10

Problematiche di gestione del dolore in ostetricia

Embed Size (px)

Citation preview

VII Convegno nazionale sul Dolore, Firenze 16-17 ot tobre 2014 Dolore e sofferenza tra medicina, cultura ed etica delle cure

Problematiche di gestione del dolore in ostetricia

Roberto G Wetzl Anestesista Rianimatore, IBCLC Responsabile SS BO Ostetrico-Ginecol. Osp. Regionale Valle d’Aosta Responsabile del Comitato aziendale BFHI UNICEF [email protected]

Ringrazio gli organizzatori e, in particolare, il dr Domenico Gioffrè e la dr.ssa Adriana Paolicchi, per il gradito e inatteso invito a questo VII Convegno Nazionale sul Dolore. Dato che non sono un “luminare della medicina” e dato che il tema che mi è stato affidato è piuttosto “scottante”, ho l’obbligo di una breve presentazione. Da quasi 11 anni ho avuto la fortuna di essere responsabile di un gruppo di anestesisti che si occupa di analgesia in travaglio in un’azienda che la pratica istituzionalmente, in forma gratuita da 25 anni e da ben 22 anni dispone di una guardia anestesiologica attiva h 24 a ciò dedicata. Da 5 anni ho avuto anche la fortuna di essere coinvolto, attualmente con il ruolo di responsabile, in un progetto di accreditamento come Ospedale amico del Bambino, accreditamento che abbiamo ottenuto dall’UNICEF Italia per 2 volte (2010 e 2103). Da questa duplice responsabilità nasce la “particolare coloritura” che caratterizza la mia posizione in merito all’analgesia farmacologica in travaglio di parto. Trattiamo il dolore del travaglio e del parto perché questo ha precise basi nel meccanismo che caratterizza la nascita nella specie umana. L’assunzione della postura eretta, prima, e il successivo sviluppo di una massa cerebrale di dimensioni più che triple rispetto a quello dei primati a noi più vicini ha creato le condizioni per una potenziale sproporzione feto-pelvica al momento del passaggio del feto nel canale del parto 1. Per ovviare alla difficoltà che tale passaggio comporta, la specie umana è caratterizzata da un meccanismo di parto unico, che consiste nella rotazione all’interno del canale del parto della parte presentata fetale (che perciò, caso unico all’interno del regno animale, alla nascita si presenta in posizione occipito-anteriore) e, successivamente, in un’analoga rotazione del cingolo scapolare. Dalla potenziale sproporzione feto-pelvica e dalle conseguenti rotazioni necessarie per superarla deriva nella specie umana,

• da un lato, la sempre incombente minaccia di distocie; • dall’altro lato, la particolare dolorosità del parto (soprattutto quella della fase

espulsiva).

Pertanto quando il ginecologo francese Michel Odent sostiene, con immagine suggestiva, che per partorire la donna dovrebbe “decorticarsi” 2, ossia agire in base agli impulsi del suo “cervello primitivo”, neutralizzando gli impulsi della sua parte razionale, racconta una “bella favola”, che non ha alcuna base nella fisiologia del parto: perché sicuramente, se anche la donna fosse in grado di “prescindere dalla sua parte razionale” (“decorticazione funzionale”), non potrebbe certo impedire alla parte presentata fetale (se non con una “decorticazione anatomica”) di occupare fisicamente con massa cerebrale il canale del parto e, perciò, di creare le condizioni della potenziale sproporzione feto-pelvica. La presentazione occipito-anteriore della parte presentata fetale impone anche nel parto della specie umana la presenza obbligata di una persona che assista la donna nella delicata manovra di fuoriuscita della parte presentata fetale (perciò è quello dell’ostetrica il lavoro più vecchio del mondo!); il rischio di distocia, rende necessaria la figura del ginecologo; l’intensità del dolore, quella dell’anestesista. A differenza di quanto accade

nelle altre specie regno animale, il parto nella specie umana è perciò un “evento sociale (pressoché) obbligato”. In termini algologici, il dolore del parto è un classico modello di “dolore acuto”, di intensità appena inferiore a quello della causalgia o dell’amputazione di dito. Studiato da Ronald Melzack con il questionario da lui introdotto alla McGill University di Montreal nel 1971, si vede:

• che il dolore del parto in una primipara ha intensità pari a 38 punti, • che (soprattutto in fase dilatante) ha caratteristiche simili a quelle che seguono

l’occlusione di un organo cavo, • che nella primipara la psicoprofilassi è in grado di ridurlo del 13%, • che nella pluripara il dolore del parto ha un’intensità del 26% inferiore • e che la peridurale è in grado di ridurre il dolore di una primipara del 79%.

