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PURGATORIO CANTO 01 1-6. Come abitudine della poesia epica e classica, l'esordio della cantica si articola nella esposizione del contenuto (vv. 1-6) e nella invocazione alle Muse (vv. 7- 12); la medesima procedura nell'Inferno (II.1-9) e nel Paradiso (I.1-36). La metafora della navigazione difficile per indicare un viaggio morale è classica; l'ingegno poetico stesso è presentato come una imbarcazione (navicella), mentre Beatrice, quando apparirà al pellegrino, lo farà nelle vesti di ammiraglio (Purg. XXX.58- 66). "La chiosa dell'Ottimo, secondo cui 'nello Inferno passa con barca, quasi ogni ingegno sia sufficiente a quello; nel Purgatorio introduce navicella, che è maggiore che barca e minore che nave', non dovrebbe indurre a una lettura in senso diminutivo di un termine-emblema destinato a rimaner vincolato all'uso dantesco proprio perché s'inserisce in quella prodigiosa gradatio della flottiglia dell'ingegno che, salpando prima con la nave che alza solo l'artimone della ragione (Conv. II.i) e poi con l'agile e propizia consorella purgatoriale che alza tutte le vele ma non ancora per distanziare le barchette, si adornerà del legno che cantando varca, troppo rapido per quelli della piccioletta barca ma non per quelli del navigio atto a tener dietro al mio solco (Par. II), [...] per navigare infine, virando e potenziando la prora delle Georgiche (IV.117), con l'orgoglio dell'ardita prora che fende mari interdetti a picciola barca (Par. XXII.68, 67)" (A. Illiano, Purgatorio I.1-31, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di S. Pasquazi, Napoli, Federico & Ardia, 1993, p. 452). Dunque il poeta, dopo aver trattato del mar crudele (l'Inferno: cfr. saeva... aequora a Aen. IV.523-524), si accinge a "cantare" del Purgatorio (il secondo regno; l'Inferno è il regno dei dannati: Inf. VIII.85), dove l'anima si purifica: in effetti, l'anima è già stata assolta da Dio, però essa, prima di ascendere in Paradiso (il ciel), deve ancora pagare il debito di pena temporale e liberarsi delle impurità che hanno generato il peccato. Si noti il senso di elevazione espresso da verbi come correr, alza, lascia,

Purgatorio 1 (DDP)

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PURGATORIO CANTO 01 1-6. Come abitudine della poesia epica e classica, l'esordio della cantica si articola nella esposizione del contenuto (vv. 1-6) e nella invocazione alle Muse (vv. 7-12); la medesima procedura nell'Inferno (II.1-9) e nel Paradiso (I.1-36). La metafora della navigazione difficile per indicare un viaggio morale è classica; l'ingegno poetico stesso è presentato come una imbarcazione (navicella), mentre Beatrice, quando apparirà al pellegrino, lo farà nelle vesti di ammiraglio (Purg. XXX.58-66). "La chiosa dell'Ottimo, secondo cui 'nello Inferno passa con barca, quasi ogni ingegno sia sufficiente a quello; nel Purgatorio introduce navicella, che è maggioreche barca e minore che nave', non dovrebbe indurre a una lettura in senso diminutivo di un termine-emblema destinato a rimaner vincolato all'uso dantesco proprio perché s'inserisce in quella prodigiosa gradatio della flottiglia dell'ingegno che, salpando prima con la nave che alza solo l'artimone della ragione (Conv. II.i) e poi con l'agile e propizia consorella purgatoriale che alza tutte le vele ma non ancora per distanziare le barchette, si adornerà del legno che cantando varca, troppo rapido per quelli della piccioletta barca ma non per quelli del navigio attoa tener dietro al mio solco (Par. II), [...] per navigare infine, virando e potenziando la prora delle Georgiche (IV.117), con l'orgoglio dell'ardita prora che fende mari interdetti a picciola barca (Par. XXII.68, 67)" (A. Illiano, Purgatorio I.1-31, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di S. Pasquazi, Napoli, Federico & Ardia, 1993, p. 452). Dunque ilpoeta, dopo aver trattato del mar crudele (l'Inferno: cfr.saeva... aequora a Aen. IV.523-524), si accinge a "cantare" del Purgatorio (il secondo regno; l'Inferno è il regno dei dannati: Inf. VIII.85), dove l'anima si purifica: in effetti, l'anima è già stata assolta da Dio, però essa, prima di ascendere in Paradiso (il ciel), deve ancora pagare il debito di pena temporale e liberarsi delle impurità che hanno generato il peccato. Si noti il senso di elevazione espresso da verbi come correr, alza, lascia,

salire. Per quanto riguarda l'aggettivo miglior, esso esprime una comparazione, che però sembra non sussistere, data la netta separazione fra il regno dei dannati e quello dei salvati; si tratta allora - come chiosano il Lana e l'Ottimo - di una comparazione non a parte patientis (i peccatori), bensì a parte disponentis, "che è la giustizia di Dio, la quale punisce li peccati, sì è ella buona". Più inesteso Benvenuto: "... prima aqua, idest materia, est bonaratione justitiae, quae in se bona est, quae etiam fuit bona pro poeta et sequentibus eum: secunda est melior, quia habet in se justitiam et misericordiam: tertia est optima, quia habet in se summum bonum et perfectam felicitatem".

7-12. L'invocazione di Dante alle Muse, alle quali egli siè sempre dedicato (vostro sono: cfr. Purg. XXIX.37-39; Orazio, Od. III.iv.21), implica una richiesta di aiuto: inparticolare egli, come Virgilio (Aen. IX.525), si rivolge aCalliope, la musa più importante (Metam. V.662), mentre nell'esordio del Paradiso si rivolgerà ad Apollo. Ora la poesia non è più morta, poiché non concerne più le anime spiritualmente morte (per Benvenuto e Buti, invece, il poeta accenna allo stato della poesia ai suoi tempi, come se fosse stata trascurata); essa perciò deve risorgere, assumendo un tono più elevato (già la forma resurga è calco del lat. resurgat) e limitando l'utilizzo dei suoni aspri. Il Purgatorio tratta delle anime spiritualmente vive,e perciò in tal senso 'risorte'; e risorto è anche il pellegrino Dante, che nella selva oscura era stato così vicino alla morte che molto poco tempo a volger era (v. 60). La 'resurrezione' del pellegrino, giustificato in coincidenza con la 'inversione' / 'conversione' attuata alcentro della terra ("Rivolgi gli empi e non esistono più":Prov. 12.7; ossia: "Quando si è convertiti, gli empi non esistono più": S. Gregorio, Hom. in Ev. 32.2), è in sintonia con il periodo pasquale in cui il suo viaggio si colloca: il riferimento cronologico è quello dell'alba della domenica (di Pasqua: cfr. Inf. XXXIV, n. 91-93), per cui Dante (che rappresenta l'intera umanità) ci ricorda che

egli 'risorge' perché Cristo è risorto. Le Muse sono dettesante, ora (a differenza che a Inf. II.7 e Inf. XXXII.10), in quanto l'argomento del poema concerne anime sante, destinate alla beatitudine celeste. Dante chiede a Calliope (= "dalla bella voce", secondo l'etimologia di Macrobio) di dare il meglio di sé (quindi ad alquanto è daattribuire non il senso di "poco", bensì di satis: cfr. A. Illiano, Purgatorio I.1-31, in Miscellanea di studi danteschi in memoria di S. Pasquazi, Napoli, Federico & Ardia, 1993, pp. 457-58), come nell'occasione in cui sconfisse le figlie del re Pierio in una gara di canto e poi le tramutò in gazze (Piche); l'episodio è narrato in Metam. V.294-678, ma Dante lo modifica, al fine di ingraziarsi maggiormente la Musa: infatti in Ovidio le Pieridi (il cui canto esaltai Giganti e sminuisce le imprese degli dei) restano sprezzanti, non riconoscendo la temerarietà del proprio gesto. Benvenuto: "Sicut ergo magna Musa obtinuit victoriam contra foeminas garrulas quae audebant disputaresecum, ita magnus poeta contra aemulos garrientes more mulierum, qui tam temerarie quam ignoranter audebant calumniare bene dicta eius, ponentes os in coelum, sicut Pierides contra deos. Sed autor noster loquitur laudes Deiet deorum, idest, angelorum, ut patebit in processu". Scrive G. Bàrberi Squarotti: "Le Piche non possono che 'disperar perdono' di essersi messe in gara con Calliope, così come è imperdonabile ogni tentativo di entrare in concorrenza con il poema sacro" (L'ombra di Argo, Torino, Genesi, 1986, p. 121). Sulle Pieridi come figura antitetica del poeta cristiano cfr. P.R. Macfie, Mimicry and Metamorphoses, in M.U. Sowell (Ed.), Dante and Ovid, Binghamton, New York, 1991, pp. 87-97. L'argomento scelto da Calliope - rileva E. Raimondi (Metafora e storia, Torino, Einaudi, 1970, pp. 68-69) - "è il ratto di Proserpina dalla silva del perpetuum ver e il suo ritorno a Cerere: come dire, il mito dell'innocenza perduta e della fecondità ritrovata. Con una di quelle astuzie che sono così frequenti nella Commedia, Dante insomma invera sin d'ora nella pienezza della condizione cristiana una favola antica ... e insinua tra i registri bassi del suo prologo

il motivo, l'immagine ancora remota del Paradiso terrestre". Hollander (comm. ad loc.): "Identifying himself with the pious Calliope, Dante, fully aware of his potential presumption in singing the world of God's justice, makes a gesture of humility". L'Alighieri - come notato da Poletto - usa l'espressione "sermo Calliopeus" in Epist. III.2. L'interpretazione tradizionale di seguitando come "accompagnando" è stata contestata da M. Aversano (Il velo di Venere, Napoli, Federico & Ardia, 1984, p. 9), che propone "spronando (il mio canto con quel modo di dire ...)".

13-18. Finalmente Dante, uscito dall'aria infernale (aura morta) che lo aveva tanto rattristato (su tale "tristizia"cfr. Inf. VI, n. 1-6), ritrova il diletto di trovarsi all'aria pura, alla luce. Viene qui espressa la gioia di ritrovarsi in un ambiente terrestre, ma soprattutto in un ambiente non orribilmente tetro (fisicamente e moralmente)come quello infernale: le sensazioni del viaggiatore vannoviste nell'ambito del cammino di purificazione che egli è chiamato a compiere. Giacalone: "Alcuni commentatori dicono che Dante ricominciò a sentire la gioia di questo mondo; ma in verità qui Dante esprime la gioia di poter contemplare l'altro emisfero, quello nobile in cui visse l'uomo nel suo stato d'innocenza, illuminato dalle quattrostelle, di cui è privo il nostro emisfero. E questo dà unavis drammatica più intensa al suo racconto itinerale". Contrapposta all'aria infernale è la luminosità azzurra del cielo, che è perciò dolce ("piacevole a vedersi": sinestesia): l'oriental zaffiro è una pietra preziosa azzurrina (meno pregiato quello "occidentale"), fornita, nei lapidari medievali, di un significato simbolico prevalentemente positivo (umiltà, purezza, capacità di liberare dalla prigione e di purificare gli occhi, ecc.). Tale significato è rafforzato - come ha mostrato C.A. Cioffi (in Modern Philology, 1985, pp. 355-64) - da un brano dell'Esodo, in cui i capi d'Israele vedono sul monte Sinai Dio, "sotto i cui piedi c'era come un lavoro di zaffiri uguale al cielo quando è sereno" (24.10). Quindi lo

zaffiro evoca in ambedue i casi un senso di pace e riconciliazione con Dio, oltre che rafforzare l'analogia fra Sinai e monte del Purgatorio (cfr. n. 37-39). Il Purgatorio è così collegato subito al Paradiso: come nota G. Muresu ("Il 'sacrificio' per la libertà": La rassegna della letteratura ital., 2001, p. 367), è notevole il fatto che zaffiro occorre nel poema una sola altra volta, come metafora della Madonna (Par. XXIII.101-102). Si veda al proposito A. Levavasseur, "Les pierres précieuses dans la D. C.": Revue des Études Italiennes, 1957, pp. 57-59. Termine scientifico è mezzo (lat. medium), che indica ciò che fa da intermediario tra i sensi e quanto è percepito, di solito (come qui) l'aria (cfr. Conv. III.ix.12; Par. XXVII.74). Il sintagma primo giro si riferisce, per la maggioranza della critica (secondo Hollander, ad iniziare forse da Bianchi), all'orizzonte, ma per i commentatori antichi al cielo della Luna, il primo dei cieli ruotanti attorno alla terra.

