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Politiche della sicurezza e autonomie locali (ed. T.F. Giupponi), Bononia University Press, Bologna, 2010

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Politiche della sicurezza e autonomie locali

a cura di Tommaso F. Giupponi

AnnAli di diritto costituzionAlediretti da Augusto Barbera e Andrea Morrone

V o l u m i p u b b l i c a t i

Anno I / n. 1La prassi degli organi costituzionali a cura di Augusto Barbera e Tommaso F. Giupponi

Anno II / vol. 1, n. 2Quale ordinamento per gli enti locali? Organizzazione, servizi pubblici e “federalismo fiscale” a cura di Giuseppe Caia, Tommaso F. Giupponi e Andrea Morrone

Anno II / vol. 2, n. 3Nel sessantesimo della Costituzione e della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo a cura di Giuseppe de Vergottini

Anno III/ n. 4Politiche della sicurezza e autonomie localia cura Tommaso F. Giupponi

Politiche della sicurezza e autonomie locali

a cura di Tommaso F. Giupponi

AnnAli di diritto costituzionAlediretti da Augusto Barbera e Andrea Morrone

Bononia University Pressvia Farini 37 – 40124 Bolognatel.: (+39) 051 232 882fax.: (+39) 051 221 [email protected]

© 2010 Bononia University PressTutti i diritti riservati

ISBN 978-88-7395-599-3

Progetto di copertina: Irene Sartini

Impaginazione: Irene Sartini

Stampa: Editografica (Rastignano, Bologna)

Prima edizione: dicembre 2010

Università di BolognaFacoltà di GiurisprudenzaSede di Ravenna

Provincia di Ravenna

Fondazione Flaminia

ANCI Emilia-Romagna

Regione Emilia-Romagna

UPI Emilia-Romagna

Comune di Ravenna

Presentazione 5

Parte IRelazioni

Tommaso F. Giupponi Le dimensioni costituzionali della sicurezza e il sistema delle autonomie 9regionali e locali

Luca Mezzetti Tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza e ruolo della polizia locale 35

Michele Belletti La “sicurezza urbana” tra fonti statali e fonti regionali 71

Caterina Drigo Il potere di ordinanza dei sindaci in materia di sicurezza 85

Corrado Caruso La legge, la Corte e le “ronde”: le associazioni di osservatori volontari 103per la sicurezza urbana

Chiara Camposilvan La recente disciplina ministeriale delle manifestazioni pubbliche nelle aree sensibili dei centri urbani 115

Indice

Parte II Interventi

Alvise Sbraccia La localizzazione dell’insicurezza: osservazioni critiche sulle articolazioni del paradigma securitario 133

Rossella Selmini Politiche locali e nazionali di sicurezza urbana: storia di un incontro mancato 143

Roberto Reggi La figura e il ruolo del Sindaco 149

Gianluca Dradi L’esperienza del Comune di Ravenna 155

Gabriele Ferrari L’esperienza della Provincia di Parma 159

Moira Rotondo L’indagine di ANCI e Fondazione Cittalia del 2008/2009 161

Nicola Gallo e Roberto Massucci La gestione delle manifestazioni sportive in un sistema di sicurezza partecipata 165

Luciano Vandelli La sicurezza urbana: profili di coordinamento e di integrazione tra Stato e autonomie 171

Gli Autori 175

Presentazione

Le problematiche connesse alla “sicurezza” e alla gestione delle relative politiche sul territorio hanno visto, negli ultimi anni, svilupparsi un ampio dibattito non solo tra gli studiosi e gli addetti ai lavori, ma anche in seno all’opinione pubblica, soprattutto a partire dalla riforma del Titolo V di cui alla legge cost. n. 3/2001.

Alcuni recenti interventi legislativi, infatti, hanno riconosciuto rilevanti poteri di intervento e nuove forme di coinvolgimento delle autonomie territoriali in ma-teria di politiche della sicurezza, non solo intesa (in senso lato) come l’insieme delle misure volte a garantire un’elevata qualità della vita e dei servizi nell’ambito delle comunità locali, ma anche in riferimento alla tradizionale funzione statale relativa all’ordine pubblico e alla prevenzione e repressione dei reati.

In questo senso, da ultimo, vanno tutti i provvedimenti relativi alla gestione della “sicurezza urbana”, con particolare riferimento all’utilizzo dei sistemi di videosor-veglianza (legge n. 38/2009), ai poteri sindacali di ordinanza (legge n. 125/2008) e all’attività delle associazioni di osservatori volontari (le c.d. ronde; legge n. 94/2009).

In tutti questi casi sorge conseguentemente la necessità di individuare le indispen-sabili forme di coordinamento tra funzioni statali attinenti all’ordine pubblico e alla sicurezza in senso stretto, di cui all’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., e funzioni di regioni, province e comuni in materia di sicurezza in senso lato, di cui all’art. 117, comma 3, 4 e 6, Cost., a partire dai tradizionali compiti in materia di polizia ammi-nistrativa, di servizi sociali e di protezione civile. Tale necessità di coordinamento, da ultimo, è confermata anche in merito al citato coinvolgimento degli enti territoriali nell’ambito della gestione sul territorio delle politiche relative alla stessa sicurezza in senso stretto, quale prevenzione e repressione dei reati, alla luce dell’espressa previ-sione di cui all’art. 118, comma 3, Cost.

Il volume, in questo senso, raccoglie una serie di riflessioni sul tema della gestione delle politiche della sicurezza in ambito locale, in parte presentate e discusse in occa-sione del Convegno Politiche della sicurezza e autonomie locali, tenutosi a Ravenna, presso la Facoltà di Giurisprudenza, il 7 novembre 2009. I contributi affrontano i principali aspetti problematici, sia da un punto di vista organizzativo (rapporti tra

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i diversi livelli di governo, assetto istituzionale, potestà normativa) sia sul piano più strettamente funzionale (in relazione ai poteri di ordinanza, alle associazioni di osser-vatori volontari, alla gestione degli eventi sportivi).

La riflessione, in un’ottica interdisciplinare e attenta alle concrete dinamiche di attuazione e applicazione del dato normativo, ha coinvolto studiosi di diverse disci-pline scientifiche e amministratori e funzionari pubblici che, sul territorio, vivono ogni giorno i problemi connessi alla gestione coordinata delle politiche della sicurez-za. Anche in questo caso, essa è stata possibile grazie al sostegno e alla partecipazione delle istituzioni e delle amministrazioni del territorio (statali, regionali e locali), che hanno così confermato il già avviato percorso di collaborazione con il Polo Universi-tario di Ravenna e con la Facoltà di Giurisprudenza.

Un ringraziamento a Polo Universitario di Ravenna, Fondazione Flaminia, ANCI Emilia-Romagna, UPI Emilia-Romagna, Regione Emilia-Romagna, Provincia di Ravenna, Comune di Ravenna, Prefettura di Ravenna e Questura di Ravenna, che a vario titolo ci hanno supportato in questo ulteriore percorso di ricerca.

Ravenna, novembre 2010

Tommaso F. Giupponi

Parte I

Relazioni

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Le dimensioni costituzionali della sicurezza e il sistema delle autonomie regionali e locali

Tommaso F. Giupponi

1. “Sicurezza” e “sicurezze” nella riforma del Titolo V della Costituzio-ne: il ruolo della legislazione regionale

Come noto, la riforma attuata dalla legge cost. n. 3/2001 ha significativamente mo-dificato il sistema costituzionale delle autonomie regionali e locali. Volto (almeno nelle intenzioni) ad un sostanziale rafforzamento degli ambiti di autonomia norma-tiva, amministrativa e finanziaria dei livelli territoriali di governo, il nuovo Titolo V della Costituzione interviene anche in materia di sicurezza, confermando ancora una volta la natura plurale di tale nozione costituzionale1.

Se, infatti, in relazione a quella che può essere definita come sicurezza in senso “stretto”, quale necessaria tutela degli individui e delle istituzioni (in una parola, del-la comunità) rispetto a comportamenti lesivi dell’ordine pubblico, è affermata una competenza legislativa esclusiva dello Stato2, in relazione alla c.d. sicurezza in senso “lato”, con riferimento alla necessaria previsione di strumenti atti a garantire (sotto diversi aspetti) una piena realizzazione della dignità della persona e dei suoi diritti, condizioni ottimali di vita e lavoro, nonché una maggiore coesione e integrazione so-ciale attraverso specifici interventi da parte delle diverse pubbliche amministrazioni3,

1 Sul punto, più ampiamente, sia consentito un rinvio a T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali della sicurezza, Bologna, 2010.

2 A partire dalle più volte evocate competenze in materia di “sicurezza dello Stato” e di “ordine pubblico e sicurezza”, di cui all’art. 117, comma 2, lett. d) e lett. h), Cost.

3 Cfr. B. Caravita di Toritto, Sicurezza e sicurezze nelle politiche regionali, in Federalismi.it, all’in-dirizzo www.federalismi.it. Significativa, in questo senso, anche la tradizionale distinzione tra i concetti di security e sécurité, da un lato, e qualli di safety e sureté, dall’altro. Sul punto si veda anche la ricostruzio-ne di M. Ruotolo, La sicurezza nel gioco del bilanciamento, relazione presentata al Convegno “I diversi volti della sicurezza”, Università di Milano-Bicocca, 4 giugno 2009, per ora disponibile nel sito AIC, all’indirizzo www.associazionedeicostituzionalisti.it.

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è invece riconosciuta una variegata possibilità di intervento legislativo regionale, sia di tipo concorrente sia di tipo residuale4.

Contemporaneamente, sul piano dell’attività amministrativa, l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale ha spezzato l’uniformità che caratterizzava il prece-dente principio del parallelismo, riconoscendo in capo al governo locale la generalità delle funzioni amministrative, salvo la necessità di una loro attribuzione ad un livello superiore di governo al fine di garantirne l’indispensabile esercizio unitario, in con-formità con i principi di differenziazione e adeguatezza.

Sembra, allora, evidente che in materia di sicurezza in senso “stretto” ricorrano proprio quelle inevitabili esigenze di uniformità che spingono ad un riconoscimento in primis del livello statale quale livello in grado di assicurare una gestione unitaria delle relative funzioni amministrative. Tale conclusione, sostanzialmente raggiunta già in occasione dell’adozione del d.lgs. n. 112/19985, appare comunque confermata anche dopo la riforma costituzionale del 2001 per tutta una serie di motivi. Uno su tutti: la stretta connessione di tali funzioni amministrative con la tutela dei diritti fondamentali, da un lato, e l’esercizio della giurisdizione, dall’altro.

In particolare, le funzioni di pubblica sicurezza evocano proprio quelle possibi-lità di intervento, a volte anche di tipo preventivo, riconosciute dalla Costituzione quali legittime limitazioni a determinati diritti fondamentali; mentre il tradizionale compito di repressione dei reati evidenzia il nesso con l’esercizio della funzione giuri-sdizionale, di competenza esclusiva dello Stato. Se questo è vero, la necessità di garan-tire il generale principio di eguaglianza impedisce quindi di ipotizzare un’eccessiva frammentazione territoriale delle relative funzioni amministrative6. Tuttavia, come

4 Si ricordano, in particolare: i riferimenti costituzionali alla “profilassi internazionale”, alla “tutela della salute” e alla “alimentazione”, in relazione alla c.d. sicurezza sanitaria, art. 117, comma 2, lett. q), Cost. e art. 117, comma 3, Cost.; le disposizioni relative alla “tutela e sicurezza del lavoro”, alla “previdenza sociale” e alla “previdenza complementare e integrativa”, con riferimento alla c.d. sicurezza sociale, art. 117, comma 3, Cost.; alle competenze in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, di “protezione civile” e di “governo del territorio”, in riferimento alla c.d. sicurezza ambientale, art. 117, comma 2, lett. s), Cost. e art. 117, comma 3, Cost.; nonché alle disposizioni relative alla “tutela del risparmio e mercati finanziari”, alla “tutela della concorrenza” e alle “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per quanto riguarda la c.d. sicurezza economica e dei mercati, art. 117, comma 2, lett. e), Cost. e art. 117, comma 3, Cost.

5 Che, come noto, riserva in capo allo Stato le funzioni di ordine pubblico e pubblica sicurez-za, intese quali i compiti che “concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni” (così l’art. 159, comma 2, del d.lgs. n. 112/1998). Tali compiti, sulla base del successivo art. 160, comma 2, sono affidate all’amministrazione della pubblica sicurezza così come disciplinata dalla legge n. 121/1981 “che individua, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, le forze di polizia”.

6 Cfr. P. Bonetti, Ordine pubblico, sicurezza, polizia locale e immigrazione nel nuovo art. 117 della Costituzione, in le Regioni, 2002, in particolare p. 506 ss.; F. Famiglietti, La sicurezza pubblica come interesse unitario. Aspetti problematici di un’organizzazione federalistica della pubblica sicurezza, in V. Bal-dini (a cura di), Sicurezza e Stato di diritto: problematiche costituzionali, Cassino, 2005, in particolare p. 290 ss.

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Tommaso F. Giupponi

vedremo, la consapevolezza dell’opportunità di un margine di flessibilità operativa che consenta di adattare l’azione amministrativa alle diverse realtà territoriali, ha spinto il legislatore di revisione ad individuare la necessità di disciplinare, con legge statale, forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza7.

Diverso, invece, il caso della sicurezza in senso “lato”. In questo caso, infatti, è sicuramente possibile (e anzi necessaria) una maggiore articolazione, sul piano terri-toriale, di funzioni che corrispondono a competenze assai diverse e variegate tra loro, alcune delle quali tradizionalmente in capo alle autonomie territoriali, e che possono evocare altrettante “sicurezze”. Così, ad esempio, in relazione ai già citati casi della c.d. sicurezza ambientale o della c.d. sicurezza sociale, è la stessa definizione del loro composito ambito di intervento a mettere in evidenza la necessaria rilevanza dei con-nessi contesti territoriali o comunitari, prefigurando interventi in grado di adattarsi alle diverse realtà regionali e locali, ma sempre nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.

In questo senso, anche prima della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni risultavano comunque titolari di alcune funzioni in materia di sicurezza, o perché delegate dallo Stato, o perché strettamente connesse con funzioni di cui erano già titolari, o perché il d.lgs. n. 112/1998 “aveva riservato allo Stato la sola competenza in materia di standard minimi, riconoscendo implicitamente una com-petenza regionale nella definizione di standard ulteriori”8. In ogni caso, tali funzioni statali attinenti alla sicurezza in senso “lato” possono facilmente intrecciarsi con altre funzioni regionali, motivo per cui si è sottolineata una loro potenziale trasversalità.

Tale consapevolezza sembra emergere anche dalla legislazione regionale in ma-teria adottata dopo l’entrata in vigore della legge cost. n. 3/20019, che delinea ten-denzialmente articolate forme di gestione integrata della sicurezza sul territorio10. Le disposizioni regionali, infatti, spaziano dalle attività di prevenzione e contrasto

7 Cfr., in questo senso, l’art. 118, comma 3, Cost.8 Così B. Caravita, Sicurezza e sicurezze nelle politiche regionali, cit., passim. In particolare, si ri-

cordano le disposizioni di cui agli artt. 69 (sicurezza ambientale), 98 (sicurezza stradale), 104 (sicurezza dei trasporti) e 107 (protezione civile). In tutti questi settori, infatti, compito del legislatore statale era quello di individuare norme generali, valori limite, standard di qualità o norme tecniche in grado di garantire una disciplina base uniforme su tutto il territorio nazionale. Per una disamina di tali aspetti, si veda Aa.Vv., Politiche per la sicurezza, Rapporto finale IRER, Milano, 2004, in particolare p. 29 ss.

9 Si ricordano, tra le leggi vigenti: la legge Regione Lazio, n. 15/2001; la legge Regione Toscana, n. 38/2001; la legge Regione Veneto, n. 9/2002; Regione Marche, n. 11/2002; la legge Regione Lombar-dia, n. 4/2003; la legge Regione Campania, n. 12/2003; la legge Regione Emilia-Romagna, n. 24/2003; la legge Regione Piemonte, n. 6/2004; la legge Regione Abruzzo, n. 40/2004; la legge Regione Liguria, n. 28/2004; la legge Regione Lazio, n. 1/2005; la legge Regione Umbria, n. 1/2005; la legge Regione Valle d’Aosta, n. 11/2005; la legge Provincia autonoma di Trento, n. 8/2005; la legge Regione Calabria, n. 5/2007; la legge Regione Piemonte, n. 23/2007; la legge Regione Sardegna, n. 9/2007; la legge Re-gione Toscana, n. 59/2007; la legge Regione Liguria, n. 31/2008; la legge Regione Umbria, n. 13/2008; la legge Regione Friuli-Venezia Giulia, n. 4/2009; la legge Regione Basilicata, n. 41/2009.

10 Per un’analisi della legislazione regionale in merito si vedano, da ultimo, L. Mezzetti, Ordine pubblico, sicurezza e polizia locale: il ruolo delle autonomie territoriali, in Percorsi costituzionali, 2008, in

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di fenomeni criminali veri e propri (come la droga o la prostituzione), attraverso forme di controllo e vigilanza del territorio volte ad assicurare la fruibilità dei luoghi pubblici e a dissuadere forme di microcriminalità; fino all’attivazione di politiche che mirino alla riqualificazione urbana, all’integrazione sociale del disagio, all’educazio-ne alla legalità, volte alla garanzia di un’ordinata e civile convivenza nelle città e nel territorio regionale11.

Il tutto attraverso la predisposizione di strumenti di coordinamento e di moni-toraggio, che mirano a garantire le necessarie forme di collaborazione con lo Stato, da un lato, e il sistema delle autonomie regionali e locali, dall’altro; ma che vogliono coinvolgere anche i cittadini, singoli e associati, le istituzioni religiose e il c.d. terzo settore in genere, sia sul piano dello studio dei fenomeni e dell’elaborazione delle politiche, sia sul piano della loro concreta attuazione e gestione sul territorio12. Stru-mento principale di tali forme di coordinamento risultano essere specifici accordi o intese, promossi dalla Regione con lo Stato o gli enti locali13.

Da ultimo, particolare rilevanza assume la legislazione regionale in materia di polizia amministrativa locale, oggi valorizzata dallo stesso dettato costituzionale. In questo settore, infatti, il ruolo di coordinamento regionale appare particolarmente significativo, anche alla luce della tradizionale funzione regolamentare in materia da parte degli enti locali14.

Come noto, infatti, già il previgente testo dell’art. 117 Cost. attribuiva alla com-petenza legislativa concorrente delle Regioni la materia “polizia locale urbana e rura-le”; nell’attuazione legislativa, si era poi specificato che le relative funzioni ammini-strative “concernono le attività di polizia che si svolgono esclusivamente nell’ambito del territorio comunale e che non siano proprie delle competenti autorità statali”15.

particolare p. 90 ss.; A. Musumeci, Sicurezza e ordinamento regionale: una analisi comparata della legisla-zione regionale, in A. Pajno (a cura di), La sicurezza urbana, Rimini, 2010, p. 111 ss.

11 Con riferimenti che spaziano fino a ricomprendere la sicurezza stradale, la sicurezza ambientale, la protezione civile, la formazione professionale, l’assistenza sociale e il collocamento lavorativo.

12 Significativa, in questo senso, l’individuazione di sedi di programmazione, valutazione e mo-nitoraggio variamente individuati e nominati (ad esempio, Conferenze o Comitati regionali per la sicurezza).

13 Sulle forme di collaborazione istituzionale, però, vedi più ampiamente ultra.14 Sul punto, si vedano le osservazioni di P. Bonetti, op. cit., p. 512 ss. secondo il quale l’esclusione

della polizia amministrativa locale dalla competenza legislativa esclusiva dello Stato può significare cose assi diverse tra loro: a) assegnazione alla competenza legislativa residuale regionale; b) riconduzione alle “funzioni fondamentali” degli enti locali, comunque di competenza legislativa esclusiva dello Stato; c) connessione strumentale alle altre materie oggetto di riparto di competenza tra Stato e Regioni, nell’am-bito dell’esercizio delle relative funzioni amministrative riconosciuto a livello statale, regionale o locale sulla base dell’art. 118 Cost.

15 Così l’art. 18 del d.p.r. n. 616/1977. Il successivo art. 19 indicava nel dettaglio le specifiche funzioni attribuite ai comuni in materia di polizia amministrativa. La giurisprudenza costituzionale, in ogni caso, ha differenziato le nozioni di “polizia locale urbana e rurale” e di “polizia amministrativa”, considerando la prima come una parte della seconda, vero e proprio patrimonio storico delle ammini-strazioni comunali, consolidato già prima dell’entrata in vigore della Costituzione del 1948 (cfr. la sent. n. 77/1987, in relazione agli allora vigenti artt. 91, lett. c, n. 1 del TULCP di cui al r.d. n. 383/1934 e 109-110 del precedente regolamento di esecuzione di cui al r.d. n. 297/1911).

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Dunque, un ruolo delle autonomie territoriali limitato all’ambito della vigilanza e del controllo relativo alle funzioni amministrative di propria competenza, volto ad “evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati alle persone o alle cose” nel-lo svolgimento di attività ricomprese nelle materie sulle quali si esercitano le loro competenze, ma “senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni o gli interessi tutelati in nome dell’ordine pubblico”16.

Tale assetto, anche sulla scia di quanto stabilito dalla legge-quadro n. 65/198617, è stato poi sostanzialmente confermato dal d.lgs. n. 112/1998, secondo il quale “le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla polizia amministrativa regionale e locale concernono le misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati ai soggetti giuridici ed alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze, anche delegate, delle regioni e degli enti locali, senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni e gli interessi tutelati in funzione dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”18.

Alla luce della riforma costituzionale del 2001, in ogni caso, le competenze regio-nali e locali in materia di polizia amministrativa dovrebbero risultare sostanzialmen-te rafforzate, alla luce della loro strumentalità all’esercizio delle differenti funzioni amministrative di competenza dei rispettivi livelli di governo, e in conformità con il generale principio di sussidiarietà. Tuttavia lo Stato sembra poter mantenere un’im-portante possibilità di intervento in materia di polizia locale attraverso la valorizza-zione di due importanti strumenti: a) da un lato, l’individuazione delle funzioni fon-damentali degli enti locali, di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), Cost.; b) dall’altro, le disposizioni in materia di coordinamento delle funzioni amministrative in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’art. 118, comma 3, Cost.

Dal primo punto di vista, infatti, le funzioni di polizia amministrativa locale po-trebbero essere individuate quale funzione fondamentale dei comuni da parte della legislazione dello Stato, in questo modo aggirando i poteri di intervento normativo regionale19. Dal secondo punto di vista, invece, la legge statale, pur intervenendo in

16 Così la sent. n. 218/1988. In senso analogo, si vedano anche le successive decisioni nn. 740/1988, 1013/1988, 162/1990, 115/1995 e 290/2001.

17 Si ricordano, in particolare, gli artt. 4 e 6 della legge n. 65/1986, riguardanti rispettivamente i regolamenti comunali sulla polizia municipale e la legislazione regionale in materia. Sul punto, tra gli altri, cfr. A. Bardusco, Polizia locale, in Enciclopedia giuridica, XXIII, Roma, 1990; G. Rolla, Federa-lismo e polizia municipale. Considerazioni in margine alla legge costituzionale di revisione del Titolo V della Costituzione, in le Regioni, 2001, p. 853 ss.

18 Cfr. l’art. 159, comma 1, del d.lgs. n. 112/1998, sul quale si vedano le osservazioni critiche di L. Mezzetti, Polizia locale, in L. Mezzetti (a cura di), Dizionario giuridico delle autonomie locali, Padova, 1999, in particolare p. 857 ss.

19 Cosa che, da ultimo, appare in qualche modo confermata non solo dall’art. 21, comma 3, della legge n. 42/2009 nell’ambio dell’attuazione del c.d. federalismo fiscale, che (seppure in via provvisoria) individua tra le funzioni fondamentali quelle di “polizia locale”; ma anche dell’art. 2, comma 1, del d.d.l. di attuazione dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., deliberato dal Consiglio dei ministri il 17 novembre 2009 (AC 3118), e in base al quale risultano funzioni fondamentali dei comuni “l’accerta-mento, per quanto di competenza, degli illeciti amministrativi e l’irrogazione delle relative sanzioni” (lett. u), nonché “l’organizzazione delle strutture e dei servizi di polizia municipale e l’espletamento dei

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un ambito formalmente differente dalla polizia amministrativa (e cioè quello dell’or-dine pubblico e della sicurezza), potrebbe in ogni caso incidere su rilevanti profili organizzativi e funzionali dei corpi di polizia locale. In entrambi i casi, comunque, con il rischio di un eccessivo sacrificio delle forme di autonomia organizzativa in materia da parte degli stessi enti locali.

2. Le forme di coordinamento tra i diversi livelli di governo. L’art 118, comma 3, Cost. e la c.d. sicurezza sussidiaria. Il caso delle “ronde”

Le esigenze di coordinamento in materia di politiche della sicurezza sono state af-frontate nel corso degli anni sotto diversi profili, a partire dall’ambito relativo alla c.d. sicurezza in senso “stretto”20. Già la legge n. 121/1981, nel riorganizzare com-plessivamente l’amministrazione di pubblica sicurezza, aveva previsto la possibilità, sul piano strutturale e operativo, che le autorità provinciali di pubblica sicurezza sol-lecitassero “la collaborazione delle amministrazioni locali” e mantenessero rapporti con i sindaci dei rispettivi comuni21. In senso analogo, la successiva legge n. 65/1986 ha stabilito la collaborazione della polizia municipale con le forze di polizia dello Sta-to, “previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità”22.

Più in generale, era prevista la possibilità, per il prefetto, di invitare a partecipare alle riunioni del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica anche “i responsabili […] degli enti locali interessati ai problemi da trattare”, che quindi po-tevano occasionalmente intervenire in quello che veniva definito come “organo au-siliario di consulenza del prefetto”23. Come noto, la progressiva importanza assunta da tale sede di coordinamento ha spinto successivamente il legislatore a modificare la composizione originaria del Comitato, inserendovi stabilmente anche il sindaco del comune capoluogo e il presidente della provincia24. In questo modo, con tutta evidenza, si è voluto sottolineare il rilievo assunto dai vertici degli esecutivi comunali e provinciali, dotati di legittimazione popolare diretta alla luce della loro elezione da parte delle comunità di riferimento e veri titolari della direzione dell’indirizzo politico-amministrativo a livello locale.

relativi compiti di polizia amministrativa e stradale, inerenti ai settori di competenza comunale, nonché di quelli relativi ai tributi di competenza comunale” (lett. v).

20 Da ultimo, per una ricostruzione dei diversi aspetti rilevanti, si rimanda a V. Antonelli, L’espe-rienza dei “patti per la sicurezza” nel triennio 2007-2009, in A. Pajno (a cura di), La sicurezza urbana, cit., p. 133 ss.

21 Cfr. l’art. 15 della legge n. 121/1981.22 Cfr. l’art. 3 della legge n. 65/1986.23 Così, espressamente, il testo originario dell’art. 20 del legge n. 121/1981.24 Cfr. l’art. 1 del d.lgs. n. 279/1999, in base al quale la convocazione del Comitato, di competenza

del prefetto, “è in ogni caso disposta quando lo richiede il sindaco del comune capoluogo di provin-cia per la trattazione di questioni attinenti ala sicurezza della comunità locale o per la prevenzione di tensioni conflitti sociali che possono comportare turbamenti dell’ordine o della sicurezza pubblica in ambito comunale”.

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Tommaso F. Giupponi

Successivamente, con particolare evidenza a partire dagli anni Novanta, si sono però affermate forme, anche consensuali, di collaborazione tra forze di polizia e am-ministrazioni territoriali per la gestione della sicurezza in ambito locale: piani co-ordinati di controllo del territorio25 ma, soprattutto, protocolli di intesa, accordi e patti. Fondamentale, in questo senso, quanto previsto dal d.p.c.m. del 12 settembre 200026, in base al quale “lo Stato, le Regioni e gli enti locali collaborano in via per-manente, nell’ambito delle rispettive competenze, al perseguimento di condizioni ottimali di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini, nonché per la realizzazione di specifici progetti di ammoder-namento e potenziamento tecnico-logistico delle strutture e dei servizi integrativi di sicurezza e di tutela sociale, agli interventi di riduzione dei danni, all’educazione alla convivenza nel rispetto della legalità”27. Al Ministro dell’interno, in questo senso, è riconosciuto il compito di promozione di tali forme di collaborazione tra Stato e autonomie regionali e locali, che vengono poi sottoposte all’attenzione della c.d. Conferenza unificata28.

Nonostante tale tentativo di formalizzazione, rimasto sostanzialmente sulla carta, la prassi istituzionale ha comunque visto un crescente utilizzo di variegati strumenti consensuali, di diversa natura e denominazione, stipulati tra organismi statali di pub-blica sicurezza e autonomie regionali e locali29.

Più recentemente, la legge n. 296/2006 ha stabilito che “per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico ur-gente e per la sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’interno e, per sua delega, i prefetti, possono stipulare convenzioni con le regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e degli enti locali”. Anche sulla scia di tale disposizione, il successivo 20 marzo 2007 è stato sottoscritto il patto sulla sicurezza tra il Ministero dell’interno e l’ANCI, seguito il 13 settembre 2008 dall’accordo tra il Ministero dell’interno e la Consulta ANCI dei piccoli comuni in materia di patti per la sicurezza.

25 Previsti, a livello provinciale, dall’art. 12, comma 8, della legge n. 203/1991 e da attuarsi a cura dei competenti uffici di polizia anche in collaborazione con la polizia municipale “previa richiesta del sindaco”. Tali forme di coordinamento sono state dapprima estese ai comuni di maggiore dimensione, previa intesa con i relativi sindaci (art. 17, comma 1, della legge n. 128/2001), per poi essere estese, per specifiche esigenze, anche ai comuni minori (art. 7, comma 1, della legge n. 125/2008).

26 Relativo all’individuazione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasfe-rire a regioni ed enti locali in relazione alle funzioni di polizia amministrativa.

27 Cfr. l’art. 7, comma 1, del d.p.c.m. del 12 settembre 2000.28 Cfr. l’art. 7, comma 2, del d.p.c.m. del 12 settembre 2000: “la Conferenza unificata […] pro-

muove, sentito il Ministro dell’Interno o su sua proposta, uno o più accordi tra Governo, Regioni, Pro-vince, Comuni e Comunità montane, per lo svolgimento in forma coordinata delle attività di rispettiva competenza volte al perseguimento delle finalità del presente articolo”.

29 Si vedano, sul punto, i dati ricordati da V. Antonelli, op. cit., p. 135, che sottolinea come, in un decennio (1997-2006), siano stati stipulati circa 400 strumenti pattizi, con varia denominazione e in molti casi non riconducibili ad un modello unitario.

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La complessiva finalità di tali tipologie di intervento non è limitata agli aspetti operativi e di controllo del territorio in senso stretto, ma si estende fino alla previsio-ne di forme di coordinamento nell’ambito di iniziative volte a migliorare comples-sivamente la qualità della vita nei centri urbani, attivando anche misure di preven-zione sociale, iniziative di riqualificazione del tessuto urbano, nonché strumenti di recupero del degrado sociale. Tutto questo, allora, viene evidenzia quella che è stata definita una “visione plurale della sicurezza”, in cui essa viene percepita “come un bene pubblico realizzato in maniera integrata”30.

Per superare la frammentarietà di tale variegata esperienza, lo strumento costi-tuzionalmente più idoneo appare la legge di coordinamento in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’art. 118, comma 3, Cost.31. Quest’ultima disposizio-ne, pur prevedendo espressamente forme di coordinamento solamente tra Stato e Regioni, non può non incidere anche sulle funzioni degli enti locali. Come è stato notato, infatti, la già citata legislazione regionale in materia di politiche integrate di sicurezza ha ampiamente previsto ed incentivato, ad esempio, l’esercizio in forma as-sociata delle funzioni di polizia locale, al fine di garantirne “un svolgimento omoge-neo e coordinato”32. Tale finalità, evidentemente, non sembra dunque poter rimanere estranea alle citate forme di coordinamento tra Stato e Regioni33.

Dal canto suo, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha di recente sottoline-ato l’importanza di tali forme di coordinamento, ribadendone però la responsabilità in capo allo Stato. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, appare certamente auspi-cabile che si sviluppino “forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio”; tuttavia “le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle Regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislati-va: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati”34.

30 Così V. Antonelli, op. cit., p. 164. In base ai dati disponibili sul sito del Ministero dell’interno (www.interno.it), i patti stipulati alla luce di tali ultime disposizioni risultano, al febbraio 2010, com-plessivamente 37, con diverse province e comuni; a questi si aggiungono 3 intese stipulate dal Ministero con alcune regioni (Calabria, Friuli-Venezia Giulia e Veneto). Per un’analisi dei principali contenuti di tali accordi si rimanda, ancora una volta, a V. Antonelli, op. cit., in particolare p. 147 ss.

31 Sul punto, si veda P. Bonetti, L’allocazione delle funzioni amministrative e le forme di coordi-namento per le materie dell’ordine pubblico, della sicurezza e dell’immigrazione nel nuovo art. 118 della Costituzione, in le Regioni, 2002, p. 1121 ss.

32 Cfr. L. Mezzetti, Ordine pubblico, sicurezza e polizia locale: il ruolo delle autonomie territoriali, cit., p. 94; P. Bonetti, op. ult. cit., p. 1159 ss.

33 In questo senso, da ultimo, sembra andare anche la giurisprudenza costituzionale (su cui, però, vedi più ampiamente ultra).

34 Così la sent. n. 134/2004, su cui si veda P. Bonetti, Le leggi regionali su materie concernenti la sicurezza devono rispettare la potestà legislativa statale circa le forme di coordinamento tra Stato e regioni in materia d ordine pubblico e di sicurezza, in le Regioni, 2004, p. 1168 ss. Sul punto, in senso sostan-zialmente analogo, vedi la successiva sent. n. 105/2006, anche in riferimento alla precedente sent. n. 55/2001, in base alla quale “nella prospettiva di una completa ed articolata attuazione del principio di

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Significativo appare, però, il fatto che la stessa Corte costituzionale indichi quale esempio di strumento collaborativo quanto previsto dal già citato d.p.c.m. del 12 settembre 2000, atto a contenuto normativo di natura non regolamentare. Questa indicazione, oltre al riferimento all’ipotesi di “accordi tra gli enti interessati”, può apparire in contrasto con la previsione di cui all’art. 118, comma 3, Cost., in base al quale è la legge statale a dover disciplinare le forme di coordinamento tra Stato e regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza. Tuttavia, l’indicazione del modello portato ad esempio sembra prescindere dal problema relativo alla fonte in cui esso risulta attualmente contenuto. In sostanza, la Corte sembra aver voluto riaffermare l’urgenza di un’iniziativa statale in materia, pur evocando la necessità di un accordo con gli enti territoriali interessati35.

Da ultimo, anche in relazione al principio di sussidiarietà orizzontale36, si è posto il problema della partecipazione dei cittadini e delle loro associazioni alla gestione delle funzioni in materia di sicurezza, con particolare riferimento all’ambito locale. Come noto, infatti, sono intervenute sul punto dapprima la legge n. 41/2007, in relazione al personale incaricato dei servizi di controllo all’interno degli impianti sportivi in occasione di manifestazioni pubbliche (i c.d. steward)37, nonché, più di re-

leale collaborazione tra istituzioni regionali e locali ed istituzioni statali […] non può escludersi che l’or-dinamento statale persegua opportune forme di coordinamento tra Stato ed enti territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica […] volte, evidentemente, a migliorare le condizioni di sicurezza dei cit-tadini e del territorio, auspicabili e suscettibili di trovare il loro fondamento anche in accordi fra gli enti interessati, oltre che nella legislazione statale”. Tuttavia, vedi ora quanto affermato dalla recente sent. n. 226/2010, secondo la quale l’art. 118, comma 3, Cost. “prevede una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni” in materia, tra l’altro, di ordine pubblico e sicurezza, “ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provvedere in tal senso”.

35 Rimane, in ogni caso, il problema di valutare se tale accordo debba necessariamente seguire una puntuale disciplina legislativa statale (trovandosi di fronte ad una vera e propria riserva di legge in materia) o possa essere adottato sulla base di una mera previsione legale, alla luce della valorizzazione del principio di leale collaborazione (sul punto, problematicamente, si vedano le osservazioni di P. Bo-netti, op. ult. cit., p. 1175 ss.). In ogni caso, non sembra che sia sufficiente il mero accordo tra le parti, anche alla luce dell’espressa indicazione costituzionale di cui al già citato art. 118, comma 3, Cost., oltre che in ossequio al generale principio di legalità dell’azione amministrativa.

36 Di cui all’art. 118, comma 4, Cost.37 Si vedano, in particolare, l’art. 2-ter della citata legge, nonché la disciplina di attuazione contenu-

ta nel d.m. dell’8 agosto 2007. In particolare, come noto, il personale in questione (cui la l’art. 6-quater della l. n. 401/1989 estende la tutela riconosciuta dagli artt. 336 e 337 c.p. per i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio) è individuato, previo nulla osta del questore, dalle stesse società sportive, o nell’ambito del proprio personale oppure anche “avvalendosi di istituti di sicurezza privata autorizzati” a norma dell’art. 134 del TULPS del 1931 (art. 2, comma 2, del d.m. dell’8 agosto 2007). Sempre al questore, inoltre, spetta la tenuta di un apposito elenco “dei referenti, delle agenzie di somministrazione e delle altre società appaltatrici” autorizzati ad organizzare e gestire il servizio in questione, anche la fine di verificare la permanenza dei requisiti richiesti (art. 2, comma 2-ter, del d.m. dell’8 agosto 2007). Il personale addetto, infatti, deve essere in possesso di tutta una serie di requisiti soggettivi, oltre che essere avviato a specifici corsi di formazione (art. 3 del d.m. dell’8 agosto 2007, anche in relazione ai successivi allegati A e B). In ogni caso, l’elenco nominativo del personale selezionato per le attività in questione è tenuto a cura del questore, che verifica periodicamente la permanenza dei già citati requisiti soggettivi,

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cente, la legge n. 94/2009, sia in relazione agli addetti ai servizi di controllo delle at-tività di intrattenimento o spettacolo in luoghi aperti al pubblico (i c.d. buttafuori)38, sia con riferimento alle associazioni di osservatori volontari in materia di sicurezza urbana (le c.d. ronde)39 .

Particolare attenzione merita, però, la disciplina relativa agli osservatori volonta-ri40, quale sintomo del consolidamento di forme di sicurezza c.d. sussidiaria in ambi-to locale41. Con tale espressione, in via generale, si vuole indicare la tendenza ad un progressivo coinvolgimento dei privati nello svolgimento di attività di pubblica si-curezza che “non presuppongono l’esercizio di speciali poteri autoritativi o coercitivi (quali le misure dirette alla prevenzione e alla repressione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico […]) e che possono, per tale ragione, essere, a certe condizioni affidati non agli organi di polizia, ma a soggetti privati”42. Si è parlato, in questo sen-so, anche di sicurezza “partecipata”, in relazione alla constatazione che “non esistono

proponendo al prefetto, in caso di esito negativo, il divieto di impiego dei soggetti che ne risultino privi (art. 4 del d.m. dell’8 agosto 2007). Alla luce delle recenti modifiche introdotte dall’art. 2 del d.l. n. 187/2010, sono state significativamente ampliate le funzioni degli steward, dal momento che “ferme re-stando le attribuzioni e i compiti dell’autorità di pubblica sicurezza” ad essi ora “possono essere affidati, in aggiunta ai compiti [già] previsti […], altri servizi, ausiliari dell’attività di polizia, relativi ai controlli nell’ambito dell’impianto sportivo, per il cui espletamento non è richiesto l’esercizio di pubbliche pote-stà o l’impiego operativo di appartenenti alle Forze di polizia”.

38 Cfr. l’art. 3, commi 7-14, della legge n. 94/2009, nonché il successivo d.m. attuazione del 6 ottobre 2009.

39 Cfr. l’art. 3, commi 40-44, della legge n. 94/2009, nonché il successivo d.m. di attuazione dell’8 agosto 2009.

40 Analogamente a quanto già detto in merito ai c.d. steward, infatti, anche in relazione ai c.d. but-tafuori non è previsto alcun coinvolgimento delle amministrazioni locali, mentre è espressamente fatta salva la possibilità di un utilizzo del personale degli istituti di vigilanza privata, di cui all’art. 134 del TULPS del 1931 (il quale prevede la necessità di un’apposita licenza prefettizia). In particolare, l’attuale disciplina prevede la necessaria iscrizione ad un apposito albo tenuto dal prefetto del personale addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento o spettacolo in luoghi aperti al pubblico, mentre è specificato che i gestori di tali attività “possono provvedere ai servizi di controllo direttamente con proprio personale o avvalendosi di personale dipendente s istituti autorizzati” ai sensi del già citato art. 134 del TULPS del 1931 (cfr. l’art. 1 del d.m. del 6 ottobre 2009). Infine, in base all’art. 3, comma 7, della legge n. 94/2009 è specificato che “l’espletamento di tali servizi non comporta l’attribuzione di pubbliche qualifiche”, stabilendo al contempo un generale divieto di uso delle armi, di strumenti atti ad offendere e di qualunque strumento di coazione fisica”.

41 Cfr. G. Brunelli, L’inquietante vicenda delle ronde: quando la “sicurezza partecipata” mette a rischio la legalità costituzionale, in Le istituzioni del federalismo, 2009, p. 5 ss.; M. Cecchetti, S. Pajno, Quando una “ronda” non fa primavera. Usi e abusi della funzione legislativa, in Federalismi.it, all’indirizzo www.federalismi.it; M. Massa, I vigilanti privati e il volto pubblico della sicurezza, in Costituzionali-smo.it, all’indirizzo www.costituzionalismo.it; A. Pajno, V. Antonelli, La sicurezza urbana tra editti e ronde, in A. Pajno (a cura di), La sicurezza urbana, cit., p. 169 ss.; V. Italia, La sicurezza urbana. Le ordinanze dei sindaci e gli osservatori volontari, Milano, 2010, in particolare p. 83 ss.; nonché, volendo, T.F. Giupponi, L. 15.7.2009, n. 94 - Art. 3, commi 40 - 44, in corso di pubblicazione.

42 Così A. Pajno, V. Antonelli, op. cit., p. 198 ss. i quali ricordano non solo il già citato caso delle guardie giurate e degli istituti di vigilanza privata (artt. 133 e 134 TULPS del 1931), ma anche la disciplina legislativa in materia di affidamento dei servizi di controllo e vigilanza aeroportuali (art. 5 della legge n. 217/1992; d.m. 85/1999) e di vigilanza venatoria (art. 27 della legge n. 157/1992). Da

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più attività istituzionali da vivere in solitudine o da rivendicare in modo esclusivo, soprattutto quando riguardano beni essenziali per lo sviluppo e il progresso della società”, come avviene nel caso della sicurezza43.

La questione centrale, allora, risulta quella di definire a quale nozione di sicurezza ci si debba riferire quando si evocano forme di sicurezza sussidiaria o partecipata: alla c.d. sicurezza in senso “stretto” o alla c.d. sicurezza in senso “lato”? Sul punto la disciplina delle c.d. ronde non appare del tutto chiara. In base all’art. 3, comma 41, della già citata legge n. 94/2009, infatti, “i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”. A tal fine, è istituito un apposito albo presso ciascuna prefettura, cui i sindaci possono attingere, sulla base di apposita ordinanza, attivando specifiche convenzioni operative con le singole asso-ciazioni44. Queste ultime, a loro volta,“devono avere tra gli scopi sociali […] quello di prestare attività di volontariato con finalità di solidarietà sociale nell’ambito della sicurezza urbana […], ovvero del disagio sociale, o comunque riferibili alle stesse”45.

Alla luce di tale disciplina, le associazioni di osservatori volontari appaiono per alcuni versi pienamente inserite nell’ambito delle politiche di sicurezza in senso “stretto”. In questo senso, tra l’altro, sembrano spingere: a) il ruolo centrale assunto dal prefetto, in collaborazione con il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica46; b) l’evocazione dei poteri di ordinanza in materia di sicurezza urbana dei sindaci in qualità di ufficiali del Governo47; c) l’individuazione delle forze di polizia quali destinatarie delle eventuali segnalazioni; d) la priorità assegnata alle associazioni costituite da “appartenenti, in congedo, alle forze dell’ordine, alle forze armate e agli altri corpi dello Stato”48.

Parallelamente, il richiamo insistito a finalità di intervento rispetto a situazioni di disagio sociale, oltre che l’espressa indicazione del fine di volontariato sociale neces-sario ai fini della richiesta di iscrizione nell’apposito albo, sembrano invece evocare la c.d. sicurezza in senso “lato”, con particolare riferimento all’ambito delle politiche sociali e di assistenza. Evidenti, come già visto, le conseguenze nell’uno e nell’altro caso, con particolare riferimento all’esatta individuazione della competenza legisla-tiva in merito.

ultimo, si veda anche la disciplina in materia di servizi di sicurezza sussidiaria nell’ambito di porti, sta-zioni ferroviarie, metropolitane e di trasporto urbano (art. 18 della legge n. 155/2005; d.m. 154/ 2009).

43 Così, in particolare, I. Portelli, Gli intrecci della sicurezza tra Stato, autonomie locali e società civile, in Amministrazione in cammino, all’indirizzo www.amministrazioneincammino.luiss.it, p. 11.

44 Cfr. l’art. 3, comma 41, della legge n. 94/2009; nonché gli artt. 3 e 4 del d.m. dell’8 agosto 2009.45 Così l’art. 1, comma 2, del d.m. dell’8 agosto 2009.46 Comitato che deve essere previamente sentito dal prefetto in occasione dell’iscrizione delle asso-

ciazioni nell’apposito albo (art. 3, comma 41, della legge n. 94/2009; art. 1, comma 4, del d.m. dell’8 agosto 2009), oltre che in occasione della stesura, concordata con il sindaco interessato, delle citate convenzioni (art. 4, comma 2, del d.m. dell’8 agosto 2009).

47 Sui quali, più ampiamente, vedi però infra.48 Cfr. l’art. 3, comma 41, della legge n. 94/2009.

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Più in generale, anche volendo valorizzare il principio di sussidiarietà in senso “orizzontale” di cui all’art. 118, comma 4, Cost., va comunque valutata la possibilità di ammettere un coinvolgimento del c.d. terzo settore nella gestione delle politiche della sicurezza49. Tale prospettiva, sicuramente ammissibile nell’ambito della sicurez-za in senso “lato” (si pensi, ad esempio, al settore dei servizi sociali), risulta invece quanto meno dubbia se riferita all’ambito della sicurezza in senso “stretto”, con par-ticolare riferimento alla tradizionale funzione di prevenzione e repressione dei reati50.

Tali ambiguità, da ultimo, hanno spinto alcune Regioni (Toscana, Emilia-Ro-magna, Umbria) ad impugnare le citate disposizioni legislative davanti alla Corte costituzionale, oltre che a sollevare conflitto di attribuzione in relazione al decreto ministeriale di attuazione (Toscana, Emilia-Romagna), con particolare riferimento all’asserita invasione delle competenze legislative regionali in materia di polizia am-ministrativa locale e assistenza sociale (art. 117, comma 4, Cost.) e, in ogni caso, alla luce della mancanza di ogni forma di coinvolgimento delle Regioni da parte dello Stato, in violazione del principio di leale collaborazione (art. 11, comma 3, Cost.).

Con le recenti sentt. nn. 226/2010 e 274/2010, però, la Corte ha accolto solo in parte i rilievi delle Regioni, limitandosi a dichiarare l’illegittimità della discipli-na normativa impugnata esclusivamente in riferimento ai compiti degli osservatori volontari in materia di “disagio sociale”51. Richiamandosi alla di poco precedente decisione in merito alle ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana52, e nella consapevolezza delle peculiarità del giudizio in via principale53, il Giudice costitu-zionale ha infatti stabilito che la stretta connessione delle previsioni normative ora impugnate con i citati poteri di ordinanza54 conferma che il concetto di sicurezza ur-

49 Sul punto, si vedano anche le perplessità di A. Pajno, V. Antonelli, op. cit., p. 204 ss., i quali sottolineano i penetranti vincoli organizzativi da parte dell’autorità pubblica.

50 Cfr., in questo senso, le osservazioni di Q. Camerlengo, Art. 118, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario della Costituzione, III, Torino, 2006 p. 2352, secondo il quale “le funzioni di prevenzione e repressione dei reati non sono certo dismissibili a favore della comunità: la strumentalità rispetto all’esercizio della funzione giurisdizionale e la legittimazione delle forze di polizia ad adottare provvedimenti restrittivi delle libertà fondamentali sono elementi al fine di suffra-garne l’esclusione”. Lo stesso Autore, tuttavia, riconosce che in relazione al mantenimento dell’ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive o culturali “non è così scontato il monopolio delle autorità di polizia”.

51 Per un primo commento a tali decisioni sia consentito un rinvio a T.F. Giupponi, La Corte “di-mezza” le ronde, in attesa dell’attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., in corso di pubblicazione in Giurisprudenza costituzionale, 2010, n. 3.

52 Cfr. la sent. n. 196/2009, su cui, però, vedi più ampiamente ultra.53 Motivo per cui, a ben vedere, la Corte precisa subito che le sue decisioni non investono in al-

cun modo “il diritto di associazione dei cittadini ai fini dello svolgimento dell’attività di segnalazione descritta dalle disposizioni censurate: diritto che, ai sensi dell’art. 18, comma 1, Cost., resta affatto impregiudicato”.

54 Confermata, tra l’altro, non solo dalla previsione dell’art. 3, comma 40, della legge n. 94/2009, che affida al sindaco la decisione di avvalersi o meno della collaborazione delle associazioni di osservatori volontari, ma anche dalla specificazione di cui all’art. 3 del d.m. dell’8 agosto 2009, secondo il quale lo stesso sindaco deve adottare un’apposita ordinanza “con la quale formalizza la propria volontà di ri-correre alle associazioni di osservatori volontari, identificando gli ambiti per i quali intenda utilizzarle”.

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bana utilizzato in entrambi i casi deve avere la medesima interpretazione e, pertanto, deve essere ricondotto all’attività di prevenzione e repressione dei reati, ad esclusione dei compiti di polizia amministrativa locale. Tali conclusioni, secondo la Corte, sono confermate dall’esplicito coinvolgimento, da parte della disciplina in questione, del Prefetto55, del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica56 e delle Forze di polizia, statali e locali57; circostanza che, ancora una volta, conferma che il Sindaco viene qui in conto nella sua veste di Ufficiale del Governo, e non quale rappresentan-te della comunità locale.

Diverse, invece, le conclusioni in relazione agli interventi di segnalazione di “si-tuazioni di disagio sociale”. Secondo la Corte, infatti, l’elencazione in chiave di-sgiuntiva (“ovvero”) dei due ambiti di intervento degli osservatori “anche alla luce del generale canone ermeneutico del legislatore non ridondante” rende impraticabile un’interpretazione della “formula in questione in senso fortemente limitativo, tale da ridurne l’inquadramento nell’ambito dell’attività di prevenzione dei reati: ossia di ritenerla riferita a quelle sole situazioni di disagio sociale che, traducendosi in fattori criminogeni, determinino un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente rilevanti. In questa accezione essa risulterebbe, infatti, già interamente inclusa nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana”.

La locuzione “disagio sociale”, nella sua genericità, “si presta […] ad abbracciare una vasta platea di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’indi-viduo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e altre): situazioni che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili segnatamente alla materia dei servizi sociali”, appartenente alla competenza legislativa residuale regionale ex art. 117, comma 4, Cost. Tutto ciò, continua la Corte, a prescindere dall’erogazione di specifici servizi; anche il monitoraggio e la segnalazione di “situazioni critiche”, infatti, può ben rap-presentare “la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del disagio sociale”, motivo per cui “la determinazione delle con-dizioni e delle modalità con le quali i Comuni possono avvalersi, per tale attività di monitoraggio, dell’ausilio di privati volontari rientra anch’essa nelle competenze del legislatore regionale”.

Espresso, poi, il riferimento al precedente d.m. del 5 agosto 2008, che ha fornito una prima definizione della sicurezza urbana e dei suoi ambiti applicativi, da parte dell’art. 1, comma 2, del già citato d.m. dell’8 agosto 2009.

55 Di intesa col quale il sindaco può decidere di avvalersi degli osservatori volontari, concordare il contenuto delle successive convenzioni operative e a cui spetta, tra l’altro, la tenuta e l’aggiornamento del già citato elenco delle associazioni (art. 3, commi 40-41, della legge n. 94/2009; artt. 1, comma 4, 4, comma 2, 6 e 7 del d.m. dell’8 agosto 2009).

56 Organo che deve esprimere il proprio parere sulla presenza dei requisiti per l’iscrizione nel già citato elenco, oltre che sul contenuto delle già citate convenzioni operative (art. 3, comma 41, della legge n. 94/2009; artt. 1, comma 4, e 4, comma 2, del d.m. dell’8 agosto 2009).

57 Alle quali solo è previsto di debbano rivolgere gli osservatori volontari per le loro segnalazioni (art. 3, comma 40, della legge n. 94/2009; art. 2, comma 1, del d.m. dell’8 agosto 2009).

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Quanto al rispetto del principio di leale collaborazione, la Corte esclude che, “una volta circoscritta l’attività delle associazioni di volontari alla segnalazione dei soli eventi pericolosi per la sicurezza urbana […], il legislatore statale sia tenuto comunque a pre-vedere forme di coordinamento” di tale attività con le connesse attività di competenza regionale. L’art. 118, comma 3, Cost., infatti, “prevede una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni” in materia, tra l’altro, di ordine pubblico e sicurezza, “ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provvedere in tal senso”.

Infine, la Corte respinge anche i dubbi sollevati in merito all’affidamento di funzio-ni di ordine pubblico a soggetti privati, rilevando che “le associazioni di volontari svol-gono una attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili di ufficio, di cui venga a conoscenza (art. 333 c.p.p.) e addirittura procedere all’arresto in flagranza nei casi previsti dall’art. 380 c.p.p., sem-pre quando si tratti di reati perseguibili d’ufficio (art. 383 c.p.p.)”58.

A prescindere dalla ricostruzione da ultimo offerta dalla Corte, la vicenda del-le c.d. ronde fa dunque emergere con evidenza il ruolo centrale assunto anche dal governo locale in materia di politiche della sicurezza, alla luce del consolidamento normativo di un concetto, quale quello di “sicurezza urbana”, di derivazione socio-logica59 e dagli incerti confini, e che chiama in causa una pluralità di interventi sul territorio comunale da parte dello Stato, delle Regioni e degli stessi enti locali, nel quadro di una sistema di coordinamento che risulta ormai non più rinviabile.

3. La “sicurezza urbana” e i nuovi poteri sindacali di ordinanza, ex art. 54 d.lgs. n. 267/2000

Come noto, in base all’art. 6 della legge n. 125/2008, che modifica sul punto l’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000, “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei prin-cipi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”60. La specificazione degli

58 Secondo il Giudice delle leggi tali conclusioni sarebbero confermate anche dall’art. 24 della legge n. 121/1981 “nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa eserciti le pro-prie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini, “sollecitandone la collaborazione”. Tuttavia, il riferimento alle eccezionali ipotesi di intervento da parte dei singoli cittadini previste dal nostro ordinamento penale, pur significativo, non risolve definitivamente la delicata questione della loro eventuale attivazione da parte dei singoli componenti dei nuclei di osservatori volontari (che, tuttavia, sembra doversi escludere alla luce delle limitate attività che la disciplina legislativa in questione prevede).

59 Cfr. R. Selmini (a cura di), La sicurezza urbana, Bologna, 2004; F. Battistelli, L. Fay Lucia-netti, La sicurezza urbana tra politics e policy, in A. Pajno (a cura di), La sicurezza urbana, cit., p. 75 ss.

60 In base a tale disposizione, i provvedimenti in questione devono essere preventivamente comu-nicati al prefetto “ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione”, anche attraverso l’adozione delle “misure ritenute necessarie per il concorso delle Forze di polizia”; lo stesso prefetto, d’altronde, “può intervenire con proprio provvedimento” in caso di inerzia dello stesso sindaco, oltre che disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati; il Ministro

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ambiti operativi di intervento del sindaco, insieme alla concreta definizione di “in-columità pubblica” e “sicurezza urbana” è, come noto, stata affidata dal legislatore ad un apposito decreto del Ministro dell’interno, adottato il successivo 5 agosto 2008. Ebbene, in base a tale d.m., per incolumità pubblica “si intende l’integrità fisica della popolazione”, mentre per sicurezza urbana si intende “un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”61.

Come subito evidenziato in dottrina, due appaiono i profili maggiormente pro-blematici connessi alla ricostruzione dei nuovi poteri sindacali in materia di “sicurez-za urbana”: a) da un lato, l’esatta configurazione degli strumenti operativi attribuiti al sindaco (i già citati “provvedimenti, anche contingibili e urgenti”); b) dall’altro, la precisa individuazione dei settori di incidenza delle nuove forme di intervento del sindaco, con particolare riferimento al concetto di “sicurezza urbana”, termine assai sfuggente sul piano del linguaggio giuridico62.

Dal primo punto di vista, il problema centrale è quello dell’esatta individuazio-ne del significato dell’inciso “anche”, inserito in sede di conversione dell’originario decreto legge: diverse, infatti, appaiono le letture possibili. In base ad una prima lettura della norma, tale inciso avrebbe codificato la possibilità per il sindaco, “al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”, di adottare due diverse tipologie di provvedimenti in qualità di uf-ficiale del Governo. Alle tradizionali ordinanze sindacali contingibili e urgenti, vero e proprio strumento extra ordinem63, sembrerebbe infatti aggiungersi oggi la possibilità di adottare provvedimenti (per così dire) ordinari, dalla difficile configurazione ma, in base al dettato normativo, conseguentemente sottratte ai limiti che caratterizzano in generale le ordinanze contingibili e urgenti64.

Come noto, infatti, la giurisprudenza costituzionale e amministrativa hanno, nel corso degli anni, circondato l’adozione di questi ultimi provvedimenti (sempre de-finiti di natura amministrativa) di tutta una serie di presupposti e limitazioni: a) la

dell’interno, infine, può adottare “atti di indirizzo” per l’esercizio da parte del sindaco di tali funzioni (sul punto, da ultimo, si vedano le modifiche apportate dall’art. 8 del d.l. n. 187/2010).

61 Cfr., in particolare, l’art. 1 del d.m. del 5 agosto 2008.62 Da ultimo, per una ricostruzione di questi e altri problemi, si vedano A. Lorenzetti, S. Rossi (a

cura di), Le ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, Napoli, 2009; V. Italia, op. cit., in particolare p. 3 ss.; nonché, in connessione con la natura polisemica del concetto di sicurezza, T.F. Giupponi, “Sicurezza urbana” e ordinamento costituzionale, in le Regioni, 2010, p. 49 ss.

