2004).

ne di prevenire l’insorgenza di malattie cardio-circolatorie (Secchiari, 2008).

Un altro aspetto qualitativo della carne chenegli ultimi anni ha ricevuto notevole attenzio-ne da parte della ricerca e il cui determinismoè legato, almeno in parte, ad aspetti fisio-meta-bolici è l’aroma delle carni.

La presenza dei composti volatili nei pro-dotti di origine animale, in effetti, ha più di unorigine: essi possono derivare dal trasferimentodiretto dagli alimenti, o possono essere formatidal metabolismo animale (sintesi endogena) o,nel caso dei poligastici, dai microrganismi ru-minali (Suzuki e Bailey, 1985). Inoltre, quandogli animali pascolano, la presenza di alcuni com-posti volatili può essere influenzata da variabi-li ambientali come la stagione (Fernàndez-Gar-cia et al., 2002), la collocazione geografica delpascolo (Viallon et al., 1999), la sua composi-zione botanica (Mariaca et al., 1997) o il tempoche gli animali trascorrono al pascolo (Viallonet al., 2000). Alcuni composti volatili sono statiindicati come marcatori del regime alimentare[erba o concentrato] (Priolo et al., 2004) e, nelcaso di animali allevati al pascolo, come marca-tori dell’area geografica di pascolamento (Cou-lon e Priolo, 2002). Vari studi hanno riportatoche numerose variabili influenzano la presenzadei composti volatili nella carne: la specie ani-male (Ha e Lindsay, 1991), la razza (Elmore etal., 2000), l’età di macellazione, la maturità ses-suale (Sutherland e Ames, 1996) e la dieta (El-

more et al., 2000; Young et al., 1997, 2003; Geayet al., 2002). Alcuni composti volatili hanno ef-fetti evidenti sul flavour della carne (Priolo etal., 2001), mentre altri non contribuiscono alleproprietà sensoriali della carne.

3.2 Basi genetiche della qualità della carne deiruminanti e del suino

Al pari di quanto ricordato per la qualità dellatte, il miglioramento della qualità della carnesi basa, in massima parte, sugli schemi di sele-zione che derivano dall’applicazione dei criteridella genetica quantitativa. Tali schemi si diffe-renziano in funzione delle caratteristiche dellaspecie (a breve o a lungo ciclo riproduttivo, plu-ripara o unipara, ecc.) e degli specifici obiettividettati dalle peculiarità del sistema produttivoe del mercato nazionale. Negli ultimi anni, l’au-mento delle conoscenze sul genoma animale hacontribuito, anche nel caso della carne, allo svi-luppo di strategie integrate tra genetica quanti-tativa e informazioni molecolari.

Nel caso della carne bovina, interessanti ri-sultati sono stati ottenuti usando l’approccio delgene candidato per l’identificazione di marca-tori associati a diverse caratteristiche produtti-ve. In particolare, per il gene miostatina, sceltosulla base del fatto che l’inibizione del gene de-termina un aumento delle masse muscolari neltopo, sono state identificate diverse mutazioniassociate all’ipertrofia muscolare caratteristicadi alcune razze da carne tra cui la razza Pie-montese e la razza Marchigiana (Kambadur etal., 1997; McPherron e Lee, 1997; Marchitelli etal., 2003). Diversi altri studi hanno analizzato igeni dell’asse dell’ormone della crescita peridentificare associazioni tra marcatori e quan-tità e qualità della carne (Di Stasio et al., 2005).

Recentemente, uno studio compiuto su raz-ze bovine da carne ha messo in luce l’effetto delpolimorfismo del gene SCD sulla composizionedegli acidi grassi nella carne. In particolare èstato rilevato che la presenza dell’aplotipo conalanina (A) comporta un maggiore accumulo diMUFA, come già ricordato, rispetto all’aplotipocon valina (V) (Taniguchi et al., 2004).

Per quanto riguarda il suino, gli obiettivi diselezione e miglioramento genetico perseguiti inambito nazionale sono in larga parte diversi daquelli di altri paesi europei, in quanto finalizza-ti all’ottimizzazione delle caratteristiche quali-tative dei prodotti tipici stagionati. La suinicol-

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Figura 5. Composizione in acidi grassi di muscolo Semi-membranosus in pecore alimentate con erba o concentrati(dati espressi come % di lipidi totali) (Fisher et al., 2000).

Figure 5. Fatty acid composition of m. Semimembranosus insheep fed grass or concentrate (data expressed as % of to-tal lipids) (Fisher et al., 2000).

tura italiana, infatti, è caratterizzata da indiriz-zi produttivi che hanno assunto, in ambito eu-ropeo, connotazioni specifiche e originali. L'o-rientamento prevalente del settore verso la pro-duzione di suini “pesanti e maturi” nel rispettodi linee guida imposte da disciplinari di produ-zione di prodotti tipici stagionati DOP, quali ilprosciutto di Parma e di San Daniele, rappre-senta elemento caratterizzante della suinicoltu-ra nazionale. Particolare importanza assumono,per questo tipo di prodotti, le caratteristiche tec-nologiche e qualitative della carne suina inquanto la tecnologia di trasformazione, basatasull’addizione di sale e stagionatura in ambien-te controllato, non è in grado di correggereeventuali difetti e carenze della materia primaimpiegata.

L’attività di miglioramento genetico che hadato origine e tuttora contraddistingue linee sui-ne prodotte da breeding companies estere per-segue obiettivi selettivi incentrati sulla produ-zione di carne da consumo fresco che risultano,in larga parte, privi di significato o finanche in-compatibili con le esigenze della filiera nazio-nale di trasformazione delle carni suine. A tito-lo d’esempio è possibile ricordare gli effettisconvenienti prodotti dalla selezione per la ri-duzione dello spessore del grasso dorsale, in-tensamente praticata in ambito europeo, sul gra-do di copertura adiposa delle cosce, sul tenoredi grasso della carne destinata a trasformazionein prodotti tipici stagionati, e sul calo di stagio-natura del prosciutto. Per tali motivi l’utilizza-zione di riproduttori appartenenti a tali linee hafrequentemente determinato incertezza e in-soddisfazione nell’ambito della filiera produtti-va nazionale. Il limitato interesse manifestatodalle breeding companies estere e, in particola-re, da quelle a connotazione multinazionale, neiriguardi dello sviluppo di linee di riproduttoriespressamente selezionate per il mercato nazio-nale trova ragione nella dimensione ridotta delmercato italiano in rapporto a quello mondiale,nell’entità dell’investimento finanziario richie-sto e nelle difficoltà derivanti dall’introduzionedi attività straordinarie in un contesto gestiona-le organizzativo omogeneo e consolidato.

La recente disponibilità di conoscenze, rica-vate dall’analisi del genoma animale, offre l’op-portunità di integrare approcci innovativi nel-l’ambito delle metodologie di valutazione gene-tica e di selezione tradizionalmente utilizzate

nella specie suina e di incrementare l’efficienzadegli schemi selettivi classici. La selezione assi-stita da marcatori genetici (MAS), come indica-to in precedenza, è un metodo di selezione in-novativo basato sull’utilizzazione di informazio-ni relative a singoli loci nel determinismo di ca-ratteri quantitativi di interesse economico (ETL)o a regioni genomiche contenenti ETL. L’utiliz-zazione dei markers molecolari in ambito selet-tivo consente di incrementare l’efficienza dellaselezione praticata entro razza o linea suina me-diante approcci GAS (Gene Assisted Selection)o di operare interventi selettivi nell’ambito dipopolazioni ibride come nel caso dell’introgres-sione Genica Assistita da marcatori (MAI).

Nella specie suina, l’approccio del gene can-didato è stato utilizzato per identificare marca-tori associati con caratteristiche qualitative del-la carne. In particolare, per il potenziale glicoli-tico e l’attività catepsinica, che rappresentanoparametri qualitativi importanti per la trasfor-mazione delle cosce in prosciutti, sono stati stu-diati una serie di geni coinvolti, rispettivamen-te, nel metabolismo energetico (Fontanesi et al.,2003) e nella proteolisi enzimatica del muscolo(Russo et al., 2002).

3.3 Carni avicole

Le carni di pollo al pari delle altre tipologie dicarne danno un buon apporto proteico, supe-riore per il petto (22,5%), rispetto al coscio(17,9%). Ugualmente le carni di tacchino (pet-to, 22%; coscio 20,9%) si collocano su altret-tanto buoni valori di proteine. Dal punto di vi-sta qualitativo esse sono dotate dei più utili ami-noacidi (Lisina: da 1,6-1,8g/100g di prodotto;Istidina: circa 0,6 g/100g di prodotto e Argini-na). Apportano anche Ferro (1,5 mg nel pollo e2,5 mg nel tacchino) e, se si esclude la pelle, illoro contenuto di grasso è limitato (1% nel pet-to di pollo e 1,55 in quello di tacchino). Le car-ni avicole sono facilmente digeribili sia per lastruttura delle fibre muscolari, più ridotta ri-spetto a quella delle carni delle altre specie (dia-metri: micron 45-48, nel pollo; micron 73-75, nelbovino; micron 50-54, nell’ovino e micron 90-92,nel suino) e per la minor presenza di tessutoconnettivo.

La genetica degli avicoli si basa sull’utilizza-zione come riproduttori di ibridi commerciali,prodotti all’estero, sia in paesi europei sia negliUSA, con le seguenti basi genetiche: per i pol-

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li da carne Broilers-Roasters, da linee sintetichemaschili e femminili Plymouh Rock bianca si ot-tiene la linea parentale femminile che, incrocia-ta con maschi derivati Cornish bianco (origina-ta da incrocio Cornish x Livorno), dà i polli“Broilers” commerciali.

Nella linea maschile sono selezionati i ca-ratteri peso all’età in giorni alla macellazione,indice di conversione, conformazione corpo,qualità carne, grasso addominale, resa in tagliprimari, assenza di difetti agli arti e al petto, ve-locità di impennamento k (rapido), colore pen-ne I (bianco)-i *, colore pelle W (bianco) o w(giallo), presenza o assenza di ascite.

Nella linea femminile sono presi in conside-razione per la selezione i caratteri: età al primouovo, tasso di deposizione, fertilità alla schiusa,velocità impennamento K (lento). Il colore del-la pelle, bianco o giallo è in, genere, una sceltadi mercato.

Il diagramma di flusso per la produzione diriproduttori avicoli è articolato in vari momen-ti che si susseguono nel tempo e partono dallacreazione di linee consanguinee di maschi su-per pesanti e di femmine pesanti, cui segue ladeterminazione della popolazione di gran pa-rents, attraverso la realizzazione di tutti gli in-croci possibili per identificare le due linee mi-gliori da riprodurre. Le loro uova fertili ven-gono incubate e da esse si ottengono i ripro-duttori pesanti da cui deriveranno poi i Broi-lers che saranno allevati per la produzione del-la carne.

3.4 Carni di coniglio

Il coniglio è un ottimo produttore di carne, an-zitutto in forza delle sue caratteristiche ripro-duttive. La femmina infatti presenta elevate fe-condità, prolificità e attitudine materna e unadurata della gravidanza di soli 31 giorni. Negliallevamenti commerciali, viene solitamente im-piegato un ritmo riproduttivo semi-intensivocon inseminazione 11-12 giorni post-partum,corrispondente a circa 7-8 parti all’anno con unamedia di 7 conigli venduti/ciclo riproduttivo adun peso di 2,5-2,7 kg. Ne deriva una produzio-ne annuale per coniglia fattrice di 120-140 kg diconigli macellati corrispondenti a 70-80 kg dicarcassa. La carne di coniglio presenta un buonvalore proteico (20-21%) con un elevato conte-nuto di Lisina e Treonina e una limitata quan-tità di grasso (1,5-5%), prevalentemente sepa-

rabile, caratterizzato da un favorevole rapportofra acidi grassi saturi e insaturi e da un ottimoapporto di PUFA n-3 (Gondret et al., 1998). Ilsuo contenuto in colesterolo (70-80 mg/100 g dicarne) è inferiore a quello delle carni di altre spe-cie; buona la concentrazione di Fosforo Potassioe Magnesio, mentre Ferro e Iodio sono presentiin quantità limitate (Lebas e Ouhayoun, 1987;Dalle Zotte, 2000). A causa della peculiarità del-la fisiologia digestiva del coniglio e della su-scettibilità alle malattie digestive, non sono pos-sibili variazione consistenti della composizionedella dieta e pertanto l’effetto dei fattori ali-mentari sulla qualità della carne è in genere mo-desto (Xiccato, 1999; Trocino e Xiccato, 2000).

Il coniglio, infatti per la conformazione ana-tomica dell’apparato digerente, dotato di ungrosso cieco a livello del quale si realizza la cie-cotrofia, ha un comportamento di risparmio ali-mentare, che, tramite la microflora ciecale, per-mette di trasformare i residui della digestionein sostanze nutritive che sono nuovamente as-sorbite dal coniglio con l’assunzione del cieco-trofo.

L’allevamento commerciale del coniglio èbasato sull’impiego di tipi genetici specializzatinella produzione della carne, rappresentati inbuona misura da ibridi commerciali prevalente-mente di origine francese e solo in parte nazio-nale. L’impiego di razze pure (Bianca di NuovaZelanda, Californiana) o di incroci domestici adue o tre vie è ancora frequente negli alleva-menti di piccole dimensioni e non mancanoesempi di grandi allevamenti che utilizzano ri-produttori derivanti da selezione e rimonta interna.

Una quota del mercato della carne cunicola,nettamente inferiore rispetto al settore avicoloe stimata pari a circa il 20-25%, è integrata ver-ticalmente e controllata da alcune delle princi-pali industrie mangimistiche italiane, mentre lamaggior parte degli allevatori e degli operatoridella filiera (macelli, grossisti, distributori) ope-ra indipendentemente nel mercato cunicolo(Xiccato e Trocino, 2007).

Queste sono le note più rilevanti a proposi-to di una filiera di produzione che vede il no-stro paese come primo produttore e consuma-tore, con un consumo che colloca la carne di co-niglio (circa 4-4,5 kg pro capite/anno), al 4° po-sto dopo le carni suine bovina e avicole.

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4. Le uova

L’uovo è prodotto dalle ovaie che, con l’ovi-dotto, si originano da abbozzi primitivi pari esimmetrici; nel corso dello sviluppo però la por-zione destra si atrofizza e nell’animale adulto ri-mangono soltanto l’ovaia e l’ovidotto di sinistra.L’ovaia si presenta come un grappolo con gliacini costituiti dai follicoli oofori a differentegrado di sviluppo.

La produzione di uova nella gallina inizia al-la pubertà (5-6 mesi di età), quando l’animalemanifesta sensibilità alla luce, segno del com-pletamento dello sviluppo sessuale.

In relazione al ruolo esercitato dalla sensi-bilità alla luce, l’inizio del ciclo di ovodeposi-zione può essere posto al momento del passag-gio dal periodo di luce a quello di buio; il pic-co di Ormone Luteinizzante (LH) si ha infattia distanza di circa 8 ore dall’inizio del buio; con-temporaneamente si ha anche il picco degliEstrogeni, degli Androgeni e del Progesterone,che, oltre agli effetti sopra ricordati, induce an-che la produzione delle proteine dell’albume.

Dopo la pubertà, quando l’animale raggiun-ge la maturità sessuale, a partire dai primi ovo-citi pronti, inizia lo scoppio dei follicoli per l’o-vulazione. Le ovulazioni si susseguono a distan-za di circa 24 ore, con un giorno di riposo allafine del ciclo di ovulazione, che regola la suc-cessiva deposizione. La formazione dell’uovo,dopo l’ovulazione, si completa nell’ovidotto, chenella gallina in piena età di produzione è lungocirca cm 70 e consta dei seguenti settori fun-zionali: infundibolo, camera albuminifera, ma-gnum, istmo e camera calcigena.

Il ciclo di deposizione inizia al giorno zero,con l’emissione del primo uovo fra le 6 e le 8del mattino; nel giorno successivo questo vienedeposto con un ritardo compreso tra 30 minutie 4 ore e così avanti finché si ha una deposi-zione nel tardo pomeriggio. A questo punto siblocca l’ovulazione, perché essa non avvienemai nelle ore notturne. La nuova deposizione siavrà dopo circa 36 ore. La deposizione dura perun periodo di circa 365 giorni e rallenta o si at-tenua solo con la muta, cioè il cambio della li-vrea, che in genere si ha nei mesi di agosto-settembre.

Questi eventi fisiologici descrivono il pro-cesso produttivo delle uova, tipico degli uccelli,ma che, in riferimento alle galline ovaiole, co-

stituisce uno dei più importanti comparti pro-duttivi della zootecnica italiana, con una produ-zione annua di oltre 13 miliardi di pezzi, che as-sicura un tasso di autoapprovvigionamento delnostro paese del 101,2%, con un consumo annuodi 222 uova a testa, pari a kg. 14/pro capite.

Le uova hanno forma ovale non regolare esono di colore bianco o rossastro; hanno un pe-so che varia dai 30 ai 70 g (peso medio: 60-65g) e i suoi diametri misurano mediamente 6,1cm, il maggiore e cm 45, il minore.

I costituenti dell’uovo sono: il guscio e lemembrane testacee (12%, del peso dell’uovo),l’albume (56%) e il tuorlo (32%). Le variazio-ni rispetto a questi valori possono toccare an-che il 10%.

Il guscio è costituito principalmente da Salidi calcio (carbonato di calcio) e, in misura mi-nore, da Sali di Mg, P, Fe, S (95%); si ha poi il3,5% di proteine, nella sottile cuticola esternache lo riveste e che ha funzione di barriera con-tro agenti microbici e spore; infine si ha un 1,5%di acqua. Il guscio possiede circa 7.000 pori, chepermettono gli scambi gassosi con l’esterno; que-sti sono dislocati soprattutto nella zona equato-riale e ai poli dell’uovo. All’interno del guscio, ab-biamo la membrana testacea (70% di proteine,20% di acqua e 10% di sali minerali), formata dadue foglietti accollati, che si discostano al polo ot-tuso per formare la camera d’aria.

L’albume circonda completamente il tuorloed è costituito da più strati che si formano a se-guito delle rotazioni dell’uovo e del tipo di se-crezioni che avvengono nelle successive partidell’ovidotto. Nell’albume si distinguono le cala-ze che sono formazioni che sospendono il tuor-lo longitudinalmente. È costituito per l’86% diacqua; per il 12% di proteine, di cui l’ovoalbu-mina costituisce il 75%, per lo 0,6% da lipidi; sihanno poi sali minerali e vitamine (B2, C, B1,Ac. pantotenico) ed enzimi, fra cui il Lisozima,ad azione battericida. L’albume contiene anchel’avidina, una antivitamina B1, che viene inatti-vata dal calore, come avviene a seguito dellacottura.

Il tuorlo è assai disomogeneo e rappresentaun oocita di secondo ordine, che, se fecondato,diviene uno zigote. Ha un elevato valore nutri-tivo; infatti è costituito per il 48% da acqua, peril 17% da proteine; per 1% di glucidi, 33% dilipidi (62% trigliceridi; 33% fosfolipidi, 5% ste-roli e cerebrosidi) e per l’1% di sali minerali. È

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ricco di vitamine lipo e idrosolubili, di caroteni(pro-vitamina A) e di enzimi.

Il miglioramento genetico delle gallineovaiole è basato sull’utilizzazione per la produ-zione di uova di femmine commerciali ottenu-te, per le uova a guscio colorato, dall’incrocio dilinee sintetiche maschili (derivate New Ham-pshire o Rode Island bb) con linee sintetichefemminili (derivate da Plymouth Rock barrataB o bianca). Ugualmente si procede per le gal-line ovaiole a guscio bianco, con la differenzache le linee sintetiche parentali sono ottenuteda soggetti derivati Livorno.

5. Conclusioni

La trattazione dei vari capitoli in cui è artico-lato il lavoro ha posto in evidenza i processi fi-siologici che portano alla secrezione del latte edeterminano le sintesi dei suoi componenti prin-cipali. È stato altresì ricordato il ruolo della ge-netica quantitativa e le nuove prospettive aper-te dalla genetica molecolare, basate sulle cono-scenze relative alle regioni genomiche che con-trollano i QTL, alle possibilità di utilizzazionedella Selezione Assistita da Marcatori (MAS) edall’Introgressione di geni Assistita da Marca-tori (MAI). Un ulteriore approccio consideratoè stato quello riguardante lo studio dei geni can-didati per identificare direttamente marcatoriassociati con caratteri produttivi. La stessa me-todologia di analisi, applicata agli altri alimenticonsiderati (carni e uova) ha permesso di ana-lizzare lo stato e le conoscenze relative ad essi,rilevando che è in atto un progressivo aumentodei dati fisio-metabolici che condizionano laqualità delle carni, mentre per le uova le cono-scenze in questo ambito sono ben consolidate.In entrambi i casi è preponderante il ruolo del-la genetica quantitativa con qualche apportodella genetica molecolare soprattutto per le car-ni bovine e suine.

Questi dati sono utili in relazione alle nuo-ve prospettive che si stanno affacciando nelcampo delle scienze animali e che sono legatealle possibilità di studiare l’effetto dei nutrientisull’espressione dei geni e delle proteine o di in-vestigare i meccanismi fisiologici e biochimici diadattamento che gli animali hanno sviluppato inrisposta all’esposizione a differenti nutrienti,mettendo così in luce le varianti genetiche più

favorevoli. Questa nuova area di ricerca è spes-so indicata come nutrigenomica, cioè l’integra-zione fra genomica funzionale, nutrizione, bio-chimica e fisiologia anche definita come nutri-genetica.

La sua applicazione in zootecnia può essererivolta al miglioramento della qualità delle pro-duzioni attraverso una alimentazione mirata de-gli animali.

Infatti, anche se i nutrienti sono in gran par-te metabolizzati a composti energetici o sonocoinvolti nelle reazioni chiave del metabolismo(ad esempio le vitamine), alcuni composti natu-ralmente presenti negli alimenti possono agiredirettamente sul genoma alterando l’espressio-ne dei geni, oppure agire come leganti di fatto-ri di trascrizione o, ancora, influenzare indiret-tamente l’espressione genica, agendo come se-gnali del processo di traduzione proteica.

Queste sono attualmente le conoscenze piùavanzate relativamente ai processi genetici e fi-siologici che sono alla base della qualità nutri-zionale e nutraceutica degli alimenti di origineanimale.

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Determinanti della qualità delle produzioni ortofrutticole

Bruno Mezzetti*1, Cherubino Leonardi2

1Dipartimento di Scienze Ambientali e delle Produzioni Vegetali, Università Politecnica delle MarcheVia Brecce Bianche, 60100 Ancona

2Dipartimento di Ortofloroarboricoltura e Tecnologie Agroalimentari, Università di CataniaVia Santa Sofia 98/C, 95123 Catania

SOI - Società di Orticola Italiana

Riassunto

L’obiettivo qualità rappresenta sicuramente uno dei cardini attorno cui ruota la produzione ortofrutticola moder-na, che si mostra sempre più incline a produrre secondo elevati standard qualitativi. Alle caratteristiche qualitative“tradizionali” oggi, se ne affiancano altre, legate a nuove esigenze da parte dei consumatori che sono sempre piùinteressati ad una dieta basata sul consumo di ortofrutta senza residui di pesticidi e con un alto valore nutriziona-le. Nell’ambito di un possibile programma di qualificazione delle produzioni ortofrutticole, risulta quindi fonda-mentale uno studio dei determinanti della qualità secondo un approccio euristico, idoneo ad individuare il contri-buto dei singoli fattori nel determinare la qualità del prodotto. Le conoscenze genetiche applicate a diverse tecni-che di costituzione varietale rappresentano sicuramente la base per la creazione di variabilità utile al miglioramentodella qualità senza però limitare la produttività colturale. Sotto il profilo agronomico, le opportunità offerte da unagestione sostenibile dei fattori della produzione, orientata verso il miglioramento di uno o più parametri di qualità,sono senz’altro numerose e riconducibili, ora al miglioramento della interazione pianta-ambiente, ora ad un più mi-rato input dei mezzi di produzione, ora alla induzione di condizioni di stress di natura diversa. Anche le tecnichedel post-raccolta risultano ora sempre più importanti per garantire che la qualità ottenuta in campo sia garantitafino al consumatore. In considerazione di tale articolazione e facendo riferimento ad alcune colture modello si cer-cherà di delineare un quadro volto ad evidenziare, con riferimento ai principali determinanti, le potenzialità in te-ma di qualificazione delle corrispondenti produzioni.

Parole chiave: parametri di qualità, nutraceutica, genotipo, ambiente, sistemi di produzione.

Summary

QUALITY DETERMINANTS OF FRUIT AND VEGETABLES PRODUCTIONS

Nowadays, the main goal for modern horticultural production is the increase of quality. Furthermore, in considera-tion of the new consumer demand, always more attracted by a diet based on a larger consumption of fruit and veg-etables without risks of pesticides residues and with increased nutritional value, new important features in additionto the traditional quality attributes are now requested. For a program of qualification and valorisation of modernhorticultural productions, it is fundamental a study of the major quality determinants organized by following aheuristic approache useful to identify the contribution of each factor in defining the quality of the product.The genetic knowledge applied to all available techniques useful for the creation of new genetic variability surely

represent the most important starting point for the release of new varieties with increased nutritional quality withoutlimitation in plant productivity. About agronomic practices, new opportunities are offered by the sustainable manage-ment of the production factors able to improve the plant-environment interaction, to well address the reduction of in-puts needed for the production, and finally to induce specific stress conditions able to promote higher quality at re-duced inputs. Much more attention is also addressed to the post-harvest technologies, this because of the increasedneeds to guarantee the preservation of the high quality obtained in the field until the consumer use. Taking in accountsuch complexity of the horticultural production systems and examples of some major model crops, an outlook of themain determinants and potential valorisation of high quality horticultural products are attempted.

Key-words: quality parameters, nutraceuticals, genotype, environment, production system.

* Autore corrispondente: tel.: +39 071 2204933; fax: +39 071 2204933. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:103-113

Introduzione

La qualità dei prodotti ortofrutticoli è comune-mente definita come “l’insieme delle caratteri-stiche di un prodotto in grado di soddisfare leesigenze del consumatore determinandone il va-lore” (Peri, 2004). La qualità viene distinta tra“qualità strutturale e qualità funzionale”: la pri-ma si riferisce alle caratteristiche intrinseche diun prodotto (es. contenuto zuccherino di unfrutto); la seconda, riguarda l’esplicitazione diqueste caratteristiche nei confronti dell’utilizza-tore del prodotto (es. gusto dolce del frutto). Piùrecentemente si parla pure di “qualità globale”,espressione che racchiude molteplici significatiin cui coesistono più aspetti riguardanti oltreche il prodotto, anche al processo.

La qualità, anche per i prodotti ortofruttico-li, rappresenta una problematica ampia e com-plessa, che coinvolge diverse figure. La questio-ne andrebbe pertanto studiata e discussa con ri-ferimento a tutti i fattori che concorrono allasua estrinsecazione, tenendo in considerazioneil punto di vista delle più importanti figure del-la filiera, all’interno della quale è possibile iden-tificare: l’operatore agricolo, il commerciante/di-stributore ed il consumatore. Tali figure espri-mono, com’è intuitivo, obiettivi e punti di vistatalora contrastanti.

Il consumatore è comunque il soggetto eco-nomico maggiormente coinvolto nella fruizionedella qualità; il soddisfacimento delle sue ri-chieste rappresenta pertanto l’aspetto impre-scindibile in una produzione che da marketoriented è divenuta consumer oriented.

Per il consumatore il concetto di qualitàcoinvolge, oltre ai fattori prioritari per le altrefigure della filiera (es. aspetto esteriore, inte-grità, ecc.), anche fattori derivanti da stimoli or-ganolettici (es. sapore, tatto) o da aspettative sa-lutistiche (reali o virtuali) associate ad una sa-lubrità (es. produzioni biologiche) o al conte-nuto di sostanze nutraceutiche.

L’obiettivo qualità rappresenta comunqueun aspetto che interessa sempre più le produ-zioni destinate al consumo moderno. Tale obiet-tivo può essere perseguito attraverso il miglio-ramento di uno o più attributi di qualità; la que-stione appare tuttavia assai complessa se si con-sidera la rilevante articolazione che caratterizzail comparto ortofrutticolo dal punto di vista col-turale, genetico, merceologico, pedoclimatico,

agronomico e tecnico. D’altra parte, le caratteri-stiche di qualità oggetto di attenzione, nel qua-dro della qualificazione delle produzioni, posso-no variare ed assumere un’importanza differen-te in funzione della destinazione del prodotto.

Le caratteristiche di qualità dei prodotti ortofrutticoli

I prodotti ortofrutticoli rappresentano un vastogruppo di prodotti agricoli largamente utilizza-ti a scopo alimentare, soprattutto allo stato fre-sco. La loro qualità è espressa da differenti at-tributi che possono essere ricondotti alle carat-teristiche: organolettiche, nutrizionali, igienico-sanitarie, commerciali (La Malfa, 1988).

Caratteristiche organolettiche. Riguardano tuttele proprietà percepibili dai nostri sensi; quelledi maggior rilievo sono rappresentate dal sapo-re e dalla consistenza. Il primo, nel caso dei frut-ti (es. pesche, melone, ecc.), è determinato es-senzialmente dal contenuto in zuccheri ed acidiorganici. Il sapore riassume in se anche la com-ponente degli aromi tipici di ciascun prodottopercepiti direttamente, nel caso di composti vo-latili, ed anche attraverso l’olfatto; esso è soste-nuto da sensazioni complesse e pertanto di dif-ficile parametrazione. I composti responsabilidell’aroma (ne sono stati identificati circa 100)fanno riferimento ad idrocarburi, composti idro-genati, carbonili, acetali e chetali, acidi, esteri,lattoni, eteri, composti solforati, composti azo-tati e composti clorurati.

Il sapore tipico di diversi prodotti può esse-re determinato da un solo o da un numero ri-dotto di composti (es. cetriolo e cipolla). Alcu-ni composti, possono dar luogo a sapori ed aro-mi non desiderabili che quindi condizionano ne-gativamente la qualità; esempi significativi sonoil sapore amaro dei cetrioli per la presenza del-la cucurbitacina e la piccantezza del peperoneper la presenza di capsicina.

La consistenza è una caratteristica comples-sa riconducibile ad un insieme d’attributi mec-canici che possono essere divisi in primari (du-rezza, coesione, viscosità, elasticità, adesività) esecondari (friabilità, masticabilità, gommosità).Si tratta di attributi meccanici derivanti dai rap-porti tra alcuni composti cellulari (es. enzimi,amido e fitina), dalla pressione di turgore, dal-

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le proprietà della parete cellulare e dalla forzadei legami tra cellule contigue. Le conoscenzecirca la consistenza degli ortaggi e dei prodottivegetali in genere è di notevole interesse prati-co anche per stabilirne il momento ottimale diraccolta, per verificarne il comportamento nel-la fase di conservazione, per valutarne l’attitu-dine alla manipolazione e la resistenza alle sol-lecitazioni meccaniche. Tra le caratteristiche or-ganolettiche più importanti ai fini dell’accetta-bilità da parte del consumatore va richiamata,inoltre, la succosità, da cui dipende, in parte, lamaneggevolezza e la serbevolezza dei frutti.

Caratteristiche nutrizionali. Fanno riferimentoalla composizione chimica ed al contenuto in so-stanze nutritive dei prodotti; non sono percepi-bili dal consumatore e di conseguenza scarsa-mente valutabili al momento dell’acquisto. Tra-dizionalmente la composizione ha assunto rilie-vo per la valutazione dei prodotti destinati allalavorazione industriale. In passato, per il pro-dotto destinato al consumo allo stato fresco, so-lo occasionalmente le caratteristiche nutriziona-li reali (es. carotene e carota) o presunte (es.ferro disponibile e spinacio) hanno orientato ilconsumo. Più recentemente esse sono state te-nute in considerazione in rapporto alla crescen-te attenzione che è scaturita dalla consapevo-lezza dell’importanza dei prodotti ortofrutticoliper la regolazione dell’attività metabolica e perl’azione protettiva dovute alla presenza di saliminerali, di vitamine, di alcuni aminoacidi es-senziali, di fibra grezza e di sostanze ad azioneantiossidante.

Caratteristiche igienico-sanitarie. I prodotti orto-frutticoli, analogamente ad altri prodotti ali-mentari, possono essere destinati all’alimenta-zione soltanto se non determinano condizioni didanno o di rischio sanitario per il consumatore.Proprio per questo, le caratteristiche igienico-sa-nitarie hanno un’importanza fondamentale ri-spetto alle altre, poiché in questi ultimi tempi iprodotti ortofrutticoli, ritenuti da sempre ali-menti genuini, sono sempre più frequentemen-te chiamati in causa per possibili alterazioni del-le loro caratteristiche igienico-sanitarie conse-guenti all’intensificazione del processo produt-tivo che caratterizza i sistemi di coltivazione ecommercializzazione moderni. Per evitare dan-ni o rischi sanitari per il consumatore, i prodot-

ti ortofrutticoli non devono veicolare fattori fi-sici, chimici e biologici dannosi, in quantità talida determinare nell’uomo l’insorgenza di statipatologici. Le più frequenti condizioni di rischioigienico-sanitario, possono derivare dalla pre-senza di: microrganismi patogeni; residui di con-taminanti presenti nell’atmosfera; costituenti na-turali elaborati dalle piante; sostanze chimicheutilizzate nella coltivazione e relativi prodotti me-tabolici. A quest’ultimo riguardo va ricordata lapresenza di residui di agrofarmaci e di nitrati enitriti, in riferimento ai quali vi sono opportunenormative che stabiliscono i residui massimi am-missibili sui diversi prodotti.

Caratteristiche commerciali. Comprendono tuttiquei parametri presi in considerazione ai finidella classificazione mercantile dei prodotti se-condo le norme definite a livello comunitario.Tranne rare eccezioni (es. solidi solubili nel me-lone), si tratta di parametri esteriori sulla basedei quali il prodotto viene classificato in cate-gorie più o meno omogenee, che assumono im-portanza negli scambi commerciali.

Il potere antiossidante

Le aspettative del consumatore possono essereraggruppate in tre grandi categorie: una com-prende l’aspetto e la presentazione dei prodot-ti, per i quali sono determinanti il packaging,l’omogeneità di presentazione, di pezzatura, diforma e di colore; un’altra riguarda il sapore equindi le caratteristiche organolettiche; infine,una terza categoria riguarda la salubrità (Criso-sto, 2002).

Come accennato, tra i consumatori vi è sem-pre più la consapevolezza che il consumo co-stante di frutta e verdura possa recare beneficioalla salute, soprattutto grazie alla spiccata attivitàantiossidante esercitata a livello cellulare (Mc-Ghie et al., 2002). È stato provato che una dietaricca di frutta e verdura è in grado di offrire unafondamentale protezione contro alcune delle pa-tologie più diffuse, quali malattie cardiovascola-ri, cancro e molte altre patologie di tipo dege-nerativo legate all’invecchiamento (Ames et al.,1993; World Cancer Research, 1997; WorldHealth Organization, 1990; Willett, 1999).

Tali possibili benefici hanno stimolato la ri-cerca ad individuare ed esaltare le proprietà an-

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tiossidanti di frutta e verdura. Le componentiantiossidanti più importanti, oltre la vitamina C,la vitamina E ed i carotenoidi, comprendono so-stanze fenoliche, flavonoidi ed antociani. Alcu-ni minerali sono altrettanto importanti perchécomponenti essenziali di enzimi con azione an-tiradicalica (es. manganese, molibdeno, rame, se-lenio, zinco).

I composti ad azione antiossidante possonoagire singolarmente o interagire fra loro produ-cendo un effetto sinergico. In considerazione diciò, l’attenzione della ricerca è stata di recenterivolta alla quantificazione della capacità an-tiossidante totale (CAT) (Benzie et al., 1996;Deighton et al., 2000; Finley, 2005; Re et al.,1999; Battino e Mezzetti, 2007). Il carattere CATè fortemente influenzato dal tipo di frutto, dal-la specie e dalla varietà, ma anche dalle condi-zioni di coltivazione, dalle condizioni ambienta-li, dalla durata e dalle tecniche di conservazio-ne del frutto (Guo et al., 2003; Giorgi et al.,2005, Scalzo et al., 2005a). Ad esempio, tra lespecie frutticole la capacità antiossidante è si-curamente più elevata nei piccoli frutti rispettoalle altre specie. Al riguardo il mirtillo, per l’e-levato contenuto di antocianine che lo caratte-rizza, è assai noto per la sua capacità antiossi-dante (Prior et al., 1998; Ehlenfeldt e Prior,2001). L’elevata capacità antiossidante della fra-gola di bosco, del lampone e della fragola col-tivata, è un’ulteriore conferma del primato deipiccoli frutti rispetto alle altre specie da frutto.Per contro, i frutti per i quali vi è un consumopiù significativo (es. l’albicocca, la pesca, la me-la, il kiwi e la ciliegia) manifestano un poten-ziale antiossidante più contenuto (Pellegrini etal., 1999; Guo et al., 2003; Scalzo et al., 2005a).

Occorre tuttavia sottolineare che se da unaparte la quantificazione della capacità antiossi-dante totale consente di definire i benefici di undeterminato prodotto sulla salute, tale informa-zione non permette di chiarire le relazioni di cau-sa ed effetto tra le varianti di processo ed il con-tenuto delle singole sostanze attive. Si tratta, in-fatti, di sostanze che sono contenute in misura va-riabile nei diversi prodotti ortofrutticoli (Brat etal., 2006; Guo et al., 2003; Halvorsen et al., 2002).

La qualità in funzione delle varianti di processo

I fattori che condizionano la qualità dei prodottipossono essere considerati tanti quanti quelli

che controllano il livello delle rese. Il loro ef-fetto sui diversi parametri di qualità si può ma-nifestare in maniera diversa e talora contra-stante. Nell’ambito della medesima coltura lavariabilità della qualità dei prodotti dipende dafattori di ordine genetico, da fattori ambientali,dalle agrotecniche e da fattori attinenti la fasedi raccolta e di post raccolta. In generale si trat-ta di fattori che possono avere riflessi diretti oindiretti in rapporto alla loro influenza sui pro-cessi di assimilazione, sull’assorbimento idrico,sullo stato nutrizionale e sulla ripartizione deifotosintati nelle porzioni eduli della pianta.

Fattori genetici

Per diverse colture ortofrutticole la scelta delgenotipo ha da sempre costituito un aspetto diprimaria importanza in rapporto ai riflessi sullecaratteristiche di qualità del prodotto che deri-vano dalla continua diffusione di nuove cultivar,dotate di un elevato potenziale produttivo oidonee a far fronte a specifiche condizioni distress. L’elevato tasso di rinnovamento varieta-le, che interessa in misura più o meno rilevan-te le principali colture ortofrutticole, si traducein genere in una significativa articolazione del-l’assetto biologico che può comportare alcunedifficoltà per il produttore nella fase di scelta edi gestione colturale dei diversi genotipi, ma so-prattutto per il consumatore che è sempre piùdisorientato nel riconoscere il prodotto adegua-to alle sue aspettative.

La variabilità del profilo qualitativo in fun-zione del genotipo ha sicuramente rappresenta-to una delle più immediate strategie per la pro-duzione di genotipi dotati di caratteristiche diqualità più rispondenti alle specifiche esigenzeespresse dai consumatori. Tuttavia, nell’ambitodi un programma di miglioramento genetico,l’obiettivo qualità è considerato assai onerosoper la complessità dei caratteri che talvolta so-no coinvolti. Nel caso di programmi rivolti adesaltare la qualità nutrizionale, ad esempio, oc-correrebbe in primo luogo conoscere i processiche determinano l’efficacia del/dei compostobioattivi, quindi occorre identificarli chimica-mente e ancora risulta necessario verificare laloro stabilità nelle varie fasi di conservazione,eventuale trasformazione e commercializzazio-ne del prodotto (Finley, 2005).

La qualità nutrizionale di diverse specie or-tofrutticole può essere esaltata tramite un ap-

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proccio di miglioramento genetico tradizionalesolo se sono disponibili risorse genetiche in gra-do di fornire validi progressi nelle diverse ge-nerazioni d’incrocio. Al riguardo, per alcunespecie quali mirtillo e lampone, esistono studiche dimostrano l’ereditabilità di caratteri legatialla capacità nutrizionale dei frutti, dipendentedal contenuto in polifenoli e antociani (Connoret al., 2002; Connor et al., 2005).

Nel caso delle piante arboree vi sono alcu-ne difficoltà che rendono particolarmente lun-go ed oneroso il perseguimento di obiettivi spe-cifici che sono da ricondurre oltre che all’ele-vata eterozigosi e alla complessa biologia fiora-le, anche alla durata del ciclo produttivo. Un ap-proccio basato sull’ingegneria genetica, sebbenecon le attuali riserve, può rappresentare unapossibilità più immediata (Scalzo et al., 2005b;Gentile e Mezzetti, 2007). L’approccio transge-nico è già stato applicato con successo per au-mentare il valore nutrizionale di importanti spe-cie coltivate, come ad esempio il riso (Paine etal., 2005) e il pomodoro (Davoluri et al., 2005).Si tratta però di miglioramenti della qualità cherisultano talora associati ad alcuni effetti nega-tivi (Gilberto et al., 2005). Questi risultati evi-denziano quindi la possibilità di utilizzare talitecnologie per aumentare il contenuto di speci-fiche componenti bioattive delle piante, tuttaviala manipolazione dei diversi metabolismi non èancora così facile da realizzare anche in rap-porto all’interferenza cui le piante sono sotto-poste nel corso della fase di fruttificazione.

Fattori climatici

Il decorso e la variabilità delle condizioni cli-matiche che caratterizzano gli areali maggior-mente interessati alle produzioni ortofrutticolerappresentano indubbiamente fattori determi-nanti il profilo qualitativo dei prodotti (Criso-sto et al., 1984). Il processo di fruttificazione puòinfatti avere luogo in condizioni estremamentediversificate per ciò che attiene a quei fattoridel clima che possono avere riflessi sui proces-si di assimilazione e sullo stato nutrizionale del-la pianta (per es. temperatura, luce, umidità,condizioni pedologiche) (Anttonen et al., 2006).La realizzazione di condizioni climatiche diffe-renti può d’altra parte scaturire dalla coltiva-zione in ambiente protetto alla quale si fa ri-corso ai fini della destagionalizzazione dei ca-lendari produttivi, ma che può avere riflessi sul-

la qualità dei prodotti a seguito delle condizio-ni, talora sub ottimali, che si determinano al-l’interno degli apprestamenti di protezione nelcorso della fase di fruttificazione.

Tra i fattori del clima, la temperatura e la lu-ce controllano più degli altri i processi biochi-mici e quindi la composizione e il valore nutri-tivo dei prodotti (Wang et al., 2003). Gli effettidi questi due parametri sui processi di assimila-zione si estrinsecano in direzione opposta, poi-ché elevati livelli del primo favoriscono l’accu-mulo di fotosintati, mentre temperature elevatene accelerano la demolizione. Relativamente airiflessi sulla qualità, l’influenza di questi due fat-tori va considerata in funzione dei diversi attri-buti di qualità e comunque non è riconducibilea schemi univoci. Estremi termici possono, adesempio, avere riflessi sui processi di micro emacrosporogenesi (Subodh e Munshi, 2001),sull’assimilazione (Zhang et al., 2007), sulla sin-tesi e sulla demolizione dei pigmenti (Hamau-zu, 1994).