19-21. La perifrasi Lo bel ... conforta indica Venere (cfr. Purg. XXVII.95-96; in Conv. II.v.13-14 si legge che imotori del cielo di Venere sono i Troni, dai quali viene influenzato "un ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s'accendono ad amore secondo la loro disposizione"), che toglie luminosità ai Pesci, la costellazione con cui è in congiunzione e che precede il sorgere dell'Ariete; e siccome in primavera il sole è in Ariete, il fatto che i Pesci sono all'orizzonte orientale indica che l'alba è vicina. E' l'alba del quarto giorno dache i due viaggiatori si sono messi in cammino. Va notato che Venere, nell'aprile del 1300, era in realtà congiunta col Toro, non con i Pesci, per cui sorgeva dopo il sole; la situazione descritta dal poeta s'attaglia bene all'aprile del 1301. Come risolvere la difficoltà? Esclusala possibilità di mutare l'anno del viaggio (basti pensareai precisi riferimenti al 1300 presenti in Inf. XXI.112-114o in Purg. II.98-99), si può supporre che il poeta abbia adattato la situazione astronomica alle sue necessità ideali, dato che nel testo Venere appare come stella del

mattino, o Lucifero, l'astro che, nei riti cristiani del mattutino, viene celebrato come simbolo dell'amore divino ritrovato. Egli dunque avrebbe riferito al 1300 una condizione del cielo tipica di un altro anno. Secondo E. Poulle (Profacio: ED IV.693), l'Alighieri si sarebbe servitoper le sue carte del cielo dell'Almanacco di Profacio Giudeo, nel quale non erano inclusi, però, i dati per il Sole e Venere relativi al 1300; può darsi quindi che il poeta abbia utilizzato le carte del 1301 per colmare la lacuna relativa al 1300. Ma si veda, a sostegno della tesiche sia il 1301 l'anno del viaggio, G. Ceri, "L'astrologiain Dante e la datazione del 'viaggio' dantesco": L'Alighieri, n.s., 15, 2000, pp. 27-57. Dal punto di vista morale il pellegrino, superata la notte infernale con l'aiuto di Virgilio, "profeta inconsapevole" (Inf. I, nn. 65, 79-80, 82-87), è ormai giusto e può avviarsi verso Dio. Il nesso fra "notte", "profezia", "lucifero" e "giustizia" è espresso nei seguenti termini da S. Agostino, in riferimento a 2 Pt. 1.19: "Nelle fatiche e sofferenze dellanotte è stata accesa per noi la profezia, come lucerna chearde in luogo oscuro, finché non splenda il giorno e la stella del mattino (lucifer) non sorga nei nostri cuori. Sonoinfatti beati i puri di cuore perché vedranno Dio. Allora i giusti saranno colmati di quella felicità di cui hanno fame e sete" (Enarr. in Ps. 89.15). Apoc. 2.28: "Qui vicerit, dabo ei stellam matutinam". Cfr. anche, di Agostino, In Io. Ev. 23.3. Pietro Alighieri nota che a Phars. II.719-25 è descritta in maniera analoga "hanc eandem horam". - "L'eclissamento dei Pesci", afferma G. Muresu ("Il 'sacrificio' per la libertà": La rassegna della letteratura ital., 2001, p. 368), "credo possa essere letto come ulteriore metafora della contrapposizione tra mondo della dannazionee mondo della salvezza: né si dimentichi che i pesci sono animali a sangue freddo e che la loro cancellazione avviene ad opera di quella Venere che diffonde ovunque il caldo dell'amore".

22-24. L'altro polo è quello antartico (altro rispetto al nostro), australe, al centro del quale sorge (agli

antipodi di Gerusalemme, secondo la lettura tradizionale) la montagna del Purgatorio. Le quattro stelle rappresentano le quattro virtù cardinali e furono viste solo dai (a la è complemento d'agente) primi abitatori delParadiso terrestre, cioè Adamo ed Eva (per la costruzione sintattica, Tommaseo rinvia a Aen. V.610: nulli visa ...). Questa è l'esegesi standard, che risale a Buti, anche se il frate pisano scinde "fizione letterale" e "fizione poeticae morale": "dice di quelle 4 stelle che non funno mai vedute, nè cognosciute se non da' primi padri Adamo et Eva, mentre stetteno in stato d'innocenzia, perché stetteno in paradiso che è nell'altro emisperio sì, che secondo la fizione litterale le doveano vedere; ma secondola fizione poetica e morale, la prima età che fingeno essere stata sotto Saturno, vidde e cognove queste 4 virtùet osservò benché non perfettamente; et a questo modo intese l'autore". Secondo Benvenuto, il sintagma prima gente denota gli antichi virtuosi, coloro che, come Virgilio, si sono fregiati delle virtù cardinali (acquisite) ed hanno residenza eterna nel Limbo; opinione che, se accolta, costringerebbe a collocare fra tali "antichi" uomini vissuti (come p. es. il Saladino) in un'epoca assai vicina a quella di Dante. Per fornire una spiegazione adeguata del passo, è necessario ritenere che le stelle rappresentino non semplicemente le virtù cardinali, ma quelle "infuse" (che presuppongono l'infusione della carità), e non semplicemente le virtù cardinali infuse di cui qualsiasi individuo assolto dai peccati può fregiarsi, ma quelle di cui furono in natura dotati Adamo ed Eva: dopo che i nostri progenitori furono cacciati dal Giardino, cioè dopo il peccato originale, nessun uomo le ha viste (ossia possedute in quella forma).Nell'emisfero boreale, quello abitato, un uomo giustificato ottiene tutte le virtù (anche quelle cardinali, quindi) per infusione, per cui queste virtù a cui il poeta allude ora non possono che designare le virtùcardinali possedute da Adamo, cioè facenti parte della condizione di giustizia originaria (o vera innocenza) precedente la colpa d'origine. Tale giustizia era

caratterizzata non soltanto dal possesso di tutte le virtù(e dei doni dello Spirito Santo) e dal dominio della ragione, sottomessa a Dio, sulle facoltà sensibili, ma anche dalla mancanza di quei vulnera naturae (ignorantia nell'intelletto, malitia nella volontà, concupiscentia nell'appetito concupiscibile e infirmitas nell'appetito irascibile) che neanche il battesimo può cancellare e che solo nella vita beata ultraterrena scompariranno. Lo statodi giustizia originaria è lo stato del posse non peccare, che sarà addirittura migliorato dallo stato dei beati, quello del non posse peccare (e dopo il Giudizio, lo stesso corpo sarà 'spiritualizzato': 1 Cor. 15.44). Il punto essenziale della situazione (l'essere le quattro virtù dotazione della giustizia originaria adamitica) è ben colto dal Vellutello: "Se queste quattro stelle sono vicine al polo antartico, non possono esser vedute se non da quelli de l'altro hemisferio, ma fingendo il Poeta l'altro hemisferio inhabitato, come vedemmo nel ventesimosesto canto de l'Inferno, in persona d'Ulisse, seguita che non sieno, come dice, state mai vedute fuor che a la prima gente, intesa per li nostri primi parenti, iquali, mentre che furon in stato di gratia, habitaron il Paradiso terrestre finto da lui ne l'altro hemisferio, sopra il monte del Purgatorio. E moralmente non viste mai fuor, chea la prima gente perché, intendendo queste quattro stelle per le quattro virtù morali, nessuno perfettamente si vestì mai di quelle che li primi parenti, iquali soli furono creati da Dio in stato di gratia, e non in stato defettivo, come noi altri discesi da loro, rispetto al peccato originale". - Più avanti (Purg. VIII.89-93), appariranno a Dante tre stelle che simboleggiano le virtù teologali.

25-27. La visione delle fiammelle (diminutivo in senso intensivo: la sorgente di luce è piccola per dimensione, ma intensa) è interdetta agli uomini, dopo il peccato originale. L'occorrenza di vedovo è posta in collegamento da Chiavacci Leonardi con la Gerusalemme "vedova" di Lament. 1.1. Per Dante l'emisfero australe, in cui Dio

aveva inizialmente collocato l'uomo, è disabitato; l'umanità, che infatti è immersa nel peccato, ha così perso il possesso completo delle virtù cardinali: la giustizia raggiungibile in vita è diversa da quella originaria, adamitica (cfr. n. 22-24). Uno studioso che hainsistito sul tema è Singleton, il quale pone in evidenza il fatto che il poeta rappresenta le virtù cardinali infuse nel duplice aspetto di ninfe e di stelle: infatti Beatrice, sulla cima del monte purgatoriale, apparirà in processione trionfale accompagnata da quattro fanciulle, che inequivocabilmente simboleggiano le virtù cardinali. Esse dicono di sé: Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle (Purg. XXXI.106). Ma, poiché le quattro fanciulle sono vestite diun colore che è una gradazione di rosso (colore della carità) e vengono assieme ad altre tre fanciulle che simboleggiano le virtù teologali, esse non possono essere che virtù cardinali infuse. "Esse rappresentano le quattrovirtù cardinali, informate della carità. Dovremo pertanto intendere, in base alla identità da loro affermata, che lequattro stelle del cielo dell'Eden siano anch'esse virtù infuse. E' senza dubbio questo il motivo per cui, quando appaiono, sono chiamate sante" (C.S. Singleton, La poesia della "Divina Commedia", Bologna, Il Mulino, 1978, p. 318). Sennonché il momento in cui il pellegrino, uscito dalle acque purificatrici del Lete, viene accolto dalle quattro ninfe è per Singleton il momento della sua giustificazione; ma tale interpretazione è - come abbiamo sottolineato (Inf.XXXIV, n. 91-93) - insostenibile. Del resto, se si trattasse del momento della giustificazione, sarebbe incoerente affermare che la contemplazione delle stelle, che coincidono con le ninfe, è interdetta agli abitatori dell'emisfero boreale, i quali possono benissimo ottenere la giustificazione e raggiungere la giustizia personale cristiana. Per evitare l'impasse, Singleton suppone l'esistenza di una sostanziale differenza tra ninfe e stelle, per cui solo le seconde simbolizzerebbero le virtù connesse allo stato d'innocenza. Tale differenzazione non gode però di sostegno testuale, per cui ci pare necessarionon scindere stelle e ninfe dal motivo dell'innocenza: ed

allora, se l'immersione nel Lete (comune a Dante ed alle altre anime che hanno terminato l'espiazione dei vizi capitali) fa acquistare l'innocenza portando a perfezione il risanamento, l'accoglienza del pellegrino da parte delle ninfe (a lui esclusivamente riservata) sta a significare che la sua è l'innocenza di chi ha il peso delcorpo e prelude quindi ad una rigenerazione che, a differenza di quella delle altre anime purganti, coinvolgeanche il corpo.

28-30. Staccato lo sguardo dalle quattro stelle (loro è complemento oggetto), il pellegrino si rivolge al polo artico (altro), dove l'Orsa maggiore ('l Carro) non è più visibile, scomparsa sotto l'orizzonte. Ciò implica che la costellazione sia visibile dall'isola del Purgatorio durante una parte della notte, per poi, a causa della rotazione, tramontare e scomparire alla vista. Questo però, come fa notare P. Pecoraro, non può assolutamente verificarsi a lat. 31° 46' Sud (antipode di Gerusalemme), per cui l'isola, secondo lo studioso, non può trovarsi agli antipodi di Gerusalemme, ma deve situarsi a latitudine australe non superiore ai 26°; ora, cercare un antipode al di sotto di 26° che, nella geografia mistica dantesca, abbia precipuo significato vuol dire fermare l'attenzione sul Sinai, che, però, è a 28° 30' Nord. "E' dunque giocoforza ammettere che Dante abbia collocato questo biblico monte a latitudine inferiore alla realtà per alcuni gradi, quanti ne bastano perché all'antipode diesso siano sufficientemente visibili levata, culminazione e tramonto di tutti e sette i Septem Triones, Dubhe compresa,la più vicina al polo artico. A tal fine, è necessario concedere anche a Dubhe un certo spazio di percorrenza sopra l'orizzonte e dunque, poiché Dubhe sta a 24° 34' dalPolo Nord, bisogna che l'osservatore che la veda compariree poi sparire, con le altre del Carro, si collochi almeno un grado più a Nord, rispetto a quel 24° 34': cioè, guardacaso, esattamente al tropico del Capricorno" (Le stelle di Dante, Roma, Bulzoni, 1987, p. 102). Di conseguenza, il Sinai dantesco andrebbe collocato per Pecoraro al tropico

del Cancro. Circa l'aspetto simbolico, va tenuto presente che il Carro designa il settentrione, paradigma dell'inverno e nominato spesso, nei testi sacri, come sededel male (del resto l'emisfero Nord è sede sia della umanità corrotta dopo la Caduta sia dell'Inferno). Ciò dato, si può capire "quale sia il significato recondito della simultanea sparizione dei Pesci e del Carro dall'orizzonte visivo del pellegrino nel momento in cui egli fa il suo ingresso nel territorio delle anime salve: a propiziarne l'arrivo e a salutare l'altissima missione rigeneratrice di cui egli è investito c'è un firmamento totalmente sgombro di presenze astrali che, sia pur indirettamente, possono evocare il gelo dell'inverno e quella parte dell'orbe terracqueo che è inevitabilmente legata al male ed al peccato" (G. Muresu, "Il 'sacrificio'per la libertà": La rassegna della letteratura ital., 2001, p. 373).

31-33. Dante vede accanto a sé una veneranda figura di vecchio (veglio, dal provenzale velh, è termine più raro di "vecchio" e serve a conferire decoro), solo (la solitudinegià distingue il personaggio, accrescendone la solennità, dai penitenti). Si tratta di Marco Porcio Catone, il quale, al termine della guerra civile combattuta in appoggio a Pompeo, si uccise ad Utica, località a Nord di Cartagine, per non essere catturato dalle truppe di Cesare(46 a.C.). Egli, a parere pressoché unanime della critica,funge da custode del Purgatorio. Si noti come, di fronte al primo spirito salvo, emerga l'idea della soggezione filiale (cfr. Mon. III.iii.18). Tale motivo è quasi topicoin Dante, come nota E. Raimondi, secondo il quale esso, nella circostanza, predispone l'atmosfera dominante del canto, dà un senso alla "silenziosa presenza di Dante-personaggio", crea "un effetto di nuova solennità" (Metaforae storia, Torino, Einaudi, 1970, p. 76). Ma forse più importante è il fatto che la soggezione filiale a Dio-Padre caratterizza il giusto, convertito a Dio (un'idea implicita nella tragica vicenda delle Pieridi, tradite perBenvenuto dal loro "ardore giovanile").