63 Oggi specificamente confermate, tra l’altro, di fronte a “casi di emergenza, connessi con il traffico o con l’inquinamento atmosferico o acustico, ovvero quando a causa di circostanze straordinarie si ve-rifichino particolari necessità dell’utenza o per motivi di sicurezza urbana”, con particolare riferimento alla possibilità di modificare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi, dei servizi pubblici e degli uffici pubblici localizzati nel territorio comunale (cfr. l’art. 54, comma 6, del d.lgs. n. 267/2000).

64 Si sottolinea, in questo senso, la stessa punteggiatura che caratterizza la disposizione in commen-to, che sembra richiamare il limite del “rispetto dei principi generali dell’ordinamento” solo in relazione all’ipotesi di adozione di provvedimenti contingibili e urgenti.

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straordinarietà dello specifico evento da affrontare, che non consente l’utilizzo degli ordinari strumenti a disposizione dell’amministrazione; b) l’urgenza di provvedere, di fronte ad un pericolo o un danno imminente; c) la possibilità di derogare a dispo-sizioni di legge; d) il rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e dei principi costituzionali; e) l’adeguata motivazione dell’atto e la sua conoscibilità; f ) la temporaneità dell’intervento65.

Ebbene, solo alla luce di tali specificazioni si può ritenere legittimo il ricorso ad atti sostanzialmente atipici e in grado di derogare a vigenti disposizioni di legge o di inte-grare eccezionalmente l’ordinamento giuridico (e, quindi, extra ordinem), in parziale deroga al principio di legalità dell’azione amministrativa che emerge dal combinato disposto degli artt. 23, 97 e 113 Cost. Diverse, invece, le conclusioni sul piano dei prov-vedimenti sindacali di natura ordinaria, sottratti alle limitazioni suddette in quanto non contingibili e urgenti, ma pur sempre atipici, in quanto non disciplinati espressamente da norme di legge; in questo caso, infatti, si sarebbe di fronte ad un paradossale potere ordinario… ma in qualche modo extra ordinem66. Di conseguenza, un potere in qualche modo “libero”, ma anche tendenzialmente stabile, perché non legato ai presupposti emergenziali tipici degli interventi necessitati e temporanei, e che potrebbe assumere dunque le caratteristiche di un atto a contenuto normativo, generale e astratto.

Proprio per evitare tali inammissibili conseguenze, si potrebbe immaginare al-lora che l’inserimento dell’inciso “anche” non sia stato altro che un caso di svista redazionale del legislatore, e considerare sul piano sistematico l’esistenza di un’unica tipologia di provvedimenti sindacali, pur dopo la riforma dell’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000: quelli di natura contingibile e urgente67. La soluzione, pur ispirata alla volontà di superare le problematiche prospettive sopra evidenziate, sembra però for-zare troppo il dato testuale (oltre che le intenzioni del legislatore), non tenendo conto di una modifica espressamente inserita sulla base di un emendamento governativo, volto ad arricchire e a rendere maggiormente flessibile lo strumentario a disposizione del sindaco in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. In questo senso, tra l’altro, sembra andare anche la concreta prassi attuativa e sembra indirizzarsi, pur in maniera problematica, la prima giurisprudenza amministrativa68. Da ultimo, significativamente, tale consapevolezza è stata in qualche modo fatta propria anche

65 Per una ricostruzione delle origini e dell’evoluzione legislativa in materia di ordinanze contingi-bili e urgenti, con particolare riferimento anche agli orientamenti della giurisprudenza, si veda, da ulti-mo, A. Morrone, Le ordinanze di necessità e urgenza, tra storia e diritto, in A. Vignudelli (a cura di), Istituzioni e dinamiche del diritto. I confini mobili della separazione dei poteri, Milano, 2009, p. 133 ss.

66 Sottolinea questo paradosso G. Meloni, Il potere “ordinario” dei sindaci di ordinanze extra ordi-nem, in Aa.Vv., Oltre le ordinanze. I sindaci e la sicurezza urbana, Anci-Cittalia, Roma, 2009, p. 55 ss.

67 In questo senso, ad esempio, A. Pajno, La “sicurezza urbana” tra poteri impliciti e inflazione nor-mativa, in A. Pajno (a cura di), La sicurezza urbana, cit., p. 27 ss., e in particolare p. 30.

68 Si vedano, in particolare, i dati emersi dalla già citata ricerca Anci-Cittalia, dalla quale emerge un utilizzo alquanto variegato e a volte “fantasioso” del potere di ordinanza sindacale in questione, attra-verso la frequente imposizione di obblighi o divieti generalizzati e senza alcuna limitazione territoriale o temporale, in chiave essenzialmente paranormativa. La natura innovativa, sul piano che qui si discute, della legge n. 125/2008 è ora confermata anche da TAR Lazio, Sez. II, sent. n. 12222/2008, secondo cui i poteri oggi attribuiti al sindaco in materia di sicurezza urbana sono non solo straordinari, ma anche

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dalla Corte costituzionale la quale, anche se di sfuggita e nell’ambito di un giudizio di costituzionalità in via principale69, ha espressamente affermato che “tra le maggiori novazioni introdotte […] nella previgente legislazione vi è la possibilità riconosciuta ai sindaci dall’attuale comma 4 dell’art. 54 […] non solo di emanare ordinanze con-tingibili e urgenti, ma anche di adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana”70.

L’unica possibilità, allora, è quella di tentare un’interpretazione che, pur non smentendo il dato letterale innovativo, risulti conforme ai principi costituzionali, e in particolare alla legalità dell’azione amministrativa. In questo senso, però, l’unico tentativo esperibile è quello di una distinzione tra le due tipologie di provvedimenti costruita intorno alle specifiche finalità di ciascuna. Se, infatti, compito generale di tali provvedimenti è quello sia di “prevenire” sia di “eliminare” i più volte citati gravi pe-ricoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, potrebbe ipotizzarsi che, mentre sul piano della prevenzione i provvedimenti generalmente adottabili do-vrebbero essere quelli di natura ordinaria, conseguentemente dotati di una maggiore stabilità71, sul piano specifico dell’eliminazione e del contrasto puntuale ai fenomeni di insicurezza urbana possano trovare applicazione più confacente le ordinanze con-tingibili e urgenti, limitate ad affrontare una specifica situazione di disagio, definita nel tempo e nello spazio. Chiare, sul punto, anche le conseguenze: nel primo caso i provvedimenti del sindaco dovrebbero trovare un limite invalicabile nelle vigenti nor-me di legge e di regolamento (essendone, di fatto, specifica attuazione); nel secondo, con tutte le specificazioni e i limiti già evidenziati, potrebbero anche derogare tempo-raneamente a vigenti disposizioni di legge72.

ordinari, anche al fine di “rispondere, in modo più rapido e flessibile, alla domanda di vita ordinata e socialmente non degradata che le collettività locali rivolgono anzitutto ai loro enti esponenziali”.

69 Cfr. la sent. n. 196/2009, in relazione ad un giudizio promosso dalla Provincia autonoma di Bolzano, a tutela delle competenze in materia di sicurezza riconosciute alla Provincia stessa dallo Statuto speciale del Trentino-Alto Adige.

70 Allo stesso tempo, la Corte ha comunque ricordato che rimane fermo “il sempre possibile con-trollo giurisdizionale, caso per caso, da parte del giudice comune o di questa stessa Corte in sede di conflitto fra gli enti” sulle singole ordinanze adottate. Su tale decisione sia consentito un rinvio a T.F. Giupponi, “Sicurezza urbana” e ordinanze sindacali: un primo (e inevitabilmente parziale) vaglio del Giudice delle leggi, in le Regioni, 2009, p. 1421 ss.

71 Potendo ovviamente esprimersi in interventi inerenti non solo le competenze del sindaco quale ufficiale di Governo, ma anche connessi alle ordinarie competenze di governo dell’ente locale, nell’ot-tica di quella gestione partecipata e condivisa delle politiche della sicurezza intese in senso ampio che in parte sembra trasparire dall’attuale disciplina legislativa. Tale lettura, come vedremo, sembra però in parte scontrarsi con la previsione di un generalizzato potere di intervento sostitutivo (e, sulla base della costante giurisprudenza amministrativa, anche di annullamento) da parte del prefetto, oltre che con l’espressa indicazione della possibilità del Ministro dell’interno di adottare “atti di indirizzo” nei confronti dei sindaci (cfr. l’attuale art. 54, commi 11 e 12, del d.lgs. n. 267/2000).

72 Sul punto, problematicamente, si veda anche quanto sostenuto da A. Morrone, op. cit., p. 181, secondo il quale, però, comune a entrambe le ipotesi sarebbe il presupposto, consistente nell’esistenza “di una situazione di urgente necessità” mentre sarebbe diversa, invece, “la valutazione di questa necessi-tà qualificata in relazione allo scopo […] essendo riferibile, di volta in volta, a casi normali e a casi stra-

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La questione, allora, sembra spostarsi dal piano della configurazione della tipo-logia di provvedimenti adottabili da parte del sindaco a quello, non meno proble-matico, dell’individuazione legislativa degli ambiti di intervento e dei conseguenti limiti all’esercizio di tali rinnovati poteri (anche ordinari) in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. È, ancora una volta, il principio di legalità dell’azione amministrativa che deve orientare le nostre riflessioni, a partire dalle definizioni di “incolumità pubblica” e “sicurezza urbana”. Da questo punto di vista il dibattito, con particolare riferimento all’innovativo concetto di “sicurezza urbana”, sembra es-sere stato altrettanto vivace, essendosi però sostanzialmente incentrato attorno a due letture differenti: a) sicurezza urbana come parte dell’ordine pubblico73; b) sicurezza urbana come intreccio e punto di coordinamento tra competenze diverse, statali e non statali, volto non solo alla prevenzione e repressione criminale, ma anche alla promozione e coesione sociale74.

Dal primo punto di vista, a ben vedere, i nuovi poteri del sindaco in materia di sicurezza urbana non sarebbero altro che una specificazione, sul piano dell’ammini-strazione locale, della già citata competenza legislativa statale in materia di ordine e sicurezza pubblica (art. 117, comma 2, lett. h, Cost.). Per tali motivi, e coeren-temente, il legislatore statale avrebbe riconosciuto al sindaco un ruolo in qualità di ufficiale del Governo, e non come rappresentante della comunità locale; sempre in quest’ottica, dunque, andrebbero letti i rapporti del sindaco con il prefetto nonché il potere del Ministro di adottare atti di indirizzo nei confronti dei sindaci. Nell’ambito dell’esercizio di una competenza amministrativa che, per le sue peculiarità, richiede comunque un esercizio unitario, pur articolandosi sul territorio, tali forme di coordi-namento e vigilanza appaiono infatti del tutto coerenti con l’intento di evitare ecces-sive difformità di azione sul territorio nazionale. In quest’ottica, dunque, il sindaco andrebbe a qualificarsi come vera e propria Autorità locale di pubblica sicurezza, assumendo un ruolo centrale nell’organizzazione e nel coordinamento sul territorio delle connesse politiche75.

ordinari”. Proprio l’urgenza o meno dell’intervento, invece, sembra a chi scrive dover essere valorizzata quale elemento di distinzione tra le due differenti tipologie di provvedimenti.

73 Cfr. G. Caia, L’amministrazione della pubblica sicurezza e le forze di polizia: l’assetto delle com-petenze ed il coordinamento in relazione ai recenti interventi normativi, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti della sicurezza urbana dopo la legge 24 luglio 2008, n. 125 ed il decreto del Ministro dell’interno, Bologna, 2009, p. 77 ss.

74 Così, in particolare, L. Vandelli, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica nel nuovo art. 54 del TUEL, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti della sicurezza urbana dopo la legge 24 luglio 2008, n. 125 ed il decreto del Ministro dell’interno, cit., p. 51 ss.; nonché A. Pajno, op. cit., p. 19 ss.

75 Significativo, in questo senso, è quanto previsto dall’art. 54, comma 2, del d.lgs. n. 267/2000, in base al quale “il sindaco […] concorre ad assicurare anche la cooperazione della polizia locale con le forze di polizia statali, nell’ambito delle direttive di coordinamento impartite dal Ministro dell’in-terno – Autorità nazionale di pubblica sicurezza”. Sul punto, vedi anche la scelta di un potenziamento del già citato strumento dei piani coordinati di controllo del territorio (di cui all’art. 17 della legge n. 128/2001), ora espressamente estesi alla determinazione “dei rapporti di reciproca collaborazione fra i contingenti di personale della polizia municipale e provinciale e gli organi di polizia dello Stato” anche

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Una tale ricostruzione, però, presta il fianco alle obiezioni fondate sul rispetto, ancora una volta, del principio di legalità dell’azione amministrativa, anche in re-lazione a funzioni che, fondamentali o conferite a livello locale che siano, devono trovare comunque nella legge la loro fonte di disciplina e generale organizzazione (artt. 117 e 118 Cost.)76. Legge che, invece, nel caso specifico appare come una sorta di pagina bianca, rimettendo completamente ad un decreto ministeriale l’indicazio-ne degli ambiti di intervento del sindaco in materia di sicurezza urbana77, in assenza della garanzia di un’efficace gestione sul territorio degli inevitabili profili di unitarietà che devono caratterizzare le funzioni di ordine pubblico e sicurezza, potenzialmente incidenti sui diritti fondamentali dei singoli individui (anche alla luce del rispetto del generale principio di eguaglianza)78.

Secondo altri, invece, per sicurezza urbana non dovrebbe intendersi una vera e propria materia, quanto piuttosto una finalità da perseguire nell’intreccio di diverse funzioni pubbliche, non solo statali ma anche di competenza delle autonomie terri-toriali. La stessa definizione proposta dal d.m. del 5 agosto 2008 sembra offrire spun-ti in questo senso, laddove si fa riferimento alla necessità di “migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”. Tali finalità, infatti, non risultano certo il proprium del concetto classico di ordine pubblico (ma-teria di consolidata competenza statale), ma evocano anche tradizionali competen-ze di governo delle realtà territoriali, quali i servizi sociali, l’assistenza sanitaria o l’urbanistica, in cui vige (tra l’altro) una competenza legislativa regionale residuale, analogamente a quanto accade in materia di polizia amministrativa locale79. Una

nell’ambito di specifiche esigenze di comuni “diversi da quelli dei maggiori centri urbani” (cfr. l’art. 7 della legge n. 125/2008, che rinvia ad un apposito d.m. l’indicazione delle procedure operative).

76 Così, in particolare, A. Pajno, op. cit., p. 15 ss., il quale sottolinea come anche le già citate forme di coordinamento sul piano amministrativo tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza devono essere individuate con “legge statale” (cfr. l’art. 118, terzo 3, Cost.).

77 Decreto che, come in parte già accennato, di poco sembra poter orientare l’interprete, limitan-dosi a prevedere, più dal punto di vista teleologico che sul piano oggettivo, alcune specifiche azioni volte a prevenire e contrastare: 1) le situazioni urbane di degrado e isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi; 2) le situazioni di danneggiamento al patrimonio pubblico e privato; 3) l’incuria, il degrado e l’occupazione abusive di immobili; 4) le situazioni di intralcio alla pubblica viabilità o con-trarie al decoro urbano; 5) i comportamenti che possono recare offesa alla pubblica decenza o turbare il libero utilizzo degli spazi pubblici (cfr. l’art. 2 del d.m. del 5 agosto 2008).

78 Si interrogano, in particolare, sulla possibile incidenza di tali nuovi poteri di ordinanza sulle situazioni giuridiche soggettive dei singoli P. Cavaleri, Diritti fondamentali e ordinanze dei sindaci, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Napoli, 2009, p. 939 ss.; nonché, problematicamente, C. Caruso, Da Nottingham a La Mancha: l’odissea dei sindaci nell’arcipelago dei diritti costituzionali, in le Regioni, 2010, p. 15 ss.

79 Sul punto si vedano le osservazioni di L. Vandelli, op. cit., p. 60 ss., il quale sottolinea come risulti improprio il riferimento, nel preambolo del d.m., alla necessità di assicurare “uniformità su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali fondamen-tali” in relazione all’esercizio di una competenza esclusiva statale, quale quella in materia di ordine pub-blico e sicurezza. I livelli essenziali, infatti, “sono assicurati comunque, in ogni materia dell’ordinamento […]: la materia può essere anche pienamente regionale, ma i livelli essenziali sono comunque stabiliti

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concezione, dunque, che all’idea di una tutela di interessi pubblici primari80, sembra affiancare quella di una promozione della complessiva qualità della vita e dei servizi all’interno dei centri urbani, nell’ambito dei un esercizio coordinato delle diverse competenze di governo regionale e locale.

Anche tale visione, però, si presta ad alcune obiezioni. Se, infatti, sul piano della legalità dell’azione amministrativa, in questa prospettiva, il riferimento del d.m. alle attività poste a difesa “del rispetto delle norme che regolano la vita civile” sembra in parte poter recuperare a fondamento di tali rinnovati poteri sindacali tutta la discipli-na, a partire da quella legislativa e per finire a quella regolamentare, rilevante nell’am-bito del già citato intreccio funzionale di competenze (risultando in qualche modo “riempita” quella pagina bianca che prima veniva evidenziata)81, non altrettanto coe-rente con tale visione sembra essere la già citata disciplina concernente i rapporti tra sindaco, prefetto e Ministro dell’interno. Se, infatti, nell’ambito dell’esercizio di una competenza sostanzialmente attinente ai profili dell’ordine pubblico e della sicurezza tale assetto appare in qualche modo coerente, valorizzando invece un’interpretazione funzionalista del concetto di “sicurezza urbana” i poteri sostitutivi o di indirizzo già citati appaiono in qualche modo da rileggere (essendo, ad esempio, difficile imma-ginare profili di supremazia gerarchica tra prefetto e sindaco quando questi agisce in qualità di responsabile dell’ente territoriale e nell’esercizio di competenze locali)82.

Sul punto, da ultimo, la Corte costituzionale sembra però aver valorizzato la pri-ma delle citate prospettive. Seppure nell’ambito di quello che sembra un mero obiter dictum, e relativamente ad un conflitto di attribuzione sollevato dalla Provincia au-tonoma di Bolzano, nella già citata sent. n. 196/2009 la Corte ha affermato chiara-mente che, alla luce della legge n. 125/2008 e del d.m. del 5 agosto 2008, “i poteri esercitabili dai sindaci, ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati, e non i poteri concernenti lo svolgimento di funzioni di polizia amministrati-va”, facendo la norma espressamente riferimento alle competenze statali di cui all’art. 117, comma 2, lett. h), Cost. Il tutto, in ogni caso, a prescindere da una “valutazione del merito del decreto impugnato e in particolare dal profilo concernente l’ampiezza della definizione del concetto di sicurezza urbana in relazione ai suoi potenziali rifles-si sulla sfera di libertà delle persone”83.

dallo Stato”. Una malcelata consapevolezza del Ministro di incidere anche su materie diverse dall’ordine pubblico, pur ricomprese nel concetto di “sicurezza urbana”?

80 Tradizionale campo operativo delle classiche funzioni di ordine pubblico e sicurezza (cfr. il già citato art. 159 del d.lgs. n. 112/1998).

81 Così, in particolare, L. Vandelli, op. cit., p. 68.82 Anche G. Caia, op. cit., p. 93, sottolinea la peculiarità di un sindaco quale figura “non paritaria

rispetto al prefetto, temperata dalla circostanza che […] cumula in sé una doppia funzione di ammi-nistratore locale e di organo statale, realizzando una vera unione reale (e personale) di uffici”, leggendo però tali rapporti alla luce della necessaria garanzia di forme di coordinamento in tale delicato settore.

83 Secondo la Corte, infatti, “in questa sede […] il sindacato che la Corte è chiamata a svolgere è circoscritto al profilo concernente l’area delle competenze dello Stato e della Provincia autonoma e alla verifica di un’eventuale menomazione di queste ultime da parte del provvedimento impugnato”. In ogni

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Pur nella consapevolezza delle problematiche già evidenziate, che dal punto di vista istituzionale e organizzativo sembrano configurare la “sicurezza urbana” come una sorta di sicurezza pubblica minore84, sembra invece possibile accedere ad una sua diversa interpretazione, valorizzando una lettura sistematica della nuova disci-plina legislativa, in coerenza con le funzioni e le competenze riconosciute ai diversi livelli di governo dopo la riforma del Titolo V del 2001, e alla luce delle specifiche finalità evidenziate dallo stesso d.m. del 5 agosto 2008, con particolare riferimento al miglioramento delle condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale. Ci si riferisce, in particolare, ad una lettura che, in relazione alla sicurezza urbana, metta insieme sicurezza in senso “stretto” e sicurezza in senso “lato”, valorizzando le specifiche finalità delle diverse funzioni e competenze coin-volte da tale sintetica nozione, e nell’ambito dell’indispensabile individuazione delle necessarie forme di coordinamento tra i diversi livelli di governo.

Tutto ciò, ancora una volta, non fa che rendere ancora più evidente la necessità di una rapida individuazione, da un lato, delle funzioni fondamentali degli enti locali e, dall’altro, delle forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza. Con tali provvedimenti, infatti, si potrà trovare il giusto equi-librio tra esigenze di prevenzione e repressione criminale, in cui un ruolo centrale da parte dell’amministrazione statale è innegabile e anzi necessaria e dovuta alla luce del dettato costituzionale (pur nelle necessarie forme di coordinamento operativo a livel-lo locale); e gestione delle politiche di inclusione e coesione sociale, in cui un ruolo centrale è invece rivestito dai livelli di governo regionali e locali, pur nell’ambito di una tutela dei livelli essenziali delle prestazioni che deve essere garantita in modo uniforme su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m, Cost.).

4. Le dimensioni costituzionali della sicurezza, tra esigenze di unifor-mità e sistema delle autonomie. La giurisprudenza costituzionale

Come in parte già anticipato, la giurisprudenza costituzionale in materia di sicurezza è apparsa a lungo ferma nel distinguere l’area della sicurezza in senso “stretto”, con particolare riferimento alla prevenzione e repressione dei reati, dai diversi ambiti di intervento (statali, regionali e locali) in materia di polizia amministrativa e di sicurezza in senso “lato”. Tale impostazione, a ben vedere, sembra sostanzialmente

caso, continua la Corte, “il rispetto del confine nei vari casi e ambiti potrà essere oggetto di controlli giurisdizionali ad opera del giudice comune o di questa stessa Corte in sede di conflitto fra gli enti”. Sul punto, da ultimo, vedi TAR Veneto, Sez. III, ord. n. 40/2010, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale in merito all’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 per violazione, tra l’altro, dei “li-miti costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità enucleabili dagli artt. 23, 70, 76, 77, 97 e 117 della Costituzione”, oltre che degli “artt. 3, 23 e 97 della Costituzione quali norme che costituiscono il fondamento costituzionale delle libertà individuali e del principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative”.

84 Così, espressamente, A. Pajno, op. cit., p. 33 ss.

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confermata anche dopo la revisione costituzionale del Titolo V del 2001, la quale ha rappresentato l’ingresso in Costituzione della stessa categoria dell’ordine pubblico.

Particolarmente rilevante, in questo senso, la nota sent. 407/200285, con cui la Corte ha chiaramente affermato che la nozione di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, comma 2, lett. h), Cost. “è da configurare, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale, come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordi-ne pubblico”, e questo anche alla luce di quello che viene definito un tradizionale indirizzo della stessa giurisprudenza costituzionale in materia di sicurezza pubblica. Appare conseguentemente escluso che tale nozione possa invece assumere “una por-tata estensiva, in quanto distinta dall’ordine pubblico, o collegata con la tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro e così via”86.

Tuttavia, più di recente, la giurisprudenza della Corte sembra aver sposato una concezione in parte diversa della competenza legislativa statale in materia di ordine pubblico e sicurezza. I primi segni di tale percorso, in realtà, possono essere colti fin dalla sent. n. 428/2004, in materia di disciplina statale della circolazione stradale87. In quella occasione, infatti, la Corte ha ritenuto di individuare, sulla base di argo-mentazioni di tipo sistematico, una sorta di competenza esclusiva statale “innomina-ta”, in quanto riconducibile a diverse competenze esclusive espresse. Tra queste, come noto, anche quella in materia di ordine pubblico e sicurezza, sulla base dell’esigenza di assicurare l’incolumità delle persone coinvolte nella circolazione e di prevenire i connessi reati ipotizzabili88. Evidente, in questo senso, il rilievo centrale assunto dall’incolumità delle persone che, come noto, può però essere messa in discussione anche al di fuori del tradizionale ambito di intervento relativo alla prevenzione e repressione dei reati89.

85 Relativa, come noto, ad alcune disposizioni della legge n. 19/2001 della Regione Lombardia, in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti.

86 Emerge, in ogni caso, la consapevolezza di un utilizzo del termine da parte della legislazione, ma anche della stessa giurisprudenza costituzionale, non sempre coerente, se è vero che lo stesso Giudice delle leggi premette che ai fini del giudizio in questione “non sembra […] necessario […] accertare, in una prospettiva generale, se nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale la nozione di sicu-rezza pubblica assuma un significato restrittivo […] o invece assuma una portata estensiva”. In senso sostanzialmente conforme, però, si vedano anche le successive sentt. nn. 6/2004, 162/2004, 95/2005, 383/2005, 129/2009, 196/2009, 72/2010, 167/2010, 226/2010, 274/2010.

87 Cfr. la legge n. 214/2003, di modifica del Codice della strada, impugnata dalla Provincia auto-noma di Bolzano.

88 Cfr., in questo senso, le affermazioni della Corte, che sottolinea la “strutturale pericolosità dei veicoli a motore”. Dunque, “in quanto funzionale alla tutela dell’incolumità personale, la disciplina del-la circolazione stradale mira senza dubbio a prevenire una serie di reati ad essa collegati, come l’omicidio colposo e le lesioni colpose”.

89 Solo qualche mese prima, come abbiamo già ricordato, la stessa Corte aveva invece escluso che, in materia di “sicurezza dell’approvvigionamento di energia elettrica”, potessero porsi problemi di ordi-ne pubblico e sicurezza, richiamando solo la possibilità di un intervento sostitutivo, ex art. 120 Cost., in relazione all’esistenza di eventuali gravi pericoli per l’incolumità e la sicurezza pubblica (cfr. la sent. n. 6/2004).

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In maniera ancora più evidente, nella successiva sent. n. 222/2006, in relazione all’allora vigente regolamentazione statale del possesso di razze canine pericolose90, la Corte ritiene che tale disciplina sia stata adottata “per fronteggiare evenienze in-volgenti interessi strettamente collegati alla difesa della sicurezza pubblica e, alla luce di tale finalizzazione […], in base al criterio della prevalenza deve essere ricondotta alla materia ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, comma 2, lettera h), della Costituzione, di competenza esclusiva dello Stato”91. E questo alla luce della consi-derazione in base alla quale, “in quanto funzionale alla salvaguardia dell’incolumità pubblica dal rischio di aggressione da parte di animali addestrati all’aggressività, la disciplina mira a prevenire reati contro la persona”.

Analogo ragionamento, a ben vedere, è al centro della quasi coeva sent. n. 237/2006, relativa ad alcune disposizioni di una legge provinciale in materia di in-stallazione di macchine da gioco all’interno degli esercizi pubblici92. La previsione di limitazioni alla loro installazione, infatti, secondo la Corte non attiene alla disci-plina dei pubblici esercizi, dal momento che “anche la disciplina relativa al numero massimo di apparecchi che possono essere installati in un determinato esercizio non attiene tanto alla sicurezza riferita allo svolgimento dell’attività da parte degli eser-centi di un pubblico servizio”, ma rientra nella materia ordine pubblico e sicurezza. Tutto ciò, “considerati i caratteri dei giochi cui sono predisposte tali apparecchiature (aleatorietà e possibilità di vincite, seppur modeste, in denaro), la conseguente forte capacità di attrazione e concentrazione di utenti e l’altrettanto elevata probabilità di usi illegali degli apparecchi medesimi”. Come è stato sottolineato, da tale ultima giurisprudenza emerge la progressiva capacità di penetrazione della potestà legislativa statale in materia di ordine pubblico e sicurezza nei confronti di ambiti materiali potenzialmente riconducibili alla competenza legislativa regionale, sulla scia del con-solidato modello delle c.d. competenze trasversali93.

Successivamente, con la sent. n 51/2008, in materia di “sicurezza aeroportuale”, la Corte ha riconosciuto che le impugnate norme statali relative alla “sicurezza dei passeggeri e degli operatori in ambito aeroportuale” rientrano nell’ambito di una pluralità di materie di sua competenza esclusiva, quali “sicurezza dello Stato”, “ordine pubblico”, ma anche “protezione dei confini nazionali”. Pertanto, non può essere evocata dalle Regioni alcuna competenza in materia, nemmeno nell’ambito della legislazione concorrente su “porti e aeroporti civili”94. In senso sostanzialmente ana-

90 Cfr. l’ordinanza del Ministro della salute del 9 settembre 2003.91 E non, come prospettato, alla differente competenza concorrente in materia di tutela della salute,

ex art. 117, comma 3, Cost.92 Cfr. gli artt. 12 e 13 della legge n. 3/2005 della Provincia autonoma di Trento.93 Così, in particolare, P. Bonetti, La giurisprudenza costituzionale sulla materia “sicurezza” confer-

ma la penetrazione statale nelle materie di potestà legislativa regionale, in le Regioni, 2007, p. 124 ss., con particolare riferimento alle connessioni con la materia “ordinamento penale”.

94 Si trattava, in ogni caso, di disposizioni da emanarsi mediante decreto ministeriale, e relative al controllo dei bagagli e dei passeggeri, alla ripartizione di tali attività fra gestori aeroportuali e vettori, nonché inerenti alla determinazione degli importi dovuti all’erario dai concessionari dei servizi esistenti in ambito aeroportuale e di quelli posti a carico dell’utenza (art. 11-duodecies della legge n. 248/2005).

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logo sembra andare anche la sent. n. 18/2009, in materia di disciplina regionale delle procedure di assegnazione delle bande orarie di trasporto aereo e del rilascio delle connesse concessioni aeroportuali95, in cui il Giudice delle leggi ha escluso ogni pos-sibile riconduzione di tale intervento alla competenza legislativa concorrente “porti e aeroporti civili”96. Secondo la Corte, infatti, “la disciplina dell’assegnazione delle bande orarie negli aeroporti […] risponde, da un lato, ad esigenze di sicurezza del traffico aereo, e, dall’altro, ad esigenze di tutela della concorrenza, le quali corrispon-dono ad ambiti di competenza esclusiva dello Stato”.

L’analisi, pur rapida, di tali decisioni conferma la progressiva estensione della no-zione di sicurezza, oltre i confini dell’originaria lettura restrittiva operata dalla Corte (attività di prevenzione e repressione dei reati). Il riferimento alla più generale ca-tegoria dell’incolumità delle persone, infatti, può aprire prospettive potenzialmente espansive alla legislazione statale esclusiva, in grado di incidere su ogni competenza legislativa regionale in grado di intervenire in settori potenzialmente esposti a rischi. Questa tendenza, accanto all’utilizzo del criterio della prevalenza o della concorrenza tra diverse potestà legislative (statali e regionali), ci consegna i tratti di una com-petenza statale mai espressamente definita come trasversale, ma di fatto dotata di rilevanti possibilità di incidenza.

Forse anche per questo, da ultimo, la Corte sembra aver definitivamente abban-donato la sua originaria impostazione. Con la sent. n. 21/2010, infatti, il Giudice delle leggi ha per la prima volta, ed espressamente, affermato che “la materia della sicurezza, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lettera h), Cost., […] non si esaurisce nell’adozione di misure relative alla prevenzione e repressione dei reati, ma compren-de la tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone, e quindi la salvaguar-dia di un bene che abbisogna di una regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale”97.

Forse consapevole della sostanziale svolta98, i giudici costituzionali cercano in qualche modo di ricondurre ad unità la loro pregressa giurisprudenza, anche se con evidenti difficoltà, ricordando che “la giurisprudenza di questa Corte […] ha chiarito che la materia sicurezza, di cui all’art. 117, comma 2, lettera h), Cost., riguarda gli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubbli-co. Ma ha anche precisato che rientrano in tale ambito di competenza esclusiva dello

95 Cfr. la legge n. 29/20097 della Regione Lombardia.96 “La legge regionale impugnata nel presente giudizio, pur riguardando sotto un profilo limitato

ed in modo indiretto gli aeroporti, non può essere ricondotta alla materia porti e aeroporti civili, di competenza regionale concorrente. Tale materia […] riguarda le infrastrutture e la loro collocazione sul territorio regionale, mentre la normativa impugnata attiene all’organizzazione ed all’uso dello spazio aereo, peraltro in una prospettiva di coordinamento fra più sistemi aeroportuali”.

97 Per un primo commento a tale importante decisione, sia consentito un rinvio a T.F. Giupponi, Nascita e trasfigurazione di una materia trasversale: il caso della “sicurezza”, in corso di pubblicazione in le Regioni, 2010, n. 5.

98 Ancora più evidente, a ben vedere, se si pensa che solo qualche mese prima aveva ribadito la tradizionale lettura della sicurezza quale ambito connesso alla prevenzione e repressione dei reati (cfr. le già citate sentt. nn. 129/2009 e 196/2009).

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Tommaso F. Giupponi

Stato la definizione delle attività necessarie a garantire la sicurezza aeroportuale rela-tiva al controllo bagagli e passeggeri (sentenza n. 51 del 2008) e la disciplina dell’as-segnazione delle bande orarie negli aeroporti coordinati (sentenza n. 18 del 2009)”.

La disposizione statale in questione, impugnata sul punto dalla Regione Emilia-Romagna, prevede una disciplina generale in materia di installazione, manutenzione e gestione degli impianti relativi agli edifici, nell’ambito di un complessivo riordi-no della relative normative tecniche, rinviato a successivi decreti interministeriali99. Secondo la Corte, tale disciplina “attenendo a profili di sicurezza delle costruzioni, collegati ad aspetti di pubblica incolumità” è conseguentemente riconducibile alla materia della sicurezza, di cui all’art. 117, comma 2, lett. h), Cost., escludendo quin-di ogni possibile spazio di intervento legislativo in capo alle Regioni100. È possibile che, sul punto, abbia influito la particolare natura delle norme in materia di sicurezza degli impianti all’interno degli edifici; tuttavia il principio affermato appare partico-larmente rilevante.

Secondo la decisione da ultimo evidenziata, infatti, la sicurezza sembra assumere (di fatto) le caratteristiche riconosciute dalla Corte alle già citate materie c.d. tra-sversali, pur senza che ciò venga espressamente evidenziato. In questo senso, appare ormai evidente come la Corte identifichi nella sicurezza non più un determinato ambito materiale di intervento statale, sostanzialmente delimitato alla sfera delle pre-venzione e repressione dei reati, quanto una più complessiva finalità connessa alla tutela dell’incolumità delle persone su tutto il territorio nazionale, a prescindere dalle attività e dai settori rilevanti. Tale “interesse generale”, infatti, abbisogna di una disci-plina uniforme su tutto il territorio nazionale, motivo per cui non può essere messo in discussione dal riconoscimento dei diversi ambiti di competenza materiale su cui può incidere il sistema delle autonomie territoriali.

A differenza dei casi relativi alle decisioni citate in precedenza, inoltre, in questa occasione la Corte costituzionale non ha tentato nemmeno di ricondurre l’intervento legislativo statale impugnato alla materia “ordine pubblico e sicurezza” intesa quale “prevenzione e repressione dei reati”101, magari utilizzata congiuntamente ad altre materie di competenza statale esclusiva102. Dunque, sembrerebbe affacciarsi all’oriz-zonte una sorta di dissociazione tra i termini “ordine pubblico” e “sicurezza”, utilizza-

99 Cfr. l’art. 35, comma 1, della legge n. 133/2008: “Entro il 31 dicembre 2008 il Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, emana uno o più decreti, ai sensi dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, volti a disciplinare: a) il complesso delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all’interno degli edifici prevedendo semplificazioni di adempimenti per i proprietari di abitazioni ad uso privato e per le imprese; b) la definizione di un reale sistema di verifiche di impianti di cui alla lettera a) con l’obiettivo primario di tutelare gli utilizzatori degli impianti garantendo una effettiva sicurezza; c) la revisione della disciplina sanzionatoria in caso di violazioni di obblighi stabiliti dai provvedimenti previsti alle lettere a) e b)”.

100 Come, ad esempio, il governo del territorio e la tutela della salute, espressamente invocate dalla Regione ricorrente.

101 Come avvenuto nei casi decisi con le già citate sentt. nn. 428/2004, 222/2006 e 237/2006.102 Come nei casi di cui alle già citate sentt. nn. 51/2008 e 19/2009, in materia di “sicurezza aero-

portuale”.

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ti dall’art. 117, comma 2, lett. h), Cost., costantemente considerati dalla precedente giurisprudenza costituzionale come una sorta di endiadi. Accanto alla tradizionale concezione dell’ordine pubblico quale attività di prevenzione e repressione dei reati, compare ora una concezione della sicurezza quale “tutela dell’interesse generale alla incolumità delle persone, e quindi […] salvaguardia di un bene che abbisogna di una regolamentazione uniforme su tutto il territorio nazionale”.

Tuttavia, anche se rispetto alla consolidata interpretazione restrittiva più volte citata era già ipotizzabile un funzionamento dell’ordine pubblico e della sicurez-za secondo i canoni delle c.d. materie trasversali (con particolare riferimento alla loro stretta connessione con un’altra competenza esclusiva trasversale, quale quella in materia di ordinamento penale), con l’ultima decisione citata le potenzialità di incidenza della legislazione statale sulle competenze legislative regionali ne escono significativamente ampliate. Basti solo pensare a quante attività possano essere consi-derate potenzialmente pericolose, tali da mettere a rischio l’incolumità delle persone, ben oltre il campo della eccezionale previsione di fattispecie penali in relazione alle condotte considerate più gravemente antisociali.

Successivamente a tale importante decisione, però, non sono mancate altre prese di posizione da parte della Corte che, ignorando la quasi coeva sent. n. 21/2010, appaiono ancora chiaramente ispirate alla precedente interpretazione restrittiva in materia di sicurezza103; è dunque possibile che, sul punto, abbia influito la particolare natura delle norme in materia di sicurezza degli impianti all’interno degli edifici, che la stessa Corte definisce come norme tecniche, inevitabilmente dettagliate.

Si rende ancora più evidente, allora, la necessità di formalizzare le necessarie for-me di coordinamento in materia, a partire dall’attuazione di quanto previsto dall’art. 118, comma 3, Cost., anche per evitare che una questione così delicata possa essere lasciata al naturale, occasionale e mutevole comporsi sul piano politico dei diversi interessi in gioco, attraverso meccanismi consensuali o di intesa che la stessa giuri-sprudenza della Corte successiva alla riforma del Titolo V ha sicuramente in parte valorizzato, ma che, non adeguatamente disciplinati, rischiano di non poter garantire appieno la tutela di quell’interesse generale all’incolumità delle persone che, a detta della Corte, richiede una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale.

103 Cfr. le già citate sentt. nn. 72/2010, 167/2010, 226/2010, 274/2010.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza e ruolo della polizia locale

Luca Mezzetti

Introduzione

Il moltiplicarsi dei fenomeni patogeni capaci di produrre violazioni – di varia gravità – dell’ordine pubblico e della sicurezza impone, alla luce delle diverse dimensioni che tali beni-valori fondamentali assumono (internazionale, statale, locale), un ripensa-mento degli strumenti più efficaci ai fini della realizzazione delle azioni di contrasto nei confronti dei fenomeni medesimi, condotto sulla base dei criteri di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza e avuto riguardo alla disponibilità di risorse, cono-scenze e competenze da parte degli enti territoriali (regioni ed enti locali) che non ne escludono un ruolo attivo su entrambi i versanti considerati. Tale individuazione non può prescindere dalla riconsiderazione delle materie di competenza legislativa e amministrativa statale nell’ottica di apparente e superata esclusività che in alcuni casi sembra caratterizzarle (è il caso dell’ordine pubblico e della sicurezza) e dalla identificazione di ambiti operativi riferibili a corpi di polizia diversi da quelli tradi-zionalmente coincidenti con quelli nazionali.

1. La polizia locale nel d.p.r. 616/1977 e nella legge quadro 65/1986

L’analisi delle problematiche giuridiche ed istituzionali attinenti al ruolo e alle fun-zioni che la polizia locale svolge, non può prescindere dalla pur succinta ricostruzio-ne storica del contesto normativo di esplicazione del ruolo e delle funzioni medesime e dalla individuazione delle luci e delle ombre che caratterizzavano (e caratterizzano) la legislazione in materia.

Infatti, a fronte della chiara attribuzione alle Regioni ordinarie della potestà le-gislativa concorrente in materia di polizia locale urbana e rurale che veniva operata dall’art. 117 della Costituzione nel testo vigente anteriormente alla revisione costitu-zionale del 2001 (cui si accompagnava il disposto del successivo art. 118 che – pari-menti secondo il vecchio testo – instaurava il principio del parallelismo amministra-tivo rispetto alle materie oggetto di competenza legislativa regionale di tipo ripartito, fatte salve quelle di interesse esclusivamente locale che potevano essere attribuite dal-

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le leggi della Repubblica ai Comuni, alle Province e ad altri enti locali), elementi di incertezza e di confusione erano stati originariamente apportati dal D.P.R. 616/1977 di trasferimento e delega di funzioni amministrative statali alle Regioni e agli enti locali minori, nonché successivamente dalla l. 7 marzo 1986, n. 65, legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale.

L’art. 4 del decreto presidenziale da ultimo citato riservava allo Stato le funzioni, anche nelle materie trasferite o delegate, attinenti, fra l’altro, alla pubblica sicurezza; l’art. 9 del decreto medesimo, d’altra parte, attribuiva ai Comuni, alle Province, alle Comunità montane ed alle Regioni la titolarità delle funzioni di polizia amministrati-va nelle materie ad essi rispettivamente attribuite o trasferite e conferiva alle Regioni le funzioni di polizia amministrativa esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato nelle materie nelle quali era delegato alle Regioni l’esercizio di funzioni ammi-nistrative dello Stato e degli enti pubblici. Le due norme ora richiamate – giova fin d’ora sottolinearlo – si astenevano dal fornire elementi ricostruttivi utili ai fini del-la delineazione della nozione di polizia amministrativa, soprattutto con riferimento al rapporto concettuale e contenutistico che la nozione medesima intrattiene con quella di polizia locale, nonché ai fini della individuazione della nozione di polizia di sicurezza.

Nel contesto descritto, un contributo di chiarificazione e di razionalizzazione non poteva ascriversi all’art. 18, recante la rubrica “Polizia locale urbana e rurale”, che parimenti non concorre alla identificazione delle due nozioni in precedenza richia-mate limitandosi, utilizzando un criterio definitorio meramente residuale e negativo, a riconoscere le funzioni amministrative relative alla materia “polizia locale urbana e rurale” in quelle che concernono le attività di polizia svolgentisi esclusivamente nell’ambito del territorio comunale e che non siano proprie delle competenti auto-rità statali. Analoghe riflessioni possono condursi in merito al successivo art. 19, che attribuiva ai Comuni una serie di funzioni contemplate dal testo unico di pubblica sicurezza (R.D. 8 giugno 1931, n. 773 e successive modificazioni), nonché relativa-mente all’art. 20, che si cura di sottolineare come resti comunque ferma la facoltà degli ufficiali ed agenti di polizia di pubblica sicurezza di accedere in qualunque ora ai locali destinati all’esercizio di attività soggette ad autorizzazione di polizia a norma dell’art. 19 dello stesso D.P.R. 616/1977, al fine di vigilare sull’osservanza delle pre-scrizioni imposte da leggi o regolamenti dello Stato, delle Regioni e degli enti locali.

Le ragioni del disorientamento che coglie l’interprete che si accinga al tentativo di sistematizzazione del quadro descritto risiedono principalmente, come si è in pre-cedenza anticipato, nella mancata concretizzazione, in sede normativa, di nozioni oggetto da parte della dottrina di indagine approfondita e di definizione sufficiente-mente appagante – almeno in termini generali e avuto riguardo al momento storico della loro elaborazione – nonché nella mancata, conseguente e razionale allocazione da parte del legislatore di poteri e funzioni ai soggetti dello Stato-ordinamento di segmenti omogenei delle sfere in oggetto.

A ben vedere, tuttavia, collocandoci in una dimensione che non intenda esse-re antistorica e che al contrario si rapporti alla realtà quotidianamente inverantesi

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Luca Mezzetti

nell’ambito delle comunità locali, non si può non rilevare come le stesse definizioni concettuali invalse in sede dottrinale risultino oggi insoddisfacenti e inattuali.

Quanto osservato vale sia sul versante della differenziazione fra nozione di polizia di sicurezza e nozione di polizia amministrativa che sul versante della identificazione del contenuto della nozione di polizia locale.

Inaccettabile, da una parte, appare il rigido parallelismo che si vuole instaurare fra polizia di sicurezza – intesa quale attività volta a vigilare sulla preservazione dell’ordi-ne pubblico, cioè dell’ordine sociale così come risulta fissato dal diritto contro ogni trasgressione e ogni turbamento realizzato mediante forme di violenza, sulla sicurezza fisica delle persone, vale a dire sulla loro incolumità, sul rispetto della proprietà con-tro i pericoli derivanti da ogni comportamento illecito o imprudente di singoli o di gruppi, adottando i provvedimenti e le misure (preventivi e repressivi) previsti dalla legge – e autorità di pubblica sicurezza, cui dovrebbe considerarsi riservato il mono-polio nell’esercizio dell’attività medesima. Carattere residuale si intende conferire in quest’ottica, d’altra parte, alla nozione di polizia amministrativa, ove la si identifica con l’attività volta a tutelare la collettività contro i pericoli e le turbative specifiche che minacciano la collettività in particolari settori della vita sociale e se ne relaziona il numero delle relative branche ai servizi ed ai beni che nell’interesse della collettività richiedono una apposita tutela.

Parimenti, i tentativi delle posizioni dottrinali che si sono esercitate nella defi-nizione del termine polizia locale (urbana e rurale) non sembrano essere pervenuti a risultati pienamente condivisibili e sufficientemente appaganti, ciò sia nel caso della definizione in senso verticale che in senso istituzionale del termine medesimo.

Solo parzialmente ammissibile appare infatti la prima delle prospettive configura-te, che riconduce la riferibilità dell’espressione locale al solo aspetto territoriale, con la conseguenza che la polizia locale (urbana e rurale) sarebbe preordinata alla tutela degli stessi beni di incolumità e sicurezza pubblica che proprio la polizia di sicurezza è intesa a garantire, rispetto alla quale polizia di sicurezza, quella locale (urbana e ru-rale) si porrebbe su un piano di dettaglio, di disciplina di aspetti particolari, di feno-meni ritenuti capaci di realizzare, al contempo, fattispecie inquadrabili nelle norme statali di pubblica sicurezza ed in queste ultime suscettibili di risolversi totalmente ove assurgano ad un livello tale che l’esigenza inalienabile dello Stato alla sicurezza ed incolumità pubblica in ogni parte del suo territorio tenda ad assorbirne i riflessi più localizzati.

Un utile criterio discretivo non sembra parimenti desumibile dal diverso orienta-mento che attribuisce all’espressione locale un significato istituzionale in collegamen-to con la competenza e i poteri degli enti locali, giungendo a ricondurre alla polizia locale urbana e rurale tutte le funzioni di polizia amministrativa che competono alle Regioni nelle materie nelle quali hanno potestà normativa.

Entrambe le prospettive non appaiono caratterizzate da percorsi argomentativi di natura risolutiva e sembrano muoversi in un’ottica parziale.

Secondo la prima prospettiva, pur positivamente fondata sul riconoscimento del-la funzionalizzazione della polizia locale alla tutela degli stessi beni di incolumità e si-

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curezza pubblica che è intesa a garantire la polizia di sicurezza, si giunge a configurare una sorta di incidenza e di concorrenza-compartecipazione, su determinate materie e fenomeni, dei due ordini di polizia, immediatamente soggiungendo tuttavia come le funzioni della seconda – la polizia di sicurezza – debbano ritenersi assorbenti non appena le fattispecie inquadrabili nelle norme di pubblica sicurezza acquistino una dimensione tale da valicarne i riflessi più localizzati. In tale prospettiva, in altri ter-mini, il ruolo e le funzioni della polizia locale si configurerebbero quali meramente sussidiari rispetto all’esercizio delle funzioni della polizia di sicurezza, incerti quanto alla loro caratterizzazione qualitativa e quantitativa e precari in quanto costantemente subordinati alla vis atractiva esercitata dalla sfera funzionale della polizia di sicurezza ove si ravvisi – sulla base di valutazione parimenti connotata da profili di aleatorietà e discrezionalità – l’emergere della esigenza inalienabile dello Stato alla sicurezza ed incolumità pubblica in qualsivoglia parte del suo territorio, che si ritenga minacciata dal verificarsi di fenomeni di spessore non meramente locale.

Non minori perplessità è destinata a suscitare la seconda delle prospettive confi-gurate. L’instaurazione di un parallelismo istituzionale fra competenza e poteri degli enti locali, da un lato, e funzioni della polizia locale urbana e rurale da identificarsi con tutte le funzioni di polizia amministrativa che competono alle Regioni nelle materie nelle quali hanno potestà normativa, dall’altro, è opzione che si fonda su presupposti argomentativi e su basi sostanziali di natura parziale, in quanto mostra di continuare a privilegiare l’ormai superato criterio della stretta e rigida riconduzio-ne dei poteri e delle funzioni della polizia locale alle materie oggetto di competenza dell’ente locale e manca di prendere atto del mutato ruolo della polizia medesima in un contesto istituzionale e sociale – come si avrà cura di puntualizzare fra breve – parimenti teatro di radicali mutamenti.

Luci ed ombre devono inoltre rinvenirsi in seno alla l. 7 marzo 1986, n. 65, legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale, salvo quanto si osserverà in segui-to sul rapporto che può individuarsi fra la legge stessa e la revisione costituzionale intervenuta nell’ottobre 2001.

Gli elementi positivi che la legge reca devono identificarsi nel fattore di tenden-ziale chiarificazione apportato dalla legge in apertura del testo normativo (art. 1, comma 1: “I Comuni svolgono le funzioni di polizia locale”); nel binomio istituzionale positivamente instaurato dalla legge medesima fra servizio di polizia municipale e ruolo e funzioni del sindaco (art. 2: “Il Sindaco o l’assessore da lui delegato, nell’eserci-zio delle funzioni di cui al precedente comma 1, impartisce le direttive, vigila sull’esple-tamento del servizio e adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai regolamenti”); infine, nella norma (art. 7) relativa ai contenuti del regolamento comunale sul corpo di polizia municipale, laddove richiede che, nella individuazione del contingente numerico degli addetti al servizio, si adottino criteri di funzionalità e di economicità, in rapporto al numero degli abitanti del Comune ed ai flussi della popolazione, alla estensione ed alla morfologia del territorio, alle caratteristiche socio-economiche della comunità locale e che, ai fini della definizione del tipo di organizzazione del Corpo, si tenga conto della densità della popolazione residente e temporanea, della suddivisione

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Luca Mezzetti

del Comune stesso in circoscrizioni territoriali e delle zone territoriali costituenti aree metropolitane.

Pur recando i fattori di ordine positivo ora richiamati, la legge si asteneva dal compiere un ulteriore, decisivo passo nella direzione della delineazione del ruolo e delle funzioni della polizia municipale nel loro complesso, nonché della delimita-zione di una sfera di competenza propria, soprattutto avuto riguardo agli accennati fenomeni di sovrapposizione con la sfera di attribuzioni propria della polizia di si-curezza, e della concretizzazione in sede normativa della, ormai da tempo, invalsa funzionalizzazione del ruolo della polizia locale al soddisfacimento della domanda sociale di sicurezza, protezione e salvaguardia della qualità della vita locale nel suo complesso, prescindendosi dal riferimento a materie o settori ascritti alla competenza dell’ente locale e quindi, in ultima istanza, da formalismi che la stessa dinamica dei rapporti sociali ha mostrato da lungo tempo di avere superato.

2. L’evoluzione del ruolo e delle funzioni della polizia locale: asimme-trie concettuali e problemi definitori

Alle conclusioni che portano a formulare il giudizio negativo di parzialità, confusio-ne, inadeguatezza e arretratezza in merito ai profili ed ai contenuti della legislazio-ne succintamente richiamata nel paragrafo precedente, può giungersi sulla base di un duplice ordine di considerazioni relative all’osservazione di due diversi, anche se strettamente connessi, percorsi evolutivi.

Il primo dei menzionati percorsi ha interessato e tuttora interessa l’evoluzione del ruolo e delle funzioni della polizia municipale in ambito comunale, che hanno registrato una naturale e progressiva estensione a sfere, settori e materie rientranti nell’insieme di riferimento rappresentato dalla protezione della sicurezza delle città, dalla salvaguardia del loro decoro, dalla tutela di una ordinata convivenza civile, in ultima istanza dalla preservazione e valorizzazione della qualità della vita intesa quale complesso di standards minimi percepiti dalla comunità locale come irrinunciabili in relazione al contesto socio-politico, economico e culturale in cui la comunità mede-sima si trova inserita. Nell’espletamento di tali funzioni, la polizia municipale mostra quotidianamente – grazie alla profonda conoscenza del territorio ed alla capillare dif-fusione sul medesimo – l’attitudine alla difesa e salvaguardia della pubblica sicurezza intesa in senso lato e fa emergere la propria disposizione ed idoneità ad adempiere sul territorio stesso in via ordinaria compiti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurez-za che a stretto rigore dovrebbero farsi rientrare nell’ambito della sfera funzionale ascritta ai corpi di polizia statali. In tal senso, la polizia municipale mostra una chiara vocazione all’espletamento delle funzioni medesime, soprattutto ove si abbia riguardo a fenomeni, oggi sempre più diffusi, che ne sottolineino la naturale predisposizione a fronteggiarli, si pensi, a titolo di esempio, al fenomeno della prostituzione ed alle conseguenze che ne derivano sul piano del degrado della vita locale, relative non solo al profilo del decoro ma anche a fattispecie penalmente rilevanti (violenze, flussi di immigrazione illecita, traffico di stupefacenti ecc.) strettamente connesse al feno-

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meno medesimo; al commercio abusivo; alla presenza, talora notevole, sul territorio comunale di contingenti di cittadini extracomunitari caratterizzati da problemi di inserimento nel tessuto sociale; ai profili concernenti la prevenzione e la repressione di fattispecie connesse al fenomeno della diffusione e dello spaccio delle sostanze stupefacenti, nonché delle tossicodipendenze). Nel complesso delle ipotesi descritte, giova ripeterlo, lo svolgimento da parte della polizia municipale di compiti tipica-mente rientranti nella sfera funzionale della polizia giudiziaria e di sicurezza assume carattere ordinario ed abituale, a fronte della natura ausiliaria, complementare e mera-mente eventuale attribuita dall’art. 5 della legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale (l. 7 marzo 1986, n. 65) alle funzioni di polizia giudiziaria, stradale e di sicurezza che può espletare il personale che svolge servizio di polizia municipale (il quinto comma dell’art. 5 della l. 65/1986 è stato modificato ad opera dell’art. 17, comma 134 della l. 15 maggio 1997, n. 127 c.d. Bassanini 2): sulla base della dispo-sizione quale risultante dalla modifica accennata, gli addetti al servizio di polizia mu-nicipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare senza licenza le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti, anche fuori dal servizio, purché nell’ambito ter-ritoriale dell’ente di appartenenza e nei casi previsti dall’articolo 4 della stessa legge quadro sulla polizia municipale. Tali modalità e casi sono stabiliti, in via generale, con apposito regolamento approvato con decreto del Ministro dell’interno, sentita l’ANCI. Il regolamento medesimo stabilisce anche la tipologia, il numero delle armi in dotazione e l’accesso ai poligoni di tiro per l’addestramento al loro uso (V. inoltre, in materia, quanto stabilito dal D.M. 4 marzo 1987, n. 145 con riferimento al potere del prefetto competente di richiedere al sindaco, avuto riguardo a particolari motivi di sicurezza ed agli indici locali di criminalità, che i vigili urbani in possesso della qualità di agente di pubblica sicurezza prestino servizio armato).

Il secondo dei menzionati percorsi, al primo strettamente connesso, deve identi-ficarsi con l’evoluzione dell’ambito funzionale riconosciuto agli enti autonomi terri-toriali in seno alla legislazione dell’ultimo decennio che ha provveduto alla riforma dell’ordinamento delle autonomie locali. Due complessi normativi, in particolare, hanno contribuito, come è noto, a caratterizzare gli enti locali in senso innovativo: la L. 8 giugno 1990, n. 142 (oggi confluita nel d.lgs. 267/2000 recante il testo unico delle disposizioni sull’ordinamento degli enti locali) e la l. 25 marzo 1993, n. 81. Dalle disposizioni richiamate emerge infatti con chiarezza, in primo luogo, l’intento del legislatore di configurare il Comune quale ente a fini generali (art. 3, comma 2 del d.lgs. 267/2000: “Il Comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo” e art. 13, comma 1 del d.lgs. 267/2000: “Spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazio-ne ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi sociali, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secon-do le rispettive competenze”), di rappresentanza, cura e valorizzazione degli interessi

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(nel loro complesso) della comunità locale insediata sul proprio territorio, vale a dire di tutti gli interessi, prescindendosi dal riferimento a (e dal collegamento con) singo-le e puntuali materie di competenza dell’ente locale: al Comune risultano riferibili tutte le funzioni amministrative riguardanti la popolazione ed il territorio comunale, anche se – si puntualizza in seno all’art. 13 del d.lgs. 267/2000 – precipuamente con-cernenti i settori organici dei servizi sociali, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico. Il riferimento a tali settori, tuttavia, acquista nella nuova ottica descritta dalla norma in oggetto la valenza di corollario meramente accessorio e sussidiario, che non attenua la portata innovativa del criterio di identificazione della dimensione di rappresentanza degli interessi conferita al Comune dalla prima parte del primo comma del medesimo art. 13.

Il secondo dei complessi normativi citati – l. 81/1993 sulla elezione diretta del Sindaco, parimenti confluita oggi nel d.lgs. 267/2000 – ha d’altra parte notevolmen-te rafforzato il legame esistente fra cittadini, elettori ed utenti da un lato e vertici del-la amministrazione locale dall’altro, in particolare sul versante del rapporto intercor-rente fra l’aspettativa e la domanda di qualità e di efficacia-efficienza dei servizi offerti promanante dalla comunità locale e l’operato degli amministratori chiamati a curare tutti gli interessi della comunità medesima, amministratori la cui capacità di fornire risposte adeguate alle esigenze dei cittadini viene misurata dagli stessi sulla base di parametri molto più complessi e articolati rispetto al passato e tali da coinvolgere, nel loro complesso, i profili che integrano e compongono lo standard di qualità della vita locale. Il mandato che il cittadino-elettore conferisce oggi al Sindaco al momento dell’introduzione della propria scheda nell’urna elettorale non può ritenersi in altri termini completamente in bianco e suscettibile di autonomo svolgimento, esplica-zione ed attuazione da parte dell’eletto, ma puntualmente e concretamente riferito alla situazione ed al contesto sociale in cui l’elettore si trova calato, specificamente venato dalle aspettative, dalle esigenze, dalle speranze di sviluppo, crescita e progresso che l’elettore medesimo ripone nell’eletto. Il contenuto degli artt. 50 e 54 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali rappresenta una significativa conferma in questa direzione.