Oggi sappiamo che il dolore del parto non cronicizza 3, ma recentemente è stato dimostrato che, se non trattato nelle situazioni in cui sarebbe necessario farlo, può generare un trauma psicologico che può innescare una depressione postpartum precoce 4. Sul piano tecnico, l’analgesia in travaglio ha avuto una prima fase inalatoria (Simpson, 1847 5), seguita da una fase endovenosa (Gauss, 1903, Twilight sleep, “Sonno crepuscolare”, ottenuto con una miscela di morfina e scopolamina) e, a partire dal secondo dopoguerra, una fase locoregionale centrale (Bonica, 1955). In termini di evidenze, le metanalisi Cochrane 6 confermano che, nonostante recenti tentativi di rivalutazione di tecniche inalatorie (protossido di azoto) o parenterali (remifentanil), queste tecniche rappresentano il passato dell’analgesia e oggi quella più efficace e sicura è senza dubbio la tecnica del blocco perimidollare.

In Italia l’analgesia ostetrica tradizionalmente è in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali. E’ un gap che da qualche anno a vari livelli si cerca di colmare. Dal 2006 a oggi, ben quattro ministri della salute (Livia Turco, Ferruccio Fazio, Renato Balduzzi e Beatrice Lorenzin) si sono affannati a informarci che “la partoanalgesia farà parte dei LEA”. Per i motivi che presto vedremo, probabilmente la serie dei ministri che promettono un tale risultato è destinata ad allungarsi. Quello che finora ha lavorato più in profondità sull’argomento è stato il ministro Fazio: nell’Accordo Stato-Regioni del dicembre 2010 («Linee di indirizzo per la promozione e il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e per la riduzione del taglio cesareo»), Fazio è arrivato a definire le caratteristiche di un processo di messa in sicurezza e di implementazione di standard qualitativi in ambito ostetrico. In tale sede veniva prospettata l’introduzione obbligatoria in ogni centro nascita di figure quali quella del pediatra-neonatologo e dell’anestesista. In apparenza, sembrerebbe essere stata una spinta all’ulteriore medicalizzazione del parto. In realtà, il progetto di Fazio potrebbe essere riassunto nello slogan: “medicalizzare meglio, per medicalizzare meno”. L’idea era di creare condizioni per ridurre i cesarei al 10-20%, con il 20-30% di analgesie farmacologiche, per lasciare alla fisiologia il 50-70% dei parti, in condizioni di massima sicurezza e qualità garantita. Le risorse avrebbero dovuto venire da una razionalizzazione dei centri nascita (in Italia troppo numerosi e troppo sottodimensionati rispetto alle esigenze di un’ostetricia moderna, soprattutto in tempo di ristrettezze economiche). I punti nascita con meno di 500 parti avrebbero dovuto venire accorpati e i livelli di assistenza neonatologica venire ridotti dai 3 attuali a 2. A sostegno di questo ambizioso progetto, venivano anche prodotte LG nazionali in merito alla mortalità materna e alla corretta indicazione del parto cesareo. Per le strutture di II livello, l’Accordo Stato-Regioni prevedeva la necessità di garantire:

• la promozione di procedure assistenziali, farmacologiche e non, per il controllo del dolore in corso di travaglio-parto (Allegato 7);

• la definizione di protocolli diagnostico terapeutici condivisi per la partoanalgesia, dando assicurazione della erogabilità di tale prestazione con disponibilità/ presenza di anestesista sulla base dei volumi di attività del punto nascita (Allegato 7);

• la presenza di ambulatorio anestesiologico ai fini della visita e adeguata informazione alla paziente per partoanalgesia/ parto cesareo programmato (Allegato 1b: Requisito strutturale-qualità e sicurezza);

• l’obbligo di realizzare l’analgesia farmacologica in travaglio, compresa nei LEA, secondo principi EBM di appropriatezza, sicurezza, efficacia, efficienza, economicità e di includerla in un percorso definito di accompagnamento alla gravidanza e al parto (Allegato 7);

• l’obbligo di farla precedere da un’informazione adeguata sulle indicazioni, le controindicazioni e i possibili rischi per la madre e il bambino e sulle possibili modifiche temporali del travaglio e del parto. L’informazione deve comprendere l’illustrazione della metodica anestesiologica e delle altre tecniche di supporto per il controllo del dolore, anche di quelle non farmacologiche (Allegato 7).