La critica ha molto discusso sulla collocazione di Catone, che non solo è pagano, non solo suicida, ma anche ostile all'Impero che Cesare rappresenta. Molti studiosi fanno presente che nella selva dei suicidi non appaiono personaggi pagani e che altri suicidi pagani sono all'Inferno, ma non in essa (Lucrezia, Didone, Cleopatra, ecc.): ciò indicherebbe una sorta di rispetto per l'etica antica, molto meno rigida, nei confronti di quella cristiana, nel condannare il suicidio. Dante, comunque, che accoglie dai suoi autori (Virgilio, Cicerone, Lucano) la figura di Catone l'Uticense come fulgido esempio di nobiltà spirituale, riscontra presso i teologi sia la possibilità che qualche pagano particolarmente virtuoso possa esser stato salvato sia la giustificazione del suicidio, quando esso avvenga per mostrare la virtù (e dunque per suggerimento divino). Quindi il suicidio di Catone (che non è nominato fra i suicidi dell'oltretomba virgiliano) è apprezzabile, anzi addirittura esemplare, inquanto è prova di dirittura morale e di libertà, le virtù che si conquistano in Purgatorio. Cfr. n. 37-39.

34-36. Portava la barba lunga e brizzolata (di pel bianco mista), simile (simigliante) ai suoi capelli, dei quali scendevano (cadeva) sul (al) petto due ciocche (doppia lista). - Una da un lato della faccia, cioè, ed una dall'altro. L'immagine è quelladel profeta o del patriarca biblico: del resto, Catone soggiornò nel Limbo prima di esserne liberato (ed essere quindi glorificato: cfr. Inf. XII, n. 37-43) in seguito alla discesa di Cristo agli Inferi (cfr. n. 85-90). Dalla Farsaglia di Lucano l'Alighieri aveva appreso che Catone, dallo scoppio della guerra civile, non si era più tagliatobarba e capelli. Il particolare del pelo brizzolato è dantesco: nella Farsaglia la barba è detta "mesta" (II.376), per cui Dante avrebbe potuto leggere, in un'erronea trascrizione, "mista" (D'Ovidio). Del resto, Catone morì a 48 anni circa e la "senettute", per Dante, ha inizio a 46 anni (Conv. IV.xxiv.4).

37-39. Catone ha il volto illuminato dalle luci sante (le

virtù cardinali infuse, intese nel modo di cui sopra): ciòattesta che la sua figura è "santa", sacra (cfr. n. 76-81). Alla lettura standard (il volto è illuminato a tal punto che le stelle sembrano il sole splendente, cioè Dio)se ne oppone un'altra minoritaria (al pellegrino pare di avere, nello splendore del volto di Catone, il sole di fronte a sé); si veda, a favore della tesi di minoranza, P. Giannantonio, in Lectura Dantis Neapolitana. Purgatorio, Napoli,Loffredo, 1989, pp. 3-22. Il particolare della eccezionaleluminosità segna la differenza fra Catone, che è innocente(pur se non alla maniera adamitica), e le altre anime del Purgatorio, che lo diverranno dopo aver concluso il periodo di espiazione sulle cornici. Fra i riferimenti biblici, si vedano almeno Apoc. 1.16 ("facies eius erat ut sol") e Mt. 13.43 ("tunc iusti fulgebunt sicut sol in regno Patris eorum"), ma particolarmente significativo ci sembra Dan. 12.3: "Qui ad iustitiam erudiunt multos, fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates". Come sottolineato da V. De Angelis (... e l'ultimo Lucano, in A.A. Iannucci [a cura di], Dante e la "bella scola" della poesia, Ravenna,Longo, 1993, p. 167), era al tempo normale, per un lettoredi Lucano, considerare Catone come espressione ottimale delle virtù cardinali; in tal senso erano glossati i vv. 380-83 di Phars. II: "Hi mores, haec duri inmota Catonis | secta fuit: servare modum finemque tenere | naturamque sequi patriaeque inpendere vitam | nec sibi, sed toti genitum se credere mundo" (cfr. Conv. IV.xxvii.3). Cicerone, Pro Murena 38.83: "M. Cato, qui mihi non tibi, sedpatriae natus esse videris".

L'idealizzazione che Dante compie del personaggio di Catone si inserisce in pieno nella tradizione classica. Virgilio raffigura l'Uticense nello scudo di Enea come capo o guida degli uomini virtuosi: "... secretosque pios,his dantem iura Catonem" (Aen. VIII.670); un verso da cui può essere scaturita l'idea (come già rilevato dal Daniello) di fare del Romano il custode del Purgatorio. Lucano chiama Catone "vero padre della patria" (parens verus patriae: Phars. IX.601), mentre Cicerone ne esalta l'atto di

suicidarsi, essendo giusto che egli "scegliesse di morire piuttosto che contemplare il volto del tiranno" (De off. I.xxxi.112); brano, quest'ultimo, che Dante nella Monarchiariferisce poco dopo aver esaltato, nel passo cit. alla n. 70-75, la dimostrazione di amore per la libertà data tramite il sacrificio della vita. Il suicidio appare perciò a Dante, in questo caso, non come ingiusta violenza, ma come un alto sacrificio fatto per amore dellavirtù, la quale non è conseguibile se non c'è la libertà (nelle Tusculanae disputationes di Cicerone, Catone è spinto da Dio ad abbracciare la "giusta causa" del suicidio: I.xxx.74). La libertà repubblicana è per Dante mantenuta nell'Impero Romano, in quanto dote tipica del "popolo romano" (cfr. Inf. IV, n. 141-147). Catone visse nel periodo in cui l'imperium (il diritto di dominare il mondo concesso a Roma da Dio) stava passando al Principe: egli, "paradossalmente difensore, per volontà divina, della libertà repubblicana contro la Monarchia da Dio voluta, è un'affermazione della indivisibilità e della natura essenzialmente morale dell'ideale di libertà, che non soltanto sopravvive nell'Impero, ma è di fatto da esso garantita" (P. Armour, Dante's Griffin and the History of the World, Oxford, Clarendon, 1989, p. 135). Va notato che, negli ambienti filo-imperiali romani, prese piede un'interpretazione della figura di Catone (forse risalentea Macrobio: cfr. P. Pecchiura, La figura di Catone Uticense nella letteratura latina, Torino, Giappichelli, 1965, p. 38) che esalta la sua difesa dell'ordine costituito, allo scopo diporre in rilievo la continuità dello Stato romano, indipendentemente dalla forma di governo, prima repubblicana e poi imperiale. Del resto, nella descrizionedello scudo di Enea, Catone è contrapposto a Catilina, il "rivoluzionario", l'eversore dell'ordine costituito. Dal canto suo Orazio, altro poeta augusteo, in un'ode indirizzata ad Augusto (I.12) elogia, fra i vari eroi della storia romana, anche Catone, per porre poi al culmine della eletta schiera il Principe stesso: un chiarosegno di continuità. La lode delle grandi virtù di Catone era luogo comune presso le scuole di retorica. Pecchiura

(Op. cit., p. 57) cita un brano significativo dei Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo, che riprende e diffonde motivi diffusi appunto presso le scuole: "Quid ergo? Libertas sine Catone? Non magis quam Cato sine libertate" (VII.xi.15). Lo stesso Seneca, oltre a presentare il suicidio di Catone, che porta alla vera libertà, come attodivinamente sancito (De Providentia II.10), auspica, quando ancora crede di avere trovato in Nerone il rex iustus, una forma di governo in cui il potere assoluto del Principe sia limitato dalla sua clementia e dall'autorità del Senato."Quella libertas per cui Catone si era immolato il filosofo sperava potesse rifiorire non in seguito al sommovimento delle istituzioni ed all'abbattimento del principato, ma grazie all'avvento del rex iustus" (P. Pecchiura, Op. cit., p. 69). L'autore presso cui l'esaltazione di Catone raggiungel'apogeo è Anneo Lucano (fonte primaria dell'Alighieri), solitamente ritenuto oppositore dell'Impero. Tuttavia Lucano - si chiede P. Pecchiura (Op. cit., p. 88) -, "nell'esaltare la libertas, nell'auspicarne il ritorno e, infine, nel partecipare alla congiura pisoniana, vagheggiava il ritorno della repubblica o sperava soltantoche a Nerone venisse sostituito un sovrano migliore, più rispettoso dell'autorità del Senato? Si è visto come il filosofo Seneca, zio del poeta, pur esaltando anch'esso inCatone il difensore della libertas, l'eroe della repubblica, riteneva tuttavia impossibile la restaurazione di essa ed auspicava l'avvento del rex iustus, che egli si illuse di aver trovato in Nerone. Un accenno ad una simile forma di governo è anche in Lucano: nell'elogio funebre di Pompeo che fa pronunciare a Catone [parole a pleno venientia pectore veri]dice che il defunto non aveva mai attentato, per quanto potente, alla libertà altrui (salva | libertate potens: Phars. IX.192-93), che era stato a capo del Senato rispettandone però i diritti (rectorque senatus, | sed regnantis, erat: IX.194-95).Non si può infine dimenticare che scopo della congiura di Pisone, alla quale il poeta prese parte, non era la restaurazione della repubblica, ma la sostituzione di un imperatore, Nerone, con un altro che si sperava migliore. Neppure però si può escludere che il poeta, trascinato dal

suo entusiasmo giovanile e dall'ammirazione, che si manifesta in modo sempre crescente nel poema, per la repubblica e per i suoi eroi, vedesse nella congiura il primo passo verso un vagheggiato ritorno all'antica forma repubblicana". Resta comunque diffusa, nell'ambito della letteratura latina, l'idea di un Catone disposto anche ad appoggiare il Principato, in presenza di un rex iustus: P. Pecchiura (Op. cit., p. 97) la riscontra anche presso Stazio (Silvae I.i.27-28).

Oltre a Catone, l'Alighieri colloca inaspettatamente inParadiso il principe troiano Rifeo, meno inaspettatamente l'imperatore Traiano (ma al Paradiso è destinato anche Stazio, che si convertì grazie a Virgilio e che il pellegrino incontrerà in Purgatorio: canti XXI-XXII). E spiega la loro fede in Cristo in questo modo: Gregorio Magno ottenne la resurrezione di Traiano e lo battezzò, facendolo morire quindi cristiano; Dio, per compensare Rifeo del suo amore per la giustizia, gli diede la visionedella redenzione futura, per cui il Troiano credette in Cristo venturo e fu portato poi da Cristo dal Limbo al Paradiso (Par. XX). Nel caso di Catone, manca una esplicitaspiegazione fornita dall'Autore, ma è certo che egli ha incomune con gli altri due pagani (nonché con Stazio: Purg. XXII.70-72) il profondo amore per la giustizia: egli è detto in Lucano "iustitiae cultor" (Phars. II.389), e "chi semina giustizia" - leggiamo in Prov. 11.18 - "ha sicura ricompensa". Si noti che S. Agostino, il quale pure condanna il suicidio di Lucrezia ("laudis avida nimium": De Civ. Dei I.19) e di Catone (privo di fortezza di fronte alle avversità e invidioso della fama che Cesare avrebbe guadagnato nel perdonarlo: De Civ. Dei I.23), afferma che l'uccidere sé stesso od altri non costituisce un delitto quando "l'ordine di uccidere viene da una legge giusta in senso generale o da Dio stesso, fonte di giustizia" (De Civ. Dei I.21; vedi anche De Civ. Dei I.26 e ST II-II, q. 64, a. 5; III Suppl, q. 96, a. 6). Lo stesso Dottore della Grazia, colpito dalle affermazioni di Lucano, cita per intero Phars. II.388-91 (Urbi pater est, urbique maritus; | iustitiae cultor, rigidi

servator honesti, | in commune bonus; nullosque Catonis in actus | subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas), per poi porre in evidenza che il fatto di non essere succube della concupiscenza è prerogativa di chi non è pagano: "Che uomo sia stato Catone e se fu vera virtù e vera onestà quella lodata in lui, è un'altra questione. A qualsiasi finalità abbia riferito i suoi doveri, è certo che non senza voluttà ha procreato i figli. Ciononostante in nessuna azione di Catone si è insinuato o ha trovato parte alcuna l'innata voluttà, poiché quello che non faceva senza voluttà non lofaceva per la voluttà (propter voluptatem). Se è vero quello che si dice di lui, pur ignorando Dio, possedeva il suo corpo senza seguire la spinta della concupiscenza (nec in morbo huius desiderii suum vas possidebat, quamvis ignoraret Deum, si talis fuit qualis praedicatur). E tu non vuoi capire le parole dell'Apostolo: 'Ciascuno sappia possedere il proprio corpo(vas), non seguendo la spinta della concupiscenza (non in morbo desiderii), come i pagani che ignorano Dio' (1 Thess. 4.5)" (Contra Iulianum 5.9.38). Ciò dato, se consideriamo chel'affermazione dell'Uticense riportata in Phars. IX.580 ("Iuppiter est quodcumque vides, quodcumque moveris") è ritenuta in Epist. XIII.63 come l'unico esempio pagano di riconoscimento dell'universalità del "lumen divinum", possiamo supporre che il poeta abbia colto in Catone un esempio di pagano salvato - come già ipotizzato dal Proto - grazie alla sua fede implicita in Cristo (cfr. M. Sansone, Il canto I del 'Purgatorio', Roma, Signorelli, 1955, pp. 8-9). Infatti S. Paolo, nella lettera agli Ebrei (11.6), dichiara che, per ottenere la salvezza, è essenziale credere nel Dio buono e "remuneratore", in colui che dà sempre la giusta ricompensa (e come premio offre la felicità assoluta, la beatificazione). Una fede posseduta da alcuni pagani, visto che S. Paolo la menziona a proposito di Enoc ("giusto, camminò con Dio, esempio di scienza per le nazioni": Ecclus. 44.16). Così J. Daniélou sintetizza la "visione d'insieme dell'opera di Paolo. Vi èuna universale rivelazione del Dio vivente ai pagani. La maggior parte degli uomini non ha però riconosciuto Dio per quel che è. Vi è perciò una quasi generale apostasia,