3. La “polizia amministrativa regionale e locale” nel d.lgs. 112/1998

Qual è l’insegnamento che può e deve trarsi dal complesso delle osservazioni svolte nei paragrafi precedenti?

La prima esigenza che deve porsi in luce riguarda i contenuti, nonché la raziona-lizzazione e sistematizzazione della normativa italiana in materia di polizia munici-pale. I due profili sono strettamente connessi.

Si tratta infatti, in primo luogo, di conferire evidenza giuridica e di tradurre in termini di diritto positivo l’effettivo ruolo e le effettive funzioni oggi svolte dalla poli-zia municipale, prendendo finalmente atto dell’evoluzione che ha interessato le fun-zioni medesime secondo quanto si è accennato in precedenza.

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Dal punto di vista metodologico e sistematico, due sembravano le ipotesi per-corribili nel contesto giuridico ed istituzionale anteriore alla riforma costituzionale del 2001: la radicale riforma della legge quadro sulla polizia municipale, da sottrarre all’evanescenza e superficialità che la contraddistinguevano, ovvero il coordinamento della materia relativa alla polizia municipale con gli altri profili relativi alla gestio-ne della pubblica sicurezza mediante la predisposizione di apposito capo all’interno della l. 1 aprile 1981, n. 121 sull’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza.

Dal punto di vista contenutistico, univoco appariva il tracciato da seguire in sede di riforma.

L’affidamento di compiti di pubblica sicurezza ai corpi di polizia municipale im-plica, in primo luogo, la redistribuzione su scala globale delle funzioni di polizia fra i corpi di polizia statali e quelli locali, laddove ai primi appare imprescindibile conferire compiti attinenti a fattispecie criminose o criminogene di rilevanti o rile-vantissime dimensioni, tali da mostrare la propria attitudine ad interessare l’intero territorio nazionale ovvero già radicate in ambiti e spazi che eccedano il contesto lo-cale, oppure tali da configurarsi quali fenomeni di proiezione comunitaria o interna-zionale, mentre ai secondi devono restare riservate le funzioni di tutela della pubblica sicurezza a livello locale e cittadino, evitando che si producano le sovrapposizioni oggi in atto. Ciò consentirebbe, da un lato, di liberare energie a favore dei corpi di polizia statali, che potrebbero efficacemente concentrare i propri sforzi nella lotta alla grande criminalità e a fronteggiare i descritti fenomeni di dimensione sovralocale e permetterebbe, dall’altro, di valorizzare il patrimonio di conoscenze, l’esperienza ed il radicamento sul territorio dei corpi di polizia municipale, che recano una naturale attitudine a gestirne gli aspetti direttamente e indirettamente correlati alla sicurezza e all’ordine pubblico.

Risistemazione delle competenze non deve peraltro significare perseguimento di un regime di separatezza e instaurazione di rigidi confini fra le due sfere di azione delle polizie statali e della polizia municipale. Al contrario, il coinvolgimento a pieno titolo della polizia municipale nella gestione dell’ordine pubblico implica un radicale mutamento di prospettiva sul versante della composizione e delle funzioni da con-ferire ad organi collegiali dotati di potere consultivo in materia di ordine e sicurezza pubblica (il riferimento è, ovviamente, al Comitato provinciale per l’ordine e la sicu-rezza pubblica previsto dall’art. 20 della già menzionata l. 121/1981). Su tale versan-te deve salutarsi positivamente la scelta riformatrice che si è tradotta nella previsione della partecipazione di diritto alle sedute del suddetto comitato da parte delle autorità locali di pubblica sicurezza e dei responsabili degli enti locali, introdotta dal d.lgs. 279/1999. È altresì evidente che l’efficacia dell’azione da svolgersi da parte della po-lizia municipale sul fronte della tutela dell’ordine pubblico risulta subordinata all’ef-fettivo ed efficace funzionamento di un sistema capace di consentire la circolazione di un flusso di informazioni e dati in materia di tutela dell’ordine, della sicurezza pubblica e di prevenzione e repressione della criminalità, sia a livello orizzontale, fra polizie municipali, che a livello verticale, in sede di coordinamento fra corpi di polizia

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statali e corpi di polizia locali. In tal senso, una novità positiva deve identificarsi con il decreto del Ministero dell’interno del 29 maggio 2001, con il quale si è disciplina-to il collegamento dei sistemi informativi a disposizione del personale della polizia municipale addetto ai servizi di polizia stradale con lo schedario dei veicoli rubati del centro elaborazione dati del Dipartimento della pubblica sicurezza. Sul versante dell’ordinamento del personale, infine, sarebbe consequenziale, nell’ottica di riforma qui auspicata, procedere in sede legislativa alla creazione di una tendenziale assimi-lazione e all’instaurazione di un non fittizio parallelismo fra lo status giuridico dei membri della polizia municipale e lo status giuridico goduto dai membri dei corpi di polizia statali.

Si tratta, come è di palmare evidenza, di un complesso di percorsi di riforma che implicano, ai fini della propria attuazione e realizzazione, l’esistenza di una forte volontà politica e di un diffuso consenso politico nella pluralità delle direzioni con-figurate.

Su questo versante non manca di destare perplessità l’analisi dei riferimenti alla materia in oggetto rinvenibili in sede di verifica del riparto delle competenze descrit-to dalla l. 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. Bassanini 1) e dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, recante conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge medesima.

Ai sensi dell’art. 1, comma 3 della l. 59/1997 risultano infatti esclusi dal confe-rimento a Regioni ed enti locali – contemplato dai primi due commi della norma medesima – le funzioni ed i compiti riconducibili, fra le altre, alle materie b) difesa, forze armate, armi e munizioni, esplosivi e materiale strategico e l) ordine pubblico e sicurezza pubblica.

L’art. 158 del d.lgs. 112/1998, d’altra parte, mentre sembra apportare un ele-mento tendenzialmente innovativo rispetto al percorso evolutivo seguito dalla sfera materiale in oggetto – l’oggetto del Titolo V del decreto legislativo viene identificato con le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla “materia” polizia amministra-tiva regionale e locale, materia che pare acquisire una propria autonoma individualità – si riconduce per altro verso, ai fini della identificazione delle funzioni e dei com-piti medesimi di titolarità delle Regioni e degli enti locali, all’obsoleto criterio della accessorietà e strumentalità rispetto alle materie ad essi rispettivamente trasferite o attribuite.

Prescindendo dall’ulteriore elemento di confusione terminologica e sistematica che il decreto legislativo apporta (si introduce infatti la nuova categoria della polizia amministrativa regionale e locale), sul quale si tornerà in seguito, non può mancarsi di rilevare la conservazione, in seno al decreto medesimo (artt. 159-160), dell’obsoleto criterio discriminante fondato sul binomio ordine pubblico-sicurezza pubblica ai fini dell’individuazione delle sfere di competenza e funzionali, rispettivamente, dei corpi di polizia statali e della polizia locale.

Le funzioni ed i compiti amministrativi relativi alla polizia amministrativa regio-nale e locale concernono infatti, ai sensi della prima delle norme da ultimo citate, le misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati ai soggetti giuridici

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ed alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze, anche delegate, delle Regioni e degli enti locali, senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni e gli interessi tutelati in funzione dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica, laddove le funzioni e i compiti amministrativi relativi a tali mate-rie, come si è visto, dalla lett. l) dell’art. 1, comma 3 della l. 59/1997, concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni.

È sulla base di tale distinzione che il successivo art. 160 del d.lgs. 112/1998 si cura di sottolineare la conservazione in capo allo Stato delle funzioni e dei compiti di polizia amministrativa nelle materie elencate nel comma 3 dell’art. 1 della l. 59/1997 e quelli relativi ai compiti di rilievo nazionale di cui al comma 4 dello stesso art. 1. La medesima norma si cura, inoltre, di ribadire come l’ordinamento dell’amministrazio-ne della pubblica sicurezza resti disciplinato dalla l. 121/1981, che individua, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, le forze di polizia.

Ora, se può intravedersi, nella strutturazione del contenuto di tali disposizioni, il tentativo del legislatore di tradurre in norme di legge un’elaborazione giurispru-denziale della Corte costituzionale tutt’altro che consolidata in materia, non può mancarsi di notare come il contenuto medesimo risulti di rigida conformazione e tale da non rilasciare spazi applicativi a favore della configurazione del concetto di ordine pubblico regionale e locale e della finalizzazione delle attività di polizia ammi-nistrativa conferite all’obiettivo di una ordinata e civile convivenza nelle comunità regionali e locali, secondo quanto auspicato dalla conferenza dei Presidenti delle Re-gioni, dall’ANCI, dall’UPI e dall’UNCEM in sede di formulazione di un parere sullo schema originario del decreto legislativo.

Analoghe considerazioni sorgono alla luce dell’analisi delle modalità di conferi-mento alle Regioni e agli enti locali delle funzioni e dei compiti di polizia ammini-strativa: all’utilizzazione del criterio della residualità (l’art. 161 del d.lgs. 112/1998 dispone il conferimento alle Regioni e agli enti locali di tutte le funzioni ed i compiti di polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente trasferite o attribuite, salve le riserve allo Stato di cui all’art. 160 dello stesso decreto) non sembra infatti ac-compagnarsi in modo coerente una allocazione di funzioni e compiti agli enti locali capace di conformarsi pienamente ai principi enunciati in seno all’art. 4 della l. 59/1997 (in particolare: principio di sussidiarietà, con l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni mede-sime; principio di completezza; principio di efficienza e di economicità; principio di cooperazione fra soggetti dello Stato ordinamento; principio di omogeneità, con l’attribuzione di funzioni e compiti omogenei allo stesso livello di governo; principio di adeguatezza, in relazione all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente a garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni; principio di differenziazione nell’allocazione delle funzioni in considerazione delle diverse carat-

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teristiche, anche associative, demografiche e territoriali e strutturali degli enti riceventi; principio di autonomia organizzativa e regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi ad essi conferiti).

La riedizione del sistema “a cascata” di ulteriori trasferimenti di funzioni e com-piti amministrativi agli enti locali contemplato dal progetto di decreto legislativo (artt. 162 e 163) ribadisce, infine, una scelta già seguita in seno al D.P.R. 616/1977 e rivelatasi parziale e capace di ingenerare fattori di confusione, sovrapposizioni e asimmetrie.

Sulla base della prima delle norme citate è trasferito alle Regioni il rilascio dell’au-torizzazione per l’espletamento di gare con autoveicoli, motoveicoli, ciclomotori su strade ordinarie di interesse di più Province, nell’ambito della medesima circoscrizio-ne regionale, disciplinato dall’art. 9 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285.

L’art. 163, d’altra parte, dispone il trasferimento ai Comuni delle funzioni e dei compiti amministrativi concernenti il rilascio della licenza di vendita ambulante di strumenti di punta e da taglio (art. 37 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza ap-provato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773 e art. 56 del regolamento di pubblica si-curezza, approvato con R.D. 6 maggio 1940, n. 635), il rilascio delle licenze concer-nenti le agenzie d’affari nel settore delle esposizioni, mostre e fiere campionarie (art. 115 del T.U.), il ricevimento della dichiarazione relativa all’esercizio dell’industria di affittacamere o appartamenti ammobiliati o relativa all’attività di dare alloggio per mercede (art. 108 T.U.), il rilascio delle licenze concernenti le agenzie di affari (art. 115 T.U.), ad eccezione di quelle relative all’attività di recupero crediti, pub-blici incanti, agenzie matrimoniali e di pubbliche relazioni, il rilascio della licenza per l’esercizio del mestiere di fochino (art. 27 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 302, il rilascio dell’autorizzazione per l’espletamento di gare con autoveicoli, motoveicoli o ciclomotori su strade ordinarie di interesse esclusivamente comunale (art. 68 T.U. e art. 9 del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, il rilascio dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di direttore o istruttore di tiro (art. 31 della l. 18 aprile 1975, n. 110), infine le autorizzazioni agli stranieri per l’esercizio dei mestieri girovaghi (art. 124 T.U.).

Sempre l’art. 163 del d.lgs. 112/1998 contempla, inoltre, il trasferimento alle Province delle funzioni e dei compiti amministrativi aventi ad oggetto il riconosci-mento della nomina a guardia giurata degli agenti venatori dipendenti dagli enti delegati dalle Regioni e delle guardie volontarie delle associazioni venatorie e pro-tezionistiche nazionali riconosciute (art. 27 della l. 11 febbraio 1992, n. 157), il riconoscimento della nomina di agenti giurati addetti alla sorveglianza sulla pesca nelle acque interne e marittime (art. 31 del R.D. 8 ottobre 1931, n. 1604 e art. 22 della l. 14-7-1965, n. 963), infine il rilascio dell’autorizzazione per l’espletamento di gare con autoveicoli, motoveicoli e ciclomotori su strade ordinarie di interesse sovra-comunale ed esclusivamente provinciale.

L’art. 164 dello stesso decreto, infine, oltre a disporre l’abrogazione di una serie numerosa di disposizioni del T.U. delle leggi di p.s. (artt. 72, 74, 75, 76, 81 e 83), incide sul tessuto normativo dell’art. 19 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, laddove

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produce la soppressione delle funzioni relative all’avviso preventivo di riprese cine-matografiche in luogo pubblico o aperto al pubblico (abrogazione del comma 1, n. 3, la soppressione dell’obbligo di preventiva comunicazione al prefetto e dei poteri di sospensione, revoca e annullamento in capo al medesimo in ordine al rilascio della licenza agli stranieri per mestieri ambulanti, in materia di registrazione per mestieri ambulanti e in materia di licenza di iscrizione per portieri e custodi (modifica del comma 4 in relazione alle funzioni contemplate dai numeri 13, 14 e 17 del comma 1 del medesimo art. 19), infine la soppressione del requisito della conformità ad espresso parere del prefetto ai fini dell’efficacia del diniego dei provvedimenti previsti dai medesimi numeri del comma 1 dell’art. 19.

4. La polizia locale nel nuovo Titolo V della Costituzione quale revi-sionato ad opera della l. cost. 1/1999 e della l. cost. 3/2001

La revisione costituzionale intervenuta ad opera della l. cost. 3/2001 ha apportato elementi di significativo interesse sul versante della polizia locale.

La tecnica costituzionale di riparto delle competenze fra Stato e Regioni segue ora un meccanismo opposto rispetto a quello originariamente accolto dall’art. 117 Cost. nel vecchio testo. Nel testo dell’art. 117 Cost. anteriormente in vigore venivano in-fatti elencate le materie di competenza concorrente Stato-Regioni: su tali materie lo Stato, attraverso il Parlamento, legiferava attraverso leggi quadro (altrimenti definite leggi cornice) dettando i principi fondamentali delle materie medesime; le Regioni si adeguavano allo scheletro normativo così stabilito attraverso leggi regionali. La clausola residuale di attribuzione delle competenze operava dunque, nel precedente assetto, a favore dello Stato: tutte le materie non comprese nella elencazione dell’art. 117 Cost. si ritenevano di competenza dello Stato centrale. Fra le materie oggetto di competenza concorrente rientrava, come è noto, la polizia locale urbana e rurale: la legge quadro predisposta in materia dal Parlamento fu la l. 65/1986, che innescò una copiosa produzione legislativa da parte regionale.

In seno al nuovo art. 117 della Costituzione, quale risultante dalla revisione costi-tuzionale del 2001, la clausola residuale di attribuzione delle competenze opera a fa-vore delle Regioni. L’art. 117 Cost. nella nuova versione fa infatti rientrare fra le ma-terie di competenza legislativa esclusiva dello Stato centrale: “d) difesa, forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi e […] h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale (art. 117, comma 2 Cost.)”. Tali mate-rie – si deve ritenere – potranno divenire oggetto di disciplina da parte di leggi o atti aventi valore di legge degli organi dello Stato centrale (Governo e Parlamento), salva la possibilità che gli organi medesimi deleghino la potestà regolamentare alle Regioni (secondo quanto ammesso dall’art. 117, comma 6, Cost.) nelle materie suddette, che non possono quindi ritenersi in modo rigido, meccanico e aprioristico di esclusiva competenza statale, ben potendo immaginarsi un coinvolgimento delle Giunte re-gionali (oggi titolari della potestà regolamentare regionale ai sensi del nuovo art. 121 della Costituzione) in sede di complessiva disciplina normativa delle materie stesse.

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Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato (art. 117, comma 4, Cost.). Il terzo comma dell’art. 117 Cost. (nuovo testo) contiene infine un retaggio del siste-ma di riparto delle competenze precedentemente vigente, configurando un elenco di materie oggetto di competenza concorrente, relativamente alle quali la potestà legislativa spetta alle Regioni anche se nel quadro dei principi fondamentali dettati dalla legge statale.

La materia “polizia amministrativa locale” non rientra dunque fra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato centrale; essa, d’altra parte, non compare in seno all’elenco – contenuto nell’art. 117, comma 3, Cost. – delle materie oggetto di competenza concorrente Stato-Regioni: deve pertanto ritenersi che sia divenuta materia oggetto di competenza legislativa residuale delle Regioni, alla luce della clau-sola contenuta nell’art. 117, comma 4, Cost. La competenza legislativa residuale non deve tuttavia confondersi con una competenza legislativa esclusiva nella materia de qua. Infatti, sotto un primo profilo risulta inoppugnabile che la materia relativa alla polizia amministrativa locale potrà essere oggetto in futuro di disciplina legislativa e regolamentare regionale, con esclusione di interventi normativi statali nella materia medesima tali da tradursi nella fissazione di norme-regola, risultando invece ammissi-bili interventi normativi capaci di configurarsi quali norme-principio; sotto un secon-do profilo deve affermarsi che le Regioni, nella disciplina della materia relativa alla polizia amministrativa locale, potranno discostarsi anche in misura sensibile dalla di-sciplina finora adottata con legge regionale in attuazione della legge quadro del 1986, da ritenersi oggi cornice normativa non più vincolante per il legislatore regionale che intenda sottoporre a radicale riforma legislativa la materia in oggetto; sotto un terzo profilo si deve ritenere – essendo divenuta la materia della polizia amministrativa locale oggetto di competenza legislativa regionale di tipo residuale – che sia correlati-vamente venuta meno la possibilità per lo Stato di intervenire legislativamente nella materia stessa attraverso una legislazione quadro o cornice che tenda – come frequen-temente è accaduto in passato in occasione del ricorso dello Stato a tale strumento normativo – a porre, accanto a principi, anche regole dettagliate tali da soffocare i margini di potenziale esplicazione della potestà legislativa regionale. I richiamati pro-fili non devono tuttavia indurre a ritenere, come si avvertiva in precedenza, che la po-testà legislativa regionale in materia sia divenuta di tipo esclusivo e in quanto tale ca-pace di escludere a priori qualsivoglia intervento normativo dello Stato in materia. La configurazione di una materia quale oggetto di potestà legislativa regionale di natura residuale non esclude infatti l’ammissibilità e finanche la doverosità di leggi statali che, in ossequio ai principi fondamentali dell’unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.) e in omaggio ai connessi corollari della tutela dell’unità giuridica ed economica dell’ordinamento, oltre che della tutela dei livelli minimi essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (artt. 120 e 117, comma 2, lett. m), Cost.), nonché in forza della attribuzione di potestà legislativa esclusiva contenuta in seno all’art. 117, comma 2 Cost. con riferimento a materie che – trasversalmente – lambiscono inevitabilmente

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settori apparentemente riservati alle regioni, intervengano quali strumenti finaliz-zati a dettare l’architettura fondamentale di una materia pur divenuta, alla luce del nuovo quadro costituzionale, di competenza residuale delle regioni, fungendo da mezzi di coordinamento, di armonizzazione e di disciplina del minimo comune de-nominatore che la materia medesima deve connotare. I limiti che dovranno ritenersi configurabili a carico del legislatore regionale in sede di disciplina legislativa della materia “polizia amministrativa locale” tenderanno dunque a coincidere con i limiti che devono ritenersi derivanti dalla Costituzione con riferimento a tutte le materie di competenza legislativa residuale delle Regioni: limiti di ordine processuale (civile, penale, amministrativo), limiti di diritto sostanziale (civile e penale in particolare), limiti derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, limiti deri-vanti dall’esigenza di salvaguardare l’unità giuridica ed economica dello Stato, limiti derivanti dall’esigenza di tutelare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Al di fuori di tali limiti residua la libertà del legislatore regionale di conferire alla materia della polizia amministrativa locale quei contenuti e quella caratterizzazione che ritenga più confacenti al contesto politico, economico, sociale e culturale presente nella Regione.

D’altra parte, che la stessa materia ordine pubblico e sicurezza risulti oggi erosa e circostanziata nella sua esclusiva riferibilità alla sfera di attribuzioni statale è dimo-strato da quanto disposto dall’art. 118 Cost. (nuovo testo), che fa rinvio alla legge statale al fine di disciplinare forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie contemplate dalle lettere b) e h) dell’art. 117, comma 2 Cost., da identificarsi con la materia dell’immigrazione (lett. b)) e con la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza (lett. h)). La esclusione operata dall’art. 117, comma 2, Cost., lett. h) re-lativa alla polizia amministrativa locale non vale quindi a sottrarre la materia stessa alla disponibilità dello Stato ed a conferire alla medesima carattere di esclusività a favore delle Regioni. Accanto a strumenti di raccordo, di intesa e di concertazione di azioni fra Stato e Regioni a livello verticale in materia di ordine pubblico e sicurezza possono inoltre immaginarsi, oggi, in seguito alla revisione costituzionale dell’otto-bre 2001, a livello orizzontale, ipotesi di raccordo e collegamento fra Regioni se si ha riguardo a quanto disposto dall’art. 117, comma 11, Cost., che identifica nella legge regionale lo strumento normativo di ratifica delle intese che la Regione stipuli con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche attraverso l’indi-viduazione di organi comuni.

5. Polizia locale e sicurezza nella giurisprudenza della Corte costitu-zionale

La Corte costituzionale ha contribuito con la sentenza 12/25 luglio 2001, n. 290 alla ricostruzione del quadro normativo vigente nella materia in analisi. La Corte – chia-mata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 163, comma 2 lett. d) del d.lgs. 112/1998, con il quale sono stati trasferiti ai Comuni le funzioni e i compiti amministrativi in materia di licenze di agenzie di affari – ricorda che, in occasione del

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trasferimento di funzioni alle Regioni, il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della l. 22-7-1975, n. 382) disponeva, all’art. 19, comma 1, il trasferimento ai Comuni di alcune funzioni di polizia amministrativa previste dal R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pub-blica sicurezza). L’art. 19 del D.P.R. 616/1977, al comma 4, stabiliva peraltro che i provvedimenti comunali relativi ad alcune soltanto delle funzioni trasferite dovessero essere adottati previa comunicazione al Prefetto e dovessero essere sospesi, annullati o modificati per motivata richiesta dello stesso. La Corte, con sentenza 77/1987, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 4, nella parte in cui non limitava i poteri del Prefetto, ivi previsti, esclusivamente alle esigenze di pubbli-ca sicurezza, precisando che quest’ultima deve intendersi come funzione inerente alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Sempre in relazione all’art. 19 del D.P.R. 616/1977, la Corte aveva poi avuto modo di chiarire che la ri-partizione delle attribuzioni tra lo Stato e le Regioni, in relazione alle funzioni di polizia, doveva ritenersi fondata sulla distinzione tra le competenze attinenti alla si-curezza pubblica, riservate in via esclusiva allo Stato ex art. 4 del medesimo D.P.R. 616/1977, e le altre funzioni rientranti nella nozione di polizia amministrativa, tra-sferite alle Regioni come funzioni accessorie rispetto agli ambiti materiali attribuiti alla loro competenza. La funzione di polizia di sicurezza, osservava la Corte, riguarda quindi le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico e, pertanto, si riferisce alla attività di polizia giudiziaria e a quella di pubblica sicurez-za; la funzione di polizia amministrativa riguarda, diversamente, l’attività di preven-zione e repressione diretta ad evitare danni o pregiudizi a persone o cose nello svolgi-mento di attività rientranti nelle materie affidate alla competenza regionale (sentenza 218/1988). L’art. 1 della l. 15 marzo 1997, n. 59 – prosegue la Corte nella propria ricostruzione – ha delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi volti a conferire alle Regioni e agli enti locali funzioni e compiti amministrativi (comma 1), estendendo l’ambito del conferimento alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle comunità locali, nonché allo svolgimento di tutti i compiti e di tutte le funzioni localizzabili nei rispettivi territori, in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferiche, ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici (comma 2). Il medesimo art. 1, al comma 3, lettera l), ha tut-tavia escluso dal conferimento le funzioni e i compiti riconducibili alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica. L’art. 159, comma 2, del d.lgs. 112/1998 precisa che le funzioni e i compiti amministrativi relativi all’ordine pub-blico e alla sicurezza pubblica concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fon-damentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile con-vivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni. La Corte ritiene opportuno chiarire che tale definizione nulla aggiun-ge alla tradizionale nozione di ordine pubblico e sicurezza pubblica tramandata dalla giurisprudenza costituzionale, nella quale la riserva allo Stato riguarda le funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali quali l’integrità fisica o psichica

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delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria impor-tanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento. È dunque in questo senso – ad avviso della Corte – che deve essere interpretata la locuzione “interessi pubblici primari” utilizzata nell’art. 159, comma 2, ovvero non qualsiasi interesse pubblico alla cui cura siano preposte le pubbliche amministrazioni, ma soltanto quegli interessi essen-ziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile. “Una siffatta precisazione è necessaria ad impedire che una smisurata dilatazione della nozione di sicurezza e ordine pubblico si converta in una preminente competenza statale in relazione a tutte le attività che vanificherebbe ogni ripartizione di compiti tra autorità statali di polizia e autonomie locali”. Lo stesso art. 159, al comma 1, definisce le funzioni e i compiti di polizia amministrativa regionale e locale, alla quale riconduce le misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati a soggetti giuridici e alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le compe-tenze, anche delegate, delle Regioni e degli enti locali, purché non siano coinvolti beni o interessi specificamente tutelati in funzione dell’ordine pubblico e della sicu-rezza pubblica, poiché in questo caso si esulerebbe dai compiti di polizia amministra-tiva e si ricadrebbe in un ambito di attività riservate allo Stato: “Quando venga in considerazione l’attività dei privati a contenuto economico, nelle svariate forme giuridi-che nelle quali essa può manifestarsi, la scelta di larga massima compiuta dal legislatore, salvo talune eccezioni contenute nello stesso art. 163 del d.lgs. 112/1998, che qui non rilevano e che non sono tali da contraddirne l’ispirazione di fondo, è stata quella di rimet-tere ogni valutazione agli organi che sono espressione diretta o indiretta della comunità locale, sulla non irragionevole premessa che siano in primo luogo questi, per la loro mag-giore vicinanza alle popolazioni amministrate, ad averne a cuore lo sviluppo economico, in applicazione del principio di sussidiarietà, la cui realizzazione costituisce uno dei principali obiettivi della legge di delegazione. Ciò non significa che l’ambito delle compe-tenze statali nel rapporto tra attività economica e sicurezza pubblica sia stato interamen-te soppresso: esso, nel confine mobile segnato dalle opzioni del legislatore in materia di controlli sullo svolgimento delle attività economiche, si è tuttavia considerevolmente ri-dotto. È infatti rimasto integro il potere generale di prevenzione e repressione dei reati, ma si è venuta ridimensionando quella sua proiezione provvedimentale, che si esprimeva in misure direttamente incidenti sull’attività economica, per dar luogo a un nuovo equili-brio di poteri tra Stato ed autonomie che vede riservato al primo l’adozione di misure ablatorie, preventive e repressive, sulla base peraltro di procedimenti interamente giurisdi-zionalizzati in ossequio ad un’accezione più rigorosa del principio dello Stato di diritto, nei soli casi in cui l’attività economica sia così strettamente compenetrata con la crimina-lità organizzata da esserne essa medesima espressione (cfr., in particolare, la l. 31 marzo 1965, n. 575 ‘Disposizioni contro la mafia’ e successive modificazioni). E l’esito nor-mativo del bilanciamento compiuto dal legislatore delegato tra istanze di sviluppo econo-mico delle comunità locali ed esigenze di ordine pubblico non contrasta con le direttive contenute nella legge di delegazione, ma risulta anzi in queste già potenzialmente racchiuso*A favore del riconoscimento in sede normativa di un ruolo proprio della polizia municipale in sede di esercizio di funzioni di pubblica sicurezza depone, d’al-

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tra parte, l’evoluzione che gli stessi concetti di ordine pubblico e pubblica sicurezza hanno mostrato di seguire nei tempi più recenti, vedendosi tendenzialmente dilatati i confini delle nozioni medesime tanto da impedire la conservazione del già menzio-nato rigido parallelismo fra ordine pubblico-polizia di sicurezza da un lato e polizia amministrativa-polizia locale dall’altro.

Tracce significative di tale processo evolutivo possono rinvenirsi nella giurispru-denza della Corte costituzionale.

In seno ad una prima pronuncia – sentenza 24/27 marzo 1987, n. 77 – la Corte, pur non facendo luce sul contenuto e sulle nozioni di polizia di sicurezza, polizia amministrativa e polizia locale urbana e rurale, e pur continuando a muoversi nella restrittiva ottica connotata dal parallelismo sopra ricordato, non manca di offrire – come si è in precedenza ricordato – significativi spunti di riflessione che si rivelano utili al fine di procedere ad una prima opera di precisazione e di determinazione del concetto di sicurezza pubblica e quindi, correlativamente, del concetto di ordine pubblico.

Il giudice delle leggi, infatti, giunge a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 19 comma 4 del D.P.R. 616/1977 nella parte in cui non limita i poteri del Pre-fetto di sospensione, annullamento o revoca di alcuni dei provvedimenti ricondotti dalla norma medesima all’ambito delle funzioni di polizia amministrativa dei Comu-ni esclusivamente alle esigenze di pubblica sicurezza: osserva la Corte che, dovendo lo Stato – sulla base dell’art. 5 della Costituzione – adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento, questi prin-cipi risultano violati ove una legge, pur dopo aver operato l’attribuzione di funzioni amministrative ai Comuni, si riservasse puntuali poteri di intervento caso per caso nel concreto esercizio di quelle funzioni amministrative, tanto da determinare “un appesantimento delle procedure amministrative e una duplicazione di compiti a scapito di quella snellezza che si vuole invece perseguire decentrando le funzioni degli enti locali”. Anche nell’ambito dell’ordinamento amministrativo anteriore alla Costituzione – ricorda la Corte – si prevedevano penetranti poteri di intervento degli organi statali allora competenti in materia di controllo, mai tuttavia fino a ritenere che tali poteri potessero giungere a forme di compartecipazione, nel concreto esercizio delle funzioni attribuite agli enti locali territoriali, da parte di organi dello Stato: il potere statale – sottolinea la Corte – deve manifestarsi con specifico riferimento al caso eccezionale consistente nel perseguimento del fine della sicurezza pubblica, lasciando trasparire, an-che se solo sullo sfondo e in forma sfumata ed embrionale, la dicotomia esistente fra situazioni di sicurezza pubblica caratterizzate da eccezionalità-straordinarietà da un lato e situazioni di sicurezza pubblica ordinarie dall’altro, e legittimando conseguen-temente la formulazione della riflessione relativa alla opportunità del conferimento delle funzioni di polizia di sicurezza di “maggiore” peso specifico e di più rilevanti dimensioni a favore dei corpi di polizia statali e delle funzioni di polizia di sicurezza che attengono alla gestione delle fattispecie di ordine pubblico non straordinarie – tuttavia incidenti sulla “sicurezza pubblica locale” in senso lato – a favore della polizia municipale.

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In altra pronuncia – sentenza 20/30 giugno 1988, n. 740 – la Corte costitu-zionale rilevava, in primo luogo, come il contenuto delle funzioni di primo grado comunali non si esaurisse nella emanazione dei regolamenti di polizia locale urbana e rurale previsti, secondo un’ottica tradizionale, dagli artt. 109 e 110 del regolamento di esecuzione della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 12 febbraio 1911, n. 297, ma si estendesse “alla previsione di compiti, da espletare nell’ambito del territorio comunale, […] di prevenzione diretta (e di accertamento immediato) di comportamenti materiali dei privati (non solo in violazione dei regolamenti suindicati, ma) comunque contrari a discipline pubbliche (quanto meno) comunali, nonché la pre-disposizione di organi per lo svolgimento dei compiti stessi”. A tale conclusione la Corte perviene considerando “la lievitazione a livelli superiori impressa alla polizia ammini-strativa dalla sua riconduzione alle funzioni di amministrazione attiva (dei Comuni, delle Province, delle Regioni), ai sensi dell’art. 9 D.P.R. 616/ 1977”; per effetto di tale ridefinizione il contenuto della polizia amministrativa viene rinvenuto “in quella regolazione limitativa (ma anche orientativa) e in quella superiore vigilanza che si espli-cano sull’attività dei privati nelle materie oggetto delle suddette funzioni mediante previ-sioni regolamentari (di obblighi, facoltà, modi procedimentali, sanzioni amministrative) e mediante provvedimenti dispositivi concreti (di licenza, autorizzazione, concessione, revoca, decadenza, applicazione di sanzioni amministrative)”. Ne deriva – ad avviso del giudice costituzionale – che “la polizia locale, essendo qualificata non dal riferimento a singole materie, ma dalla dimensione territoriale comunale di esercizio […] svolge un ruolo autonomo e come tale è suscettiva di correlarsi a qualsiasi funzione di poli-zia amministrativa, cioè di amministrazione attiva, in qualsiasi materia. Ciò in ogni caso per quel che concerne la polizia locale e l’amministrazione attiva comunali”.

Con altra pronuncia di fondamentale importanza – sentenza 11/25 febbraio 1988, n. 218 – la Corte ribadisce la distinzione, già accolta in seno alla sent. 77/1987 in precedenza analizzata, fra le competenze attinenti alla pubblica sicurezza, di cui si rammenta la riserva in via esclusiva allo Stato ex art. 4 del D.P.R. 616/1977, e le altre competenze enucleate dall’ampia categoria della polizia amministrativa e trasferite alle Regioni come funzioni accessorie ai settori materiali loro attribuiti; è tuttavia in sede di definizione del contenuto delle competenze stesse che la Corte fornisce un utile elemento di valutazione al fine di comprendere l’ambito applicativo e l’estensio-ne della nozione di pubblica sicurezza: mentre le prime riguardano – ad avviso della Corte – “le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico e, pertanto, si riferiscono alle attività tradizionalmente ricomprese nei concetti di polizia giudiziaria e di quella di pubblica sicurezza (in senso stretto)”, le altre “concernono le attività di prevenzione o di repressione dirette a evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati alle persone o alle cose nello svolgimento di attività ricomprese nelle materie sulle quali si esercitano le competenze regionali […] senza che ne risultino lesi o messi in pericolo i beni o gli interessi tutelati in nome dell’ordine pubblico”. Ora, prescindendosi dal rilievo circa il criterio ormai obsoleto adottato dalla Corte ai fini della distinzione fra i due insiemi concettuali della polizia amministrativa e della polizia di sicurez-za, interessante appare l’appiglio fornito dal giudice costituzionale all’interprete che

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intenda scomporre e circostanziare la più ampia categoria della pubblica sicurezza in due sottoinsiemi rappresentati, rispettivamente, dalla pubblica sicurezza in senso stretto e dalla pubblica sicurezza in senso lato, identificando la prima delle categorie indicate con l’ordine pubblico minacciato o leso da pericoli e turbative che, alla luce della loro dimensione qualitativa e quantitativa e avuto riguardo alla loro potenzia-lità e attitudine criminogena, implichino l’intervento dei corpi di polizia statali, ed individuando nella seconda categoria un insieme di riferimento cui attengono profili concernenti fenomeni e fattispecie di natura patologica concentrati sul territorio co-munale, ma comunque tali – per lo spessore che li connota – da pregiudicare, quanto meno potenzialmente, la sicurezza delle città, l’ordinata convivenza civile, il decoro dell’ambiente di vita, in ultima istanza, come si è più volte osservato in precedenza, la qualità della vita locale. È evidente l’obiettivo che ci si propone di conseguire con l’esercizio di tale sforzo interpretativo: la configurazione di una prospettiva, de iure condendo, che risulti connotata dalla chiara riconduzione dei compiti di prevenzione-repressione delle fattispecie attinenti alla polizia di sicurezza in senso stretto all’am-bito funzionale dei corpi di polizia statali e dei compiti di prevenzione-repressione delle fattispecie attinenti alla polizia di sicurezza in senso lato all’ambito funzionale dei corpi di polizia municipale.

Non meno interessanti, infine, si rivelano gli spunti ricostruttivi emergenti nel senso dinanzi descritto dalla sentenza della Corte costituzionale 19 marzo/4 aprile 1990, n. 162.

Sottolineato il carattere decisivo della ridefinizione delle funzioni di polizia come operata con il D.P.R. 616/1977, la Corte soggiunge infatti come con l’art. 9 di detto decreto presidenziale si delineino funzioni di polizia amministrativa della massima estensione e di particolare elevatezza, “in quanto esse sono identificate con le funzioni di amministrazione attiva – conferite agli enti territoriali diversi dallo Stato e parti-colarmente alla Regione – aventi per contenuto la regolazione e la superiore vigilanza delle attività dei privati nelle materie oggetto delle funzioni stesse sia mediante previsioni regolamentari che mediante provvedimenti dispositivi concreti (licenze, autorizzazioni, concessioni e atti contrari). Viceversa le funzioni di polizia, residuate allo Stato ex art. 4 dello stesso D.P.R. con riferimento a qualsiasi materia, sono limitate a quelle attinenti alla pubblica sicurezza”.

Basandosi sulla sistematica del D.P.R. 616/1977, la Corte ribadisce, sotto un primo profilo, la nota distinzione – che ricorre anche nella più sentenza 23 marzo/7 aprile 1995, n. 115 – fra polizia di sicurezza, che ricomprende le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico – da intendersi quale com-plesso dei beni giuridici fondamentali o degli interessi pubblici primari sui quali si fonda l’ordinata convivenza civile dei consociati – e polizia amministrativa, che ri-comprende le misure preventive e repressive dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono derivare alle persone e alle cose nello svolgimento di attività riconducibili alle materie sulle quali vengono esercitate competenze statali o regionali, senza che ne risultino pregiudicati o messi in pericolo gli interessi tutelati in nome dell’ordine pubblico.

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Sotto altro e diverso profilo, tuttavia, il percorso logico-argomentativo seguito dalla Corte in merito al complesso normativo descritto dagli artt. 4, 9 e 19 del più volte menzionato D.P.R. 616/1977 lascia trasparire con sufficiente chiarezza come il giudice delle leggi aderisca all’opinione secondo la quale il legislatore delegato, facendo salva la riserva statale delle funzioni attinenti alla pubblica sicurezza, intende precisare “che non basta la previsione di una competenza dell’autorità di polizia per-ché la relativa funzione possa considerarsi compresa nella pubblica sicurezza. Prefetto e Questore sono stati nel corso della storia unitaria investiti di funzioni che solo in-direttamente hanno a che fare con l’ordine pubblico, ma che riguardano attività eco-nomiche, esercizio di professioni, svolgimento di libertà. Più precisamente, si tratta di competenze preordinate ad un controllo capillare sulla vita associata, espressione di una concezione pervasiva dell’ordine pubblico, non compatibile con l’assetto costituzionale repubblicano”; in altri termini, “non ogni potere attribuito dalla legislazione all’autorità di pubblica sicurezza deve ritenersi attinente all’ordine pubblico, perché da tale ambito vanno escluse tutte quelle funzioni amministrative che tradizionalmente sono state inquadrate nella categoria della polizia amministrativa” (Corso).

Più recentemente la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimi-tà costituzionale di alcune norme della l. 19/2001 della Regione Lombardia (Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti) e a risolvere il problema, ai fini della determinazione della competenza ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, della individuazione della “materia” alla quale ricondurre la legge regionale in esame (ma-teria che, secondo il ricorrente, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, era da iden-tificare nei disposti delle lettere h) e s) dell’art. 117, comma 2, della Costituzione, ha osservato – sentenza 10/26 luglio 2002, n. 407 – come appaia improprio, nella fattispecie in esame, il riferimento alla materia “sicurezza”, di cui alla lettera h) del citato art. 117. Ad avviso della Corte, non sembra infatti necessario a questo scopo accertare, in una prospettiva generale, se nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale la nozione di “sicurezza pubblica” assuma un significato restrittivo, in quanto usata in endiadi con quella di “ordine pubblico”, o invece assuma una portata estensiva, in quanto distinta dall’ordine pubblico, o collegata con la tutela della salute, dell’ambiente, del lavoro e così via. È sufficiente infatti constatare, secondo la Corte, che il contesto specifico della lettera h) del comma 2 dell’art. 117 – che riprodu-ce pressoché integralmente l’art. 1, comma 3 lett. l), della l. 59/1997 – induce, in ragione della connessione testuale con “ordine pubblico” e dell’esclusione esplicita della “polizia amministrativa locale”, nonché in base ai lavori preparatori, ad un’in-terpretazione restrittiva della nozione di “sicurezza pubblica”. Questa infatti, secondo un tradizionale indirizzo giurisprudenziale, è da configurare, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale, come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico: è alla luce di queste considerazioni che, secondo la Corte, le disposizioni legislative in questione non possono rientrare nell’ambito materiale riservato alla competenza esclusiva dello Stato dalla lett. h) dell’art. 117, comma 2, della Costi-tuzione. Inoltre, se la disciplina in esame appare invece riconducibile al disposto

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dell’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, relativo alla tutela dell’ambiente, va però precisato – sottolinea la Corte – che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. In questo senso l’evoluzione legi-slativa e la giurisprudenza costituzionale portano ad escludere che possa identificarsi una “materia” in senso tecnico, qualificabile come “tutela dell’ambiente”, dal mo-mento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestrica-bilmente con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova formulazione del Titolo V della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell’ambiente come “valore” costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia “trasversale”, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale. “I lavori preparatori relativi alla lett. s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare che l’intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standards di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, senza peraltro escludere in questo settore la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali”. In definitiva, “si può quindi ritenere che riguardo alla pro-tezione dell’ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare la preesistente pluralità di titoli di legittimazione per interventi regionali diretti a soddisfare contestualmente, nell’ambito delle proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere uni-tario definite dallo Stato”.

Anche nella fattispecie in esame, del resto, emerge dalle norme comunitarie e sta-tali, che disciplinano il settore, una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e funzionalmente collegati con quelli inerenti in via primaria alla tutela dell’ambien-te, riconducibili a materie di competenza concorrente, “tutela della salute”, “governo del territorio”, “protezione civile”, “tutela e sicurezza del lavoro”: volendo configurare un parallelo non azzardato e tanto meno audace, può assumersi la sicurezza quale valore costituzionale primario caratterizzante, trasversalmente, varie materie oggetto di competenza concorrente Stato-Regioni (si possono aggiungere, rispetto alle materie pre-cedentemente menzionate, “l’istruzione”, “l’alimentazione”, “l’ordinamento sporti-vo”, la materia dei trasporti nel suo complesso e finanche materie concepite in linea di principio, ai sensi dell’art. 117, comma 2 Cost., quali materie di competenza legislativa esclusiva statale, quali ad esempio l’immigrazione, la cittadinanza, lo stato civile e le anagrafi, le prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela dei beni culturali) e implicanti un coinvolgimento di tutti i diversi livelli di governo delle autonomie territoriali nella gestione delle problematiche connesse alla tutela e al soddisfacimen-to delle esigenze di ottimizzazione del valore medesimo, sia attraverso lo strumento legislativo (le Regioni) che mediante l’organizzazione e lo svolgimento dell’azione amministrativa a tali fini necessaria (tutti i livelli di governo).

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La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 428/2004, pronunciandosi in merito al riparto di competenze fra Stato e Provincia autonoma di Bolzano in materia di sicurezza e di funzioni attribuibili alla polizia amministrativa locale, ha contribuito a definire e chiarire l’ambito di estensione dei poteri statali in materia di “ordine pubblico e sicurezza” di cui all’ art. 117, comma secondo, lett. h), della Costituzione.

La Provincia autonoma di Bolzano, ha impugnato alcune disposizioni del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), in quanto illegittime sotto due profili.

Innanzitutto sarebbero riconducibili alla materia della “circolazione stradale”, la quale “non sarebbe annoverabile tra le materie che spettano allo Stato in via esclusiva o concorrente (art. 117, secondo e terzo comma), e sarebbe invece compresa nella potestà legislativa esclusiva residuale delle Regioni ordinarie, ex art. 117, quarto comma, Cost.”, cosicché ne discenderebbe che in tale materia le Province autonome di Trento e Bol-zano avrebbero potestà legislativa esclusiva in virtù del disposto di cui all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.

La Provincia giustifica le proprie pretese fornendo una precisa interpretazione (restrittiva) all’estensione della materia “ordine pubblico e sicurezza” che l’art. 117, comma secondo, lett. h), Cost. attribuisce alla competenza esclusiva statale.

Infatti, si sostiene che da essa esulererebbe la circolazione stradale e la prevenzione degli incidenti automobilistici perché con l’espressione “ordine pubblico e sicurezza” la Costituzione si riferirebbe unicamente “all’esigenza di garantire la pacifica convi-venza rispetto ad atti di violenza, disordini o altri atti penalmente rilevanti e non potreb-be essere estesa fino a ricomprendere ogni ambito di svolgimento di attività umane lecite pacifiche che richiedano una qualche regolamentazione in ragione dei rischi connaturati alle stesse, come accadrebbe alla materia della circolazione stradale”.

In secondo luogo le disposizioni impugnate violerebbero lo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) che attribuisce alla Province autonome di Trento e Bolzano competenza legislativa esclusiva in materia di “viabilità acquedotti e lavori pubblici di interesse provinciale (art. 8, n. 17), di co-municazioni e trasporti di interesse provinciale compresi la regolamentazione tecnica e l’esercizio degli impianti di funivia (art. 8, n. 18), nonché in materia di toponomastica, fermo restando l’obbligo della bilinguità nel territorio della provincia di Bolzano (art. 8, n. 2); e, nei limiti di cui all’art. 5 la potestà legislativa (‘concorrente’) in materia di polizia locale urbana e rurale”.

La Corte ha ritenuto infondate tutte le argomentazioni della Provincia autonoma di Bolzano asserendo che anche a seguito della riforma costituzionale del 2001 la disciplina della circolazione stradale è rimasta attribuita alla competenza esclusiva dello Stato.

Innanzitutto, l’intrinseca pericolosità dei veicoli a motore fa emergere l’esigenza di assicurare l’incolumità personale dei soggetti coinvolti nella loro circolazione, esi-genza che, a dire della Corte, “certamente pone problemi di sicurezza, e, così, rimanda alla lettere h) del secondo comma dell’art. 117, che attribuisce alla competenza statale

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esclusiva la materia ‘ordine pubblico e sicurezza ad esclusione della polizia amministra-tiva locale’”.

Inoltre, le disposizioni che regolano la circolazione stradale, in quanto funzionali alla tutela dell’incolumità personale nonché volte alla prevenzione di reati ad essa connessi, correttamente vengono incluse nell’ambito dell’art. 117, comma 2, lettera h) e appaiono coerenti con la precedente giurisprudenza della Corte (sentenza n. 407 del 2002) “che riferisce la ‘sicurezza’ prevista dalla ricordata norma costituzionale all’adozione di misure relative alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico”.

La Corte Costituzionale ha ritenuto parimenti infondata l’asserita violazione, da parte della normativa impugnata, delle competenze attribuite alle Province autono-me di Trento Bolzano dallo Statuto Speciale della Regione Trentino-Alto Adige e dalle relative norme di attuazione.

Tutte le normative impugnate possono essere interpretate in senso conforme sia allo Statuto che alle norme di attuazione, inoltre, le competenze provinciali in mate-ria di strade non concernono la circolazione degli autoveicoli, bensì appaiono ineren-ti “alla localizzazione, costruzione e manutenzione delle strade stesse”.

Non vengono, poi, sottratte funzioni amministrative spettanti agli organi provin-ciali in tema di polizia locale dalle norme che subordinano l’esercizio dei poteri degli organi della Polizia stradale per l’accertamento degli stati di ebbrezza e di alterazione psico-fisica da sostanze stupefacenti alle direttive del Ministero degli interni.

Infatti si tratta di poteri “totalmente estranei all’ambito della polizia urbana locale” e “direttamente riconducibili alla materia di competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, comma secondo lettera h)”, poiché si tratta di poteri di polizia “finalizzati all’ac-certamento di condotte che legittimano l’adozione di provvedimenti amministrativi sulla patente o addirittura costituiscono reato”.

Riassumendo, la Corte, con questa importante sentenza, in primo luogo ha sotto-lineato che, nell’assetto delle competenze legislative derivanti dalla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, la disciplina della circolazione stradale non può ritenersi attratta nella competenza residuale regionale, essendo essa rimasta attri-buita alla competenza esclusiva dello Stato.

Inoltre, il giudice delle leggi, ha specificato che la competenza legislativa delle Province in materia di strade esistenti sul territorio provinciale va intesa come riferita agli aspetti più specificatamente inerenti alla localizzazione, costruzione e manuten-zione delle strade stesse e che le norme impugnate non si pongono in contrasto con lo Statuto regionale, ben potendo essere interpretate in senso conforme allo stesso, cioè, non sottraendo agli organi provinciali le funzioni amministrative che sono chia-mati ad espletare in tema di polizia locale.

Altra pronuncia significativa per chiarire e definire i poteri regionali in materia di sicurezza e di regolamentazione delle funzioni di polizia amministrativa locale è la sentenza 8/17 marzo 2006, n. 105.

La Corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale degli artt. 6 e 7 della legge della Regione Abruzzo 12.11.2004, n. 40 (Interventi regionali

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per promuovere l’educazione alla legalità e per garantire il diritto alla sicurezza dei cit-tadini).

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha proposto ricorso in via principale so-stenendo il contrasto delle disposizioni citate con l’art. 117, comma 2, lettera h), della Costituzione.

L’art. 6 prevede l’istituzione di un “Comitato scientifico regionale permanente per le politiche della sicurezza e della legalità” cui sarebbero attribuite le funzioni specificate al successivo art. 7, funzioni che, a dire del ricorrente, violerebbero la riserva di legge attribuita allo Stato in materia di “sicurezza pubblica”.

Emerge una nozione di “sicurezza pubblica”, quale desunta anche dall’elaborazio-ne della precedente giurisprudenza costituzionale, “da configurare in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa e locale, in un ambito teorico di stretta connessione con quello dell’ordine pubblico: e, d’altra parte, quest’ultimo, in quanto relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine, risulta oggetto di riserva a favore dello Stato […]. In tale competenza statale rientra la c.d. ‘polizia di sicurezza’, alla quale spetta l’adozione di misure preventive e repressive dirette al mante-nimento dell’ordine pubblico […] nonché della sicurezza delle istituzioni e dei cittadini e dei loro beni”.

Parte ricorrente ritiene che, sulla base di tali argomentazioni, la normativa impu-gnata esorbiti le competenze regionali in materia di polizia amministrativa locale in quanto estremamente generica, cosicché da invadere le generali “funzioni di preven-zione e repressione delle condotte criminose proprie della sicurezza pubblica”.

Di diverso avviso si è dimostrato il giudice delle leggi respingendo il ricorso in quanto infondato.

Il Comitato scientifico regionale permanente per le politiche della sicurezza e della legalità viene presentato, dalla Regione, quale organo che, nell’ambito di una generale attività di prevenzione, riveste un ruolo meramente informativo e statistico, caratterizzato da finalità di studio, analisi ed informazione, ascrivibili alle funzioni di polizia amministrativa locale, risultando, così, estraneo a finalità preventive e/o repressive riconducibili all’attività di sicurezza pubblica.

La Corte ha ritenuto che il Comitato in questione fosse coerente con le finalità della legge impugnata e, cioè, che fosse funzionale alla realizzazione del principio di leale collaborazione contribuendo, da un lato, a garantire la sicurezza dei cittadini diffondendo “principi di un’ordinata e pacifica convivenza civile nella legalità democra-tica” nonché concorrendo con le autonomie locali, a “sostenere le iniziative tendenti all’integrazione delle politiche sociali e territoriali sulla sicurezza di competenza regionale e degli Enti Locali con l’azione di contrasto della criminalità di competenza degli organi dello Stato”.

Le attività che il Comitato è chiamato ad espletare (consultive, di studio e ricerca) non sarebbero “suscettibili di una teorica collocazione nell’ambito della nozione di “si-curezza pubblica” quale delineata dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 313 del 2003 e 407 del 2002) […]”.

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Infatti, “al di là dell’ampiezza della nozione di sicurezza e ordine pubblico – quale settore di competenza riservato allo Stato, in contrapposizione ai compiti di polizia am-ministrativa regionale e locale – è la stessa natura dell’attività conoscitiva, in sé estranea a tal orizzonte di competenza, ad escludere al possibilità che la normativa oggetto di censura incida sull’assetto della competenza statale”.

L’attività di rilevazione, studio ricerca proprie del Comitato, appaiono funzio-nali ad una “completa ed articolata attuazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni regionali e locali ed istituzioni statali”: in quest’ottica la Corte non esclude che lo Stato, in materia di ordine e sicurezza pubblica, persegua “opportune forme di coordinamento” con gli enti territoriali “volte a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, ‘auspicabili’ e suscettibili di trovare il loro fondamento anche in ‘accordi fra gli enti interessati’, oltre che nella legislazione statale”.

6. Polizia locale e politiche di sicurezza nella legislazione regionale

La natura trasversale della sicurezza, quale valore costituzionale primario attinente – in quanto comune denominatore – ad una pluralità di ambiti o settori materiali di competenza dello Stato e delle Regioni e alla cui protezione sono pertanto chia-mati tutti i soggetti dello Stato-ordinamento che compongono la Repubblica nel suo complesso, risulta confermata dall’attrazione – all’interno di un unitario ambito legislativo – dei profili rispettivamente relativi al ruolo ed alle funzioni della polizia locale da una parte e alle politiche di sicurezza, dall’altra, e dalla trama di stretto intreccio e di evidente sinergia fra i profili medesimi che connota la più recente legi-slazione regionale in materia.

Tale correlazione emerge con chiarezza da tutte le normative regionali in materia che sono state emanate a seguito della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione:

– l. 16.8.2001, n. 38, della Regione Toscana (Interventi regionali a favore delle politiche locali per la sicurezza della comunità toscana);

– l. 27.7.2002, n. 11 della regione Marche (Sistema integrato per le politiche di sicurezza e di educazione alla legalità);

– l. 14.4.2003, n. 4, della Regione Lombardia (Riordino e riforma della disciplina regionale in materia di polizia locale e sicurezza urbana), modificata dalla l. n. 13 del 2006;

– l. 13.6.2003, n. 12, della Regione Campania (Norme in materia di polizia am-ministrativa Regionale e locale e politiche di sicurezza);

– l. 4.12.2003, n. 24, della Regione Emilia-Romagna (Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza);

– l. 23.3.2004, n. 6, della Regione Piemonte (Politiche regionali integrate in ma-teria di sicurezza);

– l. 12.11.2004, n. 40, della Regione Abruzzo (Interventi regionali per promuovere l’educazione alla legalità e per garantire in diritto alla sicurezza dei cittadini);

– l. 13.1.2005, n. 1, della Regione Lazio (Norme in materia di polizia locale);

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– l. 25.1.2005, n. 1, della Regione Umbria (Disciplina in materia di polizia locale);– l. 19.5.2005, n. 11, della Regione Valle d’Aosta (Nuova disciplina della polizia

locale e disposizioni in materia di politiche di sicurezza);– l. 27.6.2005, n. 8, della Provincia autonoma di Trento (Promozione di un siste-

ma integrato di sicurezza e disciplina della polizia locale);– l. 10.1.2007, n. 2007, della Regione Calabria (Promozione del sistema integrato

di sicurezza);– l. 10.12.2007, n. 23, della Regione Piemonte (Disposizioni relative alle politiche

regionali in materia di sicurezza integrata);– l. 22.8.2007, n. 9, della Regione Sardegna (Norme in materia di polizia locale e

politiche regionali per la sicurezza);– l. 16.11.2007, n. 59, della Regione Toscana (Norme contro la violenza di genere);– l. 1.8.2008, n. 31, della Regione Liguria (Disciplina in materia di polizia locale);– l. 14.10.2008, n. 13, della Regione Umbria (Disposizioni relative alla promozio-

ne del sistema integrato di sicurezza urbana ed alle politiche per garantire il diritto alla sicurezza dei cittadini);

– l. 29.12.2009, n. 41, della Regione Basilicata (Polizia locale e politiche di sicu-rezza urbana);

– l. 29.4.2009, n. 9, della Regione Friuli Venezia Giulia (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale);

– l. 29.3.2010, n. 11, della Regione Valle d’Aosta (Politiche e iniziative regionali per la promozione della legalità e della sicurezza).

Le normative citate, quanto all’oggetto e alle finalità che perseguono, non appaio-no sempre perfettamente coincidenti.

Vengono in rilievo l’attuazione e promozione di politiche locali e integrate per la sicurezza, per lo sviluppo di una diffusa cultura della legalità, della prevenzione e del recupero dei fenomeni di devianza (Piemonte), la sicurezza urbana quale condi-zione primaria per un ordinato svolgimento della vita civile, il fine di incrementare i livelli di sicurezza urbana nel territorio regionale, il concorso della Regione allo sviluppo di un’ordinata e civile convivenza, alla prevenzione dei fenomeni criminali e delle loro cause (Lombardia), lo sviluppo dell’ordinata e civile convivenza della comunità regionale, il miglioramento delle condizioni di sicurezza delle persone, la promozione dell’integrazione delle politiche sociali e territoriali, di competenza della Regione medesima e degli enti locali, con le politiche di contrasto della criminalità di competenza degli organi statali, concependosi gli interventi nei settori della polizia locale, della sicurezza sociale, dell’educazione alla legalità, del diritto allo studio, della formazione professionale, del collocamento al lavoro, della riqualificazione urbana, dell’edilizia residenziale pubblica quali strumenti per il concorso della Regione allo sviluppo di un’ordinata e civile convivenza della comunità regionale, alla prevenzione dei fenomeni e delle cause della criminalità e al sostegno delle vittime di reati (Tosca-na), lo sviluppo dell’ordinata e civile convivenza della comunità regionale attraverso interventi nei settori della polizia locale, della sicurezza sociale, dell’educazione alla legalità, del diritto allo studio, della formazione professionale, del collocamento al

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lavoro, della riqualificazione urbana, dell’edilizia residenziale pubblica, da realizzarsi anche attraverso gli interventi degli enti locali, singoli o associati, volti a migliorare le condizioni di sicurezza delle comunità locali e a sostegno delle vittime della crimina-lità (Umbria), l’attuazione e l’integrazione delle norme vigenti in materia di polizia locale, la promozione di un sistema integrato di sicurezza delle città del territorio della Regione, anche incentivando le forme di collaborazione tra la polizia locale e le forze di polizia dello Stato, la disciplina relativa alle funzioni di polizia amministrati-va per i compiti esercitati dalla Regione e dagli enti locali, la formazione degli addetti alla polizia locale anche per l’attuazione delle politiche di sicurezza e di nuove profes-sionalità, il coordinamento di azioni volte alla promozione di un sistema di sicurezza ispirato al principio di un’ordinata e civile convivenza, fondato sulla diffusione della cultura della legalità della integrazione e del rispetto delle diversità, nonché la pro-mozione di azioni tese a contrastare la criminalità organizzata e diffusa, sviluppando la cultura dell’appartenenza alla comunità e del rispetto delle regole democratiche (Campania), infine le azioni volte al conseguimento di un’ordinata e civile convi-venza nelle città e nel territorio regionale, anche con riferimento alla riduzione dei fenomeni di illegalità e di inciviltà diffusa (Emilia-Romagna).