Nel caso dei prodotti da foglia, per contro,la moderata luminosità può avere riflessi posi-tivi su alcuni parametri di qualità (per es. ele-vata acquosità dei tessuti, attenuazione del co-lore verde, ecc.), mentre può comportare unpeggioramento delle caratteristiche igienico sa-nitarie a motivo dell’accumulo di nitrati (Wei-ghtman et al., 2006).

L’umidità relativa e l’anidride carbonica rap-presentano fattori ambientali che, in certe con-dizioni (per es. colture protette), possono de-terminare significative variazioni di alcuni attri-buti di qualità. L’influenza della prima si estrin-seca attraverso il rallentamento o l’attivazionedel ricambio idrico ed una diversa allocazionedi acqua nelle porzioni eduli della pianta (Leo-nardi et al., 2000). Nel caso dell’anidride carbo-nica gli effetti sono da ricondurre ad un varia-bile contenuto di assimilati, determinato dal-l’influenza sul processo fotosintetico (Dorais etal., 2001).

Fattori tecnici

Le indicazioni riguardanti i riflessi delle princi-pali varianti di processo sulle caratteristiche diqualità dei prodotti sono senz’altro numerose;un esame dettagliato risulta assai difficile poi-ché i singoli fattori possono agire talvolta in ma-niera opposta (La Malfa et al., 1995). Nel qua-dro dei rapporti tra qualità e fattori tecnici van-

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no sicuramente chiamati in causa gli interventivolti al controllo dei fattori del clima, alla ge-stione degli equilibri vegeto-produttivi, alla ge-stione della nutrizione minerale e idrica.

Il controllo dei fattori del clima è per lo piùda ricondurre alla coltivazione in ambiente pro-tetto. Al di là delle varianti di processo che tro-vano applicazione esclusiva in tale contesto dicoltivazione (per es. colture idroponiche), laquestione va considerata con riferimento allemaggiori opportunità offerte dalla coltura pro-tetta in termini di controllo attivo del clima, maanche per ciò che attiene ai possibili riflessi sul-la qualità del prodotto che possono semplice-mente derivare dalla coltivazione in ambienteprotetto rispetto alla coltivazione in pien’aria.Quest’ultimo aspetto assume importanza nontrascurabile se si pensa alle riserve che spessovengono avanzate dal consumatore nei con-fronti dei prodotti fuori stagione. D’altra parteappare difficile poter effettuare delle vere e pro-prie valutazioni comparative non potendosispesso disporre contemporaneamente di pro-dotti provenienti dalla coltura protetta e daquella in pien’aria. In definitiva i riflessi sullaqualità del prodotto derivanti dalla coltivazionein ambiente confinato vanno ricondotti, comeaccennato in precedenza, alle specifiche condi-zioni micro-climatiche che si determinano nel-l’ambiente confinato, che derivano dall’anda-mento climatico esterno, dalle caratteristichedell’apprestamento di protezione e dal control-lo attivo del clima. Ad esempio, è stato dimo-strato che utilizzando pacciamature con telo dicolore bianco (highly reflective), nella fragolapuò essere indotto un aumento del contenutototale di acido ellagico e acido ascorbico ri-spetto al controllo pacciamato con plastica ne-ra (Atkinson et al., 2006). Ciò rappresenta un’e-semplificazione di come le pratiche agronomi-che e le conseguenti condizioni climatiche pos-sono essere considerate lo strumento integrati-vo a quello genetico per implementare le ca-ratteristiche qualitative dei prodotti.

Relativamente alla gestione dei rapporti ve-geto-produttivi, le possibilità d’intervento ai fi-ni del miglioramento della qualità del prodottosono nella realtà operativa molteplici. Questepossibilità possono riguardare in primo luogol’adozione di idonee forme d’allevamento e/o dicorretti interventi di potatura.

L’influenza della forma d’allevamento è da

ricondurre agli effetti diretti dell’esposizione deifrutti alle radiazioni solari e attraverso la mi-gliore intercettazione della luce da parte degliorgani fotosintetizzanti. Studi effettuati su va-rietà di pesco allevate secondo forme diversehanno portato alla conclusione che la produtti-vità e la qualità nei frutteti allevati secondo va-rie architetture può risultare differente e, spes-so, questo fatto dipende dalla diversa capacitàdi intercettazione e di distribuzione della luceall’interno della chioma stessa (Giuliani et al.,1999). Per alcuni autori (Robinson et al.,1991;Xiloyannis et al., 1996) la forma di allevamen-to ad Y trasversale comporta dei vantaggi pro-duttivi, rispetto a forme a vaso, vantaggi che so-no stati riscontrati in varie specie, tra cui melo,albicocco, pesco e susino; questo fenomeno è fa-cilmente spiegabile con la maggiore capacità diintercettazione della luce da parte dell’Y tra-sversale rispetto a forme in parete o a vaso.

La regolazione della carica produttiva è in-dispensabile per il raggiungimento delle carat-teristiche finali dei frutti più rispondenti; lo sco-po per cui si esegue è di commisurare gli orga-ni di accumulo alla capacità di sintesi; il risulta-to è quello di ottenere un miglioramento del ca-libro commerciale dei frutti lasciati e del lorocontenuto in solidi solubili (Valantin-Morison etal., 2006). L’equilibrio vegeto-produttivo otti-male per il miglioramento della qualità dei frut-ti è solitamente ottenuto con il diradamento deifrutti (Costa e Vizzotto, 2000).

Effetti rilevanti sulla qualità dei prodotti or-tofrutticoli sono esercitati dall’irrigazione e dal-la concimazione (Ferrante et al., 2008; Zegbe eBehboudian, 2008). La regolare alimentazioneidrica migliora in genere la qualità direttamen-te attraverso un incremento del contenuto d’ac-qua nelle porzioni eduli (per es. prodotti da or-gani vegetativi) e/o indirettamente determinan-do condizioni più favorevoli ai processi di assi-milazione. L’elevato contenuto in acqua potreb-be, tuttavia, determinare effetti negativi sullaqualità, pregiudicando la serbevolezza dei pro-dotti o la sapidità degli stessi e la concentra-zione relativa di zuccheri e di acidi. Sotto il pro-filo generale si può affermare che la qualità ri-sulta compromessa dalla carenza di acqua perle specie da organi vegetativi e dagli eccessi perquelle da organi riproduttivi (La Malfa, 1988).

Relativamente all’irrigazione, una notazionea parte va fatta con riferimento all’impiego di

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acque saline che, com’è noto, può avere riflessisulle caratteristiche di qualità dei frutti (per es.pomodoro e melone), ma al contempo può com-portate una significativa riduzione del livellodelle rese (Leonardi et al., 2004).

Gli effetti della nutrizione minerale sono inprimo luogo da ricondurre al ruolo che i diver-si elementi minerali hanno sui diversi processimetabolici della pianta che stanno alla base del-la sintesi e traslocazione dei diversi compostibiochimici. Laute concimazioni se da una partepossono rappresentare il presupposto per unmiglioramento della qualità (per es. nutrizionepotassica e qualità) dall’altra possono compor-tare l’accumulo di nitrati nelle porzioni eduli(Malaguti et al., 2001).

È all’assorbimento idrico e minerale, oltreche agli equilibri ormonali, che viene ricondot-to l’effetto dell’innesto sulla qualità del prodot-to (Sorce et al., 2001). La tecnica che in passa-to interessava solo le specie da frutto legnose,negli ultimi anni si sta sempre più diffondendoanche per le specie orticole appartenenti alla fa-miglia delle Solanaceae e Cucurbitaceae. L’in-fluenza sembra possa essere ricondotta più alportinnesto adottato che alla tecnica in quantotale (Leonardi e Romano, 2004). Al riguardo, laquestione appare assai complessa in rapportoalla crescente disponibilità di nuovi portinnesti.Gli effetti sono da ricondurre all’interazione trai due bionti, che è in grado di influenzare la qua-lità dei frutti soprattutto con riferimento al lo-ro contenuto in zuccheri, acidi, sali minerali edanche all’attività antiossidante (Caruso et al.,1996; Leonardi e Romano, 2004; DiVaio et al.,2001). In considerazione di ciò, l’interazioneportinnesto-nesto può essere considerata un im-portante strumento ai fini del miglioramentoquantitativo della produzione (Loreti e Massai,1999; Wang et al., 1996, Giorgi et al., 2005; Tsi-pouridis et al., 2005).

Fattori attinenti la fase di raccolta e di post-raccolta

Tra i fattori che figurano nel determinare laqualità dei prodotti ortofrutticoli vi sono in-dubbiamente quelli relativi alla raccolta ed alpost-raccolta. Nel primo caso ci si riferisce allostadio di maturazione del prodotto ed alla mo-dalità ed alle condizioni ambientali al momen-to della raccolta (Bonghi et al., 2001; Raffo etal., 2002). Nel corso della maturazione dei frut-

ti le modifiche più rilevanti riguardano il cam-biamento di colore di fondo, l’accumulo deglizuccheri, la diminuzione degli acidi organici, l’e-voluzione delle sostanze volatili e la perdita diconsistenza della polpa. Nella scelta del mo-mento della raccolta è necessario quindi realiz-zare un opportuno compromesso tra il raggiun-gimento delle caratteristiche organolettiche ot-timali e la necessità di mantenere i frutti inte-gri fino al consumo.

Per gran parte dei prodotti ortofrutticoli, lemigliori caratteristiche qualitative vengono co-munque raggiunte in corrispondenza della rac-colta; nelle fasi successive vi è un progressivodecadimento della qualità del prodotto. Pertan-to le condizioni di conservazione e le tecnichedi lavorazione del prodotto in fase di post-rac-colta possono assumere un’importanza assai si-gnificativa.

Relativamente alla post-raccolta, va precisa-to che i prodotti possono subire danni mecca-nici, attacchi di parassiti, nonché un decadi-mento qualitativo che è correlato con la nor-male attività metabolica del prodotto (Almi-rante e Colelli, 1994). Una notazione a parte vafatta con riferimento alle produzioni di tipo fresh-cut (a base di frutta o ortaggi), che, a fron-te di un maggior contenuto in servizio, sono ca-ratterizzati da un accentuato grado di deperibi-lità (Pernice et al., 2007).

Per quanto riguarda i sistemi di conserva-zione dei prodotti ortofrutticoli generalmente sifa riferimento, in primo luogo, alle problemati-che relative alla gestione della catena del fred-do, secondo i seguenti obiettivi prioritari (Co-lelli, 2001):– valutare le esigenze specifiche dei singoli

prodotti per rallentarne il metabolismo al fi-ne di migliorarne la qualità finale anche at-traverso la pianificazione di opportuni ciclidi condizionamento, caratterizzati da opera-zioni elementari adatte a ciascun prodotto;

– predisporre opportuni lay-out delle centraliortofrutticole in modo da ottimizzare i tem-pi di utilizzazione dei diversi impianti e ri-durre i costi di gestione;

– introdurre tecnologie impiantistiche di refri-gerazione indiretta e mista che garantiscanola qualità finale del prodotto, contenendonei costi di gestione;

– utilizzare in maniera generalizzata la praticadella pre-refrigerazione con tecnologie più

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adeguate alle singole esigenze dei prodotti;– applicare nuove tecnologie per l’atmosfera

controllata in modo da ridurne i costi di gestione;

– estendere ad un numero crescente di pro-dotti la tecnica dell’imballaggio in atmosfe-ra modificata, anche alla luce della disponi-bilità di diverse tipologie d’imballaggi inno-vativi;

– sviluppare linee di preparazione per il mer-cato sempre più automatizzate con controlliin linea per la selezione e lo scarto di pro-dotti indesiderati;

– implementare sistemi di automazione e con-trolli nella gestione delle centrali ortofrutti-cole, sia per consentire la tracciabilità e quin-di la provenienza ed il percorso dei singoliprodotti, sia per il controllo anche a distan-za della funzionalità dei singoli apparati im-piantistici.Il metabolismo del prodotto durante la fase

di maturazione e/o senescenza si manifesta confenomeni d’aumento della respirazione, dellatraspirazione e della produzione di etilene e, inmaniera macroscopica, attraverso modificazioninel colore, nella struttura e nella composizione,che comportano una rapida degradazione dellecaratteristiche di accettabilità del prodotto. Ta-le degradazione è strettamente correlata con latemperatura a cui il prodotto viene conservatoe con il tempo che intercorre tra la raccolta edil consumo. Essa, inoltre, può essere acceleratada danni meccanici e da alterazioni di tipo fi-siologico e/o patologico. Pertanto, la conoscen-za e la corretta analisi di tali esigenze relativeal prodotto rivestono una fondamentale impor-tanza nella progettazione, realizzazione e ge-stione delle centrali ortofrutticole (Colelli,2001).

Conclusioni

L’ortofrutticoltura mediterranea si trova difronte alla necessità di un adeguamento dellasua configurazione dal punto di vista tecnico,agronomico ed organizzativo, per corrispondereagli scenari che man mano si vanno delineandoin termini di globalizzazione ed evoluzione del-le aspettative dei consumatori. L’interesse neiconfronti di tale adeguamento scaturisce dal fat-to che per i prodotti ortofrutticoli si osserva un

progressivo cambiamento del concetto di qua-lità anche in rapporto alla diffusione di nuovetecnologie di produzione, al rinnovamento delsistema di distribuzione, alle mutate aspettativeda parte dei consumatori i quali manifestanouna crescente diffidenza nei confronti dei pro-dotti il cui processo produttivo si caratterizzi perun elevato grado di intensificazione. D’altra par-te, il consumatore è sempre più attento ai pro-dotti salubri, ottenuti con metodi e tecniche eco-compatibili.

Tra i principali obiettivi da perseguire ai fi-ni del mantenimento della competitività delcomparto vi è, quindi, quello relativo alla qua-lificazione delle produzioni. Tale obiettivo potràessere perseguito attraverso una scelta appro-priata delle principali varianti del processo o at-traverso l’introduzione di specifiche innovazio-ni che riguardano uno o più segmenti della fi-liera produttiva. Tali varianti sono comunquenumerose e possono determinare effetti taloracontrastanti sui diversi attributi di qualità. Oc-corre pertanto verificare preliminarmente il gra-do di compatibilità tecnica con le specificità chele diverse espressioni del comparto ortofrutti-colo esprimono, sotto il profilo pedoclimatico,agronomico, organizzativo, ecc. D’altra parte,non va sottovalutata la notevole eterogeneitàche caratterizza i prodotti ortofrutticoli, anchesotto il profilo delle caratteristiche che ne de-terminano la qualità.

Nel quadro della qualificazione dei prodottiortofrutticoli la definizione di disciplinari diproduzione potrebbe essere considerata unostrumento per i produttori, utile ai fini dell’ot-tenimento di prodotti più rispondenti e in gra-do, anche attraverso mirate certificazioni, di for-nire al consumatore indicazioni più puntuali cir-ca il prodotto ed il processo attraverso il qualeesso è stato ottenuto. Gli elevati costi che le pro-cedure per la certificazione richiedono rendonoquesta strategia accessibile soltanto alle azien-de o genecooperative di produttori di idonee di-mensioni.

In conclusione, appare evidente come i de-terminanti della qualità dei prodotti ortofrutti-coli riguardanti la filiera produttiva siano nu-merosi e che le relazioni di causa ed effetto ri-sultino sufficientemente conosciute solo in al-cuni casi. La possibilità di ipotizzare percorsi in-novativi riguardanti il processo, utili ai fini del-la qualificazione delle produzioni, risulta per-

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tanto subordinata ad un ampliamento del qua-dro conoscitivo dei processi biofisiologici allabase del determinismo della qualità. I marginiper un miglioramento della qualità dei prodot-ti risultano comunque significativi; occorre, tut-tavia, preliminarmente verificare se gli oneri cheogni innovazione riguardante la filiera produt-tiva, possono comportare ai fini della qualifica-zione del prodotto, sono giustificati dalle mag-giori opportunità di mercato.

Ringraziamenti

Lavoro parzialmente svolto nell’ambito del progetto fi-nanziato dalla Regione Marche – LR27 – Valorizzazio-ne biodiversità orticola autoctona.

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Modelli di coordinamento verticale compatibili con lo sviluppo di filiere bio-energetiche#

Gianluca Nardone*1, Emilio De Meo1, Antonio Seccia2, Rosaria Viscecchia1

1Dipartimento di Scienze delle Produzioni e dell’Innovazione nei SistemiAgro-alimentari Mediterranei, Università di Foggia

Via Napoli 25, 71100 Foggia2Dipartimento di Economia e Politica Agraria, Estimo e Pianificazione Rurale, Università di Bari

Via Amendola 165/A, 70126 Bari

Società Italiana di Economia Agraria

Riassunto

Una delle prospettive per lo sviluppo delle biomasse destinate a combustibile solido consiste nello sviluppo di filierelocali caratterizzate da coesistenza di fase agricola e fase industriale. A tal fine, però, è necessario implementare unefficace coordinamento verticale tra le parti, con la definizione di contratti che scongiurino il pericolo di eventualicomportamenti opportunistici e garantiscano gli investimenti industriali di forniture stabili e costanti nel tempo. Pren-dendo spunto da un progetto di una centrale a biomasse alimentata da sorgo nel foggiano, il presente studio riflettesui pagamenti da prevedere in un eventuale contratto per mantenere la fedeltà dell’agricoltore allo stesso. In parti-colare, poiché l’impresa agricola è dotata di maggiore flessibilità potendo optare annualmente per la coltura meglioremunerata dal mercato, si ipotizza che tale fedeltà possa essere ottenuta legando i pagamenti contrattuali al prezzodella principale coltura alternativa a quella per uso energetico. I risultati del presente lavoro sembrano indicare l’op-portunità di fissare un prezzo di acquisto della materia prima che possa essere legato al prezzo del grano in quantocoltura più diffusa sul territorio e che più di ogni altra, in seguito al disaccoppiamento introdotto dalla riforma dellaPAC, soggiace ad oscillazioni repentine del prezzo di mercato. Utilizzando i dati del Distretto 12 del Consorzio di Bo-nifica di Capitanata esteso su 11.300 ettari (contro i 20.000 richiesti dalla proposta in questione), è stato possibile or-ganizzare le circa 600 imprese in cinque cluster ognuno dei quali identificato da un’azienda rappresentativa. Con unmodello di programmazione lineare sono state condotte simulazioni inserendo nelle opzioni dell’imprenditore il sor-go da biomassa e zuccherino in modalità sia estensiva che intensiva. Attraverso un processo di aggregazione, si è po-tuto constatare che con un prezzo del grano duro sui 15 €/q il prezzo ritenuto conveniente dall’agricoltore per l’inse-rimento della coltura energetica nell’ordinamento oscilla intorno ai 50 €/t (superiore ai 40 €/t offerti nel progetto in-dustriale). Si è inoltre identificata una forte correlazione tra il prezzo del grano duro e il prezzo con il quale il sorgoentra nella pianificazione aziendale, tanto che il prezzo da prevedere eventualmente nel contratto supererebbe i 70 €nel caso in cui il grano raggiungesse i 40 €. Tali risultati, pur non offrendo indicazioni circa la convenienza della par-te industriale a pagare prezzi maggiori per la biomassa, rappresentano comunque elementi fondamentali per poter ri-flettere sulle clausole contrattuali capaci di impedire fenomeni di hold-up e moral hazard.

Parole chiave: biomasse, coordinamento verticale, contratti, hold-up.

Summary

MODELS OF VERTICAL COORDINATION CONSISTENT WITH THE DEVELOPMENT OF BIO-ENER-GETICS

To foster the development of the biomasses for solid fuel it is fundamental to build up a strategy at a local levelin which co-exists farms as well as industrial farms. To such aim, it is necessary to implement an effective verticalcoordination between the stakeholders with the definition of a contract that prevents opportunistic behaviors and

# Il lavoro è frutto della collaborazione degli Autori. Tuttavia, la Premessa e le Conclusioni vanno attribuite a G.Nardone, il paragrafo 2 a A. Seccia, il paragrafo 3 a E. De Meo, e il paragrafo 4 a R. Viscecchia.Si ringrazia il prof. Massimo Monteleone per la gentile concessione delle informazioni relative alle caratteristichetecnico-agronomiche delle colture bio-energetiche ed il dott. Maurizio Prosperi per il prezioso contributo nella rea-lizzazione del caso studio.* Autore corrispondente: tel.: +39 0881 589316; fax: +39 0881 589349. Indirizzo e-mail: [email protected]

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guarantees the industrial investments of constant supplies over the time. Starting from a project that foresees a bio-masses power plant in the south of Italy, this study reflects on the payments to fix in an eventual contract in sucha way to maintain the fidelity of the farmers. These one have a greater flexibility since they can choose the mostconvenient crop. Therefore, their fidelity can be obtained tying the contractual payments to the price of the mainalternative crop to the energetic one. The results of the study seem to indicate the opportunity to fix a purchaseprice of the raw materials linked to the one of durum wheat that is the most widespread crop in the territory andthe one that depends more on a volatile market. Using the data of the District 12 of the province of Foggia WaterConsortium with an area of 11.300 hectares (instead of the 20.000 demanded in the proposal), it has been possibleto organize approximately 600 enterprises in five cluster, each of them identified by a representative farm. With amodel of linear programming, we have run different simulations taking into account the possibility to grow sorghumin different ways. Through an aggregation process, it has been calculated that farmers may find it convenient to sup-ply the energetic crop at a price of 50 €/t when the price of durum wheat is 150 €/t. Anyway, this price is lowerthan the one offered by firm that is planning to build the power plant. Moreover, it has been identified a strongcorrelation between the price of the durum wheat and the price that makes convenient for the farmers to grow thesorghum. When the price of wheat goes up to 400 €/t then the price that must be paid to the farmers for the en-ergetic crop is 70 €/t. Even though these results offer no definitive indications about the economic convenience ofindustrial firms to pay greater prices for the biomasses, they represent an important step towards the definition ofcontractual clauses that may prevent phenomena of hold-up and moral hazard.

Key-words: biomasses, vertical coordination, contracts, hold-up.

Nardone G., De Meo E., Seccia A., Viscecchia R.

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1. Premessa

Il dibattito sulle prospettive delle filiere bio-energetiche sta richiamando un crescente inte-resse, sia in ambito accademico sia in ambito po-litico, in virtù delle potenziali risposte che que-ste possono fornire rispetto alle problematicheagricole, ambientali ed energetiche. Gli eviden-ti freni allo sviluppo di tali filiere, legati princi-palmente alla minore convenienza rispetto alcosto dei combustibili fossili nonché alle mani-feste difficoltà degli impianti di raggiungereeconomie di scala e di reperire la materia pri-ma, hanno determinato una particolare atten-zione a costruire adeguate politiche di incenti-vazione basate su obblighi di produzione dienergia da fonti rinnovabili, contributi per lecolture energetiche, certificati verdi e, non ulti-mo, sostegno alla ricerca e sviluppo.

Tali strumenti incentivanti non riescono adaffrontare efficacemente gli specifici limiti strut-turali ed organizzativi delle filiere bio-energeti-che che, soprattutto nel caso di biomasse percombustibile solido, dipendono fortemente daun’organizzazione su scala locale tale da ridur-re l’incidenza dei costi di trasporto. Un’orga-nizzazione secondo un tale schema richiedereb-be, però, che gli investimenti industriali possa-no essere garantiti da forme di integrazione ver-ticale tra gli operatori coinvolti che assicurinoforniture stabili e costanti nel tempo e scongiu-rino il pericolo di eventuali comportamenti op-portunistici.

In questa ottica, il presente studio si propo-ne di analizzare le caratteristiche del coordina-mento verticale individuando quelle modalitàmaggiormente compatibili con lo sviluppo diuna filiera bio-energetica e con particolare rife-rimento alla definizione delle clausole contrat-tuali che possano rendere sostenibile una filie-ra a bio-combustibili solidi in provincia di Fog-gia. L’impostazione teorica deriva da due con-siderazioni di base. Da una parte si considerache con l’integrazione contrattuale le parti sta-biliscono le modalità con le quali si disciplina latransazione economica con particolare riferi-mento ai pagamenti quale parametro principa-le per giudicare la convenienza o meno ad av-viare il rapporto economico. D’altra parte, è an-che vero che mentre per il cliente industrialeesiste una specificità nella richiesta di materiaprima che non può che essere di provenienzalocale, l’impresa agricola fornitrice è dotata dimaggiore flessibilità potendo valutare l’even-tuale convenienza a pianificare la coltura me-glio remunerata dal mercato. Ciò determina lapossibilità di comportamenti opportunistici e diproblemi di hold-up o di moral hazard, con ine-vitabili ripercussioni sulla sostenibilità dell’in-vestimento.

Prendendo spunto da un progetto reale cheprevede la realizzazione di un impianto di pro-duzione di energia elettrica da biomassa di ori-gine agricola sul territorio della Capitanata, si èinteso verificare se il prezzo alla produzione

proposto fosse in grado di incentivare gli im-prenditori agricoli a modificare la pianificazio-ne aziendale a favore di colture energetiche, nelcaso specifico il sorgo. Tale prezzo è stato de-terminato a condizioni di mercato definite, ov-vero avendo fissato il prezzo della principalecoltura alternativa a quella per uso energetico.Per arrivare a definire clausole contrattuali talida disincentivare comportamenti opportunistici,si è scelto poi di verificare come il prezzo con-cordato dovesse modificarsi in risposta ad au-menti del prezzo della coltura alternativa indi-viduata.

2. Il coordinamento verticale

Il concetto di integrazione verticale fa riferi-mento alle diverse strategie di incorporazioneall’interno di una stessa impresa, o comunquesotto il suo controllo, di attività, processi, fun-zioni, prodotti e capacità produttive preceden-temente realizzate all’esterno di essa. Le sceltedi integrazione da parte delle imprese possonoriguardare un coordinamento più o meno stret-to e vengono definite scelte di make o buy a si-gnificare le due alternative estreme a disposi-zione dell’impresa: l’internalizzazione del pro-cesso produttivo a valle o a monte o l’azione at-traverso il mercato a cui è demandato il ruolodi coordinamento e quindi di “armonizzazione”dei processi produttivi.

Tra le due forme estreme esiste una varietàdi soluzioni intermedie che possono essere ri-condotte alle categorie di quasi integrazione edi integrazione contrattuale. La prima si realiz-za quando le imprese realizzano forme di col-legamento sistematico con altre unità produtti-ve a monte e a valle senza acquisire quote nelcapitale di rischio (per es. il franchising). L’in-tegrazione contrattuale si ha, invece, quando ilegami tra gli operatori di stadi contigui avven-gono per contratto. Rappresenta un grado an-cora minore di coinvolgimento dell’impresa nel-la gestione dei suoi partner.

La scelta del make o buy si basa ovviamen-te su una serie di valutazioni economiche sul-l’alternativa che consente all’impresa di rag-giungere un maggiore livello di redditività. L’in-tegrazione risulterebbe giustificata rispetto al-l’esternalizzazione se l’impresa conseguisse unlivello superiore di profittabilità dallo svolgi-

mento congiunto di due o più attività rispettoall’opzione di attività realizzate da imprese giu-ridicamente ed economicamente distinte. La let-teratura economica e manageriale ha prodottonumerose spiegazioni teoriche in relazione allaindividuazione delle determinanti della conve-nienza per i processi di integrazione verticale. Èpossibile tentare una sintesi dei diversi contribu-ti teorici raggruppandoli in tre grandi filoni chesaranno di seguito, molto brevemente, esposti.

Il primo filone è quello che fa riferimentoall’approccio strutturalista neoclassico. Nell’am-bito di tale paradigma sono state elaborate di-verse teorie che si riferiscono a specifiche de-terminanti dell’integrazione verticale delle im-prese (Stigler, 1961; Bain, 1959). Secondo que-sta impostazione, la spinta all’integrazione ver-ticale è data dall’esistenza a livello di settore,quindi esogenamente alle imprese, di meccani-smi che rendono vantaggiosa economicamentela scelta make o buy.

Le determinanti economiche principali si ri-feriscono alla struttura dei costi, in particolarealla possibilità per l’impresa di poter consegui-re economie di scala, di scopo e di esperienzaattraverso scelte di integrazione verticale o, alcontrario, di disintegrazione, a seconda della na-tura del prodotto, dei processi produttivi e del-le caratteristiche del settore in cui opera, comead esempio il grado di concentrazione. In rela-zione ai processi produttivi, la condizione di ef-ficienza tecnica può essere presupposto di van-taggiosità di un processo di integrazione verti-cale, determinata dalla presenza in un dato set-tore di tecnologie aventi specifiche caratteristi-che tecnico-economiche in termini di indivisibi-lità o di dimensioni minime. Un ulteriore fatto-re è dato dalla localizzazione economica, a cau-sa dell’assenza, in alcune aree, di fornitori di ma-terie prime o di semilavorati o di lavorazionispecializzate, che può spingere le imprese a cer-care soluzioni organizzative di integrazione ver-ticale in alternativa all’approvvigionamento inaree distanti con maggiori oneri di organizza-zione e di trasporto.

L’impostazione strutturalista propone ancheuna interpretazione legata alle funzioni di costodei singoli attori coinvolti nel processo di inte-grazione verticale, nei casi in cui si riscontra unelevato grado di interdipendenza fra le funzio-ni di costo dei medesimi. In tali situazioni, può

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esistere un forte condizionamento della compe-titività di un’impresa da parte delle scelte pro-duttive realizzate da un’altra senza che la pri-ma tragga vantaggio in termini di profittabilitào che si raggiunga un equilibrio dato dalla mas-simizzazione congiunta dei profitti di entrambe.

Un secondo approccio è quello istituzionaleo del governo dell’impresa e fa riferimento alleteorie dell’informazione, dei contratti, dell’a-genzia e alle nuove teorie dell’impresa. In que-sto caso si individuano due principali filoni teo-rici: quello che considera l’organizzazione inter-na dell’impresa, originato da Berle e Means(1932) e sviluppato in seguito da altri autori (Fa-ma, Jensen e Meckling), e quello che considerai confini esterni dell’impresa, che prende origi-ne da Coase (1937) e che in seguito ha condot-to alla teoria dei costi di transazione e dei di-ritti di proprietà (Williamson e Grossman-Hart-Moore). Per entrambi i filoni, comunque, è pos-sibile riconoscere un ambito tematico comune,quello della incompletezza della contrattazione.Nel primo caso, essa è riferita ai rapporti inter-ni all’impresa, tra ogni soggetto che agisce da“principale” ed il suo “agente”, mentre nel se-condo è il mercato l’ambito in cui le imperfe-zioni contrattuali si manifestano.

Lo strumento dei contratti, in alcuni casi im-pliciti cioè fondati su regole non scritte ma no-te, regola i rapporti interni all’impresa fra pro-prietari e manager, ma anche fra manager e di-pendenti, fra proprietari e finanziatori esterni.Tuttavia, essendo il contesto in cui tali mecca-nismi di interazione avvengono caratterizzatoda razionalità limitata ed informazione asim-metrica, i contratti sono necessariamente in-completi.

Un fecondo filone sui rapporti di agenzia tra“principale” e “agente” si è sviluppato nella let-teratura della gestione d’impresa. Quest’ultima,non viene più concepita come semplice profilotecnologico legato ai costi produttivi perché ilrapporto di agenzia implica nuove tipologie dicosti: quelli relativi al controllo del principalesull’eventuale azione sleale del suo agente (mo-nitoring costs), quelli di cauzione, tramite i qua-li l’agente offre garanzie e rassicura il principa-le che non si comporterà slealmente (bondingcosts) ed, infine, i costi connessi alla perdita divalore che l’impresa sostiene nel processo di de-lega data all’agente dal principale (residual loss)(Jensen e Meckling, 1976). Secondo questo ap-

proccio, elaborato negli anni Settanta da autoricome Alchian, Demsetz, Fama, Jensen, Meck-ling, dunque, l’impresa diviene il luogo di con-vergenza di contratti complessi in cui l’impren-ditore si trova collocato in posizione gerarchi-camente superiore alle sue controparti.

Secondo Coase (1937) per l’impresa esiste unlimite dimensionale nella gestione gerarchica enella attività di pianificazione che è rappresen-tato dalle capacità gestionali e dalle possibilitàinformative dell’imprenditore. Infatti, al di là unacerta dimensione, i costi di gestione, di organiz-zazione ed informativi eccedono gli eventuali co-sti di transazione che si sosterrebbe se si sosti-tuisse, per alcuni rapporti, il mercato all’impresa.La scelta fra “mercato” e “impresa” è quindi re-golata dal confronto tra costi di transazione e co-sti di gestione. Il concetto di costi di transazioneviene introdotto con l’analisi economica delletransazioni: sono costi associati all’atto delloscambio, non specificamente visibili e rilevabili(hidden costs) ma della cui esistenza l’impresa haconsapevolezza tanto da mettere in atto com-portamenti finalizzati a minimizzarli.

Secondo Williamson (1975), grazie al qualeil problema della contrattazione si sposta ai con-fini esterni dell’impresa, in situazione di sceltafra una relazione di gerarchia (impresa) e unatransazione effettuata tra due contraenti indi-pendenti (mercato), l’integrazione verticale co-stituisce la soluzione organizzativa efficiente inpresenza di elevati costi di transazione.

Il modello di Williamson si basa su due as-sunzioni comportamentali e tre variabili perspiegare le determinanti specifiche dei costi ditransazione da cui possono derivare i livelli di in-tegrazione verticale delle imprese. Le assunzionicomportamentali sono la razionalità limitata el’opportunismo degli attori. Le variabili economi-che sono il possesso di risorse specifiche, l’in-certezza e la frequenza delle transazioni.

La razionalità limitata indica che i protago-nisti delle contrattazioni di mercato sono carat-terizzati da limiti nelle capacità cognitive e dielaborazione delle informazioni per cui nonpossono prevedere tutte le conseguenze delleproprie decisioni.

L’opportunismo degli attori consiste nel per-seguire finalità egoistiche attraverso l’utilizzoparziale o distorto di informazioni con lo scopodi confondere gli interlocutori di mercato.

La specificità delle risorse si riferisce a in-

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vestimenti in risorse materiali e immaterialistrettamente connessi ad una data transazionenon avendo possibilità di impiego alternativo aldi fuori di essa (Riordan, Wiiliamson,1985, Perry1989).

L’incertezza delle transazioni è connessa al-la difficoltà di prevedere le conseguenze giuri-dico-economiche degli scambi di mercato con ri-ferimento a problemi contrattuali della transa-zione, non identificabili a priori, e che genera-no ostacoli nell’esecuzione degli accordi.

La frequenza delle transazioni riguarda la ri-petitività nel tempo delle stesse e il peso eco-nomico che hanno per le parti coinvolte nellatransazione.

Nel caso in cui per un’impresa una determi-nata transazione di mercato sia contraddistintada elevata frequenza, da rilevanti investimentispecifici ed elevata incertezza, la soluzione effi-ciente risulta essere l’integrazione verticale.

In alcuni casi non risultano efficienti né l’in-tegrazione verticale né il mercato concorrenziale,per cui, in tali casi, è necessario stabilire contrat-ti che però sono inevitabilmente incompleti in unambiente di razionalità limitata ed asimmetriainformativa, e quindi esposti al rischio di com-portamento opportunistico di una delle parti.

Il terzo e ultimo approccio è quello definitostrategico secondo il quale alla base delle scel-te di integrazione verticale non c’è la naturaesogena della transazione economica bensì ilcomportamento strategico dell’impresa finaliz-zato a rafforzare le proprie posizioni competiti-ve. La struttura gerarchica di governo permettedi gestire risorse immateriali, come l’informa-zione e l’innovazione, in misura migliore rispet-to ad una struttura deverticalizzata composta danumerosi soggetti economicamente e giuridica-mente indipendenti.

Si possono individuare due diversi ambiti con-cettuali che determinano le scelte di integrazio-ne verticale da parte delle imprese: azioni stra-tegiche di integrazione verticale volte a ostaco-lare l’ingresso nel settore da parte di potenzialiconcorrenti (Comanor 1967; Comanor e Fech1985; Blair e Kaserman 1978) e azioni intese arafforzare la posizione competitiva dell’impresa.

Tra i fattori alla base di strategie di integra-zione verticale volte al miglioramento competi-tivo dell’impresa assumono particolare impor-tanza:1. Il miglioramento dei flussi informativi di

mercato per evitare che pervengano all’im-

presa alterati sia nella qualità che nellaquantità (Blair e Kaserman, 1982; Caves eMurphy, 1976).

2. Il controllo della qualità delle materie primee delle fasi particolarmente rilevanti in ter-mini di generazione della qualità del pro-dotto finale.

3. L’efficienza e l’efficacia logistica: l’impresapuò avere la necessità di migliorare il pro-prio ciclo manifatturiero e di commercializ-zazione coerentemente con le modificazionidella domanda di mercato.

4. La tutela economica delle innovazioni: le im-prese possono avere la necessità di tutelarele innovazioni prodotte evitandone l’ester-nalizzazione.

5. L’assicurazione di uno sbocco di mercato so-prattutto nel caso di creazione di nuovi merca-ti con prodotti innovativi: l’integrazione verti-cale costituisce una scelta strategica fondamen-tale per fare affermare un prodotto nel merca-to e favorire la penetrazione commerciale.La scelta di soluzioni che minimizzano il ri-

schio connesso con le attività aziendali e che èstrettamente dipendente dall’imprenditore o dalsoggetto economico dell’impresa.

3. Il modello di riferimento: la teoria dei con-tratti, l’imprenditore razionale e massimizzantee i modelli di programmazione lineare

Negli ultimi venti anni la teoria dei contratti hadato vita a uno dei filoni più fecondi della ri-cerca economica come attesta il premio Nobelassegnato nel 2001 a George A. Akerlof, Mi-chael A. Spence e Joseph E. Stiglitz per avereanalizzato il funzionamento dei mercati in pre-senza di asimmetria informativa, un concettoimportante per capire la natura degli accordi trasoggetti. L’approccio teorico mette al centrodell’interesse il contratto inteso come un accor-do volontario tra due o più individui con il qua-le, indipendentemente dal fatto che esso ne pos-segga lo status giuridico, essi stabiliscono le mo-dalità attraverso cui debba realizzarsi una certatransazione economica. Tramite il contratto gliindividui stabiliscono le azioni che ciascuno de-ve intraprendere ed il comportamento che cia-scuno può aspettarsi dagli altri. Inoltre il con-tratto stabilisce i pagamenti che devono essereeffettuati (Aron, 1984; Hermalin, 1986; Joskow,1985; Joskow, 1987; Klein, Crawford, Alchian,

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1978; Aghion e Bolton, 1987; Dixit, 1983; Town-send, 1979; Hart, 1988; Hart e Holmstrom, 1987).

Le norme contrattuali possono prevedere laspecificazione di una serie di azioni che con-templano il volume specifico (max o min) delprodotto oggetto dello scambio, il tipo e la mo-dalità di determinazione della qualità del pro-dotto, i tempi e modalità di consegna, il sistemadi determinazione e modulazione del prezzo, latecnologia di produzione, la fornitura dei fatto-ri di produzione, l’indennizzo in caso di viola-zione delle norme. A seconda delle norme con-trattuali concordate si distingue tra tre tipolo-gie di contratto che presentano vincoli crescen-ti: market specification, production management,resource providing.

Il contratto più efficiente ai fini dell’orga-nizzazione delle attività economiche è quellodefinito completo, caratterizzato dal fatto di pre-vedere e descrivere tutte le contingenze che po-trebbero emergere nello svolgimento della rela-zione, definire le azioni e i compensi adeguati perciascuna contingenza e assicurare la certezza del-l’esecuzione dei termini contrattuali.

In realtà, i mercati presentano una serie diproblematiche (razionalità limitata degli indivi-dui, costi di scrittura, informazione asimmetricatra le parti coinvolte, costi di enforcement) chedeterminano la definizione di contratti di fattoincompleti e quindi condizioni di mercato lon-tane dall’efficienza. In generale, le conseguenzedell’incompletezza contrattuale possono esserericondotte a 4 macro categorie: rinegoziazioneex-post dei contratti e problema degli investi-menti specifici (hold-up); informazione asimme-trica e opportunismo pre-contrattuale; selezioneavversa (adverse selection); opportunismo post-contrattuale e moral hazard.

Nel caso della filiera bio-energetica locale, laspecificità degli investimenti unita all’incomple-tezza contrattuale determina un potenziale pro-blema di hold-up, per cui alcuni investimenti,pur se socialmente efficienti, possono non esse-re realizzati. Un ulteriore problema è legato alfatto che se, successivamente alla realizzazionedell’investimento si verificassero contingenzeimpreviste tali da rendere opportuno modificarei termini del contratto iniziale, una delle parti puòapprofittarsi della natura specifica dell’investi-mento realizzato dall’altra per recedere dal con-tratto. Anche in questo caso si avrebbero effettinegativi sull’efficienza della transazione.

Possibili soluzioni potrebbero essere rappre-

sentate da particolari contratti a lungo termine,con un orizzonte temporale pari all’intera du-rata della transazione per cui l’investimento harilevanza, in cui siano chiaramente specificate leobbligazioni di ciascuna parte e, in particolare,i criteri di pagamento della fornitura in manie-ra tale da evitare comportamenti opportunisti-ci. Considerando le opzioni a disposizione del-l’agricoltore che produce biomasse, tale model-lo può trovare una risposta concreta nella defi-nizione di prezzi di fornitura collegati al prezzodi una coltura sostitutiva in un ipotetico pianodi produzione di un imprenditore agricolo ra-zionale e massimizzante.

Per poter determinare un tale sistema di pa-gamento, è possibile utilizzare modelli di pro-grammazione matematica che la letteratura eco-nomico-agraria ha ampiamente riconosciuto co-me strumenti di analisi adeguati per prevederele scelte colturali dell’imprenditore.

I modelli di programmazione matematicautilizzati in economia sono modelli di ottimiz-zazione in cui una funzione obiettivo soggetta avincoli è massimizzata o minimizzata sceglien-do opportunamente i valori di specifiche varia-bili. I vincoli rappresentano le condizioni che de-finiscono l’ambiente economico, tecnologico edistituzionale in cui opera l’impresa e determinatevariabili esogene fuori dal controllo dell’agente.La soluzione del problema rappresentato dal mo-dello, se esiste, esprime i valori ottimi delle va-riabili nel rispetto di tutti i vincoli. In particolarela programmazione lineare (PL) costituisce unostrumento basato su un insieme di teoria e me-todi di soluzione di problemi che comportano lamassimizzazione o la minimizzazione di una fun-zione matematica di tipo lineare soggetta ad unaserie di vincoli lineari (Panattoni e Campus,1969; Cosentino e de Benedictis, 1979; Chiang,1984; Hazell e Norton, 1986; Paris, 1991).

Tali modelli possono diventare metodi diprevisione se usati per descrivere il comporta-mento degli agenti in condizioni diverse daquelle in cui operano. Per utilizzare corretta-mente la programmazione matematica a scopoprevisionale si rende necessaria una fase di con-valida del modello con cui verificare la sua ca-pacità di replicare la realtà osservata. In prati-ca, se l’ipotesi comportamentale assunta nel mo-dello è vera e se la struttura dei vincoli è taleda rappresentare adeguatamente i vincoli chel’imprenditore deve fronteggiare nella realtà, ilmodello dovrebbe fornire i valori osservati del-

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le variabili (Cafiero, 2004). Quando ciò non ac-cade si può ricorrere alla calibratura del mo-dello attraverso la modifica di alcuni parametrie di alcuni vincoli in modo da consentire l’ade-renza tra la soluzione del modello e la realtà os-servata (Mc Carl e Apland, 1986; Howitt, 1992).