che è colpevole. Vi sono però anche alcuni uomini che hanno riconosciuto Dio per quel che è e gli hanno reso gloria. Vi appartengono quei giusti che il Genesi ci mostrava prima di Abramo, in mezzo alla generale apostasia, ma l'eccezione vale pure per il mondo pagano che segue Abramo" (I santi pagani del Vecchio Testamento, Brescia, Queriniana, 1964, p. 21). Commentando il passo paolino, S.Tommaso ritiene che i gentili salvati abbiano proprio creduto in Dio "remuneratore": "quae remuneratio non fit nisi per Christum. Unde implicite credebant in mediatorem". Infatti per ottenere la salvezza è necessariocredere nel mistero dell'Incarnazione: "et ideo mysterium incarnationis Christi aliqualiter oportuit omni tempore esse creditum apud omnes: diversimode tamen secundum diversitatem temporum et personarum". In realtà - proseguel'Aquinate - "multis gentilium facta fuit rivelatio de Christo ... Si qui tamen salvati fuerunt quibus revelatio non fuit facta, non fuerunt salvati absque fide Mediatoris; quia etsi non habuerunt fidem explicitam, habuerunt tamen fidem implicitam in divina providentia, credentes Deum esse liberatorem hominum secundum modos sibi placitos" (II-II, q. 2, a. 7). Ne deriva che in tuttii tempi ci sono state persone appartenenti di fatto al Nuovo Testamento (ST I-II, q. 106, a. 3). Ricordiamo che Catone è descritto da Lucano come "deo plenus, tacita quemmente gerebat" (Phars. IX.564). La situazione dell'Uticenseè associata da molti critici a quella dei giusti dell'Antico Testamento, ma va precisato che i cosiddetti "maiores" (profeti, sacerdoti della Vecchia Legge) ebbero una fede "aliquo modo explicita" nel prossimo Redentore: "Post peccatum ante Christum maiores habebant fidem Redemptoris explicite, minores implicite" (IV Sent., d. 25, q. 2,a. 2). E per quanto riguarda Rifeo, il Troiano - come vedremo in sede opportuna - sembra essere stato gratificato di una fede esplicita, avendo goduto di una speciale rivelazione dell'Incarnazione redentiva.

Come abbiamo rilevato (Inf. IV, n. 145-147), il Limbo ospita coloro che largo modo appartengono al "popolo

romano": uomini che rispettarono la legge naturale, pur senza essersi assoggettati filialmente a Dio, perché non violarono la legge civile, basata sullo jus humanum. Essi riuscirono a tanto in quanto aiutati ad astenersi dal compiere il male dalla forza coercitiva della legge incarnata negli organi statuali, in tal senso strumenti della grazia divina. Ma Catone - a quanto pare - riuscì a non violare la legge naturale indipendentemente dalla forza dissuasiva degli organi statuali: infatti tale forzasi esercita soprattutto nei riguardi della incolumità fisica e della vita, di cui Catone, per essere fedele ai suoi principi, si privò. Ne deriva che, essendo impossibile per un uomo mantenersi integro senza l'aiuto della grazia, egli poté essere virtuoso solo perché sorretto dalla fede; e tenuto conto che l'Alighieri non scende nel suo caso in particolari, pare plausibile supporre che l'Uticense abbia nutrito fede implicita nel Mediatore, al contrario di quanto afferma Pietro di Dante:"cum possibile sit et verisimile Deum, qui fecit eum tantum virtuosum, inspirasse ei credulitatem Christi filiiventuri, et contritum decessisse et sic salvatum". Ciò checomunque va posto in rilievo è il fatto che il suicidio appare veramente particolare indispensabile per chiarire le ragioni profonde della 'virtuosità' di Catone: se egli fu infatti virtuoso non per timore dell'apparato coercitivo della legge civile, vuol dire che le sue facoltà sensibili erano sotto ottimale controllo della ragione, il che può aver luogo, a rigor di teologia, solo se la ragione è a sua volta subordinata a Dio. G. Mazzotta(Dante, Poet of the Desert, Princeton Univ. Press, 1979, pp. 62-64), sullo sfondo del modello dell'Esodo (cfr. Inf. I, n. 121-122), sottolinea che Catone, nel corso dell'attraversamento del deserto libico, rifiutò di ricorrere alla divinazione, cioè di consultare l'oracolo di Giove: egli dunque, alla ricerca della libertà, resistéalle tentazioni del deserto rigettando l'idolatria (secondo Giovanni di Salisbury moralmente identica alla acquiescenza alla tirannia: Policraticus I.ii.27). Sappiamo che tale modello è importante, giacché il poeta stesso lo

pone quale punto di riferimento della propria opera: orbene, il passaggio del deserto raffigura allegoricamente, nell'economia del viaggio ultraterreno, la fase dell'espiazione purgatoriale, nel corso della quale il penitente perfeziona il possesso delle virtù. Ora, il Catone lucaneo è visto come espressione ottimale della virtus proprio nel momento del passaggio del deserto: della virtus - precisa W.H. Friedrich - in lotta con la Fortuna e con gli dei. Una simile lotta è per Virgilio empiae porta al disastro: "bei Lucan führt es ebenfalls zum Untergang, aber es ist die höchste Tugend: das treffende Wort vom Gegen-Vergil Lucan bewahrheitet sich auch hierin"("Cato, Caesar und Fortuna bei Lucan": Hermes, 1938, p. 410). La funzione di custode del Purgatorio ora esercitatada Catone pare logicamente ben connessa col fatto che egliletteralmente attraversò il deserto testimoniando nella circostanza la propria grande virtù; tanto più se si pensache egli, al contrario dei pochi Israeliti non nati nel deserto che raggiunsero la Terra Promessa (cfr. Purg. XVIII, n. 133-135), non era sorretto dalla Legge, ma solo dalla legge scritta nel cuore (Rom. 2.15). Ricordiamo che,la prima volta che appare il nome di Catone nel poema, esso è collegato al deserto (Inf. XIV.15); per di più il richiamo è compiuto da Virgilio, la guida limitata che nonpotrà procedere oltre la riva beata del Lete, oltrepassabile soltanto da chi è destinato al Cielo. Al contrario Catone fu ottima guida, nell'attraversare il deserto, del "popolodi Roma" (Conv. III.v.12), mostrando così come non sia impossibile, per chi è ignaro della Rivelazione, andare oltre il possesso delle virtù cardinali (acquisite) e pervenire alla salvezza. Sappiamo che, durante il periodo di espiazione sulle cornici, le anime devono meditare anche su grandi esempi 'storici' di comportamento virtuoso: e tali esempi riguardano anche uomini pagani estranei al Vecchio Testamento, il che attesta la continuità fra virtù pagane (dell'età classica) e virtù cristiane, in quanto sia le prime sia le seconde sono donidivini, attestando così la presenza della Provvidenza nella storia, in tutta la storia. Ricordiamo inoltre che

il primo uomo salvo che non appartenne né al cristianesimoné al giudaismo fu Abele (Inf. IV.56), il quale, in opposizione a Caino, è il nomade, l'uomo del deserto. Ed Abele, spargendo il suo sangue innocente (Mt. 23.35), appare come il primo martire, prefigurando il sacrificio di Cristo. Con Abele - afferma sant'Agostino - la Chiesa "ha le sue primizie": "la Chiesa non cessò mai di esisteresulla terra a cominciare dai primordi del genere umano. Essa ha le sue primizie nel santo Abele, immolato anche lui per rendere testimonianza al sangue del Mediatore venturo" (Enarr. in Ps. 118, s. 29.9).

Ma anche Catone, come Cristo, sacrificò sé stesso per consentire la realizzazione di un bene superiore (cfr. Conv. IV.xxviii.15; Mon. II.v.15). S. Tommaso rinvia ad Aristotele, che afferma che "virtuosus plus diligit vitam suam quanto scit eam esse meliorem: et tamen eam exponit propter bonum virtutis. Similiter Christus vitam suam maxime dilectam exposuit propter bonum caritatis, secundumillud Ier. 12.7: Dedi dilectam animam meam in manibus inimicorum eius" (ST III, q. 46, a. 6). Perciò l'Uticense è visto anchecome figura di Cristo crocifisso. A favore di tale nesso figurale si sono espressi vari studiosi, ma ricordiamo l'articolo (poco citato) di K. Maurer, "Die Selbstmoerder in Dantes D.C.": Zeitschrift für romanische Philologie, 1959 (pp. 312-14); in tal vena E. Raimondi (Metafora e storia, Torino, Einaudi, 1970, pp. 80-83) e A. Pézard (Le Chant premier du Purgatoire, in V. Vettori [a cura di], Letture del 'Purgatorio', Milano, Marzorati, 1965, p. 14n.) hanno posto in evidenza Phars. II.312, ove Catone dichiara che il suo sangue deve "redimere" i popoli (ma il verso è già interpretato cristologicamente da papa Gelasio: cfr. P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris, Les Belles Lettres, 1954, p. 396). R. Hollander (Allegory in Dante's 'Commedia', Princeton Univ. Press, 1969, pp. 124-25) fa di Catone anche una figura di Mosè, tramite il quale la Legge fu concessa ad Israele sul monte Sinai: infatti, se Catone è nell'Eneide il legislatore delle anime giuste ed ha ora il volto illuminato dalle luci sante, Mosè è il legista (Inf.

IV.57) e, sul Sinai, divenne luminoso in volto. Naturalmente, quella data a Mosè è la Legge Antica, mentrei cristiani sono sotto la Nuova Legge, in stato di grazia:le anime del Purgatorio godono già del perdono divino. Esse tuttavia devono, salendo il monte, giungere al risanamento perfetto; ed a spingerle a salire, quindi a realizzare la Nuova Legge, sarà, come si leggerà nel prossimo canto, Catone. La Nuova Legge d'altronde costituisce l'adempimento della Legge Antica: i precetti di quella sono tutti contenuti in questa (ST I-II, q. 100, a. 1). S. Tommaso (ST I-II, q. 107, a. 3) cita il commento di Crisostomo a Mc. 4.28 ("Dapprima produce l'erba con la legge naturale; poi le spighe con la legge di Mosé; quindiil grano perfetto col Vangelo"), per poi chiosare: "Perciòla legge nuova è contenuta nell'antica come il frutto nella spiga" (cfr. Purg. XX, n. 133-138). Questo passo è stato posto in rilievo da C.V. Kaske ("Mount Sinai and Dante's Mount Purgatory": Dante Studies, 1971, p. 10), la quale considera il Purgatorio dantesco modellato sul monteSinai. Si capisce dunque il grande privilegio di cui, a parere del nostro poeta, gode Catone, il quale, come Mosè,che non potè entrare nella Terra Promessa (Num. 20.12), attraversò il deserto. Tuttavia tale privilegio spetta a Catone, non a Mosé, anche lui uomo "divino" in quanto capace di padroneggiare "tutte le forme di vizio e di cattivo desiderio" (S. Gregorio, Hom. in Ev. 34.11). In effetti Catone rappresenta coloro che si salvano basandosisoltanto sulla legge del cuore: "cum enim gentes, quae legem non habent, naturaliter ea quae legis sunt faciunt, eiusmodi legem non habentes ipsi sibi sunt lex" (Rom. 2.14). E proprio il fatto di essere "legge a sé stessi" costituisce per l'uomo - chiarisce l'Aquinate - la massimadignità: "Et iste est supremus gradus dignitatis in hominibus, ut scilicet non ab aliis, sed a seipso inducantur in bonum. Secundus vero gradus est eorum qui inducuntur ab alio, sed sine coactione. Tertius autem est eorum qui coactione indigent ad hoc quod fiant boni. Quartus est eorum qui nec coactione ad bonum dirigi possunt" (Ad Rom. II.iii, n. 217).