Ancora, la Regione Abruzzo concorre a garantire nel proprio territorio condizioni di sicurezza dei cittadini intervenendo a diffondere i principi di un’ordinata e pacifica convivenza civile nella legalità democratica e, in collaborazione con il sistema del-le autonomie locali, sostiene iniziative volte all’integrazione delle politiche sociali e territoriali sulla sicurezza di competenza regionale e degli Enti Locali con l’azione di contrasto della criminalità di competenza degli organi dello Stato.

Sono attivate, inoltre, forme di collaborazione tra le polizie locali della Regione.In Lazio, sono dettate norme generali sull’organizzazione dell’attività e dei servizi

che la polizia locale è chiamata ad espletare, al fine di migliorarne l’efficacia e l’ef-ficienza attraverso una gestione coordinata e omogenea che garantisca un adeguato controllo del territorio e concorra alla salvaguardia dei diritti di sicurezza dei citta-dini; mentre la normativa umbra che disciplina l’esercizio delle funzioni di polizia amministrativa locale è diretta ad assicurare una gestione coordinata e omogenea delle funzioni e dei compiti della polizia locale anche al fine di un adeguato controllo del territorio e di tutela del diritto alla sicurezza dei cittadini.

La Regione Valle d’Aosta, disciplinando l’esercizio delle funzioni di polizia locale e dettando disposizioni per un sistema integrato di sicurezza sul territorio, si pre-scrive di assicurare il rispetto della legalità, contribuendo al benessere, al progresso e allo sviluppo della comunità regionale, e di incrementare il livello di sicurezza dei cittadini

Con la l. 8/2005, la Provincia di Trento prevede la realizzazione di interventi fina-lizzati al conseguimento di un’ordinata e civile convivenza nel territorio provinciale, alla prevenzione delle condizioni sociali, ambientali ed economiche che possono es-sere causa dei fenomeni di devianza e di disagio sociale, anche in ambito familiare, al sostegno delle vittime di reati, attraverso la promozione di un sistema integrato di sicurezza che tenga conto delle specifiche esigenze di tutela di ogni persona anche in

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una prospettiva di pari opportunità. Sono, inoltre, individuati indirizzi generali re-lativi all’organizzazione ed allo svolgimento del servizio di polizia locale dei Comuni e loro forme associative, il coordinamento delle relative attività e l’esercizio associato delle funzioni, nonché le modalità di accesso e la formazione degli operato di polizia locale.

Sul versante degli interventi che la più recente legislazione regionale contempla ai fini del perseguimento degli obiettivi anzidetti, preme qui sottolineare come de-nominatore comune delle leggi citate appaia l’inquadramento delle “politiche locali per la sicurezza”, azioni volte al conseguimento di una ordinata e civile convivenza nella città e nel territorio regionale, in sinergia con le “politiche integrate per la sicurezza”,azioni volte a fare interagire le politiche locali per la sicurezza con le politi-che di contrasto alla criminalità e di sicurezza pubblica di competenza esclusiva dello stato, all’interno di un “sistema integrato di sicurezza”, rivolto alla definizione ed at-tuazione di politiche sociali, di sviluppo e di previsione sinergicamente finalizzate alla maggior sicurezza del territorio regionale, in particolar modo con riferimento alla riduzione dei fenomeni di illegalità e di inciviltà diffusa, anche attraverso la stipula di patti locali di sicurezza urbana.

Gli interventi regionali consistono in azioni integrate, di natura preventiva; pra-tiche di mediazione dei conflitti e riduzione del danno; esecuzione alla convivenza, nel rispetto dee principio di legalità. Si prevede il coordinamento di tali interventi con quelli regionali in materia di prevenzione, contrasto e riduzione delle cause del disagio e dell’emarginazione sociale, nonché di contrasto della recidiva nei compor-tamenti criminosi; di riqualificazione urbana; di promozione delle forme associative fra i Comuni; di protezione civile; di polizia stradale, di sicurezza ambientale; di sicurezza e regolarità del lavoro; di prevenzione esercitata dalle aziende sanitarie locali e dalle agenzie regionali per la prevenzione e l’ambiente.

Sono altresì previsti interventi di assistenza ed aiuto alle vittime di reati che si concretano nella realizzazione di sportelli si assistenza deputati a svolgere attività di informazione sugli strumenti di tutela garantiti dall’ordinamento; in attività di consulenza psicologica, cura ed aiuto alle vittime, specialmente se anziane, portatrici di handicap, minori, o soggetti che hanno subito violenze connesse a reati di tipo ses-suale e di discriminazione razziale; in attività di tipo assistenziale volte alla riduzione del danno subito con conseguente ripristino della situazione antecedente.

Tutte le normative regionali sopra citate, avvalendosi delle potenzialità dischiuse dall’art. 118, comma 3, Cost. e nel rispetto delle forme di coordinamento previste in tale sede, prestano molta attenzione alla promozione di forme di coordinamento con lo Stato volte alla realizzazione di un sistema integrato di sicurezza che veda coinvolti tutti i diversi livelli di governo del territorio, secondo le rispettive competenze.

È previsto ed incentivato, da parte delle Regioni, l’esercizio associato delle fun-zioni di polizia locale (anche garantendo il servizio di polizia municipale in ambiti territoriali che esorbitano dai confini del singolo Comune) tramite: convenzioni fra Comuni; comando o distacco di addetti nonché servizi di ausilio in caso di eventi eccezionali. La gestione associata delle risorse, comporta che siano unitariamente

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definiti i contenuti essenziali del servizio nonché le modalità di svolgimento dello stesso ed è preordinata alla necessità di garantire uno svolgimento omogeneo e coor-dinato delle relative funzioni in tutto il territorio regionale potendo essere prevista sia per soddisfare esigenze di carattere stagionale o temporaneo sia ogni qual volta sia ritenuta opportuna per migliorare la qualità del servizio o per realizzare una maggior economicità nella gestione.

Le normative oggetto di analisi promuovono anche il raggiungimento di accordi fra le forze di polizia provinciali e le forze di polizia municipale, di concerto con lo Stato e la Regione, volti a configurare un esercizio integrato delle funzioni di polizia, così da realizzare ad interventi capillari ed efficaci in tutto il territorio, secondo le rispettive competenze.

Al fine di individuare le linee di condotta, nell’ambito degli accordi sopra citati, viene posta molta attenzione anche al necessario coinvolgimento di soggetti rappre-sentativi di interessi collettivi soprattutto per quanto attiene alla definizione di siste-mi informativi integrati volti a favorire lo scambio di informazioni in materia di sicu-rezza (trasversalmente considerata), criminalità, disordini, disagio sociale, inciviltà.

Sono previste, altresì, forme di coordinamento volte a garantire: la gestione inte-grata del controllo del territorio e degli interventi di emergenza nel campo sociale, sanitario, della mobilità e della sicurezza; lo sviluppo di moduli organizzativi dell’at-tività di polizia fondati sul principio di prossimità anche mediante figure di operatori di quartiere ed il coinvolgimento dei cittadini; le aree problematiche che richiedono l’azione coordinata l’azione coordinata di più soggetti pubblici, fra cui le violenze e le molestie sessuali, la violenza familiare, lo sfruttamento e la violenza su minori, la prostituzione coatta, le violenze e le discriminazioni su base xenofoba o razzista, i confini culturali ed etnici, le tossicodipendenze, nonché le funzioni di vigilanza sani-taria ed ambientale di competenza regionale; attività di formazione integrata rivolte agli operatori delle forze dell’ordine delle forze di polizia nazionali e locali, nonché degli operatori sociali.

Nel rispetto delle finalità che si sono prefissate, alcune Regioni, al fine di promuo-vere l’educazione alla convivenza e il rispetto della legalità, la mediazione dei conflitti e il dialogo tra le persone, l’integrazione e l’inclusione sociale, hanno ammesso anche il coinvolgimento delle organizzazioni di volontariato, così da assicurare una presen-za attiva sul territorio, presenza che, però, può essere solo aggiuntiva e mai sostitutiva rispetto a quella ordinariamente garantita dalla polizia locale.

I volontari devono operare su indicazione e alle dipendenze dirette del responsa-bile del servizio di polizia locale e non possono aver subito condanna a pena detenti-va per delitto non colposo, essere stati sottoposti a misure di prevenzione né espulsi o licenziati per giustificato motivo soggettivo dalle forze armate/di polizia.

Sono promosse, altresì, le opportune forme di collaborazione con le forze di poli-zia dello Stato, nonché intese interregionali per la realizzazione di interventi e sistemi informativi integrati in materia di sicurezza. Le Regioni incentivano, poi, la stipula di apposite intese tra le forze di polizia provinciale e le forze di polizia municipale al fine di realizzare, secondo modalità concordate fra i soggetti interessati, un esercizio

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integrato delle funzioni di polizia locale, anche predisponendo idonei servizi infor-mativi unificati su base regionale.

Al fine di promuovere il coordinamento e la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel settore della sicurezza, nel rispetto delle diverse competenze ricono-sciute ad ognuno di essi, sono istituiti appositi organi deputati all’attuazione delle politiche integrate per la sicurezza, cioè alla definizione delle politiche concertate e intergrate per il miglioramento della sicurezza urbana.

Le Regioni sostengono, anche finanziariamente, la realizzazione di progetti pre-disposti da Comuni (singoli o associati), Unioni di Comuni o Province, volti al recupero sociale di zone degradate, alla difesa di categorie “deboli”, alla promozione dell’educazione stradale e della diffusione della cultura della legalità.

Viene posta attenzione, inoltre, al necessario utilizzo coordinato ed integrato del-le risorse finanziarie, regionali, statali ed europee; nonché assicurata la partecipazione delle Regioni ad organismi nazionali ed internazionali operanti nel campo dell’edu-cazione alla legalità e del diritto alla sicurezza dei cittadini, quale, ad esempio, il Forum Europeo per la Sicurezza Urbana (Abruzzo).

Si osserva, altresì, l’assunzione del tema della sicurezza urbana, della tutela dell’ambiente e del territorio come uno degli obiettivi da perseguire nell’ambito delle competenze relative all’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo econo-mico; lo svolgimento di azioni positive quali campagne informative, interventi di arredo urbano e riqualificazione urbana, politiche di riduzione del danno e di media-zione culturale e sociale, l’istituzione della vigilanza di quartiere o di altri strumenti e figure professionali con compiti più squisitamente preventivi, la collaborazione con gli istituti di vigilanza privata, la promozione di attività di animazione culturale in zone a rischio, lo sviluppo di attività volte all’integrazione nella comunità locale di cittadini immigrati e ogni altra azione finalizzata a ridurre l’allarme sociale, il numero delle vittime di reato, la criminalità e gli atti incivili.

Dall’analisi della legislazione in esame emerge un quadro articolato e complesso in ordine alle variegate funzioni che la polizia locale è chiamata ad espletare.

Il servizio di polizia locale, infatti, con alcune differenze fra Regione e Regione, è titolare di:

– funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza, per garantire, in concorso con le altre forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana nell’ambito del territorio di compe-tenza;

– funzioni di polizia stradale;– funzioni di polizia giudiziaria;– funzioni di polizia tributaria con riferimento alle attività ispettive e di vigilanza

sull’osservanza delle disposizioni relative ai tributi locali;– funzioni di polizia amministrativa, volte ad accertare, prevenire e reprimere

illeciti amministrativi derivanti dalla violazione di normative di autorità regionali e locali;

– funzioni di prevenzione e repressione delle infrazioni ai regolamenti di polizia locale;

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– funzioni attinenti alla gestione di servizi d’ordine, vigilanza e di scorta, necessa-rie all’espletamento di attività istituzionali del Comune;

– compiti di segnalazione, alle autorità competenti, di disfunzioni e carenze dei servizi pubblici, nonché di eventuali ragioni di pericolo per la pubblica incolumità;

– funzioni di soccorso, di concerto con la protezione civile, in caso di calamità o disastri, ovvero in caso di infortuni privati;

– funzioni di vigilanza sull’integrità e conservazione del patrimonio pubblico;– funzioni tecniche di controllo in materia di tutela dell’ambiente dagli inquina-

menti, nonché di vigilanza sull’attività ittico-venatoria;– funzioni di controllo del rispetto delle norme in materia urbanistico-edilizia;– funzioni di informazione, accertamento, monitoraggio e rilevazione dati con-

nessi alle funzioni istituzionali comunali o comunque richiesti da autorità compe-tenti;

– funzioni di supporto alle attività di controllo spettanti agli organi preposti alla vigilanza in materia di lavoro e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Meritano di essere oggetto d’analisi anche alcune normative regionali che, rego-lando settori apparentemente estranei a quello della sicurezza, attribuiscono alla poli-zia locale anche funzioni di ausilio e supporto a Corpi dello Stato quali, ad esempio, il Corpo forestale (l. reg. Molise, 27.05.2005, n. 24 rubricata Nuova disciplina della raccolta, della coltivazione e della commercializzazione dei tartufi).

Deve, infine, apprezzarsi il coinvolgimento dei funzionari e dei rappresentanti delle forze di polizia locale in seno ad organi collegiali chiamati a svolgere una fun-zione di supporto non solo consultivo ma anche di programmazione degli interventi e tecnico-operativo a favore degli organi di indirizzo delle regioni: il riferimento è in particolare e specificatamente al Comitato tecnico di polizia locale previsto dalla l. 24/2003 della Regione Emilia-Romagna, ma anche, in via esemplificativa, all’Osser-vatorio per la sicurezza e la vivibilità istituito dalla l. 12/2002 della Regione Umbria, all’Osservatorio regionale sulla sicurezza e al Comitato tecnico scientifico istituiti dalla l. 6/2004 della Regione Piemonte, al Comitato regionale per la Sicurezza urbana istitu-ito dalla l. 4/2003 della Regione Lombardia, al Comitato tecnico-consultivo istituito dalla l. 12/2003 della Regione Campania.

La normativa in materia ha continuato ha dare rilevanza al coinvolgimento dei funzionari e dei rappresentanti delle forze di polizia locale prevedendo l’istituzione di un Comitato tecnico consultivo (l. 11/2005 della Regione Valle d’Aosta; l. 1/2005 del-la Regione Umbria), di un Comitato tecnico di polizia locale (l. 8/2005 della Provincia autonoma di Trento); di una Conferenza permanente Regione-Enti Locali (l. 40/2004 della Regione Abruzzo); di Comitato tecnico-consultivo per la polizia locale che opera di concerto con la Conferenza regionale per la polizia locale e per le politiche di sicurezza integrata (l. 1/2005 della Regione Lazio).

Con riferimento ai profili di attuazione delle leggi regionali oggetto del nostro studio, sono intervenute numerose delibere regionali volte ad attuare gli indirizzi e gli interventi regionali in materia di sicurezza e ordinamento della polizia ammini-strativa locale.

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Le Giunte regionali hanno, infatti, deliberato e definito gli standard essenziali e gli standard raccomandati di servizio delle strutture di polizia locale (Delib. G. Reg. Emilia-Romagna 21 giugno 2004, n. 1179; istituito Corpi intercomunali di poli-zia municipale (Delib. G. Reg. Emilia-Romagna 304/2005); ribadito l’intenzione a sviluppare un’azione di potenziamento dei Servizi di Polizia Locale (Delib. G. Reg. Lazio, 25.3.2005 n. 407).

Di particolare interesse appare la Delib. G. Reg. Campania 11.2.2005, n. 146 volta alla promozione di un sistema integrato di sicurezza urbana e ripristino della legalità. In questa sede si sottolinea la differenza fra il concetto di “sicurezza e ordine pubblico” di cui all’art. 117, comma 2, lett. h), Cost., da quello di “sicurezza urbana” evidenziando l’affermarsi di una sicurezza che è anche “attività positiva di rafforza-mento della percezione pubblica della sicurezza stessa […] combinazione di interventi per prevenire la criminalità e favorire la migliore vivibilità di tutti i cittadini”. Acquista rilievo il riferimento al contesto urbano-locale, affermandosi, così, “un nuovo ruolo dei soggetti istituzionali (Comuni, Province e Regioni) che non hanno avuto precedente-mente competenze e responsabilità dirette nella prevenzione e nel contrasto della crimi-nalità”.

La Regione pone l’accento sulla necessità di concentrarsi su un sistema di coor-dinamento che si muova costantemente dal locale al globale e, promuove un sistema integrato di sicurezza urbana e ripristino della legalità.

Elemento centrale delle politiche di sicurezza diventa la prevenzione, intesa quale complesso di interventi che mirano all’aumento della rassicurazione sociale.

Si tratta di attività, individuate precipuamente dalle autonomie locali ed estranee al sistema penale, capaci di intervenire anche sugli aspetti strutturali della criminalità.

In questo contesto, la Regione rappresenta il punto di raccordo istituzionale fra Stato ed Enti Locali ed è chiamata a coordinare e promuovere le politiche di sicurezza del territorio per realizzare una sistema integrato di sicurezza urbana.

Emerge la volontà di “promuovere condizioni di sicurezza e di legalità nelle città del territorio regionale e all’interno dei sistemi di aggregazione socio-economica attraverso la realizzazione di interventi tesi a realizzare la diffusione e la divulgazione della cultura della legalità ed il miglioramento della percezione della sicurezza da parte degli operatori economici e dei cittadini. In tal senso vengono promosse attività di alta specializzazione destinate sia ad operatori pubblici che privati ed azioni di adeguamento delle competenze del personale di polizia amministrativa locale”.

La Regione si prefigge di raggiungere i propri obiettivi in materia di sicurezza attraverso:

– azioni di adeguamento delle competenze e realizzazione di percorsi di specia-lizzazione per la creazione di profili professionali da impiegare nella progettazione, gestione e monitoraggio di progetti di sicurezza urbana integrata;

– azioni di formazione e realizzazione di percorsi integrati rivolti agli operatori di imprese sociali;

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– azioni di supporto per l’attivazione di servizi sperimentali ed innovativi rivolti ai cittadini presso le Pubbliche Amministrazioni inerenti la sicurezza urbana, la lega-lità e la polizia locale;

– la qualificazione e sostegno alla qualificazione del personale di polizia locale (Formazione continua, Formazione permanente);

– il potenziamento delle attività dell’Osservatorio regionale sulla sicurezza urba-na (di cui alla l. reg. Campania 12/2003) per la promozione, programmazione, il coordinamento ed il monitoraggio di interventi in materia di sicurezza urbana, da realizzarsi anche attraverso la valorizzazione dell’utilizzo delle nuove tecnologie e la sperimentazione di modelli innovativi dell’assetto organizzativo e delle prassi della polizia locale della Regione;

– il potenziamento dei servizi funzionali alla realizzazione e al coordinamento de-gli interventi programmati, nonché alla promozione delle politiche locali di scurezza urbana;

– specifiche azioni di sensibilizzazione e comunicazione sui temi della sicurezza e della legalità.

Dal complesso delle normative analizzate emerge in modo chiaro la volontà di rafforzare la concertazione e la sinergia di azioni ed interventi fra i diversi livelli di governo: la polizia locale appare assumere un ruolo centrale quale soggetto chiamato ad assicurare una tutela veramente efficace e capillare in tutti i settori in cui possono venire in rilievo problematiche connesse alla sicurezza (trasversalmente intesa) dei cittadini.

7. Conclusioni

L’analisi della normativa regionale da ultimo menzionata conferma l’esigenza di non trascurare – come si è più volte segnalato in precedenza – il peculiare ancoraggio che caratterizza la polizia municipale rispetto al territorio di esercizio dei propri compiti e funzioni e la particolare vocazione dei corpi di tale polizia a fornire un contributo determinante ai fini del governo complessivo della sicurezza delle città, anche in sinergia con i soggetti e le entità organizzative dello Stato istituzionalmente compe-tenti in materia di pubblica sicurezza e di ordine pubblico.

Una conferma di quanto osservato può individuarsi nel fiorire di protocolli di intesa fra Comuni e Prefetture locali per la sperimentazione di nuove modalità di relazione finalizzate alla realizzazione di iniziative coordinate sul versante della pro-grammazione, organizzativo e della circolazione dei flussi informativi ai fini di un ottimale governo del contesto urbano, in particolare per quanto concerne i profili della sicurezza e del decoro dell’ambito cittadino, iniziative che nel loro complesso hanno preceduto e accompagnato la definizione di un quadro legislativo regionale in materia.

Le Regioni sono dunque chiamate a fornire ai fini anzidetti un contributo deter-minante, nel rispetto dell’autonomia gestionale ed operativa dei servizi di cui sono titolari i Comuni e le Province, limitandosi tuttavia ad una funzione di organizzazio-

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ne e di coordinamento delle attività e dei compiti di polizia espletati dai medesimi, evitando inopportune sovrapposizioni tali da provocare una dispersione di energie amministrative e anzi valorizzando il patrimonio di esperienze maturate sul territorio di cui la polizia municipale è depositaria.

L’anzidetta funzione che le Regioni sono portate ad espletare sul versante della implementazione delle politiche di sicurezza ha trovato eco nella giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 29 aprile/7 maggio 2004, n. 134) chiamata a pronun-ciarsi sulla legittimità costituzionale della l. della Regione Marche 24 luglio 2002, n. 11 (Sistema integrato per le politiche di sicurezza e di educazione alla legalità). L’art. 3, comma 3, lettere d), e), f ), g) di tale legge prevedeva infatti che, tra nume-rosi altri soggetti, quali membri Comitato di indirizzo – organo dell’Osservatorio regionale per le politiche integrate di sicurezza istituito presso la Presidenza della Giunta regionale – i Prefetti della Regione o loro delegati, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona, il Procuratore della Repubbli-ca presso il Tribunale di Ancona, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Ancona. La Corte ha osservato, in primo luogo, come la norma censurata non si limiti a prevedere l’utilizzazione di magistrati per lo svolgimento di incarichi extragiudiziari estranei ai loro compiti di istituto, suscettibili, quindi, di essere autorizzati sulla base dei presupposti e con le modalità previsti dalla disciplina sullo stato giuridico dei magistrati, “ma attribuisce nuovi compiti ai titolari di uffici giudiziari in quanto tali, configurandoli ex lege come componenti necessari di un organo regionale, al quale essi dovrebbero pertanto partecipare obbligatoriamente. Il tenore della norma esclude infatti che la partecipazione al Comitato di indirizzo sia rimessa alla libera volontà dei titolari degli uffici giudiziari indicati, come nelle ipotesi in cui è prevista la semplice possibilità di partecipare a riunioni di altri organi (v. ad esempio quanto disposto dall’art. 20 della l. 1 aprile 1981, n. 121, modifica-to, da ultimo, dal d.lgs. 28 dicembre 2001, n. 472, per gli appartenenti all’ordine giudiziario, che possono essere invitati dal Prefetto, d’intesa con il Procuratore della Repubblica competente, a partecipare alle riunioni del Comitato provinciale per l’or-dine e la sicurezza pubblica)”. È sulla base di tali considerazioni che deve ritenersi, ad avviso della Corte, che la norma invada la potestà legislativa esclusiva dello Stato stabilita dall’art. 117, comma 2, lett. g), Cost. in tema di ordinamento degli organi e degli uffici dello Stato, e violi la riserva di legge statale prevista dall’art. 108, comma 1, Cost. in tema di ordinamento giudiziario. È per ragioni analoghe che la prevista partecipazione dei Prefetti al Comitato di indirizzo, contemplata dall’art. 3, comma 3, lett. d), della legge impugnata, appare ledere la competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. g), Cost. Ma il profilo posto in rilievo – questo è il pas-saggio deduttivo della Corte che preme qui sottolineare – “ovviamente non esclude che si sviluppino auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del terri-torio, sulla falsariga di quanto ad esempio prevede il D.P.C.M. 12 settembre 2000, il cui art. 7, comma 3, in relazione al comma 1, dispone che il Ministro dell’interno promuove “le iniziative occorrenti per incrementare la reciproca collaborazione” tra

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organi dello Stato Regioni in tema di “sicurezza delle città e del territorio extraur-bano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini”. Ma le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle Regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati”.

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Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

La “sicurezza urbana” tra fonti statali e fonti regionali

Michele Belletti

1. Delimitazione della materia

La prima domanda che corre l’obbligo porsi nel sondare la tematica in questione è se la materia “sicurezza pubblica” abbia o meno una autonoma rilevanza, distinta dun-que dalla materia “ordine pubblico e sicurezza”, di cui alla lett. h), comma 2, art. 117 Cost., tale da poter assumere una portata più ampia, così, conseguentemente da po-tere cercare una risposta in ordine alla collocazione della materia “sicurezza urbana”.

La Corte costituzionale, in occasione della sentenza n. 407 del 2002 pare pro-spettare una interpretazione restrittiva della nozione di “sicurezza pubblica”, come ambito riservato allo Stato e concernente le “misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico”1.

Più nello specifico, si segnala che con la sentenza n. 237 del 2006 viene fatta rientrare nella materia in questione la disciplina dei giochi d’azzardo, oltre a quella relativa ai giochi che, pur presentando un elemento aleatorio e distribuendo vincite, non sono ritenuti d’azzardo (si pensi ai casi di cui al comma 6 dell’art. 10 TULPS). Ancor prima, con la sentenza n. 290 del 2001 la Consulta aveva affermato che “la ri-serva allo Stato riguarda le funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamen-tali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume prioritaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento”.

Con la sentenza n. 313 del 2003, la Corte costituzionale ribadisce che la po-lizia di sicurezza è finalizzata ad adottare “le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cit-tadini e dei loro beni”2, rientrante nella competenza esclusiva del legislatore statale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. h).

1 Questa interpretazione ha trovato successivamente conferma in diverse altre pronunce, quali, a mero titolo esemplificativo, sentenze nn. 6, 162 e 428 del 2004, 92 del 2005 e 237 del 2006.

2 Secondo la definizione che viene offerta dal comma 2 dell’art. 159 del d.lgs. n. 112 del 1998.

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Come è noto, quest’ultima disposizione esclude espressamente la “polizia ammi-nistrativa locale”, che evidentemente rientra nella competenza legislativa residuale regionale, che non attiene dunque “all’ordine pubblico e alla sicurezza”, ma che, ad avviso della Corte costituzionale, “segue invece, in quanto strumentale, la distribu-zione delle competenze principali cui accede”3. Vale la pena dunque interrogarsi sulla portata concreta di tale affermazione, dalla quale parrebbe desumersi che l’esclusione di cui alla lett. h) della “polizia amministrativa locale” non individua necessariamen-te ed automaticamente un titolo di competenza regionale, ma, più propriamente, seguirebbe il regime delle competenze alle quali accede, in quanto strumentale alle medesime. Sicuramente è da evidenziare che nella lett. h), comma 2, art. 117 Cost. vi è una “concorrenza di competenze” in re ipsa, e la competenza legislativa regionale non sarebbe certo residuale, ai sensi del comma 4, art. 117 Cost., ma esclusiva, in quanto esplicitamente individuata.

La Consulta ha precisato inoltre che non può rientrare nella competenza in ar-gomento la disciplina inerente le attività a rischio di incidenti rilevanti, che, più propriamente, con la sentenza n. 407 del 2002, è fatta rientrare in diverse materie di competenza concorrente, quali, la “tutela della salute”, il “governo del territorio”, la “protezione civile” e la “tutela e sicurezza del lavoro”, così come parimenti è escluso che vi rientri la sicurezza tecnica o la sicurezza dell’approvvigionamento dell’energia elettrica4; naturalmente è esclusa la sicurezza sul lavoro.

2. Configurabilità di un intervento regionale in materia?

Avendo più specificamente riguardo agli interventi regionali, è interessante eviden-ziare che, con la sentenza n. 105 del 2006, la Corte costituzionale salva una legge della Regione Abruzzo (legge n. 40 del 2004), recante “Interventi regionali per pro-muovere l’educazione alla legalità e per garantire il diritto alla sicurezza dei cittadini”, contestata per aver disciplinato un’attività di analisi e studio dei fenomeni criminosi, previa ricognizione di dati significanti sul territorio regionale.

La Corte evidenzia sul punto che “le attività in questione, in ragione delle loro rilevate caratteristiche e della loro complessiva finalità, non sono suscettibili di una teorica collocazione nell’ambito della nozione di sicurezza pubblica, quale è deline-ata dalla giurisprudenza di questa Corte”. A prescindere dunque dall’ampiezza della nozione di sicurezza e ordine pubblico – quale settore di competenza riservata allo Stato, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa regionale e locale – “è la stessa natura dell’attività conoscitiva, in sé estranea a tale orizzonte di competenza, ad escludere la possibilità che la normativa oggetto di censura incida sull’assetto della competenza statale”5.

Tuttavia, continua sul punto la Consulta, proprio “nella prospettiva di una com-pleta ed articolata attuazione del principio di leale collaborazione tra istituzioni re-

3 Corte costituzionale, sentenza n. 313 del 2003, Punto n. 11 del Considerato in diritto. 4 In questo senso, cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 383 del 2005. 5 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 105 del 2006, Punto n. 3 del Considerato in diritto.

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gionali e locali ed istituzioni statali […] non può escludersi che l’ordinamento statale persegua opportune forme di coordinamento tra Stato ed enti territoriali in materia di ordine e sicurezza pubblica (sent. 55 del 2001), volte, evidentemente, a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, auspicabili e suscettibili di trovare il loro fondamento anche in accordi fra gli enti interessati, oltre che nella legi-slazione statale (sent. 134 del 2004)” auspicio, questo, anche a fronte del sostanziale onere di coordinamento che deriva ora per lo Stato dal comma 3 dell’art. 118 Cost., “che necessariamente presuppone la possibilità, in capo all’ente locale, di apprez-zamento – attraverso l’attività di rilevazione, di studio e di ricerca applicata – delle situazioni concrete e storiche riguardanti la sicurezza sul territorio regionale, alla luce delle peculiarità dei dati e delle condizioni che esso offre”6.

Secondo le osservazioni della Corte costituzionale, dunque, l’attività di studio da parte della Regione ha in questo senso una rilevanza prodromica per la creazione di una rete di collaborazione tra i vari enti, in primo luogo nei riguardi dello Stato.

La situazione più sopra riportata, relativa alla Regione Abruzzo, evidenzia che alcune Regioni hanno pensato in modi diversi di riconoscere per legge un autonomo potere di garanzia e di promozione del “diritto alla sicurezza” dei propri cittadini; quanto poi ciò risponda ad una corretta interpretazione dell’assetto delle competenze è da sondare in questa sede.

Con tutta evidenza si pone dunque per ipotesi del genere il problema dell’indivi-duazione del titolo di competenza che consente alle Regioni di legiferare in materia e soprattutto, dell’individuazione di quale possa essere la finalità sottesa a queste leggi, oltre alla problematica della definizione dell’efficacia e dell’effettività per la tutela della sicurezza.

A ben vedere, la sicurezza assume ad un tempo la conformazione di interesse pubblico dello Stato, di cui occorre bilanciare e limitare l’azione rispetto ai suoi possibili effetti limitativi delle libertà delle persone, ma anche di bene dell’individuo che assume una valenza strumentale al godimento delle libertà che l’ordinamento gli attribuisce. La sicurezza ha dunque certamente una duplice caratterizzazione. In quest’ottica non può che ammettersi che la competenza di cui alla lett. h), comma 2 dell’art. 117 Cost. possa non esaurire il significato di questa clausola7.

Quest’ultima, infatti, quale presupposto per la protezione di alcuni beni fonda-mentali, può divenire oggetto di una serie di aspettative e interessi anche di “dimen-sione locale”, connesse principalmente alla tutela della qualità della vita.

6 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 105 del 2006, Punto n. 3 del Considerato in diritto. Sul punto cfr., più ampiamente, S. Musolino, I rapporti Stato-Regioni nel nuovo titolo V alla luce dell’inter-pretazione della Corte costituzionale, Milano, 2007, pp. 157, 158.

7 In questo senso, cfr., P. Bonetti, Ordine pubblico, sicurezza, polizia locale e immigrazione nel nuovo art. 117 della Costituzione, in le Regioni, 2-3, 2002, p. 485 ss.

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3. legIslAzIonI regIonAlI In mAterIA dI “sIcurezzA urbAnA”

Sono molteplici infatti e diversamente articolate le leggi regionali che, a vario titolo, richiamano il concetto della sicurezza8.

Il minimo comune denominatore di queste leggi consiste nella volontà di garan-tire un maggior livello di sicurezza per i cittadini, prevenendo in particolare episodi di criminalità, accrescendo la cultura della legalità, promuovendo “l’integrazione tra le politiche sociali e territoriali di competenza della Regione e degli enti locali, e le politiche di contrasto della criminalità, di competenza degli organi dello Stato” – così come testualmente si esprime la legge della Regione Toscana n. 38 del 2001, con espressioni che ricorrono praticamente in quasi tutte le altre leggi9.

Secondo una recente lettura10, le misure mediante le quali vengono concretamen-te realizzate le politiche regionali della sicurezza sono sostanzialmente tre.

La prima tipologia di interventi è volta a rafforzare la sicurezza sul piano della “prevenzione”. Le diverse leggi in argomento prevedono variamente un “potenzia-mento della polizia locale”, l’utilizzo di strumenti di vigilanza e di controllo anche elettronici, fino ad arrivare all’attivazione di iniziative di supporto dirette alla preven-zione dello spaccio di sostanze stupefacenti e di ogni altra attività illegale11.

La seconda modalità di approccio alla tematica concerne la predisposizione di interventi volti a promuovere studi o, più genericamente, a diffondere una cultura della legalità e della sicurezza12.

La terza modalità riguarda infine la predisposizione di diverse misure od interven-ti a favore delle vittime dei reati, come, in ipotesi, la creazione di fondi finalizzati al risarcimento dei danni.

Sul versante organizzativo, in tutte queste evenienze, è contemplata l’istituzione di osservatori o di consulte con compiti di studio, di analisi dei fenomeni e di valu-tazione dell’incidenza degli interventi regionali13, con l’obiettivo di raccogliere dati sulla criminalità e monitorare il grado di insicurezza.

A ben vedere, tuttavia, le specifiche modalità di intervento delle Regioni in ma-teria non sono particolarmente incisive. È da convenire con chi evidenzia che queste adottano prevalentemente forme e metodi di intervento tendenzialmente “concor-dati”, sia nei riguardi degli organi periferici del Ministero degli Interni, mediante la proposizione di intese o la stipula di accordi, sia con gli enti locali o con privati

8 Sul punto, più ampiamente, si rinvia a L. Mezzetti, Ordine pubblico, sicurezza e polizia locale: il ruolo delle autonomie territoriali, in Percorsi Costituzionali, n. 1 del 2008, Libertà e sicurezza, p. 87 ss.

9 Così, E. Longo, Regioni e diritti. La tutela dei diritti nelle leggi e negli statuti regionali, Macerata, 2007, p. 226.

10 Cfr., ancora, E. Longo, Regioni e diritti, cit., pp. 226, 227. 11 In questa direzione si muove la legge della Regione Piemonte n. 6 del 2004. Contesto ove si

inseriscono inoltre le problematiche riguardanti le c.d. “ronde”, sia statali, che regionali, che verranno trattate più avanti nel presente scritto.

12 È il caso, a mero titolo esemplificativo, della legge della Regione Abruzzo più sopra citata. 13 Cfr., ad esempio, l’art. 8 della legge della Regione Lazio n. 15 del 2001.

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che possano variamente collaborare alla realizzazione dell’obiettivo di una maggiore sicurezza e vivibilità delle città14.

Sulla legittimità di tali peculiari forme di intervento ha avuto modo di pronun-ciarsi la Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 134 del 2004, ha dichiarato par-zialmente incostituzionale la legge della Regione Marche n. 11 del 24 luglio 2002, istitutiva del “Sistema integrato per le politiche di sicurezza e di educazione alla legalità”.

La Consulta ha in particolare giudicato non in contrasto con la Costituzione la previsione di un potere regionale teso a disciplinare il concorso della stessa Regione allo sviluppo della civile ed ordinata convivenza nelle città e nel proprio territorio, promuovendo e sostenendo, in collaborazione con gli enti locali, l’integrazione del-le politiche sociali e territoriali con le politiche di contrasto della criminalità degli organi statali, precisando, tuttavia, che l’esercizio di questo potere non giustifica la previsione di deroghe od integrazioni regionali alle materie di competenza legislativa esclusiva statale, come la previsione di una partecipazione “obbligatoria” di organi appartenenti all’Amministrazione statale, incidente, con tutta evidenza, sull’orga-nizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di pertinenza esclusiva statale, ai sensi della lett. g), comma 2, art. 117 Cost.

3.1. Capacità di incidenza della legislazione regionale in materia

Ancor prima delle citate pronunce e delle citate legislazioni regionali, tuttavia, la Corte costituzionale era stata adeguatamente chiara nell’evidenziare e rilevare la netta distinzione esistente tra “polizia di sicurezza” e “polizia amministrativa locale”, che sola è di competenza legislativa “esclusiva” o “residuale” regionale, in quanto espres-samente eccettuata dalla lett. h), comma 2, art. 117 Cost., e che non riguarda dun-que l’ordine pubblico e la sicurezza, ma, come detto, “segue, in quanto strumentale, la distribuzione delle competenze cui accede”15.

Ciò premesso, non si potrà dunque che offrire una lettura tutto sommato mini-malista delle diverse leggi regionali in argomento, nel senso della scarsa incidenza sul fenomeno della sicurezza. Le diverse leggi regionali paiono poco più che un impe-gnativo “manifesto”, o “proclama”, e non possono non richiamare alla memoria le prime parti “nemmeno programmatiche” degli Statuti regionali, dalla portata e dalla valenza di orientamento politico-culturale, ma non anche precettivo o programma-tico-precettivo16.

Viene in quei testi prevalentemente preso ad esame il c.d. profilo sociale della sicurezza. Le azioni ivi contemplate sono volte soprattutto a favorire il miglioramen-to delle condizioni di vivibilità di alcune zone degradate della città, a garantire la tutela sociale delle vittime dei reati e più in generale la prevenzione dei fenomeni di criminalità.

14 Cfr., sul punto, ancora E. Longo, Regioni e diritti, cit., p. 227.15 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 313 del 2003, Punto n. 11 del Considerato in diritto; cfr.,

inoltre, sentenza n. 428 del 2004. 16 Cfr., sul punto le note pronunce nn. 372, 378 e 379 del 2004.

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Con tutta evidenza, lo strumentario a disposizione delle Regioni è alquanto limi-tato, non potendo esse perseguire quelle azioni mediante la predisposizione di sanzio-ni di natura penale, stante l’incompetenza regionale in materia, potendo unicamente predisporre incentivi di natura economica, sollecitare comportamenti responsabili, forme di autodisciplina od investimenti destinati ai Comuni di minori dimensioni17.

Considerate le perplessità per la configurabilità a livello nazionale di un vero e proprio “diritto alla sicurezza”, pare sicuramente doversi escludere la disponibilità di un diritto del genere in capo alle Regioni. A tutto voler concedere, si può più propriamente parlare di una serie di interventi regionali che hanno come fine ultimo quello di contribuire a migliorare l’aspetto complessivo della vita nelle città e dunque della comunità regionale18.

Ne deriva, in quest’ottica, che la garanzia alla sicurezza non è altro che la conse-guenza indiretta dell’introduzione di un nuovo fine che si pongono le amministrazio-ni degli enti territoriali a tutela della propria popolazione. Nessuna pretesa immedia-tamente azionabile da parte dei cittadini deriva dunque da tali previsioni, trattandosi di una mera ipotesi di tutela promozionale di un diritto, di una garanzia ammini-strativa di un diritto, realizzata nelle diverse forme e secondo le diverse modalità più sopra evidenziate19. Taluni recenti casi giurisprudenziali non fanno che confermare questa prima valutazione in ordine alla difficile configurabilità di un’aspettativa del genere in ambito regionale.

4. La legge della Regione Friuli-Venezia Giulia sulla “sicurezza urbana”

Le considerazioni più sopra svolte trovano immediata conferma nella recente pro-nuncia della Corte costituzionale n. 167 del 2010, ove la Consulta, di fronte ad una legge regionale20 che con riferimento a taluni aspetti è decisamente più incisiva, non esita a calare la scure dell’incostituzionalità. In particolare, viene immediatamente riaffermato che “Regioni e Province autonome non sono titolari di competenza pro-pria nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, nella materia cioè relativa sia alla prevenzione dei reati, sia al mantenimento dell’ordine pubblico […], inteso quest’ultimo, in senso stretto”, mentre, rientrano tra i “compiti di polizia ammini-strativa, di competenza regionale […], le misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati a soggetti giuridici e alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze […] delle Regioni e degli enti locali”21.

17 Cfr., E. Longo, Regioni e diritti, cit., p. 228. 18 In questo senso, E. Longo, Regioni e diritti, cit., p. 229. 19 Cfr., E. Longo, Regioni e diritti, cit., p. 229. 20 Si tratta della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 29 aprile 2009, recante “Disposi-

zioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale”. 21 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 2.2. del Considerato in diritto. In

questo senso, cfr., inoltre, Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009.

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Ancora una volta la Corte ribadisce che la Regione, nell’esercizio delle proprie competenze, può svolgere “una mera attività di stimolo e d’impulso, nei limiti con-sentiti, presso i competenti organi statali, all’adozione di misure volte al persegui-mento del fine della tutela della sicurezza”, potendo inoltre svolgere simili attività “promozionali” anche nel settore delle “politiche di sicurezza transfrontaliere”. La Regione può sicuramente promuovere e sostenere “finanziariamente l’impiego del volontariato e dell’associazionismo”, comprese le associazioni d’arma e le associazioni delle Forze dell’ordine22.

Ciò che sicuramente non compete al legislatore regionale è coordinare e stabilire forme di necessaria collaborazione tra forze di polizia municipale e forze di polizia di Stato, poiché il comma 3 dell’art. 118 Cost. ha espressamente demandato alla legge statale il compito di disciplinare eventuali forme di coordinamento nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza23.

La Regione non può con legge nemmeno attribuire agli addetti alla polizia locale la qualifica di agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria, poiché, trattandosi di materia attinente alla sicurezza pubblica, è esclusivamente la fonte statale, sia essa di rango legislativo o regolamentare, a poter attribuire tale qualifica24. Per quanto specifica-mente concerne la dotazione di armamento da parte del personale di polizia locale, la Consulta evidenzia che la Regione non può adottare una disciplina sull’uso delle armi, non può dunque nemmeno individuare una serie di servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono essere muniti di armi, ma può semplicemente rin-viare al riguardo a quanto previsto dalla normativa statale25.

La Corte evidenzia inoltre che vi è stretta correlazione tra la qualificazione di agenti di pubblica sicurezza e la possibilità di portare armi, poiché, solo agli addetti al servizio di polizia municipale ai quali sia conferita detta qualità, evidentemente con legge statale, è consentito, stando al comma 5 dell’art. 5 della legge n. 65 del 1986, legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale, previa deliberazione del Consiglio comunale, portare senza licenza le armi di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio.

Ne deriva, secondo la Corte, con chiarezza, che “la particolare tipologia di servizi ai quali gli agenti ed ufficiali di polizia locale sono adibiti costituisce uno dei presup-

22 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 3.1. del Considerato in diritto. 23 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 4.1. del Considerato in diritto. Sul

punto, inoltre, si era già pronunciata la Corte costituzionale, precisando che le “auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio […] non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa”; cfr., da ultimo, sentenza n. 10 del 2008.

24 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 6.1. del Considerato in diritto. Precisa la Corte che non rileva la circostanza che l’art. 5 della legge statale n. 65 del 1986 operi già detto riconoscimento, posto che il problema non è l’attribuzione o meno di detta qualifica, ma quale sia la fonte, se statale o regionale, a tal proposito competente; cfr., sul punto anche sentenza n. 313 del 2003.

25 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 7.1. del Considerato in diritto.

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posti giustificativi dell’attribuzione, da parte della normativa statale, della possibilità per i medesimi di portare le armi”26.

5. Concorrenza di competenze statali e regionali sulla materia “sicurez-za urbana”

Precisato quanto evidenziato dalla Corte con riguardo alla legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, ciò che non si desume ancora con una certa chiarezza dalle parole della Consulta è la valenza che viene riconosciuta alla legge n. 65 del 1986 (legge qua-dro sull’ordinamento della polizia municipale), legge recante i principi fondamentali della materia in un contesto come quello di cui al previgente impianto del Titolo V della Parte II della Costituzione, ove la materia della “polizia amministrativa locale” era di competenza concorrente del legislatore regionale27. Nel nuovo impianto costi-tuzionale invece, la materia in questione diviene di competenza residuale (od esclu-siva) regionale, in quanto espressamente eccettuata alla lett. h) del comma 2 dell’art. 117 Cost., cosicché viene sicuramente meno la parametricità della legge 65 del 1986, che non svolge più alcuna funzione orientante le discipline regionali, posto che il rapporto dovrebbe ora più propriamente porsi in termini di riparto di competenza.

Vero è che nella lett. h) vi è, per usare una terminologia cara alla Corte costituzio-nale, una concorrenza di diverse competenze, a fronte della quale non è certo possi-bile pervenire all’applicazione del criterio della prevalenza, ma è opportuno tentare di operare un riparto il più certo possibile tra le competenze regionali e quelle statali. Da un lato, lo Stato mantiene la parametricità della legge n. 65 del 1986, dall’altro lato, la Corte costituzionale non è affatto chiara nel far venir meno detta funzione e nel delineare un più certo riparto di competenze, così da valorizzare lo scatto re-gionale dalla competenza concorrente pre-riforma all’odierna competenza residuale.

Oltre a disciplinare gli ambiti di pertinenza esclusiva statale, lo Stato potrà uni-camente disciplinare forme di coordinamento con le Regioni, ai sensi del comma 3 dell’art. 118 Cost., non più dettare i principi fondamentali della materia.

I legislatori statale e regionali, ed in ultima battuta la Corte costituzionale, si trovano dunque di fronte ad un complicato riparto di competenze con riferimento al quale è già lo stesso dettato costituzionale ad evidenziare una “concorrenza di com-petenze” esclusiva statale e residuale regionale, che nella lett. h), comma 2 dell’art. 117 Cost. sarebbe in re ipsa. Nella definizione di tale difficile rapporto, ove, come

26 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 167 del 2010, Punto n. 7.2. del Considerato in diritto, di qui, l’incostituzionalità sul punto della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, in quanto, “enume-rando esplicitamente ed autonomamente taluni servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono portare le armi, interviene a disciplinare casi e modi di uso delle armi, invadendo la competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione”.

27 La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 167 del 2010) rileva che lo Statuto speciale della Re-gione Friuli-Venezia Giulia riconduce la materia della “polizia locale”, all’art. 5, comma 1, punto 13, alla competenza concorrente regionale, precisando inoltre come in forza dell’art. 10 della legge costitu-zionale n. 3 del 2001, clausola di miglior favore ai fini dell’applicabilità della riforma anche alle Regioni a Statuto speciale, questa transiti nella competenza residuale delle stesse Regioni a Statuto speciale.

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sopra evidenziato, si inserisce anche il comma 3 dell’art. 118 Cost., più che ricercare un rigido riparto di competenze potrebbe essere opportuno ricorrere al criterio della sussidiarietà, utilizzandolo dunque non solo come criterio allocativo della compe-tenza amministrativa, ma finanche come criterio risolutivo nella definizione delle competenze legislative, in luogo del non sempre, o quasi mai, soddisfacente criterio della prevalenza.

Criterio della sussidiarietà che integrerebbe così il principio di “leale collabora-zione”, al quale la Corte costituzionale pare avere fatto ricorso in occasione della sentenza n. 407 del 2002, dal quale pare essersi invece allontanata in altre due recenti evenienze, ove si registrava la convergenza sulla medesima materia di competenze e legislazioni sia statali, che regionali.

5.1. (segue) concorrenza di competenze: le ordinanze sindacali

Con specifico riguardo alla controversa tematica delle c.d. “Ordinanze sindacali” in materia di pubblica sicurezza e ordine pubblico, che trovano fondamento nell’art. 54 del TUEL, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, senza volere in questa sede entrare nel merito delle diverse problematiche e delle diverse perplessità che sollevano, è indub-bio un rischio di sovrapposizione con le competenze regionali, tant’è che la Provincia autonoma di Bolzano ha impugnato la relativa disciplina, evidenziando che “avrebbe attribuito ai Sindaci poteri di pubblica sicurezza e di ordine pubblico nelle materie e per i provvedimenti che in forza dello statuto speciale e delle relative norme di attua-zione sarebbero di competenza della Provincia autonoma di Bolzano”28.

Sul punto, la Corte costituzionale risponde che, in verità, le Province autonome di Trento e Bolzano non sono titolari di competenze proprie in materia di ordine pubblico e sicurezza, poiché le relative competenze, previste dall’art. 20 dello Statuto della Regione Trentino-Alto Adige, sono attribuite ai Presidenti delle Giunte pro-vinciali “nella loro veste di ufficiali del Governo centrale”. Il che comporta che non ne può certo “scaturire la titolarità di un potere legislativo in materia”, non essendo mutata la natura dei poteri conferiti ai Presidenti delle Province, “che restano speciali funzioni amministrative statali loro attribuite, senza che da ciò possa dedursi, con una sorta di parallelismo invertito fra funzioni amministrative e legislative, la titola-rità di un potere legislativo della Provincia in materia di sicurezza pubblica, tale da impedire il mutamento della legislazione statale in materia”29.

Parallelismo invertito che non si realizza a vantaggio delle Regioni, che invece, vale la pena evidenziare, normalmente opera a vantaggio dello Stato.

Ne deriva, tuttavia, con specifico riguardo all’oggetto del giudizio, che è possibile dare della disposizione censurata, art. 54 TUEL, una interpretazione conforme a Co-stituzione, rectius allo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige, nel senso che nelle Province autonome di Trento e Bolzano “saranno sempre i Presidenti delle Giunte

28 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 6 del Considerato in diritto. 29 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 7 del Considerato in diritto.

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provinciali ad adottare i provvedimenti contingibili ed urgenti in materia di sicurezza e di igiene pubblica nell’interesse delle popolazioni di due o più comuni”30.

L’aspetto decisamente più controverso della disciplina in contestazione, che più del precedente determina ipotesi di sovrapposizione con le competenze regionali, concerne il comma 4 dell’art. 54 TUEL, laddove si prevede che i sindaci, sempre nella qualità di ufficiali del Governo, possano adottare ordinanze con le quali modi-ficare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi, nonché, d’intesa con i responsabili territorialmente competenti delle amministrazioni interessate, gli orari di apertura al pubblico degli uffici pubblici localizzati nel territorio. Dalla circostanza che la norma contestata faccia riferimento a “casi di emergenza” ed a “circostanze straordinarie”, la Corte desume che “esso riguarda soltanto il potere dei sindaci di emanare ordinanze contingibili ed urgenti, restando invece escluso il potere di re-golare in via ordinaria gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici”31.

Quanto maggiormente sorprende è tuttavia l’affermazione secondo la quale “un intervento di emergenza tramite l’adozione di queste particolari ordinanze ove ri-corrano esigenze di ordine pubblico e sicurezza” potrà addirittura “giustificare una compressione temporanea della sfera di competenza amministrativa provinciale”32, dove pare evidente la sovrapposizione con le competenze delle Province autonome.

Sul punto conclude la Corte evidenziando che “i poteri esercitabili dai sindaci, ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che es-sere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati e non i poteri concernenti lo svolgimento di funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome”33.

Riprende con tutta evidenza la Consulta il classico contenuto della competenza esclusiva statale, di cui alla lett. h), comma 2, art. 117 Cost., che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, attiene alla “prevenzione dei reati e alla tutela dei pri-mari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale”. La “tutela della sicurezza pubblica”, di pertinenza statale, sarebbe la mera “attività di prevenzione e repressione dei reati”34.

È certo che non si può che convenire con tale impostazione; ciò che tuttavia de-sta qualche perplessità è definire in concreto quali attività possano rientrare o meno nella “prevenzione e repressione dei reati”, perplessità che, come si avrà modo di evidenziare, la vicenda delle c.d. “ronde” non ha fatto altro che amplificare e non certo risolvere.

30 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 8 del Considerato in diritto. 31 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 9.1. del Considerato in diritto. 32 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 9.1. del Considerato in diritto. 33 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 10.2. del Considerato in diritto. 34 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto n. 10.2. del Considerato in diritto.

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5.2. (segue) concorrenza di competenze: leggi regionali e statale sulle “ronde”

La concorrenza di competenze statali e regionali è dunque evidente nella questione delle c.d. “ronde”. A fronte della legge statale del 15 luglio 2009, n. 94, recante Di-sposizioni in materia di sicurezza pubblica, talune Regioni contestano non solo che la materia “sicurezza urbana” in senso ampio e le “situazioni di disagio sociale” siano di competenza regionale, ma evidenziano soprattutto che quella disciplina statale mal si coordina con le diverse discipline regionali, giustificate dalla titolarità esclusiva regionale della materia “polizia amministrativa locale”.

La Regione Emilia-Romagna rileva, in particolare, di essersi già dotata di un’am-pia legge organica di disciplina del servizio di polizia locale (legge regionale n. 24 del 4 dicembre 2003, modificata dalla legge regionale 28 settembre 2007, n. 21, recante Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza), ove viene fatto ricorso al volontariato, teso “a realizzare una presenza attiva sul territorio, aggiuntiva e non sostitutiva rispetto a quella ordinariamente garantita dalla polizia locale, con il fine di promuovere l’educazione alla convivenza e il rispetto della legalità, la mediazione dei conflitti e il dialogo tra le persone, l’integrazione e l’inclusione sociale”. Ambiti questi e finalità che, ad avviso della Regione ricorrente, non invadono la materia di competenza statale dell’ordine pubblico e sicurezza, rien-trando dunque compiutamente nella competenza legislativa regionale.

Tali volontari, secondo l’impostazione della legge regionale, si limitano a svolgere una “qualificata attività di segnalazione delle problematicità riscontrate finalizzata al miglioramento delle funzioni di prevenzione e controllo svolte dalla polizia locale”. La sovrapposizione con la disciplina statale sul punto è evidente, se solo si pensa che ai commi da 40 a 43 dell’art. 3 della legge statale n. 94 del 2009 trova disciplina l’attività di “collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicu-rezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale” e che il Governo non ha contestato tali normative regionali di fronte alla Corte costituzionale.

Secondo la Regione ricorrente, alla luce dell’ampliamento delle competenze re-gionali a seguito della riforma costituzionale del 2001, sarebbe ravvisabile una com-petenza legislativa regionale “in relazione alle situazioni di disagio sociale” e con riferimento alla materia della “sicurezza urbana in relazione a quanto di tale materia non concerne la tutela dell’ordine pubblico e la prevenzione dei reati”.

La Corte costituzionale sul punto, invece di ricorrere a quel criterio della sussi-diarietà evocato più sopra, opera un rigido riparto di competenza tra lo Stato e le Regioni, evidenziando in sostanza, con la sentenza n. 226 del 2010, che per la segna-lazione delle situazioni di “disagio sociale” la competenza è della Regione, mentre per la segnalazione delle situazioni riguardanti la c.d. “sicurezza urbana” la competenza è statale. È di tutta evidenza che una soluzione del genere non può certo considerarsi soddisfacente per la eccessiva rigidità che determina nel discernere tra ciò che attiene al “disagio sociale” e ciò che attiene alla “sicurezza urbana”, senza tenere conto del fatto che l’uno è la conseguenza dell’altro e viceversa.

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La “sicurezza urbana” è dunque sicuramente riconducibile, secondo la Corte, alla lett. h), comma 2, art. 117 Cost., vale a dire, a quell’attività che “in contrapposizione alla polizia amministrativa locale” è “relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza della comunità nazionale”35. L’intero impianto della disciplina impugna-ta sarebbe dunque “coerente con una lettura del concetto di sicurezza urbana evo-cativa della sola attività di prevenzione e repressione dei reati”; significativo sarebbe a tale riguardo il dato che la decisione del Sindaco di avvalersi delle associazioni di volontari richieda una intesa con il Prefetto36.

Ad opposta conclusione perviene la Corte con riguardo al riferimento “alternati-vo” alle “situazioni di disagio sociale”. Come evidenziato, è alquanto criticabile che si pervenga ad individuare ben due titoli di competenza diversi, rispettivamente statale e regionale, in una sola frase del legislatore statale, “eventi che possano recare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”, eppure, è dalla “valenza semantica” della locuzione “disagio sociale”, che sarebbe già di per sé assai distante dalla materia di cui alla lett. h), che si evincerebbe in maniera palese “l’intento del legislatore di evocare situazioni diverse ed ulteriori” rispetto a quelle sottese dalla locuzione “sicurezza urbana”37.

Quanto poi all’individuazione dello specifico titolo di competenza regionale, si evince che la formula “disagio sociale”, in quanto generica, si presta ad “abbracciare una vasta platea di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’indi-viduo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause” (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari, ecc.), che impongono “interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili segnatamente alla materia dei servizi sociali”38.

Tuttavia, se poco soddisfacente pare la soluzione percorsa dalla Corte, assai meno soddisfacente è la giustificazione addotta a fondamento. A fronte dell’eccezione di parte statale che la semplice segnalazione di situazioni critiche, senza alcuna eroga-zione di servizi, non integra alcuna ipotesi di invasione di competenza regionale, la Corte risponde che il monitoraggio delle situazioni critiche rappresenta “la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del disa-gio sociale”, rientrando dunque nella competenza regionale la stessa determinazione delle condizioni e delle modalità con le quali i Comuni possono avvalersi dell’ausilio di privati volontari39.

35 Così, Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.2. del Considerato in diritto.36 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto. 37 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.4. del Considerato in diritto. 38 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.4. del Considerato in diritto, ad

avviso della quale, per reiterata affermazione della Corte stessa, la materia dei “servizi sociali” individua “il complesso delle attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario”. Sul punto cfr., inoltre, sentenze nn. 168 e 124 del 2009 e sentenza n. 50 del 2008.

39 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.4. del Considerato in diritto.