La novità è stata che tale Accordo Stato-Regioni, tuttora in vigore, è stato sottoposto a un periodico monitoraggio, anche se, in assenza di un dispositivo sanzionatorio, in pratica poco è cambiato. Il problema reale per cui la partoanalgesia è tuttora poco diffusa è, come al solito, quello delle risorse realmente investite: perché, come dimostra la successiva proposta di aggiornamento dei LEA del ministro Balduzzi, “l’impatto economico dell’introduzione nei LEA dell’analgesia in travaglio deve essere pari a zero”. Per risorse da dedicare all’analgesia non intendo incentivi da erogare agli operatori (o alle strutture ospedaliere) perché la facciano “isorisorse” (come sta facendo la Lombardia): se ci fosse tale possibilità, l’analgesia andrebbe semplicemente imposta tra i doveri d’ufficio! Il problema è che l’analgesia non va fatta “tanto per dire che si fa”, ma richiede attenzioni particolari e un impianto fondamentalmente assistenziale (non dimentichiamo che l’ostetricia è l’ “arte dell’attesa”!), che possono derivare solo da personale che ha reale tempo da dedicarvi.

Il ritardo dell’introduzione dell’analgesia pone oggi l’Italia in una situazione contraddittoria. Infatti a livello mondiale, sia pure su livelli di diffusione incomparabilmente diversi dai nostri, per l’analgesia non è in atto una fase di espansione, quanto piuttosto un processo di ripensamento critico. Lo storico dell’analgesia ostetrica Donald Caton ricorda che oltre 150 anni di storia dell’anestesia ostetrica possono essere riassunti in due grandi movimenti pendolari: la fase in cui “i medici la ritenevano imprudente e le donne la chiedevano a gran voce”; e “la fase successiva (quella attuale), in cui i medici la ritengono sicura e le donne ne chiedono la limitazione”. “During the nineteenth century, it was women who pressured cautious physicians to incorporate routine use of anesthesia into their obstetric practice. A century later, it was women again who altered patterns of practice, this time questioning the overuse of anesthesia for ruotine deliveries. (In fact…) with the advent of the natural childbirth movement, many people began to suggest that the experience of pain during childbirth, perhaps even in other situations, might have some physiologic if not social value...” 7. Questa valutazione sconsolata ma realistica dello stato attuale dell’anestesia ostetrica nel mondo va collocata all’interno del più generale ripensamento del ruolo delle procedure che a vario titolo medicalizzano il parto. Movimenti che avversano ideologicamente l’idea di interventi medici nel parto (e tra questi, l’analgesia farmacologica in travaglio) sono sempre esistiti (movimenti per il parto naturale). La novità è che a tali movimenti ora danno voce non tanto singole personalità, sia pure influenti, come era avvenuto in passato (dal ginecologo inglese Grantly Dick-Read negli anni Trenta dello scorso secolo 8, a quello francese Fernand Lamaze, nel secondo dopoguerra 9, per finire ai giorni nostri con il ginecologo anch’esso francese Michel Odent, tutti accomunati dall’idea che il dolore in