Come notato da J.A. Scott ("Dante, Boezio e l'enigma diRifeo": Studi danteschi, 1989, p. 190), Catone e Rifeo compaiono assieme in un brano di Phil. Cons. IV in cui la Filosofia parla della discrepanza fra il giudizio umano e quello divino, che appare talora imprevedibile: "costui [Rifeo], che tu consideri giustissimo ed osservante al massimo dell'equità (iustissimum et aequi servantissimum), appare diverso alla provvidenza che tutto conosce. E che la causadel vincitore fosse piaciuta agli dei, mentre quella del vinto piacesse a Catone, è un ammonimento che ci dà il nostro Lucano [Phars. I.128: "victrix causa deis placuit, sed victa Catoni"]. Perciò tutto ciò che vedi attuarsi inaspettatamente sulla terra è in effetti un ordine giusto, mentre, a tuo giudizio, è confusione perversa" (6.32-34). Se dunque Boezio afferma che la Provvidenza è sempre giusta, anche se talora non sembra tale al giudizioumano, l'Alighieri completa il pensiero mostrando l'attuazione della perfetta giustizia di Dio: i "giustissimi" Rifeo e Catone sono salvi grazie alla fede da loro nutrita, in forma esplicita (Rifeo) o implicita (Catone). La storia, nello svolgersi secondo i dettami divini, pare lasciare dietro di sé 'vittime' innocenti, maquesti uomini, se in possesso della vera fede, possono ottenere il premio supremo; accade, nel caso di Catone, l'opposto di quanto vedemmo a proposito di Curione, dannato nella nona bolgia, il quale fu oggettivamente strumento della Provvidenza (in quanto spinse Cesare, il fondatore dell'Impero, all'azione), ma meritò l'Inferno a causa delle intenzioni malevoli del suo operare (cfr. Inf. XXVIII, n. 94-99). "Eadem actio diversimode iudicatur in bono vel in malo, secundum quod ex diversa radice procedit" (ST III, q. 47, a. 3). Dio è giusto: "les hommes dont il fait ses instruments, il les juges sur leurs intentions, non sur le sens secret, insoupçonné d'eux-mêmes, de leur action en ce monde. Du mal Dieu sait tirer le bien, sans méconnaître le bien qu'il faut abandonner par un sacrifice temporaire. Curion, méprisable auxiliairede la volonté divine, gémit en Enfer. Mais Caton, ennemi

de César, pauvre et glorieuse entrave d'une heure à cette volonté souveraine, n'est pas odieux au Seigneur, qui lui a marqué son amour en se laissant deviner par lui" (P. Renucci, Op. cit., p. 310). Si tenga presente che l'affermazione di Phars. IX.580, che descrive il rifiuto diCatone di ricorrere all'oracolo, fa capire che egli si basa sulla propria coscienza, sicuro della propria rettitudine, indifferente all'esito esteriore, 'pubblico' della propria linea d'azione. Se la Fortuna (la cui naturaprovvidenziale ci è nota: Inf. VII), reggitrice delle cose terrene, pare ostile a Catone, la situazione muta nella visuale ultraterrena, quella giusta. Così l'Alighieri interpreta la prospettiva lucanea per cui l'Uticense è la virtus stessa in opposizione alla Fortuna, il cui prediletto è Cesare. Inoltre Dante, nel suo procedere intertestuale, giunge a 'correggere' l'Eneide stessa: infatti le parole boeziane che si riferiscono a Rifeo (iustissimum et aequi servantissimum) ricalcano in maniera evidente Aen. II.426-28:cadit et Ripheus, iustissimus unus | qui fuit in Teucris et servantissimus aequi | (dis aliter visum). Nel contesto virgiliano, gli dei non ricompensano l'amore di Rifeo per la giustizia, per cui, con le parole di Scott, "anche in questo caso l'Alighieri volle correggere in bene il giudizio del suo amatissimo Virgilio: mentre gli dei pagani avevano accettato (oppure decretato) l'uccisione del più giusto dei Troiani, il poeta cristiano poteva invece affermare: 'A Dio sembrò bene diversamente'" (Op. cit., p. 191). Ma l'idea della 'correzione' del passo dell'Eneide è comune a parecchi studiosi: ricordiamo A. Pézard ("Dante fa riparare dal suoDio la crudele indifferenza degli dei che sacrificano il giusto": in Dante, Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1965,p. 1552), E. Paratore, che attribuisce a Dante lo "slanciodi rettificare il suo Virgilio" (Il canto XX del 'Paradiso' ['Lectura Dantis Scaligera'], Firenze, Le Monnier, 1966, p. 42), e R. Hollander ("Se gli dei pagani hanno mancato di riconoscere il suo merito, il Dio di Dante l'ha riconosciuto": Il Virgilio dantesco, Firenze, Olschki, 1983, p. 103). Tenendo quindi conto dei vari 'emendamenti' cui il poeta, nel corpo della Commedia, sottopone il testo

virgiliano, si può dire, con M. Picone (La 'viva speranza' di Dante, in A.A. Iannucci [Ed.], Dante Today, Univ. of Toronto Press, 1989, pp. 266-67), che l'utilizzo dell'espressione dis aliter visum costituisce "la resa finale dei conti poetici fra Eneide e Commedia": "Mentre al livello della costruzione narrativa dell'episodio Dante si attiene scrupolosamente alle informazioni che gli provengono dal testo classico, al livello della costruzione allegorica procede ad una radicale correzione dello stesso testo. Dalla imitatio passa alla aemulatio. L'intervento correttivo tocca in particolare l'inciso del testo di partenza: dis aliter visum. Mentre infatti Virgilio riconosce nella morte diRifeo una decisione avversa degli dei, Dante attribuisce aquella stessa morte un significato positivo, interpretandola come il passaggio verso la vera patria, verso la cittadinanza paradisiaca. La comedìa cristiana diventa così l'inveramento della tragedìa classica; e al tempo stesso il viaggio del protagonista fino alla visionefinale di Dio si pone in una relazione di differenziazionerispetto al viaggio di Enea verso la Roma terrena, e in rapporto di identificazione rispetto al 'pellegrinaggio' di Rifeo verso quella Roma onde Cristo è romano. La creazione delnuovo mito di Rifeo assumerà allora il valore non di un postremo omaggio alla poesia di Virgilio (come suona il commento tradizionale), ma della resa finale dei conti poetici fra Eneide e Commedia".

40-42. Catone teme che i due viaggiatori abbiano abbandonato l'Inferno (la pregione etterna) risalendo lungo il fiume sotterraneo (cieco: quello che ha prodotto la natural burella: Inf. XXXIV.98, 127-34) e si rivolge loro in tono severo, parlando in modo concitato, come rivela il movimento della barba (piume) onesta (dal lat. honestus, "dignitoso", "retto", "virtuoso"). Egli, primo personaggiodel Purgatorio, si contrappone a Caronte dalle lanose gote (Inf. III.97), primo dell'Inferno. Il termine piume ha connotazione positiva, poiché è impiegato dal poeta in riferimento agli angeli, ad animali nobili come gli uccelli ed in un caso al proprio volo celeste (Par. XV.54).

43-48. 'Chi vi ha guidati, o che cosa vi fece luce (fu lucerna), per uscire(uscendo) fuori dalla (de la) profonda notte che rende (fa) sempre buia (nera) la voragine infernale (valle inferna)? Le leggi dell' (d')abisso sono infrante (rotte) fino a questo punto (così)? o è mutato in cielo la recente legge (novo consiglio), per cui (che) venite, pur dannati, alle rocce (grotte) affidate alla mia custodia (mie)?'. - L'impressione di essere arrivato in porto svanisce in Dante all'udire tali parole severe (e nota dannati), ma non sbigottite (qualcosa di provvidenziale dev'essere in atto ...). L'allocuzione di Catone è molto curata stilisticamente, come attesta la presenza di perifrasi (es.: le mie grotte, con cui è rivelata la funzione di guardiano di tutto il monte) ed antitesi (es.: lucerna ...notte), oltre che l'anafora ai vv. 40 e 43. Come spiega E.Raimondi (Metafora e storia, Torino, Einaudi, 1970, p. 84), "leformule numinose e le antitesi gravi" che caratterizzano l'allocuzione "rivelano che, interrogando Virgilio, Catonenon mira ad informarsi, quanto a provocare in chi gli sta davanti una presa di posizione che deve poi valere, in fondo, come una specie di abiura, di decisa rinunzia". Il novo consiglio (usuale novo con valore di "recente") è la legge fatta alla morte di Cristo, prima della quale non c'erano né Purgatorio né Paradiso (e la legge sancisce la separazione assoluta fra salvati e dannati). Cfr. n. 85-90.

49-51. La guida (duca) - narra il poeta - mi afferrò (dié di piglio: cfr. Inf. XXIV.24) e con parole e gesti mi fece inginocchiare a capo chino, letteralmente mi rese (fé = "fece") rispettosi (reverenti) le gambe e lo sguardo ('l ciglio). Virgilio agisce con premura: egli pare denotare un certo turbamento e "mostra subito deferenza e ubbidienza. Romanoe ombra, non si piega davanti al suo antico concittadino, ma fa inginocchiare Dante con una premura che ben mostra quanto abbia compreso i meriti di Catone. Presto però cadrà in errore, comportandosi con Catone come si usa nel mondo dei viventi, facendo eccedere Dante in manifestazioni di reverenza, eccedendo egli medesimo in

parole di lode, ricordando affetti terreni che non commuoveranno punto il severo guardiano del Purgatorio" (Trucchi).

52-54. Virgilio, dopo aver usato (v. 52) la stessa frase rivolta da Dante a Cavalcante (Inf. X.61), allude all'intercessione di Beatrice (la donna) a favore di Dante(costui), ripetendo quanto già detto in Inf. II (vv. 52ss.:cfr. Inf. XII.88-89). Il Virgilio di vuolsi così colá dove si puote ció che si vuole, formula sbrigativa e minacciosa usata per la prima volta contro Caronte, è lontano. Usuale, in lui (complemento di termine), l'omissione di a.

55-57. Ma poiché (da ch') è tuo desiderio (voler) che maggiormente(più) sia spiegata (si spieghi di) la nostra condizione come essa è (com'ell'è) veramente (vera), non può (puote) essere che il mio volere si neghi a te. - La volontà di Virgilio non può opporsi a quella di Catone. Il costrutto si spieghi di è di calco latino (de con valore di argomento). Vera è aggettivo in funzione di avverbio (cfr. Rime CXVI.35).

58-60. Virgilio spiega che Dante (questi) giunse talmente vicino (presso) alla morte (l'ultima sera), che ormai pochissimo tempo doveva trascorrere (a volger era). L'ultima sera si riferisce alla morte sia fisica sia spirituale: Dante non ha provato né l'una né l'altra, anche se è andato assai vicino a quella spirituale per i peccati dovuti alla sua follia, cioè, secondo il senso dantesco di follia, al superamento dei limiti posti da Dio, alla superbia della ragione (tipica di Ulisse, qui ricordato: cfr. n. 130-132). Cfr. Inf. II, n. 34-35. Lana: "E qui l'autore per allegorìa vuole mostrare che colui, che è nelpeccato ruinato, s'elli non si ricognosce e distingue in suo cuore, poi per confessione esprime li suoi peccati, e adovra per atto la penitenzia, mai non può salvarsi. Sichèaltro non è a trattare e distinguere in questo modo poetico delle pene dello inferno, se non a pensare e pentirsi e sodisfare de' peccati e per li peccati per lui commessi". Come chiarisce Benvenuto, Dante "vivens adhuc

transivit per infernum ad evitandam mortem aeternam. Et hic nota quod catholice loquendo homines dupliciter descendunt in infernum: quidam enim peccant mortaliter, etimpoenitentes et obstinati moriuntur, et tales numquam evadunt ab inferno; alii vero peccando mortaliter descendunt in infernum viventes, sed recognoscendo culpam per poenitentiam evadunt, et talis fuit poeta noster". Sennonché l'Imolese identifica quale peccato principale diDante l'"avaritia", il che non quadra con la circostanza che il pellegrino non ha dato alcun segno di pentimento difronte alla pena degli avari (né si mostrerà coinvolto, nella quinta cornice del monte purgatoriale, nel vizio capitale corrispondente).

61-63. Virgilio ribadisce di essere stato mandato da Beatrice: egli, strumento della volontà divina, imboccò l'unica via possibile (quella penitenziale, basata sul "timor della pena": Tommaseo): A te convien tenere altro viaggio, aveva detto a Dante (Inf. I.91). Cfr. le parole di Beatricein Purg. XXX.136-138.

64. La gente ria è l'insieme dei dannati.

65-69. Dopo aver mostrato a Dante i dannati dell'Inferno, Virgilio gli mostrerà le anime del Purgatorio. Egli si presenta quale strumento della grazia, agendo in seguito ad una virtù che scende dal cielo; ... quella virtù, per cu' io muovo | li passi miei per sì selvaggia strada (Inf. XII.91-92). La guidapone il processo di purificazione sotto la balìa di Catone(il che in senso stretto non è) e parla come se fosse questi la meta del viaggio di Dante: secondo molti critici, queste sue parole, assieme a quelle che seguiranno, saranno interpretate come "adulazioni" (v. 92)dall'Uticense, che - anima santa - non erra di certo. "Peraccattarsi la benevolenza e il favor di Catone pone Virgilio questo accidentario abboccamento con esso lui come uno de' primari fini ch'egli avesse nel condur Dante colà. Vedi però come l'accorto Catone (v. 91 e segg.) mostra lui vana in quel luogo tale ed ogn'altra mondana

lusinga" (Lombardi). Dal v. 68 il registro del discorso sifa alto, palesando abbondanza di artifici retorici (soprattutto di perifrasi).