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È di tutta evidenza che, in concreto, la premessa conoscitiva di un intervento che rientra nella competenza regionale è decisamente distante dall’invasione della medesima competenza regionale. Nemmeno si può qui fare il parallelo con le attività conoscitive alle quali la Corte ha fatto riferimento in materia di mobbing40, posto che, per altro verso, laddove le Regioni contestano, con riferimento alle segnalazioni relative alla “sicurezza urbana”, che si finirebbe per affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica, quale quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico, la Consulta questa volta risponde che “le asso-ciazioni di volontari svolgono una attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili di ufficio, di cui venga a conoscenza […] e addirittura procedere all’arresto in flagranza” nei casi previsti dal codice di procedura penale41.

Assunte tali premesse, ci si chiede se vale dunque la pena distinguere tra una com-petenza statale ed una regionale con riguardo ad un’attività che, a prescindere dalla previsione legislativa, spetterebbe comunque a qualunque privato cittadino. È eviden-te che nel caso di specie è l’organizzazione di quella attività, non già l’attività in sé, che desta preoccupazione in ordine alla allocazione in capo allo Stato od in capo alla Re-gione, tuttavia, è altrettanto evidente che mai come in questo delicato settore sarebbe stato opportuno un approccio con criterio sussidiario, che ammettesse un intervento suppletivo e cedevole statale laddove la Regione non è intervenuta con una propria disciplina. Il che imporrebbe un ripensamento della stessa allocazione della “sicurezza urbana” in maniera monolitica in capo allo Stato, non già nel senso dell’allocazione in capo alla Regione, ma nel senso dell’implementazione di un criterio elastico che ammettesse una disciplina statale laddove manchi quella regionale, mentre il risultato pratico, e forse paradossale, di tale assetto di competenze potrebbe essere la presenza di “ronde statali” con il solo compito di segnalare casi considerati di “sicurezza urbana” e “ronde regionali” con il solo compito di segnalare ipotesi di “disagio sociale”.

Questo complicato assetto delle competenze viene ulteriormente aggravato dal fatto che la Corte non avverte nemmeno l’esigenza di stabilire una qualunque ipotesi di coordinamento tra le “ronde statali” e quelle “regionali”, posto che l’attività che il comma 3 dell’art. 118 Cost. prevede allo scopo di stabilire forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie dell’immigrazione, dell’ordine pubblico e della sicu-rezza, è riservata alla legge statale, “ma non implica che qualunque legge dello Stato che contenga disposizioni riferibili a tali materie debba sempre e comunque provve-dere in tal senso”. Evidentemente, nemmeno quando è ammessa una competenza sia statale che regionale su una medesima materia con riferimento al momento informa-tivo, utilizzando come criterio distintivo della competenza l’intento e la valutazione

40 Attività in tal caso consentita alle Regioni; cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 22 del 2006, relativa alla Regione Abruzzo; sentenza n. 238 del 2006, relativa alla Regione Umbria; sentenza n. 239 del 2006, relativa alla Regione Friuli-Venezia Giulia. Mentre non può la Regione dare un’autonoma definizione della fattispecie di mobbing; cfr., sentenza n. 359 del 2003, relativa alla Regione Lazio.

41 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto.

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di chi opera la segnalazione, che, a seconda dei casi si convince di essere di fronte ad una situazione di “sicurezza urbana” o di semplice “disagio sociale”.

Quid iuris quando il “disagio sociale” determina “insicurezza urbana”?

6. Per concludere: tutto cambia affinché non cambi nulla… e la “sicu-rezza urbana” resta in capo allo Stato

In materia di “sicurezza urbana”, poco dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, se pareva configurabile una interpretazione restrit-tiva ad opera della Corte costituzionale della materia di pertinenza esclusiva statale ordine pubblico e sicurezza, di cui alla lett. h), comma 2, art. 117 Cost., nell’ottica e nell’impostazione sussidiaria alla quale si è più sopra fatto riferimento42, tale da pro-spettare la configurabilità della competenza “sicurezza urbana” ai confini tra l’ordine pubblico e la sicurezza e la polizia amministrativa locale; se la giurisprudenza successi-va non ha offerto significativi chiarimenti, avendo assunto principalmente ad oggetto una mera attività informativa di analisi e di studio posta in campo dalle Regioni; le due pronunce che da ultimo sono intervenute in argomento43 hanno definitivamente affermato la titolarità statale della materia “sicurezza urbana”.

Come è noto, infatti, il D.M. 5 agosto 2008 ha definito il concetto di “sicurezza urbana” con specifico riguardo al potere dei Sindaci di adottare, nella veste di uffi-ciali del Governo, provvedimenti anche contingibili e urgenti al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano la stessa “sicurezza urbana”, precisando che tale nozione identifica “un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha precisato che, nonostante l’apparente ampiezza, tale definizione avrebbe comunque esclusivamente ad oggetto “la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati”44, confluendo dunque la relativa disciplina nella lett. h), comma 2, art. 117 Cost.

Per quanto poi concerne il secondo caso, quello delle c.d. “ronde”, la Corte costi-tuzionale precisa che il concetto di “sicurezza urbana” deve avere “identica valenza”45, operando inoltre la discutibile partizione alla quale si è fatto più sopra riferimento tra “sicurezza urbana”, di spettanza statale, e “disagio sociale”, di competenza regionale, chiudendo dunque definitivamente le porte ad una configurabilità di competenza regionale in argomento.

42 Cfr., al riguardo, Corte costituzionale, sentenze n. 407 del 2002 e n. 313 del 2003. 43 Cfr., Corte costituzionale, sentenze n. 196 del 2009 e n. 226 del 2010. 44 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 196 del 2009, Punto 10.2. del Considerato in diritto; co-

sicché, “i poteri esercitabili dai Sindaci, ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati, e non i poteri concernenti lo svolgimento delle funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome”.

45 Cfr., Corte costituzionale, sentenza n. 226 del 2010, Punto n. 5.3. del Considerato in diritto.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Il potere di ordinanza dei sindaci in materia di sicurezza

Caterina Drigo

1. Il potere di ordinanza in casi di necessità ed urgenza: considerazioni introduttive di carattere generale

Le ordinanze sono strumenti di intervento conosciuti in diversi ordinamenti e tro-vano fondamento in atti variamente definiti, tradizionalmente recanti norme in ma-terie anche molto diverse fra loro, con contenuto sia di carattere legislativo generale, sia di carattere amministrativo e concreto1.

Storicamente il campo d’azione di tali atti si differenzia da quello proprio delle altre fonti giuridiche a seconda dell’ordinamento e dell’epoca di riferimento.

Con l’affermazione del principio di separazione dei poteri, e in particolare quella fra il potere legislativo e quello esecutivo, acquisì rilevanza la questione di stabilire se accanto agli atti normativi riconducibili al primo (e quindi rispettosi del principio di rappresentanza), potessero sussistere atti del secondo cui fosse riconoscibile analoga portata normativa e, quindi, natura legislativa2.

A ciò si aggiunga che il riconoscimento della superiorità dell’ordinamento giu-ridico, proprio della concezione dello Stato di diritto, ha condotto ad affrontare la

1 I diversi nomi attribuiti nel tempo a tale variegata tipologia di atti non rifletteva il loro contenuto poiché atti simili ed omogenei venivano denominati talora bandi, talora decreti, talora ordinanze. D’al-tra parte si è osservato anche che il termine ordinanza veniva impiegato anche con riferimento ad atti aventi un contenuto meramente amministrativo e contenenti provvedimenti concreti o veri e propri di-vieti. A. Origone, Ordinanza (diritto costituzionale), in Nuovo Digesto Italiano, 1939, vol. IX, p. 296 ss.

2 A. Origone, Ordinanza (diritto costituzionale), cit. Alla sistematizzazione concettuale di tale problematica ha contribuito molto l’opera della dottrina tedesca, in particolare le teorizzazioni del Laband relative alla distinzione fra leggi da intendersi in senso formale e leggi da intendersi in senso materiale. In base a questa distinzione le ordinanze andrebbero ricondotte alla categoria delle leggi in senso materiale, in quanto anch’esse contribuiscono a porre diritto obiettivo. La medesima dottrina ha, poi, distinto le ordinanze c.d. amministrative da quelle c.d. giuridiche ponendo tra le prime gli atti che hanno una sfera di efficacia limitata all’interno di determinati organi poteri o istituti e fra le seconde quelle che valgono, come la legge, per la generalità dei consociati. Per maggiori approfondimenti sul punto vedasi A. Origone, Ordinanza (diritto costituzionale), cit. e bibliografia ivi indicata.

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questione dell’efficacia delle ordinanze nei confronti della legge, fonte tipica dell’or-dinamento3.

Nel nostro ordinamento il potere di ordinanza, nella sua accezione lata e generale, è un potere che ha subito un processo evolutivo fino al punto di essere sistematizza-to, nell’ambito della legislazione pre-repubblicana, con l’adozione della normativa di pubblica sicurezza del 1928 e del 1931, ove sono state variamente identificate le diverse tipologie di ordinanze e si è specificata la natura di atti amministrativi delle stesse derivanti la propria fonte di legittimazione e il proprio ambito di intervento dalla legge ordinaria.

Nel diritto amministrativo le ordinanze di urgenza e necessità sono “atti di auto-rità amministrative adottabili sul presupposto della necessità e dell’urgenza del prov-vedere, per far fronte ad un pericolo di danno grave ed imminente per la generalità dei cittadini, con contenuto discrezionalmente determinabile e non prestabilito dalla legge e con il potere di incidere derogativamente e sospensivamente sulla legislazione in vigore con efficacia temporanea”4.

Oggi, il fondamento costituzionale del potere di ordinanza nelle ipotesi di neces-sità ed urgenza sembra essere l’art. 97 della Costituzione, in quanto potere rispon-dente al principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione5.

Ciò che si vuole tutelare è il fatto che, di fronte ad una situazione non prevista né prevedibile, venga comunque salvaguardata l’esigenza di provvedere, eventualmente anche in parziale deroga alle norme vigenti6. Invero, il contenuto dell’ordinanza vie-ne, di volta in volta, determinato dalla stessa nell’ambito della materia eventualmente indicata dalla norma attributiva e in vista del concreto interesse pubblico da realizza-re7. Pertanto, è proprio quello dei contenuti il profilo più problematico che investe, in generale, le ordinanze di necessità ed urgenza e, in particolare, le ordinanze ema-nabili ai sindaci, oggi ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL). Si è osservato, infatti, che tali ordinanze di necessità ed urgenza, avendo un contenuto che presenta necessariamente un certo grado di indeterminatezza, “…potenzialmen-te attentano al principio democratico della prevedibilità e della mancanza di arbitrio nei contenuti e nelle modalità dell’esercizio del potere”, incidendo sulla possibilità

3 A. Origone, Ordinanza (diritto costituzionale), cit. 4 G. Razzano, Le ordinanze di necessità e di urgenza nell’attuale ordinamento costituzionale, in www.

associazionedeicostituzionalisti.it.5 Cfr. Corte Cost, sent. n. 521 del 1995; vedasi anche la ricostruzione operata da M. Carrer, Il

fondamento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, in A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze in materia di incolumità pubblica, Jovene, Napoli, 2009, p. 49 ss.

6 Diventa quindi centrale, e condizione di legittimità, l’esistenza di una situazione di urgenza (da riferirsi, non tanto all’elemento generatore del rischio quanto al persistere di una situazione di rischio. (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, n. 1904, del 2001).

7 G.U. Rescigno, (voce) Ordinanza e provvedimenti di necessità ed urgenza, in Novissimo Digesto Italiano, Vol. XII, Torino, 1965, p. 89 ss.

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Caterina Drigo

per i cittadini “…di provvedere ai propri interessi sulla base della conoscibilità com-pleta delle norme in vigore e dei poteri regolatori della vita associata”8.

Diventa, quindi, determinante perimetrare l’ambito di intervento di un siffat-to strumento individuando quali limiti contenutistici incontri in concreto il potere d’ordinanza. L’intrinseca impossibilità di determinare a priori il contenuto di prov-vedimenti da emanarsi per far fronte a situazioni di necessità ed urgenza – special-mente quando sono finalizzati a tutelare un concetto di difficile definizione quale la sicurezza pubblica – porta a interrogarsi fino a che punto il potere d’ordinanza possa incidere su situazioni giuridiche soggettive che trovano copertura anche a livello co-stituzionale.

Sul punto la giurisprudenza costituzionale ha, fin dal 1956, stabilito che esse non possono contrastare con la disciplina dei diritti costituzionalmente garantiti, nonché con i principi generali dell’ordinamento giuridico9.

Si è altresì posto il problema di coordinare il potere di ordinanza con il rispetto del principio di legalità: in relazione a ciò è stata contestata la sopravvivenza di po-teri contingibili ed urgenti anche se si è correttamente osservato che, piuttosto che con il principio di legalità (costituzionalizzato), questi poteri contrastano principal-mente con il criterio di tipicità degli atti amministrativi10. Come sopra accennato, il problema centrale diviene, pertanto, non negare tout court la legittimità di un siffatto potere, bensì circoscriverne l’uso entro termini conformi all’ordinamento costituzionale11.

Gli effetti – potenzialmente molto pervasivi – delle ordinanze di necessità e ur-genza impongono di interrogarsi sulla natura sostanziale (amministrativa o norma-tiva) di tali atti e la dottrina tradizionale li ha ritenuti provvedimenti amministrativi che, in quanto previsti dalle norme, si pongono nel solco del principio di legalità, costituendo un’eccezione rispetto alla regola della tipicità. Secondo tale dottrina, la potestà d’ordinanza va intesa come potestà di creare provvedimenti atipici, al di fuori della previsione normativa; detti provvedimenti, pur essendo derogatori, tutta-via non determinano in capo al titolare del potere d’ordinanza un’assoluta libertà di scelta12. Per contro, altra dottrina ha ritenuto che le ordinanze dei sindaci abbiano sempre una valenza normativa, per il solo fatto che il loro presupposto è l’impossibi-

8 M. Cerase, Ordinanze di urgenza e necessità, in S. Cassese (dir. da), Dizionario di Diritto pub-blico, Giuffrè, Milano, 2006, p. 3987. L’autore richiama, a tal proposito, al decisione della Corte costi-tuzionale n. 8 del 1956.

9 Cfr. Sentt. n. 8 del 1956 e n. 26 del 1961. Per una disamina approfondita della giurisprudenza costituzionale in materia vedasi altresì M. Carrer, Il fondamento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, cit., p. 49 ss.

10 M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1993, pp. 271-272. 11 Su questa via si è collocata la giurisprudenza della Corte costituzionale citata alla nota n. 9. La

Consulta si è limitata, peraltro, a richiedere il rispetto di un nucleo minimo di condizioni (efficacia definita nel tempo, motivazione adeguata, conformità ai principi dell’ordinamento), lasciando aperte questioni non trascurabili, anzitutto in ordine alla capacità derogatoria di questi interventi nei confronti di norme non configurabili come veri e propri principi dell’ordinamento.

12 M.S. Giannini, Diritto Amministrativo, cit.

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lità di fronteggiare determinate situazioni concrete ricorrendo alle disposizioni di cui alle normative vigenti. Secondo tale impostazione ci si troverebbe di fronte “ad una particolarissima fonte normativa […] che può dar luogo a delicati problemi in ordine all’esercizio dei rimedi giurisdizionali esperibili […] fonte normativa che incontra pur sempre il limite dell’oggetto nelle norme costituzionali e nei principi genera-li dell’ordinamento statale”13. È stato osservato che, in ogni caso, la problematica poc’anzi descritta, dal punto di vista pratico non ha un significativo impatto sotto il profilo della tutela: le ordinanze in genere, e quindi, in particolare, anche quelle ema-nabili dai sindaci, sono provvedimenti impugnabili innanzi al giudice amministrati-vo. Pertanto, ove il provvedimento sia dichiarato illegittimo e lesivo di sfere giuridi-camente rilevanti riconosciute ai singoli è possibile che sussista il dovere di risarcire il danno (art. 7, l. n. 205 del 2000) – anche nelle ipotesi in cui l’amministrazione abbia revocato il provvedimento impugnato qualora siano allegabili eventuali pregiudizi sofferti nel periodo in cui l’ordinanza sindacale ha prodotto i propri effetti14.

2. Il potere di ordinanza del sindaco in casi di necessità ed urgenza

Come già accennato le ordinanze emanabili dai sindaci rappresentano forme di in-tervento già conosciute in epoca pre-repubblicana15. A quel tempo il sindaco era chiamato ad agire in qualità di rappresentante del potere esecutivo e vertice dell’am-ministrazione locale con competenza ad intervenire adottando atti fra loro diversi fra cui le ordinanze c.d. contingibili ed urgenti.

Ripercorrendo brevemente le principali tappe dell’evoluzione normativa si ricor-dano le disposizioni di cui all’Allegato F della legge 20 marzo del 1865, n. 2248, art. 104, riprese successivamente dall’art. 133 dal R.D. 10 febbraio 1889, n. 5921 che attribuivano al sindaco margini di intervento in relazione alla necessità di fronteggia-re situazioni concrete di emergenza come l’igiene pubblica.

Poi, si ricordano le disposizioni di cui al Testo Unico delle leggi provinciali e co-munali 4 febbraio 1915, n. 148 e quelle del Regio Decreto 3 marzo del 1934, n. 383 il cui art. 55, in particolare, procedeva a descrivere dettagliatamente i provvedimenti a carattere contingibile ed urgente adottabili dal podestà in materia di edilizia, polizia locale, igiene e per motivi di sanità e sicurezza pubblica.

13 M. Cantucci, Le ordinanze d’urgenza del sindaco, in Aa.Vv., I provvedimenti contingibili ed urgenti del sindaco, Seminario Umbro di Studi Amministrativi, Noccioli Editore, Firenze, 1965, p. 13.

14 Sul punto la giurisprudenza amministrativa ha ritento permanere dell’interesse all’annullamento dell’atto medesimo, anche considerando il carattere pregiudiziale del giudizio di annullamento rispetto a quello risarcitorio. TAR Piemonte, sez. II, 2 luglio 2008, n. 1441; C.d.S., Ad. Pl., 22.10.2007 n. 12.

15 M. Carrer, Il fondamento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, cit., p. 49 ss. L’autore rileva come nella storia dei comuni italiani vi fosse un antico precedente del potere di ordinanza di ne-cessità ed urgenza emanabile dai sindaci, ricordando l’esempio degli ordinamenta dei comuni medievali, i quali, tuttavia, erano atti privi del carattere della transitorietà. Trattasi, in ogni caso, di una similitudi-ne avente mero carattere nomologico cui non corrisponde una assimilazione di tipo concettuale.

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Tale ultima normativa, fino all’approvazione della legge 8 giugno 1990, n. 142, ha rappresentato la principale fonte di riferimento per l’ordinamento di comuni e province.

L’art. 38 della succitata l. n. 142 prevedeva che il sindaco potesse adottare “con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, prov-vedimenti contingibili e urgenti in materia di sanità e igiene, edilizia e polizia lo-cale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini; per l’esecuzione dei relativi ordini può richiedere al prefetto, ove occorra, l’assistenza della forza pubblica”.

Infine, con l’entrata in vigore del testo unico degli enti locali, a seguito dell’ap-provazione del d.lgs. n. 267 del 2000, fu confermato in capo ai sindaci il potere di emanare provvedimenti a carattere contingibile e urgente. Contestualmente ven-ne individuata una serie di limiti di tipo contenutistico e procedurale perimetrante l’ambito di intervento di tali provvedimenti, che recepivano gli orientamenti della giurisprudenza, sia costituzionale che amministrativa in materia, in particolare per quel che concerneva il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento16.

3. I poteri di ordinanza dei sindaci nel Testo unico per gli enti locali: prima e dopo il discusso decreto Maroni

3.1. Il ruolo del sindaco e presupposti applicativi dei poteri ad esso attribuiti

Con il d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (c.d. TUEL), si è ulteriormente ridefinita la com-petenza del sindaco ad emanare ordinanze aventi carattere contingibile ed urgente. L’intervento legislativo distingue nettamente le ipotesi in cui dette ordinanze vengo-no adottate dal sindaco quale rappresentante della comunità locale da quelle in cui

16 A. Morrone, Le ordinanze di necessità e urgenza tra storia e diritto, in A. Vignudelli (a cura di) Istituzioni e dinamiche del diritto, i confini mobili della separazione dei poteri, Giuffrè, Milano, 2009, p. 133 ss.; M. Carrer, Il fondamento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, cit., p. 49 ss.; E. Comi, I presupposti e il procedimento di adozione delle ordinanze ex art. 54 TUEL, in A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze in materia di incolumità pubblica, cit., p. 166 ss. Secondo la giurisprudenza i provvedimenti quali quelli in esame potevano considerarsi legittimi qualora fosse dimostrabile l’esistenza di un concreto ed effettivo pericolo per la pubblica incolumità, la circostanza che tale pericolo non fosse affrontabile con i normali strumenti di amministrazione attiva (C.d.S., sez. V, 8 maggio 2007, n. 2109); qualora fossero stati adottati all’esito di una adeguata istruttoria (TAR Lazio, Roma, sez. II, 14 febbraio 2007, n. 1352) e fossero stati rispettati i principi generali dell’ordinamento (TAR Umbria, 16 aprile 2007, n. 314); qualora fossero stati verificati attentamente i presupposti di urgenza (TAR Veneto, sez. III, 6 marzo 2007, n. 637) e si fossero tenuti distinti scopi e natura degli istituti giuridici, evitando che istituti finalizzati, ad esempio, ad assicurare la sicurezza della circolazione, fossero utilizzati, all’opposto, per intervenire in materia di ordine pubblico (Cassazione, sez. I civ., sent. 5 ottobre 2006, n. 21432, in relazione all’esercizio della prostituzione).

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egli agisce in veste di ufficiale del Governo17 ed in questa sede preme approfondire solo quest’ultima tipologia di atti sindacali.

L’art. 54 del TUEL, nella sua formulazione originaria attribuiva al sindaco il pote-re di adottare, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, i provvedimenti contingibili ed urgenti che fossero ritenuti necessari per eliminare gravi pericoli suscettibili di minare l’incolumità dei cittadini.

Nello stesso articolo si stabiliva inoltre che, in caso di emergenza riconducibile a problematiche connesse al traffico, all’inquinamento atmosferico o acustico oltre che all’insorgere di particolari necessità della popolazione comunale per circostanze stra-ordinarie, il sindaco potesse, sempre ricorrendo all’adozione di un’ordinanza avente carattere contingibile ed urgente, modificare gli orari di lavoro e apertura degli eser-cizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici.

Si riconosceva ai sindaci, quindi, un margine di intervento a mezzo dello stru-mento delle ordinanze contingibili ed urgenti non limitato alla necessità di fronteg-giare ragioni di “sicurezza”, ma avente un carattere più ampio e variegato. Il potere di emanare le ordinanze de quibus, pertanto, trovava la propria fonte di legittimazio-ne, da un lato nella necessità – intesa come fattore eccezionale che per poter essere affrontato impone di derogare alla normativa vigente – e, dall’altro, nell’urgenza – consistente nell’impossibilità di differire l’intervento. In relazione alla sussistenza di quest’ultimo requisito la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che si tratta di un presupposto che andava (e va a tutt’oggi) interpretato come dimostrazione dell’at-tualità del pericolo e della idoneità del provvedimento a porvi rimedio, senza che tale pericolo debba essere necessariamente correlato ad una situazione preesistente o ad un evento nuovo ed imprevedibile18.

Il succitato art. 54, come accennato, attribuiva al sindaco la competenza a emana-re ordinanze aventi carattere contingibile e urgente in qualità di ufficiale del governo, al fine di “prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei citta-dini”. Proprio questa sfera di intervento presentava i maggiori problemi interpretati-vi ed applicativi, essendo necessario individuare, sotto il profilo contenutistico, sfere

17 L’art. 50 Tuel si riferisce alla prima delle ipotesi prescritte prevedendo in capo al sindaco il potere di intervenire in qualità di rappresentante della comunità locale con ordinanze contingibili e urgenti per fronteggiare emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale.

18 In tal senso vedasi TAR Piemonte, sez. II, 2 luglio 2008, n. 1441 secondo cui il presupposto dell’urgenza del provvedere “va interpretato nel senso che ciò che rileva non è la circostanza, estrinseca, che il pericolo sia correlato ad una situazione preesistente ovvero ad un evento nuovo ed imprevedibile, ma la sussistenza della necessità e della urgenza attuale di intervenire a difesa degli interessi pubblici da tutelare, a prescindere sia dalla prevedibilità che dalla stessa imputabilità all’Amministrazione o a terzi della situazione di pericolo che il provvedimento è rivolto a rimuovere” (C.d.S., sez. V, 9 novembre 1998, n. 1585; C.d.S. sez. V, 06.02.2001 n. 1904; TAR Campania Napoli, sez. I, 27 marzo 2000, n. 813; TAR Campania Napoli, sez. I, 18.05.2005 n. 8328). In definitiva, il decorso del tempo non con-suma il potere di ordinanza, perché ciò che rileva è la dimostrazione dell’attualità del pericolo e della idoneità del provvedimento a porvi rimedio, sicché l’immediatezza dell’intervento urgente del Sindaco va rapportata all’effettiva esistenza di una situazione di pericolo al momento di adozione dell’ordinanza (cfr. in argomento C.d.S. sez. V, 06.02.2001 n. 1904; TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 30.04.2007 n. 728)”.

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di intervento lasciate libere dal legislatore, in deroga al generale principio di tipicità degli atti amministrativi, principio che, sebbene non espressamente previsto dal testo costituzionale, rappresenta un criterio generale che deve informare tutta l’attività della pubblica amministrazione.

È proprio in considerazione di ciò che la giurisprudenza, sia costituzionale sia amministrativa, ha contribuito a definire i confini entro cui l’esercizio di un siffatto potere può considerarsi, invitando alla cautela e alla ponderazione nel suo utilizzo19.

La difficoltà di addivenire ad un’individuazione certa e univoca, giuridicamente rilevante, del concetto “incolumità dei cittadini” si palesa nelle richieste, avanzate da molti sindaci, di estensione dei propri poteri di intervento al fine di prevenire e contrastare il dilagare di fenomeni di degrado diffusi in molte realtà locali. Fenomeni che spesso non configurano quelle circostanze di imprevedibilità, di urgenza, di du-rata temporanea, di “gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini” che, in base alla disciplina contenuta nel TUEL, integrano i presupposti legittimanti l’ado-zione dei provvedimenti quali quelli oggetto d’esame. Pertanto, progressivamente, lo strumento de quo, specialmente negli anni più recenti, ha assunto una nuova veste, al di là delle modifiche normative intervenute nel 2008, spingendo la dottrina, la giurisprudenza e gli attori politici ad interrogarsi sul ruolo che esso è venuto via via a ritagliarsi nell’ordinamento.

3.2. La problematica riscrittura dell’art. 54 del TUEL

L’art. 54 del TUEL, come novellato ad opera dell’art. 6 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, individua in capo al sindaco il potere di emanare “provvedimenti, anche contin-gibili ed urgenti, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento al fine di preve-nire e di eliminare i gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”.

In relazione alla nuova formulazione dell’art 54 del TUEL, sono stati avanzati da più parti in dottrina dubbi circa: a) l’opportunità di prevedere poteri dei sindaci “anche” in casi contingibili ed urgenti, quasi a riconoscere un potere generale di intervento anche in casi non contingibili né urgenti al “fine di prevenire e eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”; b) l’aver individuato in un decreto ministeriale la fonte (ritenuta) idonea alla definizione dei delicati concetti di incolumità pubblica e sicurezza urbana.

Con riferimento al primo profilo, la disposizione permette di rilevare che i poteri di ordinanza del sindaco subiscono modifiche sostanziali. Di tal ché ci si deve inter-rogare se sia possibile configurare in capo ai sindaci una competenza “generale” di adottare ordinanze finalizzate a tutelare l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana sia in via ordinaria sia con atti a carattere contingibile ed urgente20.

19 Vedasi nota n. 16.20 M. Carrer, Il fondamento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, cit., p. 49 ss.; A. Pa-

jno, La “Sicurezza urbana” tra poteri impliciti e inflazione normativa, in www.astrid-online.it; N. Zor-zella, Poteri dei sindaci nel “Pacchetto Sicurezza” e la loro ricaduta sugli stranieri, in Diritto, Immigrazione

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L’aver previsto una sorta di intervento ordinario dei sindaci al fine di tutelare l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, senza subordinare tale attività al rispetto delle normative vigenti e senza la determinazione a priori dall’ambito materiale di intervento, integra per un verso una lesione dei principi di riserva di legge e legali-tà21, per altro verso il rischio di una lesione del diritto di difesa dei (potenziali) de-stinatari dei nuovi provvedimenti sindacali22. Il ricorso ad atti dal carattere sostan-zialmente atipico, potenzialmente derogatorio delle norme vigenti e dal contenuto integrativo delle norme dell’ordinamento giuridico, è stato ritenuto legittimo solo in presenza di determinati presupposti da costante giurisprudenza costituzionale e amministrativa23.

Diversamente, la configurazione di provvedimenti ordinari dei sindaci, in ipotesi ulteriori e differenti rispetto alla necessità di far fronte ad una situazione contingibile ed urgente avente il carattere della straordinarietà e al di fuori dei presupposti indivi-duati dalla normativa e dalla giurisprudenza, significa prevedere una sorta di potere generale di intervento, extra ordinem, e non conciliabile con il sistema costituzionale vigente24.

Al fine di fornire una lettura della normativa in esame non in contrasto con l’at-tuale architettura costituzionale si è osservato che l’unica possibilità è tentare di inter-pretare la novella legislativa riconducendo il dato letterale nell’ambito del principio

e cittadinanza, 3-4, 2008, p. 57 ss. Quest’ultima autrice, in particolare, rileva come la novella del 2008 inverta il sistema previdente modificando “l’originario impianto di divisione dei poteri e delle funzioni amministrative, assegnando ai sindaci un potere alternativo e concorrente rispetto a quello dei dirigenti per la disciplina a regime di un determinato assetto e/o di un determinato comportamento individuale. Ma ciò che più preoccupa è l’aver assegnato al sindaco il potere ordinario di intervenire nella generale ed ampia materia della ‘incolumità pubblica’ e della ‘sicurezza urbana’ senza il vincolo giuridico – im-posto da pacifica e consolidata giurisprudenza con riguardo alle ordinanze con tingibili ed urgenti – di dover giustificare l’utilizzo di uno strumento eccezionale motivandone approfonditamente i presupposti dell’urgenza e della imprevedibilità e soprattutto senza il vincolo della predeterminazione del contenuto precettivo sotteso al potere esercitato”.

21 Il carattere extra ordinem delle ordinanze dei sindaci risiede anche nel fatto che tali strumenti, benché espressamente previsti (nominati) mancano di quella tipicità che, accanto alla nominatività costituisce concreta applicazione del principio di legalità.

22 N. Zorzella, Poteri dei sindaci nel “Pacchetto Sicurezza” e la loro ricaduta sugli stranieri, cit., p. 62 ss.

23 Presupposti che abbiamo visto essere rappresentati a) dalla straordinarietà dell’evento da fronteg-giare; b) dall’impossibilità di ricorrere agli strumenti tipici di intervento; c) dall’urgenza del provvedere; d) dal rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; e) dalla presenza di un’adeguata mo-tivazione e la sua conoscibilità; f ) dal carattere temporaneo dell’intervento (anche se a tal proposito la giurisprudenza amministrativa ammette anche delle deroghe – cfr. C.d.S., sez. V n. 828 del 2009). Per maggiori approfondimenti vedasi A. Morrone, Le ordinanze di necessità e urgenza tra storia e diritto, cit., p. 133 ss.; T.F. Giupponi, “Sicurezza urbana” e ordinanze sindacali: un primo (e inevitabilmente parziale) vaglio del Giudice delle leggi, in le Regioni, 6, 2009, p. 1421 ss.

24 G. Meloni, Il potere “ordinario” dei sindaci di ordinanze extra ordinem, in Aa.Vv., Oltre le ordi-nanze. I sindaci e la sicurezza urbana, Anci Italia, Roma, p. 55 ss.

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di legalità dell’azione amministrativa25. Si è, quindi, ipotizzato il possibile ricorso a strumenti di intervento aventi natura ordinaria, non contingibile ed urgente, sul piano della prevenzione dei pericoli suscettibili di minare l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, mentre il contrasto concreto alle minacce incombenti su tali beni giuridici potrebbe venire unicamente da ordinanze contingibili ed urgenti con conte-nuto atipico, ma temporalmente limitato. Nel primo caso i provvedimenti sindacali sarebbero comunque vincolati al rigido rispetto del principio di legalità, mentre nel secondo caso il loro carattere derogatorio delle norme vigenti sarebbe ammissibile in ragione della limitatezza temporale degli effetti26.

La riforma Maroni incide anche sull’oggetto della tutela poiché è sparito il rife-rimento all’incolumità dei cittadini di cui alla originaria formulazione dell’art. 54 TUEL al posto del quale si rinvengono i concetti di “incolumità pubblica e sicurezza urbana”. Sul punto, il comma 4 bis dell’art. 54 rinvia ad un Decreto ministeriale per la definizione dei concetti di incolumità pubblica e sicurezza urbana27, men-tre il comma 12 del medesimo articolo prevede che il Ministro degli interni possa intervenire con atti di indirizzo volti a circostanziare l’esercizio delle competenze sindacali. La dottrina, a tal proposito, si è chiesta se il concetto di sicurezza urbana si identifichi o si distingua dai concetti tradizionali di sicurezza e ordine pubblico28. Una prima posizione ha ritenuto la sicurezza urbana come parte integrante dell’or-dine pubblico29; altra dottrina ha ricostruito la nozione di sicurezza urbana quale intreccio di competenze che si collocano a diversi livelli di governo30. Se l’espressione “ordine pubblico e sicurezza urbana” viene considerata non in termini di dicotomia concettuale, ma di endiadi, i nuovi poteri dei sindaci in materia rappresenterebbero una mera specificazione della competenza legislativa esclusiva statale, e l’azione del

25 T.F. Giupponi, op. cit. Si è altresì osservato che un possibile ulteriore elemento di criticità della novella legislativa è rappresentato dall’uso della punteggiatura poiché l’aver inserito l’espressione “anche contingibili ed urgenti” fra due virgole ha fatto riflettere la dottrina sulla possibilità che tali ordinanze non siano soggette al rispetto dei principi generali dell’ordinamento. In tal senso M. Carrer, Il fonda-mento costituzionale del potere di ordinanza dei sindaci, cit., p. 49 ss.

26 A. Morrone, Le ordinanze di necessità e urgenza tra storia e diritto, cit., p. 133 ss.; T.F. Giupponi, op. cit.

27 Il Decreto del Ministero dell’interno 5 agosto 2008 definisce integrità pubblica “l’integrità fisica della popolazione “ e la sicurezza urbana quale “ bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”.

28 Cfr., in termini generali, L. Paladin, Ordine Pubblico, in Novissimo Digesto italiano, vol. XII, Torino, 1965, p. 130; G. Corso, L’ordine Pubblico, Il Mulino, Bologna, 1979; G. Lavagna, Il concetto di ordine pubblico alla luce delle norme costituzionali, in Democrazie e Diritto, 1967, p. 367 ss.

29 G. Caia, L’amministrazione della pubblica sicurezza e le forze di polizia: l’assetto delle competenze in coordinamento ed in relazione ai recenti interventi normativi, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti della sicurezza urbana: dopo la Legge 24 luglio 2008, n. 125 e del decreto del Ministro dell’interno, Bologna, 25 settembre 2009, Bononia University Press, Bologna, 2009, p. 77 ss.

30 L. Vandelli, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica nel nuovo art. 54 del TUEL, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti della sicurezza urbana: dopo la Legge 24 luglio 2008, n. 125 e del decreto del Ministro dell’interno, Bologna, cit., p. 65 ss.

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sindaco quale ufficiale del governo troverebbe il proprio fisiologico completamento nelle forme di controllo e vigilanza riconosciute in capo ai prefetti e allo stesso Mi-nistro dell’interno.

Si è osservato, però che tale lettura, come, peraltro, quella che ha identificato la sicurezza urbana in una finalità che i diversi attori pubblici hanno il dovere di perseguire31, non consenta di superare le obiezioni fondate sul necessario rispetto del principio di legalità atteso che il potere amministrativo riconosciuto ai sindaci non trova una copertura di rango primario, poiché l’art. 54 si limita a rinviare la determinazione dei propri contenuti ad una fonte sub-legislativa32 che, in ogni caso, ha fornito una definizione dei concetti di incolumità pubblica e sicurezza urbana parzialmente indeterminati e suscettibili di plurime interpretazioni.

3.4. La riforma al vaglio della Consulta: una prima interpretazione (restrittiva) co-stituzionalmente conforme dell’art. 54 del TUEL

La discussa riformulazione dell’art. 54 TUEL è stata impugnata due volte innanzi al Giudice costituzionale. La Corte, con la sentenza n. 196 del 2009, ha deciso sulle due questioni sollevate – un ricorso in via principale (art. 54 del TUEL, nella sua nuova formulazione) ed un ricorso per conflitto di attribuzioni (D.M. 25 agosto 2009) – con un’unica pronuncia, fornendo una prima interpretazione costituzional-mente conforme (e restrittiva) dei provvedimenti contingibili ed urgenti ex art. 54 del TUEL, seguendo un particolare approccio e iter argomentativo33.

Il Giudice delle Leggi, invero, più che prendere posizione sugli elementi di criti-cità insiti nella riformulazione dell’art. 54 del TUEL ad opera dell’art. 6 del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, evidenziati nel corso dei paragrafi precedenti, ha assunto la vi-suale del riparto di competenze in materia di ordine pubblico e sicurezza fra lo Stato e la Provincia Autonoma di Bolzano34. Sebbene la Consulta abbia dichiarato inam-missibili o infondati tutti i motivi di ricorso, è innegabile il carattere interpretativo della decisione in esame poiché il Giudice delle leggi, pur non pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dei nuovi provvedimenti sindacali in materia di sicurezza urbana, ha comunque espresso alcune considerazioni sulla sostanza della novella le-

31 L. Vandelli, op. cit. Vedasi altresì T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali della sicurezza, Bonomo, Bologna, 2010.

32 A tal proposito la dottrina ha fatto descritto la formulazione di cui all’art. 54 quale “una sorta di norma in bianco”. T.F. Giupponi, “Sicurezza urbana” e ordinanze sindacali: un primo (e inevitabilmente parziale) vaglio del Giudice delle leggi, cit., p. 1421 ss. Cfr. anche A. Pajno, La “Sicurezza urbana” tra poteri impliciti e inflazione normativa, cit.

33 P. Bonetti, La prima interpretazione costituzionalmente conforme (e restrittiva) dei provvedimenti (anche ordinari) dei sindaci in materia di sicurezza urbana e l’opinabile sopravvivenza dei sindaci quali “ufficiali del governo”, in le Regioni, 6, 2009, p. 1403 ss.

34 È stato osservato che lo specifico angolo visuale adottato dalla Consulta, condizionato dalla tipologia dei giudizi instaurati, ha comportato che la Corte abbia concentrato la propria attenzione sui profili di lamentata menomazione delle competenze più che approfondire la legittimità costituzionale del quadro normativo introdotto dal Legislatore del 2008. In tal senso T.F. Giupponi, op. ult. cit.

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gislativa del 2008, adottando un approccio di self restraint in relazione al sindacato sulla stessa.

In particolare, con riferimento alla possibilità di emanare ordinanze contingibi-li ed urgenti ed “anche” provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela delle esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana, la Consulta, ha rilevato che “tra le maggiori innovazioni introdotte dall’art. 6 del d.l. 92/2008 vi è la possibilità ri-conosciuta ai sindaci non solo di emanare ordinanze contingibili ed urgenti, ma anche di adottare provvedimenti di ordinaria amministrazione a tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana”, sancendo la natura solo formalmente prov-vedimentale, ma a contenuto generale – e quindi (forse) sostanzialmente normativo – delle ordinanze di cui trattasi.

Con riferimento, poi, alla perimetrazione del concetto di sicurezza urbana, il Giudice delle leggi sembra aver accolto una nozione di sicurezza intesa “in senso stretto”, di competenza esclusiva statale, attinente “alla tutela dei primari interessi pubblici su cui si regge l’ordinata a civile convivenza nella comunità nazionale”35 e relativa alla “prevenzione e repressione dei reati”.

Inoltre, pur avendo espressamente precisato che il giudizio sul conflitto di at-tribuzioni del D.M. del Ministro dell’Interno del 5 agosto 2008 “prescinde da una valutazione del merito del decreto impugnato e in particolare dal profilo concernente l’ampiezza della definizione del concetto “sicurezza urbana” in relazione ai suoi po-tenziali riflessi sulla sfera delle libertà delle persone”, la Consulta ha specificato che “i poteri esercitati dai sindaci ai sensi dei commi 1 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere che quelli finalizzati all’attività di prevenzione e repressione dei delitti e non i poteri concernenti lo svolgimento di attività di polizia amministrativa”.

Nonostante questa prima lettura costituzionalmente conforme (e restrittiva) della normativa impugnata è stato auspicato l’intervento di un ulteriore giudizio di legitti-mità costituzionale sulle medesime disposizioni, giudizio che solo se posto in via in-cidentale potrebbe garantire maggiori margini interpretativi al Giudice delle leggi36: giudizio che, in effetti, recentemente è stato instaurato innanzi alla Corte.

3.5. L’art. 54 del TUEL di nuovo all’esame del Giudice delle Leggi

L’ordinanza n. 40 del 2010 del Tribunale amministrativo Regionale per il Veneto ha sollevato l’attesa questione di legittimità costituzionale dell’art. 54 del TUEL.

Trattasi, a differenza del caso precedentemente analizzato, di una questione pro-posta in via incidentale che traeva origine dal ricorso di un’associazione di volonta-riato contro il razzismo per l’annullamento di un’ordinanza con la quale si era vietato l’accattonaggio in vaste zone di un territorio comunale coincidenti con quelle in cui si svolgeva la maggior parte della vita “cittadina” sanzionandone l’esercizio con l’ir-

35 T.F. Giupponi, op. cit., p. 1431. 36 T.F. Giupponi, op. cit.

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rogazione di sanzioni amministrative pecuniarie nonché la sanzione accessoria della confisca amministrativa del denaro provento della violazione e di eventuali attrezza-ture impiegate nell’attività37.

Il punto centrale della questione si riferisce alla attuale formulazione dell’art. 54 TUEL che avrebbe attribuito al sindaco un potere ampio ed indeterminato, privo di elementi idonei a delimitarne la discrezionalità.

Il TAR si è dimostrato sensibile ai rilievi mossi alla riforma normativa da parte della dottrina. Di conseguenza ha ritenuto che l’inserimento della parola “anche” nel testo dell’art. 54 del TUEL avrebbe unificato illegittimamente le fattispecie delle ordinanze contingibili ed urgenti a quelle che non presentano questi caratteri, attri-buendo al sindaco un potere extra ordinem, avente carattere generale e permanente, tendenzialmente illimitato, con la possibilità, quindi di incidere su libertà e diritti fondamentali protetti da riserva di legge.

Il Giudice rimettente ha, così, ritenuto che ogni tentativo di addivenire ad un’in-terpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 54, comma 4, trova un ostacolo insormontabile nella formulazione letterale della disposizione censurata38 facendo proprie le posizioni dottrinali di coloro i quali ritengono che l’attuale inserimento della parola “anche” prima delle parole “contingibili ed urgenti” violerebbe i limiti costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità enucleabili da-gli artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 Cost.

I poteri attribuiti ai sindaci dal Decreto Maroni sono stati configurati, dal TAR, come avente carattere sostanzialmente normativo e non meramente amministrativo. A tal proposito si è osservato che “le ordinanze […] anche se e quando – even-tualmente – normative, non possono mai e poi mai essere ricompresse tra le fonti dell’ordinamento giuridico, non possono innovare il diritto oggettivo né tanto meno, possono essere equiparate ad atti con forza di legge, per il sol fatto di essere eccezio-nalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge. Sotto questo profilo l’art. 54, comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal Decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, avendo previsto una vera e propria fonte normativa libera con valore equiparato a quello della legge, vìola pertanto la riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97 Cost., gli

37 Si tratta dell’ordinanza n. 91 del 19.11.2009 del sindaco di Selvazzano Dentro, in provincia di Padova.

38 In relazione alla parola “anche”, rifacendosi all’interpretazione letterale della disposizione impu-gnata, il TAR Veneto, nell’ordinanza di rimessione, ha considerato non “condivisibili le tesi secondo cui la norma dovrebbe essere interpretata, nonostante il suo tenore letterale nel senso che le ordinanze non sarebbero tutt’ora autorizzate a derogare alla legge o a creare norme nuove, quanto piuttosto a modulare le norme esistenti. Infatti è vero che nella norma è rimasto il riferimento alla necessità di una motivazio-ne, tuttavia la congiunzione “anche” comporta che tali ordinanze possano prescindere dall’accertamento di situazioni specifiche e localizzate per assumere efficacia a tempo indeterminato […] Neppure è possi-bile ritenere che tali ordinanze siano tenute, nel rapporto con le altre fonti, al rispetto delle altre norme di legge e delle competenze di altri organi amministrativi legislativamente prefissate”.

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artt. 70, 76, 77 e 117 che demandano in via esclusiva alle assemblee legislative statali e regionali il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge”39.

Il Giudice remittente, quindi, ha sollecitato la Corte costituzionale a prendere posizione sulle questioni che erano rimaste sullo sfondo della sentenza n. 196 del 2009, anche sotto il profilo della definizione di una nozione di sicurezza riconduci-bile nell’alveo concettuale di cui all’art. 54 TUEL e dei presupposti che perimetrano l’ambito di intervento legittimo dei sindaci.

4. Il ruolo ed i poteri dei Prefetti in relazione all’esercizio dei poteri ex art. 54 TUEL da parte dei sindaci

Ulteriore aspetto su cui pare opportuno spendere qualche considerazione è quello inerente il ruolo dei prefetti in relazione alle ipotesi di esercizio (e, soprattutto, di cattivo esercizio) dei poteri ex art 54 TUEL da parte dei sindaci.

Prefetti e sindaci, soggetti aventi una matrice di legittimazione diversa: gli uni riconducibili all’applicazione di un principio di autorità “che viene dall’alto”, gli altri rispondenti ad un principio di legittimazione “che viene dal basso” secondo un’impostazione che la tradizione normativa napoleonica ha ripreso dall’elaborazio-ne dottrinale dell’abate Sieyès, sono ancor’oggi chiamati a convivere ed operare in un contesto in cui i loro rapporti si declinano secondo un criterio di tipo gerarchico che riconosce al Prefetto una serie di poteri di controllo ed intervento in relazione all’attività dei sindaci40.

È stato osservato come la riforma operata dal Decreto Maroni, parallelamente all’ampliamento delle competenze sindacali in materia di ordine pubblico e sicurez-za, abbia anche rafforzato i poteri prefettizi determinando una sorta di necessario coordinamento in materia (fra sindaci, prefetti e Ministro degli interni) che è stato considerato elemento funzionale al perseguimento di una sorta di quasi-collegialità in tale delicato ambito41.

In particolare, l’aver delineato una nozione di “sicurezza urbana” come concetto non definito normativamente in modo preciso, ma come concetto che per la sua realizzazione e tutela richiede necessariamente il coordinamento e la collaborazione istituzionale fra diversi livelli di governo fa sì che il quadro dei rapporti fra sindaci e prefetti che emerge dalla normativa, rappresenti una “garanzia di coordinamento per

39 “Poiché la norma della cui costituzionalità si dubita ha invece attribuito un potere normativo che, dovendo rispettare solo i principi fondamentali dell’ordinamento ed essendo disancorato da specifici e localizzati presupposti fattuali insiti nei concetti della contingibilità e dell’urgenza, è tendenzialmente illimitato e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà dei singoli garantita invece dal principio ‘silentium legis, libertas civium’”. Ord. n. 40/2010 cit.

40 L. Vandelli, Le ordinanze del sindaco in materia di sicurezza urbana, in www.astrid-online.it, 2008.

41 G. Razzano, Le ordinanze di necessità e di urgenza nell’attuale ordinamento costituzionale, cit. L’autrice, in particolare sottolinea come il comma 12 dell’art. 54 TUEL rappresenti una sorta di norma di chiusura.

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la realizzazione dell’obiettivo della sicurezza e, pertanto, un rafforzamento dell’effet-tività dei nuovi possibili interventi realizzabili sul territorio”42.

Passando all’esame delle previsioni di cui al novellato art. 54 TUEL si evince che il Prefetto:

a) riceve comunicazione preventiva dell’ordinanza del sindaco “anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione” (comma 4);

b) può indire “un’apposita conferenza” nel caso in cui i provvedimenti adottati dai sindaci “comportino conseguenze sull’ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi”, conferenza a cui sono chiamati a partecipare i sindaci interessati, il Presidente della Provincia e, se opportuno, altri soggetti pubblici e privati (comma 5);

c) può “disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati” (comma 9);

d) riceve comunicazione dell’eventuale delega dell’esercizio dei poteri di ordi-nanza a presidenti di circoscrizioni o, in assenza di queste, a consiglieri comunali (comma 10);

e) può intervenire con propri provvedimenti “anche in caso di inerzia” nell’eserci-zio dei poteri di ordinanza (comma 11);

Alla luce di quanto sopra ben si comprende come i margini di intervento dei Prefetti in tale ambito, siano assai rilevanti, declinandosi sia come poteri di coordi-namento – fra livello statale e locale nonché fra diverse amministrazioni locali in tutti quei casi in cui un’ordinanza del sindaco sia suscettibile di esplicare effetti anche al di fuori dell’area comunale interessando diverse comunità e collettività – sia come veri e propri poteri di vigilanza e sostituzione.

In particolare, con riferimento all’obbligo di comunicazione preventiva del prov-vedimento sindacale ai sensi del comma 4 dell’art. 54, si deve osservare che tale requisito rappresenta una vera e propria condizione di efficacia delle ordinanze dei sindaci, un obbligo procedimentale la cui inosservanza integra il vizio di violazione di legge e determina l’illegittimità del procedimento amministrativo ai sensi dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990.

Ci si deve interrogare, atteso il silenzio della legge sul punto, se i poteri prefettizi possano spingersi ad intervenire solo ad annullare un’ordinanza considerata carente dei presupposti, ovvero se sia configurabile una sorta di controllo ex ante, quando ancora il provvedimento sindacale non è efficace. Sul punto la giurisprudenza am-ministrativa appare concorde nel ritenere sussistente un generale potere di annulla-mento (Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3076)43, tuttavia, con riferimento

42 S. Rossi, Il nuovo ruolo del prefetto tra diritti e sicurezza, in A. Lorenzetti, S. Rossi ( a cura di), Le ordinanze in materia di incolumità pubblica, cit., p. 159.

43 Secondo il Consiglio di Stato è legittimo il decreto del prefetto di annullamento dell’ordinanza che sia ritenuta non rispondente ai requisiti di legge poiché, con riferimento alle funzioni esercitate dal sindaco in materia di pubblica sicurezza vi è un rapporto di dipendenza dal Prefetto. In tale rapporto il prefetto non ha solo il compito di sovrintendere all’attuazione delle direttive, ma conserva rilevanti poteri finalizzati a incidere in modo diretto sulla gestione della pubblica sicurezza. Il potere del Prefetto, quindi, si spinge, dunque, fino a sospendere le competenze in materia del sindaco. Spetta al prefetto

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al secondo profilo sopra indicato, non vi è accordo in dottrina e si pone il problema di stabilire se l’intervento del prefetto volto a censurare il contenuto di un’ordinanza possa aver luogo anche prima che il provvedimento del sindaco sia valido ed efficace. Se così fosse, il mancato intervento censorio del prefetto a seguito della comunica-zione preventiva di cui al comma 5 dell’art. 54 TUEL rappresenterebbe l’epilogo della fase integrativa dell’efficacia del procedimento amministrativo, sì da costituire una sorta di “precondizione” alla sua legittimità. Sul punto parte della dottrina ha osservato che la previsione di cui al comma 4 del TUEL sarebbe funzionale unica-mente a consentire al Prefetto di predisporre gli strumenti necessari per l’attuazione delle ordinanze dei sindaci, senza attribuire alcun potere generale di controllo pre-ventivo sul contenuto dell’atto. La previsione normativa avrebbe, quindi, la funzione di implementare il dialogo e le forme di coordinamento fra l’azione dei sindaci e i poteri prefettizi in materia di sicurezza44. Una posizione differente, invece, ritiene che la normativa in esame avrebbe inteso attribuire al Prefetto il potere (e il dovere) di effettuare un vero e proprio controllo preventivo di legittimità sugli atti del sinda-co45. A livello di prassi applicativa, sebbene ciò non risolva affatto le problematiche interpretative poc’anzi evidenziate, si registra la diffusione generalizzata di forme di coordinamento e concertazione a carattere informale fra sindaci e prefetti, funzionali all’adozione di provvedimenti dal contenuto condiviso. La prassi conseguente alla riforma del 2008 ha visto, quindi, l’instaurarsi di un fattivo dialogo tra i diversi livelli istituzionali favorito dal ruolo svolto in concreto dai prefetti, i quali hanno progres-sivamente assunto la funzione di organi di garanzia rispetto all’esercizio dei nuovi poteri di ordinanza da parte dei sindaci46.

5. Considerazioni conclusive

All’esito di questa breve disamina del potere dei sindaci di emanare ordinanze in ma-teria di sicurezza non si può evitare di spendere qualche riga non tanto per il profilo normativo-formale, quanto per quello concreto, enucleatosi in via di prassi.

Se si prova a fornire una valutazione complessiva del modo in cui i sindaci hanno fatto ricorso ai poteri di cui all’art. 54 del TUEL, la prima considerazione che viene in rilievo, seppur senza alcuna pretesa di completezza, è che, anche prima della cd. riforma Maroni del 2008, si è assistito ad un uso assolutamente disorganico e diso-mogeneo (per oggetto e contenuti) delle ordinanze di necessità ed urgenza al fine

promuovere una fondamentale funzione di garante dell’unità dell’ordinamento in materia di sicurezza pubblica e l’adozione di ogni misura non può che includere anche il potere di annullamento d’ufficio degli atti adottati dal sindaco quale ufficiale di governo, che risultano essere illegittimi o che comunque minano la menzionata unità di indirizzo.

44 V. Italia, L’ingorgo normativo apre la strada al contenzioso, in Guida agli Enti Locali, Il Sole 24 ore, 32/08; L. Vandelli, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica nel nuovo art. 54 del TUEL, cit.

45 L. Olivieri, Sindaci, niente dribbling ai prefetti, in Italia Oggi, 10 ottobre 2008, così citato in S. Rossi, Il nuovo ruolo del prefetto tra diritti e sicurezza, cit., p. 157.

46 S. Rossi, Il nuovo ruolo del prefetto tra diritti e sicurezza, cit., p. 123 ss.

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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apprestare tutela ad un concetto di sicurezza non solo e non tanto funzionale alla protezione dell’ordine pubblico inteso in senso oggettivo, quanto come concetto avente confini mobili ed evanescenti, di carattere talvolta “emotivo”, funzionale alla tutela di altri diritti o che comunque imponeva un raffronto e un potenziale sacrificio di libertà personali di carattere anche fondamentale con libertà collettive latu sensu riconducibili al concetto di sicurezza pubblica47.

Quella della frizione fra diritti individuali e libertà collettive è una questione che preesisteva alle modifiche legislative del 2008, nonostante sia solo successivamente a tale data che il problema ha assunto le proporzioni odierne, sia per l’esponenziale aumento di ordinanze creative di molti sindaci, dal contenuto particolarmente di-scutibile in quanto difficilmente riconducibile nell’alveo legittimante di cui all’art. 54 del TUEL, sia per la risonanza mediatica che tali provvedimenti hanno ottenuto, anche ove fossero stati prontamente censurati dall’intervento prefettizio. A tal propo-sito si pensi alle ordinanze fiorentine sui lavavetri, alle ordinanze sulla mendicità, sui phone center, a quelle contenenti il divieto di riunirsi in determinati luoghi pubblici nelle ore notturne in un numero superiore a tre individui… ecc.48. A livello di prassi, quindi, l’ambito di intervento delle ordinanze contingibili e urgenti appare estrema-mente frammentato sia sotto il profilo dell’oggetto sia sotto il profilo contenutistico, tanto che talvolta non è nemmeno possibile ricondurre determinante ordinanze a macrocategorie concettuali e le si è semplicemente definite “creative”49.

Spesso i provvedimenti emanati dai sindaci ex art. 54 del TUEL non sono fun-zionali direttamente a proteggere la collettività da minacce concrete per la sicurezza e l’ordine pubblico, rappresentando, invero, un difficilmente configurabile bilancia-mento fra la percezione che la maggioranza della collettività ha della sicurezza (o della insicurezza) e diritti individuali dei singoli, prestando, così, il fianco a censure sotto il profilo del contrasto con il valore costituzionale della solidarietà50. Analizzando la prassi che si è sviluppata negli ultimi anni e i diversi interventi giurisprudenziali ad essa conseguenti emerge il dato secondo cui i sindaci hanno spesso fatto riferimento ad un concetto di sicurezza privo di appigli normativi e giuridici effettivi, perché il bene che sembra volersi in concreto tutelare è frequentemente assimilabile a quello di moralità pubblica o comune sentire che però è un sentire di pochi, non predetermi-

47 A. Lorenzetti, Il difficile equilibrio fra diritti di libertà e diritto alla sicurezza, in A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze in materia di incolumità pubblica, cit., p. 191 ss.; N. Zorzella, Poteri dei sindaci nel “Pacchetto Sicurezza” e la loro ricaduta sugli stranieri, cit.

Sul concetto di sicurezza urbana inteso non come bene giuridico autonomo ma quale “contenitore emotivo che vorrebbe riassumere, appunto, uno stato d’animo, un sentimento collettivo di insicurezza vissuto dai cittadini, a volte, ma non sempre, corrispondente ad un reale pericolo per autentici e distinti beni giuridici (integrità fisica, libertà di autodeterminazione, patrimonio)” vedasi C.R. Riva, Il lavave-tri, la donna col burqa e il sindaco. Prove atecniche di “diritto penale municipale”, in Riv. it. dir. e proc. pen, 2008, I, p. 133 ss. nonché G. Fiandaca, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e “post secolarismo”, in Riv. trim. dir. e proc. pen., 2007, p. 553 ss.

48 Per una panoramica analitica della prassi vedasi A. Lorenzetti, op. cit.49 A. Lorenzetti, op. cit.50 A tal proposito si possono ricordare le ordinanze cd. sul “velo” e quelle c.d. sulla marginalità.

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nato né predeterminabile, sicché spesso sono assolutamente incerti i confini dell’arbi-trio che viene riconosciuto come proprio della sfera decisionale dell’autorità locale51.

Si tratta di provvedimenti (peraltro frequentemente fatti oggetto di censura da parte o dei prefetti o del giudice amministrativo) che indicano un uso talvolta “di-storto” del potere di ordinanza poiché non sono sempre presenti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale fin dalle prime sentenze in materia e paiono tal-volta un (maldestro) tentativo di arginare forme di scontento sociale o insofferenza sociale più che uno strumento funzionale alla tutela della sicurezza dei cittadini.