Un ulteriore aspetto da notare, nella defini-zione del modello di analisi, è la necessità di uti-lizzare modelli settoriali per simulare e valuta-re gli effetti di un determinato cambiamento alivello aggregato. I modelli settoriali si differen-ziano da quelli aziendali per la funzione obiet-tivo che non è più quella comportamentale de-gli agricoltori ma è una funzione tale da con-sentire il raggiungimento di una soluzione coe-rente con il nuovo equilibrio di mercato. Inol-tre, è opportuno notare che la costruzione di ta-li modelli presenta un ulteriore problema ope-rativo rappresentato dall’aggregazione delle di-verse unità produttive del settore.

4. Il caso studio di una filiera energetica locale

Al fine di stabilire la convenienza ad incentiva-re la formazione di un rapporto stabile regola-to dalla stipula di un contratto tra agricoltori edindustriali è stato sviluppato un caso studio incui si è ipotizzata la costruzione di un impian-to di produzione di energia elettrica da bio-massa di origine agricola in provincia di Foggia.Nel caso specifico, la proposta presentata al ter-

ritorio prevede la realizzazione di un impiantoche necessita di una copertura minima di 20.000ettari da destinare alla coltivazione di sorgo.L’industria di trasformazione sarebbe disposta aconcordare un prezzo di acquisto della biomas-sa di 40-45 €/t attraverso contratti di coltiva-zione e accordi di fornitura.

Seguendo gli obiettivi del presente lavoro si ècercato di valutare se il prezzo è congruo rispet-to agli obiettivi massimizzanti degli agricoltori ese il rapporto contrattuale a prezzo fisso è in gra-do di garantire flussi di fornitura stabili nel tem-po assicurando un costante approvvigionamentoall’impianto di trasformazione. Per fare ciò si èvoluto verificare il prezzo di ingresso del sorgonell’ordinamento colturale alle attuali condizionidi mercato e le variazioni nelle forniture a segui-to di modifiche del prezzo del grano duro presocome più importante coltura alternativa.

Come area di studio è stato individuato il Di-stretto 12 del Consorzio di Bonifica di Capitana-ta in virtù della presenza di aziende vitali, di con-sistenti dimensioni e con elevata professionalità,oltre che della disponibilità di una base dati strut-turata ed aggiornata. Tale Distretto presenta 45settori estesi su 11.300 ha con il 37% di SAU ir-rigata. Alle 1.458 ditte catastali presenti corri-spondono circa 600 aziende di media e grande di-mensione che sono state clusterizzate in base al-la superficie e all’uso del suolo (fig. 1).

Sono stati isolati cinque cluster di azienderappresentative del territorio (tab. 1) per cia-

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Figura 1. Localizzazionedel Distretto 12 di Capita-nata (fonte: Consorzio diBonifica della Capitanata).

Figure 1. Capitanata Di-strict 12 localization (sour-ce: Consorzio di Bonificadella Capitanata).

scuno dei quali si è proceduto ad individuare leaziende rappresentative su cui sono state con-dotte le simulazioni che poi, per un processo diaggregazione, hanno condotto ai risultati del-l’intero Distretto.

La coltura prevalente è il grano duro che ècoltivato laddove, pur essendoci sufficiente di-sponibilità di acqua, le caratteristiche pedocli-matiche non consentono di raggiungere alti red-diti; al contrario la coltura irrigua determinanteè il pomodoro da industria, mentre le altre or-ticole sono ostacolate da problemi di avversitào da stanchezza del terreno (fig. 2).

Nelle simulazioni è stato inserito, come col-tura bio-energetica, il sorgo da biomassa e zuc-cherino ipotizzando che, a seconda delle moda-lità, estensiva o intensiva, di coltivazione possapassare da livelli produttivi di 18t/ha a 25 t/ha.Si tratta di una coltura annuale con ciclo pri-maverile-estivo, coltivata in rotazione con il gra-no in sostituzione delle colture irrigue.

Come anticipato, il modello adottato per cia-scuno dei 5 cluster di aziende che costituisconoil distretto è un modello di programmazione li-neare (PL) che prevede la specificazione di al-cune assunzioni: la massimizzazione del redditolordo e una tecnologia lineare. Il modello puòessere descritto come:

Con il modello descritto, implementato conil software di programmazione matematicaGAMS (General Algebric Modeling System), èstato possibile verificare il prezzo di ingresso delsorgo nell’ordinamento colturale alle attualicondizioni di mercato ed analizzare i diversi sce-nari possibili a seguito di modifiche del prezzodel grano.

I risultati ottenuti indicano una forte corre-lazione tra il prezzo con il quale il sorgo entranella pianificazione aziendale e il prezzo di mer-cato del grano duro. In particolare, l’analisi evi-denzia che il prezzo del contratto da stipulare per

Nardone G., De Meo E., Seccia A., Viscecchia R.

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Tabella 1. Caratteristiche dei Cluster nel Distretto 12 (fonte: nostre elaborazioni da dati del Consorzio di Bonifica dellaCapitanata).

Table 1. Disterct 12 Cluster caracteristics (source: our elaboration from Consorzio di Bonifica della Capitanata data).

Cluster

1 2 3 4 5SAT media (ha) 8.9 8,3 11,2 4,1 220,8SAT totale (ha) 561 1.686 8.218 608 221 % su SAT Distretto 5 15 73 5 2Imprese 64 215 1001 177 1% su imprese Distretto 4 15 69 12 0Numero di settori 3 8 30 3 1Imprese per settore 21 27 33 59 1Caratterizzazione granicole pomodoricole, pomodoricole arboricole pomodoricole

orticole estensive specializzate

soggetto a1

1 I termini hanno i seguenti significati: RLd è il redditolordo del distretto, J il set dei prodotti realizzati, I il setdelle possibili attività, Pj è il vettore dei prezzi di mer-cato dei prodotti, Qj è il vettore dei possibili prodottirealizzabili, aiuj sono gli aiuti accoppiati, wj i costi va-riabili per unità di prodotto, Cacq il consumo di acqua,Wacq il costo dell’acqua, Clav l’impiego di lavoro, Wlav ilcosto del lavoro, pau il pagamento unico aziendale, a1j ilfabbisogno unitario terra, bt la disponibilità del fattoreterra, a2j il fabbisogno unitario lavoro dell’azienda, bfamla disponibilità di lavoro familiare, bextra la disponibilitàdi lavoro avventizio, a3j il vettore di fabbisogno unitariodi acqua, qjacq le produzioni irrigue, bacq la disponibilitàdel fattore acqua, e j,i il coefficiente di rotazione agro-nomica.

tonnellata di sorgo passa da un minimo di 50 €quando il prezzo del grano si aggira intorno ai 15€/q.le e supera la somma di 70 € se il prezzo delgrano raggiunge il valore di 40 € (fig. 3).

Inoltre, l’analisi evidenzia che un prezzo diacquisto della biomassa di 40-45 €/t non sareb-be congruo rispetto agli obiettivi massimizzantidegli imprenditori agricoli, neanche nel caso in

cui il prezzo del grano si mantenesse a livelli in-feriori ai 20 €/qle, ipotesi assai improbabile vistala crescente tendenza mostrata da questa colturanell’ultimo biennio e che, stando alle recentissi-me stime pubblicate dalla FAO, sarebbe destina-ta ad ulteriori incrementi nel prezzo di vendita.

5. Conclusioni

Una forte integrazione a livello locale costitui-sce il presupposto per lo sviluppo di filiere bio-energetiche che, come è noto, risultano caratte-rizzate da bassa redditività del business ed altaincidenza dei costi di trasporto. Il vincolo mag-giore a questo tipo di soluzione è rappresenta-to dalla richiesta di forti investimenti nella fasea valle di costruzione dell’impianto che necessi-ta di garanzie nella fornitura di materia prima.Una possibile soluzione a questa criticità risie-de nella definizione di contratti a lungo termi-ne in grado di fidelizzare i fornitori impedendoil più possibile l’eventualità che questi possanoassumere comportamenti opportunistici.

I risultati del presente lavoro sembrano indi-care l’opportunità di fissare un prezzo di acqui-sto della materia prima che possa essere legato alprezzo del grano in quanto rappresenta la coltu-ra alternativa più diffusa sul territorio e che piùdi ogni altra, in seguito al disaccoppiamento in-trodotto dalla riforma della PAC, soggiace adoscillazioni repentine del prezzo di mercato.

Lo studio condotto ha quindi consentito divalutare la convenienza della coltivazione dibiomasse per il settore agricolo. In particolare,dai risultati ottenuti emerge che il prezzo di 40o 45 €/t previsto dall’impresa di produzione del-l’energia nello specifico caso studio non risulte-rebbe adeguato ad incentivare gli agricoltori adinserire la biomassa nella propria pianificazioneneanche con un prezzo del grano molto basso.D’altro canto gli industriali, qualora il prezzodel grano si attestasse a circa 35 €/q, come pre-vedibile dal trend registrato negli ultimi anni,dovrebbero essere disposti a pagare agli im-prenditori agricoli un prezzo superiore ai 70 €/tper assicurarsi la fornitura di materia prima.

È ovvio che tali risultati non offrono indica-zioni circa la convenienza della parte industria-le a pagare prezzi maggiori e pertanto non sipossono ritenere esaustivi al fine di individuarel’adeguatezza per l’intera filiera.

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Figura 3. Relazione tra prezzo del sorgo e prezzo del grano(fonte: nostre simulazioni).

Figure 3. Sorgum-weath price relationship (source: our si-mulation).

Grano64%

Barbabiet.2%

Pomodori22%

Carciofi1%

Asparago2%

Mais0%

Vite5%

Olivo2%

Frutteto0%

Ortaggi2%

Figura 2. Ordinamento colturale del distretto 12 (fonte:Consorzio di Bonifica della Capitanata).

Figure 2. District 12 cropping system (source: Consorzio diBonifica della Capitanata).

Un secondo aspetto che sarebbe opportunoesplorare in ulteriori riflessioni sull’argomentopuò riguardare l’apporto di politiche tese a pro-muovere lo sviluppo della filiera. In particolarepotrebbe essere utile considerare l’effetto di ul-teriori premi accoppiati legati alla produzione dicolture energetiche nonché l’implementazionedelle potenzialità offerte dal Decreto legislativo102/2005 in riferimento alla costituzione di Orga-nizzazioni di Produttori (OP) e di Accordi di fi-liera.

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Nardone G., De Meo E., Seccia A., Viscecchia R.

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Modelli produttivi agri-energetici: l’integrazione di filiera dalla scala aziendale a quella territoriale

Massimo Monteleone*1, Salvatore Luciano Cosentino2,Giuseppe De Mastro3, Marco Mazzoncini4

1Dipartimento di Scienze Agroambientali, Chimica e Difesa Vegetale, Università di FoggiaVia Napoli 25, 71100 Foggia

2Dipartimento di Scienze Agronomiche, Agrochimiche e delle Produzioni Animali, Università di CataniaVia Valdisavoja 5, 95123 Catania

3Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali, Università di BariVia Giovanni Amendola 165/A, 70126 Bari

4Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema, Università di PisaVia San Michele degli Scalzi 2, 56124 Pisa

Società Italiana di Agronomia

Riassunto

Si assiste oggi ad un generale consenso in merito alle agri-energie, sebbene crescenti siano le preoccupazioni in me-rito all’effettiva capacità da parte di queste nuove tecnologie di poter far fronte efficacemente ai problemi di or-dine ambientale ed ecologico che il modello energetico convenzionale, prevalentemente incentrato sulle fonti di ori-gine fossile, ha di fatto generato.Aumentano incessantemente le richieste di energia su scala planetaria, in parte anche a seguito della crescita eco-nomica che contraddistingue i nuovi Paesi emergenti. La consapevolezza diffusa in merito alla ormai limitata di-sponibilità residua di risorse petrolifere ed alle negative conseguenze ambientali generate dal consumo di fonti fos-sili, determina l’assoluta ed improrogabile necessità di definire un nuovo “modello” energetico, incentrato sul ri-sparmio energetico, l’efficienza nell’utilizzo dell’energia e sulle fonti rinnovabili. A questo proposito, le biomasse diorigine agricola possono svolgere un ruolo importante per soddisfare tali requisiti e far fronte alle suddette esi-genze. Lo sviluppo di efficienti filiere agri-energetiche necessita un’adeguata disponibilità di materie prime agrico-le (biomasse), un’ottima integrazione e coordinamento fra le differenti fasi produttive nonché la capacità di operare acosti sufficientemente competitivi rispetto alle fonti convenzionali. In realtà, è possibile identificare differenti tipologiedi filiere agri-energetiche, le quali possono avere un’articolazione ed una diffusione territoriale più o meno ampia (fi-liera corta vs. filiera lunga); ciascuna di esse può manifestare sia caratteristiche positive che negative; in generale, però,la filiera corta è giudicata più favorevolmente nel quadro di un modello di sviluppo sostenibile, in quanto ritenuta piùidonea ad uno sviluppo locale, auto-centrato, rispettoso delle risorse agro-ecologiche ed ambientali e più consona allapromozione di un modello di generazione energetica distribuito, localmente diffuso e non accentrato. In ogni caso, èassolutamente indispensabile procedere ad una rigorosa comparazione delle alternative energetiche a mezzo di proce-dure quali il Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita) in grado di evidenziare le tipologie di generazioneche risultano meno inquinanti rispetto ad una pluralità di categorie d’impatto.

Parole chiave: modelli produttivi agri-energetici; pianificazione agri-energetica; aspetti agro-ecologici ed ambientali.

Summary

AGRI-ENERGY CHAINS: FROM FIELD TO LAND PLANNING

A general consensus on bio-energy and renewable energetic sources is expressed by modern societies; at the sametime, some concerns and uncertainties are related to the actual ecological and environmental standards that thesenew technologies are able to fulfill. The overall energy demand is permanently rising as the economic growth spreadthrough new developing countries. The consciousness about the limited petroleum availability and the negative en-vironmental consequences related to fossil fuels exploitation, inevitably calls for a new global energy model based

* Autore corrispondente: tel.: +39 0881 589223; fax: +39 0881 589342. Indirizzo e-mail: [email protected]

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on a drastic improvement on energy use efficiency, energy savings and renewables. On this respect, biomass couldplay an important role to meet these new constraints and requirements.The development of bio-energy needs a reliable biomass availability, a well organized and integrated chain-supplyand reasonable costs of the biomass feedstock in order to be competitive with respect to conventional fossil-fuels.Different productive and distributive chain-supply can be depicted, at the large as well as at the local-scale; prosand cons can be identified for both, but locally produced bio-energy and “distributed” energy generation is mostlyfavored by general society and some stakeholders; it seems to better support landowners, rural economy and localmarket; at the same time, the environmental benefits seems to be higher. Rigorous evaluation procedures, such as“Life Cycle Assessment”, must be ordinarily implemented to proper compare such alternatives with each other andchoose the one that fits better.

Key-words: agri-energy models, agri-energy land-planning, agro-ecologycal and environmental traits.

Monteleone M., Cosentino S.L., De Mastro G., Mazzoncini M.

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1. Introduzione

Il dibattito intorno alle fonti energetiche rinno-vabili (FER) e, di conseguenza, riguardo all’im-piego delle biomasse agricole ai fini energetici,si è progressivamente esteso, coinvolgendo am-pi settori della pubblica opinione oltre cheesponenti della politica, della ricerca scientificae del trasferimento tecnologico, nonché le di-verse categorie professionali e produttive diret-tamente coinvolte; si è assistito ad una pro-gressiva crescita dell’interesse, di pari passo ac-compagnato da un’accentuazione dei toni pole-mici del confronto, frequentemente condiziona-to da una contesa (quasi “ideologica”) fra so-stenitori e detrattori delle fonti energetiche “al-ternative”.

È però del tutto evidente che il sistema ener-getico attuale, per come esso si è determinato ascala mondiale nel corso della crescita econo-mico-industriale del secolo scorso, mostra chia-ri ed evidenti segni di crisi; il modello energeti-co di riferimento, incentrato quasi esclusiva-mente su fonti non rinnovabili e ad elevato tas-so d’inquinamento, nonché fondato sulla garan-zia di un’offerta energetica crescente ed incon-dizionata, incapace di regolare la domanda d’e-nergia in termini di qualità ed efficienza, ne-cessita una drastica e radicale riformulazione.

Come da più parti evidenziato, l’ineluttabi-lità e l’urgenza della presente crisi energetica ela sua dimensione planetaria derivano da alcu-ne specifiche condizioni che schematicamente sirichiamano:– le disponibilità petrolifere sono ormai in net-

ta contrazione; analogo decorso contraddi-stingue anche le altre fonti di origine fossi-le, il gas naturale e, in un lasso di tempo piùdilatato, anche il carbone;

– le conseguenze di un uso massiccio e cre-scente di combustibili fossili ha avviato unprocesso di alterazione climatica su scalaplanetaria (global warming) ormai inequivo-cabile e palese, a tal punto che occorre pron-tamente contrastarne e mitigarne l’azione, alfine di non incorrere in perturbazioni ancorpiù gravi e a carattere irreversibile;

– la sicurezza e l’autonomia energetica del-l’Europa (e in particolare dell’Italia) sonogravemente minacciate a seguito di una con-dizione d’instabilità geopolitica che vede ilmanifestarsi delle più gravi tensioni interna-zionali o la recrudescenza di scenari di guer-ra aperta (non a caso) proprio nelle areegeografiche dove si localizzano gli ultimi, piùconsistenti giacimenti petroliferi.Atteggiamenti preconcetti, che alternativa-

mente identificano le FER come la “panacea”alla crisi energetica mondiale o, all’opposto, co-me l’ennesimo “imbroglio” o “sogno” ecologi-co, costituiscono delle mistificazioni semplifica-trici che allontanano il momento, invece impro-crastinabile, in cui adottare soluzioni concrete,tecnicamente efficienti, coerenti agli indirizzisovranazionali definiti a scala globale od euro-pea come pure risultanti da un processo di pia-nificazione e concertazione condotto a livellolocale. Si tratta di definire condizioni chiare eregole condivise che possano consentire, a be-neficio di tutta la comunità (locale, nazionale edinternazionale), di conseguire il massimo van-taggio in termini di disponibilità energetica sen-za tradire quei presupposti imprescindibili chetributano alle FER la qualifica di fonti di ener-gia “pulita”, ossia ottenuta secondo criteri di so-stenibilità ecologica, compatibilità ambientaleed equità sociale.

Il presente lavoro, quindi, intende procede-re ad una riflessione sui caratteri ed i requisitifondamentali che sono sottesi ad un modelloenergetico che preveda una significativa maequilibrata contribuzione da parte delle fontienergetiche incentrate sull’impiego delle bio-masse di origine agricola. La dimensione com-plessivamente esplorata dal presente lavoro èperciò di tipo sovra-aziendale; essa attiene aduna scala espressamente territoriale, coinvol-gendo livelli d’ambito che oltre ad una dimen-sione tipicamente locale investono anche quel-la macro-geografica.

La proposta agri-energetica, nel quadro delcarattere multifunzionale oggi attribuito all’atti-vità agricola, prevede la produzione (nonché ilconsumo interno e/o la vendita) di energia dafonti rinnovabili come processo conclusivo diuna filiera integrata agro-industriale che trovail suo imprescindibile punto di avvio nelle azien-de agrarie, siano esse singole o consorziate.

2. Un’ampia gamma di possibilità energetiche

Le biomasse, in funzione della loro natura e ti-pologia, possono consentire l’attivazione di nu-merose e diversificate filiere agri-energetiche;possibili classificazioni, ad esempio, si fondanoin base alla composizione chimica (presenza dicomponenti ligno-cellulosici, zuccherino-amida-cei oppure oleaginosi) ed alle caratteristiche fi-siche della biomassa (potere calorifico, umidità,massa volumica, stato di confezionamento odaddensamento, ecc.); sono inoltre numerose evariamente interrelate le vie tecnologiche perl’ottenimento di differenti qualità di combusti-bile (solido, liquido e gassoso) e le opportunitàdi utilizzare tali combustibili su di un vasto fron-te d’impiego, per la realizzazione di un’ampiagamma di prodotti e/o servizi energetici: pro-duzione di calore, di freddo, di elettricità, dienergia motrice per le autovetture, ecc.

È proprio la spiccata duttilità e la moltepli-cità delle utilizzazioni delle biomasse ai fini del-la generazione energetica a costituire il fattoreforse più rilevante a favore delle filiere agri-energetiche. Biomassa è “la parte biodegrada-bile dei prodotti, rifiuti e residui provenientidall’agricoltura (comprendente sostanze vegeta-li ed animali) e dalla silvicoltura e dalle indu-strie connesse, nonché la parte biodegradabile

dei rifiuti industriali ed urbani” (D.L. 29 di-cembre 2003, n. 387). Da questa definizione sievince, inoltre, che quello delle coltivazioniagrarie non è l’unico settore produttivo poten-zialmente coinvolto nell’impiego delle biomas-se a scopo energetico; bensì le opportunità digenerazione energetica sono estendibili sia alsettore delle forestazione (quella “produttiva”finalizzata all’ottenimento di legno d’opera e daardere e quella “conservativa” tesa alla corret-ta gestione del patrimonio boschivo) che al set-tore agro-industriale e, più in generale, a tuttequelle attività produttive che impiegano mate-riali di origine organica attraverso processi chenon ne alterino o contaminino le caratteristicheproprie di bio-combustibile naturale; in partico-lare, occorre segnalare il potenziale e proficuoinnesto di finalità energetiche anche nell’ambi-to del settore del trattamento e smaltimento deirifiuti solidi urbani (RSU) e la possibilità che,limitatamente alla sua frazione organica oppor-tunamente differenziata (FORSU), possano at-tivarsi processi di valorizzazione energetica co-me ultimo anello di una catena tesa in primoluogo al riciclo ed al reimpiego produttivo deimateriali conferiti (D.L. 5 febbraio 1997, n. 22,anche denominato “decreto Ronchi”).

3. La struttura delle filiere agri-energetiche

In linea del tutto generale, una filiera produtti-va destinata alla generazione energetica a par-tire dalle biomasse agricole può essere intesacome articolata in tre fasi essenziali: 1) la fasedi coltivazione e/o di raccolta delle biomasse (aseconda che trattasi di colture dedicate o bio-masse residuali), operazione che risulta spazial-mente distribuita e la cui materia prima evi-denzia una “concentrazione” (massa per unitàdi superficie) variabile a seconda della tipologiae della produttività delle colture coinvolte; 2) lafase di trasporto e concentrazione spaziale del-la materia prima presso il centro di stoccaggio,includendovi l’eventuale condizionamento dellabiomassa, fino al momento del suo trasferimen-to al centro di utilizzazione, presso lo stabili-mento industriale; 3) la successiva fase di con-versione della biomassa in un prodotto energe-tico (combustibile, energia elettrica, energia ter-mica), direttamente impiegabile od eventual-mente soggetto ad ulteriore trasferimento, at-

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traverso una rete distributiva, fino all’utente fi-nale. Ciascuna di queste fasi richiede un parti-colare consumo energetico, diretto od indirettoche sia, più o meno rilevante in rapporto al-l’ammontare complessivo dei fattori produttiviimmessi nel processo di filiera; inoltre, si vienea determinare la disponibilità di residui, scartio sottoprodotti il cui contenuto energetico ècomplementare a quello del prodotto principa-le; inevitabile, infine, il rilascio di emissioni o re-flui aventi un possibile effetto inquinante (alte-razione degli standard qualitativi di compartiambientale quali aria, acque ed atmosfera).

Il calcolo dettagliato e sequenziale di tuttele qualità e quantità di materiali, composti e so-stanze rispettivamente in ingresso ed in uscitadal processo trasformativo di filiera (procedurad’inventario ambientale) costituisce l’operazio-ne preliminare al fine di valutare l’impatto am-bientale esercitato dal processo medesimo e dideterminarne alcuni indici di prestazione am-bientale secondo la metodologia Life Cycle Assessment (LCA).

L’ottimizzazione del processo di filiera e l’ef-ficiente integrazione dei suoi differenti segmen-ti, mediante aggiustamenti e calibrazioni tecno-logiche, debbono consentire di mitigare al mas-simo il possibile impatto ambientale, miglioran-do le prestazioni ambientali del processo e, al-lo stesso tempo, di abbattere i costi di produ-zione nonché d’incrementare i margini di gua-dagno da parte di tutti gli imprenditori coinvoltinella filiera.

Il modello organizzativo in cui si struttura lafiliera agri-energetica assume un particolare si-gnificato in riferimento al ruolo che l’imprendi-tore agricolo esplica nel suo seno. Con specifi-co riferimento a tale criterio, quindi, la filieralunga è quella in cui gli imprenditori agricoliproducono le colture energetiche che altre im-prese acquisiscono, trasformano e convertono inenergia o carburante. La filiera, quindi, apparesegmentata e parcellizzata in una serie sequen-ziale di processi e passaggi, in alcuni casi nu-merosi, ciascuno dei quali si appropria di unafrazione del valore aggiunto complessivamenteconseguito a compenso del processo produttivosvolto o dell’apporto di servizi immessi nella fi-liera medesima. La tipologia diametralmenteopposta alla precedente è quella rappresentatadalla cosiddetta filiera corta che si contraddi-stingue per una sostanziale identità fra produt-

tore ed utilizzatore finale delle agro-energie; inaltri termini, l’imprenditore agricolo impegnatonella produzione di materia prima combustibi-le realizza egli stesso gli impianti destinati allaconversione energetica delle biomasse, in stret-ta relazione a quelle che sono le sue dirette esi-genze di auto-consumo energetico. In caso diproduzione eccedentaria rispetto alle richiestestrettamente necessarie, è possibile prefigurarel’opportunità di vendere l’energia prodotta at-traverso le modalità oggi offerte dal mercato li-beralizzato dell’energia.

Si parla d’integrazione di filiera allorché, seb-bene gli imprenditori agricoli non trasforminodirettamente la biomassa in energia per desti-narla alla vendita, essi comunque partecipanoagli utili della filiera. Questa condizione, chepermane nell’alveo della cosiddetta filiera lun-ga può determinarsi a seguito di accordi o con-tratti di filiera. In particolare, occorre segnalareil D.L. 27 maggio 2005, n. 102 inerente la “Re-golazione dei mercati agro-alimentari”, all’arti-colo 10 si introduce il concetto d’intesa di filie-ra ed all’articolo 11, invece, si definisce il con-cetto di contratto quadro.

4. Le “polarità” del settore agri-energetico

Il settore agri-energetico si qualifica per una se-rie di polarità o contrapposizioni di tipo duali-stico sulle quali occorrerebbe svolgere opportu-ne riflessioni. Una prima polarità è quella chesussiste fra disponibilità locale di biomasse (evi-dentemente contenuta entro definiti limiti ter-ritoriali) e potenzialità di una loro ampia ac-quisizione sul mercato internazionale; una se-conda polarità è quella, di cui si è detto, fra “fi-liera corta”, finalizzata al prioritario soddisfaci-mento di una domanda interna di energia, e “fi-liera lunga”, in prevalenza proiettata a riforni-re i mercati internazionali a loro volta control-lati da società a carattere multinazionale; un’ul-teriore polarità è quella che si realizza fra unmodello agri-energetico finalizzato all’inclusio-ne produttiva delle aree agricole a progressivamarginalizzazione e quello orientato ad unaconversione e sfruttamento intensivo delle areegià destinate a produzioni alimentari, che a suavolta aggrava il conflitto fra agricoltura “food”e “non food”; all’interno della filiera agri-ener-getica, inoltre, è del tutto evidente il rapporto

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dialettico che si instaura fra la componente as-sociata al settore agricolo (produzione della ma-teria prima) e quella connessa al settore indu-striale (conversione e generazione energetica).

Tutte le polarità precedentemente individua-te sono però riconducibili od assimilabili a duedifferenti “visioni” territoriali, quella di una pro-duzione centralizzata dell’energia e quella, al-l’opposto, di una generazione distribuita e ter-ritorialmente diffusa.

4.1 Il dualismo fra la filiera “lunga” e quella“corta”

In termini del tutto concettuali la differenza fracatena “lunga” e “corta” si concretizza solo inrelazione al numero degli operatori di filiera chevi prendono parte e sull’articolazione produtti-va più o meno complessa della filiera medesi-ma. Spesso, però, a tale concetto se ne associaun altro, ossia quello relativo all’estensione spa-ziale della filiera ed al suo sviluppo geograficopiù o meno ampio; le catene lunghe, quindi, pos-sono contraddistinguere (sebbene non necessa-riamente) filiere produttive che coinvolgonoscambi commerciali fra operatori fisicamenteassai distanti fra loro, per cui si rendono neces-sari trasporti anche di lungo tratto in modo daconsentire il conferimento delle materia primadal luogo di produzione al luogo di conversio-ne energetica, per poi procedere alla distribu-zione in senso contrario dell’energia così otte-nuta, dal luogo di generazione ai punti di uti-lizzazione. È del tutto evidente che questo mo-dello energetico, pur economicamente valido inconsiderazione dei livelli di prezzo concorren-ziali che vigono sullo scenario internazionale dimercato, costringe a notevoli perdite d’efficien-za (una quota parte dell’energia prodotta è per-sa nei processi di trasferimento e distribuzione),ciò che determina impatti ambientali (non solomancato risparmio di energia fossile ma ancheemissioni di CO2 e di gas clima-alteranti) ed unaforte limitazione della valenza ambientale a cuipure questa attività costantemente si richiama.Da qui la necessità di inserire nella contabilitàcomplessiva delle filiere agro-energetiche ancheil bilancio dell’energia, quello delle emissioninonché l’inventario e la conseguente stima de-gli impatti che possono essere esercitati sui com-parti ambientali quali suolo, acqua ed atmosfe-ra attraverso l’esecuzione di un’accurata “anali-si del ciclo di vita” dei bio-combustibili e, più in

generale, dell’energia ottenuta attraverso fontirinnovabili.

Le differenze fra questi due modelli con-trapposti di generazione dell’energia da fontirinnovabili chiamano in causa anche le notevo-li differenze rispetto al modello complessivo chesu scala territoriale attiene all’impiego dell’e-nergia. Infatti, necessariamente la “filiera cor-ta”, nel suo stesso esplicarsi, determina unastretta e prossimale associazione fra produzio-ne ed uso d’energia, ciò che soddisfa piena-mente i criteri di un modello “distribuito”, os-sia territorialmente diffuso, a carattere di “re-te”, in grado di contraddistinguersi per un nu-mero tendenzialmente elevato di piccoli im-pianti, aventi cioè una taglia di potenza relati-vamente modesta, ma ciò nonostante in gradodi servire efficacemente una pluralità di utenzele quali, in tal modo, si svincolano sempre piùdalla dipendenza da parte di una rete distribu-tiva unica a rifornimento centralizzato.

Tale dimensione “locale” della generazionein piccola scala ha anche un’altra essenziale con-seguenza: la necessità di vincolare strettamenteed inflessibilmente le possibilità di generazioneenergetica alle effettive disponibilità di biomas-se presenti sul territorio di riferimento; ciò in-duce e sollecita nel “porre a sistema”, col mas-simo dell’efficienza, ogni possibile ed idoneamateria prima (di scarto, residuale o prodottaad hoc) che possa fungere da bio-combustibile,in modo da alimentare impianti spesso di diffe-rente tipologia, quindi con differenti esigenze diapprovvigionamento, condizione questa chemassimizza le possibilità d’impiego dei materia-li medesimi. Questo carattere di “duttilità” del-la micro-generazione distribuita costituisce unulteriore fattore di notevole rilevanza a cui an-drebbe attribuita attenzione maggiore.

Una “filiera lunga” è in grado di sostenereed attutire i costi connessi alle diverse fasi ditrasformazione che hanno luogo nel corso del-la catena produttiva (ciascuna fase essendoespletata da differenti operatori) solo ed unica-mente attraverso un cospicuo aumento dellamateria prima lavorata e dell’energia comples-sivamente prodotta (ossia: a fronte di un ricavounitario assai modesto è necessario un fattura-to assai cospicuo per pervenire a livelli di gua-dagno complessivo giudicati adeguati). Quindi,il volume o la dimensione dell’attività produtti-va, che in certi casi può condurre al gigantismo

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impiantistico, è dettato dalla necessità di dover-si sistematicamente confrontare (e conformare)ad uno scenario internazionale dove il prezzodella materia prima come quello dell’energia ècondizionato da quei soggetti imprenditorialifortemente competitivi che, pertanto, sono ingrado di formulare prezzi tendenzialmente ri-dotti, difficilmente remunerativi in relazione adun mercato di tipo locale; ciò costringe ad unincremento notevole delle quantità scambiate ead un’apertura (od “allungamento”) della filie-ra per instaurare rapporti di scambio con i for-nitori che possono offrire condizioni più conve-nienti di acquisto della materia prima.

4.2 Conflitto fra agricoltura “food” e “non-food”

Uno scenario fortemente globalizzato (comequello precedentemente descritto) accentuaperò il rischio che, in ambito internazionale, sideterminino condizioni di forte squilibrio, sfrut-tamento, povertà, degrado ambientale, a caricodei paesi economicamente più deboli, così co-me appare ormai evidente in base a numerosied allarmati rapporti di organismi sovra-nazio-nali (FAO, 2007; UN, 2007; GRAIN, 2007;Worldwatch Inst., 2007; CEO, 2007; Nyberg eRaney, 2006).

La recrudescenza di fenomeni socio-econo-mici quali carestia e fame, a seguito dell’au-mento dei prezzi dei prodotti cerealicoli, basealimentare delle popolazioni povere del mondo,in prevalenza dovuti alla destinazione energeti-ca e non più alimentare assegnata alle produ-zioni agricole, nonché alla riduzione delle su-perfici destinate a coltivazioni alimentari perdestinarle alla produzione di biocarburanti, èmanifestazione evidente di questi ultimi anni.

La “catena corta” si sottrae, almeno in teo-ria, ad ogni confronto competitivo rispetto alprezzo della materia prima e concentra gli sfor-zi produttivi non tanto su di un prodotto desti-nato alla vendita quanto su di un bene destina-to al consumo diretto; conseguentemente, talefiliera può dimostrarsi economicamente conve-niente allorché si paragoni il prezzo unitariodell’energia acquisita sul mercato esterno con ilcosto derivante dal processo interno all’aziendaod al consorzio di aziende; se il secondo è infe-riore al primo la filiera ha ragione di esistere econtribuisce positivamente al bilancio azienda-le in ragione dei mancati costi che essa deter-mina (ossia i costi che non occorre più soste-

nere in quanto soddisfatti al proprio interno).Un dibattito particolarmente acceso, che è

andato crescendo in intensità in questi ultimianni, è quello relativo alla conflittualità che siverrebbe a generare fra destinazione alimenta-re e non alimentare delle produzioni ottenutedai suoli agrari ed il rischio che ciò impliche-rebbe con riguardo alla sovranità/sicurezza ali-mentare delle popolazioni, specie quelle più po-vere (Dufey, 2007; Schmidhuber, 2007; UN, 2007;OECD-FAO, 2007). La possibilità di indirizzarealcune colture agrarie di larga coltivazione mon-diale (soia, mais, canna da zucchero, ecc.) se-condo plurime destinazioni d’uso (alimentazio-ne umana, mangimistica animale o produzionedi bio-carburanti) determina una forte dinami-cità di mercato; è peraltro evidente che, in re-gime di apprezzamento dell’energia, si assista aduna tendenziale, privilegiata destinazione ener-getica di queste produzioni agricole. La suddet-ta condizione determina un aumento dei prezzicerealicoli, una rarefazione delle scorte alimen-tari ed ingenera uno stato diffuso di crisi ali-mentare.

È però importante evidenziare che il pro-blema, nelle sue cause più profonde, non è prio-ritariamente determinato dall’espansione dellebio-energie, quanto da un mercato agro-ali-mentare completamente globalizzato, liberaliz-zato e concorrenziale (Colombo, 2002). Specienei paesi più poveri, questa condizione ha di fat-to annichilito il settore agricolo di piccola sca-la, destinato alla produzione di alimento prima-rio per la popolazione locale residente, stimo-lando invece l’estensione di coltivazioni indiriz-zate alle produzioni per l’export, in nome di unpresunto vantaggio “comparato” (in ragione delquale sarebbe preferibile restringere la gammaproduttiva alle più remunerative colture daesportazione e con il ricavato acquisire le risor-se alimentari primarie). L’attività agricola rivol-ta al mercato globale necessita di grandi esten-sioni di territorio e si intensifica in termini dicapitali e tecnologie impiegati, favorendo laconcentrazione di terre e risorse, così colpendola popolazione rurale che rischia l’estromissio-ne completa dal circuito economico. A ciò si ag-giunga la sistematica azione di dumping eserci-tata sul prezzo delle commodities alimentari daparte di Stati Uniti ed Europa, anche in con-correnza fra loro, che ha fortemente condizio-nato la capacità competitiva dei Paesi in via di

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sviluppo. Lo scenario si complica ulteriormenteoggi, allorché Paesi in rapida espansione eco-nomica (e demografica) accedono a consumi fi-no a poco tempo fa notevolmente ristretti.

5. Valenza agro-ecologica dell’energia da biomasse

Allorché la discussione riguardo le bio-energiee le filiere agri-energetiche si incentri esclusiva-mente sulla necessità di fronteggiare il progres-sivo aumento del prezzo del greggio e la cre-scente scarsità nelle disponibilità mondiali di fon-ti energetiche di origine fossile, si rischia di asse-gnare ad esse solo ed unicamente un ruolo di be-ne “integrativo” o “sostitutivo”, senza cogliere lapluralità degli altri fondamentali aspetti che sonostrettamente associati all’impiego di energia dafonti rinnovabili. In altri termini, le bio-energienon debbono essere meramente interpretate co-me una fonte addizionale di energia al fine di so-stenerne i crescenti consumi mondiali. Tali nuoveforme di produzione energetica, invece, per la na-tura delle risorse utilizzate, per il forte legame cheesse determinano a livello territoriale, per la va-lenza ecologica che possono esprimere, per il mo-dello di produzione e consumo di energia che es-se veicolano, costituiscono un tassello preziosoper un progressivo superamento del sistema ener-getico attualmente dominante, essenzialmentecontraddistinto da ridotta efficienza e centraliz-zazione produttiva.

Le colture a destinazione energetica sono fi-nalizzate a soddisfare esigenze in parte diffe-renti rispetto alle convenzionali colture alimen-tari. Esse, infatti, debbono in primo luogo esse-re ottimizzate con riguardo al contenuto ener-getico che le caratterizza piuttosto che alla pro-duzione alimentare. La gamma di colture po-tenzialmente impiegabili è comunque assai am-pia e comprende le stesse colture a destinazio-ne alimentare o foraggera, delle quali semplice-mente viene ad essere modificata la destinazio-ne del prodotto (nonché alcune tecniche agro-nomiche di coltivazione che ne esaltino tale pre-rogativa), così come colture erbacee poliennali(abitualmente non inserite nei nostri sistemi col-turali) o colture arboree a ciclo breve e rapidaceduazione (la cosiddetta “short rotation fore-stry”) od ancora sistemi foraggieri a doppio ci-clo di coltivazione annuo.

Occorre pertanto identificare un certo nu-mero di criteri ambientali ed ecologici in gradodi interpretare differenti tipologie di pressioneod impatto esercitato sull’ambiente (Palchetti eVazzana, 2006; Campiglia et al., 2006; Mughiniet al., 2006); questi impatti potrebbero derivare,almeno in termini potenziali, da un’incontrolla-ta od inappropriata diffusione di tali colture daenergia su ampie superfici agrarie precedente-mente a differente utilizzazione. In senso dia-metralmente opposto, è anche utile sottolinea-re, lì dove presenti e ritenuti di una certa rile-vanza, i vantaggi ambientali connessi ad un’o-culata scelta delle colture da energia e l’oppor-tunità che un loro adeguato inserimento azien-dale possa apportare sensibili miglioramentiambientali e condurre ad un’utilizzazione piùequilibrata delle risorse agro-ecologiche (acqua,suolo, diversità biologica, ecc.) del territorio.

Le odierne pratiche agronomiche, in rappor-to al contesto ambientale in cui sono applicateed alle modalità della loro realizzazione, posso-no esercitare un effetto che può ritenersi nega-tivo, in alcune circostanze, e positivo in altre. Perquesta ragione è di assoluta importanza cheogni processo produttivo agrario finalizzato al-l’incremento della disponibilità bioenergeticadel territorio punti, contestualmente, a non esa-cerbare i delicati rapporti con l’ambiente e gliequilibri ecologici ad esso connessi.

Sono da temere, in particolare, spinte pro-duttivistiche esasperate che conducano ad unaulteriore intensificazione dei processi produtti-vi agrari su superfici sempre più vaste, in gradodi determinare una profonda modificazione delcontesto rurale. Tale tendenza, se generalizzata,potrebbe produrre una radicale riconversionedelle superfici agrarie ed un progressivo pas-saggio da forme di utilizzazione estensiva, spes-so esercitate su aree ad elevato valore naturali-stico, a forme più intensive di sfruttamento deisuoli. Costituiscono una grave minaccia tuttequelle riconversioni che implicano il passaggioda un regime “sodivo” ad un regime “arativo”del suolo ed in particolare il dissodamento dipraterie permanenti la cui composizione flori-stica assume un significato naturalistico di asso-luta rilevanza. Analoga preoccupazione può de-rivare da un incontrollato inserimento di speciealloctone in contesti ambientali particolarmen-te delicati e vulnerabili, così come la scelta diuna gamma di colture da energia complessiva-mente non adeguata al contesto ambientale di

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riferimento. Più nel dettaglio, è possibile indivi-duare alcuni comparti ambientali (suoli, acque,componente biologica nel suo insieme, ecc.) og-getto di potenziale minaccia, così come alcuniprocessi strettamente connessi alla gestioneagricola che possono indurre fenomeni di de-grado o di alterazione più o meno profonda acarico degli standard di qualità ambientale(WWF, 2006; RIRDC, 2005; EEA-JRC, 2006;EEA, 2006; LUC, 2007). Fra i processi ritenutidi preminente rilevanza riconosciamo: erosionee compattazione dei suoli, lisciviazione dei nu-trienti, deriva e dispersione dei pesticidi, sovra-sfruttamento delle falde idriche, rarefazione del-l’agrodiversità e della biodiversità.