70-75. Virgilio precisa che l'anima da lui guidata è in cerca della libertà, per la quale Catone non esitò a sacrificare la vita (quindi cara nel senso non solo di "amata", ma anche di "costosa"). Tale libertà è la prefigurazione della libertà spirituale che è obiettivo del pellegrino cristiano: la vera libertà è "la compiuta liberation del peccato, perché, come dice l'Apostolo: Qui facit peccatum, servus est peccati (Io. 8.34)" (Daniello). Catone, "per accendere tra gli uomini l'amore per la libertà, mostrò quanto essa valesse preferendo morire libero piuttosto che restare vivo senza quella" (Mon. II.v.15). E. Auerbach coglie nel personaggio di Catone un valido esempio della interpretazione "figurale". La vicenda di Catone è isolata dal suo contesto storico terreno e diviene "figura del futuro". "Catone è una 'figura', o piuttosto era tale il Catone terreno, che a Utica rinunciòalla vita per la libertà, e il Catone che qui appare nel Purgatorio è la figura svelata o adempiuta, la verità di quell'avvenimento figurale. Infatti la libertà politica e terrena per cui è morto era soltanto ... una prefigurazione di quella libertà cristiana che ora egli è chiamato a custodire e in vista della quale anche qui egliresiste ad ogni tentazione terrena; di quella libertà cristiana da ogni cattivo impulso che porta all'autentico dominio su sé stesso, appunto quella libertà per raggiungere la quale Dante è cinto del giunco dell'umiltà [...] La persona di Catone, quale uomo severo, giusto e pio, che in un momento significativo del suo destino e della storia provvidenziale del mondo ha anteposto la libertà alla vita, è conservata in tutta la sua forza storica e personale: non diventa un'allegoria della libertà, ma resta Catone di Utica, l'uomo che Dante vedevanella sua individuale personalità; ma dalla sua provvisorietà terrena, nella quale egli considerava come il bene supremo la libertà politica, egli è sollevato

nella condizione dell'adempimento definitivo, dove ciò checonta non sono più le opere terrene della virtù civile, mail 'ben dell'intelletto', il bene supremo, la libertà dell'anima immortale nella visione di Dio" (Studi su Dante, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 219-20).

Il Purgatorio è il luogo in cui, dopo la (ed in conseguenza della) giustificazione, l'anima gradatamente si purifica ed acquista le virtù in maniera perfetta, finoad ottenere la libertà (o giustizia). Colui che morì ad Utica è destinato al trionfo: il giorno del Giudizio universale (il gran dì: la gran sentenza di Inf. VI.104), quando non ci saranno più anime purganti in sua balìa, il suo corpo (vesta) risorgerà splendente per ascendere in Paradiso (cfr. Par. XIV.43 ss.). L'allusione alla gloria celeste ci fa pensare che la libertà come autocontrollo razionale, quella conseguita in Purgatorio e la cui presenza in Dante sarà 'sancita' da Virgilio (Purg. XXVII),non costituisce l'ultimo fine del viaggio né la realizzazione compiuta dell'uomo: la libertà perfetta va riferita alla visione divina e coincide con la beatitudineceleste, contraddistinta dal totale adeguamento del voleredella creatura a quello del Creatore. L'accento posto sulla gloria di cui risplenderà il corpo di Catone dopo ilGiudizio sembra in voluto contrasto - come notato da E. Moore (Studies in Dante, Oxford, Clarendon, II, 1899, p. 221n.) - col destino che toccherà ai suicidi (Inf. XIII.103-108). Secondo J. Oeschger ("Antikes und Mittelalterliches bei Dante": Zeitschrift für romanische Philologie, 1944, pp. 45, 82-3), i vv. 71-72 riecheggiano un passo (XXXIII.4) del Bellum Catilinae di Sallustio. In quest'opera sono posti a raffronto Cesare e Catone, ingenti virtute diversis moribus; e l'Uticense è presentato come uomo integerrimo, attento ai dettami della propria coscienza, coerente nellescelte di vita anche a scapito degli amici: un ritratto incui l'Alighieri avrebbe potuto riconoscersi (così come avrebbe potuto riscontrare il collegamento del proprio nome a quello di Catone in Aen. VIII.670: cfr. R. Hollander, Allegory in Dante's 'Comedy', Princeton Univ. Press,

1969, pp. 128-29). Il fatto che l'accenno alla beatitudinedi Catone sia eseguito facendo riferimento alla vesta che sarà così luminosa (sì chiara) il giorno della "seconda Resurrezione" (Mt. 13.43: "Tunc justi fulgebunt sicut sol in regno Patris eorum"; cfr. Par. XIV.43-60), ci fa ricordare che le virtù cardinali infuse possedute dal guardiano del Purgatorio sono diverse non soltanto da quelle che sono appannaggio degli individui giusti che vivono nell'emisfero boreale, ma anche da quelle di cui sifregiarono i nostri progenitori: infatti Catone è - a differenza degli uomini viventi risanati, che sono nello stato del non posse non peccare - "innocente" (le facoltà sensibili sono pienamente soggette alla ragione, a sua volta soggetta a Dio-Padre), è un veglio emendato dei vulnera naturae (presenti invece nel veglio di Creta: cfr. Inf. XIV, n. 136-138), ma è - a differenza di Adamo - privo di corpo, per cui, anche se il suo è lo stato del non posse peccare (distinto da quello adamitico del posse non peccare), la soggezione delle facoltà sensibili è incompleta e quindi imperfetta. L'accenno al corpo ci fa poi pensare alfatto che il pellegrino è vivo, per cui egli, quando nel Paradiso Terrestre acquisterà l'innocenza, si troverà in una condizione assai simile a quella della prima gente (cfr. n. 25-27).

76-81. Virgilio rassicura Catone sulla saldezza delle leggi (editti) eterne: egli è fuori della giurisdizione di Minosse (che inizia col II cerchio dell'Inferno: cfr. Inf. V, n. 7-8), mentre Dante è vivo. Quindi il poeta latino prega Catone (orando flectes: Georg. IV.399) di concedere il passaggio facendo leva sull'affetto coniugale (nota la ripetizione di tua): infatti la preghiera è fatta in nome dell'amore di Catone per la moglie Marzia, la quale può essere vista da Virgilio nel Limbo (v. 88). Da Phars. II (vv. 326-349) Dante sa della devozione coniugale di Marzia, sposa di Catone, poi passata a Q. Ortensio e poi, morto questi, di nuovo a Catone. Nel Convivio (IV.xxviii.13-19) si dà un'interpretazione puramente allegorica della vicenda, simboleggiando il ritorno della donna al primo

marito il ritorno dell'anima a Dio nella vecchiaia ("E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo"); ma nella Commedia il sovrasenso allegorico (quando c'è) è convogliato da un evento storicoespresso dal senso letterale. Marzia è nel Limbo "because Dante has abandoned the allegory of poets, which took her to heaven, for the allegory of theologians, with its insistence on the priority of history over philology" (R. Hollander, Studies in Dante, Ravenna, Longo, 1980, p. 81). La storia del rapporto fra Marzia e Catone fa pensare di nuovo a Mosè, il quale, con le parole dell'evangelista Marco, "permisit libellum repudii scribere, et dimittere" (10.4; cfr. Deut. 24.1). Santo petto è formula riferita a Catone, "sacratissimo petto" nel Convivio (IV.v.16); cfr. Phars. II.372, VI.311, IX.555. Scrive R.J. Goar: "Perhaps it is not excessive to claim that Cicero began the canonization of Cato in the latter's own lifetime by referring to him in De domo sua 8.21 as sanctissimum" (The Legend of Cato Uticensis, Bruxelles, Latomus, 1987, p. 45n.). Cfr. pure Seneca, Epist. 67.13. Frequentemente usato, da Dante, per in funzione di complemento d'agente (franc. par).

82-84. Virgilio si dimostra ancora legato a ragioni terrene: egli non fa appello esclusivamente all'interventodivino, ma a motivi affettivi che, ormai, non fanno più presa nell'animo di chi vive in una dimensione ultraterrena. I sette regni sono le sette cornici del Purgatorio: sono sette in corrispondenza dei vizi capitaliperché, per l'Alighieri, le reliquiae peccati che restano dopo la remissione della culpa e che la satisfactio operis deve eliminare coincidono con i vizi capitali (cfr. Purg. II, n.120-123). Mentovato ("ricordato") è participio passato di mentovare (dal lat. mente habere, "avere in mente"), verbo chenon ricorre in altri luoghi del poema.

85-90. Marzia, che si trova oltre l'Acheronte (il mal fiume), cioè nel Limbo, non può più toccare l'animo di Catone, come quando accadeva in vita (circa piacque ...

alli occhi miei, cfr. Iud. 14.3: "placuit oculis meis"). Una legge divina separa nettamente le anime salve da quelle escluse dalla grazia ("Inter nos et vos chaos magnum firmatum est": Lc. 16.26); essa entrò in vigore (fatta fu) nel momento in cui Cristo scese nel Limbo (Inf. IV.46-63) per trarne le anime che, pur essendo vissute prima della Rivelazione, erano degne di essere salvate (e fra queste Catone). L'amore coniugale - chiosa il Buti -, comeogni vincolo affettivo terreno, dopo la morte "è soluto, enon s'ama da' beati, se non per vera carità, quelli che sono beati, e non li dannati". A Purg. XIX.137 è richiamatoun passo di Matteo: "in resurrectione neque nubent neque nubentur, sed erunt sicut angeli Dei in coelo" (22.29-30).In tal modo si fa netta la distanza tra Catone e Virgilio (dannato come Marzia), il quale aveva cercato di attenuarla col richiamo agli affetti, cadendo così in una gaffe (A. Di Benedetto, in Giornale storico della letteratura ital., 1985, p. 175) o in "una malaccorta piaggeria" (Dragone, comm. ad loc.). Ricordiamo che la mancanza di compassione dei beati nei confronti dei dannati non va a detrimento della misericordia, come chiarisce S. Gregorio: "Quelli però che dalla sede di beati vogliono passare tra gli afflitti non possono, perché le anime dei giusti, pur avendo la misericordia tra le proprietà della loro buona natura, sono strettamente unite alla giustizia del Creatore e a quella giustizia aderiscono così perfettamente da non esserne distaccate per alcun sentimento di compassione verso i reprobi. Quelle anime sante si accordano perfettamente con il divino Giudice, alquale sono unite, e non si piegano neppure per sentimento di compassione a coloro che non possono liberare" (Hom. in Ev. 40.7).

91-93. La prospettiva di Catone, al contrario di quella diVirgilio, è celeste: quindi per amore di una donna del ciel (Beatrice), non terrena (Marzia), egli, che interpreta le parole di Virgilio come lusinghe, darà il consenso. La lettura che Catone dà delle parole di Virgilio approfondisce il solco fra i due grandi spiriti.

Il Purgatorio, precisa G. Mazzotta, è "il mondo della reciprocità". "But no reciprocity is possible between the lost and the elect: Cato, who now lives under the new law,refuses Vergil's flattery, the captatio benevolentiae formulatedin the language of earthly love. It is the Lady of Heaven who is the intermediary for the pilgrim's ascent. The rhetoric of the eyes, so central in secular love lyrics, is recalled only to be quickly dismissed. Marcia is mentioned to Cato, metonymically, through her chaste eyes,and Cato remembers how delightful she was to his eyes; butthere is no yielding in Cato to nostalgia and the insidious temptation of the past. The palinody of earthly love marks his spiritual regeneration" (Dante, Poet of the Desert, Princeton Univ. Press, 1979, p. 52).

Come rilevato da L. Fassò (Saggi e ricerche di storia letteraria, Milano, 1947, pp. 17-18), l'atteggiamento di Virgilio è quello di un uomo turbato, come si può desumere dai gesti affrettati e dalla preoccupazione con cui fa inginocchiareil suo discepolo. Ma il turbamento è ancor più attestato dal tono incerto e timoroso delle parole con cui il saggiopagano risponde a Catone. Il discorso del primo appare piuttosto disordinato, lontano dal rispettare quei canoni retorici che contraddistinguono i discorsi dei grandi personaggi in occasioni solenni. Virgilio sembra alquanto intimidito dall'incontro, il primo con un'anima salva. Quindi egli "non è qui il solenne sapiente e poeta, e non è la guida autorevole, dominatrice degli eventi, che abbiamo conosciuto nell'Inferno: è un'anima dannata all'Inferno - e non ha altro conforto alla sua umiliata pena che di stare nel Limbo -, che percorre per la prima volta un regno a lui inaccessibile, anch'egli in una certamisura trepidante per incontri solenni. Catone, quasi suo contemporaneo, non è più ormai creatura del suo mondo: è lontanissimo nel privilegio della salvezza; e se fu pari, o anche minore di lui in terra, è qui creatura di un altromondo, affidata a quel Dio che egli, sospirando, dovrà 'disiare' invano" (M. Sansone, ll canto I del 'Purgatorio', Roma, Signorelli, 1955, p. 20). Hollander parla di "maldestra

verbosità" di Virgilio, il quale effettua un "puerile tentativo di imitare la promessa consimile fattagli da Beatrice nel Limbo (Quando sarò dinanzi al segnor mio, | di te mi loderò sovente a lui: Inf. II.73-74). La risposta di Catone è magistrale e indubbiamente scortese: può aver successo un appello a Beatrice, non a Marzia. Secondo Catone, le mal dirette parole di Virgilio sono vane lusinghe. Nel canto III saremo costretti ad assistere alla poco dignitosa condotta di Virgilio quando egli corre verso il monte con la fretta | che l'onestade ad ogn'atto dismaga (10-11). Povero Virgilio! Dobbiamo tener presente che è Dante che, in scene e parole come queste, punisce Virgilio per la sua mancanza di fede. Con questo non si vogliono trascurare i molti casi nel poema - e sono i momenti che gli studiosi del Virgilio dantesco ricordano più comunemente - in cui si riscontra il desiderio di onorare Virgilio come poeta, come virtuoso moralista, come custode della fiamma imperiale" (R. Hollander, Il Virgilio dantesco, Firenze, Olschki,1983, pp. 85-86).