La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 196 del 2009 ha riconosciuto l’estrema complessità della materia rilevando quale elemento critico caratterizzante il ricorso al potere di ordinanza il difficile bilanciamento fra la salvaguardia di diritti della collettività e la compressione dei diritti (anche fondamentali) dei singoli.

Tale interpretazione è stata fatta propria anche di recente dal TAR Veneto, nell’or-dinanza di rinvio della questione di legittimità costituzionale sopra citata, che ha evidenziato il problema di operare un bilanciamento, specialmente quando si tratta di porre in relazione beni giuridici non sempre omogenei fra loro.

51 A. Lorenzetti, op. cit. A ciò si aggiunga una estrema frammentazione e disomogeneità terri-toriale di tal ché nemmeno per i cittadini, e ancor più per gli stranieri (spesso indiretti ma principali protagonisti di tali provvedimenti) è sempre agevole o possibile conoscere dei loro contenuti.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Corrado Caruso

1. La disciplina (legislativa e regolamentare) sulle associazioni di osser-vatori volontari per la sicurezza urbana

L’art. n. 3, ai commi 40-44, l. n. 94/2010 della attribuisce al sindaco la possibilità di avvalersi della “collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di se-gnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”1.Tali associazioni sono iscritte in un apposito elenco tenuto dal prefetto, che dovrà verificare il rispetto dei requisiti (in verità ben pochi) richiesti alla legge e dal d.m. a cui l’atto legislativo rimanda2. Quanto all’atto legislativo, le uniche condizioni previste impongono alle organizza-zioni di osservatori volontari di essere formate da individui non armati, e alle associa-zioni diverse da quelle “costituite tra gli appartenenti in congedo, alle forze armate e agli altri corpi dello Stato” di non ricevere, “a nessun titolo, […] risorse economiche a carico della finanza pubblica”3. La scarna disciplina legislativa, che pone seri dubbi

1 Così il comma 40 art. 3 l. n. 94/2009. Tale normativa riprende in maniera pressoché identica la disciplina introdotta dall’art. 3 commi 3-6 d.l. n. 11/2009, poi sul punto non convertito. La sola novità è contenuta nel comma 44, che espressamente richiede che la tenuta del registro di dette asso-ciazione debba avvenire con le risorse disponibili, senza nuovi oneri a carico della finanza pubblica. Per un resoconto sull’iter legislativo nonché per alcuni primi commenti sulla disciplina v. G. Brunelli, L’inquietante vicenda delle ronde: quando la “sicurezza partecipata” mette a rischio la legalità costituzionale, in Le istituzioni del federalismo, 2009, pp. 5 e ss., M. Cecchetti, S. Pajno, Quando una ronda non fa primavera. Usi e abusi della funzione legislativa, in Federalismi.it, all’indirizzo www.federalismi.it, M. Massa, I vigilanti privati e il volto pubblico della pubblica sicurezza, in Costituzionalismo.it, all’indirizzo www.costituzionalismo.it.

2 V. comma 43 art. 3: “Con decreto del Ministro dell’interno, […], sono determinati gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, i requisiti per l’iscrizione nell’elenco e sono disci-plinate le modalità di tenuta dei relativi elenchi”.

3 In tal senso il comma 42 dell’art. 3. Sul punto, per un articolato commento della disciplina legislativa così come integrata dal decreto ministeriale, cfr. T.F. Giupponi, L. 15.7.2009, n. 94 - Art. 3, commi 40-44, in corso di pubblicazione.

La legge, la Corte e le “ronde”: le associazioni di osservatori volontari per la sicurezza urbana

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quanto al rispetto del principio di legalità dell’azione amministrativa4, è integrata dall’atto regolamentare, che determina piuttosto dettagliatamente le condizioni di appartenenza dei singoli individui5, nonché i requisiti che devono avere tali associa-zioni per potere essere costituite e iscritte nel registro all’uopo istituito. In tal senso, le imposizioni più rilevanti attengono al divieto di contiguità delle associazioni con partiti politici, tifoserie organizzate o movimenti aventi finalità di discriminazione etnica, razziale o religiosa6. Attraverso tali disposizioni, il decreto ministeriale ha ten-tato di offrire risposta ai timori provenienti da parte della dottrina7 relativi al possi-bile perseguimento da parte delle associazioni volontarie di scopi politici. In effetti, l’utilizzo di casacche o di uniforme (ora disciplinato dall’art. 3.2. del d.m.) nonché la possibile struttura gerarchica dell’organizzazione avrebbe potuto integrare gli estremi del divieto costituzionale espresso dall’art. 18.2.

Il comma 40, art. 3, l. 94/2009 individua nel sindaco, previa intesa con il pre-fetto, il soggetto istituzionale che può avvalersi dell’opera delle associazioni di vo-lontari. Tuttavia, il decreto ministeriale conferma la necessità di un’opera congiunta tra vertice dell’ente locale e autorità prefettizia: se da un lato l’art. 3 d.m. individua nell’ordinanza sindacale l’atto a cui spetta la formalizzazione giuridica della volontà di ricorrere alle organizzazioni8, il successivo art. 4 individua in apposite convenzioni

4 In tal senso v. T.F. Giupponi, op. cit., Secondo G. Brunelli, L’inquietante vicenda, cit., p. 19 l’ampio rinvio alla fonte secondaria comporterebbe “una violazione della riserva di legge assoluta, essen-dosi rinviata a un decreto ministeriale la determinazione di regole e criteri di grande delicatezza, in una materia che tocca da vicino i diritti fondamentali”.

5 Sono cinque i requisiti richiesti individuali richiesti: a) avere conseguito la maggiore età; b) go-dere di buona salute fisica e mentale; c) non essere stati denunciati o condannati per delitti non colposi; d) non essere stati sottoposti a misure di prevenzione; e) non aderire, o aver mai aderito, a gruppi con finalità di discriminazione etnica, razziale e religiosa. Così l’art. 5, comma 1, d.m., 8 agosto 2009.

6 Cfr. art. 1, d.m. 8 agosto 2009, che contestualmente prevede che le associazioni svolgano la pro-pria attività senza fini di lucro e comunque senza finanziamenti da parte di partiti o movimenti politici, dal tifo organizzato e da gruppi che perseguano finalità discriminatorie. A parte quest’ultimo divieto, analoghe proibizioni non sono invece previste per il singolo individuo partecipante.

7 V. G. Brunelli, L’inquietante vicenda, cit. pp. 7-8, M. Massa, I vigilanti privati, par. 5.8 L’atto giuridico in questione deve essere annoverato in quella categoria di provvedimenti, ora

disciplinati dal novellato art. 54, comma 4 d.lv. 267/2000 che il sindaco può adottare per prevenire gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. Più in particolare, l’ordinanza de qua, sembra appartenere a quel genus provvedimentale “di ordinaria amministrazione”(così C. cost. sent. n. 196/2009) dotata di stabilità temporale e comunque sottoposta alle vigenti disposizioni di legge e di regolamento. Per una simile lettura, che tenta di orientare in senso costituzionalmente conforme il rinnovato potere di ordinanza dei sindaci v. L. Vandelli, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicu-rezza pubblica nel nuovo art. 54 del TUEL, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti della sicurezza urbana dopo la legge 24 luglio 2008 n. 125 ed il decreto del Ministro dell’interno, Bologna, 2009, p. 51 e ss., T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali della sicurezza, Bologna, 2010, p. 202 e ss., nonché, se si vuole, C. Caruso, Da Nottingham a La Mancha: l’odissea dei sindaci nell’arcipelago dei diritti costituzionali, in le Regioni, 2010 p. 15 e ss. Per una diversa interpretazione, volta a individuare comunque “in una situazione di urgente necessità” il presupposto extranormativo per l’adozione delle ordinanze (sia “ordinarie” che contingibili e urgenti) v. A. Morrone, Le ordinanze di necessità e urgenza tra storia e diritto, in A. Vignudelli (a cura di), Istituzioni e dinamiche del federalismo. I confini mobili della separazione dei poteri, Milano, 2009, p. 181, nonché A. Pajno, La sicurezza urbana tra poteri impliciti e inflazione normativa, in A. Pa-

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lo “strumento operativo cardine”9 per la determinazione delle modalità di impiego. Tali accordi dovranno disciplinare “l’ambito territoriale e temporale” delle attività, “il piano di impiego, la formazione degli associati […] ed adeguate forme di control-lo per la verifica delle disposizioni contenute”. Anche tali convenzioni devono essere concordate con il prefetto, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Come emerge dall’assetto normativo, prefetto e sindaco (in qualità di ufficiale di governo) rivestono un ruolo centrale nella determinazione delle modalità di utilizzo delle associazioni di volontari; in tal senso, parziale conferma del ruolo del vertice dell’ente locale quale terminale delle politiche di controllo sul territorio si ha con riferimento alle attività delle organizzazioni, che devono segnalare alle forze di polizia dello Stato o locali eventi potenzialmente idonei a danneggiare la sicurezza urbana o comunque indicare situazioni di disagio sociale. Il riferimento alle nozioni di sicurez-za urbana e disagio sociale ha posto diversi dubbi sul corretto inquadramento delle attività dei volontari, e sui confini stessi del concetto di sicurezza urbana suscettibile di essere alternativamente intesa in senso stretto, come attività volta alla prevenzione e repressione dei reati, e dunque parte dell’endiadi “ordine pubblico e sicurezza”10, oppure in senso lato, come fascio di competenze concorrente, statali e non statali, dirette anche alla promozione e alla coesione sociale11.

Risulta infatti evidente come, a seconda dell’angolo prospettico prescelto, mu-terebbero non solo funzioni e responsabilità del vertice dell’ente locale, ma anche il tipo di attività delle associazioni di volontari che, nel primo caso, resterebbero circoscritte ad una semplice azione di osservazione e segnalazione prodromica al successivo intervento dell’autorità di sicurezza pubblica, mentre nel secondo caso si vedrebbero affidare il compito ulteriore di assistenza alla cittadinanza e di conte-nimento delle situazioni di disagio sociale12. In tal senso, non sembra sciogliere gli

jno (a cura di), La sicurezza urbana, Rimini, 2010, p. 9 e ss., che restringe l’innovazione legislativa alle sole ordinanze contingibili e urgenti, tentando di fatto di svuotare l’intervento normativo in materia.

9 Così T.F. Giupponi, L. 15.7.2009, n. 94 - Art. 3, cit.10 Questa lettura, prospettata in dottrina da G. Caia, L’amministrazione della pubblica sicurezza e

le forze di polizie: l’assetto delle competenze ed il coordinamento in relazione ai recenti interventi normativi, in Aa.Vv., Nuovi orizzonti, cit., p. 77 e ss., sembra ora fatta propria dalla Corte costituzionale con le recenti sentt. nn. 196/2009, 226/2010, 274/ 2010 (ma sul punto v. infra).

11 Così invece L. Vandelli, I poteri del sindaco, cit., p. 51 e ss. Quest’ultima per altro sembrava essere l’opzione originaria prescelta dai primi interventi normativi e dal d.m. 5 agosto 2008 che, nello specificare gli ambiti di intervento delle ordinanze sindacali, definisce la sicurezza come quel “bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza e la coesione sociale”. Per una sistemazione critica delle varie posizioni dottrinali in materia cfr. per tutti T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali cit., p. 207 e ss., il quale prospetta la possibilità di una lettura combinata delle due concezioni, diretta a valorizzare “le specifiche finalità delle diverse funzioni e competenze coinvolte […] nell’ambito dell’indispensabile individuazione delle necessarie forme di coordinamento tra i diversi livelli di governo” (ibidem, p. 212 e ss.).

12 Sul punto v., in senso critico, A. Pajno, V. Antonelli, La sicurezza urbana tra editti e ronde, in A. Pajno (a cura di) La sicurezza urbana, cit., in particolare p. 191 e ss.

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interrogativi il decreto di attuazione che all’art. 1 comma 1 richiede tra gli scopi as-sociativi il fine di volontariato con propositi di solidarietà sociale e all’art. 2 comma1 riassume con formula poco più che ricognitiva quanto già espresso dall’art. 3 comma 40 l. 94/2009. Secondo tale disposizione gli associati dovrebbero svolgere attività di “mera osservazione” in specifiche aree del territorio comunale “[…] segnalando alla polizia locale e alle forze di polizia dello Stato eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana, ovvero situazioni di disagio sociale”13.

2. Le sentenze nn. 226/2010 e 274/2010 della Corte costituzionale

Agli interrogativi che gravitano intorno all’ambito di estensione del concetto di sicu-rezza pubblica e alla tipologia di attività svolta ha ora offerto una parziale risposta la Corte costituzionale con due sentenze gemelle emesse dapprima in seguito al ricorso in via d’azione delle regioni Emilia-Romagna, Toscana e Umbria nei confronti della legge 94/2009, e, successivamente, all’impugnazione del d.m. di attuazione da parte delle sole Emilia-Romagna e Toscana in sede di conflitto intersoggettivo14.

Nel corso del primo giudizio, le ricorrenti hanno sposato un concetto lato di sicurezza urbana, idoneo a integrare una pluralità di competenze attribuite dalla Co-stituzione a diversi livelli di governo. Secondo le regioni, la legge avrebbe disciplinato un’area più ampia della semplice materia “ordine pubblico e sicurezza” di cui all’art. 117. 2, lett. h), Cost. per ricomprendere le materie “polizia amministrativa” e “poli-tiche sociali” di competenza residuale regionale ex art. 117.6 Cost. In coerenza con tale approccio, ad avviso delle regioni sarebbero stati illegittimi non solo i commi 40, 41 e 42, ma anche il comma 43, che nel disporre il necessario intervento attuativo del decreto ministeriale avrebbe violato la riserva regolamentare disposta dall’art. 117 VI che riconosce competenza regolamentare alle regioni in tutte le materie non riservate in via esclusiva allo Stato.

Infine, le regioni Emilia-Romagna e Umbria hanno richiamato l’art. 118.3 Cost. Secondo le ricorrenti qualora la Corte, in base al criterio di prevalenza, avesse rinve-nuto la necessità di una disciplina statale per la tutela di esigenze unitarie, i commi in questione sarebbero stati da annullare per violazione del generale principio di leale collaborazione e dello specifico dovere, imposto dall’art. 118.3 Cost. alla legge

13 L’art. 2 compie poi importanti precisazioni in merito alle concrete modalità di svolgimento dell’attività. Si precisa (art. 2.2.) che l’attività di osservazione possa essere svolta esclusivamente in un numero di persone non superiore a tre, di cui una di età pari o superiore a venticinque anni, senza l’ausilio di animali. L’attività di segnalazione (art. 2.4) è effettuata attraverso l’utilizzo di apparecchi di telefonia mobile oppure di apparati radio-ricetrasmittenti omologati, i cui elementi identificativi o di riferimento devono essere comunicati al responsabile del servizio di polizia municipale territorialmente competente.

14 Cfr. rispettivamente G.U. n. 43/2009 e n. 49/2009. Per un primo commento alle decisioni in questione v. S. Rossi, Ronde e disagio sociale. Nota a Corte Costituzionale n. 226/2010 in Forum di Quaderni Costituzionali, all’indirizzo www. forumcostituzionale.it; nonché T.F. Giupponi, La Corte “dimezza” le ronde, in attesa dell’attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost. in corso di pubblicazione in Giurisprudenza Costituzionale, 2010, n. 3.

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dello Stato, di disciplinare forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza, meccanismi di coinvolgimento che la legge impugnata avrebbe escluso per favorire uno stretto collegamento verticale tra amministrazione centrale e sindaco in qualità di ufficiale di governo.

In prima battuta, la Corte ha avvertito la necessità di riaffermare i confini del giu-dizio. Nonostante l’art. 18 Cost. non fosse indicato nel thema decidendum per l’im-possibilità da parte regionale di impugnare atti legislativi statali per vizi non attinente alla ripartizione costituzionale di competenze15, forse per suggerire una futura strada ai giudici comuni, il giudice delle leggi ha chiarito come lo scrutinio di legittimità vada circoscritto alla possibile lesione della sfera di competenze costituzionalmente garantite alle regioni, restando così “impregiudicata” ogni questione attinente alla pretesa violazione della libertà di associazione.

In secondo luogo, dopo aver rilevato come l’ambito di intervento delle associa-zioni di osservatori volontari individuato dalla legge attenesse ad eventi riconducibili sia alla sicurezza urbana che a situazioni di disagio sociale, la Corte ha risolto il caso seguendo un procedimento argomentativo scomponibile in tre fasi: in prima battuta, è stata definita la materia costituzionale “ordine pubblico e sicurezza” e, dunque, la premessa maggiore del ragionamento; in un secondo momento, sono stati ricostruiti i concetti di sicurezza urbana e di disagio sociale, così come disciplinati ed intesi dal legislatore; infine, alla luce delle regole definitorie enunciate e a mo’ di conclusione, verificata l’asserita lesione delle competenze regionali così come disciplinate costitu-zionalmente, è stata dichiarata l’incostituzionalità del comma 40, art. 3 limitatamen-te alle “situazioni di disagio sociale”.

Quanto al primo aspetto, forte anche del precedente con cui recentemente ha sottoposto ad un primo scrutinio il novellato art. 54 d.lgs. 267/2000 (TUEL)16, la Corte non ha avuto dubbi: la materia ordine pubblico e sicurezza è da intendersi in senso restrittivo come “relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile conviven-za della comunità nazionale”.

Quanto invece alla sicurezza urbana, i giudici hanno scartato l’ampia attribuzione di senso conferita al concetto dal d.m. 5 agosto 2008, e, dunque, l’applicabilità del diritto regolamentare vivente alla disposizione legislativa: “nonostante l’[…] ampiez-

15 La parità sostanziale, almeno quanto vizi deducibili in giudizio, tra Stato e Regioni è stata negata dalla Corte Costituzionale, successivamente alla riforma del Titolo V, a partire dalla sent. n. 274/2003: mentre lo Stato, nella “ripetuta evocazione di istanze unitarie” può impugnare la violazione di una legge regionale in relazione a qualsiasi disposizione costituzionale, le Regioni possono dedurre solo vizi di violazione di competenza. Tuttavia, come detto, nel caso di specie le Regioni hanno assunto a parametro solo gli artt. 117-118, mentre nessuna menzione è stata compiuta in relazione ad altre norme costituzionali.

16 V. C. Cost. sent. n. 196/2009 su cui T.F. Giupponi, “Sicurezza urbana” e ordinanze sindacali: un primo (e inevitabilmente parziale) vaglio del Giudice delle leggi, e P. Bonetti, La prima interpretazione costituzionalmente conforme (e restrittiva) dei provvedimenti (anche ordinari) dei sindaci in materia di sicurezza urbana e l’opinabile sopravvivenza dei sindaci quali “ufficiali di governo”, entrambi in le Regioni, 2009 rispettivamente pp. 1421 e ss., 1403 e ss.

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za della definizione […] il decreto ministeriale [ha] ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati”. In tal senso, la Corte preferisce dare rilievo agli indizi letterali desumibili da rubrica e premesse del d.l. n. 92/2008 che proverebbero la ratio della disciplina im-pugnata. Il richiamo al d.l. n. 92/2008, che per la prima volta ha introdotto a livello di legislazione ordinaria (sebbene in relazione alla modifica dell’art. 54 TUEL) il concetto di sicurezza urbana, è servito alla Corte, in ottica sistematica, a dare rilievo all’ambito di operatività delle associazioni di osservatori volontari: in coerenza con tale prospettiva, la sicurezza urbana deve avere “identica valenza nei due casi”, e “cioè quella che, in rapporto ai provvedimenti previsti dal testo unico delle leggi sull’ordi-namento degli enti locali, la […] sentenza 196/2009 ha già ritenuto non esorbitante dalla previsione dalla previsione dell’art. 117.2 lett. h) Cost.”.

Dopo il ricorso a canoni extranormativi diretti a chiarire lo scopo dell’intervento legislativo, il giudice delle leggi ha ricostruito il concetto di sicurezza urbana attraver-so il riferimento sistematico alle disposizioni della legge 94/2009: secondo la Corte, la necessaria intesa tra sindaco e prefetto, la condizione di preferenza di utilizzo a fa-vore di associazioni costituite da personale in congedo delle forze dell’ordine, nonché il ruolo ricoperto dai destinatari dell’attività di segnalazione (forze di polizia) avreb-bero fornito la conferma della coincidenza tra sicurezza urbana e sicurezza pubblica intesa in senso restrittivo come attività di prevenzione e di repressione dei reati.

La Corte ha così rifiutato una nozione trasversale e finalistica dell’ordine pubblico preferendo piuttosto un’ipotesi funzionale; a seguito di tale opzione interpretativa, è stata rigettata l’osservazione della Regione Toscana secondo cui l’affidamento a privati dell’attività di prevenzione e repressione dei reati comporterebbe una privatiz-zazione di una funzione necessariamente pubblica. Ad avviso della Corte, infatti, le associazioni avrebbero un compito di mera osservazione e segnalazione non diversa, per scopo e natura, dall’attività prevista dal codice di procedura penale in favore dei singoli cittadini (arresto in flagranza nei casi previsti ex art. 380 e denuncia dei reati perseguibili di ufficio art. 333).

Intesa la sicurezza urbana quale sinonimo di sicurezza pubblica, e considerata la relativa disciplina quale frutto di legittimo esercizio della potestà statale in materia, la Corte procede all’analisi dell’ulteriore contesto materiale entro cui le organizzazioni di volontari si trovano ad operare. I giudici hanno escluso che la formula “disagio sociale” possa essere considerata locuzione analoga a “sicurezza urbana”: “[n]ella sua genericità, la formula […] si presta […] ad abbracciare una vasta platea di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’individuo nel tessuto sociale […]: situazioni, che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale segnatamente alla materia dei “servizi sociali” di competenza regionale residuale”.

In tale materia non vi è spazio per una esigenza di regolamentazione unitaria: in tal senso il riferimento a situazioni di disagio sociale è considerato spurio ed eccen-trico rispetto alla ratio della disciplina impugnata. In coerenza con tali premesse, ha concluso la Corte, il comma 40 è da considerare parzialmente illegittimo limitata-mente alla sfera “disagio sociale”.

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A chiosa del ragionamento, il Giudice delle leggi ha eluso, respingendo le argo-mentazioni di Emilia-Romagna e Umbria, l’obiezione fondata sulla necessaria appli-cazione dell’art. 118.3 Cost., che richiede, in materia di ordine pubblico e sicurezza, particolari forme di coordinamento tra Stato e regioni. Il mancato coordinamento è stato, ad avviso della Corte, irrilevante: l’art. 118.3 Cost. imporrebbe semplicemente una riserva di legge statale, che in questo contesto sembrerebbe assumere il duplice significato negativo di escludere, da un lato, la disciplina da parte di una fonte se-condaria dello Stato e, dall’altro, l’intervento di una fonte normativa regionale: in tal senso, l’art. 118.3 Cost. imporrebbe allo Stato solo un tipo di fonte e non già un obbligo di coordinamento in materia di ordine pubblico e sicurezza. La disposizione costituzionale sarebbe così ricognitiva di una mera facoltà in capo allo Stato, che re-sterebbe così libero di scegliere non solo il quantum ma anche l’an della cooperazione con gli enti regionali.

Tali argomentazioni sono riprese nella successiva pronuncia n. 274/2010, avente ad oggetto, in sede di conflitto di attribuzione tra enti, il d.m. 8 agosto 2009. Dopo aver confermato la lesione della competenza legislativa residuale “servizi sociali”, e dunque dell’art. 117.4 Cost., e dell’art. 117.6 Cost., che circoscrive la potestà regola-mentare dello Stato nelle sole materie di sua competenza legislativa esclusiva, la Corte procede ad eliminare tutti riferimenti al disagio sociale contenuto nel decreto, in rela-zione in particolare all’elenco e agli scopi delle associazioni di osservatori volontari17.

Ciò che rileva, in quest’ultima pronuncia, è piuttosto l’espressa qualifica del d.m. come atto regolamentare: secondo la Corte, la sostanza dell’atto contribuisce a de-terminarne la forma: [i]l presupposto […], – e cioè che l’atto impugnato, pur non recando formalmente tale denominazione, abbia natura di regolamento – corrispon-de infatti, ai contenuti sostanziali dell’atto, il quale detta norme intese a disciplinare, in via generale e astratta, i requisiti delle associazioni e degli osservatori volontari ad esse appartenenti, il loro ambito di operatività e i procedimenti amministrativi connessi, vincolando con ciò i comportamenti dei diversi soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività in questione”. Ciò premesso, nonostante la legge n. 400/1988 di fatto concorra a disciplinare l’esercizio del potere regolamentare statale, la Corte esclude il sindacato di legittimità sull’atto regolamentare alla luce delle prescrizioni procedurali imposte dall’art. 17 comma 4 l. 400/1988: in tal senso, eventuali profili di illegittimità dell’atto “esulano dal tema del presente giudizio”18.

17 Si tratta in particolare delle norme contenute agli artt. 1.1, 1.2 e 2.1. È significativo che la Corte decida di non intervenire sul preambolo del decreto, perché ritenuto meramente “descrittivo dei conte-nuti delle norme primarie attuate” mentre ha attribuito particolare rilevanza, nella sent. n. 226/2010, alla rubrica e alle premesse del d.l. 92/2008 e alla l. 94/2009 per determinare il significato normativo del concetto di sicurezza urbana.

18 In questo modo la Corte Costituzionale, nel lasciare di fatto spazio al controllo di legittimità dei giudici amministrativi, supera definitivamente quanto stabilito in alcune sentenze dei TAR (cfr. ad esempio, TAR Lazio n. 12222/2008), ove ancorché in riferimento al d.m. 5 agosto 2008 di attuazione del novellato art. 54 TUEL, è stato affermata la natura non regolamentare e di semplici linee guida degli atti che non riportano espressamente la qualifica regolamentare.

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3. Le associazioni di osservatori volontari nel contesto della sicurezza pubblica

La Corte costituzionale ha dunque spaziato dalla specificazione delle attività delle associazioni dei volontari fino alla definizione del concetto di sicurezza urbana, indi-viduando altresì i confini della ripartizione di competenze tra Stato e regioni.

Quanto al concetto di sicurezza urbana la Corte ha confermato il dictum espres-so nella sent. n. 196/2009: essa condividerebbe la natura della sicurezza pubblica, considerata come funzione pubblica che spetta allo Stato attuare e disciplinare. Tut-tavia, questa concezione restrittiva non sembra del tutto coerente con la più recente giurisprudenza in materia. In effetti, se è vero che a partire dalla sent. n. 407/2002 la Corte ha offerto un’interpretazione restrittiva della clausola costituzionale, altre più recenti pronunce sembrano aver inteso ordine pubblico e sicurezza come materia-valore fondante una competenza trasversale che legittima l’intervento statale anche oltre il circoscritto disposto costituzionale19. Almeno teoricamente, la ricostruzione della sicurezza pubblica quale valore dovrebbe consentire l’esercizio di una potestà le-gislativa regionale di tipo “integrativo”, capace di innestarsi su standards di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale. Se così è, e alla luce di quanto stabilito nelle sentt. nn. 196/2009, 226/2010 e 274/2010, appare dunque quantomeno incoerente “smaterializzare” tale competenza ogni qualvolta vi sia da proteggere un’asserita esi-genza unitaria rispetto interventi regionali e, al contrario, “rimaterializzarla” in senso restrittivo ogni qualvolta lo Stato, come in questo caso, decida arbitrariamente di escludere gli enti regionali dalla programmazione di politiche che, per loro natura, richiedono un’attenzione particolare alle specificità territoriali20.

Inoltre, tale lettura appare più coerente con una nozione, recentemente eviden-ziata21, che metta in rilievo l’aspetto precettivo della sicurezza pubblica in quanto interesse di rango costituzionale capace di guidare l’azione dei pubblici poteri: non dunque una semplice funzione svolta dallo Stato-persona, ma un fine la cui attuazio-ne e implementazione deve essere portata avanti da tutti i componenti dello Stato-ordinamento22. In tal senso, la determinazione delle politiche connesse al suo invera-

19 Cfr. ad esempio sentt. nn. 237/2006 (sulle disposizioni di una legge provinciale in materia di istal-lazione di macchine da gioco all’interno dei pubblici esercizi), 18/2009 (sulla disciplina regionale relativa alle procedure di assegnazione delle bande orarie di trasporto aereo) e, da ultimo sent. n. 21/2010 (di-sciplina statale sull’istallazione degli impianti). “[A]ppare ormai evidente come la Corte identifichi nella sicurezza non più un determinato ambito materiale di intervento statale […], quanto una più complessa finalità connessa alla tutela dell’incolumità delle persone su tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’attività e dai settori rilevanti”. Così T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali, cit., p. 218.

20 Il fenomeno di rimaterializzazione delle materie da parte della Corte costituzionale è da ultimo osservato da F. Benelli e R. Bin, La rimaterializzazione delle materie, in le Regioni, 2009 pp. 1185 e ss. che aggiornano quanto già osservato da F. Benelli, in La smaterializzazione delle materie. Problemi teorici ed applicativi del nuovo Titolo V della Costituzione, Milano, 2006.

21 Cfr. T.F. Giupponi, op. ult. cit., pp. 49-96.22 La concettualizzazione della sicurezza pubblica quale interesse costituzionale ha il pregio, che

non può venire direttamente in rilievo in questa sede, di caratterizzarne l’espressione in senso garan-tistico. In effetti, rispetto ad altre ipotesi che intendono la sicurezza come presupposto o supervalore

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mento deve necessariamente vedere coinvolte anche le regioni, nel loro ruolo classico di programmazione e definizione delle istanze provenienti dalle comunità territoriali di riferimento. In coerenza con tale approccio la Costituzione richiede, proprio in relazione ad ordine pubblico e sicurezza, forme di coordinamento stabilite in via legi-slativa dallo Stato, rendendo flessibile la separazione di competenza espressa dall’art. 117.2 lett. h) Cost.: l’art. 118.3 Cost. non sembra istituire una semplice riserva di legge statale, come se il coordinamento in materia di ordine pubblico e sicurezza fosse semplicemente un’ulteriore materia che spetta allo Stato regolare: piuttosto, come evidenziato dalla Regione Toscana, la disposizione costituzionale sembra costi-tuire specificazione del principio costituzionale di leale collaborazione. In tal senso, il rigetto della domanda della ricorrente insistente sul mancato adempimento degli oneri posti dall’art. 118.3 Cost. esplicita il rifiuto della Corte di dare applicazione al principio di leale collaborazione. Tuttavia, la mancata considerazione della leale col-laborazione poteva già desumersi dall’opera di rimaterializzazione di “ordine pubbli-co e sicurezza”: in effetti, se la trasversalità della materia implica una sorta di collabo-razione “negoziale” del riparto delle competenze23, l’irrigidimento materiale a favore di una secca distribuzione principio/dettaglio comporta, di contro, una tendenziale restrizione dei margini concertativi precedenti all’esercizio della competenza stessa24.

In coerenza con tale prospettiva, la contestuale dichiarazione di incostituzionalità della legge e del d.m. nella parte in cui consentivano alle associazioni di intervenire in relazione a situazioni di disagio sociale senza il contestuale richiamo al principio di leale collaborazione, pur consentendo la simultanea coesistenza della disciplina della legge n. 94/2009 con gli interventi legislativi regionali diretti a promuovere forme di sorveglianza del territorio, non consente di evitare duplicazioni che rischiano di portare ad una sovrapposizione della disciplina statale con le previsioni regionali25.

Inoltre, si è visto come la Corte abbia deciso di lasciare impregiudicata la que-stione riguardante l’eventuale lesione da parte delle prescrizioni legislative (sent. n. 226/2010) o regolamentari (sent. 274/2010) della libertà di associazione. Tuttavia, pare difficile immaginare un sindacato sulla disciplina per violazione di diritti di

dell’ordinamento (che, sotto l’atecnica dizione di “diritto alla sicurezza” diviene potenzialmente capace di assorbire ogni diritto di libertà), tale accezione ne concretizza la portata, consentendone la determi-nazione dei confini e degli ambiti applicativi. Sul punto, in generale, v. T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionale della sicurezza, cit., p. 68 e ss.

23 Sul punto più ampiamente cfr. F. Benelli, C. Mainardis, La negoziazione delle competenze fra Stato e Regioni e il suo seguito giurisprudenziale, in A. Barbera, T.F. Giupponi, La prassi degli organi costituzionali, Bologna, 2008, p. 469 e ss.

24 Sul rapposto tra trasversalità e principio di leale collaborazione v. da ultimo F. Benelli, in F. Benelli, R. Bin, Prevalenza e ”rimaterializzazione delle materie”, cit., p. 1189 e ss.

25 In tal senso, pur evitando una caducatoria secca, la Corte avrebbe quanto meno potuto espri-mere un monito al legislatore richiamante la necessaria attuazione del principio di leale collaborazione. Peraltro, l’emanazione del decreto ministeriale sembra aver portato ad una progressiva sovrapposizione degli ambiti di intervento originariamente previsti dalla disciplina statale. Sottolinea l’iniziale differenza della disciplina normativa prima dell’emanazione del decreto ministeriale A. Musumeci, Sicurezza e ordinamento regionale, cit., pp. 126-131.

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libertà costituzionalmente garantiti: in primo luogo, perché tale normativa sembra regolare, in prima battuta, un potere riconosciuto al vertice dell’ente locale senza fornire una disciplina generalizzata dei fenomeni associativi in sé per sé considera-ti26; in secondo luogo, se le associazioni di volontari partecipano all’esercizio di una funzione statale27, lo Stato possiede una naturale discrezionalità regolativa delle fun-zioni pubbliche anche se esercitate da soggetti privati. In altri termini, se l’attività di osservazione delle associazioni di volontari in concreto risulta essere “la prima forma di attività di polizia […] il cui esercizio costituisce il presupposto per il successivo esercizio dei poteri repressivi”28, e se la disciplina statale si colloca, almeno a detta del-la Corte, nell’ambito dell’attività di prevenzione e repressione dei reati, l’azione degli osservatori non costituisce espressione di un diritto di libertà: piuttosto, tale attività sembra costituire una forma di partecipazione privata ad una funzione pubblica, che si rivela, in quanto tale, concettualmente incompatibile con l’esercizio di un diritto soggettivo29.

Piuttosto, la disciplina in esame sembra porsi, come già accennato, potenzial-mente in contrasto con il principio di legalità dell’azione amministrativa: in effetti, la legge n. 94/2009 sembra non andare oltre alla mera attribuzione formale di un nuovo potere al sindaco, lasciando la disciplina non solo di dettaglio (si pensi, ad esempio, ai requisiti delle associazioni ai fine dell’iscrizione nel pubblico registro) al decreto ministeriale30.

In relazione alle modalità di esercizio dell’attività va inserita la risposta offerta dalla Corte all’obiezione avanzata dalla Regione Toscana, secondo cui l’eventuale inclusione della sicurezza urbana nel più ampio contesto della materia “ordine pub-blico e sicurezza” comporterebbe l’affidamento a privati di una pubblica funzione31. In effetti, nonostante il principio di sussidiarietà orizzontale ex art. 118.4 Cost. non venga menzionato nel ricorso, quest’ultima disposizione potrebbe risultare idonea ad integrare il parametro costituzionale alla cui stregua valutare la legittimità dell’atto legislativo. In effetti, e al di là della complessa questione riguardante la possibilità di

26 Analogamente v. M. Cecchetti, S. Pajno, Quando una ronda non fa primavera, cit., p. 5.27 La questione relativa la tipo di attività esercitata dagli osservatori volontari ha portato parte della

dottrina a interrogrsi sull’eventuale qualifica da attribuire ai partecipanti, da intendere alternativamente come meri soggetti privati, incaricati di pubblico servizio o esercenti un servizio di pubblica necessità. Sul punto v. T.F. Giupponi, L. 15.7.2009, n. 94 - Art. 3, cit.

28 Così A. Pajno, V. Antonelli, La sicurezza urbana tra editti e ronde, cit., p. 192. Sul punto v. anche T.F. Giupponi, ap. ult. cit., che sottolinea come in ogni caso gli osservatori non potranno mai, in assenza di esplicite disposizioni legislative, procedere all’identificazione dei soggetti coinvolti.

29 Sulla contradictio in adiecto che produrrebbe il concetto di libertà funzionale v. per tutti A. Bal-dassarre, Libertà I (problemi generali), in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989.

30 Il rispetto del principio di legalità sembra essere tra gli aspetti più problematici delle nuove attribuzioni ai sindaci. Per analoghe problematiche concernenti il novellato potere di ordinanza sia consentito il rinvio a C. Caruso, Da Nottingham a La Mancha, cit.

31 Riflettono su una possibile “privatizzazione”del monopolio della forza in senso fortemente cri-tico con l’intervento legislativo, G. Brunelli, L’inquietante vicenda, cit., p. 10; M. Massa, I vigilanti privati cit., A. Pajno, V. Antonelli, La sicurezza urbana tra editti e ronde, cit., p. 204 e ss.

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ricomprendere la funzione di prevenzione e repressione dei reati nelle attività di inte-resse generale ex art. 118.4 Cost., il principio di sussidiarietà orizzontale richiede in prima battuta una valutazione di merito sull’idoneità e sulla adeguatezza del soggetto privato ad esercitare la funzione pubblica e, in secondo luogo, una delimitazione dell’ambito materiale di esercizio dell’attività32: in tal senso, l’intervento in un set-tore politicamente così delicato, nonché l’attribuzione generalizzata alle associazioni dell’attività di osservazione e di segnalazione33, sembra collocare la disciplina legisla-tiva al di fuori dei confini tracciati dal principio costituzionale.

Proprio in relazione ai compiti delle associazioni di volontari, si è visto come la Corte abbia affiancato questi ultimi alle facoltà che il codice di procedura penale attribuisce al singolo cittadino. La scelta delle proprietà rilevanti al fine dell’opera-zione analogica non sembra tuttavia appropriata, realizzando così il rischio il rischio di sovrapporre due ambiti diversi di intervento: in particolare, l’esercizio in forma associata di un potere ordinario di osservazione sembra essere ben diverso dal potere individuale di arresto previsto dall’art. 383 c.p.p. riconosciuto in caso di flagranza34. In tal senso, nonostante l’esplicita esclusione di un potere di intervento in relazione a situazioni legate al disagio sociale, l’accostamento compiuto dalla Corte tra due attività tra loro ben distinte può portare all’allargamento surrettizio delle attribuzioni associative oltre la stessa lettera della legge.

32 In tal senso, v. P. Bonetti, L’allocazione delle funzioni amministrative e le forme di coordinamento per le materie dell’ordine pubblico, della sicurezza e dell’immigrazione nel nuovo art. 118 della Costituzione, in le Regioni, 2002, p. 1121 e ss.

33 Tale attività dovrebbe intesa in senso stretto, non essendo consentito né procedere all’identi-ficazione personale dei soggetti eventualmente coinvolti, né attività di c.d. osservazione attiva, volta all’esercizio di un’attività di accertamento e indagine in relazione specifici beni o luoghi. Sul punto cfr. T.F. Giupponi, op. ult. cit.

34 In senso analogo cfr. A. Pajno, V. Antonelli, ibidem, nonché T.F. Giupponi, op. cit.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Chiara Camposilvan

La recente disciplina ministeriale delle manifestazioni pubbliche nelle aree sensibili dei centri urbani

1. Contenuto e inquadramento

Il contributo che mi propongo di portare alle riflessioni svolte durante questa gior-nata riguarda la direttiva del Ministero dell’interno relativa alle manifestazioni nei centri urbani e nelle aree sensibili adottata il 26 gennaio 20091.

La direttiva in parola merita di essere presa in considerazione in questa sede in quanto sembrerebbe potersi ricondurre, per molti aspetti, alla medesima logica ispi-ratrice della novella all’art. 54 d.lgs. n . 267/2000 (TUEL) e riprodurre alcuni mec-canismi adottati nella formulazione odierna della disposizione citata. Ad evidenziare la matrice comune delle due menzionate discipline starebbe sia il particolare ricorso allo strumento dell’ordinanza sia il richiamo ad una nozione ampia di sicurezza2.

1 Vedi http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/2100_500_ministro/0548_2009_01_26_direttiva_ministro_ai_prefetti.html.

2 A tal riguardo vedi A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, Jovene, Napoli, 2009. In particolare si nota a p. 3 che “La stabilizzazione crescente dello strumento dell’ordinanza nell’ordinamento giuri-dico rappresenta una deriva della funzione normativa degli organi legislativi agli organi amministrativi che pur movendo da condivisibili principi di autonomia e di differenziazione favorisce la creazione di tanti mocro-ordinamenti accomunati più che da un filo logico normativo, dall’urgenza di provvedere ad emergenze o pericoli non adeguatamente affrontati a livello nazionale e perciò irrisolti e strutturali. Tale modifica ha inoltre condotto all’ampliamento della nozione di sicurezza urbana in cui vengono a confluire non soltanto fenomeni di microcriminalità ma anche fenomeni legati al disagio sociale, al decoro ed al degrado urbano”. Come si ricordava la definizione di sicurezza urbana è stata in parte ridefinita dalla sentenza della Corte costituzionale n. 196 del 2009 ma in realtà ancora ne manca una soddisfacente delimitazione. Riguardo a questo tema vedi in particolare i diversi contributi contenuti nel paper “la sicurezza urbana “ redatto dal gruppo di lavoro Astrid, a cura di A. Pajno, 2009, nonché relativamente alle precisazioni effettuate dalla Corte costituzionale in merito alla nozione di “sicurezza urbana”, T.F. Giupponi, Sicurezza urbana” e ordinanze sindacali: un primo (e inevitabilmente parziale) vaglio del Giudice delle leggi, in le Regioni, 2009, p. 1421 ss.; e in generale per un’analisi più approfondi-ta, T.F. Giupponi, Le dimensioni costituzionali della sicurezza, Bologna, 2010.

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La direttiva si pone esplicitamente come obiettivo quello di “intervenire sulla di-sciplina esistente”3 in materia di cortei e manifestazioni, cioè sulla regolamentazione della libertà di riunione, “adeguandola alle nuove esigenze.” In particolare la diret-tiva contiene “l’invito ai prefetti a stabilire regole […] per sottrarre alcune aree alle manifestazioni”. Usando le parole della direttiva medesima, “si evidenzia la necessità di limitare l’accesso ad aree particolarmente sensibili specialmente quando la mani-festazione coinvolga un numero di partecipanti elevato. Tali aree sensibili saranno individuate in zone a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali culturali e religiosi (ad esempio cattedrali, basiliche o altri importanti luoghi di culto) o che sia-no caratterizzate – anche in condizioni normali – da un notevole afflusso di persone, o nelle aree in cui sono collocati obiettivi critici”4.

La direttiva del Ministro dell’interno del 26 gennaio 2009 incide su una mate-ria, se così si può definire, esplicitamente disciplinata a livello costituzionale (art. 17), a livello legislativo (innanzitutto attraverso il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza artt. 18 e ss. del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, TULPS) e ripetutamente interessata da pronunce della Corte costituzionale e di Cassazione volte a precisar-ne i connotati5. La direttiva in analisi ha altresì trovato applicazione per mezzo di ordinanze adottate dai prefetti per la disciplina delle manifestazioni in alcuni centri urbani come ad esempio Venezia6, Asti7, Bologna8, Cagliari9, Pesaro-Urbino10. Come di seguito si esporrà in modo più esteso, tali ordinanze hanno contenuti tra loro abbastanza simili tranne qualche eccezione comunque non particolarmente stridente rispetto al modello generalmente seguito11. È tuttavia da segnalare in modo partico-lare che la disciplina delle riunioni in luogo pubblico, che viene ricavata, come an-

3 Vedi punto 1 della direttiva citata.4 Vedi punto 4 della direttiva citata.5 Per una esauriente analisi al riguardo vedi R. Bin, S. Bartole, Commentario breve alla Costi-

tuzione, 2008; G. Tarli Barbieri, Art. 17, in Comm. Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Torino, 2006, p. 388; A. Pace, Problematica delle libertà Costituzionali, Parte speciale 2. ed. riv. e ampliata; A. Gardino Carli, Riunione (libertà di), in Digesto disc. pubbl., vol. XIII, 1997, p. 488, P. Giocoli Nacci, Libertà di riunione, in Trattato dir. amm., diretto da G. Santaniello, vol. XII, Cedam, Padova, 1990, p. 159 ss.; M. Ruotolo, La libertà di riunione e di associazione, in I diritti costituzionali, a cura di R. Nania, P. Ridola, vol. II, Giappichelli, Torino, 2006, p. 682; B. Pezzini, La tutela e la garanzia dei diritti fondamentali: la libertà di riunione, in Atti del convegno di studi. Brighton, 6, 7 e 8 settembre 2001, in Quad. Dipartim. Scienze giur. di Bergamo, n. 15, 2004, p. 64; P. Caretti, U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2008, p. 481. R. Borrello, Riunione (diritto di), in Enc. dir., vol. XL, 1989, p. 1412 ss.; F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 2003, pp. 712-713.

6 In http://www.prefettura.it/venezia/index.php.7 In http://www.prefettura.it/asti/index.php.8 In http://www.prefettura.it/bologna/index.php.9 In http://www.prefettura.it/cagliari /index.php.10 In http://www.prefettura.it/pesaro urbino /index.php.11 È poi interessante notare come recentemente lo spunto offerto dalla direttiva in questione sia

stato singolarmente colto, pur con notevoli variazioni, anche in una ordinanza sindacale che, impugna-ta, è stata oggetto di una decisione del TAR di Brescia. Nella pronuncia segnalata il TAR svolge alcune considerazioni utili anche ai fini della riflessione sulle ordinanze prefettizie. A tal proposito, vedi R. Bin,

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ticipato, prevalentemente dal Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza pone vari problemi dovuti alla mancata netta chiarificazione di alcune questioni di fondo ed alle interpretazioni talvolta estensive, talvolta invece restrittive che la giurisprudenza e la prassi hanno avvalorato nella concreta applicazione delle relative norme. Si tratta dunque di norme equivoche concepite per un ordinamento superato dalla Costitu-zione, in parte adattato ad essa, ma mai radicalmente riformato e che lascia spazio a soluzioni talvolta aleatorie12.

2. Difformità sostanziali rispetto al disposto costituzionale

Una delle più evidenti particolarità della direttiva sui cortei e le manifestazioni nei centri urbani e nelle aree sensibili deve essere individuata nella completa inversione dei rapporti tra regola ed eccezione rispetto a quanto stabilito nell’articolo 17 Cost. All’interno di quest’ultimo trova infatti piena espressione un principio di favor li-bertatis in base al quale, pur nel dovuto rispetto del libero esercizio delle altre libertà costituzionalmente protette, la libertà di riunione è da ritenersi generalmente ga-rantita, fatte salve le specifiche limitazioni esplicitamente menzionate dal testo della disposizione in analisi. Le condizioni, o limiti, che l’art. 17 Cost. pone alla libertà di riunione in luogo pubblico sono, come noto – oltre alla pacificità dello svolgimento della riunione ed alla assenza di armi – attinenti alla presenza di comprovati motivi di incolumità pubblica e sicurezza.

È da notare in particolare che la norma costituzionale attraverso l’espressione “soltanto13 per comprovati motivi”, secondo l’interpretazione ormai pacificamente

Un plauso al TAR Brescia (e un’invocazione ai Prefetti). Commento a TAR Brescia, sentenza n. 19/2010, apparso on-line su Forum di Quaderni Costituzionali, www.forumcostituzionale.it.

12 Si pensi a titolo esemplificativo a tutta la polemica sulla natura del preavviso, ma soprattutto alla ancora insoluta questione dei motivi che rendono legittimo l’impedimento di una riunione da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. A tal proposito potrebbe essere interessante immaginare quali spazi interpretativi lasci aperta la menzione di motivi di “moralità”. Sul punto vedi A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, in Studi in memoria di Carlo Esposito, vol. IV, Cedam, Padova, 1974, p. 27245 ss., in particolare la nota 25 nella quale, relativamente al tema della persistenza di tali norme seppur spesso non utilizzate, si richiamano Marcuse, Wolff Moore, Critica della tolleranza, là dove questi sottolineano che tale ambiguità “è tipica delle ‘società permissive’”. L’autore nota poi come sia emblematico pensare “anche all’atteggiamento della nostra classe politica pronta a concedere larghe amnistie ai lavoratori incriminati per i fatti dell’autunno caldo ma restia ad abrogare le disposizioni di dubbia costituzionalità in base alle quali erano stati incriminati”.

13 Quanto all’interpretazione dell’espressione “soltanto” nell’interpretazione della giurisprudenza costituzionale vedi la equivoca pronuncia n. 54 del 1961 come esempio di una logica argomentativa di tipo chiaramente restrittivo della libertà garantita, che si spinge anche contro ad una lettura di tipo letterale della disposizione costituzionale e segue la strada, peraltro già battuta da altre pronunce della corte, secondo cui in caso di contrasto tra la libertà di riunione con altre libertà costituzionalmente protette, data l’“assenza, nel testo costituzionale di indicazioni circa priorità o eventuali graduazioni gerarchiche, si rende impossibile stabilire a priori quale delle due situazioni debba cedere in caso di impossibilità di coesistenza rispetto all’altra”. R. Borrello, Riunione (diritto di), in Enc. dir., vol. XL, 1989, p. 1420 ss. Al riguardo vedi anche G. Tarli Barbieri, Art. 17, in Comm. Cost., a cura di R. Bi-fulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Torino, 2006, p. 399 il quale rileva però anche che la sentenza

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condivisa, si riferisce a casi concreti specificamente individuati, rispetto ai quali possa configurarsi un motivo appunto “comprovato” per ritenere che una ben determinata riunione possa recare pericolo al bene della sicurezza. La Costituzione permette sin-goli e puntuali interventi di divieto in casi determinati per i quali risulti probabile, in base ad elementi concreti, il rischio per la sicurezza e incolumità pubblica. Sembre-rebbe dunque essere molto circoscritta l’ipotesi in cui alla pubblica autorità è permes-so di porre in essere, sulla base di valutazioni svolte ex ante, misure restrittive della libertà di riunirsi. La direttiva sembra invece suggerire un sistema di limiti differente da quello desumibile dal testo costituzionale. Ben diverso da quanto sopra esposto è infatti affermare che in generale l’attività di riunirsi è di regola vietata perché con-siderata in se stessa pericolosa, e che solo in determinati casi, per altro discrezional-mente individuati dall’autorità di pubblica sicurezza, essa potrebbe eventualmente considerarsi un’attività permessa.

A ben vedere dunque il rapporto tra regola ed eccezione che scaturisce dalla lettu-ra delle due fonti, la Costituzione da una parte, la direttiva del Ministro dell’interno dall’altra, è completamente rovesciato. L’articolo 17 Cost. afferma che di regola le riunioni sono libere fatti salvi i casi in cui ricorrano comprovati motivi di incolumità pubblica o sicurezza. Al contrario, la direttiva del Ministero dell’interno invita i pre-fetti a stabilire regole per sottrarre stabilmente determinate aree alle manifestazioni ed ai cortei fatti salvi casi specifici di volta in volta autorizzati.

Perché la direttiva e le relative ordinanze di attuazione possano essere considerate in linea con il dettato costituzionale bisognerebbe poter ricondurre a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica” tutte le motivazioni che i provvedimenti in analisi pongono a giustificazione della sottrazione di determinate aree ai cortei. Tale ricostruzione non è però sempre agevole poiché, come prima si è anticipato, la qualificazione di una zona come area sensibile consegue anche solo alla particolare connotazione simbolica della zona per motivi sociali, culturali o religiosi.

Non a caso, nell’ultimo ventennio il dibattito sulla presenza di simboli, in par-ticolare di quelli religiosi, nello spazio pubblico ha assunto un’importanza sempre

della Corte costituzionale n. 54 del 1961 riflette una visione ormai superata con riferimento alla pos-sibilità di vietare preventivamente o sciogliere riunioni sulla base della semplice mancanza di preavviso (a tal riguardo si richiamano infatti anche le successive sentenze n. 90 del 1970 e n. 11 del 1979. In conclusione dunque, nonostante la Cassazione abbia affermato che “l’esercizio dei diritti di riunione e di manifestazione del pensiero cessa di essere legittimo quando travalica nella lesione di di altri diritti costituzionalmente protetti”(vedi Cass. Pen. Sez. VI n. 1600/2000 e in senso conforme anche Cass. Pen. Sez. I, 11.4.1994), e altrettanto, già nella sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1956, sia stato affermato che l’esercizio privo di regole di una libertà può costituire una violazione di altre libertà e pertanto ogni libertà può essere limitata “in modo che l’attività di un individuo rivolta al perseguimento dei propri fini si concili con il perseguimento dei fini degli altri”, non si può certo ignorare, secondo l’opinione di chi scrive, che la stessa formulazione testuale dell’art. 17 Cost. lasci trasparire l’intento di conferire un minimo di tassatività alle restrizioni potenzialmente applicabili alla libertà di riunione. Tali ultime considerazioni paiono a maggior ragione condivisibili se si pone attenzione al fatto che le nozioni di sicurezza e incolumità pubblica poste a fondamento di eventuali restrizioni alla libertà di riunione in luogo pubblico sono di per sé piuttosto ampie e suscettibili di interpretazioni abbastanza differenti.

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crescente e ha conosciuto toni sempre più accesi. Proprio perché l’apposizione di un simbolo all’interno di uno spazio sembra equivalere ad appropriarsi di un territorio, altrettanto adoperarsi per conservare la presenza di quello stesso simbolo, equivale a lottare per confermare il mantenimento della sua “supremazia” in quello spazio a scapito di altri concorrenti. È stato, in questo senso, notato “quanto l’ossessione per le origini, per le radici, la proposta in termini vincolanti di simboli di riconoscimento della propria identità, denota la volontà di privilegiare alcuni elementi – culturali religiosi, linguistici – a scapito di altri”14. Come risulta evidente già da un primo sguardo sull’evoluzione della querelle italiana sull’esposizione di simboli religiosi nel-lo spazio pubblico, tutta l’insistenza e tutto il clamore sollevato attorno a tali vicende, lascia intuire una diffusa condizione di ipersensibilità rispetto al tema dell’identità e dei suoi segni distintivi in particolare legati al fenomeno religioso ma non solo. È infatti accaduto ripetutamente che alcune condotte di per sé non illecite ma ricon-ducibili ad uno stile di vita non aderente con quello tradizionale e tendenzialmente coincidenti invece con le abitudini di soggetti portatori di identità differenti, fossero poste alla base della creazione di fattispecie spesso indirettamente discriminatorie. In tal modo sono state introdotte misure restrittive non direttamente rivolte a differen-ziare il trattamento riservato allo straniero, ma comunque configurate in modo tale da individuare precisamente il destinatario della misura attraverso la stigmatizzazione di comportamenti suoi tipici15.

Senza voler eccessivamente allargare il campo dei fenomeni oggetto di riflessione resta opportuno considerare che questo è il clima all’interno del quale va ad inserirsi il disposto della direttiva del Ministro dell’interno del 26 gennaio 2009 relativa alle manifestazioni ed ai cortei nelle aree sensibili dei centri urbani.

Tale direttiva, di seguito analizzata con maggiore puntualità, merita di essere pre-sa in considerazione poiché qui la tutela del simbolo viene estesa e riproposta come tutela di uno spazio, degno di una disciplina particolare in quanto luogo simbolico. Ma non è tutto qui, il luogo “a forte caratterizzazione simbolica“ è la species di un genus più ampio, quello delle aree sensibili. Si realizza, tramite la direttiva in esame, una complessa sovrapposizione tra le nozioni di “simbolico”, “sensibile” e “perico-loso” attraverso un miscuglio di concetti piuttosto intricato volto comunque a far prevalere il bene del rispetto dei simboli e di una certa nozione di sicurezza, su di una libertà costituzionalmente protetta come quella di riunirsi pacificamente.

Più precisamente, oggetto di dubbio è il riferimento effettuato dal provvedimento in questione al carattere simbolico di alcuni luoghi. Tale connotazione, che viene posta dalla direttiva a fondamento del divieto di utilizzare alcune aree per le manife-

14 N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose: un percorso costituzionale, 2006, p. 76. A tal riguardo anche Aime, Eccessi di culture, 2004, p. 43.

15 Vedi ancora a tal riguardo A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, cit., p. 257 e ss. che parlano anche di misure volte in certo qual modo ad una sorta di “moralizzazione” dell’individuo. A tal proposito vedi anche F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati: il diritto penale nelle società multiculturali, 2010, p. 30 e ss.

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stazioni, ha dei tratti di profonda ambiguità. Ci si chiede, dunque, se far discendere dalla forte caratterizzazione simbolica dei luoghi il divieto di riunirsi rappresenti una piana attuazione del dettato costituzionale o se al contrario ne costituisca un travisa-mento. Restano aperti pertanto vari interrogativi. Ci si chiede ad esempio se riunirsi nei cosiddetti luoghi sensibili sia davvero sempre un rischio per la sicurezza e in caso di risposta positiva sorge il dubbio relativo a quale sia il genere e il contenuto della nozione di sicurezza cui si fa riferimento.

Tenendo presente che l’art. 17 Cost. richiede come condizione del divieto pre-ventivo di riunioni in luogo pubblico la sussistenza di motivi comprovati ricondu-cibili soltanto16 alla sicurezza e all’incolumità pubblica, il carattere simbolico dei luoghi è idoneo a determinare sempre, o comunque di norma, il divieto preventivo delle riunioni in quella zona? C’è il rischio che una tale previsione protegga beni giuridici diversi da quelli che il Costituente ha inteso identificare come gli unici in grado di giustificare una compressione della libertà di riunione? In altre parole, tramite il divieto generalizzato17 di tutte le riunioni destinate a tenersi in luoghi a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali culturali e religiosi e prescindendo dall’accertamento caso per caso dei comprovati motivi cui fa riferimento la Costitu-zione, stiamo tutelando la sicurezza e l’incolumità pubblica o qualcosa di diverso? Ci si chiede poi, alla luce di alcune ordinanze adottate in applicazione della direttiva, se si debba dedurre che esistono statuti diversi per l’esercizio della libertà di riunione a seconda che i fini e i contenuti di questa si pongano o meno in contrasto con il valore simbolico del luogo in cui si svolge la riunione.

Come si è accennato è poi opportuno porre attenzione all’ambiguità del riferi-mento alla forte caratterizzazione simbolica dei luoghi come criterio per stabilire la legittimità o meno di una eventuale riunione che in quella zona intenda svolgersi. L’adozione di un tale criterio discretivo svincolato, a quanto parrebbe, dall’accer-tamento volta per volta dell’idoneità in concreto della singola riunione a ledere la sicurezza e l’incolumità pubblica, lascia infatti supporre che l’oggetto di tutela sia qualcosa di diverso o comunque di ulteriore, rispetto ai beni giuridici menzionati dall’articolo 17 Cost., per quanto estensivamente possa essere interpretato il con-cetto di sicurezza pubblica. Sembrerebbe, da una lettura della direttiva e delle varie ordinanze prefettizie che le danno attuazione, che la valutazione circa la pericolosità della riunione, non debba necessariamente essere accertata in concreto, ma possa

16 Quanto all’interpretazione della nozione di soltanto nell’interpretazione della giurisprudenza cos-tituzionale vedi la ormai superata pronuncia n. 54 del 1961 come esempio di una logica argomentativa di tipo chiaramente restrittivo della libertà garantita, che si spinge anche contro ad una lettura di tipo letterale della disposizione costituzionale.