Una spinta specializzazione colturale induceprocessi d’intensificazione che, in generale, ac-centuano gli effetti di degrado ambientale (in-quinamento) ed intensificano i fenomeni di dis-sesto idro-geologico. In conseguenza di una dra-stica semplificazione del sistemi aziendali di col-tivazione si determina una condizione di ridot-ta diversità delle specie coltivate; ciò si associaad una progressiva rarefazione di habitat natu-rali o semi-naturali e delle specie selvatiche chetrovano negli ambienti coltivati le condizioniideali d’insediamento, più di tutto nell’ambito diquei coltivi a carattere estensivo, quali prati per-manenti, foraggiere poliennali, nonché struttureed elementi di diversificazione paesaggistica co-me siepi, filari, alberate, sistemi macchia-radu-ra, ecc. Questo fenomeno di rarefazione ecolo-gica determina anche una semplificazione di ti-po paesaggistico che risulta strettamente asso-ciata ad una progressiva limitazione funzionaledei processi ecologici e ad un depauperamentodella flora e della fauna associata agli ambien-ti agricoli tradizionali. Di contro, un aumentodella diversificazione colturale e l’introduzionedi nuovi elementi strutturali di diversificazionepaesaggistica può costituire un fattore beneficoper la biodiversità, particolarmente in sistemiagricoli intensivi. Una maggiore varietà della co-pertura vegetale, infatti, può favorire il realiz-zarsi di una pluralità di habitat idonei a specieappartenenti a diversi taxa. Alcune colture a de-stinazione energetica (in particolare le speciepluriennali e quelle arboree a rapida ceduazio-ne) possono contribuire significativamente alladiversificazione del paesaggio e degli habitat edalla salvaguardia ambientale (Bonari et al.,2004).

6. Valutazione ambientale delle agri-energie at-traverso il Life Cycle Assessment

Numerosi sono gli aspetti ambientali che lebioenergie debbono soddisfare affinché possaessere attivamente promosso il loro utilizzo edunque incentivata la loro produzione. In pri-mo luogo, l’impiego delle biomasse presuppor-rebbe una completa “neutralità carbonica”, os-sia un perfetto bilanciamento fra le emissioni digas-serra conseguenti alla combustione dellebiomasse e l’anidride carbonica assimilata conla fotosintesi durante la crescita vegetale. Que-sta presunta “neutralità” non può dirsi rispetta-ta allorché tali bio-energie siano prodotte fa-cendo largo impiego di input energetici di ori-gine fossile (fertilizzanti, macchine agricole, tra-sporto, energia spesa nel processo di condizio-namento e conversione, ecc.).

Ne consegue che il grado di “sostenibilità”di ciascuna delle differenti forme di bio-energiapuò essere convenientemente stabilito solo fa-cendo ricorso ad una puntuale e minuziosa de-terminazione del “ciclo di vita” del prodottoenergetico ottenuto (procedura LCA, Life Cy-cle Assessment), ossia riferendosi ad un’analisicondotta sull’intera filiera produttiva e sui mo-di d’impiego dell’energia così generata (Gasolet al., 2007; Cosentino et al., 2006; IFEU, 2000;Kaltschmitt et al., 1997; Heller et al., 2003; Ha-negraaf et al., 1998).

In termini del tutto generali, ma assai indi-cativi, si suole riconoscere un’effettiva valenzaambientale alle bio-energie, ossia una reale ef-ficacia nel mitigare l’effetto serra, nel caso incui l’energia generata dai bio-combustibili sia si-gnificativamente superiore rispetto a quella spe-sa per ottenerli. Ciò implica che il rapportoenergetico fra energia prodotta ed energia spe-sa durante il processo (energy ratio) debba es-sere il più possibile elevato (comunque supe-riore all’unità). Con riferimento alla benzina edal diesel di origine fossile, il rapporto energeti-co è compreso, in genere, fra 0,7 e 0,9; nel casodel bio-etanolo (quello ottenuto dal mais), in-vece, tale rapporto si aggira intorno ad 1,3 e sa-le significativamente a 3-4 nei riguardi del bio-diesel; netta è dunque la superiorità ambienta-le del bio-diesel (ottenuto da soia) rispetto albio-etanolo (ottenuto da mais), come confer-mato, fra gli altri, anche da Hill et al. (2006). Laproduzione di bio-etanolo a partire da compo-

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nenti cellulosiche (bio-etanolo detto di “secon-da generazione”) consente di conseguire un net-to miglioramento dell’efficienza energetica, per-venendo a dei rapporti energetici pari a circa 10(Wald, 2007; Wyman, 2007); valori simili od an-cora più elevati si ottengono dall’impiego di bio-masse ligno-cellulosiche nel processo di combu-stione, fino a valori intorno a 20 nel caso di uti-lizzazione del legname da esbosco (Titius, 2007;Wald, 2007).

Se, pertanto, la capacità di ridurre le emis-sioni clima-alteranti venisse riconosciuta comeuno dei criteri essenziali di vantaggio delle fon-ti rinnovabili rispetto a quelle fossili, ne conse-guirebbe che, fra le differenti possibilità di ge-nerazione energetica a partire dalle biomasse,priorità assoluta dovrebbe essere assegnata aquelle forme o tecnologie di generazione chefossero in grado di contribuire maggiormente atale riduzione e che siano, quindi, le più effi-cienti da questo punto di vista. Tale aspetto divalutazione comparativa dell’efficienza ascrivi-bile a ciascuna tecnologia di conversione ener-getica è talmente rilevante da suggerire l’ipote-si che gli incentivi alle bio-energie debbano es-sere strettamente commisurati a questo impor-tante parametro. Solo l’instaurarsi di un talemeccanismo competitivo, incentrato nello stabi-lire un costo emissivo crescente per ogni unitàdi CO2-equivalente rilasciata in atmosfera, puòcostituire la premessa per conseguire risultati si-gnificativi e celeri. A tal fine, pertanto, occorre:

Operare il calcolo del bilancio energeticoe dei gas serra complessivamente emessi in at-mosfera a fronte di quelli evitati con riferimen-to al complesso della filiera bio-energetica; sul-la scorta di tali risultanze, prediligere processi etecnologie che possano conseguire il maggiorrapporto di sostituzione dei combustibili fossilied il massimo ritorno in termini di conteni-mento dell’effetto serra;

Eseguire una valutazione integrale delle fi-liere con riferimento ad una pluralità di cate-gorie d’impatto ambientale, secondo i canonidella procedura Life Cycle Assessment; a tal ri-guardo, rilevanza assumono specifiche categoried’impatto che attengono, ad esempio, ai proces-si di eutrofizzazione, acidificazione, rarefazionedella fascia troposferica di ozono, eco-tossicitàe tossicità nei riguardi dell’uomo; anche in que-sto caso, in rapporto alla ponderazione che sivorrà attribuire a ciascuna categoria d’impatto,

si rende possibile procedere alla selezione del-le tecnologie bio-energetiche che, in terminicomparativi, si ritengono meno dannose all’am-biente ed alla salute dell’uomo.

6.1 Il dilemma dei bio-carburanti

Con riferimento al settore dei trasporti, parti-colare enfasi viene assegnata all’opportunitàd’impiego delle biomasse agricole per la produ-zione di bio-carburanti (liquidi), in grado di so-stituire (oppure più semplicemente miscelarsisecondo proporzioni variabili) a quelli di origi-ne fossile. In Italia, il 31% dei consumi energe-tici complessivi è ascrivibile al settore dei tra-sporti e, di questi, il trasporto su strada ne as-sorbe circa il 95% (ENEA, 2007).

Il bio-etanolo è il bio-carburante più diffusoed assomma a circa il 94% del totale su scalamondiale. Circa il 60% deriva dalla canna dazucchero ed il rimanente 40% da altre colture(mais in primo luogo). Il Brasile, come è noto,realizza le esportazioni più consistenti, dete-nendo circa la metà del rifornimento mondiale.Sullo scenario economico internazionale il bio-etanolo prodotto in Brasile risulta assai piùcompetitivo rispetto a quello statunitense, cosìcome quest’ultimo rispetto a quello europeo(OECD, 2005). Particolarmente riguardo all’ef-ficienza energetica ed al grado di sostituzionedei combustibili fossili, il confronto è impari (al-meno allo stato attuale delle condizioni).

Diversamente, il biodiesel trova in Europal’area più importante di produzione e consumo;a fronte, però, di una elevata capacità indu-striale di trasformare gli oli in biodisel, sussisteil limite di una modesta produzione di materiaprima (a partire da semi oleaginosi o proteo-oleaginosi) che non può incidere significativa-mente rispetto ai consumi di carburante regi-strati sul territorio europeo, anche ipotizzandoconversioni agro-energetiche su estese superficia seminativo oggi diversamente coltivate. Ciòespone, inevitabilmente, alla necessità di proce-dere all’importazione di oli acquisiti sul merca-to internazionale, particolarmente quelli di ori-gine tropicale e sub-tropicale. Il mercato deglioli e delle materie grasse è, infatti, in rapidissi-ma espansione e la domanda complessiva perqueste materie prime aumenta significativa-mente (Schmidhuber, 2007). Questa condizionegenera, a sua volta, una notevole espansionedelle superfici coltivate, ad esempio, a soia o

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quelle investite a piantagioni di palma o di ja-tropha; ciò suscita serie preoccupazioni dal pun-to di vista ecologico in conseguenza di una ge-nerale intensificazione dei metodi produttivi, de-gli interventi di disboscamento realizzati per farspazio alle coltivazioni, della conversione di su-perfici agricole destinate a coltivazioni alimenta-re a colture energetiche. Ne consegue che la cre-scita progressiva del mercato internazionale delbiodiesel dovrebbe suggerire un atteggiamentoassai prudente e valutazioni critiche in merito aisuddetti aspetti cruciali della filiera.

Nello specifico, occorrerebbe considerareche i bio-carburanti ottenuti da processi inten-sivi di coltivazione evidenziano un’efficienzaenergetica assai ridotta e, di conseguenza, po-trebbero essere considerati un prodotto sostitu-tivo dei carburanti fossili solo temporaneamen-te, ossia nell’arco di tempo necessario a conse-guire nuove e più evolute soluzioni tecnologi-che (miglioramenti della produttività e passag-gio ai biocombustibili di seconda generazione).In particolare, vi è l’indicazione (analizzando lerisultanze di numerosi studi LCA) che la pro-duzione di bioetanolo e di biodiesel possa de-terminare un rapporto quasi paritario (in alcu-ni casi inferiore, in altri di poco superiore all’u-nità) fra energia guadagnata ed energia spesa(Pimentel, 2003; Pimentel e Patzek, 2005; Far-rell, 2006; Hill, 2006). Il bilancio della CO2 ver-rebbe ulteriormente aggravato in considerazio-ne che lo stock di carbonio “sequestrato” (ossiatrattenuto) dal suolo, in forma di sostanza or-ganica, è progressivamente rilasciato in atmo-sfera in conseguenza di uno sfruttamento in-tensivo della fertilità del terreno agrario. Parti-colarmente preoccupante, con riferimento al-l’effetto serra ed alla riduzione dell’ozono stra-tosferico, è il rilascio di N2O dai suoli agrari co-me conseguenza degli apporti fertilizzanti a ba-se di azoto; secondo alcuni autori (Crutzen etal., 2007), l’intensificazione colturale finalizzataall’esaltazione dei livelli produttivi delle coltu-re da cui derivare i bio-carburanti condurrebbead effetti del tutto controproducenti in terminidi azione clima-alterante.

Una particolare possibilità d’impiego deglioli è quella di utilizzarli tal quali invece che in-dirizzarli verso il processo di transesterificazio-ne (necessario per la conversione in biodiesel);ciò implica un’opportuna ma lieve modifica dialcune caratteristiche costruttive del motore.

L’assenza di un ulteriore ed aggiuntivo proces-so industriale migliora sensibilmente il bilancioambientale della filiera. Pertanto, questa tipolo-gia di soluzione manifesta buone potenzialità diriuscita (sia economica che ambientale), ancorauna volta, nell’ambito di filiere corte, realizzateattraverso una stretta integrazione agro-energe-tica, avendo definito un bacino d’impiego suscala strettamente locale (autoconsumo azienda-le per le trattrici agricole, approvvigionamento dipiccole flotte di autobus a scala cittadina, elettri-ficazione rurale a mezzo di generatori, ecc.).

Non bisogna inoltre sottovalutare la dimen-sione progressivamente crescente che assumel’impiego diretto degli oli come combustibile perla generazione elettrica. Ciò costituisce un fat-tore ulteriore di notevole perplessità in quanto,in aggravio alla ridotta efficienza energetica evi-denziata dalla filiera del biodiesel, in parte giu-stificabile con la necessità di ottenere un pro-dotto espressamente finalizzato all’autotrazione,in quest’ultimo caso la finalità del processo diconversione è invece quella di ottenere un pro-dotto energetico (elettricità) che viene più con-venientemente conseguito attraverso l’impiego dialtre tecnologie incentrate su fonti rinnovabili.

Nonostante i limiti manifestati dai bio-car-buranti, pressante è la necessità di fornire unasoluzione che possa alleviare la notevole inci-denza energetica oggi attribuita al traffico vei-colare (trasporti urbani ed extra-urbani, mobi-lità di persone e merci). Probabilmente per ilfuturo si potrebbero prospettare soluzioni radi-calmente differenti rispetto a quelle oggi domi-nanti, le quali facciano appello a nuove tipolo-gie di vettori energetici (per esempio l’impiegodi celle a combustibile incentrate sulla tecnolo-gia dell’idrogeno); tutto ciò, è evidente, metteradicalmente in discussione l’assetto odierno delmercato automobilistico (Rifkin, 2002).

6.2 Calore ed elettricità

Con riferimento ad un orizzonte temporale dibreve e medio periodo, le forme di generazio-ne d’energia da biomasse che meglio soddisfa-no i requisiti d’efficienza nonché quelli a carat-tere ambientale sono quelle incentrate sullaproduzione di calore ed elettricità ottenuti dal-la combustione di biomasse ligno-cellulosiche oda biogas; da queste tecnologie, infatti, si con-seguono i risultati più incoraggianti in terminidi sostituzione di energia fossile e riduzione del-

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le emissioni clima-alteranti. Dalle molteplici va-lutazione LCA eseguite, risulta comunque con-fermato lo svantaggio generale dei bio-combu-stibili rispetto agli omologhi fossili nei riguardidi alcune categorie d’impatto (acidificazionedell’atmosfera, eutrofizzazione delle acque, ra-refazione dell’ozono stratosferico). Come, adesempio, affermato da Cosentino (2006); ciò èda addebitarsi alle operazioni colturali le qualiprevedono l’impiego di macchine ed attrezzinonché l’uso di concimi minerali, ecc. Ne è con-ferma il fatto che nelle tesi sperimentali a ri-dotti input agrotecnici, l’incidenza della faseagricola si contrae, in alcuni casi anche sensi-bilmente, riducendo pertanto l’impatto com-plessivo delle categorie sopra citate. Gli impat-ti ascrivibili ad altre categorie (ecotossicità, tos-sicità umana, ozono fotochimico) non si disco-stano, in genere, da quelli attribuibili ai corri-spettivi combustibili fossili.

Sia riguardo la generazione di calore che dielettricità (preferibilmente congiunta mediantecogenerazione), i residui agricoli o forestali, gliscarti agro-industriali, nonché alcune coltureenergetiche dedicate possono risultare partico-larmente idonei ad un impiego su scala territo-riale, purché adeguatamente pianificato nell’ap-provvigionamento.

La digestione anaerobica manifesta elevatecapacità di produzione energetica, superiori al-le tecnologie precedenti sia in termini lordi chenetti (ossia allorché vengano dedotti i costienergetici connessi all’espletamento del proces-so produttivo). La produttività è assai interes-sante anche in riferimento all’energia prodottaper superficie unitaria di coltivazione. In parti-colare, in accordo con Plank (2006), è possibileverificare che il rendimento lordo (in litri equi-valenti di carburante per ettaro) è pari a 4.977in relazione al biogas, 4.179 per l’etanolo otte-nuto dalla canna da zucchero (in Brasile), 4.054nel caso del bioetanolo da barbabietola (in Eu-ropa), 3.907 con riferimento al BtL (Biomass toLiquid, biocarburante liquido di seconda gene-razione ottenuto tramite sintesi chimica), 1.660per il bioetanolo ottenuto da mais (in USA) edinfine 1.408 per il biodiesel da colza. Il quadrocomplessivo risulta ancora più evidente, accen-tuando i meriti del biogas, allorché ci si riferi-sca al guadagno energetico netto (espresso, adesempio, in kWh/ha). L’ottenimento di biogas apartire da biomasse costituite da insilato di mais

e sorgo od altre specie a carattere foraggierodetermina una produzione indicativamente va-riabile fra 42 e 62 mila kWh/ha, a raffronto dei33,6 mila kWh/ha corrispondenti al biocarbu-rante BtL o ai 24,4 mila kWh/ha relativi al bioe-tanolo ottenuto da barbabietola da zucchero(Plank, 2006).

La digestione anaerobica è una tecnologiarelativamente semplice, efficace, ormai consoli-data, strettamente connessa alla gestione agri-cola e/o zootecnica dell’azienda agraria, capacedi valorizzare biomasse umide di differente ori-gine, sia colture dedicate che residui o scarti. Inparticolare, è opportuno segnalare che il “dige-stato” (ossia ciò che residua dal processo di di-gestione anaerobica) costituisce materiale orga-nico assai utile in qualità di apporto fertilizzan-te (per una valenza concimante ed insieme am-mendante) da destinare a quei medesimi terre-ni da cui si è ottenuta la biomassa per l’ap-provvigionamento dell’impianto. Ciò, in terminid’impiego ecologico delle risorse, indica un’effi-ciente chiusura del ciclo della materia con re-stituzione al suolo agrario di quegli stessi ele-menti nutritivi utilizzati dalla colture nel corsodel loro accrescimento (“neutralità” del bilan-cio non solo carbonico ma anche minerale).

7. Un modello “locale” d’agricoltura

In merito alla contrapposizione fra filiera cortae lunga, occorre aggiungere un’ultima conside-razione; differentemente da altri Stati (preva-lentemente extra-europei, in primo luogo USA,Canada, Brasile, Australia, ecc.), la nostra agri-coltura (nazionale ma, in genere, europea) sicontraddistingue per un assetto strutturale in-centrato su aziende di modesta dimensione,spesso parcellizzate e territorialmente disperse,a conduzione diretta e ad elevata richiesta di la-voro, nonché contraddistinte da un livello d’in-tensificazione generalmente elevato. L’ampiavariabilità orografica e climatica e la ridotta di-sponibilità di superfici agrarie, costantementeaggredite dall’espansione urbana ed infrastrut-turale, creano le condizioni per realizzare unmodello di agricoltura assai diversificato nellesue produzioni, piuttosto che un modello adestrema specializzazione colturale. Queste con-siderazioni pongono in evidenza la necessità diorientare strategicamente il nostro modello pro-

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duttivo agricolo verso produzioni di qualità, par-ticolarmente di tipo orto-frutticolo, con tratti dispiccata vocazionalità locale, produzioni tipichedi difficile standardizzazione e di incondiziona-to riconoscimento geografico.

L’ammontare complessivo della superficieagricola nazionale, inoltre, non può oggettiva-mente consentire il soddisfacimento delle esi-genze interne di energia rinnovabile, per esem-pio stimate con riferimento ai bio-carburanti de-stinati all’autotrazione (biodiesel e bioetanolo).

Ciò vale anche con riferimento all’Europa a25 membri. L’Unione Europea si è posta l’o-biettivo di sostituire il 5,75% dei carburanti fos-sili da trasporto con i biocarburanti entro il2010; considerando l’attuale produzione agrico-la media europea, sarebbe necessario destinarealle colture bioenergetiche tra il 14 ed il 27%della SAU europea, in relazione alla tipologiadi carburante ed alla specie coltivata (Kavalov,2004). I volumi richiesti per conseguire l’obiet-tivo prefissato relativamente al biodiesel sareb-bero dunque corrispondenti al 192% della pro-duzione complessiva di colza (dato del 2005) odaltresì il 14% della produzione mondiale (EU,2006). Saremmo quindi comunque dipendentida un prevalente rifornimento estero di carbu-ranti, sebbene di origine rinnovabile piuttostoche fossile.

Questa considerazione, di per sé incontro-vertibile, dovrebbe suggerire l’opportunità di in-dirizzare il nostro modello produttivo agri-ener-getico secondo strategie differenti che non sia-no, semplicisticamente, quelle della massimizza-zione delle produzioni energetiche, obiettiva-mente al di fuori della nostra portata in raf-fronto al potenziale produttivo di altre nazioni.

Da quanto finora osservato, risulta abba-stanza comprensibile l’opportunità di concepirela produzione agri-energetica piuttosto come in-tegrazione e complementazione delle produzio-ni agricole, al fine di conseguire una pluralità divantaggi strettamente associati ad un equilibra-to sviluppo delle agri-energie: in primo luogoun’adeguata diversificazione colturale, utile nel-la gestione agronomica delle aziende e benefi-ca per le condizioni di fertilità del suolo; inol-tre, un’interessante integrazione di reddito agra-rio a seguito della differenziazione produttiva;favorire la copertura delle esigenze energeticheaziendali, indirizzando il surplus all’erogazioneelettrica o di calore ad una rete distributiva

esterna all’azienda. Un consumo energetico di-retto, comunque prossimo al punto di genera-zione, svincola dai condizionamenti del merca-to globalizzato dell’energia e pone le condizio-ni per un’effettiva utilizzazione energetica an-che allorché il regime dei prezzi vigenti sul mer-cato nazionale od internazionale non risultassesufficientemente remunerativo. Ciò avviene inconsiderazione della ridotta estensione della fi-liera che, essendo a prevalente od esclusivaidentificazione agricola, consentirebbe di farmaturare al suo interno il valore aggiunto con-seguente alla generazione dell’energia.

8. A che prezzo gli incentivi?

Il sostegno all’acquisto degli impianti e gli in-centivi alla vendita di energia rinnovabile an-drebbero attentamente valutati nei loro riflessi,diretti ed indiretti, sul comparto agricolo e inrelazione alle ripercussioni che si possono ge-nerare sulle dinamiche dell’uso del suolo e, piùin generale, dello sviluppo del territorio rurale.Potrebbero avere origine, infatti, profonde spe-requazioni, in termini di vantaggio economico,fra investimenti alternativi, col rischio di porrein essere contraddizioni assai accentuate nei ri-guardi di una pluralità d’interventi finalizzati al-lo sviluppo rurale, come ad esempio quelli mes-si in atto con i PSR regionali. La soverchianteconvenienza economica connessa alla produzio-ne di energia elettrica (attraverso la realizza-zione di impianti eolici ed anche fotovoltaici),rispetto alle più modeste (spesso incerte) possi-bilità di reddito offerte dall’esercizio agricolo(anche nelle sue forme tecnicamente più evolu-te), determina, nei casi peggiori, una dismissio-ne dell’azienda e la vendita dei terreni, nelle cir-costanze più favorevoli una loro parziale ces-sione. Da un punto di vista agro-ambientale ciòpredispone alla perdita dei terreni più fertili,spesso quelli di pianura ed origine alluvionale,generando inoltre una grave interferenza sul ci-clo idrologico, una maggiore esposizione ai ri-schi di ruscellamento, erosione, compattamento,ecc.

Occorre quindi chiedersi se il trend che vie-ne oggi a prefigurarsi, sebbene favorevole al-l’acquisizione di energia rinnovabile ed econo-micamente vantaggioso per le imprese (ma pro-mosso dallo Stato a mezzo di incentivi e soste-

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gno ai prezzi di vendita dell’energia), sia con-gruente con le ingenti risorse messe in campoproprio con il PSR, che punta ad una qualifica-zione della nostra agricoltura, all’aumento del-la sua capacità di competizione sui mercati ex-tra-europei, all’ottenimento di produzioni di ec-cellenza ed al permanere degli imprenditori nelsettore agricolo. Il mercato ovviamente si orien-ta verso gli investimenti più remunerativi, percui se il profitto che consegue dal produrreenergia rinnovabile risulta superiore a quelloderivante dall’esercizio agricolo, si produrrà e sivenderà prevalentemente energia piuttosto cheprodotti agricoli. Allo stesso modo, se acquisireolio d’importazione (di palma o jatropha) perdestinarlo alla generazione elettrica risulta piùconveniente che impiegare olio di produzionelocale, nasceranno e si moltiplicheranno im-pianti alimentati con i primi e non con i secon-di. Di certo non si intende contraddire questoassunto basilare del mercato, occorre però ope-rare un bilancio complessivo dei vantaggi e de-gli svantaggi che possono derivare non tanto alsingolo imprenditore quanto alla collettività nelsuo complesso a seguito di una scelta così im-postata, considerando che (almeno allo stato at-tuale) le condizioni di vantaggio e di competi-tività sono esclusivamente determinate dagli in-centivi pubblici all’installazione degli impiantiod alla vendita dell’energia da essi prodotta.

9. Pianificare l’uso del suolo agricolo

Se pianificata nel modo più opportuno ed ade-guatamente gestita, la produzione di energia dabiomasse può risultare assai utile nel promuo-vere uno sviluppo rurale auto-centrato, pro-mosso dal basso e non imposto a mezzo di mo-delli esogeni, secondo soluzioni calibrate rispettoalle esigenze reali della popolazione (sia sul fron-te dei produttori che dei consumatori); tale mo-dello, modulato nei suoi risvolti più direttamenteapplicativi, può risultare idoneo tanto per i Paesiin via di sviluppo che per quelli economicamen-te più avanzati. La bio-energia può stimolare nuo-va occupazione, un indotto di diversificate attivitàeconomiche, condizioni di vantaggio ambientaleed un sensibile miglioramento della qualità dellavita, allorché essa sia determinata, gestita e con-dotta su scala locale (bio-regionale) ed allorché ilvalore aggiunto generato dal processo produtti-

vo sia localmente intercettato ed impiegato inchiave di sviluppo territoriale. Questa è la con-dizione critica ed essenziale rispetto alla qualeogni ipotesi di realizzazione agri-energetica de-ve necessariamente misurarsi.

Per poter pianificare lo sviluppo territorialenel settore agri-energetico conseguendo unacompetitività analoga a quella oggi raggiunta daaltre fonti rinnovabili è indispensabile un’anali-si spaziale su larga scala, che consideri la di-spersione delle risorse, le condizioni pedoclima-tiche e geomorfologiche del territorio, la com-petitività delle colture energetiche rispetto allecolture tradizionali, a destinazione alimentare,nonché il possibile rischio connesso ad una lo-ro prevedibile espansione in aree ad agricoltu-ra estensiva con il conseguente impatto che daciò potrebbe derivare nei riguardi di ambientinaturali e seminaturali e le possibili limitazionidella biodiversità. I Sistemi Informativi Geo-grafici (GIS) rappresentano oggi il migliorestrumento disponibile per la gestione e l’analisispaziale delle risorse territoriali e per la crea-zione di “sistemi di supporto alle decisioni”.L’approccio basato sui GIS si delinea come unotra quelli maggiormente appropriati per unacorretta pianificazione di sistemi e processi divalorizzazione delle biomasse agro-forestali; ta-le approccio, infatti, consente di quantificare nelmodo più corretto l’effettivo ammontare dellerisorse impiegabili nella generazione d’energiaa seconda della differente natura e qualità del-le biomasse coinvolte, ottimizzando inoltre lascelta e la collocazione geografica di ogni seg-mento di cui si compone la filiera agri-energe-tica, secondo criteri di opportunità, adeguatez-za ed economicità (Sabbatini et al., 2004; Tene-relli e Monteleone, 2007 e 2008).

10. Valorizzazione energetica integrale dellebiomasse

Un ulteriore aspetto dualistico relativo al setto-re delle agro-energie è quello che si riferisce al-la natura delle biomasse impiegate nella con-versione energetica che possono essere, rispet-tivamente, biomasse residuali o di scarto o, al-l’opposto, biomasse ottenute da colture dedica-te. Del tutto evidente è la convenienza a rivol-gersi prioritariamente all’impiego di materiaprima di scarto, ciò per un duplice vantaggio: a)

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il suo valore economico è assai modesto, nulloo (in particolari circostanze) addirittura negati-vo (allorché siano previsti costi di smaltimento);b) vengono evitati gli impatti conseguenti allosmaltimento, ordinario o straordinario, dei sud-detti materiali di rifiuto. In alternativa, si puòoperare la scelta di utilizzare colture agrarie de-dicate; in tal caso il vantaggio consiste in unaproduttività di materia prima significativamen-te più elevata per unità di superficie agraria.

Strettamente connesso a questa concezionedi utilizzo plurimo ed integrale delle materieprime di origine agricola è il concetto di biore-finery, attraverso cui la cosiddetta agricoltura“non-food” perviene ad un’integrazione presso-ché completa con il settore industriale, non so-lo con riferimento alla produzione di energia maanche di materie prime e composti chimici uti-li in numerosi processi industriali (oli minerali,vernici, solventi, polimeri e materiali plastici diorigine vegetale, ecc.). Questa stretta integra-zione consente di conseguire efficienze trasfor-mative assai elevate in quanto un medesimoprodotto agricolo può dar luogo ad un’ampiagamma di prodotti finali, mantenendosi comun-que invariati i costi relativi alla sua produzione.In tal modo la strutturazione a “filiera” dei pro-cessi produttivi si articola, si ramifica e divieneassai più complessa, venendo così a definire unaconfigurazione “reticolare”. La possibilità di uti-lizzazione plurima ed integrale del contenutoenergetico delle piante agrarie risiede nella ca-pacità di riuscire ad impiegare la maggior par-te delle sue componenti biologiche strutturali;così, ai fini dell’ottenimento di bio-carburanti,sarebbe utile poter utilizzare non soltanto lacomponente zuccherina o quella oleaginosa maanche quella frazione, del tutto prevalente nel-le piante, costituita da cellulose ed emicellulose(essendo le lignine destinabili solo alla combu-stione od al compostaggio). Processi chimici ebiochimici altamente innovativi consentono og-gi di attaccare e demolire queste molecole com-plesse, di natura polimerica, convertendole cosìnei consueti bio-carburanti impiegabili per l’au-totrazione. A tal riguardo, si parla dei cosiddet-ti carburanti di seconda generazione, ossia quel-li ottenuti impiegando queste tecnologie inno-vative; essi rappresentano un prodotto di estre-mo interesse al fine di ampliare le disponibilitàenergetiche destinate a sostituire i consumi dibenzina e diesel per autotrazione.

11. Conclusioni

Le considerazioni svolte nel presente lavorochiamano in causa la visione di uno sviluppo lo-cale auto-sostenibile, incentrato sul concetto di“capacità portante”, ossia equilibrato approvvi-gionamento delle biomasse rispetto alle effetti-ve disponibilità territoriali. È questa la condi-zione (certo non esclusiva e di per sé sufficien-te) affinché lo sviluppo delle agri-energie possaavvenire in sintonia con i necessari requisiti dirispetto della rigenerazione delle risorse agro-ecologiche, di ridotto impatto ambientale, di sal-vaguardia della biodiversità, ecc. La dimensione“locale” delle filiere agro-energetiche determi-na che lo sviluppo delle bio-energie non si rea-lizzi a scapito dell’ambiente o, contestualmente,a danno delle altre filiere produttive agricole(per esempio quelle a destinazione alimentare),sottraendo superficie coltivabile, risorse ed in-vestimenti. Il progetto locale e di piccola scalanon risulta invasivo ma si armonizza con le at-tività pre-esistenti instaurando una crescitaequilibrata, consapevole dei vincoli e delle li-mitazioni territoriali, ed allo stesso tempo co-stituisce un’opportunità per porre a sistema unapluralità di obiettivi di più ampia portata agro-ambientale: gestione sostenibile del patrimonioforestale; valorizzazione energetica degli scarti,dei residui e dei sottoprodotti delle colture agra-rie, nonché procedure adeguate di gestione e va-lorizzazione dei reflui zootecnici o di altri refluiagro-industriali; diversificazione degli ordina-menti produttivi agrari mediante l’inserimentodi colture energetiche in grado di svolgere un’a-zione positiva in qualità di colture da rinnovo(se annuali) od instaurare un regime “sodivo”(assenza di lavorazioni del suolo e quindi recu-pero della fertilità) nel caso di colture polien-nali. Ciò è di estrema rilevanza al fine di esal-tare le vocazioni territoriali e sollecitare effettiambientali virtuosi che, lungi dal provocare im-patto, inaridimento dei suoli, perdita di biodi-versità, ecc. stimolino i processi opposti. Si trat-ta, pertanto, di affermare il valore di una agri-coltura produttiva ma diversificata e varia, con-dotta secondo criteri di sostenibilità ecologica ecompatibilità ambientale, in grado di coniugare(nel modo in cui essa si esplica in rapporto al-l’ambiente ed al contesto sociale in cui è inse-rita) tutte le espressioni della multifunzionalità,nel cui novero certamente si riconoscono anche

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le agri-energie, aspetto certamente importanteed innovativo ma che non può divenire totaliz-zante ed ossessivo.

Occorre riflettere, quindi, sul particolare mo-dello di sviluppo e sull’assetto del territorio chei differenti modi d’implementare le agri-energiepotrebbero promuovere o favorire. Occorre cioèaffrontare, con la necessaria determinazione echiarezza, l’esigenza di conseguire una visionegenerale e complessiva dello sviluppo territo-riale, particolarmente con riferimento ai rap-porti fra settore energetico e quello agrario. In-fatti, avendo affermato che è utile e necessarioampliare le nostre disponibilità di energia al-ternativa al petrolio od al carbone, ciò non puòavvenire in modo indiscriminato o sommario. Ilvalore delle agri-energie, infatti, non può esse-re espresso, semplicisticamente, dalla quantità dienergia che viene prodotta quanto, piuttosto,dall’effettivo miglioramento della qualità dellavita, in termini di un set articolato d’indicatori.In termini ancor più espliciti, è assolutamentedeterminante il modo attraverso cui l’energiarinnovabile di origine agricola e forestale vieneprodotta oltre che l’ammontare della sua pro-duzione.

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Risorse energetiche tradizionali ed innovative dalle attività microbiche nel sistema agroindustriale

Roberto De Philippis*, Massimo Vincenzini

Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Università di FirenzePiazzale delle Cascine 24, 50144 Firenze

Società Italiana di Microbiologia Agraria, Alimentare e Ambientale

RiassuntoI processi microbici che consentono di ottenere energia dalle biomasse vegetali e dai residui del sistema agroindu-striale permettono di sfruttare fonti energetiche ampiamente disponibili e rinnovabili in processi che si possono con-siderare a bilancio zero per quanto riguarda la fissazione e l’emissione di anidride carbonica. Tali processi sono adun diverso grado di maturazione tecnologica: accanto a processi ormai maturi, quali quelli che portano alla produ-zione di etanolo e di biogas, ve ne sono altri che si trovano in fase avanzata di ricerca, come quelli che portano al-la produzione microbiologica di idrogeno. Dal punto di vista delle prospettive future, è proprio quest’ultimo pro-dotto ad avere suscitato, in anni recenti, una crescente attenzione a causa delle sue promettenti caratteristiche diimpiego. L’idrogeno, infatti, è un gas caratterizzato da un alto potere calorifico e la sua utilizzazione, sia in com-bustione diretta che tramite celle a combustibile, consente di ottenere energia senza il contemporaneo rilascio digas inquinanti.Nella rassegna sono presentate le attività condotte dai gruppi di ricerca afferenti alla Società Italiana di Microbio-logia Agraria, Alimentare e Ambientale (SIMTREA) impegnati nel settore, con particolare riferimento agli studiin corso sulla produzione di biogas e di idrogeno a partire da residui dell’agroindustria.

Parole chiave: biogas, bioidrogeno, recupero energetico, residui vegetali, agroindustria, fonti energetiche rinnovabili.

Summary

NEW AND TRADITIONAL ENERGY RESOURCES FROM MICROBIAL ACTIVITIES IN THE AGROIN-DUSTRIAL SYSTEM

Microbial processes leading to the production of energy from vegetable biomasses and from residues of the agroin-dustry make possible the exploitation of widely available and renewable energy sources which can be consideredat zero balance with regard to CO2 fixation and emission. These processes show a different level of technologicalmaturity: some of them, like the production of bioethanol or biogas, are well established and diffused processes,while others, like hydrogen production, are in the phase of advanced research. Considering the future prospects, thelatter process is the most promising owing to the high calorific value of hydrogen and the absence of polluting emis-sions when H2 is used for combustions or for the production of electricity with fuel cells. In this review, the researchactivities carried out, in the field of biogas and hydrogen production, by research groups belonging to the ItalianSociety for Agricultural, Environmental and Food Microbiology (SIMTREA) are presented.

Key-words: biogas, biohydrogen, energy recovery, vegetable residues, agroindustry, renewable energy resources.

* Autore corrispondente: tel.: +39 055 3288284; fax: +39 055 3288272. Indirizzo e-mail: [email protected]

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Introduzione

Oltre l’80% dell’energia primaria prodotta econsumata ogni anno dagli oltre sei miliardi diesseri umani che vivono sul nostro pianeta èottenuta utilizzando combustibili fossili (car-bone, petrolio, gas naturale) (fig. 1). Secondole proiezioni dei consumi di energia primariaottenuta da fonti di natura fossile, nei prossi-mi anni è atteso un incremento dei consumisuperiore al 50% rispetto ai valori di iniziomillennio, con un aumento quasi proporziona-le delle emissioni annue di anidride carboni-ca, che passerebbero dai circa 20 miliardi ditonnellate del 1990 ai circa 40 miliardi di ton-nellate del 2030 (IEA, 2006). Le conseguenzedi queste scelte di politica energetica sareb-bero quindi la riduzione delle riserve di fontienergetiche non rinnovabili, quali sono i com-bustibili fossili, e l’emissione nell’atmosfera digrandi quantità di gas inquinanti, tra i qualil’anidride carbonica, che è uno dei gas causadell’effetto serra e del conseguente aumentodella temperatura del pianeta. A queste pro-blematiche di natura ambientale occorre ag-giungere quelle di natura politica legate allanecessità, sempre più vincolante per la stabi-lità politico-economica delle singole Nazioni,di avere accesso a fonti energetiche sicure, lacui disponibilità a prezzi sostenibili dai sistemieconomici non sia legata né a fattori fisici (esau-rimento delle fonti stesse, interruzioni nella pro-duzione ecc.) né a fattori economici (variabilitàdei prezzi, pressioni speculative ecc.) (Costanti-ni et al., 2007).

Alla luce di queste considerazioni, lo sfrut-tamento di risorse energetiche rinnovabili, qua-li sono quelle derivabili dal sistema agroindu-striale, può assumere una notevole importanza,sia dal punto di vista economico che dal puntodi vista ambientale. Infatti, i vari processi checonsentono di ottenere energia dalle biomassevegetali e dai residui del sistema agroindustria-le permettono lo sfruttamento di fonti energe-tiche ampiamente disponibili e rinnovabili inprocessi che si possono considerare a bilanciozero per quanto riguarda la fissazione e l'emis-sione di anidride carbonica. In questa direzionesono quindi orientate molte delle ricerche at-tualmente in corso sia a livello nazionale che in-ternazionale, indirizzate ad individuare e a spe-rimentare processi che portino al recupero effi-

ciente dell’energia contenuta nei diversi tipi diresidui vegetali derivanti dalle attività agroin-dustriali e forestali.

Alcuni dei processi più efficienti per otte-nere energia dai residui vegetali vedono coin-volti specifici gruppi di microrganismi, i quali,metabolizzando i substrati vegetali per produr-re energia, potere riducente e i precursori me-tabolici necessari a sintetizzare nuovi costituen-ti cellulari, liberano come prodotti di scarto eta-nolo, metano o idrogeno, sostanze che possonoessere utilizzate dall’uomo come combustibilialternativi a quelli di origine fossile.

A tal proposito, va sottolineato come i pro-cessi di produzione di energia tramite l’impiegodi microrganismi si trovino, al momento attua-le, ad un diverso grado di maturazione tecnolo-gica: infatti, accanto a processi ormai maturiquali quelli che portano alla produzione di eta-nolo e di biogas, ve ne sono altri che si trova-no in fase avanzata di studio, come quelli cheportano alla produzione di idrogeno per via mi-crobiologica.

Scopo di questa breve rassegna è quello didare il quadro delle ricerche attualmente in cor-so in Italia nell’ambito di questo settore, facen-do particolare riferimento agli studi sulla pro-duzione di biogas e di idrogeno condotti dagruppi di ricerca i cui componenti sono membridella Società Italiana di Microbiologia Agraria,Alimentare e Ambientale (SIMTREA).

De Philippis R., Vincenzini M.

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Figura 1. Richiesta energetica mondiale (fonte: WorldEnergy Outlook 2006, International Energy Agency; Mtoe= tonnellate (x 106) di petrolio equivalente).

Figure 1. World energy demand (source: World Energy Ou-tlook 2006, International Energy Agency; Mtoe = metrictons (x 106) of oil equivalent).

Produzione di biogas da residui del sistemaagroindustriale

Il biogas, composto per il 50-80% di metano,può essere ottenuto dalla digestione anaerobicadi varie tipologie di residui dell’agroindustria.Nel corso dell’ultimo decennio si è osservato uncrescente interesse verso questo tipo di fonterinnovabile di energia per ragioni sia economi-che che ambientali, tanto che l’Unione Europeaha stabilito l’obiettivo ambizioso di raggiunge-re, entro il 2010, una produzione di biogas paria 15 milioni di tonnellate di petrolio equivalen-te, corrispondente a circa il doppio della quan-tità ipotizzabile in base alla tendenza attuale. InItalia esistono molti impianti di digestione anae-robica per la produzione di biogas, sia pressoaziende agricole sia presso le piattaforme eco-logiche di depurazione delle acque. Questi im-pianti funzionano da anni, trattando prevalen-temente liquami zootecnici o fanghi di risultadella depurazione delle acque. Recentemente,sono in fase di studio nuove proposte tecnolo-giche che riguardano soprattutto la tipologiadella materia prima da utilizzare per alimenta-re gli impianti. Oltre alle biomasse tradizionali,infatti, si sta iniziando a utilizzare biomassa ve-getale sia tal quale che opportunamente me-scolata con deiezioni zootecniche, fanghi di ri-sulta della depurazione delle acque o residui diindustrie agroalimentari.

Nei digestori anaerobici, la produzione dibiogas avviene come fase finale di un processomicrobico complesso, articolato in più fasi, alle

quali partecipano gruppi microbici diversi (fig.2). La complessità del processo è dovuta all’in-capacità dei microrganismi produttori di meta-no (metanogeni) di degradare molecole organi-che complesse per produrre CH4 e CO2; infatti,una delle principali caratteristiche fisiologichedei metanogeni, microrganismi procarioti ap-partenenti al Dominio degli Archea, è l’estremaspecializzazione metabolica, che li rende capacidi utilizzare solo uno o due tipi di substrati, ingenere composti organici ad un solo atomo dicarbonio. A causa di ciò, i metanogeni dipen-dono, nella maggior parte degli ambienti in cuivivono, dalla presenza di idonei substrati pro-dotti dalle attività metaboliche di altri micror-ganismi.

Nell’ambito dei gruppi di ricerca i cui mem-bri sono soci della SIMTREA, gli studi sui me-tanogeni sono stati condotti prevalentementedal gruppo afferente al Dipartimento di Scien-ze e Tecnologie Agroambientali dell’Universitàdi Bologna, che ha caratterizzato filogenetica-mente ceppi di batteri metanogeni isolati da va-ri ambienti arrivando, in alcuni casi, alla descri-zione di nuove specie (Biavati et al., 1988; 1992;Ferrari et al., 1994). Più recentemente, gli studisono proseguiti con l’isolamento e la caratteriz-zazione filogenetica di ceppi di metanogeni pro-venienti da digestori anaerobici sperimentali eda discariche di rifiuti solidi urbani. Gli studicondotti hanno portato all’individuazione di uncerto numero di ceppi mesofili e termofili, ap-partenenti a sei generi diversi di metanogeni (B.Biavati, comunicazione personale).