travaglio non esista e che sia la donna stessa a procurarsi il suo dolore nel parto), quanto piuttosto l’autorità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’UNICEF 10, con l’avvallo, altrettanto autorevole dell’American Academy of Pediatrics 11. Il punto di partenza di questa reazione fu la considerazione che, con la totale medicalizzazione della nascita realizzata verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, la sicurezza della nascita era indubbiamente aumentata (anche se non nella misura auspicata: è vero che la mortalità materna è scesa da 1:167 all’epoca di Semmelweiss a 1:8.780 nell’ultimo rapporto inglese del RCOG del 2012, con una riduzione pari a 52 volte, ma tale valore nei paesi “avanzati” è tutt’altro che “rassicurante”), ma era sempre più evidente che a pagare il prezzo più alto di questo processo era stato soprattutto il soggetto più debole, il neonato, e il prezzo appariva comunque a molti troppo elevato. Infatti, in termini di “bonding materno-neonatale”, in tutto il mondo sviluppato negli anni Settanta si registrava anche il nadir del tasso di allattamento al seno e il trionfo della “cultura del biberon” e delle “quattro sorelle” del latte artificiale (Nestlé e Danone in Europa; Abboth e Mead Johnson negli USA). In un paese come la Svezia, che ha i migliori indicatori di outcome materno-neonatale al mondo (con un tasso di cesarei del 17%, un tasso di mortalità neonatale di 1,5‰, il più basso del mondo, e un tasso di fertilità di 1,91 figli/ donna, il secondo in Europa, dopo la Francia), nel 1973 allattava esclusivamente al seno il proprio bambino solo il 6% delle mamme 12. Dato che cominciava a rendersi nuovamente evidente il vantaggio per neonato della nutrizione con il latte della propria mamma (in termini nutrizionali, di difese immunitarie, di protezione antiallergica, di rischio di patologie da società sviluppate come obesità, ipertensione e diabete, di rapporto psicologico 13) e una crescente letteratura sosteneva addirittura (e a proposito) l’evidente vantaggio in termini di sviluppo cerebrale e di acuità visiva di tale alimentazione 14, nei primi anni Novanta, all’interno della comunità scientifica, si sviluppò un acceso dibattito sull’assoluta opportunità di contrastare il trend alla crescente medicalizzazione della nascita. Nel 2012 l’AAP arriverà ad adottare senza tentennamenti la strategia di alimentazione del neonato proposta dall’UNICEF e dal WHO, evidenziando un vantaggio dose-dipendente dell’allattamento materno nel caso di ben 13 importanti patologie pediatriche importanti. Nei paesi avanzati, ne deriverebbe un vantaggio in termini di mortalità infantile del 4% e a livello mondiale del 13%. Il tutto in un quadro di sostenibilità economica (se il 90% dei bambini fosse allattato esclusivamente al seno per 6 mesi, l’AAP calcola per la società un risparmio di 3.500 $ a bambino). Le tappe della reazione alla medicalizzazione del parto (e, in questo contesto, alla diffusione incontrollata dell’analgesia farmacologica) vedono nel 1981 la promulgazione da parte dell’Assemblea Mondiale della Sanità del Codice sulla Commercializzazione dei sostituti del latte materno. Nel 1991 WHO e UNICEF lanciano la Baby Friendly Hospital Initiative (BFHI) con la proposta di “Dieci passi per il successo dell’avvio dell’allattamento al seno”, a integrazione dei quali nel 2009 vengono proposte le “Cure amiche della madre” che indicano nella de-medicalizzazione della nascita un ’iniziativa per favorire il bonding materno e neonatale precoce . Si tratta di un’iniziativa di “promozione di salute”, che punta a incrementare le competenze dei soggetti interessati, con l’obbiettivo di promuoverne l’autonomia nelle scelte riguardanti la propria salute. Gli ospedali amici del bambino nel mondo ormai sono più del 35% dei Centri nascita. In sostanza l’UNICEF chiede agli operatori di un Dipartimento Materno-Infantile di “fare un passo indietro”, ovviamente nei limiti in cui ciò non comprometta i criteri di sicurezza della nascita ormai acquisiti. In merito alle pratiche medicalizzanti prese in considerazione, l’UNICEF chiede solo

• che esse non siano routinarie; • che la donna e il partner siano informati correttamente dei rischi e benefici di

ciascuna;

• che le decisioni della donna in merito vengano accettate anche al di là dell’opinione dell’operatore;

• che venga predisposta un’apposita strategia di sostegno della diade madre-neonato per far fronte ad eventuali problemi peripartum.