94-99. Dato il consenso (Va dunque), Catone insegna il rito di purificazione da seguire per poter iniziare la salita e presentarsi degnamente al cospetto del primo (nonrispetto al grado, ma all'ordine d'incontro) esecutore delle leggi divine (ministro), che è un angelo (di quei di paradiso): è questi l'angelo che custodisce la porta del Purgatorio, l'angelo che ammette le anime, giustificate ma non nel pieno possesso delle virtù, all'espiazione delle reliquiae peccati. Si tratta di una cerimonia dal grande valore simbolico-liturgico. Il giunco, pianta piccola, flessibilee priva di foglie e rami ("a mostrare che lo umile non deefiorire nelle temporali cose": Lana), è il simbolo dell'umiltà (umile pianta: v. 135), condizione necessaria per affrontare la penitenza-purgazione: il poeta definisceil capestro, il cordiglio francescano, umile (Inf. XXVII.92; Par. XI.87, XII.132), volendo probabilmente "simbolizzare l'avvilimento volontario e la penitenza spontanea dei primi frati Minori" (G.G. Meersserman, Penitenza e penitenti nellavita e nelle opere di Dante, in V. Branca - G. Padoan [a cura di],

Dante e la cultura veneta, Firenze, Olschki, 1966, p. 239). Il sucidume ("sudiciume" per metatesi) e la nebbia ("impurità") rappresentano le tracce 'esteriori' del peccato come colpa o macchia (macula) da cui il pellegrino,contrito, è stato ormai lavato (il viaggio purgatoriale gli consentirà di liberarsi degli altri due "danni" del peccato, cioè la pena temporale e la corruzione del "bene naturale": cfr. Purg. IX, n. 133-138). Lana: "Quasi a dire che non solo l'uomo dee essere disposto ad umilità, ma eziandìo deve essere lavato da ogni vizio, il quale elli appella sucidume, imperquello che l'anima, quando è piena di peccato, è sucida e lotosa e privata della luce dello eterno Fattore". Benvenuto: "Dicitur sucidumen a suco, et assignat causam huius dicens: quod non esset conveniens quod visus foedatus vitiis accederet ad conspectum Angeli Domini" (la nebbia rappresenta "macula vitiorum"). Il pellegrino è stato assolto da Dio dalla macula del peccato (peccato-culpa): egli, accingendosi a compiere la satisfactio (penitenza 'pubblica'), deve ora esternare il proprio statusmorale; Virgilio, strumento di Dio, ha il compito di detergere le tracce esterne di tale macula. Il giunco, che è schietto ("dritto", "liscio", "non nodoso": Inf. XIII.5),rappresenta in sostanza la meta del viaggio attraverso l'Inferno, la prova che il viaggio ha avuto felice esito (conversio e sanatio): prima di poter salire, bisogna scendereall'umiltà (cfr. Inf. XVI, n. 121-123). Precisazione di Casini-Barbi: "Sebbene il primo angelo veduto dai due poeti sia quello che accompagna dalla foce del Tevere all'isola della purificazione le anime elette (cfr. Purg. II.29), è da ritenere con Benvenuto che Catone accenni invece a quello che siede a guardia del purgatorio innanziall'entrata (cfr. Purg. IX 78 sgg.): poiché l'uno non esercita alcun officio rispetto a Dante e casuale è l'imbattersi dei poeti al suo arrivo, mentre l'altro è posto in relazione diretta e necessaria coi due visitatori, sì che anche Catone poteva sapere che essi l'avrebbero incontrato alla porta che mette ai cerchi". Sinotino il senso di quindi ("di lì", "dal viso") e il costrutto latineggiante (ablativo assoluto) l'occhio

sorpriso ("offuscato"). Sorpriso, non "sorpreso", forma unarima siciliana (cfr. Inf. XXVI.54; Purg. IV.126).

100-105. Nel luogo più basso (ad imo ad imo) dell'isoletta (intensivo nel senso di "isola del tutto sola nell'oceano": Chimenz), cioè sulla sua costa, sorge il giunco, la pianta che simboleggia al meglio la capacità dell'umile di resistere piegandosi alle offese, alle percosse: "... in loco basso vivit et viget humilitas, tutior contra impetus adversorum, quam alta superbia" (Benvenuto). Si legga Pietro di Dante: "Ad quem actum cingendi humilitatis dicit Mathaeus 6o capitulo: humiliatio tua in medio tui. Qui iuncus non rumpitur fluctibus et undis maris, idest huius mundi [...] Ita homo, inhaerens virtuti, debet se flectere, non rumpere fluctibus huius mundi, ut virtuosus et humilis". Cfr. n. 133-136.

106-108. Dopo (Poscia) il vostro ritorno (reddita: lat. reditus) non sia da questa parte (di qua); il (lo) sole, che ormai sorge, vi mostrerà (mosterrà) come affrontare (prendere) il monte arrivandoci per (a) una salita più agevole (lieve). - Come spiega Benvenuto, "homo ingressus purgatorium, idest poenitentiam, non debetamplius redire versus infernum, idest vitia a quibus recessit". E non può essere che il sole, simbolo della Grazia illuminante, ad indicare la strada a chi vuole liberarsi completamente dal male. Il sole comunque indica la via per raggiungere le radici del monte; il punto da dove iniziare l'ascesa vera e propria sarà indicato da alcune anime.

109-111. Catone scompare di colpo, quasi riassorbito nel paesaggio da cui era emerso, e Dante, finora in ginocchio,può rialzarsi ed affidarsi alla guida; però resta silenzioso: il rito è ancora da compiere ed il raccoglimento è essenziale. Scrive M. Sansone sul "silenzio" del pellegrino: "Mai creatura, tacendo, improntò di sé la scena, come qui Dante: e il suo silenziocostituisce forse la più pura modulazione lirica del canto. Non attore, ma solo testimone della vicenda, egli

risulta testimone-protagonista, giacchè tutto si atteggia secondo quel suo silenzioso e sospeso intendere l'anima e l'occhio, che dà la misura sia del soprannaturale e sia della sua attesa fidente. L'isoletta, la luce albare, il paesaggio, Catone, il colloquio, tutto sta dentro quel silenzio di Dante" (Il canto I del 'Purgatorio', Roma, Signorelli, 1955, p. 23). Ma non vanno sottaciute le ragioni profonde del silenzio. Il pellegrino è stato assolto, e può accingersi in stato d'umiltà alla purificazione, grazie alla contritio cordis, senza aver partecipato al rito penitenziale 'pubblico' (che implica la confessione), ossia senza avere usufruito del ruolo mediatore dell'istituzione ecclesiastica.

113-114. I viatori, che sono in un punto più elevato rispetto alla spiaggia, devono, per compiere il rito, tornare indietro, scendendo verso l'orlo della spiaggia.

115-117. L'alba cacciava (vinceva) l'ultima ora della notte (l'ora mattutina) che fuggiva (fuggia innanzi), così (sì) che da lontanoravvisai (conobbi) il tremolare del mare (della marina). - La scarsa luce consente a Dante di intuire, più che di vedere, il mare, dal tremolio delle onde. E' una delle note paesistiche più suggestive del poema; essa riprende l'atmosfera iniziale del canto ed è in sintonia con lo stato d'animo del pellegrino, giacché la ricomparsa della luce, in una scenografia quotidiana, equivale alla nuova condizione morale che va verso la resurrezione (nota vinceva). Tremolar "dipinge e, insieme, anima la pittura col suono, tremolando esso a mezzo il verso" (Torraca). {Boitani, 365} E. Raimondi (Metafora e storia, Torino, Einaudi,1970, p. 91) evidenzia, fra i precedenti classici, Virgilio (Aen. VII.9), Ovidio (Her. XI.75) e Claudiano (De raptu Proserp. II.2-3). Egli poi rinvia a Purg. XII.90 e Purg.XXVIII.10-12 per concludere che tremolare "è un verbo che siassocia sempre, nel Purgatorio, a un'idea di misterioso divenire, di attesa vitale, di disposizione (la dispositio degli Scolastici) al sacro. E viene così il sospetto, addirittura, che il 'tremolare' del canto I sia qualcosa

di più di una bellissima immagine pittorica che l'infinitosostantivato converte in una nobile sostanza, e che la suaqualità suggestiva più profonda dipenda proprio da un oscuro campo di sensazioni, compresenti come in un mito cosmico, dove cielo, acqua, alba, luce, pianta si fondono insieme e la natura, di nuovo solidale con l'uomo, sembra restituirlo a una sospesa purezza d'infanzia". Abbiamo visto come la conversio del pellegrino riconduca il viatore cristiano ad un rapporto armonico con la natura ed il piano creativo (Inf. XXXIV, n. 121-126); ma se "purezza d'infanzia" equivale ad "innocenza", bisogna ribadire che il pellegrino è ora giustificato ed in tal senso "risorto", ma non ancora "innocente", rigenerato. - Rammentiamo che, nell'orario ecclesiastico, il "mattutino"è l'ultima parte della notte.

118-120. Noi andavamo attraverso (per) la pianura solitaria (lo solingo piano) come colui (com'om) che torna a cercare (torna a) la strada perduta e che, finché non l'ha ritrovata ('nfino ad essa), gli (li) pare di andare inutilmente (ire in vano). - E' la prima similitudine dalla struttura 'classica' ("[così] ... come") del Purgatorio; essa evidenzia i motivi della solitudine e dello smarrimento: i due viaggiatori non vanno verso il monte, donde la sensazione di ire (latinismo) in vano. Il clima psicologico è di attesa, leggermente ansiosa. Circa il motivo del viatore in luogo solingo, si leggano Buti ("per lo solingo piano; cioè solitario; e per questo si dè intendere che nullo o pochi sono quelli che descendeno a pilliare lo grado dell'umilità, che si richiede a chi vuole montare a l'altezza de la penitenzia") e l'Imolese ("... terra nostra habitabilis est magna frequentata a multis, quia plena peccantium; sed illa terra purgatorii opposita nostrae est parva et vacua, quia est terra poenitentium tendentium ad virtutem, per quam paucissimi ambulant [...]Omnis enim homo vivens in mundo isto appellatur viator, qui tendit in patriam, sed saepe exorbitat a via recta, etdiu per vana vagatur; sicut poeta noster, qui per tot tempora iverat per vanos honores et insanos amores, sed

nunc tandem recognoscebat errorem suum"). Il v. 118 pare modellato su Aen. VI.268 (Norden). Om è impersonale (franc.on).

121-125. Quando noi fummo là dove ('ve) la rugiada resiste al (pugnacol) sole, per il fatto che si trova (per essere) in un luogo (in parte)dove, sotto la brezza marina (ad orezza), evapora più lentamente (pocosi dirada), il mio maestro pose delicatamente (soavemente) entrambe (ambo) le mani aperte (sparte) sull'erbetta. - Virgilio raccoglie dell'erbetta che cresce in un luogo ventilato, in cui la rugiada si dissolve più lentamente e perciò pugna ("lotta", "combatte") col calore solare; orezza, diminutivo di "ora" (lat. aura, ôra), significa "brezza", "venticello" (cfr. Purg. XXIV.150), non "ombra", "frescura"(tale è il senso di rezzo: Inf. XVII.87). Alcuni commentatori leggono e per essere in parte dove adorezza, ammettendo che Dante abbia coniato il verbo adorezzare ("farombra" o "ventilare"). Virgilio agisce soavemente: i gestidella cerimonia sacra devono essere lenti e solenni.

126-129. Il primo gesto rituale è compiuto: Virgilio pulisce il viso di Dante dalla caligine infernale (la quale rendeva visibili i segni delle lacrime versate); un simile atto è compiuto da Enea prima di entrare nei Campi Elisi (Aen. VI.635-36). Le guance del pellegrino sono lagrimose, cioè bagnate di lagrime di pentimento o, più precisamente, di "contrizione" (Trucchi, Giacalone). L'Eroe non aveva pianto di fronte ad Ugolino, ed in seguito il suo volto, evidentemente non cosparso di lacrime, era stato colpito dal vento senza rischio di congelamento (Inf. XXXIII.100-103); ne consegue che egli hapianto una volta giunto a contatto con Dite, ossia che le lacrime hanno accompagnato, quale segno esteriore di contrizione, la conversio al centro della Terra, cioè la giustificazione: nel momento della giustificazione - va ricordato - è infusa anche la virtù della penitenza (afferma Alberto Magno che, "si paenitentia dicitur detestatio peccati, sic est causa iustificationis sine quanon; si autem dicitur paenitentia virtus vel gratia, sic

infunditur in ipsa iustificatione cum aliis habitibus virtutum": De paenitentia I, q. 1, a. 1). Oramai Dante ha superato l'esperienza infernale: dopo aver dato in certe occasioni cruciali prova di pentimento, esattamente di attrizione (contrizione imperfetta in quanto dettata dal timore della pena, ma già accompagnata da detestatio peccati: èla differenza fra il timore "servilis" e quello "serviliter servilis", il quale non elimina l'affectum peccandi: ST II-II, q. 19, a. 4), egli è completamente contrito dei propri peccati (contrito ed umiliato: cfr. p.es. Dan. 3.39, Ps. 50.18) ed è ormai convertito a Dio, che lo ha perdonato, ma esige ancora il compimento dell'espiazione sulle cornici (per questo alla caligine sisostituiranno le sette 'P': cfr. Introd. alla cantica, par. 1). Il pellegrino, a questo punto, deve perfezionare il processo di risanamento. Il nesso fra l'azione di nettare il viso e quella di cingere del giunco sta nel fatto che èumile chi è giusto (cfr. ST III, Suppl., q. 6, a. 4). Come vedremo (cfr. n. 133-136), l'essere cinti nei fianchi significa non dipendere, nella scelta della linea d'azione, dalle facoltà 'inferiori' dello spirito, il che è effetto della giustificazione.