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Figura 2. Schema del processo didigestione anaerobica: (1) fase diidrolisi, (2) fase di fermentazione(acidogenesi), (3) fase di aceto-genesi, (4) fase di metanogenesi.

Figure 2. Outline of the processof anaerobic digestion: (1) hy-drolysis, (2) fermentation (acido-genesis), (3) acetogenesis, (4) me-thanogenesis.

Come già accennato, le caratteristiche meta-boliche dei metanogeni sono tali che le prime fa-si della digestione anaerobica (idrolisi delle mo-lecole complesse, fermentazione acidogenica, fer-mentazione acetogenica) sono condotte da unamicroflora anaerobica non costituita da metano-geni, i quali invece intervengono soltanto nell’ul-tima fase (metanogenesi), producendo metano apartire da substrati formatisi nelle fasi preceden-ti, secondo le due reazioni sotto riportate:

(1) 4H2 + CO2 → CH4 + 2 H2O(2) CH3-COOH → CH4 + CO2

Nel caso della reazione (1), si può osservarecome il metano si formi a partire dall’idrogenocon un forte spreco energetico. Infatti soltantoil 50% dell’idrogeno prodotto durante le prece-denti fasi di fermentazione viene convertito inmetano, mentre l’altro 50% viene trasformatoin acqua. Sulla scorta di questa osservazione, igruppi di ricerca coordinati dal professor Gian-carlo Ranalli, afferente al Dipartimento diScienze e Tecnologie per Ambiente ed il Terri-torio dell’Università degli Studi del Molise, edalla professoressa Claudia Sorlini, afferente alDipartimento di Scienze e Tecnologie Alimen-tari e Microbiologiche dell’Università degli Studidi Milano, hanno avviato una serie di ricerchevolte a valutare la fattibilità di un processo didigestione anaerobica in cui viene disaccoppia-ta la produzione di idrogeno dalla sintesi di me-tano. Il vantaggio di operare in tal senso è du-plice: (a) si può recuperare energia sotto formadi idrogeno, anziché di metano, in tempi ridotti(3-7 giorni); (b) si può recuperare una quantitàdi energia decisamente maggiore di quanta sene otterrebbe se venisse recuperato il solo meta-no, considerando anche che il potere calorificodell’idrogeno è circa due volte e mezzo quello delmetano (119,9 MJ/Kg contro 50,0 MJ/Kg). I van-taggi dell’impianto bifase rispetto allo stadio sin-golo sono i seguenti: per il reattore 1 (Fase diIdrolisi, produzione di idrogeno), i minori costi diinvestimento per la costruzione del reattore pereffetto dei tempi ridotti di fermentazione e un in-cremento della resa in idrogeno di circa il 30%per effetto del suo rapido strippaggio, ottenutocon un’apposita pompa. Per la fase di metana-zione del reattore 2 i vantaggi sono: una migliorcondizione di formazione di CH4 per effetto del-la minor acidificazione del fermentato dovuta al-

la rimozione di H+ sottoforma di H2, una maggiorstabilità del processo conseguente alla sua sepa-razione in due stadi e la produzione di biogas piùricco in CH4 perché ottenuto dalla conversione diacidi organici (G. Ranalli e C. Sorlini, comunica-zione personale).

Produzione di idrogeno da residui del sistemaagroindustriale

Il grande interesse recentemente sviluppatosinei confronti dell’uso dell’idrogeno come vetto-re energetico trae origine non soltanto dallapossibilità di utilizzare questo gas per produrreenergia senza la contemporanea emissione disostanze inquinanti nell’atmosfera ma anchedalla possibilità di utilizzare, per la sua produ-zione, fonti rinnovabili di energia in alternativaai combustibili fossili. In particolare, la produ-zione di idrogeno per via microbiologica, sfrut-tando cioè specifici processi metabolici di mi-crorganismi di diversa natura che portano allaproduzione di idrogeno, è stata fatta oggetto distudio da parte di molti gruppi di ricerca a li-vello internazionale. La messa a punto di siste-mi biologici di produzione di idrogeno presen-ta, infatti, interessanti vantaggi rispetto alle tec-niche termochimiche ed elettrochimiche attual-mente in uso o allo studio e può contribuire ef-ficacemente a stimolare e favorire il passaggioda un’economia basata quasi esclusivamentesull’uso di combustibili fossili ad un’economiabasata sull’idrogeno come vettore energetico, ri-ducendo al tempo stesso le emissioni di gas ser-ra secondo le direttive del protocollo di Kyoto.In aggiunta a questo peraltro non trascurabileaspetto, la produzione biologica di idrogeno puòavvenire anche utilizzando fonti di energia rin-novabili quali scarti di natura organica (rifiutivegetali, sottoprodotti di industrie alimentariecc.) operando a temperatura ambiente e pres-sione atmosferica, secondo un processo a bassoimpatto ambientale.

Nell’ambito dei soci della SIMTREA, studisulla produzione microbiologica di idrogeno so-no stati condotti prevalentemente dal gruppo diricerca afferente al Dipartimento di Biotecno-logie Agrarie dell’Università di Firenze, che hastudiato in particolare la produzione fotoetero-trofa di idrogeno condotta dai batteri fotosinte-tici rossi non sulfurei (BRNS) (Vincenzini et al.,

De Philippis R., Vincenzini M.

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1982a; 1982b; 1985; 1986; 1989; 1997; De Philip-pis et al., 2005; De Philippis e Vincenzini, 2007;De Philippis et al., 2007).

I BRNS sono comunemente annoverati in

letteratura tra i microrganismi più promettentiper quanto riguarda la produzione fotobiologi-ca di idrogeno. Il loro impiego nella produzio-ne di questo gas presenta infatti alcuni signifi-cativi vantaggi rispetto all’utilizzazione di altrigruppi microbici, dal momento che i BRNS so-no caratterizzati da un’alta resa teorica di con-versione substrato-idrogeno e, in virtù della lo-ro grande versatilità metabolica, sono in gradodi produrre idrogeno a partire da molti tipi di-versi di substrati organici, ivi incluse acque re-flue di origine industriale o substrati derivantidalla fermentazione di scarti vegetali di variaorigine. La produzione di idrogeno da parte deiBRNS è prevalentemente dovuta all’attività diun complesso enzimatico, chiamato nitrogenasi,il quale, in una reazione fortemente dipenden-te dalla fotosintesi per il rifornimento di ATP eNADH2, riduce i protoni ad idrogeno moleco-lare; la nitrogenasi è in grado di catalizzare que-sta reazione soltanto in assenza di ossigeno e diione ammonio (De Philippis et al., 2005; De Philippis e Vincenzini, 2007).

Recentemente, sono stati ottenuti risultatimolto interessanti sperimentando, in un foto-bioreattore da 11 litri di capacità (fig. 3), un pro-cesso a due stadi (fig. 4), in cui nel primo sta-dio è stata condotta la fermentazione di residuivegetali, effettuata dalla microflora autoctonapresente sui residui stessi, che ha portato allaproduzione di un fermentato ricco in acido lat-tico e acetico. In questa fase, a partire da unaquantità di residui vegetali pari a 1 Kg L-1, è sta-to ottenuto un fermentato contenente 10-12 gL-1 di acido lattico e 1,5-2 g L-1 di acido aceti-co. Nel secondo stadio, i BNRS sono stati ino-culati nel fermentato e hanno prodotto idroge-

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Figura 3. Fotobioreattore utilizzato per la produzione di idro-geno con batteri fotosintetici rossi non sulfurei in coltura sufermentato da residui vegetali (De Philippis et al., 2007).

Figure 3. Photobioreactor utilized for hydrogen productionwith photosynthetic purple non sulfur bacteria cultivated onthe fermentation product obtained from vegetable residues(De Philippis et al., 2007).

Figura 4. Schema del processo adue stadi di produzione di idroge-no con batteri fotosintetici rossinon sulfurei a partire da residuivegetali.

Figure 4. Outline of the two-stageprocess for hydrogen productionwith photosynthetic purple nonsulfur bacteria utilizing vegetableresidues.

no per circa cinque giorni, fino all’esaurimentodegli acidi in esso contenuti, ad un tasso mediodi circa 10 ml H2 L

-1 h-1 e con un tasso massimo,durato 24 ore, di circa 17-18 ml H2 L

-1 h-1. È sta-ta anche dimostrata sperimentalmente la possi-bilità di utilizzare direttamente l’idrogeno pro-dotto dai BNRS nel fermentatore per alimen-tare una cella a combustibile di nuova conce-zione, ottenendo energia elettrica con una den-sità di 60 mW cm-2 (De Philippis et al., 2007).Gli ottimi risultati ottenuti hanno stimolato unulteriore approfondimento delle ricerche, at-tualmente in corso, al fine di giungere ad otti-mizzare le varie fasi del processo e di validarequest’ultimo in un impianto semipilota dimo-strativo.

Conclusioni

Le ricerche attualmente in corso in Italia nelsettore della produzione di energia per via mi-crobiologica a partire dai residui del sistemaagroindustriale sono orientate a saggiare speri-mentalmente la fattibilità di processi che otti-mizzino la resa in idrogeno del tradizionale pro-cesso di digestione anaerobica o che consenta-no il recupero energetico, sempre sotto formadi idrogeno, di residui di fermentazione dei ve-getali. Questi studi si collocano, quindi, a pienotitolo nei settori di punta della ricerca interna-zionale per quanto riguarda lo sfruttamento dirisorse rinnovabili per la produzione di energiain forma non inquinante, e possono dare un con-tributo alla soluzione di due problemi di fon-damentale importanza per le società avanzatequali lo sviluppo di un vettore energetico rica-vabile da fonti non fossili e rinnovabili e la di-minuzione della quantità di rifiuti organici daavviare agli impianti di smaltimento.

Ringraziamenti

Le ricerche condotte presso il Dipartimento di Biotec-nologie agrarie sono state svolte nell’ambito del Pro-gramma strategico “Nuovi sistemi di produzione e ge-stione dell’energia” (finanziamento fondi FISR del Mi-nistero dell’Università e della Ricerca), del Progetto Fi-renze Hydrolab (finanziamento Ente Cassa di Rispar-mio di Firenze), e del Programma Ricerca per l’Am-biente – PRAA 2004-2006 (finanziamento Regione Toscana).

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De Philippis R., Vincenzini M.

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Innovazioni impiantistiche per la produzione e valorizzazione dell’olio di oliva nel rispetto dell’ambiente

Paolo Amirante*1, Maria Lisa Clodoveo1, Alessandro Leone2, Antonia Tamborrino1

1Dipartimento di Progettazione e Gestione dei Sistemi Agro-Zootecnici e Forestali, Università di BariVia Amendola 165/a, 70126 Bari

2Dipartimento di Scienze delle Produzioni e dell’Innovazione nei Sistemi Agro-alimentari Mediterranei,Università di Foggia,

Via Napoli 25, 71100 Foggia

Associazione Italiana di Ingegneria Agraria

RiassuntoLe innovazioni tecnologiche degli impianti agroalimentari sono sempre più rivolte alla valorizzazione delle carat-teristiche qualitative del prodotto elaborato nel rispetto dell’ambiente. La domanda dei consumatori registra, infat-ti, un progressivo interesse verso prodotti ad elevato valore edonistico, nutrizionale e salutistico. Le ragioni di que-sto fenomeno sono riconducibili essenzialmente al fatto che la scienza medica ha da tempo evidenziato gli effettisalutistici della dieta, con particolare riguardo a quella dei Paesi del Mediterraneo. Particolare attenzione viene, inoltre,rivolta alla tipicità delle produzioni, oltre, che al soddisfacimento delle caratteristiche di genuinità e di salubrità, che de-vono inquadrarsi prioritariamente con le condizioni pedoclimatiche ed agronomiche dei luoghi di produzione, in mododa rendere le caratteristiche dell’alimento differenziabili anche all’interno dello stesso areale produttivo, con l’esigenzadi fornire la certezza della genuità del prodotto finito, tendendo a favorire la produzioni in filiere corte, in cui all’in-terno della stessa azienda agricola si possa chiudere il ciclo di processo. Il sistema produttivo, oltre a garantire elementidi elevata qualità e ad alto valore aggiunto, deve consentire la certezza della tracciabilità di filiera, anche in areali re-lativamente estesi. L’attività di ricerca deve essere necessariamente interdisciplinare, in collaborazione con gli altri set-tori disciplinari e con le industrie costruttrici degli impianti, incentrando l’attenzione, da un lato sulle caratteristiche delprodotto e dall’altro sugli impianti innovativi, con l’introduzione dei nuovi sistemi di lavorazione nel rispetto dell’am-biente. La ricerca deve, pertanto, interfacciarsi con il territorio, in quanto, la progettazione di un impianto deve tenerconto di tutta una serie di competenze che riguardano: la tutela ambientale, la sicurezza del lavoro, l’igiene della pro-duzione, la tecnologia di processo, la tecnica impiantistica, l’ergonomia, la tecnica gestionale, l’urbanistica, gli aspetti edi-lizi, il marketing e la gestione finanziaria dell’attività produttiva. La normativa da applicarsi, ancorché in parte ancoraignorata, è ampia e di non semplice lettura interpretativa. Pertanto, la ricerca deve definire le caratteristiche degli im-pianti anche in una logica di successiva progettazione del singolo manufatto. In definitiva, l’impianto agroalimentare,normalmente collocato nelle aziende agricole o in prossimità delle stesse, oltre alla funzione economico-produttiva de-ve avere una funzione sociale ed ambientale che possa sottolineare una cultura di convivenza ecologica millenaria nelrispetto delle esigenze economiche del produttore.

Parole chiave: impianti di estrazione di olio di olive, frangitori, decanter, gramolazione, fenoli totali, componenti vo-latili, scambio termico.

Summary

INNOVATION IN OLIVE OIL PROCESSING PLANTS TO PRODUCE AN EXCELLENT OLIVE OIL ANDTO REDUCE ENVIRONMENTAL IMPACT

The focus of technological innovations in agro-industrial plants has been more and more on promoting of qualityaspects of the final product with the environment in mind. The consumer demand, in fact, indicates an increasinginterest towards a product with high hedonistic, nutritional and health value. The reasons for this phenomenon aremostly due to the fact that medical science has demonstrated the benefits of a healthy diet, especially those bene-fits from a diet from Mediterranean countries. Thereby, particular attention is given to both the typical aspects ofthe production line and the health and authenticity requirements which must, above all, conform to the pedo-cli-

* Autore corrispondente: tel.: +39 080 5443015; fax: +39 080 5443015. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:147-161

mactic and agronomical conditions of the production area in order to differentiate the product, even from those foundin the same production area. This, to assure the authenticity of the final product and therefore preference is given tothe short production line where the whole production line can be carried out in the agricultural farm itself. The pro-duction system guarantees the elements necessary for high quality, with high value added, as well as assuring that theproduction line is traceable, even in relatively large extended areas. The research activities therefore must be in con-tact with other academic fields, collaborate with similar sectors and with plant manufacturers. Thereby concentratingon the one hand on the characteristics of the product, on the other hand on innovative plants and introducing newproduction systems that respect the environment. The research must therefore interface with the territory, in as muchas, the developing of a plant must consider a series of matters such as: the environment, safety of the workers, hy-giene standards of the product, process technology, plant technology, ergonomics, management techniques, town plan-ning, building aspects, marketing and the financial aspects of the production line. The many laws that apply are part-ly non addressed and not easy to interpret. However, researches must define the characteristics of the plants, even ifit consists of a step-by-step description of the manufacturing of a single plant. In conclusion, the agro-industrial plantwhich is usually found in agricultural farms or in the vicinity needs to have, besides an economic-productive function,also a social and environmental function in order to create a cohabitation between the more than a thousand yearold environmental conditions and the economic demands of the producer.

Key-words: olive oil processing technology, crusher, decanter, malaxetion, total phenols, volatile compounds, exchangeheat.

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

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1. Introduzione

Nel caso specifico della produzione dell’olio ex-tra vergine di oliva, l’evoluzione della domandaalimentare richiede l’utilizzazione di impianti diestrazione sofisticati, che oltre a risolvere l’o-biettivo di ottimizzare le rese di estrazione, de-vono tendere ad esaltare le caratteristiche qua-litative del prodotto finale (Amitante P. et al.,2005a; Caruso et al., 1999; Amirante P. et al.,2005b; Saitta et al., 2000).

Pertanto, le industrie costruttrici di impiantie la ricerca scientifica devono tendere alla mes-sa a punto di impianti che utilizzino tecnologiedelicate con sistemi di lavorazione che siano an-che flessibili, in modo da fornire oli robusti, cioèricchi di sostanze che esaltino il gusto dell’a-maro e del piccante (e cioè composti antiossi-danti), ma che anche consentano di ottenere olia bassa acidità e ricchi di composti aromatici(Baccioni, 2003; Amirante P. et al., 2006).

Gli impianti devono, quindi, essere dotati didiversi sistemi di frangitura e di gramolazione,anche sotto atmosfera inerte, e che abbiano lapossibilità di lavorare con temperature e tempidi gramolazione controllati e con ridotte ag-giunte dì acqua e con la possibilità di essere do-tati di sistema di acquisizione dei dati di lavo-razione dell’olio, al fine di definirne la traccia-bilità.

L’attività di ricerca interdisciplinare, svoltadalla Sezione Meccanica del DipartimentoPRO.GE.SA, in collaborazione con le industriecostruttrici di impianti oleari, ha permesso di

esaminare l’influenza dell’innovazione tecnolo-gica sulla qualità dell’olio, incentrando l’atten-zione, da un lato sulle caratteristiche reologichedelle olive e delle paste olearie e dall’altro su-gli impianti innovativi, con l’introduzione deinuovi sistemi di frangitura delle olive, nonchécon sistemi di gramolazione controllata, cometempi, temperatura e superfici di scambio ter-mico, sotto atmosfera d’aria o di gas inerti(Amirante P. et al., 2002; Amirante P. et al.,2005c; Amirante R. et al., 1998; Angerosa,2000;).

Inoltre, sono stati messi a punto nuovi estrat-tori centrifughi a risparmio d’acqua, a ∆n va-riabile e a cono corto (Amirante R. et al., 1999),nonché impianti di piccole dimensioni che pos-sano essere utilizzati anche nell’ambito delleaziende agricole (Amirante P. et al., 2005).

La presente nota ha avuto lo scopo di valu-tare l’evoluzione della tecnologia impiantisticaa partire dall’introduzione della prima lineacontinua, fino alle più moderne tecnologie checonsentono di ottimizzare la qualità dell’olio ex-travergine di oliva.

2. Evoluzione tecnologica degli impianti diestrazione olearia

L’evoluzione della tecnologia di estrazione ver-so sistemi di lavorazione che eseguano il pro-cesso in modo automatico e senza il diretto in-tervento dell’uomo ha determinato una ridu-zione sensibile dell’impiego degli impianti a

pressione, che richiedono molta manodopera,per cui attualmente si tende ad utilizzare sol-tanto gli impianti continui che puntino all’uti-lizzo del sistema centrifugo per la separazionedelle fasi (Amirante R. et al., 1998).

Il brevetto dell’utilizzo del decanter per l’e-strazione centrifuga, presentato dall’Alfa Laval,per quanto riguarda il settore specifico dell’oliodi oliva, nel 1962 ma approvato in Italia nel1964, aveva per oggetto il “Sistema a funziona-mento continuo per recuperare olio da una pa-sta costituita da sostanze vegetali finementesuddivise”, e non prevedeva l’aggiunta di acquadi processo, ma l’eventuale riciclo delle acquevegetali; infatti, l’estrattore centrifugo è nato co-me macchina per separare per via centrifuga unsolido da un liquido; tuttavia nella applicazioneal settore oleario, durante le prime prove svol-te in Toscana nella campagna olearia 1963-64presso il frantoio Gonnelli (località Cascia Reg-gello in provincia di Firenze), sorse l’esigenza diaggiungere dell’acqua nella introduzione dellapasta nel decanter (Amirante P., 1995).

L’applicazione del primo impianto continuo,attraverso la ricerca di campo, è stata sviluppatatenendo conto dei seguenti aspetti tecnologici:– l’impianto doveva simulare il funzionamento

dell’impianto a pressione e quindi non era pre-visto l’uso di aggiunta di acqua al decanter;

– la pasta olearia dopo la frangitura venivascaricata nel cono di spiaggiatura e l’olio do-veva scivolare nel piccolo tamburo (fig. 1);

– le rese dovevano essere accettabili e cioè si-mili a quelle conseguibili con l’impianto apressione.Pertanto, dopo qualche anno nel 1967, con

l’aggiunta di acqua pari al 50-60% del peso del-le olive, vennero commercializzati i primi im-pianti centrifughi continui (Amirante P. et al.,1995a).

Il passaggio dagli impianti a pressione aquelli continui, se da un lato risolveva il pro-blema della manodopera e garantiva una mag-giore igienicità al processo, tuttavia incrementa-va la produzione di acque di vegetazione da va-lori di circa 40-60 kg/100 kg di olive a valori di80-120 kg/100 kg di olive, oltre ad incrementa-re l’umidità della sansa che passava dal 24-30%al 48-54% (Amirante P. et al., 1995b).

Tuttavia il processo continuo di estrazione sidiffuse rapidamente, in quanto consentiva di

conseguire un notevole vantaggio economico,rappresentato dall’eliminazione dei fiscoli (cheessendo elementi notevolmente soggetti ad usu-ra influiscono negativamente sui costi di estra-zione) e delle operazioni di carico e scarico del-le pile con conseguente risparmio di tempo.

Un ulteriore vantaggio è rappresentato dalfatto che la lavorazione a ciclo continuo elimi-na completamente la manipolazione da parte dioperatori nelle fasi intermedie e riduce note-volmente l’impiego di manodopera, tanto chel’impianto può essere controllato anche da unsolo operatore.

La necessità di contenere i consumi idrici perridurre lo scarico delle acque reflue, la possibi-lità di migliorare la qualità dell’olio d’oliva, eli-minando, nell’estrazione olearia, l’aggiunta diacqua di processo, nonché la notevole variabi-lità nel rapporto tra fase solida e fasi liquide(acqua ed olio) riscontrabile in lavorazione,hanno determinato l’esigenza di approfondire lostudio dei parametri costruttivi e funzionali deidecanter, al fine di ottimizzarne il funziona-mento attraverso un più razionale dimensiona-mento costruttivo e fornire agli operatori delsettore gli strumenti per migliorare il controlloe la gestione dei parametri operativi durante lafase di estrazione.

Per circa dieci anni le ditte costruttrici si im-pegnarono a modificare il nuovo impianto nel-le diverse operazioni unitarie, ma principal-mente ad ottimizzare l’estrazione centrifuga.

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:147-161

149

Figura 1. Decanter di prima generazione, con lungo cono dispiaggiatura e cilindro di piccole dimensioni.

Figure 1. Decanter of first generation with long cones fordrainage cone and with cylinders of small dimensions.

2.1 Studio teorico del decanter

Lo studio teorico della estrazione centrifuga èstato impostato sulla valutazione delle presta-zioni delle macchine in relazione ai seguenti pa-rametri:– volume utile della centrifuga,– geometria (profili) e materiali impiegati nel-

la costruzione del decanter,– velocità angolare,– portata della pompa di alimentazione,– caratteristiche reologiche della pasta,– caratteristiche geometriche delle particelle

da separare.L’espressione analitica del moto relativo tra

fluidi e particelle solide è stata ricavata comesegue:

in cui, una particella solida di massa volumicaρs e volume Vs, sospesa in un liquido di massavolumica ρl e viscosità µs, immessa in un campocentrifugo (corrispondente ad una velocità an-golare ω che si assume ovunque costante e pa-ri alla velocità di rotazione del rotore e ad unadistanza r dall’asse di rotazione) è soggetta al-le azioni dinamiche dell’estrattore (Amirante eCatalano, 1993).

Il valore della portata del decanter è sinte-tizzato nella formula:

Qs = 2vsgΣin cui:– il primo termine è la velocità di sedimenta-

zione naturale vsg, data dalla formula:

– il secondo termine Σ è stato denominato“coefficiente dinamico di produttività”, inquanto, fissate le condizioni standard di se-dimentazione (tr = ts), che rappresentano ri-spettivamente il tempo di ritenzione, espres-so dalla seguente formula:

e il tempo di sedimentazione nel decanterespresso da

.

Pertanto, il Σ rappresenta la grandezza, fun-zione delle caratteristiche cinetiche e geometri-che del decanter, che determina la portata darichiedere alla pompa di alimentazione.

In definitiva, macchine che hanno lo stesso“coefficiente dinamico di produttività” (Σ) do-vrebbero lavorare con prestazioni capacitiveuguali.

In base alle formule precedenti, per due dif-ferenti decanter con uguale capacità di lavora-zione, si ottiene quindi:

Pertanto, He è un indice che caratterizza inmodo univoco la funzionalità della macchina; in-fatti all’aumentare di He aumenta il tempo ne-cessario a completare la sedimentazione senzamodifica alcuna nella qualità ottenibile. Tale pa-rametro funzionale viene da noi denominato“altezza efficace di sedimentazione” (Amirantee Catalano, 1993).

3. Innovazioni costruttive dei frangitori e dei de-canter a risparmio d’acqua e VDP

Successivamente, a partire dalla fine degli anni’75-80 iniziarono ad introdursi nuove tecnologiee cioè:– prototipi di frangitori meccanici (brevetti di

frangitori e molitori continui 1975-78);– prima macchina denocciolatrice (1982);– decanter a risparmio d’acqua (1992);– primo decanter a giri differenziali variabili

(1992) e sistemi di lavorazione a 2 e 3 fasi ea paste snocciolate;

– impianti automatici con gramole confinate(2003);

– impianti tecnologicamente avanzati per filie-ra corta (2004).Analizzando sinteticamente gli effetti positi-

vi di tali innovazioni sulle prestazioni degli im-pianti è possibile evidenziare quanto segue.

Le prove di confronto dei tre diversi sistemidi frangitura (frangitore a martelli, frangitore adischi e molazza con finitore, cfr. fig. 2) con-sentono di verificare che si ottengono i seguen-ti risultati:– una distribuzione di particelle di maggiori di-

mensioni e minor riscaldo della pasta con ilfrangitore a dischi (curva A);

– una granulometria più fine, con possibili

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

150

riscaldi per il frangitore a martelli (curva B);– una granulometria maggiore ma più distri-

buita nelle diverse dimensioni per il sistemadi frantumazione molazza+finitore, con mi-nor riscaldamento, ma con maggiori tempifrantumazione e possibili ossidazioni (curvaC) (Amirante e Catalano, 2000).Le successive ricerche eseguite correlando le

applicazione dei nuovi sistemi di frangitura, conle nuove tecnologie a risparmio d’acqua e conun più corretto sistema di regolazione dei tem-pi e temperature di gramolazione hanno con-sentito di conseguire i seguenti risultati.

Gli incrementi della temperatura e della du-rata della gramolazione in termini contenuti, de-terminano un aumento della resa di estrazionein olio, qualunque sia il sistema di frantumazio-ne delle olive impiegato.

Da numerose ricerche sperimentali svoltenegli ultimi anni dal Dipartimento PRO.GE.SA,si evince che, all’aumentare della temperaturadella pasta, in termini contenuti, si riduce la suaviscosità facilitando la successiva separazionedelle fasi liquide mediante centrifugazione; talieffetti sono in genere mitigati se non risulta benpredisposto lo scambio termico. Inoltre, un pro-lungato tempo di gramolazione potrebbe favo-rire l’ossidazione dell’olio e la sua emulsione.

La riduzione della viscosità è, inoltre, otte-nibile, dopo la gramolazione, attraverso una op-portuna diluizione della pasta.

Tuttavia, oltre certi valori (50% circa) delcontenuto totale di acqua nella pasta (fig. 3),

non si riscontrano variazioni importanti nel va-lore della viscosità; per contro, un eccesso di ac-qua aggiunta certamente comporta un peggio-ramento della qualità dell’olio estratto, conse-guendo peraltro perdite di resa già da valori del-l’aggiunta d’acqua pari al 30% (fig. 4) (Ami-rante R. et al., 1998).

Inoltre, anche gli incrementi eccessivi di tem-peratura e di durata dell’operazione di gramo-lazione influiscono negativamente sul tenore de-gli antiossidanti naturali presenti negli oli di oli-va prodotti.

Infatti, l’incremento della temperatura digramolazione determina, inizialmente, l’aumen-to del contenuto di fenoli dell’olio, le cui carat-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:147-161

151

Figura 2. Distribuzione dimensionale dei frammenti di noc-ciole ottenuti con diversi sistemi di frangitura.

Figure 2. Distribution according to dimension of the pit frag-ments obtained from different crushing systems.

Figura 3. Andamento della viscosità della pasta olearia infunzione del suo contenuto in acqua.

Figure 3. The viscosity curve of the oil paste in function ofits water content.

Figura 4. Influenza dell’aggiunta d’acqua sulla resa dell’olioestratto.

Figure 4. The influence of added water on the extracted oilyield.

teristiche organolettiche, tuttavia, possono esse-re negativamente influenzate da valori troppoelevati (superiori a 30-35 °C) del parametro inesame (fig. 5).

L’aumento eccessivo della durata dell’opera-zione di gramolazione può determinare, invece,la riduzione del tenore di fenoli totali degli olia causa della diminuzione della loro concentra-zione, dovuta a fenomeni enzimatici aerobici diossidazione e polimerizzazione, che, per la leg-ge dell’equilibrio chimico, determinano anche lariduzione della concentrazione delle stesse so-stanze negli oli (Amirante P. et al., 2000).

L’operazione di gramolazione, importante aifini della resa in olio, deve essere opportuna-mente controllata, relativamente alla durata edalla temperatura della pasta di olive, per conse-guire risultati ottimali, anche sotto l’aspettoqualitativo delle produzioni olearie; pertanto, sistanno conducendo prove sperimentali con al-tre tecnologie per verificare una migliore effi-cacia del trattamento della pasta olearia attra-verso un’azione congiunta di un migliore scam-bio termico e di una riduzione delle possibili os-sidazioni, lavorando sotto un’atmosfera di gasinerte. Le suddette innovazioni tecnologiche po-trebbero far rivedere le condizioni ottimali ditempi e temperatura di gramolazione.

Il decanter del tipo a risparmio d’acqua conscarico a tre fasi, dotato di sistema di regola-zione della velocità differenziale coclea/tambu-ro, assistito da un meccanismo di controllo au-tomatico, programmabile a diversi valori del ∆n,consente le seguenti condizioni distinte di rego-lazione (Amirante P. et al., 1995):– controllo della velocità differenziale tambu-

ro/coclea (∆n);

– controllo della coppia (M) misurata sull’as-se della coclea;

– controllo del rapporto M/∆n.Su tale impianto, utilizzato in diverse condi-

zioni di esercizio e con diverse varietà di olive,è stata condotta una sperimentazione dalla qua-le sono state tratte le seguenti considerazioniconclusive:– all’aumentare del ∆n è possibile aumentare

l’umidità della sansa riducendo contestual-mente le quantità di acque di vegetazionescaricate (fig. 6);

– esiste un valore limite massimo del ∆n, infunzione delle caratteristiche costruttive deldecanter, per cui è possibile ridurre a zerole acque di vegetazione scaricate (lavorazio-ne a 2 fasi), ottenendo tuttavia sanse ad ele-vato tenore di umidità 59-62%;

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

152

350

300

250

200

150

100

15 20 25 30 35 40 45

27 °C - 30'27 °C - 45'

27 °C - 60'32 °C - 30'

32 °C - 45'32 °C - 60'

35 °C - 30'

35 °C - 45'

35 °C - 60' Figura 5. Influenza dell’ag-giunta di acqua e dei pa-rametri di gramolazionesulla qualità dell’olio e-stratto.

Figure 5. The influence ofadded water and the ma-laxation parameters on thequality of the extracted oil.

Acqua aggiunta (kg / 100 kg olive)

Acqua aggiunta (kg / 100 kg olive)

Com

post

i fe

nolic

i to

tali

(ppm

ac.

Gal

lico)

Acqua aggiunta (kg / 100 kg olive)

Um

idit

à %

Figura 6. Andamento dell’umidità della sansa al variare del∆n.

Figure 6. The curve of pomace humidity to the variation of∆n.

– il residuo grasso delle sanse non subisce sen-sibili variazioni al variare del ∆n, nel campousualmente utilizzato per gli impianti a ri-sparmio d’acqua (∆n compreso fra 9-15 gi-ri/min) (fig. 6) (Amirante P. et al., 1995).I decanter di vecchia generazione sono del-

le macchine molto rigide in termini di impiego,e gli unici parametri a disposizione degli ope-ratori addetti all’estrazione sono limitati al con-trollo della portata di alimentazione della pastae al livello di diluizione.

La messa a punto di macchine che permet-tono un controllo della velocità differenziale tratamburo e coclea sulla pasta in fase di estra-zione consente di ottimizzare in modo rapido esenza eseguire smontaggi le prestazioni opera-tive della macchina e quindi di scegliere la por-tata di alimentazione, l’umidità della pasta, l’u-midità della sansa e il volume di acqua di ve-getazione che si intende produrre.

Le indicazioni fornite da uno studio teorico-sperimentale preliminare sull’estrazione centri-fuga a risparmio d’acqua ha consentito di trar-re importanti considerazioni sulla reale distri-buzione delle dimensioni delle particelle solidee sul movimento del liquido chiarificato nellaparte cilindrica del decanter.

Lo studio ha consentito di fornire indicazio-ni sulle modalità di regolazione dei parametri difunzionamento del decanter, in modo tale chelo spessore dell’acqua, che si interpone tra l’a-nello di olio e la sansa, sia tale da superare illimite di inversione del profilo delle velocità(fig. 7) (Amirante e Formato, 2003).

Tale aspetto, ha suggerito una analisi più ac-curata della zona del decanter coincidente conil cono di spiaggiatura al fine di ottenere unariduzione della quantità di olio presente nellasansa vergine prodotta.

Infatti, si è proceduto alla introduzione dibarriere in prossimità della bocca di scarico deldecanter, all’utilizzo di coclee a velocità varia-bile ed al miglioramento del profilo del cono dispiaggiatura; il tutto al fine di produrre un ef-fetto aggiuntivo di separazione delle fasi liqui-de dalla matrice solida

I risultati di questo studio hanno permessola messa a punto di una nuova serie di decan-ter con queste innovazioni costruttive, che, con-vengono un’ampia possibilità di regolazione del-le condizioni di lavorazione, agendo sui seguen-ti parametri:

– volumi di acqua di processo e portata dellapasta olearia;

– posizione ottimale del tubo di scarico dellapasta all’interno del decanter;

– velocità differenziale della coclea rispetto altamburo;

– livelli di scarico dell’acqua e dell’olio.In tali decanter innovativi il rendimento di

estrazione espresso come rapporto tra il grassoestratto nel processo produttivo e quello conte-nuto nelle olive, risulta essere sempre elevato,specie a bassa diluizione delle paste olearie.

Infatti, la modifica del profilo della coclea in-sieme agli accorgimenti costruttivi connessi, ese-guiti sul cono di spiaggiatura (VDP-decanter concono “stretto” a pressione dinamica variabile),permette di ridurre sensibilmente le perdite digrasso nella sansa, rispetto ai decanter di prece-dente costruzione, migliorando così il rendimen-to di estrazione (fig. 8) (Amirante R. et al., 1999).

L’effetto congiunto di tale modifica costrut-tiva, con la possibilità di regolare la velocità dif-ferenziale coclea/tamburo, utilizzando un roti-smo epicicloidale compensatore, consente di ot-tenere le migliori prestazioni del decanter conbasse diluizioni della pasta olearia (10-15 litri diacqua aggiunta per 100 kg di olive).

Inoltre la possibilità di ottenere elevati ren-dimenti, a bassa diluizione della pasta olearia,riducendo così l’acqua di processo aggiunta,consente di migliorare sensibilmente le caratte-ristiche qualitative dell’olio che, in tali condi-zioni operative, consegue un tenore più elevatodi componenti minori.

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:147-161

153

z

R

R

2

1

limite deltr asporto r

W

Wd

lvz

Acqua

Sansa

Olio

Figura 7. Profilo delle velocità delle diverse fasi all’internodel decanter.

Figure 7. Speed profile of the different phases inside of thedecanter.

Il più ampio sistema di regolazione installa-to su questi decanter di terza generazione con-sente di ottenere risultati migliori al variare delrapporto tra le fasi liquide e quelle solide, otti-mizzando, quindi, in modo rapido e senza ese-guire smontaggi, le prestazioni operative, in rap-porto alle caratteristiche reologiche della pastaolearia.

Inoltre, questi decanter consentono di otte-nere prestazioni più elevate in un intervallo diportata della pasta più ampio rispetto ai valoriindicati dalla ditta costruttrice, in quanto, a por-tate più elevate, aumentando la velocità diffe-renziale coclea/tamburo, si rende possibile uti-lizzare sempre tutto il tamburo per una miglio-re separazione delle fasi liquide e delle frazio-ni minute della polpa, incrementando peraltroil tempo di residenza delle fasi liquide nel decanter.

Considerato che l’automatismo di comandodella velocità differenziale, di cui dispone il de-canter, consente di scegliere il valore ottimale

del ∆n al variare della portata, a costanti carat-teristiche reologiche della pasta (bassa o alta di-luizione e grado di invaiatura delle olive), nel-le figure 9 e 10 si sono riportati, estrapolandolidai corrispondenti diagrammi generali, i valoriottimali del rendimento di estrazione al variaredella portata.

La curva di correlazione tracciata nel dia-gramma di figura 9, riferita al decanter model-lo X20 sperimentato, evidenzia che in un inter-vallo di portata molto ampio (1800-2800 kg/h),agendo sul ∆n si possono ottenere rendimentielevati, superiori a quelli delle macchine nondotate di tale dispositivo, e pressoché costanti(Amirante R. et al., 1999).

La curva tracciata a media diluizione (fig. 10)evidenzia valori accettabili del rendimento perportate tra 1600 e 2800 kg/h, ma con sensibiliriduzioni del rendimento per portate più eleva-te. Quindi è possibile affermare che l’effettocongiunto, di maggiore diluizione e maggioreportata, costituisce di fatto un incremento com-

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

154

Figura 8. Decanter di vecchia concezione dove si può notare l’assenza del rotismo epicicloidale compensatore a controlloautomatico, la spira doppia, il punto di alimentazione della pasta quasi centrale e l’assenza di barriera per la dinamica com-pressione della pasta (sopra). VDP-decanter UVNX X20 in cui sono presenti le seguenti soluzioni costruttive innovative:velocità variabile della coclea con rotismo epicicloidale compensatore a controllo automatico, aumento del passo delle spi-re, punto di alimentazione (sotto).

Figure 8. Old style decanter without the following construction details: epicyclic train system compensator with automaticcontrol, double coil, the almost central positioning of the paste feeding point and the barrier for the paste dynamic com-pression (above). VDP-decanter UVNX X20 in which are present the following innovative construction details: variablespeed of the cochlea with epicyclic train system compensator with automatic control, increase of the coil pace, feedingpoint (under).

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/231("2 1 .4102",.31("2

5("( /,-2,,(

6.--12-. . 1/5(/�1-. /1"7(4.

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plessivo della portata totale e ciò agisce negati-vamente sulle prestazioni della macchina (Ami-rante R. et al., 1999).

Analizzando l’andamento del rendimento diestrazione in funzione della portata totale deldecanter (somma della portata di pasta oleariae di quella dell’acqua di processo) per i due va-lori di diluizione, risulta evidente l’influenza delvalore della diluizione della pasta olearia sulrendimento di estrazione; infatti, a parità di por-tata totale il rendimento diminuisce sensibil-mente al crescere della diluizione ed esiste sem-pre un valore ottimale del ∆n che consente diottenere rendimenti sensibilmente elevati.

Inoltre, è possibile riscontrare che tali ren-dimenti raggiungono valori superiori all’85%,non facilmente ottenibili con altri decanter diprecedente concezione costruttiva, mantenendobassa la diluizione e regolando il ∆n in un in-tervallo di valori compresi tra 9 e 13 giri/min,in funzione della portata della pasta al decan-ter che, per il modello sperimentato, può varia-re nell’intervallo 2000-2700 kg/h, superando lacapacità massima di lavorazione garantita dalladitta costruttrice.

Ai fini di una migliore gestione del proces-so non va trascurato l’aspetto delle riduzioni deivolumi delle acque di vegetazione prodotte.

Dall’esame dei grafici si riscontra altresì chele acque di vegetazione prodotte lavorando abasse diluizioni della pasta, sono contenute in

valori del 30% (30 kg di acque di vegetazio-ni/100 kg di olive), mantenendo l’umidità dellasansa in termini del 50% circa (Amirante R. etal., 1999).

In conclusione, quindi, con le suddette inno-vazioni tecnologiche è possibile aumentare lerese di estrazione e le capacità di lavorazione aparità di lunghezza del tamburo, riducendo leacque di vegetazione e consentendo altresì diprevedere miglioramenti della qualità dell’olioestratto per la minore quantità di acqua di pro-cesso immessa nel decanter.

Dall’analisi delle figure 9 e 10 si possonotrarre le seguenti ulteriori considerazioni:– esiste sempre un valore di ∆n che rende si-

gnificativamente elevato il valore del rendi-mento per qualunque condizione di lavora-zione delle olive (portata della pasta e suadiluizione);

– il ∆n ottimale risulta crescente con la porta-ta della pasta, sia in termini di rendimentoche di grasso residuo nelle sanse per bassediluizioni, mentre per le medie diluizioni ri-sulta, in genere, più conveniente utilizzarevalori di ∆n più elevati, in quanto la per-centuale di acqua di processo aggiunta allapasta influenza in modo significativo il valo-re della portata totale del decanter;

– le migliori condizioni operative, con rendi-menti compresi nell’intervallo 85-90%, risul-tano quelle corrispondenti alle basse dilui-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:147-161

155

Bassa diluizione (8 - 15 %)

75.00

80.00

85.00

90.00

95.00

100.00

12 16 20 24 28 32 36 40

Portata della Pasta (100 kg/h)

Ren

dim

ento

(%

)

Dn = 7

Dn = 9

Dn = 11

Dn = 13

Dn = 15

Massimorendimento

Media diluizione (18 - 26 %)

75.00

80.00

85.00

90.00

95.00

100.00

12 16 20 24 28 32 36 40

Portata della Pasta (100 kg/h)

Ren

dim

ento

(%

)

Dn = 9

Dn = 11

Dn = 13

Dn = 15

Massimorendimento

Figura 9. Andamento del rendimento di estrazione nelleprove effettuate sul decanter X20, in funzione della porta-ta della pasta olearia per bassi valori della diluizione dellapasta e per diversi valori del ∆n.

Figure 9. The extraction performance curve in trials whendecanter X20 was used in function of the ranges of oil pa-ste for low values of paste dilution and for different valuesof ∆n.

Figura 10. Andamento del rendimento di estrazione nelleprove effettuate sul decanter X20, in funzione della porta-ta della pasta olearia per valori medi della diluizione dellapasta e per diversi valori del ∆n.

Figure 10. The extraction performance curve in trials whendecanter X20 was used in function of the ranges of oil pa-ste for low values of paste dilution and for different valuesof ∆n.

zioni con portate della pasta che possonoraggiungere valori elevati, anche leggermen-te superiori a 2500 kg/h e, comunque, nel-l’intervallo 2000-2500 kg/h.L’impiego di decanter VDP con ∆n variabi-

le e del decanter a risparmio d’acqua ha con-sentito di proporre impianti innovativi con snoc-ciolatrici ed altri sistemi di frangitura montati inparallelo.