L’UNICEF non pone “tassi da raggiungere”, ma chiede solo di dimostrare l’appropriatezza delle indicazioni alle procedure indicate. Tra le procedure di cui si auspica “un controllo” c ’è anche l’analgesia farmacologica in travaglio . Qual è la base di evidenze a sostegno di questa posizione? Tra gli anestesisti (almeno tra quelli di cultura anglosassone) il problema è ormai all’ordine del giorno, perché in tali paesi la pressione dei pediatri a favore dell’allattamento al seno oggi è (giustamente) fortissima. E se gli studi effettuati danno risultati contraddittori (mentre negli USA Beilin dimostra con uno studio prospettico randomizzato che pluripare trattate con dosi intrapartum di fentanil>150mcg a 6 settimane hanno meno probabilità di allattare 15, in Inghilterra Wilson non trova nessuna differenza di tasso di allattamento a 6 e 12 mesi in primipare trattate con dosi diverse dello stesso oppioide 16), la dimostrazione dell’attenzione che i nostri colleghi stranieri danno al problema è testimoniata dal fatto che, per verificare i risultati inquietanti dello studio di Beilin, negli Stati Uniti, a Chicago Cinzia Wong ha deciso di rifare lo studio secondo lo stesso protocollo, ma con un campione più numeroso. In Canada, Halpern dimostra che a 6-8 settimane dalla nascita non ci sono differenze di tasso di allattamento tra donne che realizzano l’analgesia e donne che partoriscono senza 17. Interessante la conclusione del lavoro di Halpern: «In a hospital that strongly promotes breastfeeding, epidural labor analgesia with local anesthetics and opioids does not impede breastfeeding success. We recommend that hospitals that find decreased lactation success in parturients receiving epidural analgesia reexamine their postdelivery care policies». Nel suo ospedale, precisa l’articolo, “approximately 50 staff from various disciplines are international board-certified lactation consultants (IBCLC)”. Si tratta di una certificazione internazionale durissima da conseguire, che comporta costi molto elevati e di validità limitata a soli 5 anni. Tutto ciò da un’idea concreta di cosa significhi implementare con serietà un servizio di analgesia ostetrica che non si limiti a “praticare una tecnica di analgesia”, ma si preoccupi anche degli esiti globali degli interventi medici adottati. Secondo la magistrale revisione dell’Accademy of Breastfeeding Medicine 18, al momento le evidenze di cui disponiamo in tema di rapporto tra analgesia farmacologica in travaglio e allattamento si possono considerare nell’insieme rassicuranti: si può cioè affermare che, se la donna è intenzionata ad allattare, l’analgesia è farmacologicamente ininfluente; se ci sono incertezze motivazionali, invece, il problema può porsi in termini più complessi. All’atto pratico, tuttavia, chi, come responsabile di un Comitato per l’Ospedale Amico del Bambino, segua quotidianamente l’avvio dell’allattamento in strutture ospedaliere, ha di fronte una realtà più contraddittoria. Per esempio, ad Aosta, dove il 32% delle donne partorisce con cesareo e il 18% con analgesia farmacologica (ossia il 50% dei parti sia “pesantemente” medicalizzato), in termini di “successo di allattamento esclusivo alla dimissione dall’ospedale senza integrazioni in itinere” (l’indicatore UNICEF), la percentuale di successo risulta direttamente proporzionale al grado di medicalizzazione del parto (Fig. 1 ). All’interno della suddivisione evidenziata in figura, si tenga presente anche che, tra i parti “fisiologici”, quelli senza alcun intervento (i veri “parti naturali”) hanno il 90,0% di probabilità di successo nell’avvio dell’allattamento al seno alla dimissione dall’ospedale e che basta l’uso intrapartum di ossitocina e/ o episiotomia e/ o parto operativo per far scendere la proporzione di successo all’84,5%. Già sui nostri numeri (5.373 parti), l’analisi bivariata registra una significatività, che verificheremo con una multivariata, una volta raggiunta la numerosità prevista (8.400

parti). E’ un dato che va nella stessa direzione di quello che altri gli operatori impegnati su questo fronte segnalano.

Fig. 1. Proporzione successo/ insuccesso BHFI all’Osp. Regionale Valle d’Aosta 2010-14

Non vogliamo con ciò dire che sia l’analgesia a provocare il disturbo di bonding che questi dati evidenziano: con tutta probabilità l’analgesia è solo il marker di una difficoltà (psicologica o materiale) della nascita . Comunque la risposta a eventuali problemi, non è non fare l’analgesia, ma sostenere adeguatamente la diade nel peripartum. Per operatori che agiscano all’interno di un Dipartimento materno-infantile, diventa comunque difficile prescindere da queste strategie di promozione di salute.

In questo quadro articolato, per noi anestesisti italiani in questa fase la situazione è alquanto problematica.