17 Nel corso della storia repubblicana si sono già in realtà verificati casi in cui, tramite ordinanze dei prefetti si procedeva di fatto a sostanziali sospensioni della libertà di riunirsi in determinati luoghi. Tali provvedimenti vengono rammentati in termini fortemente dubitativi da B. Pezzini, La tutela e la garanzia dei diritti fondamentali: la libertà di riunione, in Atti del convegno di studi, Brighton, 6, 7 e 8 settembre 2001, in Quad. Dipartim. Scienze giur. di Bergamo, n. 15, 2004, p. 64; e da A. Barbera, F. Cocozza, G. Corso, Le libertà dei singoli e delle formazioni sociali, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato, A. Barbera, vol. I, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 292.

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essere presunta sulla base del semplice fatto che la riunione debba svolgersi in luoghi caratterizzati da un considerevole afflusso di persone o connotati da una forte carat-terizzazione simbolica per motivi sociali, culturali o religiosi. Ciò induce a ritenere che l’intenzione sottesa alla disciplina in questione sia quella di proteggere un bene di natura essenzialmente ideale.

Tale sospetto viene poi avvalorato dalla lettura di alcune delle ordinanze prefetti-zie che hanno attuato la direttiva nelle quali si prevede che i luoghi a forte caratteriz-zazione simbolica di volta in volta individuati, sono sottratti alle manifestazioni ed ai cortei fatta eccezione “per le tradizionali cerimonie e ricorrenze a carattere storico religioso e commemorativo e per le iniziative soggette alla disciplina in materia di propaganda elettorale”. La libertà di riunirsi nei luoghi simbolici è dunque accorda-ta solamente per le suddette “tradizionali cerimonie e ricorrenze a carattere storico religioso e commemorativo e per le iniziative soggette alla disciplina in materia di propaganda elettorale”.

Sulla base di queste ordinanze viene dunque a determinarsi uno statuto differen-ziato della libertà di riunione a seconda che le riunioni rappresentino l’espressione di una cultura classificabile come tradizionale o meno.

È chiaro che lo stress culturale18 cui è soggetta la società attuale, sempre più di-somogenea e sempre più multiculturale, rende più probabile che le manifestazioni in luoghi dotati di un particolare valore simbolico per alcune parti della società, quando tali riunioni non siano espressione del culto o della cultura tradizionale che quei determinati luoghi simbolici rappresentano, possano determinare degli attriti. Tuttavia una presunzione di pericolosità così netta, posta in capo a tutte le riunioni che non rappresentino “tradizionali cerimonie e ricorrenze a carattere storico religio-so e commemorativo o iniziative soggette alla disciplina in materia di propaganda elettorale”19, e tale da determinarne il conseguente divieto sembra implicare un sa-crificio della libertà di riunione superiore a quello consentito dall’art. 17 Cost. La li-bertà di riunione verrebbe ad assumere confini diversi a seconda della riconducibilità del ritrovo a fenomeni appartenenti o meno alla tradizione. Si determinerebbe una sorta di regressione nella tutela della libertà di riunione quando essa venga esercitata in alcuni luoghi nevralgici della città.

È stato peraltro notato da autorevole dottrina “che in Italia, a differenza di altri paesi non è previsto un divieto di riunione nei pressi delle sedi parlamentari o di uffi-ci giudiziari […]. È da rilevare infatti che la semplice dimostrazione davanti alle sedi parlamentari o giudiziarie non può essere di per sé pericolosa se non intervengono

18 Vedi a tal proposito il riferimento di Mazzola, Libertà di culto e sicurezza urbana nella direttiva del ministro dell’interno per le manifestazioni nei contri urbani e nelle aree sensibili, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, II, 2009, p. 410.

19 Vedi ad esempio i casi delle ordinanze adottate dai prefetti di Bologna e Venezia, A tal riguardo, in generale vedi poi anche Troilo, La libertà di riunione ai tempi della “direttiva Maroni”, nella rivista on-line Forum di Quaderni costituzionali, www.forumcostituzionale.it inoltre R. Bin, Balilla al potere?, in www.forumcostituzionale.it, e ancora su un fenomeno analogo R. Bin, Un plauso al TAR Brescia (e un’invocazione ai Prefetti), cit.

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attentati (o comprovata probabilità di essi) alla sicurezza o all’incolumità. Né può es-sere invocata la serenità dei parlamentari e dei giudici: unici limiti costituzionalmen-te legittimi sono quelli indicati”20. Ed altresì che “nessun organo in linea di principio può invocare una sorta di diritto all’immunità dalle sollecitazioni espresse dal corpo sociale; sostenere che il governo o il parlamento debbano essere liberi di determinarsi al di fuori di pressioni esterne […] risponderebbe forse alla concezione formalistica della rappresentanza politica propria dello stato liberale, ma contrasterebbe – oltre che con la realtà – che dimostra come gli organi di indirizzo politico, lungi dal de-cidere in una sorta di asettico distacco, sono sollecitati da una serie di impulsi pro-venienti nelle più diverse forme dalla società – con lo spirito della Costituzione”21.

Anche poi a voler sostenere che sottrarre determinate aree alla libertà di manife-stazione non equivale a realizzare una sospensione di quest’ultima, il semplice acco-stamento delle due disposizioni (l’art. 17 Cost. e il punto 4 della direttiva in parola) è sufficiente a rendere palese quanto le due statuizioni siano distanti tra loro22.

Volendo mantenere una lettura conforme al dettato costituzionale bisognerebbe poter ritenere che sarebbe, pericolosa di per sé ogni riunione che si svolga in “aree sensibili” e cioè in “zone a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali cultu-rali e religiosi (ad esempio cattedrali, basiliche o altri importanti luoghi di culto) o che siano caratterizzate – anche in condizioni normali – da un notevole afflusso di persone, o nelle aree in cui sono collocati obiettivi critici”.

Senza voler qui ancora affrontare la tematica relativa ai criteri in base ai quali alcune aree sono da considerarsi sensibili, già l’invito a sottrarre alle riunioni i luoghi che, anche in condizioni normali, solitamente sono caratterizzati da grande afflusso di persone, lascia molto perplessi quanto alla conservazione di quel minimo di ga-ranzia del diritto che andrebbe comunque mantenuto anche all’interno di un giusto bilanciamento con altri beni egualmente protetti ma configgenti.

Si deve rilevare tra l’altro che, come osservato da parte della dottrina, il potere di impedire riunioni non può mai essere esercitato al solo fine di porre limiti alla libertà di riunione. In altri termini il potere di divieto o di scioglimento di un corteo o di una riunione “può essere riconosciuto legittimo solo ove venga reso direttamen-

20 Vedi A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, in cit., p. 2723 ss.21 Vedi V. Onida, Lo sciopero politico è un diritto: sindacati, sciopero e azione politica nel sistemacosti-

tuzionale, in Relazioni sociali, 1970, fasc. 4-5, pp. 3-37.22 È effettivamente da rilevare che il confine tra sospensione e sottrazione di un’area alle manife-

stazioni è labile. Non sono per altro mancati nel corso della storia italiana occasioni, in cui sono state poste in essere sospensioni, pur temporalmente limitate di detta libertà. A tal proposito vedi S. Troilo, La libertà di “riunione” al tempo della “direttiva Maroni”, cit. Vi sono stati, comunque, alcuni prece-denti, come la circolare del ministro dell’Interno Scelba del 18 marzo 1950, che autorizzava i Prefetti a disporre divieti di riunioni e cortei per i successivi tre mesi; quella del Ministro dell’Interno Cossiga del 29 maggio 1976, che invitava i Prefetti a valutare l’opportunità di vietare ex art. 2 TULPS i comizi elet-torali del MSI-DN; le ordinanze del Prefetto di Roma del 13 marzo e del 22 aprile 1977, che vietavano nella provincia, rispettivamente per 15 e per 40 giorni, tutte le manifestazioni pubbliche a seguito di alcuni episodi di guerriglia urbana. Al riguardo vedi anche G. Tarli Barbieri, Art. 17, in Comm. Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Torino, 2006, p. 396.

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te funzionale alla tutela di altri interessi rilevanti sul piano costituzionale”23. Alla stregua di tali considerazioni appare discutibile statuire che in determinati luoghi definiti come sensibili (o per meglio dire visibili) ogni riunione si vietata di per sé a prescindere da qualsiasi accertamento che di volta in volta specificamente valuti se la riunione per comprovati motivi possa essere ritenuta in grado di attentare alla sicu-rezza ed all’incolumità pubblica e senza che della sussistenza di tali eventuali motivi debba essere dato conto in alcuno specifico provvedimento. La riunione in alcuni luoghi viene semplicemente presunta come pericolosa e dunque vietata a priori.

Viene in questo modo a crearsi un assetto che non sembra pienamente in linea con il disposto costituzionale in materia di libertà di riunione, di libertà di manife-stazione del pensiero e con il principio pluralista.

Sembra infatti, prendendo in considerazione globalmente la categoria delle aree sensibili, che alla libertà di manifestare si intenda negare un elemento che è coes-senziale alla stessa attività di riunirsi per manifestare. Tale fondamentale elemento è costituito dalla visibilità della manifestazione, dalla possibilità di sensibilizzazione e di attrazione della attenzione della pubblica opinione. Permettere di manifestare so-lamente in luoghi dove non si è uditi da nessuno è un modo surrettizio di cancellare una libertà che invece è garantita dalla Costituzione.

Dando un’occhiata alle ordinanze dei prefetti che hanno dato attuazione alla di-rettiva di cui si è parlato è facile notare come tendenzialmente i divieti di svolgere manifestazioni e cortei riguardino le zone centrali dei centri cittadini, gli snodi stra-dali di fondamentale importanza per il traffico urbano, le zone antistanti monumenti e luoghi di culto.

Dietro ad una siffatta individuazione dei luoghi in cui è, in linea di massima, esclusa la libertà di riunione sembra di poter individuare, oltre alla sopra menzionata inversione tra regola ed eccezione, anche un cambiamento dei diritti e dei valori che vengono opposti e bilanciati con la libertà di riunione e corteo. Per intendersi, non è il fatto che la tutela della libertà di riunione debba essere contemperata con altri diritti a costituire una novità ma è la tipologia degli interessi che vengono ritenuti meritevoli di esserle opposti e dunque di ridurre gli spazi della libertà di riunirsi e di manifestare a costituire un elemento da sottolineare.

Una particolare attenzione è poi dedicata dalla direttiva ai problemi che cortei e manifestazioni possono recare alla viabilità cittadina. Nonostante il rapporto tra libertà di circolazione e libertà di riunione abbia da tempo impegnato la dottrina e, recentemente, anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione24 eu-ropea, il risultato del loro contemperamento non è mai stato dato per scontato25. Probabilmente anche perché, come spesso è stato riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la libertà di riunione, oltre a costituire un valore in se stessa, rappre-

23 A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit., p. 2748 ss.24 Sentenza GUCE nella causa C 112/00, Eugen Schmidberger, Internationale Transporte und Plan-

züge del 12 giugno 2003.25 Vedi anche in proposito N. Zanon, Il diritto alla mobilità e le sue declinazioni, in www.move-

forum.net (Atti del convegno di Venezia, 29 settembre 2005, “mo.ve 2005”).

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senta uno dei fondamentali strumenti di attuazione della libertà di espressione e di conseguenza anche uno dei fondamenti della democrazia. Nonostante nella direttiva si affermi effettivamente che la libertà di riunione è un diritto costituzionalmente ga-rantito e come tale va preservato e assicurato, la direttiva stessa sembra aprire la strada ad una varietà di limitazioni che trovano la loro origine in una nozione di sicurezza molto lata e forse in parte non coincidente con quella prefigurata dal Costituente che nettamente intendeva prendere le distanze dalla categoria dell’ordine pubblico in particolare nella sua accezione ideale.

Si percepiva chiaramente, da parte della dottrina, in passato, la forte valenza attribuita alla libertà di riunione rispetto ad altri diritti. Secondo tale prospettiva non andrebbe accolta “l’opinione per la quale il diritto di corteo dovrebbe essere limitato al fine di evitare congestioni al traffico cittadino poiché tale tesi non trova fondamento né sul piano politico né sul piano giuridico. Sul piano politico non si riesce a vedere perché debba essere più meritevole di tutela l’interesse del cittadino a spostarsi agevolmente con il proprio mezzo da un punto all’altro della città rispetto all’interesse degli altri cittadini a manifestare pacificamente per le vie cittadine. […] Come è stato sostenuto, soprattutto nella dottrina tedesca, esiste una gerarchia delle libertà: non potendo tutte le libertà stare sullo stesso piano, […] sul gradino più alto sta la libertà di poter proclamare difendere, diffondere le proprie opinioni e di poter discutere le altre”26.

Bisogna necessariamente ricordare, per comprendere al meglio la posizione ed il valore della libertà di riunione all’interno di una eventuale gerarchia delle libertà costituzionali, che la libertà di riunione si distingue dalla libertà di manifestazione del pensiero in modo spesso lieve, anzi è stata utilizzata di frequente come strumento per la libertà di espressione. Tale forte legame induce a pensare che la libertà di riu-nione andrebbe, pur tenendo a mente le sue proprie peculiarità, circondata di tutele che diano rilievo alla stretta connessione con la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero. È stato notato che, storicamente, i fondamentali momenti di emersione della libertà di riunione (in particolare delle riunioni di carattere politico) hanno coinciso con situazioni “di inceppo o di soppressione dei consueti canali di partecipazione”27.

A questo punto sembra opportuno richiamare l’attenzione sulla grande impor-tanza ai fini della partecipazione che manifestazioni e cortei hanno saputo ricoprire “dando voce alle rivendicazioni di parti della società ordinariamente prive di un pro-prio reale canale di espressione in grado di raggiungere un’ampia platea di ascoltatori. In momenti in cui l’accentramento di potere ottenuto con i mezzi di comunicazione di massa ha comportato una perdita di potere dei gruppi e delle società intermedie e un decadimento sostanziale del pluralismo”28. Sembra fondamentale ricordare il disposto costituzionale dell’art. 3 secondo il quale “è compito della Repubblica ri-

26 A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit., p. 2723 ss.27 Ibidem.28 Vedi Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, 1963, p. 599.

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muovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della perdona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del paese”29.

Cortei e manifestazioni si sono spesso prestati ad essere lo strumento capace di raccogliere ed esprimere dissenso, insofferenze e “tensioni sociali spesso ignorate o taciute da mass media ormai mercificati ed alla ricerca del sensazionale30 che lasciano ormai ben poco spazio ai tradizionali mezzi di espressione e comunicazione”31. […]. In questo senso cortei e manifestazioni non rappresentano oggi altro che forme ati-piche del diritto di manifestare il proprio pensiero e di con ogni mezzo di diffusione (art. 21 Cost.). È significativo notare come già in alcuni scritti risalenti ad una qua-rantina di anni fa, si mettesse in luce l’attualissima circostanza per cui dimostrazioni e manifestazioni non costituiscono altro che una reazione alla crisi di rappresentatività in cui versano i tradizionali strumenti di rappresentanza politica (in particolar modo i partiti politici). Dimostrazioni e cortei – è stato osservato – sostituiscono ormai il diritto alla petizione “ridotto ad un relitto storico ma che ancora la Costituzione pone in particolare risalto quale mezzo per richiamare l’attenzione dei pubblici poteri, per chiedere provvedimenti legislativi o per esporre comuni necessità”32.

Ora è chiaro che lo spirito della direttiva del Ministro dell’interno cui ci stiamo riferendo, a partire dalla valorizzazione delle esigenze della viabilità rispetto a quella di riunirsi e manifestare, rende evidente un significativo scostamento rispetto agli equi-libri precedentemente esposti. L’esercizio della libertà di manifestare già nel punto 1 viene dipinto come una pretesa di gruppi di individui che con il loro comportamento minacciano la altrui libertà di circolare, di lavorare e studiare. La manifestazione e il corteo sono percepiti prevalentemente come un intralcio all’esercizio di altri diritti che si intende proteggere con maggior vigore dando concretezza ad un ripensamento della gerarchia delle libertà costituzionalmente garantite. La libertà di manifestare, di fatto, nonostante varie premesse in senso contrario, viene trattata principalmente come un problema di traffico, di disturbo o interruzione dello shopping e del passeggio33.

29 Impressiona ancora la profetica modernità con cui nel 1971 si scriveva che “poiché di fatto è limi-tata la libertà di manifestazione del pensiero e l’effettiva partecipazione di coloro i quali non detengono in maniera diretta o indiretta il controllo o del lobby politico o dei mass media, è proprio per riequili-brare il sistema delle libertà che deve essere garantita la libertà di corteo e di dimostrazione; libertà che per taluni gruppi rappresenta l’unico effettivo modo di esprimersi e di incidere sulle scelte politiche”, A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit., p. 2723 ss.

30 Vedi a tal proposito Marcuse, L’uomo ad una dimensione, Torino, 1967; citato alla nota 6 da A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit., p. 2723 ss. “È mai possibile tracciare una vera distinzione tra mezzi di comunicazione di massa come strumento di informazione e divertimento e come agenti di manipolazione di indottrinamento?”.

31 A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit.32 Ibidem.33 A tal riguardo vedi Troilo, La libertà di “riunione” al tempo della “direttiva Maroni” cit. Così, si

consideri che il Ministro Maroni, nell’anticipare ai mass media la notizia della imminente emanazione della direttiva, ha citato, tra i luoghi da sottrarre alle manifestazioni, anche i centri commerciali e i

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A prescindere da tali considerazioni relative ad un ipotetico nuovo modo di con-temperare il diritto di corteo con la libertà di circolazione, di studio e di lavoro, è poi opportuno valutare l’invito a sottrarre le aree sensibili, definite come “zone a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali culturali e religiosi (ad esempio catte-drali, basiliche o altri importanti luoghi di culto) o che siano caratterizzate – anche in condizioni normali – da un notevole afflusso di persone” e di riflettere sulla compati-bilità dell’adozione di una tale misura con il disegno predisposto dalla Costituzione.

Allo scopo di ricondurre tale invito all’interno del sistema un divieto preventivo di riunirsi sarebbe necessario poter ritenere che la riunione in considerazione possa ragionevolmente essere ritenuta idonea in concreto a mettere a repentaglio l’incolu-mità o la sicurezza pubblica.

A parte i ragionamenti sull’idoneità in concreto a minacciare i beni in gioco, è anche necessario chiedersi se e quale concetto di sicurezza chiamino in causa le carat-teristiche che qualificano un luogo come area sensibile e lo sottraggono tendenzial-mente alla possibilità di essere utilizzato per eventuali manifestazioni.

Ciò che rende un’area sensibile, e in quanto tale, di per sé sottratta a qualunque manifestazione, allo scopo di tutelare la sicurezza, è “la forte caratterizzazione sim-bolica per motivi sociali culturali e religiosi”. Ciò significa ritenere pericolosa per la sicurezza pubblica qualsiasi riunione che, fatti salvi casi specifici, si svolga in luoghi “a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali culturali e religiosi”. Un divieto preventivo di questo genere induce se non altro a chiedersi di che tipo di sicurezza stiamo parlando, e come essa possa essere definita dal momento che si tratta di una entità che può essere lesa dal semplice manifestare, non ulteriormente qualificato, in un luogo “a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali culturali e religiosi”.

Appare peraltro evidente che la buona riuscita di una manifestazione può esse-re condizionata in modo consistente da prescrizioni relative al luogo o al modo di svolgere la riunione stessa. In particolare si è osservato che l’imposizione di percorsi differenti è in grado di condizionare in modo estremamente intenso il risultato della dimostrazione specialmente quando il luogo prescelto dai manifestanti sia connesso con lo scopo della riunione34.

A ben vedere, il potere di modificare il percorso di una dimostrazione non è una novità assoluta nel nostro ordinamento essendo questo già previsto dall’art. 18 comma 4 del TULPS; tuttavia si è precisato che una misura di tal genere può essere adottata in singoli casi, allo scopo di garantire la sicurezza e l’incolumità pubblica e soprattutto si è sottolineato che provvedimenti volti a mutare l’itinerario di una manifestazione o il luogo di svolgimento di una riunione debbono essere concepiti come frutto di una collaborazione tra manifestanti ed autorità di pubblica sicurezza allo scopo di evitare il divieto assoluto della riunione e dunque il totale sacrificio

supermercati (di nuovo da intendersi, evidentemente, come gli spazi esterni ed attigui ad essi). Si può affermare che oggi in Italia tali luoghi hanno acquisito un forte valore simbolico? E che, perciò, devono essere protetti maggiormente (poiché dalla sottrazione alle manifestazioni discende, di fatto, una tutela rafforzata) rispetto agli altri esercizi commerciali?” e ancora Cfr. R. Bin, Balilla al potere?, in cit.

34 A. Barbera, Principi costituzionali e libertà di corteo, cit.

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della relativa libertà. Con ciò si esclude che una lettura costituzionalmente compati-bile dell’art. 18 TULPS renda possibile che l’autorità di pubblica sicurezza imponga unilateralmente condizioni e modalità di svolgimento35. Come ricordato, poi tale potere deve sempre essere esercitato in modo proporzionato all’entità degli interessi, necessariamente costituzionalmente rilevanti, che vengono messi in gioco e non può mai essere usato al solo scopo di porre limiti alla libertà di riunirsi in particolar modo quando la scelta del luogo è connessa con lo scopo della dimostrazione.

La possibilità di individuare percorsi alternativi per le dimostrazioni è dunque già presente nell’ordinamento. La direttiva in analisi ne costituisce una versione molto più restrittiva e faticosamente riconducibile alla disciplina costituzionale. L’elemento di rottura è dato dunque, a ben vedere, non tanto dall’introduzione di poteri radical-mente nuovi, ma dall’invito rivolto a prefetti e questori ad utilizzare i poteri già esi-stenti secondo indirizzi che talvolta si discostano dal dettato costituzionale in materia di libertà di riunione. Seppure con riferimento a luoghi determinati, si deve osservare che l’esercizio della libertà di riunione passa dall’essere di norma legittimo e favorito all’essere di norma vietato. È poi labile, se non quasi inesistente, il confine che separa il concetto di divieto di riunirsi da quello di sottrazione di un luogo alle riunioni.

Un’ultima ma non meno importante questione riguarda poi la previsione con-tenuta nel punto 4 della direttiva in analisi che impone di “prevedere, (tramite le ordinanze) ove necessario, forme di garanzia per gli eventuali danni”. Tale disposizio-ne tende sostanzialmente a subordinare l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito alla prestazione di garanzie di carattere economico, ipotesi che già la Corte costituzionale ha avuto modo di valutare negativamente, seppure con le debite diffe-renze dovute alla diversità del caso di specie, con la sentenza n. 67 del 1960.

3. Contrasto con il sistema delle fonti delineato dalla Costituzione

Una volta analizzati i profili di contrasto sostanziali con il disposto costituzionale, merita di essere brevemente presa in considerazione anche la questione della possibi-lità di inquadrare la direttiva e le ordinanze che ne discendono, nel complessivo siste-ma delle fonti. Tralasciando per ora la definizione, le caratteristiche e la vincoltività della direttiva, può essere interessante svolgere qualche osservazione in relazione alle ordinanze prefettizie attuative della direttiva del Ministero degli interni.

Prima di tutto, nell’approcciarsi a tale argomento, potrebbe essere utile, come an-ticipato nel primo paragrafo di questo scritto, osservare preliminarmente la crescente tendenza all’utilizzo dell’ordinanza36 come strumento per regolare, anche ordinaria-mente e stabilmente, situazioni giuridiche al di fuori dei casi di urgenza e necessi-tà. Questo fenomeno trova piena rappresentazione nella attribuzione ai sindaci del

35 Ibidem.36 Al riguardo vedi: F. Bartolomei, Ordinanza (dir. amm.), in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Mi-

lano, 1980, vol. XXX, 1970 ss.; A. Origone, Ordinanza (diritto costituzionale), in Nuovo Digesto Italia-no, 1939, vol. IX, 296 ss.; G.U. Rescigno, Ordinanza e provvedimenti di necessità e d’urgenza, in Noviss. Dig. It., 1965, vol. XII, 92; F. Caringella, Manuale di Diritto Amministrativo, Giuffrè, Milano, 2008.

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potere di adottare ordinanze, anche di carattere non contingibile ed urgente a tutela di esigenze di tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza urbana. Sulla base del novellato articolo 54 TUEL risulta dunque notevolmente accresciuto il potere dei sindaci di fare uso di tale strumento. Ora il caso delle ordinanze prefettizie di attuazione della direttiva del 26 gennaio 2009 presenta indubbiamente caratteri di estrema diversità rispetto a quello delle ordinanze sindacali, ma pare poter essere inserito all’interno di un fenomeno più ampio che raccoglie entrambi i casi in con-siderazione. È infatti abbastanza facile notare, come osservato anche da altri, che la “crescente stabilizzazione dello strumento dell’ordinanza nell’ordinamento giuridico rappresenta una deriva della funzione normativa, dagli organi legislativi agli apparati amministrativi che pur muovendo da condivisibili principi di autonomia e diffe-renziazione finisce col creare tanti ‘microordinamenti’ accomunati dal filo logico-normativo dall’urgenza di provvedere ad emergenze o pericoli non adeguatamente affrontati a livello nazionale e perciò irrisolti e strutturali”37.

Data questa tendenza ad affidare alle determinazioni dei poteri locali decisioni che forse troverebbero una risposta più razionale se affrontate a mezzo di politiche nazionali, bisogna osservare che, per quanto concerne le ordinanze prefettizie, il di-scorso si deve articolare in modo in parte diverso. La base legale delle ordinanze in questione va individuata, ai sensi della direttiva stessa, nell’art. 13 della legge n. 121 del 1981 in base al quale “il prefetto ha la responsabilità generale dell’ordine e della sicurezza pubblica nella provincia e sovraintende all’attuazione delle direttive emanate in materia. Assicura unità di indirizzo e coordinamento dei compiti e delle attività degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza nella provincia, promuovendo le misure occorrenti”. A parte la genericità di tale fondamento, scarsamente idoneo a determinare il contenuto dei provvedimenti da esso discendenti è opportuno fare chiarezza sulla tipologia di ordinanze che scaturiscono dalla direttiva in esame al fine di capire se tali ordinanze possano essere considerate rispettose della gerarchia delle fonti del diritto. Preliminarmente va notato che fondamentalmente nel nostro ordi-namento possono ravvisarsi due tipi di ordinanza: quelle di natura sostanzialmente regolamentare (che attuano o puntualizzano una disciplina di natura legislativa, ed hanno un contenuto sostanzialmente predeterminato) e quelle di necessità e urgenza mediante le quali, alla ricorrenza di determinati presupposti, si può predisporre una disciplina dai contenuti non predeterminati e potenzialmente derogatori rispetto a disposizioni di legge. Ora la difficoltà posta dalla direttiva in analisi e dalle ordinan-ze che ne scaturiscono è legata al fatto che queste ultime presentano caratteristiche miste. O, per meglio dire, dispongono stabilmente in deroga alla legge, e per di più alla costituzione, pur in mancanza dei presupposti di necessità e urgenza che di norma giustificano una tale alterazione del sistema delle fonti. Si tratterebbe dunque di un genere ibrido di ordinanza, a contenuto scarsamente predeterminato (poiché il principio di legalità è rispettato tramite il richiamo ad una disposizione legislativa

37 A. Lorenzetti, S. Rossi (a cura di), Le ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, cit.

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che a sua volta rimanda a generiche direttive ministeriali), contenenti una disciplina di carattere normativo e relativamente stabile, recanti di fatto dei contenuti più o meno surrettiziamente derogatori rispetto a legge e Costituzione (in particolare per il fatto di prevedere divieti generali piuttosto che interventi puntuali) in mancanza di qualsiasi riferimento a circostanze di necessità ed urgenza.

Un tal genere di provvedimento amministrativo, già a partire dalle censure in senso restrittivo svolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale in tema di ordinanze di necessità ed urgenza38, sembra a maggior ragione meritevole di qualche aggiustamento anche alla luce delle possibili differenziazioni dei livelli di tutela di diritti costituzionali che potrebbero provocare i singoli interventi posti in essere dai prefetti.

38 A proposito dell’ampio genus delle ordinanze contingibili e di urgenza vedi A. Morrone, Le ordinanze di necessità ed urgenza tra storia e diritto, in A.Vignudelli (a cura di), Istituzioni e dinamiche dei diritti. I confini mobili della separazione dei poteri, 2009, p. 183 e ss.

Parte II

Interventi

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

La localizzazione dell’insicurezza: osservazioni critiche sulle articolazioni del paradigma securitario

Alvise Sbraccia

1. Il campo della sicurezza

Nel tentativo di descrivere le evoluzioni contemporanee del rapporto tra crimine e reazione sociale David Garland (2004) ha fatto ricorso al modello teorico di Bou-rdieu (1995) e in particolare alla metafora del campo di forze. Le interazioni nei cam-pi – definiti in base ai loro contenuti tematici – coinvolgono gruppi di attori sociali e istituzionali che si contendono le posizioni centrali ed egemoniche al loro interno perseguendo strategie a geometria variabile, ovvero incentrate su alleanze sempre ridefinibili o su posizioni più esplicitamente conflittuali. Assumere la centralità del campo, in questa prospettiva, significa quindi diminuire l’incidenza sostanziale e culturale che altri attori organizzati detenevano nella precedente configurazione del campo stesso: in sintesi, affermarsi al suo interno come forza dominante.

Nel campo della giustizia criminale, Garland descrive un vero e proprio processo rivoluzionario che si sarebbe realizzato nella tarda modernità: un movimento che in sintesi si traduce nell’egemonia di un asse strategico che connette il potere legislativo agli apparati mediatici, collocando ai margini del campo i tecnici (operatori del si-stema della giustizia penale) e gli esperti (criminologi, sociologi). Questa rivoluzione trova il suo compimento, in particolare, sul terreno culturale, attraverso un processo di radicale semplificazione. Gli strumenti conoscitivi e i quadri analitici degli studiosi che si prefiggono l’obiettivo di leggere in chiave eziologica o costruzionista la penalità nelle sue relazioni con le dinamiche evolutive della società e dei rapporti produttivi e riproduttivi che la caratterizzano vengono accantonati. Desueti, comunque inefficaci nella prospettiva del contrasto alla criminalità come problema sociale (Hester e Eglin, 1999) subiscono la concorrenza degli approcci apparentemente più pragmatici di una criminologia amministrativa che tende all’individuazione dei dispositivi più effi-cienti per contrastare la criminalità, senza indulgere nell’analisi delle sue cause sociali o della complessità dei processi di criminalizzazione.

Analogamente, gli elementi critici riconducibili al sapere situato dei tecnici (Pa-dovan, 2000) tendono a collocarsi in posizioni marginali del campo. La pressio-

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ne esercitata dall’ondata sicuritaria e repressiva sugli apparati giudiziari e repressivi mobilita i saperi esperti che sono in grado di descriverne gli effetti sugli assetti e sulle funzioni delle istituzioni coinvolte. L’espansione del penale come insieme di strumenti di regolazione della conflittualità sociale e come universo retorico politi-camente pregnante prescinde però sistematicamente dal confronto con questi spunti critici. Si pensi al tema del sovraffollamento penitenziario come snodo cruciale della politica criminale: in Italia, mentre gli operatori carcerari riflettono sulla perdita di senso del loro lavoro e riferiscono delle difficoltà crescenti nel trovare riferimenti di legittimazione che lo sostengano a fronte di una saturazione degli spazi che conduce alla paralisi organizzativa (Associazione Antigone, 2009), il potere politico riproduce le retoriche della tolleranza zero e le sostanzia producendo nuove tipologie di reato (come quello di immigrazione clandestina), inasprendo le pene per gli illegalismi che si traducono in detenzione e penalizzando la recidiva (Re, 2006).

Se accettiamo questa descrizione in riferimento al gioco di forze interne al campo della penalità, possiamo considerare come tecnici ed esperti risultino referenti via via più marginali nei flussi comunicativi che si strutturano direttamente tra il sistema politico e la cittadinanza nel quadro del cosiddetto populismo penale (Bergalli, 2003). Il nostro campo di interesse, in questo senso, potrebbe essere meglio definito come campo della sicurezza. Le declinazioni tematiche della sicurezza e dell’insicurezza assumono allora una rilevanza davvero cruciale.

2. Diritto e retoriche di catalizzazione

La comunicazione politica tende di fatto a ridurre l’estensione semantica dei concetti di insicurezza e sicurezza. A fronte di dinamiche strutturali fortemente insicurizzanti quali l’estensione della precarietà occupazionale, l’instabilità dei legami intergene-razionali e la contrazione delle capacità erogative dei sistemi di welfare, l’insicurezza dei cittadini si rappresenta ed è costruita fondamentalmente come paura della cri-minalità (Vianello e Padovan, 1999), come sentimento di reazione legittima alle minacce apportate dal nemico interno di turno (Dal Lago, 1999) all’integrità fisica e patrimoniale del corpo sociale.

I reati contro la persona decrescono costantemente? Quelli contro il patrimonio risultano numericamente stabili? Non importa, anzi: “basta leggere le statistiche”. Imprenditori morali (Becker, 1999) ed esponenti delle forze politiche ricorrono mol-to spesso a questa locuzione per confermare l’importanza di contrastare alcune atti-vità delinquenziali (in particolare quelle riferibili alla cosiddetta microcriminalità), facendosi zelanti interpreti del sentire dei cittadini. Siamo di fronte ad un’esemplifi-cazione perfetta del processo di marginalizzazione dei saperi esperti: le statistiche sul-la delinquenza – che peraltro risultano scarsamente affidabili in quanto influenzate dalle prassi selettive delle agenzie del controllo e dall’incidenza del numero oscuro dei delitti (Hulsman, 2002) – non vengono lette né tanto meno interpretate. Ven-gono invece tendenzialmente evocate come elementi di conferma delle retoriche si-curitarie. Tali strutture narrative prescindono ampiamente da elementi di riscontro empirico.

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Alvise Sbraccia

Ricordiamo in proposito un episodio significativo dell’ultima competizione per le elezioni politiche. Dopo la caduta del governo Prodi (2007), il candidato premier del centrosinistra inaugurava la sua campagna elettorale – nella prima apparizione in uno studio televisivo (Porta a porta) – attaccando il sociologo Mannheimer per la composizione della prima tabella di un sondaggio sulle preoccupazioni degli italiani. La sicurezza, intesa come paura della criminalità, si collocava al quinto posto, con un valore percentuale in netto calo. Secondo il candidato il dato non era affidabile, tanto che decideva autonomamente di collocarlo in cima alle priorità dei connazio-nali, producendosi subito dopo in un lungo discorso incentrato sulla necessità di una politica criminale più stringente ed efficace in termini repressivi.

Cosa ci dice questo episodio? In primo luogo conferma la trasversalità politica del discorso sicuritario, trasversalità che lo rende appunto paradigmatico, quasi totaliz-zante. In secondo luogo ci offre un esempio di come si stia strutturando l’apertura cognitiva del nostro sistema politico. Quest’ultimo, nella prospettiva di Luhmann (1990), deve necessariamente operare riducendo la complessità, ossia selezionando gli input che possono essere elaborati in procedure e successivamente affrontati. In-terpretare il sentire dei cittadini è essenzialmente un’operazione di selezione cognitiva, alla quale farà seguito una risposta (output) di carattere normativo. Il diritto, in que-sta accezione, è la risposta in termini di chiusura normativa alle istanze raccolte at-traverso l’apertura cognitiva del sistema politico. L’iperproduzione di diritto penale e di norme parapenali sembra allora derivare da una cognitività claustrofobica che pre-definisce in chiave sicuritaria le domande della società o che dedica preferibilmente una risposta alle domande che risultano coerenti con le retoriche dell’allarme sociale.

La valenza egemonica di queste retoriche (cfr. Hall, 2006) si realizza in un effetto duplice di catalizzazione: da un primo punto di vista, le minacce portate dai nemici interni, dai soggetti che a vario titolo turbano l’ordine pubblico, sembrano conden-sare le ansie diffuse della cittadinanza; da una seconda prospettiva, i sistemi politico-amministrativi costruiscono un canale comunicativo privilegiato sulle questioni di sicurezza, accogliendo formalmente le domande dei cittadini ed elaborando risposte prettamente repressive, rassicuranti soprattutto in chiave oppositiva e simbolica.

L’immagine di sintesi più efficace per descrivere questo processo sembrerebbe quella del cortocircuito – almeno per chi le elezioni le perde – dal momento che il continuo riprodursi del problema criminalità dovrebbe essere inteso come sintomo dell’inefficacia delle risposte repressive (cfr. Sbraccia e Vianello, 2010) . Tuttavia non è semplice, né empiricamente agevole, misurare la valenza strategica delle retoriche sicuritarie nell’analisi delle dinamiche del consenso politico ed elettorale (Redazione SSQC 2007): non si può quindi escludere aprioristicamente che siano funzionali nell’ottica della competizione politica. Quanto risulta invece indiscutibile è che esse siano sistematicamente utilizzate in questa chiave, ovvero che gli attori politici vi ricorrano considerandole risorse preziose nell’acquisizione del consenso. Non vi è in questa sede lo spazio per approfondire i meccanismi attraverso i quali la legislazio-ne penale veicola, produce e rielabora contenuti simbolici assolutamente pregnanti nell’economia degli assetti della coesione sociale (Durkheim, 1971) e delle frontiere

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di inclusione e esclusione che caratterizzano il corpo sociale (Wacquant, 2006). È però indispensabile rilevare come il discorso pubblico sulla sicurezza si alimenti della (e al tempo stesso rinforzi la) distinzione tra cittadini autoctoni e immigrati. L’espe-diente retorico decisivo in un simile contesto è la connessione tra immigrazione e criminalità.

A vere e proprie ondate di panico morale (Cohen, 1972) derivanti dal risalto mediatico che viene donato a episodi di criminalità che vedono protagonisti attivi soggetti stranieri, corrispondono iniziative legislative che configurano la prospettiva del doppio binario della risposta repressiva e possono essere ricondotte ai quadri teo-rici del diritto penale del nemico (Pavarini, 2007). Anche in questo campo il ricorso confermativo alle statistiche giudiziarie cela una forte attitudine manipolativa. La sovrarappresentazione degli immigrati nei dati relativi alle denunce, ai procedimenti penali e alle presenze in carcere difficilmente viene ricondotta alle condizioni socio-giuridiche degli stessi, agli assetti delle politiche migratorie, alla conformazione dei mercati del lavoro sul territorio di riferimento, alle prassi discriminatorie e alla se-lettività del controllo sociale (Melossi, 2002, Sbraccia, 2007). Questi aspetti restano confinati al confronto tra esperti ed accademici, o meglio a coloro che tra questi non suffragano l’idea dominante secondo la quale tale sovrarappresentazione si spiega con una maggiore attitudine delinquenziale degli immigrati.

“Ciò che conta è il linguaggio degli attributi”, si potrebbe dire parafrasando Gof-fman (2003), nella sua capacità di riprodurre effetti di stigmatizzazione sociale. Se una distinzione fondamentale tra autoctoni e stranieri si regge sul nesso immigra-zione-criminalità, condensando i disagi e le difficoltà implicite di una società che transita verso un assetto multiculturale, i dispositivi di regolazione dei conflitti e di gestione dell’impatto dell’Alterità vengono più facilmente attratti nel campo di una cultura del controllo di matrice repressiva. Se questa risorsa comunicativa, ideologica e distintiva è stata utilizzata nell’ambito delle retoriche politiche dominanti a livello nazionale per almeno tre lustri, la sua declinazione nei contesti locali ha assunto di recente connotazioni particolarmente significative. Il contatto con l’Altro, social-mente costruito e stigmatizzato, rivela infatti la sua natura problematica nei luoghi specifici dell’interazione (in particolare nei contesti urbani), chiamando in causa po-litici e amministratori locali.

3. Capire il territorio, riconquistare lo spazio pubblico: ordinanze e la-boratori locali

“Alla fine degli anni Novanta ero finalmente riuscito ad avere un permesso di sog-giorno, ma ancora passavo la notte in un dormitorio della Caritas. Lavoravo come muratore ormai da diversi mesi ma non sapevo dove lasciare i soldi che guadagnavo, così tenevo diversi milioni in una fascia stretta sotto la camicia. Dopo il lavoro, mi ritrovavo al parco con alcuni connazionali prima di andare al dormitorio: cos’altro dovevamo fare? Spesso venivano i carabinieri a controllarci e mi trovavano i soldi addosso. ‘Da dove vengono tutti questi soldi’ – mi chiedevano. Io allora gli mostravo

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le mani gonfie e distrutte dal lavoro e loro se ne andavano, convinti che non stavamo spacciando. Questa scena si è ripetuta almeno quattro volte”.

Questo brano appartiene a un’intervista biografica recentemente realizzata con un cittadino albanese di trentatré anni. Si può dire oggi che la sua sia una migrazione di successo, ma le parole riportate si riferiscono a una fase molto dura della sua vita. Ciò che qui interessa particolarmente è quanto emerge in riferimento alla fruizione dello spazio pubblico e all’interazione con gli agenti del controllo istituzionale. Gio-vani uomini in sosta sulle panchine di un’area verde costituiscono elementi sospetti e attirano quindi le forze dell’ordine. Le procedure di accertamento disvelano la pre-gnanza della dimensione informale: giacché risulta decisivo uno sguardo alle mani da lavoratore, si potrebbe dire che prevalga il buon senso. Le competenze relazionali e il sapere situato dei carabinieri rinforzano in ultima analisi la legittimità della col-locazione dei protagonisti del racconto nello spazio pubblico. Forme di tolleranza istituzionale più significative si sono riscontrate per anni con riferimento all’esercizio di attività economiche informali di strada (ambulantato, prostituzione).

Le stesse presenze nello spazio pubblico possono però incontrare sguardi e per-cezioni che con le prassi del controllo istituzionale del territorio non hanno nulla a che fare. Quando il cittadino insicurizzato entra in campo, queste presenze possono incarnare la sensazione della perdita del controllo dello spazio pubblico, improvvisa-mente abitato da figure altre, connotate da un abbigliamento particolare o, eventual-mente, da tratti somatici differenti. Soggetti poco rassicuranti si aggirano sugli scenari del quotidiano, che diventano progressivamente meno prevedibili (Escobar, 1997). La pericolosità di tali soggetti è, come abbiamo visto, socialmente e mediaticamente costruita. Al di là di ciò che concretamente fanno, essi divengono quindi espres-sione di un degrado (urbano, sociale) da contrastare, catalizzatori di una domanda di sicurezza. Questo meccanismo di contrasto, come brillantemente dimostrato da Wacquant (2000) e Davis (1999) è propriamente alla base della teoria delle broken windows (Wilson e Kelling, 1982) e della sua traduzione politica: la tolleranza zero. L’assunto centrale di entrambe è che la tolleranza verso le forme del degrado ambien-tale renda un’area urbana terreno di coltura di attività delinquenziali: allontanate o eliminate le prime, le seconde si realizzeranno ben più difficilmente (Harcourt, 2001).

Come è noto, questa impostazione ha assunto un carattere a sua volta paradigma-tico, e il verbo della zero tolerance si è espanso dalla New York di Giuliani raggiungen-do le periferie dell’Occidente (Campesi, 2009). In attesa che si producano ricerche empiriche sul complesso delle ordinanze di sicurezza dei sindaci italiani, possiamo osservare come i loro contenuti resi pubblici siano facilmente inscrivibili in questo quadro logico. Anticipate dalla famigerata rimozione delle panchine dalle piazze del-la Treviso del sindaco Gentilini, le ordinanze in materia di sicurezza sembrano aggre-dire i soggetti che manifestano un’attitudine a sostare negli spazi pubblici, ovvero a non usufruirne semplicemente in qualità di aree di transito funzionale agli acquisti e agli spostamenti.

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Questuanti, bivaccanti, lavavetri, senza fissa dimora, venditori ambulanti, giovani che si ritrovano nelle piazze, gruppi di immigrati nei parchi, sex worker che utilizzano la strada come luogo di incontro con la clientela: la presenza di queste figure può essere sintomo di criticità sociali (ad esempio, sostando nelle piazze nelle ore serali, spesso ci si ubriaca) e provocare disagio in altri fruitori della strada. La scelta tutta politica di aggredirle con provvedimenti di stampo repressivo sembra allora orientata da un lato a rinforzarne l’immagine di nemici interni, dall’altro a rimuoverle dalla vista, a dislocarle nell’area dell’invisibilità sociale. Lo spettro inquietante di una mar-ginalità sociale montante deve essere rimosso, lo spazio pubblico ripulito.

Queste pratiche di rimozione materiale e simbolica sono definibili per la loro na-tura ambivalente. Ad esse tende infatti a corrispondere un processo di desertificazione dello spazio pubblico, specialmente nelle ore serali e notturne. Sullo scivolosissimo terreno delle percezioni d’insicurezza, verrebbe allora da chiedersi se inquietudini ed angosce trovino un ambiente più favorevole in un quartiere dormitorio, in una strada deserta o in un’area urbana destinata a qualche forma di socialità. Certo, questo in-terrogativo rimanda alla dimensione più ampia della socialità nelle società tardo-mo-derne. Tuttavia, le ricerche sulla percezione di insicurezza (Mosconi e Toller, 1998) evidenziano chiaramente come questa cresca in virtù di un cortocircuito che investe propriamente lo spazio pubblico. Essa si articola cioè in modo ambivalente. Da un lato a farla crescere è la sensazione di perdita di controllo (sociale) di questo spazio, che appare invaso da figure non familiari, portatrici di comportamenti eterodossi facilmente stigmatizzabili come incivili. Dall’altro la paura cresce proprio in virtù del fatto che non esista una vera e propria condivisione dei medesimi luoghi: il ritiro della cittadinanza nella dimensione del privato implica la rarefazione dell’interazione nello spazio pubblico e, di conseguenza, l’impoverimento degli strumenti di cono-scenza della realtà sociale. In questo senso, l’ignoranza relazionale favorisce il proces-so di mostrificazione dell’Alterità e rinforza le istanze sicuritarie ma, al contempo, tende a stabilizzare, riprodurre e accrescere i sentimenti di insicurezza (Mosconi, Padovan e Sbraccia, 2001).

Il fenomeno delle ronde e il meccanismo di definizione formale e normativa delle loro attività nei contesti urbani del nostro paese sembra in questo senso particolar-mente interessante. Perfettamente inscritta nella logica del sicuritarismo, la ronda potrebbe risultare indicatore di un tentativo di riappropriazione dello spazio pubbli-co. A partire da un’impostazione conflittuale e culturalmente discutibile, potrebbe determinare una dialettica aperta nell’interazione urbana. Al di là della nominazione e dell’impostazione delatoria e intimidatoria, potrebbe dinamizzare il quadro delle politiche di sicurezza. Il condizionale è d’obbligo perché sto semplicemente soste-nendo che tali attività di controllo meriterebbero di essere analizzate nella loro evo-luzione con strumenti sociologici (osservazione partecipante), senza trascurare come possano essere facilmente manipolate e gestite da forze politiche organizzate e, so-prattutto, la circostanza secondo la quale la loro istituzionalizzazione e legittimazione sembra rimandare a una dimensione prevalentemente ideologica e simbolica, senza che effettivamente questi gruppi spontanei esistano e si manifestino sul territorio. La

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controipotesi, seguendo quest’ultima prospettiva, si svilupperebbe invece conside-rando come il paradigma sicuritario si riproduca di fatto attraverso un meccanismo di delega sul controllo (non più sociale) degli spazi pubblici alle autorità da parte dei cittadini (per nulla motivati a farsi carico di attività di pattugliamento).

L’opzione prevalente di gestione strategica degli spazi pubblici si nutre allora delle retoriche riferite in precedenza al paradigma sicuritario, ma si legittima anche attra-verso i riferimenti discorsivi di un rapporto di prossimità tra la cittadinanza e gli am-ministratori locali. Nel campo della sicurezza, in termini astratti, questo processo di avvicinamento appare senz’altro auspicabile. Se intendiamo lo spazio pubblico come luogo di possibile emersione di conflitti sociali e di materializzazione delle forme del disagio sociale, risulta perfettamente logico che la comunicazione tra chi ne usufru-isce e le autorità che lo amministrano abbia un carattere situato. In questo senso, la circostanza per la quale ai sindaci vengano attribuite delle competenze in materia di sicurezza e che essi siano chiamati a condividere la responsabilità della sua gestione con gli attori del controllo istituzionale (prefetture, questure) non presenta alcun elemento oggettivo di disvalore. Sebbene infatti i ministri dell’interno si rivolgano spesso alla cittadinanza in chiave populistico-propagandista, i cittadini non sono in condizione di rendere reciproco questo canale comunicativo se non nelle aree della quotidianità. Per la verità, almeno in Italia, questo processo di avvicinamento sembra subire notevoli intoppi. La polizia di prossimità, il poliziotto di quartiere, la polizia locale appaiono come forme dell’enunciazione politica prive di riscontri fattuali (cfr. Bertaccini, 2009, 289-344).

La prossimità tra cittadinanza e organismi competenti appare allora configurarsi, anche nella dimensione locale, nei termini di una vicinanza autoritaria, di una comu-nicazione che si realizza – secondo il modello sopra descritto – attraverso domande prestrutturate in chiave emergenziale e risposte prestrutturate in chiave repressiva (Vianello, 2006). Anche in ambito locale sembra peraltro affermarsi la trasversali-tà politica di questo canovaccio comunicativo, che vede rincorrersi attori politici nominati alla stregua di sceriffi verdi, rossi e d’altre colorazioni. La sicurezza, come risorsa nell’economia stringente del consenso elettorale, subisce così un’interessante evoluzione semantica che rimanda a precisi elementi di selettività. Diventa infat-ti quasi impraticabile, soprattutto nel quadro della crisi fiscale dello stato e delle amministrazioni locali, declinarla nei termini di sicurezza sociale: un’operazione di questo genere implicherebbe il farsi carico di altre problematiche sociali che rendono insicura la popolazione e, paradossalmente, l’occuparsi della sicurezza degli esclusi, propriamente di coloro i quali, collocati ai livelli più bassi della gerarchia sociale quando non impigliati nelle sabbie mobili della marginalità grave, risultano funzio-nali alla riproduzione retorica del paradigma sicuritario in qualità di nemici interni (Pavarini, 2006).

Di fronte a simili evidenze fenomeniche, una domanda che analisti delle scienze sociali e ricercatori sono legittimati a porsi riguarda evidentemente le conseguenze culturali dell’impatto di una comunicazione politica così strutturata. L’ipotesi che mi sento qui di avanzare, nella speranza di poterla verificare con strumenti empirici

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nell’immediato futuro, è che le ordinanze in materia di sicurezza concorrano con la legislazione nazionale sulle politiche migratorie e con le sue declinazioni penali e parapenali a definire il campo della sicurezza sulla base di elementi distintivi e discri-minatori riconducibili alla matrice del razzismo istituzionale. Una matrice destinata a legittimare le spinte e rinforzare le giustificazioni discorsive di un razzismo social-mente diffuso in una fase di delicatissima transizione socio-economica e demografica del nostro paese.

Riferimenti bibliografici

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Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

Politiche locali e nazionali di sicurezza urbana: storia di un incontro mancato

Rossella Selmini

La questione della sicurezza urbana è un tema oggi al centro dell’attenzione istitu-zionale e dell’opinione pubblica, come mai lo è stata in passato. Come in passato, tuttavia, essa rimane una questione controversa, che merita di essere affrontata su piani diversi. Vorrei offrire un contributo al dibattito di oggi soffermandomi in par-ticolare su tre questioni: la prima è la definizione del concetto di sicurezza urbana, la seconda è la storia e l’evoluzione di questo concetto nella sua traduzione in politiche pubbliche locali, la terza, infine, riguarda la collocazione delle politiche di sicurezza locale nell’ambito delle politiche criminali in generale e quindi la questione della in-tegrazione. Lo farò dal punto di vista di chi ha una responsabilità a livello regionale, quindi in una posizione per così dire intermedia tra gli altri due attori principali di questo palcoscenico: lo Stato centrale e i Comuni.

Vorrei anche dire subito, però, cercando di argomentare meglio questa afferma-zione nelle mie considerazioni successive, che io credo che in questo dibattito la po-sta in gioco non sia esattamente la sicurezza dei cittadini, bensì gli equilibri di potere tra il governo centrale e i governi locali1. La storia recente delle politiche di sicurezza, in Italia, come altrove, è assai più storia delle relazioni tra governi nazionali e locali che storia del contrasto alla criminalità.

Della sicurezza urbana, grande contenitore dai confini ampi e dai caratteri vaghi (Rochè, 1998) ognuno oggi sembra dare la definizione che preferisce, così come è ar-dua la definizione di cosa sono le politiche di sicurezza urbana2. Di sicuro, il concetto è di origine sociologica e solo recentemente ne troviamo una definizione giuridica nel decreto del Ministero dell’Interno (DM) 5 agosto 2008, che specifica l’ambito entro cui i sindaci possono esercitare i loro poteri di ordinanza.

1 Ho sostenuto in più occasioni questa lettura dell’origine e dello sviluppo delle politiche di sicu-rezza “urbana” o locale, e in particolare in Selmini (2005a).

2 Nella vasta letteratura su questo tema il lavoro che meglio ha affrontato la questione della sicu-rezza urbana nella sua difficile traduzione in politiche pubbliche locali e nazionali, con riferimento al panorama europeo, è il lavoro di Recasens I Brunet (2007).

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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Ciò che vuole caratterizzare la sicurezza urbana come concetto nuovo rispetto a quelli tradizionali di sicurezza pubblica e ordine pubblico è in primo luogo l’area in cui i fenomeni si manifestano: il locale, appunto, o l’“urbano”, con riferimento alla città. Si intende, tuttavia, con ciò anche alludere agli attori istituzionali che per primi si trovano a fronteggiare questi problemi nella loro manifestazione quotidiana, cioè gli amministratori delle città. Definire la sicurezza come problema urbano, infatti, è servito ad affermare un nuovo ruolo di soggetti istituzionali – Città e Regioni – che mai avevano avuto, prima degli anni Novanta, competenze nelle aree “contigue” al sistema di giustizia penale.

Il concetto di sicurezza urbana o locale, tuttavia, si ritiene diverso da quello di sicurezza pubblica o ordine pubblico anche per le tipologie di fenomeni che vi rien-trano perché evidenzia l’affermarsi di una sicurezza che non è più soltanto garanzia di un’assenza di minaccia, ma anche attività positiva di rafforzamento della percezione pubblica della sicurezza stessa (Zedner, 2000). Poiché anche il disordine e il degrado urbano, pur comprendendo comportamenti che non sono necessariamente criminali, contribuiscono in maniera significativa alla percezione di insicurezza, come la ricerca internazionale ha più volte confermato, si arriva quindi ad una definizione di sicurezza urbana che comprende quella condizione di protezione dei cittadini di un’area defini-ta del territorio sia dai rischi oggettivi di criminalità, sia dalla percezione di insicurez-za, anche quando derivante da degrado e disordine. Insomma, nella sicurezza urbana il codice penale c’entra poco: quello che conta è il cambiamento sociale.

È in questa accezione ampia che il concetto di sicurezza urbana si è diffuso nel nostro paese, ed è in questo senso ampio che, nel corso degli anni, alcune Regioni hanno legiferato in materia, trattando la sicurezza urbana come elemento della mi-gliore qualità della vita dei cittadini. Ma, qui, entriamo nella storia delle politiche di sicurezza in Italia, storia alla quale il dibattito di questi ultimi mesi non rende sufficiente giustizia3.

Le politiche di sicurezza urbana si sviluppano in Italia a metà degli anni Novanta, con qualche anno di ritardo rispetto ad altri contesti europei e sono stati i governi regionali, appunto, che per primi hanno colto l’emergere dei temi della sicurezza urbana come un insieme di fenomeni rispetto ai quali le politiche locali, rivisitate e orientate alla produzione di sicurezza, potevano dare una risposta. L’esempio più noto è sicuramente quello della Regione Emilia-Romagna, che dal 1994 ha inserito le “Politiche di sicurezza” tra le proprie aree di programmazione e di intervento, pre-sto seguita da altre Regioni.

I governi regionali e le città hanno subito colto gli aspetti peculiari che andavano caratterizzando i fenomeni della criminalità nel contesto locale, e hanno ritenuto di poter elaborare delle risposte che si basavano su un nuovo filone di politiche definite,

3 Dal dibattito pubblico recente, per effetto di una evidente distorsione mediatica, tutta la storia delle politiche – locali – di sicurezza in Italia sembra essere scomparsa. La sicurezza urbana è tutt’altro che un “oggetto” nuovo delle politiche criminali e chi di essa voglia trattare dal punto di vista politico, istituzionale e scientifico, non può esimersi dal fare riferimento a questa storia.

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Rossella Selmini

a torto o a ragione, come politiche di sicurezza. I fenomeni erano indubbiamente nuovi, non perché la criminalità non esistesse anche prima, naturalmente, ma, da un lato, perché essa ha cominciato a manifestarsi in forme nuove e rapidamente mutevoli, dall’altro perché le città sono state investite da rapidi cambiamenti che ne hanno modificato in buona parte il volto, sfaldando reti consolidate di protezione, indebolendo gruppi sociali una volta egemoni e facendo emergere nuove forme di conflitto e di competizione soprattutto nell’uso dello spazio pubblico. Alla crimi-nalità si è aggiunto poi, come si diceva, l’ampio contenitore del disordine urbano, una categoria che ormai a pieno titolo si affianca, anche nell’opinione pubblica, alla criminalità vera e propria.

Da questi elementi sono emerse le nuove politiche di sicurezza urbana: un in-sieme di programmi di intervento caratterizzati dalla finalità pubblica di rendere le città più vivibili sul piano dei fenomeni criminali e di disordine e di rispondere ad una domanda sociale di protezione dei cittadini. Politiche basate su un’architettura al cui centro stanno programmi regionali di coordinamento e di sostegno economico a interventi locali, realizzate attraverso leggi regionali e attività amministrative. Le Regioni, insomma, come “cuscinetti”, tra uno Stato-nazione troppo grande e città troppo piccole per affrontare i problemi che la globalizzazione scarica su di esse, (Baumann, 2005).

Sullo sfondo, in Italia come altrove, la crisi dei sistemi penali, su cui non mi sof-fermo perché fenomeno di grandissima rilevanza e che meriterebbe di essere trattato assai seriamente, che si manifesta anche nella incapacità – dei governi nazionali – di rispondere a quell’aumento dei tassi di criminalità che si è verificato in tutte le demo-crazie occidentali nel corso degli anni Ottanta e Novanta (Garland, 2007).