Lo studio comparativo delle caratteristichereologiche di paste di oliva ottenute con diver-si sistemi di frantumazione, sia tradizionali, qua-li frangitore a martelli, molazza e frangitore adischi dentati, che innovativi come la snocciola-trice, ha fornito utili indicazioni sugli aspetti co-struttivi della macchina snocciolatrice, nonchéprecise indicazioni sui parametri di regolazionedelle singole operazioni elementari del proces-so di estrazione.

La nuova filosofia dell’innovazione tecnolo-gica nell’estrazione olearia è, quindi, indirizzataall’incremento della qualità dell’olio estratto, in-crementando il contenuto in componenti mino-ri, migliorando gli aspetti edonistiche, nutrizio-nali e salutistiche dell’olio prodotto.

Valutando il contenuto medio dei fenoli to-tali negli oli ottenuti con la tecnica della de-nocciolatura, si evidenzia una quantità superio-re di circa del 10% rispetto all’utilizzo in fasedi preparazione della pasta del frangitore. I ri-sultati ottenuti impiegando la denocciolatriceconfermano quindi, ciò che era già stato evi-denziato in precedenti ricerche condotte dagliautori (Amirante P. et al., 2001; Amirante P. etal., 2002).

Come spiegato da Salas, Williams, Sanchez eHarwood nel 1999 il contenuto in fenoli neglioli estratti, impiegando la denocciolatrice, èmaggiore rispetto alle tecnologie che prevedo-no la frantumazione dell’oliva intera, in quanto,insieme al nocciolo, vengono allontanati la mag-gior parte degli enzimi ossidoreduttasici localiz-zati soprattutto nella mandorla.

4. Innovazioni costruttive per le lavorazioni fles-sibili nella filiera corta

Le suddette innovazioni hanno consentito direndere disponibili impianti flessibili con possi-bilità di montare sistemi alternativi di frangitu-ra, gramolazione ed estrazione a due o tre fasi,

anche attraverso l’uso di sensori e relative sche-de di acquisizione dei dati, che consentono dimonitorare e registrare su computer le moda-lità di estrazione, rendendo così possibile la trac-ciabilità del processo e di lavorare anche all’in-terno di aziende agricole, realizzando così pro-cessi di lavorazione a filiera corta.

Da questa ricerca è scaturito il primo pro-totipo di impianto, denominato OLIVER 500(fig. 11), progettato e realizzato per consentireanche alle piccole e medie aziende olivicole diavere un proprio frantoio con il quale ottenereun prodotto di eccellenza, grazie alla dotazionedi soluzioni impiantistiche di elevata tecnologia.

In tali condizioni produttive, le olive, freschedi raccolta, possono essere lavorate nell’im-pianto con alternative di processo e differen-ziazioni tecnologiche in grado di ottenere l’oliocon le caratteristiche richieste. Questo impiantoè dotato di due diversi sistemi di frantumazio-ne delle olive (frangitore a dischi e denocciola-trice) e tre diversi sistemi di gramolazione (conesposizione all’aria, gramola confinata e sottoatmosfera di gas inerte), pertanto, con una pre-parazione della pasta più o meno delicata e va-riando la composizione dell’atmosfera dello spa-zio di testa della gramola, è possibile bilanciarela sintesi degli aromi con l’integrità del patri-monio antiossidante dell’olio. L’impianto è com-pletato con un decanter dotato delle più recen-ti innovazioni tecnologiche e, lavorando a duefasi, con la successiva pulizia dell’olio con un se-paratore appositamente progettato, consente diottenere un olio di elevata qualità, liberando l’a-

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

156

Figura 11. Impianto Alfa Laval OLIVER 500.

Figure 11. Alfa Laval OLIVER 500 plant.

zienda agricola dal problema di gestione delleacque si vegetazione.

Lo scopo del presente lavoro è stato quellodi valutare le prestazioni del prototipo del mi-ni decanter attraverso un confronto con un de-canter industriale della serie X32. Le prove so-no state condotte sia sulle paste integrali, uti-lizzando la molazza inserita nella linea di pro-duzione della serie X32, sia sulle paste denoc-ciolate. Dopo aver confrontato le rese in olio,in prove successive, è stata valutata l’influenzadel sistema di frangitura e delle condizioni digramolazione sulla qualità degli oli. Grazie allaampia flessibilità della gramola in dotazione almini frantoio è stata testata l’influenza dellacomposizione dell’atmosfera a contatto con lapasta olearia. Sugli oli ottenuti sono stati valu-tati oltre ai parametri convenzionali, utilizzatiper la classificazione merceologica (acidità, nu-mero perossidi, assorbimento specifico nell’ul-travioletto), anche la quantità di fenoli, respon-sabili delle proprietà antiossidanti dell’olio, e laquantità di composti volatili, che conferisconoal prodotto gli aromi gradevoli tipici di verde,fruttato ed erba appena tagliata.

4.1 Scelta del sistema di frangitura: effetti sullaqualità dell’olio

La presenza dei fenoli negli oli e la generazio-ne dei composti volatili attraverso le reazioni diossidazione degli acidi grassi polinsaturi sonoaspetti fortemente condizionati dal sistema difrangitura delle olive. Nessun sistema di frangi-tura può essere considerato migliore di un al-tro, ma ciascuno determina effetti sul prodotto,positivi o negativi, in funzione della cultivar uti-lizzata.

Quando la drupa viene frantumata, i tessutivegetali vengono lacerati, i compartimenti cel-lulari distrutti, quindi gli enzimi e i substrati chenella drupa integra erano confinati in spazi di-stinti si incontrano innescando le reazioni desi-derate o indesiderate.

Nel caso dei composti fenolici, la frangituralibera gli enzimi quali le polifenolossidasi e leperossidasi che ossidano i fenoli riducendone laconcentrazione nel prodotto finito. Nell’attivitàdi ricerca svolta sono stati confrontati gli effet-ti della molazza e della denocciolatrice sullaquantità di fenoli presenti negli oli estratti. Alfine di escludere l’influenza dei fenomeni ossi-dativi che possono avvenire in fase di gramola-

zione, le prove sono state condotte saturando lospazio di testa della gramola con azoto; ciò inquanto gli enzimi polifenolossidasi e perossida-si necessitano della presenza dell’ossigeno, checostituisce uno dei substrati della reazione. Perquanto riguarda i campioni estratti utilizzandola molazza, gli oli di Coratina presentavano uncontenuto medio in fenoli pari a 386 ± 27 ppm,mentre gli oli di Peranzana presentavano uncontenuto medio in fenoli pari a 278 ± 36 ppm.I campioni estratti utilizzando la denocciolatri-ce, per gli oli di Coratina, presentavano un con-tenuto medio in fenoli pari a 463 ± 29 ppm,mentre per gli oli di Peranzana, presentavanoun contenuto medio in fenoli pari a 313 ± 23ppm. Il contenuto in fenoli è maggiore negli oliestratti impiegando la denocciolatrice in quan-to, insieme al nocciolo, vengono allontanati lamaggior parte degli enzimi ossidoreduttasici lo-calizzati soprattutto nella mandorla (Sala set al.,1999).

La frangitura mediante molazza, al contra-rio, favorisce l’ossidazione dei fenoli in quantoconsiste in una lunga operazione di schiaccia-mento e rimescolamento delle drupe che espo-ne un’ampia superficie della pasta olearianeoformata all’aria. In note precedenti gli au-tori hanno invece riportati i risultati di con-fronto tra la molazza e il frangitore a martelli:anche nel caso degli oli estratti con il frangito-re si ha un contenuto in fenoli superiore rispettoagli oli ottenuti con la molazza, tuttavia in que-sto caso oltre all’aspetto riconducibile ad unaminore esposizione all’ossigeno della pasta infase di frangitura, c’è da considerare il dannotermico che inattiva i pool enzimatici (sia gli en-zimi con azione negativa che positiva); la pastaolearia, infatti, subisce un notevole riscalda-mento dovuto alla grande energia rotazionaledei martelli che si converte in energia termica.

In generale, si può suggerire l’utilizzo dellamolazza qualora si lavorino cultivar molto ric-che in fenoli che conferiscono all’olio un sapo-re eccessivamente amaro e piccante; questa scel-ta tecnologica consente di arrotondare il gustodell’olio. Una frangitura più delicata del frangi-tore a martelli può essere ottenuta con il fran-gitore a dischi di cui è dotato anche il mini im-pianto. Se l’obiettivo è ottenere oli più armoni-ci e più stabili nel tempo una soluzione conve-niente è la denocciolatrice in quanto consentel’allontanamento, insieme alla mandorla, degli

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enzimi responsabili dell’ossidazione dei fenoli econtemporaneamente, poiché non riscalda la pa-sta, preserva gli enzimi della via metabolica del-la lipossigenasi che vengono danneggiati dal ca-lore. È chiaro che operando questa scelta tec-nologica si deve tener conto delle lievi perditedi resa che possono essere però compensate daun elevato valore aggiunto del prodotto.

4.2 Scelta del sistema di gramolazione: effetti sul-la qualità dell’olio

La fase cruciale del processo di trasformazione,nella quale si può creare o distruggere la qua-lità, è la gramolazione, in quanto costituisce ilmomento in cui le reazioni enzimatiche avven-gono con più facilità grazie ai tempi di impa-stamento ed alle temperature relativamenteblande di riscaldamento della pasta di olive.Questa fase è anche decisiva per l’innalzamen-to delle rese che rappresenta sempre l’obiettivopiù importante dall’attuale punto di vista deiproduttori.

Durante la suddetta operazione si realizza-no le condizioni che favoriscono lo svolgimen-to di diverse reazioni enzimatiche in concomi-tanza con variazioni notevoli delle proprietàreologiche della pasta olearia. La fase che pre-cede la gramolazione, quindi la fase di frangi-tura, e quella che la segue, la separazione cen-trifuga, possono esaltare o ridurre gli effetti del-la gramolazione stessa.

L’attività di ricerca sviluppata ha avuto loscopo di verificare l’influenza delle diverse con-dizioni operative sulla componente fenolica esui composti volatili in particolare testando l’in-fluenza della composizione dell’atmosfera acontatto con la pasta di olive in fase di gramo-lazione.

L’impianto dotato di gramola ermetica, è sta-to testato, in una prima fase, mantenendo la gra-mola aperta. Le successive ricerche sono statecondotte chiudendo la gramola ermeticamente,mentre l’ultima fase della sperimentazione harichiesto la saturazione dello spazio di testa me-diante l’immissione di azoto. I risultati conse-guiti possono essere cosi riassunti.

Quando la gramola è stata mantenuta aper-ta i campioni di olio analizzati mostravano perla cultivar Coratina un contenuto medio in fe-noli di 269 ± 37 ppm, mentre per la cv Peran-zana un contenuto medio pari a 181 ± 23 ppm.Gli oli estratti da paste denocciolate presenta-

vano rispettivamente 307 ± 21 ppm per la cvCoratina e 206 ± 35 ppm per la cv Peranzana.Tali valori erano inferiori di circa il 30 % ri-spetto ai risultati ottenuti con la gramola confi-nata e di circa il 40% rispetto agli oli ottenutiin atmosfera controllata.

Per quanto riguarda l’andamento dei com-ponenti volatili, possiamo concludere che ilquantitativo minore è stato riscontrato negli oliestratti dalla pasta di olive lavorata in gramolaaperta rispetto alle altre due condizioni speri-mentali. Tale effetto può essere ricondotto aduna fuga dei composti volatili neo formati nel-l’ambiente. Gli oli ottenuti con una gramolazio-ne in atmosfera controllata, cioè in assenza diossigeno, presentavano un profilo aromatico piùpovero sia nella quantità che nella qualità deicomposti volatili. Tale risultato può essere spie-gato alla luce del fatto che la sintesi dei com-posti volatili caratteristici dell’olio di oliva ri-chiede la presenza di ossigeno.

Una prova supplementare ha riguardato ilmonitoraggio della concentrazione di ossigenoall’interno della gramola ermeticamente chiusa.Come è possibile osservare dalla figura 12, laconcentrazione di ossigeno durante la gramola-zione decresce progressivamente perché vieneutilizzato dai sistemi enzimatici.

Monitorando il valore del numero di peros-sidi dell’olio estratto a tempi crescenti di gra-molazione non si osserva una variazione signi-ficativa di questo parametro. Questo dato puòessere spiegato alla luce del fatto che la lipos-sigenasi catalizza in una prima fase l’ossidazio-ne dell’acido grasso polinsaturo nel corrispon-dente idroperossido; in una seconda fase l’enzi-

Amirante P., Clodoveo M.L., Leone A., Tamborrino A.

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Figura 12. Concentrazione di ossigeno monitorato all’inter-no della gramola ermetica durante il rimescolamento dellapasta olearia.

Figure 12. Oxygen concentration monitored inside of her-metic malaxer during heating of oil paste.

Minuti

Oss

igen

o (m

l/l)

ma idroperossido liasi spezza l’idroperossidoprecedentemente ottenuto in due parti, produ-cendo un aldeide volatile e un ossiacido non vo-latile (Salas e Sanchez, 1999). Il numero di pe-rossidi probabilmente non aumenta in quantol’idroperossido liasi possiede un’attività moltopiù elevata della lipossigenasi e quindi riesce aconsumare immediatamente gli idroperossidineoformati. Questa ipotesi è stata già dimostra-ta sulle cultivar Leccino (Commessatti, 2005).Ciò significa che l’ossigeno viene sequestratocon molta rapidità dagli enzimi che ossidano ifenoli e producono aromi e non si rende dispo-nibile per la reazione di autossidazione degliacidi grassi.

I vantaggi conseguiti dall’utilizzo della gra-mola ermetica riguardano sia la componente fe-nolica che aromatica; da un lato gli enzimi chedeterminano la degradazione ossidativa dei fe-noli vengono progressivamente inibiti dalla di-minuzione della concentrazione di ossigeno; dal-l’altro i composti volatili di neoformazione chesi originano dal patway della lipossigenasi ven-gono confinati nella gramola e non si disperdo-no nell’ambiente circostante come nel caso del-le gramole aperte. Saturando, invece, lo spaziodi testa della gramola con azoto vengono inibi-ti gli enzimi che determinano la degradazioneossidativa dei fenoli, ma l’olio ottenuto risultameno ricco di aromi poiché viene a mancarel’ossigeno che è uno dei substrati della lipossi-genasi (Amirante P. et al., 2005).

4.3 Prestazioni funzionali dell’impianto per fi-liera corta

Al fine di verificare il reale stato di funziona-mento dell’impianto sono state effettuate provesperimentali di confronto tra il mini decanterOLIVER 500 e il decanter industriale modelloX32. Entrambi i decanter sono stati testati uti-lizzando paste integrali e paste denocciolate.Note scientifiche precedenti hanno già dimo-strato sui decanter industriali che, per ogni va-lore di ∆n esiste un valore di portata che con-sente di ottenere la massima resa (Amirante P.et al., 2000; Amirante P. et al., 2002). Prove ana-loghe sono state condotte sul mini decanter alfine di valutare come varia la resa di estrazio-ne in olio al variare della portata della pastaolearia in ingresso nella centrifuga. Lo scopo ditali prove è dunque l’individuazione della por-tata ottimale di lavorazione del decanter. Le

prove condotte in un triennio su paste integra-li hanno mostrato che le portate che sono mol-to influenzate dalle caratteristiche delle olive.

Infatti, nelle prove eseguite sulle varietà Co-ratina e Peranzana, i valori delle capacità di la-vorazione sono variati, per lavorazioni eseguitesu paste integrali da 360 a 760 kg/h ed hanno mo-strato che il mini impianto garantisce rese para-gonabili a quelle di un impianto industriale.

Nelle prove eseguite su varietà difficili,Ogliarola salentina e Cellina di Nardò, i valoridelle capacità di lavorazione per prove condot-te su paste integrali hanno consentito di otte-nere portate variabili da 360 a 460 kg/h, riscon-trando, altresì, che il mini impianto garantiscerese paragonabili a quelle di un impianto indu-striale. La portata del mini decanter con pasteintegrali ha conseguito valore lievemente infe-riori di circa il 10%.

5. Conclusioni

La ricerca sviluppata dalla sezione meccanicadel Dipartimento PRO.GE.SA in collaborazio-ne con le ditte costruttrici di impianti di estra-zione, ha consentito la messa a punto di tecno-logie di estrazione innovative che tendono al-l’utilizzo di impianti sia di piccole dimensioniper filiere corte, sia di sempre maggiori capacitàdi lavorazione, non inferiori a 2-5 t/h per filie-re destinate alla produzione di oli standard, consistemi di regolazione dei parametri di proces-so molto flessibili, che possano anche consenti-re l’automazione dei sistemi di regolazione delprocesso.

La valutazione disgiunta delle operazioneelementari che definiscono il processo di estra-zione ha consentito di constare l’esigenza di mo-nitorare in modo continuo le operazioni di fran-gitura, di gramolazione e di estrazione; tuttaviaè opportuno puntare a sistemi di frangitura cheriducano la ruvidezza delle paste e su tempi etemperature di gramolazioni in limiti contenutie tali da non favorire i processi di ossidazionedell’olio; inoltre, nella estrazione con decanter èindispensabile ridurre l’acqua di processo ag-giunta e utilizzare estrattori che consentano unaadeguata regolazione dei parametri di processo.

L’estrazione dell’olio extravergine di olivada paste snocciolate, di cui si è, anche, riferitonella presente nota, consente attualmente di es-

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sere eseguita con impianti in scala reale conportate 2-2.5 t/h che garantiscono una qualitàdell’olio decisamente elevata.

La ricerca, svolta nelle recenti campagneolearie, ha fornito utili indicazioni sugli aspetticostruttivi della macchina denocciolatrice, non-ché precise indicazioni sui parametri di regola-zione delle singole operazioni elementari delprocesso di estrazione.

Inoltre, si è riscontrata una buona efficienzadell’impianto con rese di estrazione ottimali, an-che in relazione al differente bilancio di massaed alle modificate caratteristiche reologiche del-la pasta olearia ottenuta con la macchina de-nocciolatrice.

La nuova filosofia dell’innovazione tecnolo-gica nell’estrazione olearia è, quindi, indirizzataall’incremento della qualità dell’olio estratto, ri-ducendo la degradazione dei trigliceridi ed in-crementando il contenuto in componenti mino-ri nell’olio, al fine di preservare le sue caratte-ristiche chimico-fisiche, migliorandone le qualitàedonistiche, nutrizionali e salutistiche.

Il proseguimento delle attività di ricerca ese-guite congiuntamente a ditte costruttrici e aiproduttori sarà indirizzato alla modifica di al-cune operazioni elementari per aumentare l’e-strazione di quei componenti minori che con-tribuiscono a caratterizzare la qualità dell’olioestratto e alla messa a punto di impianti di pic-cole dimensioni dotati sistemi di lavorazione tec-nologicamente avanzati e flessibili destinati allaproduzione di oli di alta gamma e di areali pro-duttivi ben definiti, garantendo una sicura rin-tracciabilità della zona di produzione dell’olio.

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Alimenti e salute – Il contributo dell’Economia agro-alimentare

Franco Baraldi, Maurizio Canavari, Domenico Regazzi*, Roberta Spadoni

Dipartimento di Economia e Ingegneria Agrarie, Alma Mater Studiorum, Università di BolognaViale G. Fanin 50, 40127, Bologna

Società Italiana di Economia Agro-alimentare

RiassuntoL’analisi del rapporto tra alimentazione e salute secondo le dimensioni innovazione, sicurezza e benessere viene svoltaconsiderando la prospettiva degli economisti agro-alimentari. Relazioni e significati sono affrontati definendo quindicoerentemente il campo di osservazione e le scelte adottate. Lo strumento utilizzato per l’indagine è un’originale ana-lisi quali-quantitativa dei contributi degli economisti italiani (pubblicazioni, convegni) inerenti all’ambito di studio. Inparticolare si sono esaminati i contributi pubblicati in alcune delle principali riviste italiane del settore, i convegni or-ganizzati a livello nazionale ed europeo dalle principali società scientifiche. Si propone una classificazione coerente conl’analisi, temporalmente limitata agli ultimi 8 anni. Tale classificazione diviene il database strumentale allo studio. Laclassificazione adottata per l’analisi dei contributi di ricerca si è avvalsa di ricerche analoghe svolte in ambito interna-zionale. Dalla lettura di tali studi è stato possibile elaborare e definire un modello di riferimento originale, funzionaleagli obiettivi della relazione. Dall’analisi del database scaturiscono informazioni multiple relative: alla tipologia di in-dagini svolte (case study, bibliografiche, settoriali, ecc.), ai filoni di ricerca maggiormente percorsi (ambito produttivo,fase al dettaglio, fase al consumo, ecc.), alla tipologia di metodologie adottate (quantitative, qualitative, ecc.) e alla lo-ro classificazione, al destinatario della ricerca (ricerca pura, decisore pubblico, imprese, ecc.). I risultati sono espressi se-condo differenti approcci e strumenti considerando anche le possibili variabili esogene presenti nella realtà. L’analisi hapermesso di individuare quali sono gli ambiti di ricerca che interessano il rapporto tra alimenti e salute nei quali sonomaggiormente coinvolti gli economisti agro-alimentari. Inoltre, è stato possibile descrivere quali, a nostro avviso, sono,potrebbero, o dovrebbero essere gli sviluppi delle ricerche in materia, evidenziando i limiti e le prospettive.

Parole chiave: alimenti, salute, ricerca, economia agro-alimentare, analisi qualitativa.

Summary

FOOD AND HEALTH-CONTRIBUTE OF AGRI-FOOD ECONOMICS

The analysis of the relationship between food and health in a context of innovation, safety and welfare is carried outconsidering the view of agri-food economists. Relationships and meanings are addressed defining by the scope of ob-servation and choices. We adopt a qualitative and quantitative analysis of the scientific contributions of Italian econo-mists (publications, conferences, etc.) in this field. In particular we have examined the contributions published in someof the main Italian journals and the conferences organized in Italy and in Europe from the major scientific societies.We propose a classification that is consistent with the analysis and is in the span of time 2000/2007. The classificationadopted for the analysis of the contributions of research exploits similar research carried out at the international lev-el. By reading these studies we were able to process and define a model to interpret findings of the previous literature.An analysis of database information is useful to study: the type of investigation (case study, bibliographic, sectorial,generic, etc.) the branches of more diffused research (field production, retail, consumption, etc.), the types of adoptedmethodologies (quantitative, qualitative, etc.), the involvement among research groups (universities, public and privateinstitutions, involvement of foreign researchers, etc.), the beneficiaries of research (pure research, policy makers, busi-nesses, etc.). The results will be expressed on the basis of different approaches, tools and considering the possible ex-ogenous variables affecting reality. The analysis will allow to identify the areas of research which involve the relation-ship between food and health and in which agri-food economists are more involved. In addition, we can describe themost promising areas of research which should be undertaken or strengthened. Attention will be placed also in high-lighting the link between research and production in the broadest sense, to gather information about the level of itsappropriateness.

Key-words: food, health, research, agro-food economy, qualitative analysis.

* Autore corrispondente: tel.: +39 051 2096105; fax: +39 051 2096106. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:163-170

1. Contesto ed obiettivi

Il presente studio si propone, come obiettivo ge-nerale, di mettere in evidenza il contributo de-gli economisti agro-alimentari italiani allo svi-luppo delle ricerche in materia di relazione traalimenti e salute1. In particolare, vengono con-siderati quegli argomenti che possono essere ri-condotti ai concetti di innovazione, di sicurezzae di benessere degli individui e degli animali. Ladefinizione del contesto è in questo caso parti-colarmente utile e sviluppata, perché strumen-tale alla condivisione dei percorsi logici fondantile scelte metodologiche adottate e al dominiodell’oggetto di ricerca.

Il termine alimento, che deriva dal latino alo“faccio crescere”, oltre ad indicare sostanze cherispondono ai bisogni di sostentamento biologi-co, ha acquisito, ove queste esigenze primariesiano superate, ulteriori significati di tipo cultu-rale e simbolico. L’alimentazione è quindi fon-damentale per la salute e strettamente connes-sa con lo sviluppo di tutti gli aspetti fisici, emo-tivi, mentali e spirituali dell’uomo. Infatti, anchela parola dieta significa (dal greco) “modo di vi-vere”, ed in particolare “stile di vita confacentealla salute”. Il significato oggi generalmente ac-cettato del termine salute come “stato di com-pleto benessere fisico, psichico e sociale e nonsemplice assenza di malattia” (OMS), chiarisceulteriormente che occuparsi di alimenti signifi-ca anche studiare gli effetti che essi hanno sul-la salute; essa può quindi essere intesa comeun’insieme di fabbisogni da soddisfare, anchemolto diversi tra loro. Il rapporto tra alimenti esalute verrà qui analizzato considerando i treambiti dell’innovazione, sicurezza e benessere.Anche in questo caso è molto utile richiamareil significato di tali parole. Se per innovazionela comprensione risulta immediata e condivisi-bile, si ritiene sia necessario specificare a qualeaccezione di sicurezza alimentare si fa riferi-mento e chiarire l’interpretazione del terminebenessere. La sicurezza alimentare viene spessoconsiderata una definizione ambigua essendousata sia per indicare la sicurezza igienico-sani-taria degli alimenti (Food Safety), sia la sicu-rezza della disponibilità di alimenti per la po-polazione o che approvvigionamenti non ven-gano volontariamente contaminati a fini terro-ristici (Food Security); si è scelto di considerareentrambi i significati. Il benessere viene defini-

to come “stato emotivo, mentale, fisico, socialee spirituale di ben-essere che consente alle per-sone di raggiungere e mantenere il loro poten-ziale personale nella società” (European Ob-servatory on Health Systems and Policies, 2001).Dall’accezione che faceva coincidere il benes-sere con la salute (assenza di patologie), neltempo si sono coinvolti tutti gli aspetti dell’es-sere (fisico, emotivo, mentale, sociale e spiritua-le). Il concetto di “ben-essere” è in continuaevoluzione perché legato all’attuale livello disoddisfacimento dei bisogni e dall’emergenza dinuove esigenze.

L’analisi del rapporto tra alimenti e saluteda un punto di vista economico ha insito nellasua definizione i concetti di allocazione delle ri-sorse, scelta e massimizzazione della soddisfa-zione. È quindi particolarmente complessa inquanto coinvolge non solo le ripercussioni del-le scelte degli aspetti tecnologici e produttivi,ma anche quelle relative alle politiche, all’am-bito sociale e al comportamento degli individui.

Pur considerando tale complessità, il nostroraggio d’azione è limitato ad un ambito specifi-co: oggetto d’indagine è il sistema agro-alimen-tare nelle sue diverse fasi di produzione, tra-sformazione/commercializzazione e consumo ele analisi in materia che considerano principal-mente il rapporto tra alimenti e salute. In talianalisi, gli studi possono riguardare gli effettidelle scelte operate dai soggetti interessati, con-siderando le specificità proprie delle fasi sud-dette: nella fase alla produzione il concetto discelta è evidente nel momento in cui, sia a li-vello micro che macro, ci si pongono le do-mande come “cosa produrre? Come produrre?Quale impatto avranno tali scelte sull’ambien-te?, ecc.”; nella fase successiva della trasforma-zione si evidenziano le implicazioni relative ascelte sul quando e sul come (ad es. la sceltadelle tecnologie da adottare deve passare attra-verso un’analisi dei costi e delle alternative, op-pure tutte le scelte conseguenti alle analisi di

Baraldi F., Canavari M., Regazzi D., Spadoni R.

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1 La scelta di considerare solo i contributi degli econo-misti agroalimentari italiani è stata dettata dalle moti-vazioni per cui lo studio è stato effettuato: evidenziarelo stato dell’arte delle attività delle Società socie del-l’AISSA (Associazione Italiana Società ScientificheAgrarie) e limitare lo studio al loro ruolo nello svilup-po delle ricerche in materia.

mercato). Per quanto riguarda la commercializ-zazione, potrebbero interessare le implicazionidell’adozione di regole specifiche sia nel mer-cato interno, sia per l’import/export; nella faseal consumo, sono evidenti le scelte relative agliaspetti nutrizionali, gustativi e alla salubrità deiprodotti, alla loro modalità di conservazione, alsistema di comunicazione e di diffusione delleinformazione, alle ripercussioni sociali e psico-logiche delle scelte del consumatore ed infineall’analisi della soddisfazione.

Oltre a considerare le diverse fasi del siste-ma agro-alimentare, l’analisi del rapporto ali-menti e salute deve valutare gli effetti del con-dizionamento di altre variabili come il tempo, latipologia d’effetto e l’evoluzione della comuni-cazione. La variabile temporale genera effetti sulcambiamento degli aspetti economici e sociali esull’evoluzione di concetti, come quello di salu-te (da mancanza di malattie a tutela complessi-va dell’uomo e prevenzione) e nelle percezioniad essi associate; inoltre nel tempo si possonoverificare eventi “traumatici” che alterano, daquel momento la situazione precedente (ad es.lo scandalo del vino al metanolo nel 1986 mo-difico profondamente il mercato vitivinicolo ita-liano; la BSE, cd. malattia della “mucca pazza”,dieci anni più tardi provocò cambiamenti nellescelte d’acquisto dei consumatori e di conse-guenza dell’intero sistema produttivo). Le ana-lisi devono tenere in considerazione che le mo-dalità di produzione e le caratteristiche degli ali-menti possono avere un effetto diretto sulla sa-lute (ad es. salubrità del prodotto ed elementiche la tutelano) ed altre invece hanno influen-za indiretta, ad esempio sull’ambiente. La gene-razione, lo sviluppo e la gestione delle informa-zioni e della comunicazione influenzano pesan-temente gli effetti delle scelte e degli eventi, so-prattutto nell’attuale periodo storico che ha re-gistrato il consolidarsi della società della cono-scenza e dello sviluppo delle ICT (Informationand Comunication Technologies), con tutte leconseguenze positive e negative che ne derivano.

La complessità della materia richiede a chisi occupa di fare ricerca in tali ambiti di ri-spondere in modo adeguato alla richiesta dicomprensione dei fenomeni passati, in atto e fu-turi, legati al continuo evolversi delle implica-zioni tra alimenti e salute. Queste esigenze ve-dono gli economisti agroalimentari impegnati aconsolidare il loro ruolo di “ricercatori” abitua-

ti da sempre a confrontarsi con gli operatori delsettore e a fare i conti con una inevitabile e ne-cessaria contaminazione con discipline molto di-verse tra loro. Per fornire alcune indicazioni sul-l’evoluzione delle scelte di ricerca operate daglieconomisti, ovviamente influenzate anche dafattori esogeni al mondo della ricerca, il pre-sente contributo ha come obiettivo specifico dipresentare un’analisi preliminare dei contributipubblicati dagli economisti agroalimentari su ar-gomenti connessi al rapporto tra alimenti e sa-lute per fare il punto sulla ricerca e fornire labase ad ulteriori approfondimenti.

La vastità degli approcci possibili e la com-plessità dell’analisi richiedono la definizione deiconfini entro i quali tale studio si colloca, de-scrivendo coerentemente il campo di osserva-zione e le scelte adottate per non rischiare diapparire troppo parziali e superficiali.

2. Materiali e metodi

Lo strumento utilizzato per l’indagine è un’a-nalisi bibliografica degli articoli pubblicati daglieconomisti agroalimentari italiani nelle princi-pali destinazioni editoriali per il settore ed ine-renti all’ambito di ricerca in oggetto. In parti-colare si sono esaminati i contributi pubblicatisu riviste italiane del settore e negli atti di con-vegni organizzati a livello nazionale ed europeodalle principali società scientifiche italiane edeuropee.

Si è deciso di limitare temporalmente l’ana-lisi al periodo 2000-2007. Per la scelta delle col-locazioni editoriali, sono state considerate leinformazioni contenute nel documento redattodal gruppo “Valutazione della didattica” dellaSIDEA – Società Italiana di Economia Agraria(2007). In tale documento è riportata una listapuntuale e completa delle riviste scientifiche sucui gli economisti agrari, italiani e non, hannopubblicato negli ultimi periodi, contenente ben151 riviste. In tale documento si mette in evi-denza l’elevato potenziale di sbocchi per la di-vulgazione ma si registra anche che nella realtàgli economisti agrari concentrano la diffusionedei loro lavori solo su poche riviste. È per que-sta ragione che si è scelto di limitare l’analisi al-le riviste, e agli articoli, in esse contenuti, che ri-spondessero ai seguenti requisiti:

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:163-170

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– fossero il punto di riferimento all’internodella comunità scientifica di appartenenzaitaliana. In accordo con il gruppo che ha re-datto il documento SIDEA, si è verificatoche esistono due riviste che per tradizione ri-spondono a tale esigenza: la Rivista di Eco-nomia Agraria e quella di Economia Agro-alimentare. Quest’ultima, in particolare, èespressione della SIEA – Società Italiana diEconomia Agro-alimentare;

– interpretassero la specificità dell’argomentodel presente lavoro. Non sono state esami-nate quelle riviste il cui fine si realizza so-stanzialmente nella collezione di contributiincentrati principalmente od esclusivamentesul settore primario, degli aspetti istituziona-li, politici o legislativi;

– assicurassero la presenza di referee, garantidel valore scientifico dei contributi;

– presentassero tra gli autori dei singoli con-tributi un economista agrario o agro-alimen-tare italiano.Alle riviste si sono poi aggiunti gli atti di

convegni pubblicati.Al termine di questo processo di selezione

si sono scelte le seguenti fonti: Rivista di Eco-nomia Agraria; Rivista di Economia Agro-ali-mentare; New Medit: Mediterranean Journal ofEconomics; atti di seminari e convegni SIDEA,SIEA, EAAE (European Association of Agri-cultural Economists).

La classificazione adottata per l’analisi deicontributi di ricerca si è basata su studi analoghisvolti in ambito nazionale (Casati, 2004; Cannata,2001) e internazionale (Snow, Thomas, 1994; Mar-tinez-Alcazar et al, 2008) ed è stato possibile ela-borare e definire uno schema di riferimento ori-ginale, funzionale agli obiettivi della relazione.

Per non limitare ad un livello superficiale laclassificazione dei contributi si è avvertita l’esi-genza di adottare un criterio d’analisi che per-mettesse il superamento di un giudizio mera-mente soggettivo delle teorie/metodologie adot-tate nei contribuiti analizzati. Si è scelto di usa-re ed adattare (gli obiettivi sono diversi) la ma-trice proposta da Snow C.C. e Thomas J.B.(1994) per gli studi in Strategia Aziendale. Invia originale, la matrice (tab. 1) è stata utilizza-ta per classificare, attraverso un codice di rife-rimento, i lavori in funzione del loro obiettivo(indicato con i numeri 1, 2 e 3 per indicare ri-spettivamente: descrittivo, esplicativo, preditti-vo) e del grado di sviluppo della teoria propo-sta e della metodologia adottata (rappresentatedalla lettera S). Ad ogni contributo i singoli au-tori della ricerca hanno assegnato il codice diriferimento, che è stato successivamente con-frontato e discusso, pervenendo all’attribuzionedefinitiva della collocazione nella matrice.

La caratterizzazione degli articoli, oltre a ba-sarsi su un primo livello di suddivisione pre-sente nella Matrice di Snow e Thomas e ricon-ducibile alla definizione delle ricerche in esplo-rative, descrittive, e confermative di ipotesi(Aaker et al., 1995), ha considerato nello speci-fico il metodo di indagine e conseguentementedi raccolta ed elaborazione dei dati: qualitativo,quantitativo, misto o quali-quantitativo. A que-sto secondo livello di classifcazione è possibiledefinire un maggior dettaglio: le quantitativepossono essere distinte in monovariate o multi-variate. Le esplorative e descrittive possono es-sere essenzialmente ricondotte alla “costruzionedella teoria/metodologia” descritte nella Matri-ce di Snow e Thomas. Le confermative di ipo-tesi attengono invece al theory testing. Per il

Baraldi F., Canavari M., Regazzi D., Spadoni R.

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Tabella 1. Matrice per la classificazione dei contributi in base alla metodologia/teoria applicata (fonte: adattato da Snow,Thomas, 1994; Martin-Alcazar et al., 2008).

Table 1. Contribute classification matrix according to applied methodology/theory (source: adapted from Snow, Thomas,1994; Martin-Alcazar et al., 2008).

Descrittivo Esplicativo Predittivo

Costruire S1P1-identificare S1P2 stabilire le S1P3-campo di dominiometodologie/teorie elementi chiave relazioni tra le variabili

e variabili e gli elementi chiave

Testare S2P1-sviluppo e S2P2-documentare le S2PE-testaremetodologie/teorie validazione elementi e relazioni tra variabili teorie/metodologie

variabili testando le ipotesi concorrenti

theory testing sono generalmente necessarie me-todologie quantitative multivariate che permet-tono anche di verificare statisticamente la vali-dità dell’analisi. Per le tipologie riconducibili altheory building possono essere usati tutti i me-todi, dai qualitativi ai quantitativi multivariati(Fabbris, 1997).

Si evidenzia però che ogni classificazione,per quanto chiara e condivisibile, incontra sem-pre dei problemi nella fase di classamento de-gli oggetti: ci sono sempre sovrapposizioni epossibilità di assegnazione multipla nelle classi,quasi mai i gruppi individuati hanno la pro-prietà dell'esclusività e della completezza. Talelimite non è totalmente superabile, quindi nelpresente lavoro si è proceduto ad una classifi-cazione eseguita prima separatamente poi con-divisa da più ricercatori, per limitare nei casi piùcontroversi la soggettività dell’attribuzione.

La numerosità degli argomenti che possonoessere ricondotti al legame tra alimenti e salu-te ha stimolato la ricerca di macroaree per laclassificazione dei temi di ricerca, temi che pos-sono riguardare la produzione, la trasformazio-ne e il consumo. Tali aree sono state definite inrelazione alla più o meno diretta influenza del-le scelte alimentari e di produzione, sulla salu-te e quindi sul benessere. In particolare si sonoricondotti i possibili argomenti alla tipologia dibisogni coinvolta, considerando le classificazio-ni proposte da Maslow e da Murray (Maslow,1954 e Murray, 1938). Del primo gruppo (Area1), in cui l’argomento d’analisi è legato ai biso-gni primari (Murray) o ai bisogni fisiologici e disicurezza (Maslow), fanno parte le ricerche re-lative ai prodotti biologici, agli organismi gene-ticamente modificati, alle scelte varietali, allatracciabilità degli alimenti, alla certificazione co-gente e volontaria, all’etichettatura, alle dietealimentari, ai controlli, e alle politiche in mate-ria. Nel secondo gruppo (Area 2), rappresenta-to da argomenti che coinvolgono i bisogni se-condari (Murray) o di appartenenza, stima e au-torealizzazione (Maslow), sono stati inseriti te-mi quali: il benessere animale, i prodotti DOPe IGP, i prodotti di IV e V gamma, l’agrituri-smo, l’enogastronomia, l’analisi sulla soddisfa-zione del consumatore.

Infine, per quanto concerne le ricadute, si èvoluto mettere in evidenza chi potenzialmentepotrebbero essere gli utilizzatori delle informa-zioni che scaturiscono dagli studi oggetto d’in-

dagine, considerando enti di ricerca, il decisorepubblico, le imprese, ecc.

L’analisi ha interessato anche altre informa-zioni relative: alla tipologia di indagini svolte(case study, bibliografiche, settoriali, ecc.), ai fi-loni di ricerca maggiormente percorsi (ambitoproduttivo, fase al dettaglio, fase al consumo,ecc.), al coinvolgimento tra gruppi di ricerca (fa-centi parte di strutture universitarie, enti di ri-cerca pubblici e privati, diversità delle sedi, coin-volgimento di ricercatori stranieri, ecc.).

La classificazione sopradescritta è stata ap-plicata agli articoli censiti nelle fonti prescelte,dando origine alla banca dati strumentale allostudio, costituita da 13 variabili:1. Anno di pubblicazione o di svolgimento del

seminario/congresso.2. Tipo di pubblicazione (articolo su rivista, at-

ti di seminari/convegni, ecc.).3. Multidisciplinarità, in funzione delle discipli-

ne coinvolte.4. Collaborazione tra ricercatori italiani e stra-

nieri (localizzazione dell’università o ente diappartenenza).

5. Lingua in cui è scritto il contributo.6. Metodologia/teoria applicata classificata attra-

verso la Matrice di Snow e Thomas (MST).7. Area d’indagine considerata (locale, nazio-

nale, universale).8. Fonte dati utilizzata (bibliografica, case study,

interviste, ecc.).9. Tipologia d’analisi dati (qualitativa o quan-

titativa).10. Aree ricerca (Area 1 e Area 2).11. Parole chiave (innovazione, sicurezza, benes-

sere).12. Segmento filiera oggetto d’indagine (produ-

zione, trasformazione, consumo, ecc.).13. Ricadute dei contributi di ricerca.

4. Risultati

I contributi accolti come rilevanti (sulla basedelle scelte effettuate, strumentali all’obiettivodell’indagine) sono risultati 178, pari a quasil’8% delle 2.277 pubblicazioni analizzate; essi ri-sultano distribuiti in maniera non particolar-mente uniforme negli anni considerati, varian-do dal 5,6% del totale degli articoli nel 2007 al20,8% del totale nel 2003. Ciò limita la signifi-catività dei dati relativi all’evoluzione delle va-

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riabili; solo l’analisi di due variabili (segmentodella filiera e metodologia/teoria applicata), èapparsa meno condizionata da tale limite ancheperché supportata da altre analisi di contesto.

Il 47% degli articoli è stato pubblicato sulleriviste, mentre il restante 43% proviene da attidi convegni nazionali ed internazionali. Dei 178articoli, il 32% è scritto in lingua inglese, anchese solo il 4% coinvolge ricercatori provenientida università o enti di ricerca italiani e stranie-ri. Oltre a queste informazioni che caratterizza-no i contributi analizzati, l’analisi delle variabi-li e le relazioni tra loro esistenti hanno per-messo di raggruppare i risultati in cinque evi-denze, ognuna caratterizzata da una “conside-razione” guida. La prima è lo spostamento del-l’interesse dei ricercatori verso studi che coin-volgono fasi ben definite della filiera (fig. 1). Ciòpuò essere spiegato dall’aumento della com-plessità delle relazioni di filiera che determinauna specializzazione delle analisi e dalla pre-senza di forze polarizzanti concentrate a valledella filiera (importante ruolo della Grande Di-stribuzione Organizzata). Questo spostamentoverso le fasi a valle della filiera si ritiene sia do-vuto anche all’oggettivo scarso interesse delleimprese della produzione a collaborare o finan-ziare ricerche agli economisti agro-alimentari, inconseguenza forse anche della difficile defini-zione del loro ruolo da parte degli operatori.Inoltre, si ritiene che anche la prevalenza del-l’approccio monodisciplinare (tab. 2), ed in par-ticolare le scarse occasioni di collaborazione conricercatori che si occupano principalmente de-

gli aspetti produttivi, possa rappresentare unfattore per spiegare la realtà evidenziata.