• Da un lato, e giustamente, premiamo per l’introduzione del diritto della donna a vedere soddisfatta la sua eventuale richiesta di analgesia (e ciò non può avvenire “a costo zero”, pena una finzione);

• dall’altro, se lavoriamo all’interno di Dipartimenti materno-Infantili che operano per la promozione della salute secondo le direttive WHO/UNICEF/AAP, non possiamo che porre un freno alla diffusione incontrollata di tale pratica.

Sul piano pratico, quella che serve è una “visione non manichea” della realtà, una visione che tenga conto della contraddittorietà della pratica di somministrare analgesici a una donna che travaglia. Professionalmente, questa visione contraddittoria dell’analgesia farmacologica in travaglio non è stata il mio punto di partenza, ma un punto di arrivo molto sofferto. Mi sono occupato di analgesia ostetrica negli ultimi 15 anni. Nei primi 5, in un grande ospedale di Milano (dove tuttora vivo, con la mia famiglia), mi sono battuto per introdurre un servizio di analgesia ostetrica che garantisse alla donna che ne avesse bisogno (per sua difficoltà o per caratteristiche del parto) di avere prontamente disponibile h 24 l’analgesia farmacologica in travaglio. In questo percorso ho scoperto la “grande bellezza dell’atto medico di controllare il dolore” di una donna che partorisce. Ma nei successivi 10 anni, ho cambiato scenario, spostandomi ad Aosta ed è in questo ospedale, in cui l’analgesia era una realtà consolidata presente fin dal 1989, che ho scoperto invece la problematicità dell’analgesia farmacologica in travaglio perché, paradossalmente, ho scoperto …“la grande potenza del parto naturale” (che ad Aosta pratica 1 donna su 3, soprattutto pluripara, mentre 1 su 5, soprattutto primipara, ricorre all’analgesia farmacologica in travaglio). In pratica: sappiamo che il dolore del parto ha sicuramente una base fisica ed È ANCHE dolore reale. Perciò chi sostiene che il dolore della donna non esiste (Odent), sostiene una cosa priva di senso. Ma chi lavora in ostetricia a contatto con la donna che partorisce sa che il dolore del parto NON È SOLO dolore fisico. A chi (come faceva il mio amico Marco

Uskok, che recentemente ci ha lasciati) schematicamente obbiettasse: “Oggi, vi fareste togliere un dente senza anestesia?”, potreste tranquillamente rispondere, sempre con una battuta: “No, ma una volta tolto il dente, non ve lo attaccherete certo al seno!” Perciò, da un lato ed entro certi limiti, anche noi anestesisti che operiamo in ostetricia dobbiamo accettare il punto di vista ostetrico che il dolore in travaglio è un dolore “fisiologico”, con le caratteristiche dell’intermittenza, con le pause tra una contrazione e l’altra che consentono alla donna di recuperare forze e grinta, dandole la capacità di gestirlo. In questa dimensione, il dolore della donna è “algos” e, con un supporto ostetrico adeguato, meglio se in rapporto 1:1, può essere gestito dalla donna. E’ altrettanto vero che, in condizioni diverse, vediamo trasformarsi il dolore della donna che travaglia in pura sofferenza, “pathos”, senza le caratteristiche dell’intermittenza e del recupero e con caratteristiche di dolore continuo, sordo, che non lascia tregua: in queste circostanze il dolore viene subìto anziché gestito dalla donna e anche le ostetriche devono accettare che oggi esso venga trattato farmacologicamente con i mezzi potenti e sicuri a nostra disposizione. Su questa base, anche su un terreno così controverso, è possibile creare in sala parto le condizioni per un’”alleanza assistenziale-terapeutica” tra professionalità diverse che tuteli gli interessi reali dei soggetti trattati (madre, padre e bambino!). Ad Aosta ciò è stato formalizzato in un preciso protocollo aziendale. Per uscire dalla contraddizione indicata, noi anestesisti dobbiamo perciò accettare l’idea che non è possibile migliorare in alcun modo il parto naturale (se non sul piano della sicurezza): l’analgesia non è un “progresso ormai imprescindibile” (nel qual caso andrebbe garantita a tutte le donne che travagliano). L’analgesia è un ausilio utile e sicuro per travagli disfunzionali (per distocia fisica o “psicologica, il che non cambia) e come tale va garantita a tutte le donne che ne necessitino o la richiedano, in tutte le strutture adeguatamente dimensionate in cui in un paese civile quale l’Italia ambisce essere dovrebbe svolgersi oggi il parto, ma non andrebbe comunque propagandata. Nell’ambito della visita anestesiologica preparto, all’équipe che la pratica, andrebbe richiesta “neutralità ideologica”, ossia rispetto per le scelte della donna (anche quando contrarie alle opinioni personali dell’operatore), senza venir meno al compito del professionista sanitario di aiutare la donna a realizzare le scelte stesse (capacità di orientamento). L’analgesia non andrebbe presentata come una panacea, ma, in base anche al preciso profilo psicologico della donna (che ha attinenza con la sua sessualità), a ciascuna donna andrebbe proposto il percorso di parto realmente alla sua portata: non tutte le donne possono realizzare con gli stessi effetti lo stesso tipo di parto. Un indicatore di qualità di un dipartimento materno-infantile dovrebbe anche essere la proporzione di donne che realmente realizza il percorso di parto per cui si era preparata. Nell’Ospedale Amico del Bambino, l’UNICEF non ci chiede di non fare l’analgesia farmacologica, ma di non proporla come routine, di proporre come alternative, se disponibili, tecniche di controllo del dolore non farmacologiche validate da evidenze scientifiche (sono solo 4: acqua, agopuntura, massaggi e ipnosi), di informare la donna e il partner di tutte le implicazioni della scelta, di realizzare comunque l’analgesia su richiesta della donna e di prepararsi adeguatamente a sostenerla nel postpartum. In sostanza l’UNICEF ci chiede solo di aiutare la donna a compiere una scelta realmente consapevole.