Molti studiosi ritengono che il rito cui il pellegrino deve partecipare faccia riferimento al battesimo, che in effetti rimette ogni peccato, sia quello originale sia quelli personali; questa opinione è stata espressa con dovizia di particolari da K. Marti ("Dante's 'Baptism' andthe Theology of the Body in 'Purgatorio' 1-2": Traditio, 1989-90, pp. 167-90) e di recente ripresa da G. Muresu ("Il 'sacrificio' per la libertà": Rassegna della letteratura italiana, 2001, p. 401). Tuttavia l'opinione - come abbiamo già detto (cfr. Inf. XXXIV, n. 91-93) - non sembra avere fondamento testuale: a parte il fatto che la funzione dei sacramenti è circoscritta al mondo terreno (cfr. Purg. IX, n. 79-84), basti pensare che il pellegrino - come lo stesso poeta dirà all'esordio di Par. XXV - ha già ricevutoil battesimo, il quale è un sacramento non ripetibile. Inoltre, è noto che il battesimo rimette immediatamente e

completamente ogni peccato, non lascia sussistere, dopo ilperdono, una pena "temporale", uno stato che rimane perturbato e che richiede una "soddisfazione". E l'ascesa del monte del Purgatorio che attende il pellegrino prova proprio che egli - a suo modo, da vivo - deve partecipare all'espiazione del debito di pena temporale, deve cioè eliminare le reliquiae del peccato. Ciò basta a sufficienza per mostrare che nell'occasione non si può parlare di battesimo (tanto più se si pensa che nel battesimo non si richiedono "né gemiti né pianti": ST III, q. 68, a. 6; cfr.Purg. V, n. 103-108). Muresu adduce a sostegno della tesi da lui preferita alcuni particolari narrativi: la presenzadella rugiada, che evoca l'acqua consacrata; il lieve zefiro che "pare alludere all'alitare del sacerdote verso il battezzando"; il modo in cui Virgilio stende le mani, modo che "richiama l'imposizione delle mani, atto legato anch'esso alla più antica tradizione battesimale". Tali particolari, tuttavia, non costituiscono affatto prove a sostegno, in quanto non sono esclusivi del battesimo. Infatti, nella tradizione biblico-cristiana, "rugiada" rinvia genericamente all'idea della grazia che purifica (per lo spunto virgiliano, cfr. Aen. VI.230-31); in secondoluogo, va ricordato che molti teologi ritenevano che Gesù avesse istituito il sacramento della penitenza principalmente quando, risorto dai morti, soffiò sui suoi discepoli (il rinvio era a Io. 20.22-23); infine, nell'ambito della disciplina pubblica del sacramento, già nel IV sec. la penitenza è ritenuta terminata quando il vescovo accorda la riconciliazione al penitente e gli ridona l'accesso all'eucarestia imponendogli le mani, gesto, questo, la cui portata è giudicata equivalente a quella dell'acqua del battesimo. Stando così le cose, dobbiamo ritenere che non di "prima giustificazione" si tratta qui, ma di quella "seconda" o "nuova giustificazione" che è possibile per via penitenziale. Il pellegrino, smarrita la diritta via, perso lo stato di grazia, l'ha recuperato grazie al percorso penitenziale compiuto nelle tenebre infernali: egli è stato risanato, anche se otterrà la gratia sanans perfetta, associata al

ripristino della libertà dell'arbitrio, soltanto alla finedell'ascesa espiatoria. Ma ciò non vuol dire ancora "innocenza": la 'riparazione' della natura pone il fedele nella condizione di chi è battezzato, ma i vulnera (cfr. n. 22-24), prodotti dalla colpa d'origine, non sono stati cancellati: "E' libero da tutti i peccati, ma non da tuttii mali. Più chiaramente: è libero dal reato di tutti i mali, ma non da tutti i mali" (Agostino, Contra Iulianum 6.16.49).

130-132. I viatori giungono sulla spiaggia (in sul lito) solitaria (diserto) le cui acque non furono mai navigate da alcuno (omo) che poi (poscia) sia stato in grado (sia esperto) di tornare indietro. L'allusione all'avventura di Ulisse, chenaufragò dopo aver avvistato il monte del Purgatorio, sottolinea la distanza fra tale folle avventura e il viaggioprovvidenziale dell'umile pellegrino cristiano, il quale èscampato invece al naufragio (Inf. I.22-27); non casuale lapresenza delle parole-rima diserto: esperto qui ed in Inf. XXVI.98, 102. Ovviamente le doti di Catone esaltate a Phars. II.380-83 (cfr. n. 37-39) sono antitetiche alle notecaratteristiche di Ulisse, il quale non osservò la misura, non rispettò il limite, non votò la vita alla patria, non abbandonò mai l'egocentrismo (cfr. Inf. XXVI, n. 139-142). La piaggia, spiega Buti, rappresenta "lo stato che è mezzotra l'escimento del peccato e il sallimento a la penitenzia". Sia esperto è calco del lat. expertus sit, "abbiasperimentato". Nota di nuovo l'impersonale omo.

133-136. Ed ecco il secondo gesto rituale: Virgilio cinge di un giunco Dante, il quale, accingendosi alla penitenza 'pubblica', deve esternare la propria condizione di umiltà. E' piuttosto ricorrente, nella Scrittura, l'immagine del giusto che si cinge i fianchi: "Et erit iustitia cingulum lumborum eius" (Is. 11.5). L'umile pianta, appena colta, immediatamente (subitamente) rinasce (cfr. Job 14.7), identica (cotal) e nel medesimo punto in cui era stata strappata (avelse): l'umiltà dev'essere prerogativa di ogni pellegrino che si avvia alla

purificazione ed alla rigenerazione e scaturisce dalla grazia divina, la quale è inesauribile. Che questa sia la diritta via, imboccata da chi è stato giustificato e redento dal Signore, è confermato da Is. 35.7-10: "... verdeggerà la canna e il giunco, vi sarà un sentiero, una via; la viasarà chiamata santa. Non vi passerà l'immondo (pollutus), quella sarà per voi la diritta via: chi la segue, anche seignorante, non potrà sbagliare. In essa non vi saranno leoni, né bestia malefica vi metterà piede, non vi si troverà; ma vi cammineranno coloro che saranno liberati. Ei redenti dal Signore torneranno, verranno a Sion cantandolaudi, coronati d'eterna letizia". Nell'Eneide, Enea staccaun ramoscello d'oro che subito rinasce (VI.143-144), ma inquel caso non si tratta di un umile giunco; questo è - come notato da Pietro di Dante - la versione cristiana delramoscello: "the classical object is artificial and precious, while the Christian one is natural and of littleworth. Thus does the humility that inspires the Christian sublime help it outdo its classical forebear" (Hollander, comm. ad loc.). Da notare il sintagma "humilesque myricae" di Bucol. IV.2. Sulla relazione dell'episodio con la situazione dei suicidi (Inf. XIII), cfr. R. Hollander, Allegory in Dante's 'Commedia', Princeton Univ. Press, 1969, pp. 129-131. Si noti che la formula com'altrui piacque (riferita a Catone o a Dio stesso) è la medesima usata perdesignare la volontà divina che determina il naufragio di Ulisse (Inf. XXVI.141); in ambedue i luoghi si presentano le parole-rima acque: piacque. "Così, presso le medesime riveche hanno conosciuto il naufragio dell'antico, si sviluppail rito che celebra, in splendore di grazia, la redenzionespirituale dell'uomo nuovo" (E. Sanguineti, Dante reazionario,Roma, Ed. Riuniti, 1992, p. 144). Cfr. n. 130-132. Circa l'esclamazione del v. 134, Tommaseo rinvia a Georg. II.30-31: "... mirabile dictu, truditur e sicco radix oleagina ligno". Alcuni studiosi connettono la rinascita del giuncoal rinnovamento totale del pellegrino al termine della suapermanenza in Purgatorio: Io ritornai da la santissima onda | rifatto sì come piante novelle | rinovellate di novella fronda (Purg. XXXIII.142-144). Ma va ribadito che il "rinovellamento" di Dante

riguarda anima e corpo: è solo lui, del resto, ad esser cinto dell'umile pianta, perché è un giusto che deve compiere la penitenza in carne ed ossa. L'invito dell'Apostolo ("state succinti lumbos vestros": Ephes. 6.14) mira a tenere a bada la concupiscenza carnale: "In bello autem spirituali prius est necesse concupiscentias carnis restinguere, sicut vicinus hostis est prius vincendus: hoc autem fit per restrictionem lumborum, in quibus viget luxuria, quod fit per temperantiam, quae gulae et luxuriae contrariatur. Lc. 12.35: Sint lumbi vestri praecincti. Job 38.3: Accinge sicut vir lumbos" (S. Tommaso, Ad Ephes. VI.iv, n. 363).{Esodo: cfr. Valenziano, p. 209}

E' dunque Virgilio a condurre il rito cui deve assoggettarsi il pellegrino: in primo luogo il saggio pagano deterge il volto di Dante sancendo, per così dire, la cancellazione della culpa, cioè la sua sanatio. Perché Virgilio può fare questo? Evidentemente perché la sua ragione non è subordinata alle facoltà sensibili: nella concezione eterodossa dell'Alighieri, Virgilio non ha peccato per conversio alle creature, ma per aversio da Dio, per cui la sua rettitudine 'naturale' è fuori discussione.Virgilio - utilizziamo parole di K. Foster già citate (cfr. Inf. IV, n. 34-42) - "raffigura proprio quella naturaumana che va trascesa, rappresentandola precisamente nellasua specifica umanità; non cioè in quanto macchiata dal peccato, e quindi bisognosa della gratia sanans, ma semplicemente come quella natura finita che è e che abbisogna della grazia elevante. E da questo punto di vista Virgilio, e con lui gli altri adulti del Limbo - tutta l'immagine del Limbo, in breve -, rappresentano la natura umana come cosa, nel suo genere ed al suo livello, buona, però incompleta" (The Two Dantes, University of California Press, 1977, p. 248). Mentre Virgilio gode della rettitudine 'naturale' pur essendo in condizione di aversio a Deo, Dante, dal canto suo, è stato giustificato, ilche implica l'infusione delle virtù, e quindi anche il venire meno dello stato di aversio di cui sopra (la grazia

sanans è insieme elevans). Tuttavia il pellegrino non è ancora perfettamente immune dalla conversio ad bonum commutabile, per cui è soggetto alla pena temporale (alla satisfactio operis, sia pure intesa largo modo: cfr. Purg. IX, n. 133-138): attualmente egli è in grado di controllare le facoltà 'inferiori', ma, come dimostra la presenza del cingolo, egli deve tenerle a freno, non senza combattimento. Con le parole dell'Aquinate, "nihil prohibet quin, remissa culpa, remaneant dispositiones ex praecedentibus actibus causatae, quae dicuntur peccati reliquiae. Remanent tamen debilitatae et diminutae, ita quod homini non dominentur. Et hoc magis per modum dispositionum quam per modum habituum: sicut etiam remanetfomes post baptismum" (ST III, q. 86, a. 5). E veniamo allaseconda parte del rito: perché Virgilio è moralmente abilitato a cingere Dante del giunco? Non è l'umiltà dote caratteristica cristiana, quindi estranea al duca? In effetti, l'umiltà dipende dal timore filiale, ma questo non è ancora pieno appannaggio del pellegrino: il timore di Dio è, nel grado ottimale, dono dello Spirito Santo, e di ricevere questo dono Dante diverrà degno più tardi, al momento di abbandonare la cornice dei superbi. L'umiltà è allora, in questo momento, connessa al risanamento del pellegrino, designando quindi la sua aversio dalle creature,cioè la ricostituzione (pur se non ottimale) del retto rapporto gerarchico fra ragione e sensi (antitetico alla confusione sensoriale ed intellettiva denunciata all'inizio del viaggio: cfr. Inf. III, n. 31-32). Viene alla mente la parabola delle dieci vergini, delle quali cinque sagge e cinque stolte (Mt. 25.1-13). Un'anima è detta "vergine" se si astiene dai moti illeciti dei (cinque) sensi, spiega S. Agostino (Serm. 93.2.3), il qualecita poi Lc. 12.35: "Siate sempre pronti con la cintura ai fianchi e le lampade accese". Che significa "la cintura aifianchi"? La verginità, per l'appunto, nel senso dell'autonomia del criterio di scelta dell'azione dalle pulsioni 'sensibili', autonomia che ovviamente contrassegnò in vita gli attuali abitatori del Limbo. Quindi il precetto di avere i fianchi cinti equivale a

Fuggi il male (Ps. 33.15), cioè alla regola basilare (inscritta da Dio nella mente di ogni uomo) di astenersi dal male (Serm. 108.2). E le "lampade accese"? Il particolare pare importante, se si pensa alla descrizione di Virgilio come propheta nescius (cfr. n. 19-21). Ne parleremo in sede di commento a Purg. VII, ove fra l'altro Virgilio dirà di aver perso il Paradiso non per far [il male], ma per non far [il bene] (v. 25). Per il momento, leggiamo ancora S. Agostino: "O fedele, non corrompere la speranza, non perdere la carità, cingiti i fianchi, ascendi e tieni davanti a te le lampade, aspetta il Signore quando tornerà dalle nozze (Lc. 12.35-36)" (Serm. 105.7.9). Sul significato dell'accenno alle nozze si veda Purg. V, n. 58-63.