Il secondo tema è la prevalenza di analisi ditipo qualitativo (tab. 3). La principale motiva-zione che può giustificare tale dato può esserericondotta ad una fase di sviluppo dell’argo-mento (relazione tra alimento e salute) all’in-terno del mondo scientifico di riferimento cheattualmente è ancora esplorativa/pionieristica egeneralmente limitata anche a livello di areed’indagine (tab. 4). Si può quindi affermare chevi è un ritardo, rispetto ad altri ambiti di ricer-ca (tecnologico e sociale), nell’attenzione pre-stata dagli economisti agro-alimentari e daglienti che orientano la ricerca economica a taliargomenti. Anche in questo caso la difficile col-laborazione per studi approfonditi con le im-prese sia della fase primaria (che manifestanomaggior interesse verso gli studi relativi agliaspetti tecnici, rispetto a quelli economici), sianella fase di trasformazione (molte imprese delsettore agro-alimentare mostrano una scarsa

Baraldi F., Canavari M., Regazzi D., Spadoni R.

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Tabella 2. Distribuzione della variabile “Multidisciplinarità”(% sul totale) (fonte: ns. elaborazione).

Table 2. Variable “multidisciplinarity” distribution (% of total) (source: our elaboration).

Tipologia approccio %

monodisciplinare 92,7multidisciplinare 7,3

Tab. 2

y = -1,8571x + 21,357

R2 = 0,5841

0

5

10

15

20

25

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Prod. e trasf. Comm. e consum.

Indef. o filiera Lineare (Indef. o filiera)

Figura 1. Evoluzione della variabile “Segmento di filiera”(n. articoli – anni 2000-2007) (fonte: ns. elaborazione).

Figure 1. Trend of variable “chain segment” (articles count– years 2000-2007) (source: our elaboration).

Tabella 3. Distribuzione della variabile “tipologia d’analisidati” (% sul totale) (fonte: ns. elaborazione).

Table 3. Variable “data analysis type” distribution (% of total) (source: our elaboration).

Tipologia di analisi dei dati %

Qualitativa 51,1Mix 41,6Quantitativa 7,3

Tabella 4. Distribuzione della variabile “Area d’indagine”(% sul totale) (fonte: ns. elaborazione).

Table 4. Variable “Study area” distribution (% of total).

Area d’indagine %

Locale 42,1Nazionale 37,1Universale 20,8

propensione ad adottare strategie di R&S equando le adottano hanno spesso analisti inter-ni e temono la diffusione di dati economici ri-tenuti sensibili) (tab. 5) può aiutare a motivarei risultati ottenuti dall’indagine.

Da un punto di vista squisitamente scientifi-co, l’analisi del trend dell’adozione delle diverseteorie/metodologie, pone in evidenza una ten-denza al decremento, anche se al limite della si-gnificatività, degli studi che adottano un ap-proccio prettamente discorsivo (fig. 2).

In merito alla distribuzione dei contributi diricerca considerati in funzione dell’area di ri-cerca (bisogni) coinvolta, si è incrociato il datocon la suddivisione in base ai tre concetti di ri-ferimento che esprimono il rapporto tra ali-menti e salute (innovazione, sicurezza e benes-sere). Il risultato mostra una prevalenza di ana-lisi che hanno come interesse la sfera benessere,ovviamente soprattutto nell’Area 2 (fig. 3). Sipuò affermare che questo rappresenti un nuo-vo approccio degli economisti agroalimentari cheampliano il loro campo di analisi; ciò comporta

la necessità di creare rapporti e sinergie con sog-getti che operano in ambiti specifici (più tecnicio più psico-sociali) e lo studio e l’applicazione dimetodologie adeguate. Inoltre, si modifica l’ac-cesso alle informazioni, che dovranno esseresempre più specifiche e complesse, e l’utilizzo ele modalità di diffusione dei dati ottenuti.

Infine, l’ultimo tema che scaturisce dall’anali-si è la variabilità degli utilizzatori delle ricerche,che si manifesta in una mancanza di committen-ti ben individuabili (per oltre il 90% delle pub-blicazioni considerate il risultato delle ricerchenon è indirizzato ad un soggetto in modo esclu-sivo). Probabilmente tale risulato è dovuto alcoinvolgimento in discipline che non hanno con-torni precisi e all’attuale assenza di gruppi di ri-cerca che se ne occupano in modo principale eche generano un network in cui siano ben defi-niti i ruoli dei soggetti che ne fanno parte.

5. Conclusione

L’analisi ha permesso di fornire alcune indica-zioni sugli ambiti di ricerca che interessano ilrapporto tra alimenti e salute nei quali sonomaggiormente coinvolti gli economisti agro-ali-mentari. Si può affermare che tali ambiti di ri-cerca siano ancora da esplorare sia in profon-dità sia in ampiezza. Risulta fondamentale ca-pire se il ritardo evidenziato sia da porre in re-lazione alla semplice mancanza di interesse daparte dei ricercatori e/o dalla difficile collocazio-ne editoriale, che ne limita la diffusione, e/o dauna ancora ridotta valutazione da parte del mon-do scientifico “tradizionale”, che riduce gli ambi-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:163-170

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Tabella 5. Distribuzione della variabile “Fonte dati” (% sultotale) (fonte: ns. elaborazione).

Table 5. Variable “Data Source” distribution (% of total)(source: our elaboration).

Fonte %

Intervista 43,8Bibliografia 28,6Case study 19,7Data base 7,9

y = -1,2738x + 13,107

R2 = 0,35890

5

10

15

20

25

30

35

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007

Discorsiva

Matrice ST

Lineare (Discorsiva)

Figura 2. Evoluzione della variabile “Metodologia/teoria ap-plicata” (n. articoli – anni 2000-2007) (fonte: ns. elaborazione).

Figure 2. Trend of variable “Methodology/theory applied”(articles count – years 2000-2007).

0% 20% 40% 60% 80% 100%

Benessere

Sicurezza

Innovazione

Mix

Area 1 Area 2 Totale

Figura 3. Distribuzione delle variabili “Aree ricerca” e “Pa-role chiave” (%) (fonte: ns. elaborazione).

Figure 3. Variable “Study area” and “Key words” distribu-tion (%) (source: our elaboration).

ti di interesse. Si ritiene che, se esiste la volontàdi recuperare il ritardo rispetto ad altre aree del-la ricerca, ciò potrà avvenire attraverso un incre-mento delle collaborazioni multidisciplinari, unamaggiore attenzione verso le ricerche applicative– in particolare mirate alla riduzione del gap traaccademia e mondo produttivo – da sempre ca-rattere distintivo degli economisti agro-alimenta-ri e con un aumento dei contributi in lingua in-glese prodromici all’internazionalizzazione dellaricerca.

L’interesse per gli argomenti oggetto d’inda-gine può essere stimolato anche dalle nuove pro-spettive aperte dai finanziamenti alla ricerca del-l’UE come il VII Programma Quadro e le Piat-taforme Tecnologiche Europee quali “Food forLife”, “Plant for the future” e “Animal Welfare”.

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Baraldi F., Canavari M., Regazzi D., Spadoni R.

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171

Ruolo delle sostanze antiossidanti negli alimenti

Giuseppe Gambacorta1,2*, Antonietta Baiano1,2, Maria Assunta Previtali1,Carmela Terracone1, Ennio La Notte1,2

1Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università di FoggiaVia Napoli 25, 71100 Foggia

2Istituto per la Ricerca e le Applicazioni Biotecnologiche per la Sicurezza e la Valorizzazione dei ProdottiTipici e di Qualità

Università di Foggia, Via Napoli 52, 71100 Foggia

Società Italiana di Scienze e Tecnologie degli Alimenti

RiassuntoGli antiossidanti sono sostanze presenti in basse concentrazioni negli alimenti, capaci di proteggere i substrati os-sidabili e di contrastare gli effetti negativi che le specie reattive dell’ossigeno (ROS) esercitano sull’organismo (ri-duzione del rischio di contrarre patologie cardiovascolari, cancro e malattie degenerative che accelerano i processid’invecchiamento). L’ossidazione dei lipidi contenuti in un alimento è una degradazione a carico degli acidi grassiinsaturi i quali reagiscono con l’ossigeno, per autossidazione chimica, azione delle lipossigenasi, fotossidazione edaltri meccanismi. L’autossidazione è il processo di ossidazione più importante e si sviluppa in tre diverse fasi (ini-ziazione, propagazione e terminazione) portando alla produzione di idroperossidi. Questi ultimi possono decom-porsi e formare composti a basso peso molecolare quali alcol, aldeidi, chetoni, acidi e altri composti meno reattiviche influenzano negativamente qualità, valore nutrizionale e shelf life dei prodotti.Gli antiossidanti agiscono con meccanismi differenti e a differenti livelli nella sequenza ossidativa che coinvolge lemolecole lipidiche. Essi possono ridurre la concentrazione di ossigeno, intercettare l’ossigeno singoletto, rallentarela fase di iniziazione dell’autossidazione bloccando i radicali liberi, interrompere la fase della reazione a catena pre-venendo la continua sottrazione di idrogeno dal substrato e decomporre i prodotti primari di ossidazione in com-posti non radicalici. Nel presente lavoro sono riportati i risultati di due casi studio relativi alla frazione fenolica dioli vergini di oliva e di vini rossi prodotti in Puglia e alla loro potenziale attività antiossidante. Gli oli sono statiestratti con un impianto continuo a due fasi da olive provenienti da Cerignola e Torremaggiore, Foggia. I risultatihanno mostrato una diversa composizione fenolica tra gli oli e una stretta correlazione lineare tra contenuto feno-lico ed attività antiossidante. I vini sono stati prodotti da uve della cv Primitivo, raccolte alla maturazione tecnolo-gica da un vigneto di Manduria in provincia di Taranto, con l’applicazione di nove differenti tecniche di macera-zione. I risultati hanno mostrato che l’aggiunta di coadiuvanti tannici di bucce e di vinaccioli al pigiadiraspato e latecnica del salasso comportano una maggiore concentrazione fenolica nei vini. Infine, tra i metodi utilizzati per ladeterminazione dell’attività antiossidante, quello del β-carotene sembra essere il più efficace.

Parole chiave: olio vergine di oliva, ossidazione lipidica, polifenoli, sostanze antiossidanti, vino.

Summary

ROLE OF ANTIOXIDANT SUBSTANCES IN FOODS

Antioxidants are compounds present in food at low concentrations and able to both protect oxidable substrates andcountenrbalance the negative effects that the reactive oxygen species (ROS) cause in the human body (reductionof the risk to develop cardiovascular pathologies, cancer and degenerative diseases that accelerate the aging pro-cesses). In foods, lipid oxidation is a degradation regarding the unsaturated fatty acids that react with oxygen th-rough several mechanisms such as chemical autoxidation, action of lipoxigenases, photoxidation, and others. Au-toxidation is the main oxidation process and proceed via initiation, propagation, and termination steps leading tothe hydroperoxide formation. Hydroperoxides could degraded into low molecular weigh compounds such as al-cohols, aldehydes, ketons, acids and other low reactive compounds that negatively influence quality, nutritional va-

* Autore corrispondente: tel./fax: +39 0881 589243. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:171-184

lue and shelf life of foods. Antioxidants are known to act at different levels of the lipid oxidation. They may act inseveral ways: they can decrease the oxygen concentration, intercept the singlet oxygen, slow the initiation step byscavenging the first free radicals, break the reaction chain to prevent the hydrogen subtraction, and decompose pri-mary products of oxidation into non-radical products. This work reports the results of two studies on the phenolicfraction and potential antioxidant activity of virgin olive oils and red wines produced in Apulia region. Oils wereextracted from olives produced at Cerignola and Torremaggiore using a two phase continuous system. Results showeda different phenolic composition of the oils and a good linear correlation between phenolic content and antioxi-dant activity. Wines were produced from Primitivo grapes pickled at the so-called technological maturity in a vi-neyard located at Manduria (Taranto). Nine different maceration techniques were applied. Results showed that theaddition of tannins from skins and seeds and the saignée allowed to obtain high phenolic concentrations in wines.Among the methods used to assess the antioxidant activity, β-carotene seems to be effective.

Key-words: virgin olive oil, lipid oxidation, polyphenols, antioxidant compounds, wine.

Gambacorta G., Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E.

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1. Introduzione

Gli antiossidanti sono sostanze presenti in bas-se concentrazioni negli alimenti e nel corpo ingrado di diminuire drasticamente o prevenire iprocessi di ossidazione a carico di substrati os-sidabili (Aruoma, 1994). Le industrie alimenta-ri pongono in commercio alimenti contenentisostanze antiossidanti al fine di prevenire il de-terioramento qualitativo dei prodotti, mantene-re il loro valore nutrizionale ed aumentare lashelf life. Gli antiossidanti hanno un particolareinteresse dal punto di vista salutistico per la pro-tezione che offrono nel contrastare gli effetti ne-gativi delle specie reattive dell’ossigeno che por-tano a malattie degenerative. Gli antiossidantiagiscono a differenti livelli nella sequenza di os-sidazione che coinvolge le molecole lipidiche in-tervenendo nel ridurre la concentrazione di os-sigeno, intercettare l’ossigeno singoletto, preve-nire la fase di iniziazione dell’autossidazionebloccando i radicali liberi legandosi ai cataliz-zatori ionici metallici, decomporre i prodotti pri-mari a composti non radicalici e interromperela fase della reazione a catena prevenendo lacontinua sottrazione di idrogeno dal substrato.Naturalmente il processo di ossidazione dei li-pidi dipende anche dalla composizione in acidigrassi (grado di insaturazione), dalla presenza dipro-ossidanti e dalle condizioni di conservazio-ne dell’alimento. Gli antiossidanti naturali as-sunti giornalmente con la dieta comprendonocomposti fenolici e polifenolici, chelanti, vita-mine ed enzimi antiossidanti come carotenoidie carnosina. L’inserimento nella dieta di pro-dotti vegetali ricchi in sostanze antiossidanticomporta degli indubbi benefici nutrizionali per

la diminuzione del rischio di molte malattie qua-li cardiovascolari, cancro, cataratte e altre de-generative che portano a processi d’invecchia-mento (Shahidi, 1997).

2. Ossidazione lipidica

L’ossidazione dei lipidi contenuti in un alimen-to è una degradazione a carico degli acidi gras-si insaturi presenti nei gliceridi del grasso, i qua-li reagiscono con l’ossigeno atmosferico, per au-tossidazione chimica, azione delle lipossigenasi,fotossidazione, ecc. L’autossidazione è il proces-so di ossidazione più importante dei grassi e sisviluppa in tre diverse fasi: iniziazione, propa-gazione e terminazione. Nella fase di iniziazio-ne, si ha la formazione di un radicale dell’acidograsso insaturo, in seguito alla perdita di un ra-dicale H•, a livello del carbonio in posizione αrispetto al doppio legame. Questa preferenzadel sito di radicalizzazione è dovuta alla vici-nanza del doppio legame che rende più labile illegame C-H, probabilmente a causa della for-mazione di un sistema di risonanza che coin-volge gli elettroni del doppio legame e rende“stabile” il radicale dell’acido grasso. Pertantola suscettibilità di un olio o grasso all’autossi-dazione aumenta all’aumentare del numero diinsaturazione.

Il distacco del radicale H• è catalizzato dal-la presenza di metalli, luce o calore ed avvienesecondo la seguente reazione:

R-H →R• + H•

Il radicale R• reagisce con l’O2 dell’aria for-mando un radicale idroperossido:

R• + O2 →ROO•

Questo radicale è instabile e reagisce conun’altra molecola di acido grasso insaturo for-mando l’idroperossido e un nuovo radicale del-l’acido grasso:

ROO• + R1H →ROOH + R1•

La formazione degli idroperossidi una voltainiziata procede secondo una reazione a catena(propagazione), facendo aumentare il numerodi perossidi presenti nel grasso. La fase di ter-minazione avviene quando due molecole radi-caliche reagiscono tra loro dando luogo a pro-dotti non radicalici:

ROO• + ROO• →ROO-OORROO• + R• →ROO-RRO• + RO• →RO-ORRO• + R• →RO-RR• + R• →R-R

Gli idroperossidi costituiscono i prodotti pri-mari dell’ossidazione degli acidi grassi insaturie sono composti inodori ed insapori. La loropresenza indica l’inizio del processo di ossida-zione che continua mediante una serie di rea-zioni portando ad aldeidi, chetoni, acidi e idro-carburi, principali responsabili di odori e sapo-ri di “rancido” e di “vecchio” che abbassano lashelf-life e il valore nutrizionale e commercialedel prodotto. Inoltre, gli idroperossidi possonoprendere anche una via diversa, infatti reagen-do di nuovo con l’ossigeno formano prodotti se-condari quali epossiperossidi, chetoidroperossi-di, perossidi ciclici e idroperossidi biciclici chepotrebbero influenzare negativamente le carat-teristiche sensoriali e salutistiche dei prodottialimentari.

Gli alimenti possono contenere sostanze an-tiossidanti che sono in grado di bloccare la rea-zione di ossidazione al livello iniziale, limitandola propagazione secondo le seguenti reazioni:

Antiox-H + ROO• →Antiox• + ROOHAntiox-H + R• →Antiox• + RHAntiox• + Antiox• → Antiox-Antiox

Questi comportano l’inattivazione di proos-sidanti nel mezzo, come ad esempio con il mec-canismo di scavenging dell’ossigeno singoletto ochelatori degli ioni metallici. Queste reazioniportano a ritardare l’inizio dell’ossidazione e adallungare il periodo di induzione. Gli antiossi-

danti possono anche donare un atomo di idro-geno o un elettrone ai radicali prodotti dagli aci-di grassi insaturi stabilizzando la sostanza gras-sa dell’alimento dai processi ossidativi.

3. Implicazioni salutistiche dei prodotti di ossi-dazione

I radicali liberi possono comportare nell’orga-nismo una serie di malattie e di danni a caricodi vari tessuti e processi di invecchiamento. Gliossidanti e i radicali che influenzano varie ma-lattie sono specie molto reattive formate da os-sigeno tripletto, acqua e molecole lipidiche in-sature. Pertanto, la perossidazione lipidica rap-presenta un problema non solo per gli oli edi-bili e l’industria alimentare ma anche per l’or-ganismo. Un eccesso di produzione di specie ra-dicaliche dell’ossigeno, in particolare di radicaliidrossilici, possono interessare le membrane cel-lulari lipidiche e produrre perossidi e speciereattive dell’ossigeno (ROS) che sono legati auna serie di malattie che provocano l’accelera-zione dei processi d’invecchiamento (fig. 1).

È ben noto che la malonaldeide (MDA) e la4-idrossinonenale (4-HN) interagiscono concomponenti biologici e con quelli contenuti ne-gli alimenti come proteine, ammino acidi, am-mine e DNA. Queste reazioni sono implicate inprocessi di invecchiamento, mutagenesi e carci-nogenesi nel corpo (Crawford, 1967; Basu et al.,1984; Fujimoto et al., 1984), mentre negli ali-menti influenzano negativamente l’aroma, lastruttura e il colore. Inoltre, questi composti ab-bassano il valore nutrizionale dei prodotti perla distruzione degli acidi grassi essenziali e del-le vitamine liposolubili e per la loro tossicità. Alfine di controllare i negativi effetti della ranci-dità è raccomandato l’aggiunta di antiossidanti

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:171-184

173

prodottinon radicalici

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Figura 1. Substrati di azione dei ROS e implicazioni saluti-stiche.

Figure 1. Substrates of ROS action and health implications.

negli alimenti. Inoltre, il consumo di antiossi-danti negli alimenti o come integratori nella die-ta può essere consigliata al fine di contrastarele cause primarie di aterosclerosi, cancro e ma-lattie degenerative d’invecchiamento.

4. Antiossidanti naturali

Le piante sono ricche in sostanze antiossidantiquali tocoferoli, vitamina C, carotenoidi e com-posti fenolici. Nelle piante i fenoli hanno la fun-zione di “riparare” le lesioni dei tessuti provo-cate da eventi fisici o da agenti patogeni me-diante reazioni di ossidazione e combinazionecon proteine ed altri componenti a costituireuna specie di barriera protettiva. Inoltre, i poli-fenoli con le loro caratteristiche di amaro e pun-gente scoraggiano l’attacco di insetti ed anima-li superiori come erbivori ed uccelli. I prodottiintermedi della fotosintesi possono produrre an-che alti livelli di ossigeno, radicali liberi e diROS, pertanto, le piante utilizzano una miriadedi composti antiossidanti per assicurare la lorosopravvivenza. Molti di questi composti hannouna similitudine nella struttura molecolare inquanto presentano almeno un anello aromaticoe un gruppo idrossilico.

Questi composti comprendono acidi fenoli-ci, flavonoidi e isoflavoni, esteri gallati (tanniniidrolizzabili), lignani, cumarine, stilbeni, flavo-noni e proantocianidine oligomere. Questi com-posti producono una serie di sostanze antiossi-danti che, agendo con meccanismi diversi, co-stituiscono un sistema di difesa contro l’attaccodei radicali liberi. La tabella 1 riporta una listadi alcuni antiossidanti naturali e la loro matri-ce di provenienza (Shahidi, 1997). Gli antiossi-

danti naturali più conosciuti e più importantiper l’industria alimentare e per la salute uma-na sono i tocoferoli, vitamina C e carotenoidi(Packer, 1996). Erbette e spezie quali rosmari-no, origano, aglio, peperoncino ed altre e i loroestratti hanno mostrato la capacità di estende-re la shelf life di vari alimenti (Shahidi et al.,1995; Gambacorta et al., 2007). Sono stati iden-tificati principi attivi e sostanze antiossidanti dicomposti naturali del rosmarino, crusca del ri-so, te verde, semi di sesamo, semi di canola eginger (Wu et al., 1982; Ramarathnam et al.,1989; Amarowicz e Shahidi, 1996; Fukuda et al.,1985; Wanasundara et al., 1994; Jitoe et al., 1992;Kasuga et al., 1988). Alcuni di questi estratti ri-cavati dal rosmarino e dal tè sono miscelati contocoferoli e con palmitato ascorbico e commer-cializzati con successo in Europa, Giappone eNord America, nonostante il maggior costo ri-spetto agli additivi sintetici. Anche certi oli ve-getali, come ad esempio l’olio vergine di oliva,contengono sostanze antiossidanti e fungonoda protezione contro i processi di ossidazionese aggiunti ad altri oli o ad alimenti ricchi digrasso. Inoltre, diversi vegetali come il rava-nello, senape, rapa, cavolo e cipolla presenta-no un moderato effetto stabilizzante nei con-fronti dei lipidi alimentari. Studi epidemiologi-ci e clinici hanno provato che gli antiossidantifenolici presenti nei cereali, frutta e vegetalisono i principali fattori che contribuiscono a ri-durre significativamente l’incidenza di malattiecroniche e degenerative nelle popolazioni cheseguono una dieta ricca di questi alimenti. Gliesperti del settore consigliano un’assunzione di5 volte al giorno di alimenti a base di cerealie verdura.

Gambacorta G., Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E.

174

Tabella 1. Composti antiossidanti e matrice di provenienza.

Table 1. Antioxidant compounds and source.

Composti antiossidanti Matrice di provenienza

Vitamina E (tocoferoli e Oli di semi, olio di palma, nocciola, uova, prodotti caseari, cariosside di grano,tocotrienoli) vegetali, cereali, margarine, ecc.Vitamina C Frutti e vegetali, uva, agrumi, germogli, peperone verde, patate, ecc.Carotenoidi Vegetali a foglia scura, carote, patate dolci, pomodori, albicocche, agrumi, cavo-

lo verde, rape verdi, olio di palma, ecc.Flavonoidi/isoflavoni Frutti e vegetali, oli di semi, uva, melanzane, peperoni, agrumi, pomodori, ecc.Acidi fenolici e derivati fenolici Oli di semi, oli vergini di oliva, cereali, ecc.Catechine Tè verde, uva, oli di semi, ecc.Estratti Estratti da te verde, rosmarino, salvia, chiodi di garofano, origano, timo, avena,

crusca di riso, ecc.

5. Azione degli antiossidanti

Un “antiossidante ideale” deve possedere delleappropriate caratteristiche se deve essere ag-giunto agli alimenti. Esso deve: (a) essere sicu-ro; (b) non impartire colore, odore e gusto; (c)essere efficace a basse concentrazioni; (d) ri-manere dopo il processo di produzione dell’ali-mento; (e) essere stabile nel prodotto finito; (f)essere solubile nella fase lipidica; (g) essere fa-cilmente disponibile a basso costo; (h) essere“naturale”, in modo da riportarlo in etichetta,ed attrarre il consumatore (Cuppett et al.,1997). È stato generalmente mostrato che icomposti antiossidanti derivanti dalle piantesono fenoli classificabili nei seguenti composti:tocoferoli, carotenoidi, acidi fenolici (derivatidegli acidi benzoico e cinnamico), flavonoidi editerpeni.

5.1 Tocoferoli

I tocoferoli possono agire come antiossidantimediante due meccanismi quali donatore o ac-cettore di elettrone in seguito alla rottura dellacatena. Il meccanismo di accettore di elettronecomprende lo scavenging o quencing dell’ossi-geno singoletto (Scott, 1985). Nel meccanismodi donatore di elettrone i tocoferoli competonocon gli acidi grassi insaturi per i radicali peros-sidici (ROO•), riducendo la formazione del ra-dicale dell’acido grasso (R•) che avviene quan-do il ROO• reagisce con un RH, rallentando lafase di propagazione dell’autossidazione. I to-coferoli possono effettivamente competere conil RH per il ROO• mediante un pronto trasfe-rimento di un atomo di idrogeno al radicaleidroperossidico formando l’idroperossido (Fran-kel, 1991) e convertendosi prima in prodotti ra-dicalici intermedi (semi-chinoni) e successiva-mente in un prodotto finale non radicalico piùstabile (tocoferil chinone) (fig. 2).

Il tocoferil chinone e il semichinone posso-no reagire con il radicale dell’acido grasso R•,competendo con l’ossigeno tripletto, a ricosti-tuire l’acido grasso (RH) e rallentando la fasedi propagazione a catena dell’autossidazione.Poiché a pressione atmosferica la reazione tra ilradicale R• e l’ossigeno tripletto è maggior-mente favorita rispetto a quella tra l’ossigenodel chinone e il radicale R•, questo tipo di atti-vità antiossidante (AA) esercitata dai tocofero-li avviene principalmente in sistemi biologici o

in sistemi caratterizzati da basse concentrazionidi ossigeno (Frankel, 1991).

I tocoferoli possono controllare i processi diossidazione agendo anche sull’ossigeno singo-letto. L’abilità di “oxygen-scavenging” dei toco-feroli avviene attraverso due meccanismi: spe-gnimento (quencing) dell’ossigeno singoletto(fig. 3; Clough et al., 1979) e reazione irreversi-bile con l’ossigeno singoletto a formare una se-rie di prodotti (fig. 4; Grams et al., 1972).

5.2 Caroteni

I caroteni, ed in particolare il β-carotene, sonoefficaci a “spegnere” l’ossigeno singoletto se-condo la seguente reazione:

1O2 + β-Carotene > 3O2 + 3β-Carotene

La velocità di quencing è dovuta al numero didoppi legami coniugati che consente la deloca-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:171-184

175

CH3

HO

H3C

CH3

O C16H33

A

1O2

O

CH3

H3C C16H33

B

CH3

OOOH

Figura 3. Reazione dell’α-tocoferolo (A) con l’ossigeno sin-goletto a dare l’idroperossidienone (B).

Figure 3. Reaction of (A) α-tocopherol with singlet oxygento give (B) hydroperoxydienone.

·

··

·

CH3

O

O

H3C

CH3

C16H33

CH3

HO

H3C

CH3

O C16H33

H2O 2[H]

A ROOH

O

CH3

H3C C16H33OHO

2[H]H2O

ROOH

C D

CH2

O

HO

H3C

CH3

C16H33

B

ROO

ROO

CH3

·

··

·

CH3

O

O

H3C

CH3

C16H33

CH3

HO

H3C

CH3

O C16H33

H2O 2[H]

A ROOH

O

CH3

H3C C16H33OHO

2[H]H2O

ROOH

C D

CH2

O

HO

H3C

CH3

C16H33

B

ROO

ROO

CH3

Figura 2. Ossidazione dell’α-tocoferolo (A) ad α-tocoferilchinone (B) attraverso gli intermedi semi-chinonici (C, D).

Figure 2. (A) α-tocopherol oxidation to (B) α-tocopherylquinone through semi-quinone intermediates (C, D).

lizzazione degli elettroni spaiati provenienti dal-l’ossigeno singoletto nella catena (Foote et al.,1970). Pertanto, l’AA dei carotenoidi è dovutaai loro sistemi polienici coniugati in grado di de-localizzare gli elettroni spaiati delle specie radi-caliche libere e perossidiche (Burton e Ingold,1984; Terao, 1989).

5.3 Acidi fenolici

Gli acidi fenolici possiedono AA. Gli ortodife-noli come caffeico, idrossitirosolo e oleuropeinapresentano una forte AA rispetto a quella diacidi fenolici con meno impedimento sterico co-me il tirosolo (Chimi et al., 1991). I derivati del-l’acido cinnamico (caffeico, ferulico, sinapico ep-cumarico) presentano una maggiore AA ri-spetto ai derivati dell’acido benzoico (p-idrossi-benzoico, vanillico, siringico e 3,4-diidrossiben-zoico) (Marinova et al., 1994). Gli antiossidantifenolici agiscono inibendo l’ossidazione lipidicamediante cattura del radicale perossido secon-do due meccanismi:

ROO• + ArOH → ROOH + ArO•

RO• + ArO• → ROOAr

Nel primo meccanismo il radicale idroperos-sido ROO• sottrae un idrogeno radicalico dal-l’antiossidante a dare un radicale aromaticoArO• e l’idroperossido ROOH. Nel secondo

meccanismo i due radicali si combinano for-mando un dimero non radicalico. I fenoli carat-terizzati da impedimento sterico presentano unamaggiore AA poiché la velocità delle reazioniche portano alla produzione di specie non radi-caliche è superiore rispetto a quelle che porta-no alla produzione di radicali. Al contrario, lamancanza di impedimento sterico favorisce laproduzione di radicali riducendo, conseguente-mente, l’AA dei fenoli (Chimi et al., 1991). Lemolecole contenenti almeno due gruppi fenoli-ci idrossilici vicinali presentano un’alta AA.Inoltre, la presenza nella molecola di un grup-po carbonile, come un acido aromatico, un este-re o un lattone, aumenta l’AA. Infine, l’impedi-mento sterico di un idrossile fenolico da partedi un gruppo inerte, come ad esempio un me-tossile in posizione vicinale, aumenta l’AA.

5.4 Flavonoidi

I flavonoidi sono una grande classe di compo-sti, ubiquitari nelle piante e abitualmente pre-senti come glucosidi e, a volte, come agliconi.Essi contengono diversi gruppi idrossilici feno-lici attaccati agli anelli della struttura (A, B eC). Le variazioni strutturali all’interno deglianelli determinano la classificazione dei flavo-noidi in diverse famiglie. I flavonoidi esplicanol’azione antiossidante agendo come donatori diidrogeno o chelando i metalli. La posizione e ilnumero degli idrossili sugli anelli influenza laloro AA: a) la presenza di un gruppo OH in po-sizione orto nell’anello B determina una forteAA; b) la sostituzione di un gruppo OH in po-sizione orto nell’anello B conferisce una mino-re AA, ma se accompagnata da un addizionalegruppo OH in posizione para determina un au-mento dell’attività; c) la presenza di due grup-pi OH vicinali (o-diidrossilati) nell’anello Bcontribuisce all’AA (3’,4’-diidrossile); d) la pre-senza di due gruppi OH in posizione meta nel-l’anello A contribuisce all’AA (meta 5,7-dii-drossile). Inoltre, la presenza di un doppio le-game tra i carboni 2 e 3 dell’anello C contri-buisce all’AA. Gli agliconi presentano una mag-giore AA dei corrispondenti glucosilati per lamancanza di un gruppo OH in posizione 3 nel-l’anello C (Das e Pereira, 1990). I flavonoidi in-tervengono nel controllo dell’ossidazione dei li-pidi mediante la chelazione di ioni metallici (ra-me). Questo intervento dipende da alcune con-dizioni: a) le molecole devono avere più gruppi

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CH3

HO

H3C

CH3

O C16H33

A

1O2

HO

CH3

H3C C16H33

B

CH3

O

O

O

O

CH3

H3C C16H33OHO

CH3

O

CH3

H3C C16H33O

CH3O

C D

+

CH3

HO

H3C

CH3

O C16H33

A

1O2

HO

CH3

H3C C16H33

B

CH3

O

O

O

O

CH3

H3C C16H33OHO

CH3

O

CH3

H3C C16H33O

CH3O

C D

+

Figura 4. Reazione dell’α-tocoferolo (A) con l’ossigeno sin-goletto a dare l’α-tocoferil chinone (C) ed il chinone epos-sido (D) attraverso l’α-tocoferil endoperossido (B).

Figure 4. Reaction of (A) α-tocopherol with singlet oxygento give (C) α-tocopheryl quinone and (D) quinone epoxidethrough (B) α-tocopherol endoperoxide.

idrossilici (una configurazione 3’,4’-diidrossiconferisce una forte AA); b) le molecole devo-no avere un gruppo carbonile in posizione 4; c)le molecole devono avere un gruppo idrossilein posizione 3 e/o 5 (Hudson e Lewis, 1983). Lacontemporanea presenza del gruppo carbonilein 4 e del gruppo ossidrile in 3 o 5 conferisceazione chelante nei confronti dello ione rame(fig. 4) (Dziedzic e Hudson, 1984).

L’azione chelante nei confronti dei metalli siha anche per gli orto-difenoli (posizione 3’,4’dell’anello B dei gruppi idrossilici).

6. Caratterizzazione della frazione fenolica e valutazione dell’attività antiossidante di oli verginidi oliva monovarietali del territorio Dauno

6.1 Introduzione

La frazione fenolica ha un impatto positivo sul-le caratteristiche qualitative dell’olio vergine dioliva e il contenuto è subordinato a diversi fat-tori: cultivar, tecniche agronomiche, grado dimaturazione delle olive, tecnologie di estrazio-ne e tempi e modalità di conservazione dell’o-lio. Inoltre, i fenoli sono dei potenti antiossidantifungendo da chelanti degli ioni metallici (es.Cu++) e da radical scavenger interrompendo lareazione a catena della perossidazione lipidica.Alcuni composti fenolici, come l’oleuropeina,aumentano la produzione di ossido nitrico (fat-tore di rilassamento vascolare), mentre altri, co-me il tirosolo, inibiscono la formazione di ossi-steroli e la perossidazione della componente li-pidica delle LDL, bloccando la genesi di malat-tie cardiovascolari (Visioli et al., 2002). È inol-tre ormai accertato che i polifenoli, ed in parti-colare gli orto-difenoli, apportano il maggiorecontributo alla stabilità ossidativa nell’olio di

oliva vergine (Aparicio et al., 1999), e studi con-dotti sulla sua shelf-life hanno dimostrato uncambiamento della composizione fenolica neltempo (Cinquanta et al., 1997). Non meno im-portante è il contributo fornito dai fenoli nellaformazione del gusto tipico dell’olio vergine dioliva, con le sfumature di “amaro” e “piccante”dovute principalmente ai derivati dell’oleuro-peina e del ligstroside (Visioli et al., 1998; An-drewes et al., 2003).

In questo lavoro si riportano alcuni risultatidi uno studio condotto sul profilo fenolico e po-tere antiossidante di alcuni oli monovarietali delterritorio Dauno.

6.2 Materiali e metodi

Gli oli sono stati estratti da olive provenienti dadue oliveti sperimentali di Cerignola (Casaliva,Cellina di Nardò, Grignano, Nociara, Ogliarolabarese e Termite di Bitetto) e di Torremaggio-re (Cellina di Nardò, Coratina, Frantoio, Lecci-no, Moraiolo e Nociara). Al raggiungimento del-la maturazione tecnologica, le olive di ciascunacultivar sono state raccolte a mano per bruca-tura e sottoposte entro le 36 ore ad estrazionemeccanica dell’olio mediante un minifrantoiocontinuo a due fasi. I campioni di olio sono sta-ti conservati in bottiglie di vetro da 1 litro albuio ed a temperatura ambiente fino al mo-mento delle analisi.

Analisi frazione fenolica. L’estrazione deicomposti fenolici è stata effettuata secondo ilmetodo di Montedoro et al. (1992), con oppor-tune modifiche. Sull’estratto fenolico è stato de-terminato il contenuto in fenoli totali per spet-trofotometria dopo reazione con il reattivo di Fo-lin-Ciocalteu (FC), esprimendo il risultato comemg kg-1 equivalenti di acido gallico. Il profilo fe-nolico è stato determinato sull’estratto metanoli-

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A

OH

O

345

O

O

345

Cu

O

O

345

Cu

B

O

345

O

345

345

OH O

Cu

O O

O

Cu

OO

O O O

Figura 5. Meccanismo di chelazionedi flavanoni (A) e flavoni (B).

Figure 5. Chelating mechanism for(A) flavanones and (B) flavones.

co per cromatografia liquida ad alte prestazioni(HPLC) secondo il protocollo analitico utilizzatoin un precedente lavoro (Gambacorta et al.,2006). L’identificazione dei composti fenolici èstata effettuata mediante confronto dei picchi conquelli di standard puri e dei tempi di ritenzionerelativi riportati in letteratura (Brenes et al., 2000;Gomes-Alonso et al., 2002).

Attività antiossidante. L’attività antiossidantedegli oli è stata determinata sottoponendo gliestratti fenolici al test dell’ABTS·+/metamio-globina (Miller et al., 1993).

6.3 Risultati e discussione

La figura 6 mostra il profilo fenolico con l’identi-ficazione dei picchi di uno degli oli studiati (Co-ratina di Torremaggiore), mentre le tabelle 1 e 2riportano rispettivamente le composizioni fenoli-che degli oli di Cerignola e Torremaggiore.

Tra le cultivar di Cerignola, la Casaliva hapresentato il più alto contenuto fenolico, segui-ta da Cellina di Nardò, Nociara, Grignano,Ogliarola barese e Termite di Bitetto. È stataosservata una certa variabilità nella composi-zione fenolica degli oli, mentre il p-HPEA-EDAè risultato il componente fenolico più abbon-dante in tutti gli oli. Per quanto riguarda i cam-pioni di Torremaggiore, la Coratina ha mostra-to il contenuto fenolico più alto, seguita da No-ciara, Moraiolo, Frantoio, Cellina di Nardò eLeccino. Il comportamento della Coratina, cul-tivar notoriamente tardiva, è da ascrivere allesue caratteristiche intrinseche e al basso indicedi maturazione delle olive. Le figure 7, 8 e 9 ri-portano rispettivamente il contenuto fenolicodeterminato per spettrofotometria, l’attività an-

tiossidante e la correlazione tra contenuto fe-nolico e attività antiossidante degli oli di Ceri-gnola (A) e di Torremaggiore (B). Tra le culti-var di Cerignola, la Casaliva ha presentato i piùalti valori del contenuto fenolico e di attività an-tiossidante, mentre i valori più bassi sono statitrovati per la Termite di Bitetto. Per quanto ri-guarda gli oli di Torremaggiore, la Coratina hamostrato valori più alti del tenore fenolico edattività antiossidante e la Leccino i più bassi.Per gli oli di entrambi gli oliveti la correlazio-ne tra contenuto fenolico ed attività antiossi-dante è risultata buona e di tipo lineare con R = 0,9644 e R = 0,9840 (p = 0,01), rispettiva-mente per Cerignola e Torremaggiore.

L’analisi statistica delle componenti princi-pali (fig. 10) ha mostrato una netta distinzionetra la Casaliva di Cerignola e la Coratina di Tor-remaggiore dalle altre cultivar per il maggior

Gambacorta G., Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E.

178

Figura 6. Profilo fenolico della Coratina: 1) idrossitirosolo,2) tirosolo, 3) vanillina, 4) 3,4-DHPEA-EDA, 5) p-HPEA-EDA, 6) acetossi-pinoresinolo, 7) pinoresinolo, 8) 3,4-DH-PEA-EA, 9) p-HPEA-EA.

Figure 6. Phenolic profile of Coratina: 1) hydroxytyrosol, 2)tyrosol, 3) vanilline, 4) 3,4-DHPEA-EDA, 5) p-HPEA-EDA, 6) acetoxy-pinoresinol, 7) pinoresinol, 8) 3,4-DH-PEA-EA, 9) p-HPEA-EA.

Tabella 2. Composizione fenolica degli oli di Cerignola (mg kg-1).

Table 2. Phenolic composition of Cerignola oils (mg kg-1).

Fenoli Casaliva Cellina Grignano Nociara Ogliarola Termite di Nardò barese di Bitetto

Idrossirosolo 78,1 ± 6,3 0,0 0,8 ± 0,1 3,0 ± 0,5 0,0 0,0Tirosolo 63,3 ± 4,3 8,2 ± 3,2 4,7 ± 1,1 21,9 ± 1,9 7,0 ± 0,2 2,4 ± 0,1Vanillina 4,6 ± 1,1 2,5 ± 1,2 2,5 ± 0,9 2,2 ± 0,3 2,2 ± 0,2 2,0 ± 0,13,4-DHPEA-EDA 22,3 ± 1,7 1,6 ± 0,3 2,6 ± 0,5 4,0 ± 0,4 0,0 ± 0,0 1,3 ± 0,2p-HPEA-EDA 57,4 ± 4,9 79,7 ± 6,4 31,9 ± 2,9 62,0 ± 5,2 31,0 ± 2,9 18,7 ± 2,41-Acetossi-Pinoresinolo 2,2 ± 0,9 3,5 ± 0,6 2,0 ± 0,6 0,0 1,1 ± 0,1 1,4 ± 0,4Pinoresinolo 37,6 ± 3,2 39,7 ± 3,2 12,8 ± 0,9 7,6 ± 0,5 10,7 ± 0,9 7,6 ± 0,33,4-DHPEA-EA 16,4 ± 2,8 2,3 ± 0,2 6,8 ± 0,5 0,9 ± 0,0 3,1 ± 0,3 0,4 ± 0,0p-HPEA-EA 0,1 ± 0,0 0,2 ± 0,0 0,6 ± 0,0 1,0 ± 0,1 1,1 ± 0,1 1,4 ± 0,0Σ Fenoli non 89,6 ± 6,3 71,0 ± 5,2 64,0 ± 4,2 63,3 ± 6,1 66,5 ± 5,6 63,5 ± 6,2 identificatiΣ Fenoli 371,6 ± 22,1 208,7 ± 15,2 128,7 ± 11,6 165,9 ± 15,2 122,7 ± 19,1 98,7 ± 8,2

contenuto fenolico e la più elevata attività an-tiossidante. Queste due cv si sono invece distintetra loro per la diversa composizione fenolica.

6.4 Conclusioni

Gli oli dei due campi sperimentali hanno mo-strato una grande variabilità nel contenuto e nelprofilo fenolico. La Casaliva, tra le cultivar diCerignola, e la Coratina, tra quelle di Torre-

maggiore, hanno presentato il maggior conte-nuto in fenoli totali e sono risultate ricche inidrossitirosolo, tirosolo, 3,4-DHPEA-EDA e p-HPEA-EDA. Invece, la Termite di Bitetto diCerignola e la Leccino di Torremaggiore hannopresentato i più bassi contenuti in fenoli e piùricchi in p-HPEA-EDA. È stata riscontrata unabuona correlazione lineare tra il contenuto fe-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:171-184

179

Tabella 3. Composizione fenolica degli oli di Torremaggiore (mg kg-1).