Con questi principi bene a mente, ad Aosta • realizziamo in analgesia il 18% dei parti totali; • l’analgesia in realtà coinvolge il 25% delle donne che provano a travagliare (una su

quattro); • una su tre in caso di primipare • e una su sei in caso di pluripare;

• il 30% delle donne che richiede l’analgesia aveva già fatto una scelta a priori in tal senso, il 55% decide in travaglio (cambiando idea rispetto alla prospettiva di parto ipotizzata) e il 15% presenta un’indicazione ginecologica all’analgesia (induzione o altro problema);

• l’85,3% esprime gradimento elevato/ molto elevato per l’analgesia ricevuta (le 2 posizioni migliori in una scala Likert di 6 da noi utilizzata per il gradimento)

• e, nonostante ciò, solo il 23% delle donne richiede realmente l’analgesia in corso di successivo travaglio.

Per noi questo indice è tutt’altro che un risultato negativo! Infatti, dal nostro punto di vista, ciò significa che l’analgesia proposta in tal modo “non crea dipendenza”, “toglie la paura, lascia la curiosità!” Sappiamo che con il nostro intervento contribuiamo a medicalizzare il parto, ma ciò nonostante non perdiamo di vista che il nostro obbiettivo è il bonding materno-neonatale e pertanto, anche nei parti medicalizzati, perseguiamo come standard da raggiungere, il livello di bonding che vediamo realizzarsi spontaneamente nel parto naturale. E’ chiaro che il nostro obbiettivo non è l’analgesia in sé, ma la qualità della nascita, che, al di là del clampaggio del cordone, si realizza solo quando il bambino dimostra integrità neurologica e la sua vitalità arrivando a realizzare la sua prima poppata (concetto che il pediatra Alessandro Volta ha efficacemente definito nei termini di “Apgar 12” 19). Se misuriamo i nostri indicatori non in modo autoreferenziale, ma confrontandoci con il percorso di nascita più impegnativo, quello del parto naturale, da “anestesisti ostetrici” ci trasformiamo in “anestesisti della nascita”. Per concludere: il dolore nel parto è un “dolore acuto” di tipo particolare. Si fa molta fatica a farlo rientrare nel Format di questo stesso Convegno. I motivi di questa difficoltà sono diversi.

• Perché la donna che partorisce (sia pure in un ospedale) non è “malata”. • Perché, in quanto mamma, è portatrice di doveri più che di “diritti”. • Perché il dolore in travaglio di parto non è un dolore “inutile”. • Perché il dolore in travaglio di parto non sempre è “sofferenza” e non sempre va

trattato. • Perché il dolore nel parto “esaurisce il suo messaggio diagnostico” solo con la

nascita del bambino. Di fronte a questo tipo particolare di dolore:

• è giusto che ogni donna che partorisce oggi in Italia abbia finalmente a disposizione la possibilità di vedere realizzata la sua eventuale richiesta di analgesia farmacologica in travaglio nella sua forma più efficace (leggi: perimidollare);

• tuttavia, l’analgesia non può rappresentare un fine in sé, ma deve inserirsi nei più generali obbiettivi di promozione della salute materna e neonatale in atto nel mondo;

• con caratteristiche adatte a tenere conto non solo del diritto materno a non soffrire, ma anche di quello neonatale di realizzare il bonding nelle modalità adeguate, l’analgesia non può realizzarsi «isorisorse»;

• è giusto che le risorse per realizzarla con caratteri di sicurezza e qualità vengano reperite da una reale razionalizzazione dei Centri nascita.

BIBLIOGRAFIA 1 Rosenberg KR, Trevathan WR. Birth, obstetrics and human evolution. BJOG 2002; 109:1199-1206 2 Odent M. L'Agricoltore e il Ginecologo: l'industrializzazione della nascita. Il Leone Verde, 2006 3 Eisenach JC, Pan P, Smiley RM, Lavand’homme P, Landau R, Houle TT. Resolution of Pain after Childbirth. Anesthesiology 2013; 118:143–51. 4 Hiltunen P et at. Does pain relief during delivery decrease the risk of postnatal depression? Acta Obstst Gynecol Scand 2004;83-257-61 5 Simpson WG, editor. The Works of Sir JY Simpson. Vol II: Anaesthesia. Edimburg, Adam and Charles Black, 1871:199-200. 6 Amin-Somuah, Smyth RMD, Jones L. Epidural versus non-epidural or no analgesia in labour. Cochrane Database of Systematic Reviews 2011, Issue 12. Art. No.: CD000331. DOI: 10.1002/14651858.CD000331.pub3 7 Caton D. The history of obstetric anesthesia. In: Chestnut DH, Polley LS, Tsen LC, Wong CA, eds: Chestnut’s Obstetric Anesthesia. Principles and Practice. 4th Ed.. Mosby Elsevier, Philadelphia 2009: 3-14. 8 Dick-Read G. Childbirth without fear. 1942, Heinemann Medical Book 9 Lamaze F. Qu'est-ce que l'accouchement sans douleur, par la méthode psycho-prophylactique ? 1956, Savoir et connaître, Paris. 10 OMS/UNICEF. Dichiarazione congiunta. L’allattamento al seno: protezione, incoraggiamento e sostegno. L’importanza del ruolo dei servizi per la maternità. OMS, Ginevra, 1989 11 American Academy of Pedaitrics. Breastfeeding and the Use of Human Milk. Pediatrics; originally published online February 27, 2012; DOI: 10.1542/peds.2011-3552 12 Odlind V, Haglund B, Pakkanen M, Otterblad Olausson P. Deliveries, mothers and newborn infants in Sweden, 1973–2000. Trends in obstetrics as reported to the Swedish Medical Birth Register. Acta Obstet Gynecol Scand 2003; 82:516-528. 13 Horta B, Bahl R, Martines J, Victora C. Evidence on the Longterm Effects of Breastfeeding: Systematic Reviews and Meta-Analysis. World Health Organisation 2007. http://whqlib (accessed August 2009). 14 Lucas A, Morley RA, Cole YJ, Lister G, Leeson-Payne C. Breatmilk and subsequent intelligence quotient in chiedren born preterm. Lancet 1992;339:261-4. 15 Beilin Y et al. Effect of labor epidural analgesia with and without fentanyl on infant breastfeeding. Anesthesiology 2005;103:1200-7. 2005 16 Wilson MJA et al. Epidural analgesia and breastfeeding: a randomized controlled trial of epidural techniques with and without fentanyl and a non-epidural comparison group. Anaesthesia 20101;65:145-153 17 Halpern S et al. Effect of labor analgesia on breastfeeding success. Birth 1999;26:83-87. 18 Montgomery A, Hale T. ABM clinical protocol #15. Analgesia and anesthesia for the breastfeeding mother. Revised 2012. Breastfeeding Medicine 2012;7:547-553. 19 Volta A. Apgar 12. Per un'esperienza positiva del nascere. Bonomi Editore 2006.