Table 3. Phenolic composition of Torremaggiore oils (mg kg-1).

Fenoli Cellina Coratina Frantoio Leccino Moraiolo Nociaradi Nardò

Idrossitirosolo 2,1 ± 0,2 19,1 ± 1,9 0,7 ± 0,1 0,0 0,0 1,0 ± 0,0Tirosolo 9,1 ± 1,0 20,6 ± 2,0 4,1 ± 0,3 8,1 ± 0,2 4,2 ± 0,2 9,7 ± 0,6Vanillina 1,6 ± 0,2 2,5 ± 0,3 2,6 ± 0,2 3,7 ± 0,0 3,2 ± 0,2 1,7 ± 0,23,4-DHPEA-EDA 10,3 ± 1,0 78,2 ± 7,4 0,6 ± 0,2 0,5 ± 0,0 0,6 ± 0,0 25,1 ± 1,2p-HPEA-EDA 43,4 ± 2,8 115,1 ± 10,2 8,5 ± 1,6 16,0 ± 1,2 22,0 ± 1,9 91,5 ± 6,31-Acetossi-Pinoresinolo 2,4 ± 0,6 6,4 ± 1,2 2,9 ± 0,0 2,3 ± 0,2 3,7 ± 0,5 0,0Pinoresinolo 56,8 ± 3,8 23,2 ± 1,9 73,4 ± 6,2 4,1 ± 0,6 86,2 ± 5,6 38,4 ± 2,9 3,4-DHPEA-EA 0,5 ± 0,0 14,5 ± 1,1 3,1 ± 0,3 3,1 ± 0,3 4,0 ± 0,2 2,6 ± 0,3 p-HPEA-EA 0,3 ± 0,0 36,2 ± 2,6 14,9 ± 1,2 7,5 ± 0,4 21,2 ± 2,3 3,8 ± 0,2 ΣFenoli non identificati 56,2 ± 6,2 122,0 ± 9,9 109,7 ± 9,6 104,9 ± 6,8 99,9 ± 7,8 79,4 ± 6,3 ΣFenoli 182,7 ± 15,2 437,8 ± 16,3 220,5 ± 21,0 150,2 ± 9,3 245,0 ± 22,1 253,2 ± 19,3

A

0

100

200

300

400

500

600

Casaliva C. di

Nardò

Grignano Nociara O. barese T. di

Bitetto

B

0

100

200

300

400

500

600

C. di

Nardò

Coratina Frantoio Leccino Moraiolo Nociara

Figura 7. Contenuto fenolico totale degli oli di Cerignola(A) e Torremaggiore (B) (mg kg-1).

Figure 7. Total phenolic content of (A) Cerignola and (B)Torremaggiore oils (mg kg-1).

A

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Casaliva C. di

Nardò

Grignano Nociara O. barese T. di

Bitetto

B

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

C. di

Nardò

Coratina Frantoio Leccino Moraiolo Nociara

Figura 8. Attività antiossidante degli oli di Cerignola (A) eTorremaggiore (B) (%).

Figure 8. Antioxidant activity of (A) Cerignola and (B) Tor-remaggiore oils (%).

nolico degli oli e l’attività antiossidante. Poichéle sostanze fenoliche contribuiscono nella for-mazione del gusto degli oli vergini di oliva conle note di “amaro” e “piccante”, se si vuole por-tare sul mercato un prodotto più “delicato” sipotrebbero proporre oli derivanti da cultivarmeno ricche in fenoli come la Termite di Bitet-to di Cerignola e la Leccino di Torremaggiore.

Al contrario, se si vuole produrre un olio più“robusto” e contraddistinto da una maggioreshelf-life, si potrebbero utilizzare le cultivar piùricche in fenoli, come la Casaliva di Cerignolao la Coratina di Torremaggiore.

7. Influenza di differenti tecniche di macerazio-ne sulla frazione fenolica e l’attività antiossi-dante del vino Primitivo

7.1 Introduzione

L’importanza dei composti fenolici è correlataalla loro attività antiossidante. Studi epidemio-logici hanno dimostrato che il consumo di ali-menti e bevande ricche in fenoli contribuisconoalla riduzione della mortalità dovuta a malattiecardiache (Cul et al., 2002), all’inibizione di in-fiammazioni croniche e trombosi (Kinsella etal., 1993) e la prevenzione di certi tipi di can-cro e i benefici sono maggiori seguendo una die-ta ricca in una particolare classe di fenoli qualiflavonoidi (Bell et al., 2000). I composti fenoli-ci contribuiscono alla formazione della struttu-ra, colore e gusto del vino e rendono il prodottoidoneo all’invecchiamento. I vini rossi sono ricchiin composti fenolici semplici e complessi princi-palmente rappresentati da acidi fenolici, flavo-noidi, catechine monomere e tannini (Katalinic etal., 2004). Composizione e contenuto fenolico del-l’uva sono influenzate da diversi fattori quali va-rietà, terreno, tipo di allevamento, clima e gradodi maturazione. Inoltre, le tecnologie di vinifica-zione, le pratiche enologiche e l’invecchiamentoinfluenzano sia la composizione e il contenuto fe-nolico del vino che l’attività antiossidante. Perl’accertamento dell’attività antiossidante di ali-menti e bevande sono disponibili diversi metodianalitici ma, in assenza di un metodo standard, laloro affidabilità dipende dalle condizioni speri-mentali applicate. Il Primitivo è un tipico vitignoitaliano coltivato in Puglia le cui uve vinificate inpurezza danno un vino tannico e ricco in alcol,caratterizzato da un colore rosso-porpora e da unaroma speziato di frutti rossi. Il vitigno Primitivoè geneticamente simile allo Zinfandel california-no e al Plavac mali croato. Nonostante l’impor-tanza e la diffusione del vino Primitivo, le infor-mazioni sul suo contenuto fenolico e proprietàantiossidanti sono alquanto insufficienti. Lo sco-po del presente lavoro è stato quello di valutarel’influenza di nove tecnologie di vinificazione sul

Gambacorta G., Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E.

180

A

y = 0,1212x + 18,505

R = 0,9644; p = 0,010

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

0 100 200 300 400 500 600

Polifenoli totali (mg kg-1

)

Att

ivit

à an

tioss

idan

te (

%)

B

y = 0,1032x + 24,577

R = 0,9840; p = 0,010

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

0 100 200 300 400 500 600

Polifenoli totali (mg kg-1

)

Att

ivit

à an

tio

ssid

ante

(%

)

0

Figura 9. Correlazione tra il contenuto fenolico totale e l’at-tività antiossidante degli oli di Cerignola (A) e Torremag-giore (B).

Figure 9. Correlation between total phenolic content andantioxidant activity of (A) Cerignola and (B) Torremaggio-re oils.

Figura 10. Analisi delle componenti principali degli oli.

Figure 10. Principal components analysis of oils.

contenuto fenolico ed attività antiossidante del vi-no Primitivo.

7.2 Materiali e metodi

Campioni. Sono state allestite nove tesi, repli-cate due volte, su uve della cv Primitivo ven-demmiate a maturazione tecnologica da un vi-gneto ubicato in agro di Manduria (Taranto, Ita-lia) applicando le seguenti tecnologie di vinifi-cazione: tradizionale (T), delestage (D), salasso(S), follatura ritardata (FR), aggiunta di tanni-ni di vinaccioli (ATV), aggiunta di tannini di vi-naccioli e di bucce (ATVB), riscaldamento vi-nacce a fine macerazione (RVFM), crio-mace-razione (CM) e macerazione prolungata (MP).

Frazione fenolica. Il contenuto fenolico tota-le è stato determinato spettrofotometricamenteutilizzando il reattivo di Folin-Ciocalteu (FC)(Singleton e Rossi, 1965) e con il metodo OIV(2006) esprimendo i risultati rispettivamente inmg L-1 di acido gallico equivalenti e in indicepolifenoli totali (IPT). Le analisi dei flavonoidi

totali, antociani totali, antociani monomeri,proantocianidine e flavani reagenti con la va-nillina sono state condotte secondo le metodi-che riportate da Di Stefano et al. (1989).

Attività antiossidante. In assenza di un meto-do analitico standard accettato per i vini, la va-lutazione dell’attività antiossidante è stata con-dotta utilizzando tre diversi test: a) metodo del-l’ABTS·+/metamioglobina (Miller et al., 1993);b) metodo del β-carotene (Katalinic et al., 2004;von Gadow et al., 1997) opportunamente modi-ficato; c) metodo del DPPH (OIV n. ENO/SC-MAV/03/269, 2006).

7.3 Risultati e discussione

L’aggiunta dei coadiuvanti tannici in fase di ma-cerazione quali vinaccioli (ATV) e vinaccioli +bucce (ATVB) e la tecnica del salasso ha com-portato la produzione di vini con maggiorestruttura fenolica (tab. 4).

I due metodi di analisi dei polifenoli totaliutilizzati (FC e IPT) sono risultati entrambi va-

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:171-184

181

Tabella 4. Composizione fenolica dei vini (mg L-1).

Table 4. Phenolic composition of wines (mg L-1).

Campione Polifenoli Flavonoidi Antociani Antociani Proantocianidine Flavani reagenti totali totali totali monomeri con la vanillina

T 2008 ± 59 2226 ± 74 348 ± 24 65 ± 15 1581 ± 44 953 ± 43D 1854 ± 47 1855 ± 34 292 ± 23 57 ± 15 987 ± 46 1082 ± 48S 2165 ± 76 2115 ± 58 295 ± 25 87 ± 11 1610 ± 60 1293 ± 51FR 1689 ± 37 1815 ± 36 244 ± 14 136 ± 15 1481 ± 29 1033 ± 46ATV 2252 ± 99 2119 ± 36 245 ± 23 264 ± 53 2131 ± 51 1366 ± 55ATVB 2291 ± 44 2046 ± 57 287 ± 21 231 ± 17 2335 ± 55 1256 ± 35RVFM 1748 ± 36 1679 ± 35 278 ± 15 212 ± 38 2277 ± 20 1017 ± 54CM 1598 ± 83 1712 ± 14 254 ± 14 106 ± 12 2088 ± 66 9 64 ± 30MP 1698 ± 45 1938 ± 70 258 ± 15 97 ± 30 2490 ± 46 1109 ± 89

Figura 11. Contenuto fenolico totale dei vini determinati dopo reazione con Folin-Ciocalteu (A) e con il metodo OIV (B)e loro correlazione (C).

Figure 11. Total phenolic content of wines assessed (A) after reaction with Folin-Ciocalteu and (B) with OIV method, and(C) their correlation.

A

0

500

1000

1500

2000

2500

3000

T D S FR ATV ATVB RVFM CM MP

B

0

10

20

30

40

50

60

T D S FR ATV ATVB RVFM CM MP

C

y = 0,0235x - 2,1208

R = 0,9666; p = 0,0010

10

20

30

40

50

60

1500 1700 1900 2100 2300 2500

mg kg-1

IPT

lidi e tra loro ben correlati (R = 0,9666; p =0,001) (fig. 11). Per quanto riguarda l’attività an-tiossidante (fig. 12), l’applicazione dei tre meto-di ha dato risultati differenti. Tra i metodi te-stati quello del β-carotene ha mostrato la mag-giore correlazione con il contenuto fenolico (R = 0,8924; p = 0,01) (fig. 13). Evidentementel’attività antiossidante dei vini, come di altri

prodotti alimentari, dipende non solo dal con-tenuto fenolico ma anche dal tipo di fenoli.

L’analisi statistica delle componenti princi-pali (PCA) ha consentito di raggruppare i cam-pioni in 3 gruppi (fig. 14). Un primo gruppo èrisultato costituito dai due vini ottenuti con l’ag-giunta di tannini esogeni (ATV e ATVB), un se-condo da quelli ottenuti con la criomacerazio-ne (CM), riscaldamento finale delle vinacce(RFV), follatura ritardata (FR) e macerazioneprolungata (MP) e un terzo da quelli prodotticon la macerazione tradizionale (T), salasso (S)e delestage (D).

7.4 Conclusioni

La scelta della tecnica di macerazione per laproduzione del vino Primitivo dipende dagliobiettivi che si vogliono perseguire. L’aggiuntadi tannini di vinaccioli e/o bucce potrebbe es-sere raccomandata per la produzione di vini conuna maggiore struttura fenolica. L’attività an-tiossidante di un vino non può essere previstasolo sulla base del suo contenuto fenolico. Essadipende anche dalla specifica composizione fe-nolica e dal metodo analitico utilizzato. Tra i tremetodi utilizzati quello del β-carotene sembra

Gambacorta G., Baiano A., Previtali M.A., Terracone C., La Notte E.

182

Figura 12. Attività antiossidante dei vini: metamioglobina/Abts (Attività Antiossidante %) (A), β-carotene (CoefficienteAttività Antiossidante) (B) e DPPH (ED50) (C).

Figure 12. Antioxidant activity of wines: (A) metamioglobin/Abts (% Antioxidant Activity), (B) β-carotene (AntioxidantActivity Coefficient), and (C) DPPH (ED50).

A

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

20

T D S FR ATV ATVB RVFM CM MP

B

0

500

1000

1500

2000

2500

3000

3500

4000

T D S FR ATV ATVB RVFM CM MP

C

0

0.02

0.04

0.06

0.08

0.1

0.12

0.14

T D S FR ATV ATVB RVFM CM MP

i

Figura 13. Correlazione tra polifenoli totali (PT) ed attività antiossidante dei vini: PT/ABTS (A), PT/β-carotene (B) ePT/DPPH (C).

Figure 13. Correlation between total polyphenols (TP) and antioxidant activity of wines: (A) TP/ABTS, (B) TP/β-carote-ne, and (C) TP/DPPH.

A

y = 0,0048x + 1,5914

R = 0,4805; p > 0,050

2

4

6

8

10

12

14

16

1500 1700 1900 2100 2300 2500

Polifenoli totali (mg kg-1

)

AA

AB

TS

(%

)...

..

B

y = 1,3568x + 48,437

R = 0,8924; p = 0,010

500

1000

1500

2000

2500

3000

3500

1500 1700 1900 2100 2300 2500

Polifenoli totali (mg kg-1

)

AA

-car

ote

ne.

...

C

y = -4E-07x + 0,1029

R = 0,01; p > 0,050

0.02

0.04

0.06

0.08

0.1

0.12

0.14

1500 1700 1900 2100 2300 2500

Polifenoli totali (mg kg-1

)

AA

DP

PH

(E

D 5

0)

i

Figura 14. Analisi delle componenti principali dei vini.

Figure 14. Principal components analysis of wines.

essere il più efficace nella valutazione dell’atti-vità antiossidante del vino. Un limite di questisaggi è rappresentato dal fatto che la capacitàriducente non riflette necessariamente l’effica-cia antiossidante dei campioni considerati.

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Difesa delle colture e sicurezza degli alimenti:considerazioni sulla filiera cereali

Pasquale Trematerra*1, Maria Lodovica Gullino2

1 Dipartimento di Scienze Animali, Vegetali e dell’Ambiente, Università del MoliseVia De Sanctis, 86100 Campobasso2Agroinnova, Università di Torino

Via Leonardo da Vinci 44, 10095 Grugliasco (TO)

Associazione Italiana per la Protezione delle Piante (AIPP)

Riassunto

Nella protezione delle colture e dei prodotti derivati il ricorso esclusivo alla lotta chimica può essere sostituito dal-l’Integrated Pest Management (o IPM) che enfatizza la sinergia di più discipline e misure di intervento in una ge-stione complessiva, indirizzata alla prevenzione dei danni, prima del raggiungimento delle soglie economiche. Nelfuturo il settore agro-alimentare dovrà applicare estesamente l’IPM, per soddisfare le richieste dei consumatori edelle loro associazioni, sempre più interessati alla sicurezza degli alimenti, riducendo l’uso di biocidi. Nel presentelavoro si riportano alcune considerazioni, sulle innovazioni tecnologiche più diffuse ed efficaci applicabili alla filie-ra cereali.

Parole chiave: difesa colture, sicurezza alimenti, filiera cereali, IPM.

SummaryPLANT PROTECTION AND FOOD SAFETY: NOTES ON CEREAL CHAIN

Integrated Pest Management (or IPM) is a decision-making process that prevents pest activity and infestation bycombining several strategies to achieve long-term solutions. Components of an IPM program may include educa-tion, proper waste management, structural repair, maintenance, biological and mechanical control techniques, andpesticide application. These tactics should meet economic, public health and environmental goals. In this paper newmethods and strategies of pest control in cereal chain are reported.

Key-words: pant protection, food safety, cereal chain, IPM.

* Autore corrispondente: tel.: + 39 0874 404655. Indirizzo e-mail: [email protected]

Ital. J. Agron. / Riv. Agron., 2009, 1 Suppl.:185-191

1. Introduzione

Negli ultimi anni la difesa delle colture dagli at-tacchi dei parassiti animali e vegetali ha semprepiù richiamato l’attenzione di tutta quanta la fi-liera agro-alimentare, non soltanto per le evi-denti implicazioni sulle produzioni agricole maanche, e soprattutto, per l’impatto che essa puòavere sulla sicurezza degli alimenti. Si prenda inesame l’effetto positivo sulla qualità delle pro-duzioni rivestito dalla disponibilità di mezzi didifesa chimici a sempre minore impatto am-bientale, dall’impiego di metodi fisici e biologi-

ci di lotta e, più in generale, dall’adozione distrategie innovative. Le esigenze di sicurezzaigienica e di elevata qualità degli alimenti han-no progressivamente assunto un rilievo prima-rio e l’opinione pubblica ha esplicitamente evi-denziato la necessità di adeguare il processoproduttivo, in modo da assicurare il rispetto del-l’ambiente e della salute dei consumatori.

Nel corso del tempo il concetto stesso di di-fesa delle colture e dei prodotti derivati ha su-bito una profonda evoluzione, evidenziata an-che dalla terminologia adottata. Basta, infatti,

consultare i testi di qualche decina di anni faper assistere ad un uso molto frequente del ter-mine lotta, in seguito attenuato in difesa e, in-fine, di protezione oppure nel recente manage-ment delle infestazioni o delle malattie. Ciò evi-denzia una vera e propria evoluzione dei crite-ri di approccio, passati da una tendenza ad eli-minare completamente i parassiti fino ad arri-vare ad una loro gestione eco-compatibile, inmodo tale da evitare il superamento delle so-glie tollerabili per ciascuna coltura e contestocolturale, prodotto alimentare o comparto in-dustriale.

La protezione delle colture e dei prodottitrasformati è evoluta, quindi, dall’impiego pre-valente, se non esclusivo, di biocidi ad un con-cetto di protezione integrata (Integrated PestManagement o IPM), basata sull’uso combina-to e razionale dei diversi mezzi disponibili mi-rato a massimizzare i benefici e a ridurre al mi-nimo i relativi rischi. Ulteriori progressi, al ri-guardo, si avranno con l’affermarsi dell’agricol-tura di precisione. I risultati conseguiti hannoconsentito un graduale e complessivo migliora-mento dell’intera filiera agro-alimentare contri-buendo a risolvere il difficile compito di garan-tire l’assenza di residui dei mezzi chimici im-piegati per migliorare le produzioni, ma anchequella di pericolosi contaminanti di origine na-turale quali le micotossine.

In questa sede si prendono in esame alcuniaspetti riferiti alla filiera cereali, fonte alimen-tare per gran parte delle popolazioni nei varicontinenti.

In tale contesto negli ultimi tempi a fiancodi sistemi di difesa antiparassitaria tradizionali,ne sono stati messi a punto altri, innovativi ecomplementari, tanto che oggi il ricorso esclu-sivo alla lotta chimica, in molti casi, può esseresostituito dall’IPM. I punti salienti comprendo-no la conoscenza dei fattori che regolano i si-stemi coinvolti, il monitoraggio delle popolazio-ni dannose, la disponibilità di dati storici, peradottare le più opportune misure di gestionedelle infestazioni. Lo sviluppo e l’attuazione diprogrammi di IPM sono stati presi in conside-razione e realizzati sia nella salvaguardia di pro-dotti grezzi, sia per quelli trasformati e di mer-ci. Nel futuro il settore agro-alimentare dovràapplicare ancora più estesamente tali indirizzi,per soddisfare le maggiori richieste dei consu-matori e delle loro associazioni, sempre più in-

teressati alla sicurezza degli alimenti, riducendol’uso dei biocidi e i rischi connessi al loro impiego.

Nel caso dei parassiti vegetali, particolare at-tenzione va prestata non solo al contenimentodei patogeni stessi, ma anche alla prevenzionedella loro contaminazione da metaboliti tossici.La presenza di micotossine nelle derrate cerea-licole rappresenta, di fatto, un problema di no-tevole importanza, cui solo in anni recenti si èprestata la dovuta attenzione. La formazione dimicotossine nelle colture infette e la loro persi-stenza negli alimenti e nei mangimi è, infatti,spesso associata a micotossicosi acute e croni-che degli allevamenti e, direttamente o indiret-tamente, dell’uomo. Nei cereali le micotossinesono prodotte da funghi appartenenti ai generiFusarium, Aspergillus, Alternaria e Penicillium,presenti in aree temperate, semi-tropicali e tro-picali. Sia i cereali autunno-vernini che quelliprimaverili-estivi possono essere contaminati. Inpresenza di condizioni favorevoli al loro svilup-po, i funghi tossigeni possono produrre mico-tossine in tutte le fasi della filiera cerealicola.Di particolare rilevanza, nelle nostre condizioniper i cereali sono le micotossine prodotte daspecie di Fusarium, agenti della fusariosi dellaspiga. Tali micotossine sono molto resistenti aipiù comuni agenti fisici, chimici e microbiologi-ci utilizzati nell’industria agroalimentare e per-tanto gli interventi di difesa si basano fonda-mentalmente su misure di lotta agronomica(Moretti et al., 2006).

Di seguito si riportano alcune brevi consi-derazioni, sulle innovazioni tecnologiche più dif-fuse ed efficaci che aiutano a gestire le infesta-zioni e le contaminazioni nella filiera cereali(Fields e White, 2002; Trematerra e Süss, 2007).

2. Mezzi e metodi di lotta

2.1 Mezzi chimici

Per la disinfestazione dei cereali, oltre che di in-teri edifici, possono essere utilizzati prodotti li-quidi, che vengono distribuiti durante le movi-mentazioni, oppure sono irrorati direttamentesu pareti e pavimenti, nel caso in cui la disinfe-stazione riguardi intere industrie.

È evidente che, quando si opera all’internodi strutture, per di più destinate alla produzio-ne di alimenti, o ad altro, è necessario utilizza-

Trematerra P., Gullino M.L.

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re principi attivi a bassa tossicità, quali i pire-troidi sintetici. Le possibilità pratiche prevedo-no la distribuzione dei formulati sulle pareti,con uso di sostanze dall’attività protratta neltempo, per combattere insetti annidati in an-fratti o larve migranti sui muri, alla ricerca dipunti ove incrisalidarsi, oppure con irrorazionispaziali mediante termonebbiogeni o generato-ri di microparticelle, a freddo. Tali trattamentisono effettuati con piretrine naturali, eventual-mente attivate da butossido di piperonile, o conpiretroidi sintetici, comunque caratterizzati daeffetto abbattente e bassissima persistenza. Neconsegue che il risultato ottenibile è quello diuccidere insetti in volo, non nascosti; gli esiti so-no limitati e la scelta di tale linea di difesa ri-chiede la programmazione di un elevato nume-ro di interventi. Per insetti annidati in anfratti,quali blatte e formiche, è invece possibile l’uti-lizzo di biocidi ad azione persistente (piretroi-di, carbammati o fosforganici) da impiegare intrattamenti localizzati, nei luoghi in cui è stataindividuata, tramite un monitoraggio, la loropresenza. La lotta a tali infestanti può esserecondotta con l’impiego di prodotti formulati co-me esche/gel. Si tratta di un metodo che richie-de una maggiore professionalità da parte deglioperatori perché non è necessario irrorare am-pie superfici, ma è indispensabile distribuire legocce di gel nei punti giusti e in quantità ade-guata, dopo aver effettuato un’attenta analisidella situazione, riconoscendo la specie infe-stante, la densità della colonia, la presenza o me-no di individui giovani, etc..

Se invece si passa a considerare la disinfe-stazione diretta di derrate, è necessario innanzitutto evidenziare che è consentito impiegareprodotti fitosanitari liquidi solo sui cereali daimmagazzinare. Si tratta di una tecnica ben no-ta da tempi lontani, attuata grazie all’utilizzo diapposite pompe distributrici, installate sui red-ler o alla base degli elevatori. Al momento siusano prodotti a base di deltametrina, dichlor-vos, pirimiphos metile, sostanze caratterizzateda una protratta persistenza, che agiscono percontatto, ingestione e, in alcuni casi, anche perasfissia. È da evidenziare che nessuna di questesostanze è in grado di eliminare tutti gli stadivitali degli insetti eventualmente presenti, tantopiù che spesso si sviluppano nelle cariossidi, co-me è il caso dei Sitophilus, di Sitotroga cerea-lella e di Rhyzopertha dominica. Ne consegue

che, se la persistenza non è particolarmente ele-vata gli adulti sfarfallano ad efficacia del trat-tamento ormai nulla: ciò può spiegare, in varicasi, il perpetuarsi dell’infestazione! Il larghissi-mo utilizzo in tutto il mondo di questi principiattivi ha portato alla selezione di ceppi di insettiresistenti; anche in Italia il fenomeno pare in viadi diffusione, considerando i diversi eventi di in-successo nell’uso di prodotti di contatto sui ce-reali, che vengono di mano in mano segnalati.Tra le specie coinvolte, R. dominica pare esserequella con più casi di resistenza. È da menzio-nare anche l’impiego di piretro naturale, nellostoccaggio di cereali biologici. Trattandosi di unasostanza caratterizzata dalla bassa tossicità edall’assenza di persistenza, vengono ancor piùevidenziati i limiti che si hanno nel suo utilizzo.La risposta all’insuccesso di un trattamento dicontatto è spesso la ripetizione dell’intervento,aumentando la concentrazione del formulato.Ne consegue il rischio di un’elevata quantità diresidui nel cereale e nei prodotti derivati, a vol-te superiore ai limiti di legge.

Tra i mezzi chimici innovativi, da usare perla disinfestazione degli ambienti, va annoveratoil sulfurilfluoride, gas fumigante sperimentato indiverse realtà pratiche. È un valido mezzo di di-sinfestazione dell’industria molitoria, ma il suoutilizzo deve essere affidato a personale specia-lizzato. Il venir meno dell’uso del bromuro dimetile per le disinfestazioni, ha coinvolto glioperatori del settore, alla ricerca di valide solu-zioni alternative (Savigliano et al., 2006). La piùimmediata è stata quella che prevede l’utilizzodi idrogeno fosforato o fosfina; altri si sono ri-volti agli insetticidi di contatto, con impiego dimezzi fisici per la protezione del riso brillato.Per quanto si riferisce all’uso della fosfina, è daaccennare il suo utilizzo nella disinfestazionedei cereali, non più con distribuzione di com-presse di fosfuro di alluminio o di magnesio, macontenuta in buste porose da mettere sulla su-perficie della partita, o in combinazione con ani-dride carbonica alimentare (E290), in grado didiffondere omogeneamente il gas tossico in tut-ta la massa. Il problema di ottenere un’adegua-ta, uniforme concentrazione in un silo è di pri-maria importanza per garantire l’efficacia deltrattamento, evitando oltre tutto l’insorgere diceppi resistenti. Da alcuni anni, per ottenerequesto risultato, è stato messo a punto il meto-do J-System; con tale tecnica, grazie ad un si-

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stema di tubazioni, si preleva il gas dalla super-ficie della massa, per reinsufflarlo dalla base delmagazzino. La fosfina ha purtroppo un’efficaciamodesta nei confronti dei parassiti vegetali.

2.2 Mezzi fisici

2.2.1 Polveri inerti. Si tratta di polveri a base difarina fossile di diatomee o di zeoliti. Questepresentano una granulometria e una strutturatale da intaccare le membrane intersegmentalidel corpo degli artropodi, provocando la loromorte per disidratazione, oppure per menoma-zioni. Sono particolarmente idonee in ambientia bassa umidità relativa, come si verifica in unmagazzino o all’interno di una massa di cerea-le. La maggiore efficacia delle polveri si ha agranulometria fine e uniforme, caratteristica chesi riscontra soprattutto nelle farine di diatomee,rispetto a quella più grossolana, propria dellezeoliti. Al riguardo i prodotti registrati preve-dono dosi d’impiego che variano da 300g a1000g per tonnellata di cereale; la quantità con-sigliata, da miscelare nella massa è pari allo 0,2-0,5%. L’attività in laboratorio è ottima, ma sisono osservati dei problemi di distribuzione delprodotto su grosse masse di cereale e in localiampi. In Australia si integrano le polveri inerticon l’aerazione o con le fumigazioni. Sono an-che valide nella protezione di magazzini e ce-reali in precedenza trattati con gas tossici, at-mosfera modificata oppure freddo, impedendola loro reinfestazione. Di recente si sono osser-vati buoni risultati mescolando le diatomee consostanze insetticide, anche IGR.

2.2.2 Microonde. I campi ad alta frequenza ven-gono da qualche tempo proposti come mezzoatto a conseguire la disinfestazione. Le fre-quenze adottate sono da 6,78 kHz a 2,45 GHz(di recente anche 28 GHz) con tempi di espo-sizione variabili in accordo con la specie infe-stante e altri parametri. Risultati interessanti siosservano su prodotti caratterizzati da bassaumidità, quali cereali, farine, frutta e vegetali es-siccati, cacao, prodotti da erboristeria, legno.

2.2.3 Radiazioni ionizzanti. Le fonti sono i rag-gi gamma, i raggi X e gli elettroni accelerati. Traquesti i raggi gamma hanno un elevato poteredi penetrazione, il loro utilizzo richiede attrez-zature costose; agiscono rapidamente e consen-tono di trattare notevoli masse di derrate. Le ra-diazioni sono attive solo nei confronti degli or-

ganismi viventi e quindi possono essere impie-gate anche sui prodotti finiti, già confezionati,senza il rischio di residui. Negli USA in variesituazioni pratiche si tende ad utilizzare dosag-gi prossimi a 1kGy.

Dosi di 2 kGy risultano idonee anche neiconfronti di microrganismi. L’efficacia del trat-tamento è legata alla cura che si pone a fare inmodo che tutto quanto il materiale venga rag-giunto dalle radiazioni. In alcuni casi sono statimessi a punto dei metodi di applicazione cheprevedono di fare passare i cereali attraverso unflusso di aria. Uno dei problemi pratici che siincontra è legato alla presenza contemporaneadi più parassiti, aventi una diversa sensibilità al-le radiazioni. L’esposizione condiziona l’esitodel trattamento, perché influenza lo stato meta-bolico del bersaglio.

Riferito ai cereali, pertanto, l’intervento conradiazioni ionizzanti risulta sufficientemente ef-ficace per eliminare parassiti animali, non in-fluenza negativamente le caratteristiche orga-nolettiche e risulta economicamente sostenibile.In alcuni casi è stato, inoltre, osservato un ef-fetto positivo sulla conservabilità del materialetrattato. Tale tecnica incontra però numerosiostacoli per l’avversione dei consumatori e perl’installazione degli impianti

2.2.4 Temperature estreme. Le condizioni idealidi sviluppo per la gran parte degli insetti dellederrate sono 25-33 °C e 65-75% di umidità re-lativa. Nel caso di infestanti, la manipolazionedegli habitat, e quindi dei parametri presenti,può rallentare o bloccare la loro dinamica. Piùcomplicati, invece, sono gli interventi nei con-fronti di parassiti vegetali.

Basse temperature. Portare la temperatura aldi sotto della soglia ottimale, consente di con-trastare sia il deterioramento delle caratteristi-che chimico-fisiche e organolettiche delle der-rate, sia lo sviluppo e la diffusione degli infe-stanti. Le basse temperature rallentano il meta-bolismo degli artropodi senza devitalizzarli, perquesto vengono considerate un sistema di pre-venzione e contenimento delle avversità. La re-frigerazione è molto diffusa nel settore cereali-colo; la bassissima conducibilità termica dellegranaglie, fa sì che esse mantengano la loro tem-peratura pressoché inalterata, indipendente-mente da quella esterna. Lo sviluppo della mag-gior parte degli artropodi legati ai cereali si ar-

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resta a circa 18 °C. Temperature tra 15 °C e -15°C possono uccidere tutti gli infestanti; a -18 °Ci nemici delle derrate muoiono in 2-3 minuti; giàin condizioni inferiori a 5 °C non sono capacidi muoversi. La mortalità è condizionata dallostadio di sviluppo, dall’acclimatamento e dalladurata dell’esposizione. Dal punto di vista pra-tico, gli inconvenienti più rilevanti che presental’utilizzo di tale tecnica è dato dagli alti costi digestione e dalla necessità di impianti di stoc-caggio già predisposti. Le basse temperature silimitano invece a rallentare semplicemente losviluppo dei parassiti vegetali.

Alte temperture. È sufficiente aumentare iparametri ottimali di temperatura di 5 °C perottenere l’arresto dello sviluppo nella gran par-te delle specie infestanti. Per S. oryzae, il più al-to tasso di moltiplicazione si ha a 29 °C, ma ta-le tendenza si annulla a 35 °C; in R. dominicail massimo accrescimento si ha a 34 °C, la mol-tiplicazione invece si arresta a 38,6°C. La dura-ta dell’esposizione, la specie coinvolta, lo stadiointeressato, l’acclimatamento, l’umidità relativae la temperatura del prodotto influiscono sul-l’efficacia di tale trattamento.

L’attenzione del settore è focalizzata soprat-tutto sull’uso di aria calda in letti fluidi, ondeelettromagnetiche ad alta frequenza, microondee raggi infrarossi. Questi quattro metodi con-sentono di riscaldare in breve tempo derrate,granaglie o sfarinati, fino a 50-60 °C e raffred-darle anche con altrettanta rapidità. I dati di-sponibili in letteratura indicano che la maggiorparte delle specie non sopravvive più di 24 orea 40 °C; 12 ore a 45 °C; 5 minuti a 50 °C; 1 mi-nuto a 55 °C e 30 secondi a 60 °C. Nelle ope-razioni pratiche di intervento occorre prestareattenzione ai materiali plastici, ai macchinari,agli eventuali impianti antincendio. Esiste il ri-schio che non si riesca a raggiungere la tempe-ratura necessaria in tutti i punti dei vari am-bienti, con la possibilità quindi di reinfestazioniimmediate; per evitare ciò è necessario ricorre-re all’ausilio di interventi insetticidi di contattolocalizzati.

Il calore secco permette di ottenere solo ra-ramente un effettivo contenimento di funghi,batteri, nematodi o virus insediati su cereali.Forme alternative di trattamento che prevedo-no una differente veicolazione dell’energia ter-mica sono state messe a punto. L’impiego di va-pore aerato è alla base di una tecnica di tratta-

mento sviluppata in modo commerciale in Sve-zia (Forsberg et al., 2002), con buoni risultati neiconfronti di patogeni di cereali (Tinivella et al.,2005). Il trattamento si basa sull’effetto letale diun fascio di elettroni a bassa energia ed è sta-to sviluppato appena dopo il 1980 per contene-re in modo particolare i patogeni del frumento.

2.2.5 Atmosfere controllate. Sono da ricordarel’anidride carbonica (CO2) tal quale, oppure sot-to vuoto o ad alta pressione, e l’azoto (N2). Al-l’uso delle atmosfere controllate vengono rico-nosciuti diversi vantaggi, quali l’assenza di resi-dui, la riduzione dei rischi nel corso dell’appli-cazione, la possibilità di impiego delle derratesubito dopo la disinfestazione. In Italia l’azototrova applicazioni limitate, a causa della man-canza di strutture predisposte. Nella conserva-zione dei cereali occorre tenere l’ossigeno sot-to l’1% per un periodo di 3-4 settimane, cosapossibile solamente nei magazzini a tenuta sta-gna. L’utilizzo della CO2 risulta invece molto ef-ficace, a condizione che siano rispettate le quan-tità e i tempi di esposizione. È sufficiente unaconcentrazione del 40-60% raggiungibile anchein magazzini non perfettamente ermetici. In me-rito sono stati effettuati esperimenti con l’uti-lizzo della CO2 a bassa o ad alta pressione inautoclave. Tale operatività si può applicare peròa limitati quantitativi di prodotto e richiede at-trezzature molto costose. La CO2 in bombole osotto forma di ghiaccio secco può essere un ot-timo coadiuvante nel caso di trattamenti con fo-sfina. È in commercio una formulazione in cuiil principio attivo si trova in bombole, sotto for-ma di gas, in miscela con anidride carbonica(3% di PH3 e 97% di CO2); tale sistema per-mette di dimezzare sia i tempi di trattamento esia la quantità di principio attivo impiegato. Tut-tavia i costi degli impianti sono molto elevati espesso insostenibili. Tale tipo di trattamento tro-va, perciò, applicazioni più ricorrenti su derratepregiate (quali ad esempio caffè, cacao, spezie,frutta essiccata etc.).

2.3 Lotta biologica Il controllo biologico è ancora in fase speri-mentale, tuttavia vi sono applicazioni degne dinota, che in alcuni casi hanno conseguito anchesuccessi pratici.

2.3.1 parassitoidi e predatori. Oltre 50 parassi-toidi e predatori sono stati trovati a carico di

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circa 75 specie di artropodi dannosi. I vantaggidella lotta biologica risiedono soprattutto nel-l’eliminazione di contaminanti chimici, nell’effi-cacia e nella precisione di intervento anche inpresenza di alimenti. Gli svantaggi si raggrup-pano nella possibile contaminazione dei pro-dotti finiti e nella complessità d’uso. Tra i pre-datori sono da ricordare gli esperimenti preli-minari realizzati soprattutto con Xylocoris fla-vipes e Lyctocoris campestris, attivi limitatori didiverse specie infestanti, siano essi lepidotteri ocoleotteri. Potenzialità di controllo biologico de-gli acari nocivi, si hanno soprattutto da parte delpredatore Cheyletus eruditus.

2.3.2 Microrganismi. Tale protezione non offreancora risultati diffusi e pienamente soddisfa-centi. Bacillus thuringiensis, rispetto ai più tra-dizionali insetticidi, è caratterizzato da scarsissi-ma tossicità nei confronti dei parassitoidi e deipredatori, ma la mortalità indotta negli infe-stanti varia seconda la specie e la concentrazio-ne d’uso. Un discreto successo si è riscontratonell’applicazione di un virus attivo nei confron-ti di P. interpunctella, il limite di tale microrga-nismo consiste nella sua estrema specificità. Lepotenzialità di alcuni funghi entomopatogeni(come i micromiceti) sono state studiate in la-boratorio; molta attenzione meritano ancora leformulazioni applicative. Alcuni protozoi posso-no invadere l’ospite per ingestione: Nosemawhitei, trovato quale patogeno in T. castaneum;nei triboli sono stati rinvenuti Adelina tribolii,Farinocystis tribolii e Lymphotropha tribolii.

L’impiego di microrganismi capaci di limita-re lo sviluppo di parassiti vegetali in grado diattaccare i cereali durante la conservazione nontrova ancora applicazioni pratiche, a causa deirisultati solo parziali, e poco ripetibili, e del co-sto legato allo sviluppo di biofitofarmaci. Le ri-cerche in questo settore si sono concentrate so-prattutto sull’impiego di specie di Trichodermae Clonostachys tra i funghi, di diversi lieviti, diPseudomonas e Bacillus tra i batteri nella con-cia di sementi per contenere lo sviluppo di pa-togeni trasmessi per seme (Tinivella et al.,2003).

2.4. Mezzi biotecnici

2.4.1 feromoni. Le trappole a feromoni vengo-no impiegate per rilevare sia la presenza sia ladensità di eventuali parassiti. Esse risultano uti-

li anche nella definizione di aree e di settori in-festati (monitoraggio). Generalmente sono mol-to efficaci quando la presenza di infestanti ècontenuta, tanto da essere usate anche dal pun-to di vista qualitativo per fornire indicazioni cir-ca l’incidenza dei danni. Il loro corretto impie-go consente di razionalizzare le procedure dilotta, attraverso interventi mirati e limitati sol-tanto ai casi strettamente necessari. I feromonisi usano anche come lotta diretta.

Cattura massiva, il solo intrappolamento diuna specie infestante richiede una quantità ele-vata di catture, in modo tale da evitare l’accop-piamento in quasi tutti gli individui presenti. Difronte ad un’infestazione abbondante le possi-bilità di incontro tra i due sessi sono piuttostofrequenti e la cattura massiva risulta difficile daattuare; al contrario in situazioni più contenutela cattura può risultare incisiva e ridurre la po-polazione a livelli poco significativi.

Metodo attratticida, il concetto su cui si basaquesto metodo coinvolge un feromone e un bio-cida, abbinati su una superficie limitata. L’in-setto target, seguendo il richiamo della fonte at-trattiva finisce per poggiarsi sull’area cosparsadi insetticida, oppure di un altro biocida (adesempio un patogeno), che ne causa la mortecon effetto abbattente o per contaminazione ir-reversibile. Tale sistema fornisce risultati similialla cattura massiva.

Confusione sessuale, il meccanismo con cuipuò essere ottenuta la confusione è uno, o unacombinazione, dei seguenti: esposizione ad un li-vello elevato di feromone, sino ad arrivare al-l'adattamento dei recettori antennali; esposizio-ne a un livello sufficientemente alto di feromo-ne, in grado di mascherare i richiami chimici na-turali; applicazione di numerose fonti di emis-sione di feromone sintetico, in modo da disto-gliere la ricerca dei consimili. Le possibilità so-no simili a quanto riportato per la cattura mas-siva.

3. Prospettive future

Nella lotta agli infestanti altre innovazioni sonostate proposte e vengono già usate, oppure so-no in fase di sperimentazione e sviluppo: si ri-corda, ad esempio, l’induzione di sterilità me-diante sostanze chimiche, l’impiego di sostanzerepellenti e antifeedants, l’uso della forza cen-

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trifuga negli entoleter, le applicazioni a base diozono, il ricorso a confezioni realizzate con ma-teriali resistenti all'aggressione.

Per quanto riguarda i parassiti vegetali, cer-tamente la perdita del bromuro di metile hacausato problemi non irrilevanti, in quanto i fu-miganti impiegati o impiegabili in sostituzionehanno una spiccata azione insetticida e una mi-nore azione fungicida. In futuro, pertanto, mag-giore attenzione andrà prestata anche alla pos-sibile contaminazione da micotossine.

Negli ultimi anni sono state realizzate anchenuove apparecchiature utili alla stima delle po-polazioni dannose, alla gestione dei fumiganti,così come di altri metodi di lotta. Un’ulterioremigliore applicazione dell’IPM deriva dallo svi-luppo e messa a punto di alcuni sistemi deci-sionali su base informatica, in grado di valuta-re l’evolversi di un’infestante e la distribuzionespazio-temporale dei suoi individui, in funzionedei principali parametri ambientali (Trematerrae Sciarretta, 2005).

Tuttavia nessuna delle tecniche disponibilipuò da sola risolvere i problemi legati alla pro-tezione di merci, derrate e industrie. Per otte-nere risultati accettabili è necessario saper ge-stire di volta in volta gli ambienti in cui esse sitrovano, integrando fra loro le diverse cono-scenze.

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