Le politiche di sicurezza urbana sono, quindi, espressione di strategie di rafforza-mento degli enti locali rispetto al governo centrale, di ricerca del consenso e anche di strumenti alternativi a quelli dei sistemi penali tradizionali, sulla cui efficacia nel contrasto alla criminalità si sollevano, nel dibattito internazionale, sempre più dubbi. I motivi per i quali il sistema delle autonomie locali ha voluto giocare un ruolo in materia di sicurezza sono quindi assai vari. In questo campo si vedevano opportunità di intervento e possibilità di riconoscimento di maggiori poteri e autonomie a diversi livelli; perché si è diffusa – anche grazie ad una sollecitazione delle stesse istituzioni locali per lo sviluppo di politiche c.d. partecipate – una cultura collettiva “della ri-mostranza” legata ad una forte intolleranza per molti fenomeni, e questa richiesta si dirige assai più spesso verso gli amministratori locali che nazionali.

Tuttavia, le politiche di sicurezza locale nascono e si sviluppano anche perché altre politiche, non solo quelle penali, sono in difficoltà o in declino: per esempio, la crescente incapacità a gestire la manutenzione urbana che incrementa i problemi di disordine e degrado, ora affrontati nell’ottica della sicurezza, o il declino del welfare locale e il conseguente aumento di problematiche sociali, anche queste ora rilette at-traverso la lente della sicurezza. Sono e diventano, nel tempo, sia politiche che ambi-scono a proteggere – e sarebbe interessante chiedersi: chi? – dagli effetti incontrollati del cambiamento sociale, sia politiche di recupero degli effetti indesiderati di altre

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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politiche locali (si pensi a certe scelte urbanistiche del passato rivelatesi poi dannose o addirittura criminogene). Le politiche di sicurezza sono in buona parte, come si è detto efficacemente, “politiche di risulta” (Savoldi, 2009), ma non per questo meno importanti nel governo complessivo della città, anzi.

In questo quadro, per molto tempo, i governi nazionali sono stati assenti. Per dieci anni e oltre, le politiche di sicurezza in Italia hanno proceduto su due binari paralleli: da un lato la tradizionale attività repressiva e di controllo gestita dalle isti-tuzioni nazionali con gli strumenti classici del sistema penale, dall’altro le politiche locali basate su un insieme di interventi preventivi e di rassicurazione sociale, attuati attraverso gli strumenti del diritto amministrativo.

Dopo oltre un decennio di assenza, però, recentemente i governi nazionali hanno cominciato ad interessarsi al modo nuovo in cui la sicurezza si andava definendo a livello locale, e si sono preoccupati. Preoccupati di uno sbilanciamento troppo loca-listico della sicurezza – proprio quando la sicurezza andava diventando un potente fattore emotivo da giocare politicamente. Se nella seconda metà degli anni Novanta i Comuni e le Regioni faticavano a trovare forme di collaborazione con i governi na-zionali, dall’inizio del 2000 si intravedono i primi segnali di disponibilità, attraverso gli strumenti degli accordi e dei contratti per la sicurezza. Si sviluppa un tentativo di cooperazione istituzionale che rimane però ad un livello formale e astratto e sembra esprimere assai più la preoccupazione di riconfermare confini e responsabilità tradi-zionali che quella di trovare reali forme di coordinamento in un mondo mutevole4.

Come logica conseguenza di questo processo, le recenti scelte del governo nazio-nale in materia di sicurezza, prima la nuova regolamentazione del potere di ordinan-za dei sindaci che ho già citato, poi l’adozione della legge n. 94 del 15 luglio 2009 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, indicano chiaramente un cambio di rotta. La sicurezza urbana, o locale che si voglia, è parte della sicurezza e dell’ordine pubblico, ed è il Ministero dell’Interno che determina priorità e ambiti di interven-to, in concorrenza, soprattutto, con le Regioni. Mi limito, su questo punto, a poche considerazioni. Il nuovo potere di ordinanza dei sindaci è un esempio chiaro di cen-tralizzazione delle politiche di sicurezza, a dispetto del ruolo che si attribuisce ai sin-daci stessi. Priorità e ambiti sono decisi dal centro e i sindaci agiscono come “ufficiali di governo”, non come eletti e rappresentanti della comunità. Le disposizioni più discusse della legge n. 94, mi riferisco qui in particolare alle forme di organizzazione del volontariato e alla regolamentazione dei c.d. buttafuori, sono un altro esempio di centralizzazione di attività che alcune leggi regionali già regolavano.

Credo, allora, che parlare di integrazione o di coordinamento non sia corretto. Si tratta di un processo di centralizzazione di una serie di politiche che si erano svilup-

4 Duecento contratti di sicurezza stipulati tra 1998 e 2004 (Fisu-Ministero dell’interno, 2007) e oltre venti Patti per la sicurezza stipulati tra il 2007 e il 2008 hanno prodotto forse qualche migliora-mento nelle relazioni a livello locale e l’instaurazione di prassi collaborative, ma non hanno portato ad alcuna reale trasformazione delle asimmetrie di potere – simbolico – che caratterizzano le relazioni tra centro e periferia. Non cito qui gli effetti sui fenomeni criminosi, largamente indipendenti dalla stipula o meno di questi patti (Selmini, 2005b).

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Rossella Selmini

pate al di fuori dell’ambito strettamente centrale, e delle quali il governo centrale ha ripreso il controllo, pur attraverso l’uso retorico di parole come “sicurezza partecipa-ta”, integrazione e nonostante l’enfasi posta sul ruolo dei sindaci.

Ecco perché, e mi avvio a chiudere, io non ritengo queste nuove strategie nazio-nali delle vere politiche di sicurezza. Se assumiamo che le politiche di sicurezza siano un insieme di programmi e azioni volti a prevenire la criminalità, migliorare le forme di controllo e di punizione della stessa, ridurre le preoccupazioni sociali, vediamo subito che le recenti politiche nazionali non hanno questi obiettivi.

Non v’è traccia di interventi preventivi. Non vi è traccia di riforme, se non strut-turali, quanto meno sistematiche del sistema di controllo e repressione dei reati: nessun miglioramento dell’efficacia del funzionamento della giustizia, nessuna reale riforma delle polizie né la previsione di migliori modalità di coordinamento. Il re-sto degli interventi introdotti con la legge 94/2009 si muove sul solco tradizionale dell’inasprimento sanzionatorio, notoriamente poco efficace come misura deterrente.

Allora stiamo parlando di altro. Stiamo parlando non di politiche, ma di strategie che hanno altri obiettivi, in primo luogo ridurre la conflittualità con i sindaci, anzi, stringere con essi nuove alleanze in grado di scardinare quel sistema apparentemente consolidato di cooperazione tra Regioni e Città. Sono politiche che servono a rista-bilire ruoli, confini, distribuzione di risorse in un quadro che rischiava di diventare altamente delegittimante per lo Stato nazionale, soprattutto visto il ruolo strategi-co che i governi regionali avevano assunto. Che servono poi, in secondo luogo, a costruire consenso attraverso la dimostrazione che il governo sta facendo qualcosa. Insomma, citando Jonathan Simon, siamo di fronte a politiche che non governano il crimine, ma governano attraverso il crimine (Simon, 2008).

Concludo: l’esito di questi processi è alquanto incerto, ma è piuttosto chiaro che l’integrazione e il coordinamento sono ancora più lontani di quanto non fossero die-ci anni fa. La “sicurezza partecipata” o la “sicurezza integrata” sono soprattutto appelli retorici buoni per qualche occasione ufficiale. Nella realtà dei fatti, la fase che stiamo vivendo oggi in questo paese è solo una delle alterne vicende del conflitto – postmo-derno – tra gli stati nazionali e i poteri locali. Conflitto in cui i primi, vittime di una crisi profonda a diversi livelli, cercano tuttavia di rilegittimarsi agli occhi dei cittadini riportando al centro la loro capacità di controllare il crimine e i sindaci ritengono, a mio avviso erroneamente, di aver avuto un nuovo riconoscimento “dall’alto” mentre in realtà esercitano il ruolo di funzionari governativi per gestire attraverso il diritto amministrativo problemi di complessità enorme. Le Regioni, almeno quella buona parte che aveva sviluppato programmi a lungo termine sulla sicurezza, rischiano in-vece sovrapposizioni e conflitti con gli altri attori in campo. Un quadro forse pessi-mistico, ma temo realistico. E soprattutto, quanto mai lontano dalla illusione delle “politiche integrate”. Il che, evidentemente, non esime nessuna delle istituzioni coin-volte a continuare a perseguire questo obiettivo, poiché integrazione e cooperazione – quando frutto di una reale condivisione di intenti e di volontà – sono i caratteri salienti di un sistema di sicurezza moderno ed efficace.

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

La figura e il ruolo del sindaco

Roberto Reggi

I sindaci in Italia, da oltre quindici anni, agiscono in quanto rappresentanti eletti delle loro comunità. Ciò attribuisce loro un profilo e un rilievo istituzionale tali da non poter essere riassorbiti – in nessun caso – nell’area di responsabilità di un fun-zionario, per quanto autorevole, dello Stato.

Il primo dovere degli amministratori locali è quello di garantire un ambiente urbano sicuro ai propri cittadini. E questo dovere primario discende non da un’in-vestitura dall’alto (così come accade invece per il Prefetto), ma dal ruolo di eletti e rappresentanti della comunità locale.

Da tale presupposto emerge la centralità delle politiche locali e del ruolo del sin-daco nelle politiche di sicurezza, dove questi agisce come rappresentante dei cittadi-ni, eletto democraticamente, e non in quella di ufficiale del governo. La sua posizione rispetto al ruolo dei Prefetti in materia di sicurezza urbana non può certamente essere di subordinazione, ma piuttosto di collaborazione. Per di più in quanto rappresen-tanti eletti delle loro comunità i Sindaci possono, anzi devono, svolgere una convinta funzione di coinvolgimento della comunità stessa nelle sue diverse articolazioni e rappresentanze nelle politiche di sicurezza, componendo le diverse esigenze e mobi-litando al contempo risorse in un quadro di governo complessivo.

Ma sul fronte delle risorse il dente duole. Ai Sindaci sono stati trasferiti poteri nell’ambito della gestione delle politiche di sicurezza urbana senza una corrisponden-te assegnazione di risorse. Oltre a ciò:

a) le spese dei Comuni per la sicurezza urbana non sono state sottratte al conteni-mento forzoso derivante dal patto di stabilità;

b) il governo ha tagliato drasticamente la spesa per la sicurezza riducendo gli or-ganici delle forze dell’ordine;

c) non sono state previste risorse per il personale e gli investimenti necessari in termini di dotazioni e attrezzature per gli uffici giudiziari e gli istituti di pena.

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La figura e il ruolo di sindaco

1. L’ordinanza sindacale

L’atto tipico del Sindaco-ufficiale del Governo è l’adozione della congruamente mo-tivata ordinanza, ora non più necessariamente contingibile e urgente, per prevenire ed eliminare i “gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza ur-bana” (art. 54 c. 4 TUEL). Sicurezza urbana intesa quale “bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale” (Decreto 5 agosto 2008 del Mini-stero dell’Interno). Ma – come noto – il provvedimento adottato dal Sindaco non è di per sé immediatamente esecutivo, in quanto precedentemente alla sua adozione deve darsi la comunicazione al Prefetto.

È mia opinione che il contenuto delle politiche di sicurezza sia stato ridotto trop-po semplicisticamente a questioni di carattere amministrativo. Le ordinanze ammi-nistrative, in particolare, rivestono senza dubbio un’importante funzione di contra-sto di situazioni specifiche, ma spesso sono presentate come strumento risolutore di carattere generale. Esse sono sicuramente uno degli strumenti, uno dei segmenti di una politica che deve essere mirata e di assai più ampio respiro. Nessuno ha misurato l’efficacia dell’uso delle ordinanze, molti si limitano a contarle, ritenendo un successo il fatto che ne siano state emanate alcune centinaia, senza chiedersi quando e se serva-no. Con il tempo, dal giorno della loro ridefinizione normativa, sono indubbiamente emerse diverse storture, legate in particolare ad una eterogeneità di applicazione e trattamento sul territorio nazionale, sulle quali merita senz’altro riflettere.

È perciò, a mio avviso, da respingere la “mistica” dell’ordinanza come strumen-to risolutore dei problemi urbani, mentre è invece opportuno riaffermare – come Sindaco e amministratore locale – l’impegno volto a promuovere, nelle nostre città, politiche di sicurezza urbana serie, mirate, integrate e capaci di affrontare e risolvere i problemi. L’ordinanza può semmai essere uno degli strumenti, un pezzo di una politica assai più complessa.

2. I rapporti con il Governo nazionale

Sul fronte delle scelte politiche manca ancora, da parte del governo, un progetto coe-rente che agisca sul terreno delle riforme e della prevenzione sociale e che contemperi l’inasprimento delle misure repressive (che altrimenti rischia di rimanere scarsamente efficace, sino a quando non si invertirà la tendenza dei tagli ad uomini e mezzi in tutto il sistema della sicurezza). Tutti i recenti interventi del governo evidenziano con chiarezza:

– un ridimensionamento del ruolo delle Regioni, della centralità delle città e degli enti locali;

– la sottovalutazione del ruolo delle polizie locali e la loro crescente subordinazio-ne all’ambito di controllo del Prefetto;

– la sovrapposizione di alcune norme statali con i poteri delle Regioni;

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Roberto Reggi

– il tentativo di istituire un controllo pieno del governo centrale, anche attraverso le Prefetture, sul ruolo dei Sindaci in materia di sicurezza.

Se guardiamo all’insieme delle ultime normative licenziate dall’attuale Governo, sembra che l’obiettivo di queste disposizioni non sia tanto ridurre la criminalità, quanto ridurre il potere dei sindaci (assegnando loro un ruolo vassallatico nei con-fronti dei prefetti), ridimensionare al tempo stesso il ruolo forte che le Regioni hanno assunto in questi anni e quindi determinare conflitti nel sistema delle autonomie locali.

Penso invece che il rapporto tra autonomie locali e governo nazionale debba es-sere improntato ad uno spirito di collaborazione reale, leale e paritaria, soprattutto nelle materie di confine tra sicurezza, ordine pubblico, polizia amministrativa locale e sicurezza urbana. Tale collaborazione non può essere perseguita a colpi di decreti ministeriali che regolano una materia così delicata, ma va costruita nelle forme istitu-zionali previste dalla nostra Costituzione e nel rispetto del principio di sussidiarietà.

3. La legge di riforma della polizia locale

È necessario che il Parlamento approvi quanto prima la legge di riforma della Polizia locale, in particolare assumendo quale fonte privilegiata i ddl Saia e Barbolini. Tale riforma riveste un’importanza fondamentale nell’ambito e con riferimento alle po-litiche complessive legate al tema della sicurezza urbana. Oggi più che mai, infatti, Sindaco e Polizia locale rappresentano i punti di riferimento fondamentali per i cit-tadini in tema di sicurezza urbana.

È quindi largamente incomprensibile il fatto che la bozza di proposta di legge del Ministero dell’Interno attualmente all’esame del Parlamento illustri una sostanziale riduzione delle funzioni e delle competenze, nonché una grave limitazione dell’ope-ratività degli organi di Polizia locale. Se confermata, tale impostazione porterebbe a conseguenze molto negative sulla funzionalità degli organi di Polizia locale sull’effi-cacia delle attività dei medesimi a tutela della sicurezza dei cittadini. Tale limitazione, inoltre, rappresenterebbe un sostanziale e incomprensibile arretramento rispetto alle competenze attualmente attribuite dalla vigente legge quadro sull’ordinamento della Polizia locale.

La bozza contiene anche alcuni aspetti positivi (quali la previsione del numero unico nazionale, l’apertura sull’accesso dati SDI e poco altro), ma numerosi e sensi-bili sono gli elementi che destano più di una preoccupazione:

– il testo Maroni non offre alcun appiglio al ruolo istituzionale delle Regioni. Manca infatti la previsione di una Conferenza regionale, senza la quale il ruolo delle Regioni non assume alcun rilievo istituzionale. Mentre il testo precedente prevedeva una “Conferenza tra Regioni sulla sicurezza” che il Governo ha depennato;

– il tentativo di costituire una forte unitarietà delle forze di polizia locale (delle funzioni, dei poteri, del soggetto sorgente dell’attribuzione del potere alle forze di polizia locale) è stato cancellato. È rimasta la vecchia impostazione: la Polizia locale continua a derivare i suoi poteri da due soggetti, Sindaco e Prefetto. Ciò conferma e

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La figura e il ruolo di sindaco

consolida un ruolo invasivo dello Stato nei poteri e negli elementi di legittimità della Polizia locale;

– tutte le attività derivanti da patti, accordi, convenzioni ecc. in materia di sicu-rezza urbana, nelle quali siano coinvolti operatori e forze di polizia locale, compor-tano una dipendenza dei medesimi dall’Autorità di Pubblica Sicurezza (il Prefetto);

– la ribadita previsione di un intervento prefettizio per l’attribuzione della qua-lifica di agente di pubblica sicurezza cancella uno dei cardini della riforma: l’unita-rietà della funzione di polizia locale; l’unitarietà dei poteri attribuiti agli operatori di polizia locale per lo svolgimento della funzione di polizia locale; l’attribuzione di tali poteri da parte del Sindaco. Si torna ad un ibrido che non ha nessuna ragione di sostanza;

– l’articolazione dei profili professionali è devastante. Laddove logica ed esigenze di efficienza vorrebbero due livelli di responsabilità (addetti al controllo/coordina-mento e operatori) la bozza Maroni prevede invece una pletora di figure, alcune riconducibili ai vecchi specialisti di vigilanza;

– il testo del Governo prevede l’ipotesi di un’area esclusiva di contrattazione per il personale di polizia locale, analoga a quella dei vigili del fuoco e della carriera dirigenziale penitenziaria. Laddove ciò fosse confermato, negli enti locali una parte dei lavoratori avrà un contratto diverso. Questo aspetto rappresenta una evidente distorsione, in quanto crea una separazione tra gli operatori di polizia locale e gli altri operatori del comune (mentre le forze di Polizia locale sono e devono sentirsi parte integrante del Comune e devono essere in grado di attivare tutte le risorse proprie del Comune) e apre problemi di difficile gestione del personale da parte dei comuni.

Assistiamo quindi ad un tentativo di ridimensionare il ruolo della Polizia locale e di ricondurne l’operatività e la legittimazione nell’ambito della Prefettura, in una chiave nuovamente centralistica che non è assolutamente possibile condividere.

4. La necessità di privilegiare politiche integrate di lungo periodo

La criminalità e il disordine urbano sono fenomeni che coinvolgono problemi com-plessi, affrontare seriamente i quali comporta l’adozione di politiche integrate e di lungo respiro, che non siano destinate a combattere esclusivamente gli effetti della criminalità, ma anche le sue cause profonde, quali l’esclusione sociale, le discrimina-zioni in materia di diritti, le disuguaglianze sociali. È da respingere quindi ogni ap-proccio alla criminalità che sia ispirato soltanto a semplificazioni demagogiche, che enfatizzi la paura della criminalità, che offra risposte solo simboliche o virtuali, che alteri pesantemente la struttura del nostro codice penale nonché il profilo e l’equili-brio delle competenze istituzionali.

Le parole chiave sono: “integrazione”, “centralità delle città”, “prevenzione socia-le” e “contrattualizzazione” delle politiche di sicurezza.

– Integrazione tra politiche urbanistiche, politiche di animazione sociale e poli-tiche di controllo.

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Roberto Reggi

– Centralità delle città perché, almeno in Italia, sono il luogo elettivo dell’insicu-rezza e dell’integrazione delle politiche.

– Prevenzione sociale quale presupposto chiave per la riduzione del disordine urbano e dei tassi di criminalità e di vittimizzazione. Le strategie della prevenzione si fondano in larga misura sulla tempestiva individuazione delle esigenze della col-lettività e sulla individuazione dei problemi che esse avvertono come prioritari per la loro sicurezza.

– Contrattualizzazione (tra Regioni e Città, tra Regioni e Stato, tra sindaci e au-torità provinciali di pubblica sicurezza, tra polizie nazionali e polizie locali), perché è oggi l’unico strumento in grado di dare una qualche certezza all’integrazione delle politiche e di razionalizzare la conflittualità latente tra locale, regionale e nazionale.

Politiche efficaci possono scaturire solamente da processi di collaborazione in cui siano coinvolti tutti gli attori sulla scena, in modo che tutti possano concorrere ad individuare gli obiettivi, scegliere gli strumenti, programmare le iniziative, verificare i risultati. Si tratta di una collaborazione davvero indispensabile per costruire quel si-stema di “sicurezza partecipata, integrata e globale”, un sistema che vive appunto sulla piena intesa tra poteri centrali e autonomie locali, tra forze dell’ordine e polizie locali.

Se mettiamo a questo punto insieme: – una nuova e diversa alleanza tra città, regioni e province impostata su un nuovo

modello di relazioni;– una nuova distribuzione istituzionale dei poteri tra centro e periferia;– il sostegno, la promozione e la valorizzazione degli operatori di polizia locale;

allora davvero è possibile che in Italia si vada verso il riconoscimento per via legisla-tiva di una nuova e più ampia dimensione della sicurezza (non più riconducibile alla sola tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica in senso stretto) e alla conseguente redistribuzione dei poteri di iniziativa e coordinamento a favore dei governi locali e regionali.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

L’esperienza del Comune di Ravenna

Gianluca Dradi

Gli amministratori comunali di questo territorio sono ben consapevoli che la “que-stione sicurezza” è complessa e multifattoriale, dipendendo certo dall’entità dei feno-meni criminosi, ma anche da vari altri aspetti: ad esempio dai fenomeni di disordine fisico o sociale (atti di vandalismo, degrado del territorio, schiamazzi, accattonaggio molesto, accampamenti abusivi), che non costituiscono necessariamente illeciti pe-nali, ma forniscono ai cittadini l’immagine di un indebolimento dell’ordine e della capacità di controllo istituzionale.

Il senso di insicurezza dipende anche da come vengono percepiti dai cittadini tali fenomeni; e la maggiore o minore percezione di insicurezza è legata al senso di maggiore o minore fiducia nelle istituzioni ed alla solidità e ricchezza dei legami comunitari.

Infine, la “questione sicurezza” dipende anche da come vengono vissuti i cam-biamenti nella morfologia sociale e demografica delle nostre città: è emblematico il caso di Galeata, piccola cittadina della Romagna che nelle elezioni del 2008 ha visto la Lega Nord passare dal 4% ad oltre il 15% dei voti, in conseguenza della notevole presenza di immigrati, pari a circa il 20% della popolazione, attirati dalla domanda di lavoro delle aziende avicole presenti in zona.

L’anno scorso ho assistito alla trasmissione Anno Zero, nella quale venivano in-tervistati diversi cittadini di Galeata: tutti molto contrariati dalla presenza degli im-migrati di colore nelle piazze e nelle vie cittadine, tutti molto critici con il Sindaco perché aveva concesso agli immigrati l’uso della palestra per le preghiere del Rama-dan. Ma nessuno, a specifica domanda, aveva avuto scontri con gli immigrati né era a conoscenza di reati commessi dagli stessi.

Evidentemente, però, vivevano un sentimento di espropriazione e di disorienta-mento nel vedere la loro cittadina “occupata” da tante persone estranee alle tradizioni culturali del posto. E questo sentimento ha generato paura, frustrazione, chiusura e consenso elettorale alla destra xenofoba.

Allora, proprio perché noi amministratori siamo consapevoli che la questione è multifattoriale, siamo anche attenti a realizzare la necessaria integrazione tra stru-menti ed attori.

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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Per la componente del “fenomeno sicurezza” che trae origine dallo culturale, qui mettiamo in campo politiche di inclusione e mediazione sociale, o interventi di contrasto alla solitudine degli anziani; certamente non ci passa per la mente di realizzare operazioni del tipo di quella denominata “white Christmas”, recentemente annunciata da un piccolo comune del bresciano.

Per la componente che trae origine da una sovrapercezione dell’insicurezza, ab-biamo cercato risposta attraverso l’assistenza alle vittime di reati (sportello vittime), la diffusione della videosorveglianza, una maggiore e più visibile presenza sul territo-rio degli agenti della polizia municipale.

L’insicurezza originata dal disordine fisico o sociale si cerca di contrastarla con una costante manutenzione degli spazi pubblici, con la riqualificazione urbana e l’animazione di alcune zone (ad esempio l’area dei giardini Speyer), nonché attraver-so un’attività di controllo delle regole imposte dalle ordinanze, di cui dirò fra poco.

Infine, per la componente dovuta all’andamento dei fenomeni criminosi, la rispo-sta è sopratutto quella di potenziare il controllo del territorio attraverso un maggior coordinamento tra tutte le forze dell’ordine, nonché attraverso il rafforzamento della polizia municipale: al riguardo posso dire che stiamo realizzando una riorganizzazio-ne del corpo della PM ed un piano di potenziamento della pianta organica.

Come ho avuto modo di dire anche in altri contesti, la sicurezza in questo comu-ne non la fa l’Assessore alla sicurezza, ma questi assieme all’Assessore ai servizi sociali, alle politiche giovanili, al volontariato, allo sport e persino all’urbanistica.

Questa impostazione la adottiamo ogni volta che si affronta un problema speci-fico: se si pone un problema di conflitto tra residenti e giovani, ad esempio per gli schiamazzi notturni o gli atti di vandalismo, la risposta istituzionale è quella da un lato di promuovere occasioni positive di aggregazione (spazi per attività artistiche, centri di aggregazione giovanile, promozione del volontariato, ad esempio attraverso la “Cartagiovani” che premia i ragazzi che si impegnano in un progetto di cittadinan-za attiva), dall’altro di contrastare gli eccessi e la cultura dello sballo.

Se il problema, sempre per esemplificare, è il conflitto legato ai luoghi di aggre-gazione degli stranieri, la risposta è nel binomio “accoglienza e legalità”, che in con-creto vuol dire impegno per servizi dedicati (sportello immigrati), rispetto del diritto all’identità religiosa (disponibilità ad autorizzare la creazione di una moschea), valo-rizzazione dei diritti di cittadinanza (istituzione dei consiglieri aggiunti nelle Circo-scrizioni e in Consiglio comunale), ma anche rispetto delle regole (ad esempio degli orari di chiusura degli empori) o interventi volti a contenere forme di aggregazione molesta (mediazione di comunità, ordinanze restrittive di attività).

Con queste esemplificazioni ho introdotto il tema del potere di ordinanza. Sono dell’idea che esso sia uno strumento utile, che si affianca alle altre compe-

tenze istituzionali in capo ai sindaci.Al di là della problematica relativa all’inquadramento dei poteri attributi al sin-

daco in veste di ufficiale di governo anziché di rappresentante della comunità locale, che appassiona il mondo accademico, di fatto l’attribuzione di questi nuovi poteri corrisponde ad una richiesta di sicurezza diffusa e partecipata avanzata da diversi anni dal sistema delle autonomie locali.

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Gianluca Dradi

Come giustamente osservato stamani, la ragione che sta alla base della nuova formulazione dell’art. 54 del TUEL è quella di recuperare uno spazio politico locale in tema di sicurezza.

Le ordinanze sono strumenti flessibili, adattabili a circostanze diverse e particola-ri, tendenzialmente temporanee, perché, anche se possono essere non contingibili ed urgenti, il presupposto legittimante del potere resta pur sempre quello dell’esistenza di “gravi pericoli” per la sicurezza, al venir meno dei quali, pertanto, l’ordinanza non ha più ragion d’essere.

Infine il tipo di sanzione, pecuniaria, che le caratterizza è proporzionato al tipo di “illeciti morbidi” che mira a colpire: comportamenti di rottura della civile conviven-za, fenomeni non criminali ma che costituiscono possibili precursori di illeciti penali.

L’ultimo aspetto da affrontare è quello del coordinamento interistituzionale. Come dicevo prima, il nuovo potere d’ordinanza rappresenta, nei fatti, il tenden-

ziale superamento della verticalità gerarchica in materia di sicurezza, introducendo un principio di orizzontalità cooperativa tra Sindaco e Prefetto.

Come noto, questa cooperazione trova nell’obbligo di preventiva informazione il processo realizzativo normativamente individuato.

A livello locale l’esperienza è positiva sia perché abbiamo incontrato in questi due anni prefetti dotati di grande cultura istituzionale sia perché noi abbiamo interpreta-to quella comunicazione preventiva come un’esigenza di effettiva concertazione. Per tale ragione le bozze di ordinanza sono state sempre inviate con sufficiente anticipo e sono sempre stati accolti i suggerimenti provenienti dall’Ufficio territoriale di go-verno.

Sono però anche convinto che, nonostante la positiva esperienza locale, sia neces-sario superare questa fase di coordinamento lasciata alla buona volontà ed al buon senso delle persone che, volta a volta, ricoprono determinati ruoli.

Si sente il bisogno di un intervento normativo più preciso e puntuale nel disci-plinare questa concertazione e sopratutto si avverte sul territorio la necessità di una maggiore integrazione operativa con le altre forze dell’ordine.

Oggi questa forma di integrazione è il frutto di una concessione pattizia o della buona volontà dei comandanti delle varie forze, che decidono di scambiarsi alcune informazioni, o, ancora, viene disposta tramite il potere “gerarchico” del Questore.

Ma l’integrazione, per essere veramente tale, deve essere sistematica e bilaterale: occorrono interconnessione tra le diverse sale operative, momenti di formazione pro-fessionale congiunta, accesso (almeno parziale) alla banca dati SDI, rispetto alla qua-le oggi la polizia municipale non ha né facoltà di accesso né potere di alimentazione.

Questo è uno sviluppo normativo auspicabile, anche se attualmente sembra pre-valerne uno di tipo centralistico ed emergenziale (militari in città, reato di clandesti-nità, ronde) che non coglie la complessità del tema, preferendo risposte propagan-distiche alla ricerca di soluzioni cooperative ai problemi legati alla convivenza nelle nostre città.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

L’esperienza della Provincia di Parma

Gabriele Ferrari

Intendere la sicurezza semplicemente come “ordine pubblico” significa incorrere nel rischio, dal mio punto di vista, di affrontare un problema dalla fine e non dall’inizio.

La sicurezza deve essere inserita nel concetto più ampio delle tutele per il citta-dino di cui l’ordine pubblico è parte importante ma non la completa estensione. La logica praticata dal governo nazionale, ad esempio, di militarizzare le strade, fatte presidiare da personale dell’esercito addestrato e pagato per ben altre funzioni che non sono la tutela e la salvaguardia dell’ordine pubblico, contribuisce a rafforzare un concetto errato senza per altro garantire maggior sicurezza.

Tutto ciò premesso dobbiamo quindi chiederci se esista e quale possa essere un valido modello di comunità sicura.

La risposta più immediata può venire da esperienze già praticate ad esempio nei paesi del nord Europa, dove raramente si incontrano poliziotti per strada, ma, nel momento in cui il cittadino commette anche una semplice infrazione, come getta-re una carta per strada, immediatamente e tempestivamente interviene un tutore dell’ordine per sanzionare l’atto d’inciviltà.

Comunità sicura non è quindi quella dove si fa grande sfoggio di strumenti di repressione (se fosse vero quest’assunto i paesi del sud del mondo, dove in ogni ae-roporto e angolo di strada ci si confronta sistematicamente con armi di vario genere, sarebbero esempio per tutte le comunità), ma quella dove l’assunzione collettiva di responsabilità e la condivisione di valori comuni porta ciascun individuo a svolgere un ruolo forte di cittadinanza attiva.

Realisticamente un corretto esercizio delle competenze e un forte condiviso co-ordinamento sono la chiave di volta in tema di sicurezza per dare maggior qualità e garantire un’efficienza adeguata.

Il ruolo del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal Prefetto e di cui fanno parte oltre al Questore, il Comandante provinciale dei carabinieri, il Comandante della guardia di finanza, il Presidente della provincia e il Sindaco del comune capoluogo, – che già in questi primi anni di funzionamento ha dato buoni risultati –, può essere ulteriormente valorizzato con l’affiancamento di un

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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gruppo tecnico, coordinato da un delegato del prefetto, al quale oltre ai delegati di questore, comandante dei carabinieri e comandante della finanza partecipino il co-mandante della polizia provinciale e il comandante della polizia della città capoluo-go. Una buona funzionalità dell’“organo politico”, dell’“organo tecnico” è in grado di avere un monitoraggio costante e condiviso del territorio, delle azioni intraprese e ovviamente delle criticità da affrontare.

Cito infine un’esperienza vissuta nel mio territorio, Parma, dove nel 2002 è stato costituito il primo centro unificato d’Italia di Protezione Civile, portando, in un’uni-ca sede, gli assessorati comunali e provinciali di genere, d’intesa con la Regione Emilia-Romagna, e allocando in esso il coordinamento delle associazioni di volonta-riato della protezione civile. Ha preso così corpo e vita la “cittadella della sicurezza” portando nella stessa struttura anche la sede della polizia municipale, della polizia provinciale e del 118 “Parma Soccorso”.

Il progetto finito prevede di avere una sola sala operativa, facente capo a un unico centralino che risponda a un unico numero di emergenza. Questo permetterebbe di avere una copertura totale del comparto sicurezza 24 ore su 24 e per 365 giorni all’anno su tutto il territorio senza incorrere in disguidi.

Avere un unico centralino che smisti le richieste in base alle competenze, permet-terebbe di ottimizzare il servizio sfruttando al meglio le risorse esistenti. Sarebbe un intervento a costo zero volto a migliorare in efficienza e qualità le azioni di salvaguar-dia, di tutela e sicurezza della vita delle persone e delle cose.

Senza pensare poi che la costituzione di quest’organo unificato rientrerebbe pie-namente nel progetto portato avanti negli ultimi anni dagli enti locali, dove spargen-do telecamere, si è cercato di rimediare questa esigenza di maggiore sicurezza.

Le telecamere, strumento utilissimo, diventano però inutile spesa pubblica laddo-ve non vi sia poi chi le controlla e le monitorizza costantemente.

Si parla quindi di creare un gruppo tecnico facente capo al Prefetto che vede nella polizia provinciale un ottimo coordinatore di tutte le forze di polizia (e non solo) di cui i territori dispongono già.

Infine, nel miglioramento della funzionalità delle cose, non si può non parlare di attività formativa integrata. Non più formazione a pioggia per sedi separate, ma mirata e nel pieno rispetto delle competenze di ciascuno, creando così competenze sempre più forti e adeguate ma che sappiano rispondere e agire nel rispetto delle competenze altrui.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

L’indagine di Anci e Fondazione Cittalia del 2008/2009

Moira Rotondo

Mi permetto di prendere la parola in un consesso di accreditati giuristi come quello odierno in quanto indirettamente tirata in causa dalla citazione della recente pubbli-cazione ANCI dal titolo “Oltre le ordinanze. I Sindaci e la sicurezza urbana”.

Ritrovo con piacere alcuni degli studiosi della materia – tra cui Tommaso Giup-poni e Luca Mezzetti – con cui ho condiviso almeno un paio di audizioni parlamen-tari e mi scuso con anticipo se si tratterà di un intervento po’ scoordinato ma vorrei innanzitutto illustrare la genesi e le finalità del lavoro fatto sulle ordinanze sindacali e quindi riprendere alcuni dei punti trattati dai relatori che mi hanno preceduto.

La citata pubblicazione è il frutto di un lungo lavoro di indagine ed analisi pro-mosso dall’ANCI in materia di sicurezza urbana. All’indomani del varo della legge 125/2008, è stata avviata una ricognizione sulle ordinanze emesse dai Sindaci sul tema e si è dato vita ad una banca dati che oggi consente di monitorare l’utilizzo dei nuovi poteri attribuiti ai Sindaci su scala nazionale. Al contempo, è stata effettuata un’indagine presso i Comuni italiani per verificare quali fossero gli interventi che i Sindaci consideravano prioritariamente necessari per rafforzare la sicurezza sul terri-torio e quali gli strumenti di intervento giudicati più efficaci a questo scopo.

È stata inoltre realizzata un’indagine a campione che, questa volta, ha interessato i residenti delle città metropolitane, andando ad analizzare la percezione dell’insi-curezza urbana e il suo legame con gli spazi di vita delle città. La stessa indagine ha consentito di raccogliere il punto di vista dei cittadini sulle strategie di intervento da mettere in campo e sul quadro delle responsabilità degli attori istituzionali e dei cittadini stessi nei propri contesti di vita.

Il presupposto dal quale si è partiti è che, in un processo per certi versi inedito e ancora incompiuto di ridefinizione di poteri, relazioni e responsabilità, non si possa prescindere dalla conoscenza dei bisogni effettivi del territorio.

Grazie all’esito delle indagini condotte è stato possibile identificare gli interventi di promozione della sicurezza urbana che gli amministratori locali ritengono priori-tari, oltre che mettere in evidenza ombre e luci del nuovo strumento delle ordinanze sindacali.

Politiche della sicurezza e autonomie locali

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Non intendo dilungarmi sull’articolazione della banca dati ma solo darvi conto di alcuni dei risultati emersi.

Il monitoraggio delle ordinanze è stato avviato nel mese di agosto 2008 e ne sono state raccolte poco meno di 800, emesse in applicazione della legge 125/2008 e del successivo decreto ministeriale. Oltre la metà dei provvedimenti è stata emessa nel secondo semestre 2008, in particolare tra luglio e settembre si è concentrato il mag-gior numero di provvedimenti (circa il 43% del totale), dopodiché il ritmo è stato piuttosto intenso fino a novembre dello stesso anno, per poi rallentare fino a maggio 2009, quando è tornato ad aumentare fino a luglio 2009.

La percentuale di Comuni che hanno adottato almeno un’ordinanza è piuttosto variabile a seconda della classe demografica. Ben 11 dei 12 Comuni con popola-zione superiore ai 250.000 abitanti, pari al 92% del totale, hanno adottato almeno un’ordinanza mentre la percentuale decresce al diminuire della classe dimensionale: dall’84% dei Comuni con popolazione tra 100.000 e 250.000 al 9% dei Comuni con popolazione compresa tra 5.000 e 15.000 abitanti. Solo l’1,4% dei Sindaci di piccoli Comuni è ricorso a questo strumento. Il dato è quindi lampante: nelle grandi città il problema è maggiormente avvertito.

Oltre i due terzi delle ordinanze sono state adottate in Comuni del Nord (il 25% in quelli del Nord-Est, il 44% del Nord-Ovest), mentre solo il 12% in quelli del Sud. Chiudono il Centro con l’11% e le Isole con l’8%.

La Lombardia è la Regione in cui il maggior numero di amministrazioni comuna-li (127) ha emesso almeno un’ordinanza, per un totale di 237 disposizioni sindacali.

Molte delle ordinanze analizzate disciplinano più ambiti di intervento, così come identificati dal decreto ministeriale.

Al di là di alcune limitate iniziative piuttosto eccentriche, riportate anche con una certa risonanza dagli organi d’informazione, si tratta per lo più di interventi volti a contrastare il degrado e il disordine urbano e a migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale.

Il tema maggiormente disciplinato è il consumo e la somministrazione di bevan-de alcoliche (13,6%) spesso con l’introduzione di un divieto nei confronti dei minori di sedici anni, oppure oltre un certo orario o limitatamente all’utilizzo di bottiglie e/o bicchieri di vetro che rischiano di essere successivamente abbandonati nelle vie e nelle piazze cittadine.

Segue il tema della prostituzione (13% degli ambiti disciplinati). Si tratta spesso di interventi volti a sanzionare non tanto la contrattazione di prestazioni sessuali a pagamento, attualmente non prevista come reato dall’ordinamento italiano, quanto piuttosto le attività connesse alla stessa: l’intralcio alla circolazione veicolare urbana o comportamenti e/o abbigliamento che manifestiano l’intenzione di adescamento. L’ordinanza è volta a contrastare anche l’insicurezza, in particolare di donne e bam-bini, che si trovano a transitare nelle zone interessate dal fenomeno, poiché limita la fruibilità del territorio comunale.

Il 9,4% dei provvedimenti, invece, prevede interventi volti a contrastare fenome-ni di vandalismo e di danneggiamento del patrimonio pubblico o privato: si tratta,

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Moira Rotondo

cioè, di interventi di contrasto del degrado sociale e di scadimento della qualità ur-bana, che possono compromettere l’ordine pubblico, la quiete, la sicurezza e l’igiene urbana.

Seguono l’abbandono di rifiuti e, soprattutto, l’accattonaggio molesto (8,4%), in quanto, così motivano le ordinanze, analogamente alla prostituzione limita e “turba” il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione a cui sono destinati o, ancora, rende pericolosa la circolazione su strada.

Si segnalano, poi, le cosiddette ordinanze “anti-movida”, volte ad impedire schia-mazzi nelle ore notturne che compromettono in particolare la qualità della vita dei residenti.

Destinataria dei contenuti delle ordinanze sindacali è generalmente (68%) la to-talità della popolazione, negli altri casi si tratta di esercenti di attività commerciali, centri ricreativi e culturali.

La quasi totalità delle ordinanze non fissa un termine di scadenza esplicito relati-vamente ai contenuti delle prescrizioni, negli altri casi la durata dei divieti si attesta sui tre mesi.

L’esito del monitoraggio sulle ordinanze dimostra dunque, nei fatti, ciò che era preventivamente emerso dalle rilevazioni campionarie effettuate dall’ANCI in colla-borazione con la Fondazione Cittalia, nelle quali tra i problemi più ricorrenti nelle città italiane erano stati segnalati, in ordine decrescente:

– l’abuso di alcolici, schiamazzi e comportamenti molesti;– il vandalismo, i writers, i danneggiamenti al patrimonio pubblico e privato,– il degrado urbano di specifici luoghi della città (quartieri, caseggiati, stazioni,

piazze, parchi pubblici, edifici abbandonati); – il consumo e lo spaccio di sostanze stupefacenti in aree pubbliche;– l’abusivismo commerciale e l’occupazione illecita di suolo pubblico;– la prostituzione in aree pubbliche;– il randagismo;– l’accattonaggio molesto;– il fenomeno del bullismo e delle bande giovanili.Sempre in base alle rilevazioni effettuate, secondo i Sindaci occorre promuovere

la sicurezza urbana attraverso: – il sostegno alla polizia locale e agli interventi di ordine pubblico;– la riqualificazione urbana e contrasto al degrado;– il sostegno alle vittime;– la prevenzione sociale, l’educazione la formazione civica.Al di là del mero dato statistico, ciò che mi preme sottolineare in questo conte-

sto è che la sicurezza urbana non è un’entità astratta né tanto meno lo è la sicurezza percepita.

In precedenza è stato affermato che la sicurezza percepita non esiste ma a mio avviso ciò non corrisponde assolutamente alla realtà.

Ciascuno di noi ha una propria percezione della sicurezza che è funzione dell’am-biente sociale e culturale in cui vive ma anche dell’età e del genere. Le donne av-

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vertono certamente in maniera più acuta la variazione percettiva della sicurezza. A titolo esemplificativo, vi riporto quanto mi è accaduto ieri sera arrivando a Ravenna intorno alle 22: scendendo dal treno mi sono trovata in una stazione ferroviaria il-luminata a giorno e ordinatissima, nel piazzale antistante, avvolto dalla nebbia, non ci si vedeva a un palmo ed è stato il tassista fermo al posteggio a farmi luce con i fari e ad accompagnarmi in albergo, che poi ho scoperto essere solo a poche decine di metri di distanza. È evidente quindi che – anche se non fossi nata e cresciuta in una grande città come Roma – difficilmente avrei provato la sensazione di essere arrivata in un luogo insicuro e di questo rendo merito all’Assessore qui presente.

Dall’indagine condotta dalla Fondazione Cittalia in collaborazione con SWG, sui residenti di 11 aree metropolitane è emerso che basterebbe il potenziamento dell’illuminazione di strade e parcheggi per far sentire i cittadini più sicuri. E argina-re il cosiddetto “disordine urbano” anche attraverso l’adozione di ordinanze ad hoc rappresenta proprio uno dei compiti che gli amministrati affidano agli amministra-tori. Mentre, infatti, per quanto riguarda la prevenzione e la repressione dei reati, le responsabilità prevalenti di intervento sono attribuite allo Stato e alle forze di polizia, nelle “politiche di rassicurazione” giocano un ruolo determinante le amministrazioni locali.

Concludo pertanto rispondendo ad una delle domande ricorrenti quest’oggi tra i relatori presenti: “C’era bisogno di questa evoluzione normativa e del conferimento ai Sindaci di questo nuovo potere?”. Sì. A chiederlo in maniera compatta era un fronte trasversale in cui confluivano centro destra e centro sinistra. Naturalmente le differenziazioni sono emerse nelle modalità con cui vi si è dato seguito.

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La gestione delle manifestazioni sportive in un sistema di sicurezza partecipata

Nicola Gallo e Roberto Massucci

Lo svolgimento delle manifestazioni sportive è regolato da diverse disposizioni nor-mative riviste e arricchite più volte dal legislatore negli ultimi anni, nel tentativo di frenare l’escalation di fenomenologie violente che hanno caratterizzato, in particolar modo, gli incontri calcistici. Proprio al mondo del calcio infatti si deve l’evoluzione normativa del settore, più volte stimolata da gravi episodi di violenza, che mette in luce un’attenzione particolare ed una ricerca continua verso un approccio interdisci-plinare e partecipato alla gestione dei servizi di sicurezza.

Il gioco del calcio, del resto, non si esaurisce con lo svolgimento della gara tra due compagini. È caratterizzato, spesso, da una forte contrapposizione che trascende lo spirito sportivo e rappresenta il vero “terreno di prova” delle nuove strategie in tema di sicurezza perché presenta una serie di sfaccettature nelle quali entrano in gioco istanze sociali e individuali, bisogni di appartenenza e di identità dei gruppi, interessi economici delle società, esigenze di affiliazione e di valorizzazione, rivendicazioni politiche e ideologiche, espressioni individuali e collettive. Il controllo di tutto ciò richiede un costante impegno delle Istituzioni che sono chiamate a soddisfare una domanda sempre più qualificata di sicurezza, possibilmente sganciata da rimedi e ri-sposte estemporanee destinate a calmare l’opinione pubblica profondamente turbata dalle scene di violenza.

Dopo anni di specifico impegno nella lotta al fenomeno della violenza nel calcio è maturata la prospettiva da cui valutare l’efficacia delle strategie di sicurezza in questo settore, con l’obiettivo non solo di debellare la violenza negli stadi, ma più in genera-le di garantire sicurezza, accoglienza e partecipazione a tutti gli appassionati sportivi ed a tutto il mondo giovanile che identifica nella “squadra del cuore” un forte valore di riferimento.

Non a caso, in questi anni, è stato intrapreso un percorso virtuoso che colloca oggi – come testimoniano i dati in maniera oggettiva – al minimo storico i depreca-bili episodi di violenza in occasione di competizioni calcistiche.

Significativa la costante diminuzione del numero degli incontri con feriti (da 209 di cinque anni fa ai 74 dello scorso campionato) e dei feriti tra i tifosi (da 265 a

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77). È nettamente diminuito anche il numero dei feriti tra le Forze dell’Ordine, ma soprattutto la gravità delle lesioni riportate da poliziotti e carabinieri, vere e proprie mutilazioni in passato ed oggi, nella quasi totalità, mere contusioni.

Negli stadi è sempre meno visibile la polizia ed, in particolare, sono meno presen-ti quei reparti delle Forze dell’Ordine noti per la loro funzione “antisommossa”, il cui impiego è stato ridotto, negli ultimi due anni, di oltre 30.000 unità.

Ma non si può dimenticare che qualche anno fa le Istituzioni governative e spor-tive hanno dovuto prendere atto di una situazione ormai non più tollerabile. Un bollettino che, fino al 2007, contava 1.114 incontri con feriti, 3.831 feriti tra i poli-ziotti, alcuni di questi gravi, 1.557 feriti tra i tifosi, 1.726 persone arrestate e 6.101 denunciati. Dal 1979 (anno in cui morì il tifoso laziale Vincenzo Paparelli) ad oggi si contano ventuno morti.

Di fronte a questa situazione di vera e propria emergenza, per le strategie legate alla sicurezza degli eventi sportivi si è imboccata una strada più rigorosa spostando l’attenzione da una prospettiva di tipo emergenziale e repressiva, che oltre il bre-ve termine della sua applicazione può risultare inutile e persino vessatoria, ad una prospettiva di pianificazione di regole e norme in ordine agli aspetti strutturali ed organizzativi.

Una strategia tesa a raccogliere il più ampio consenso da parte di tutti gli attori non istituzionali, che ha privilegiato la riflessione comune e la condivisione degli in-terventi, al fine di ridisegnare gli spazi all’interno degli stadi, modificarne gli equilibri e restituirli, migliorandoli, ai legittimi proprietari: i veri tifosi e le famiglie.

Le linee di intervento adottate dal legislatore, nate anche in esito all’osservazio-ne sociologica dei gruppi ultrà, sono state elaborate tenendo conto delle dinamiche comportamentali delle tifoserie organizzate. I modelli di comportamento osservati nei settori più “caldi” degli stadi hanno evidenziato come i processi di de-indivi-dualizzazione siano usati quali criteri di funzionamento del gruppo, nel cui ambito insistono pressioni affinché l’individuo aderisca al modello di comportamento “im-posto” senza identificare le responsabilità che da tale azione derivano.

Queste dinamiche che determinano l’affermazione del principio di aggregazio-ne e la contestuale creazione/esistenza di un nemico (identificato frequentemente nelle Forze di polizia) riguardano principalmente le fasce giovanili. L’esame dei dati testimonia, infatti, che una percentuale rilevante degli arrestati e dei denunciati è costituita da giovani, spesso incoscienti interpreti di comportamenti violenti, non necessariamente appartenenti a realtà sociali svantaggiate o portatori di situazioni di disagio.

L’analisi del fenomeno trova spiegazioni e conferma nel percorso normativo di questi anni che, sebbene abbia tenuto presente l’importanza delle misure repressive (purché affermate in un sistema che garantisca la certezza della pena e, quindi, la “paura delle conseguenze”) ha privilegiato scelte di natura organizzativa che chia-mano alla condivisione delle responsabilità – la più ampia possibile – da parte delle Istituzioni sportive che si stanno sempre di più muovendo al fianco di quelle gover-native.

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Nicola Gallo e Roberto Masucci

Ecco perché, in questi anni, le norme – ispirate anche dalle sollecitazioni dell’Unione Europea, del Consiglio d’Europa e delle più importanti Istituzioni spor-tive che spesso hanno trovato nell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive un qualificato interlocutore – sono state concepite allo scopo di conferire alla sicu-rezza negli stadi il rango di attività professionalmente qualificata che vede coesistere e collaborare in maniera armonica le Autorità di pubblica sicurezza con i vertici delle società, le forze di polizia con gli steward, supportati da tecnologie all’avanguardia per il controllo degli spettatori.

Il processo di revisione strutturale e organizzativa della gestione degli eventi spor-tivi ha permesso di avere stadi più sicuri, dove è raro vedere poliziotti schierati a bordo campo o sugli spalti, sostituiti dagli steward che dal 1° marzo 2007 stanno ope-rando negli impianti italiani con risultati apprezzabili, sebbene ancora da migliorare. E questo anche grazie al prezioso contributo delle società sportive e delle rispettive Leghe che, con apprezzabile sensibilità, hanno condiviso ed attuato le nuove strate-gie e sposato l’esigenza di una governance ispirata ai principi della “inclusività” delle responsabilità e del rispetto delle regole.

Infatti, se la riconsiderazione del ruolo delle Forze di Polizia è stato uno dei primi versanti sui quali si è lavorato, parallelamente si è avviato un coinvolgimento maggio-re delle società sportive attraverso la progressiva sistemazione e messa a norma degli impianti e l’impiego degli steward, quali figure di sicurezza sussidiaria.

Nella realizzazione del nuovo modulo organizzativo assume un ruolo centrale l’azione di coordinamento delle strategie di intervento e soluzione delle problemati-che, sia a livello centrale sia a livello locale con un centro di comando deputato alla gestione sul posto.

Nel recente passato si cercava di evitare o contenere le azioni violente attraverso una consistente presenza delle forze di polizia, in un’ottica di controllo “diffuso” del territorio, con funzioni di prevenzione e di repressione, che di fatto portava ad una militarizzazione dell’area destinata allo spettacolo sportivo. Il nuovo corso, anche grazie ad una comparazione con altre realtà internazionali, ha dimostrato che garan-tire la sicurezza in occasione di eventi che richiamano una moltitudine di persone deve basarsi su idonee condizioni ambientali e strutturali, capaci di contenere al minimo l’impiego delle forze dell’ordine e di favorire progressivamente l’azione pro-fessionale delle nuove figure sussidiarie di sicurezza.

Più nello specifico, le linee guida dell’attuale gestione delle manifestazioni sporti-ve possono essere sintetizzate in alcuni concetti chiave:

– progettazione, messa a norma e cura degli impianti e del territorio circostante, che costituiscono pre-condizioni di sicurezza ambientali e strutturali necessarie per creare spazi vivibili, gradevoli e difendibili;

– razionale impiego delle forze di Polizia territoriali (destinate, con l’introduzione degli steward, alle verifiche del sistema di sicurezza adottato dalle società organizzatri-ci) e dei reparti inquadrati (da impiegare per la loro specifica preparazione solamente in situazioni di criticità). In tale sistema sono individuati tre momenti operativi: i) in occasione della partenza dei tifosi dalle rispettive città, lungo gli itinerari e fino all’ar-

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rivo allo stadio; ii) all’esterno ed all’interno dell’impianto sportivo prima e durante l’incontro; iii) in occasione del deflusso al termine della gara ed al rientro dei tifosi verso i luoghi di provenienza;

– monitoraggio, canalizzazione e analisi centralizzata del flusso informativo da parte di un’unica “cabina di regia” che è presieduta, a livello nazionale, dal rappresen-tante dell’Ufficio Ordine pubblico del Ministero dell’interno con l’ausilio dell’Osser-vatorio nazionale sulle manifestazioni sportive, mentre, a livello provinciale, è rappre-sentata dal Questore in qualità di Autorità provinciale di pubblica sicurezza;

– coinvolgimento, attraverso l’assunzione di precise responsabilità, delle socie-tà organizzatrici dell’incontro che sono chiamate a garantire, tra l’altro, l’effettivo controllo dei biglietti, l’instradamento degli spettatori e il rispetto delle disposizioni contenute nel regolamento d’uso dell’impianto;

– partecipazione all’analisi e alla gestione preventive dell’evento di tutte le realtà interessate alla manifestazione (ovvero i rappresentanti delle forze di polizia; dei Vigili del fuoco; delle Polizie locali; del Servizio sanitario; delle società organizzatrici, degli enti pubblici territoriali; delle aziende dei servizi pubblici eventualmente interessati);

– sintesi formale della pianificazione operativa nell’ordinanza di servizio (ema-nata ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. 28 ottobre 1985, n. 782) da parte del Questore e diretta a tutte le Forze di Polizia (ed agli altri uffici, amministrazioni locali, enti coinvolti nella gestione della manifestazione), per il coordinamento e la conseguente organizzazione dei servizi. Il Questore, giova ribadirlo, ai sensi dell’art. 14 della legge 1 aprile 1981, n. 121, ha la direzione, la responsabilità ed il coordinamento a livello tecnico operativo dei servizi di ordine e di sicurezza pubblica e dell’impiego a tal fine della forza pubblica e delle altre forze eventualmente messe a sua disposizione;

– previsione di “tavoli tecnici” prima dello svolgimento della gara per la definizio-ne degli aspetti pratici connessi alla gestione dell’evento;

– attuazione operativa coordinata dei servizi di ordine pubblico, in linea con le previsioni dell’ordinanza del Questore, a cura del Dirigente del Servizio di ordine pubblico con l’ausilio del GOS – Gruppo Operativo Sicurezza (introdotto dall’art. 13 del D.M. del 6 giugno 2005).

Come si può notare anche dalla scansione temporale delle diverse fasi, il modulo organizzativo adottato si basa su di una visione organica dei servizi che vede la fun-zione pubblica, svolta dalle Forze di Polizia, integrata dall’attività di altri enti/società e di diverse figure professionali.

Tra le novità del nuovo impianto organizzativo assumono particolare importanza: – la creazione del GOS – Gruppo Operativo Sicurezza che rappresenta il centro

per la gestione della sicurezza della manifestazione ed opera permanentemente pres-so ogni impianto sportivo. È presieduto da un Funzionario di Polizia nominato dal Questore e ne fanno parte, nell’ottica di una gestione integrata e partecipata, i fun-zionari dei Vigili del fuoco, del Servizio sanitario, della Polizia municipale, il Delega-to per la sicurezza, il Responsabile del pronto intervento strutturale ed impiantistico. Il giorno della manifestazione ricomprende necessariamente al suo interno anche il Dirigente dei servizi di ordine pubblico (Dirigente o Funzionario della Polizia di

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Nicola Gallo e Roberto Masucci

Stato), indicato nominativamente nell’ordinanza di servizio del Questore. Il GOS coordina a livello interforze la sicurezza della manifestazione e vigila sull’attività svolta dagli steward, garantendo il mantenimento delle condizioni di funzionalità dell’impianto per gli aspetti di safety e di security (stabilisce gli orari di apertura dei cancelli, avuto riguardo ai tempi necessari per eseguire pre-filtraggi e filtraggi; fissa le frequenze dei controlli mediante metal detector; coordina gli interventi per la gestione della sicurezza; gestisce le emergenze);

– l’introduzione della figura di sicurezza sussidiaria dello steward specificamente tutelata dall’art. 6-quater, introdotto dalla legge n. 210 del 2005, col quale viene san-zionata la violenza o minaccia nei confronti degli addetti ai controlli dei luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive con le stesse pene previste per le fattispecie poste a tu-tela dei pubblici ufficiali. Gli steward sono impiegati dalle società organizzatrici sulla base di un piano approvato dal GOS, almeno tre giorni prima della gara (secondo un rapporto che fa riferimento agli spettatori effettivi o alla capienza dell’impianto e fatte salve diverse prescrizioni del Questore). La pianificazione delle attività degli steward è riservata al delegato alla sicurezza che ne garantisce la direzione ed il coor-dinamento operativo (individuando le figure del capo unità, del coordinatore e del responsabile di funzione). A loro competono le attività di bonifica delle strutture, del prefiltraggio e filtraggio e quelle svolte all’interno dell’impianto durante l’incontro ed in occasione del deflusso oltre al compito di far rispettare le regole contenute nel “Regolamento d’uso dell’impianto”.

Guardando al futuro si avverte l’esigenza di indirizzare le strategie verso nuove e più ambiziose prospettive che, dal presupposto dell’azione condivisa, sappiano intro-durre modelli organizzativi sempre più moderni in grado di creare le condizioni per l’individuazione del tifoso quale cliente privilegiato, destinatario di iniziative che ne affermino la centralità del ruolo nelle manifestazioni sportive.

Questo obiettivo segue necessariamente l’attuazione di progetti già avviati, come la “tessera del tifoso”, ed il continuo miglioramento delle condizioni strutturali degli impianti, anche attraverso la loro patrimonializzazione e identificazione con i club che li utilizzano.

In parallelo, si ritiene necessario uno sforzo innovativo ed ulteriore nella direzione dello studio e della ricerca che, attivando la collaborazione delle agenzie deputate alla formazione, come la scuola, e risorse specialistiche interne ed esterne al mondo dello sport, possa favorire l’adozione di politiche di prevenzione mirate. Tutto ciò anche attraverso studi sistematici in grado di fornire indicazioni più specifiche per approfondire il sapere di polizia e attivare strumenti d’informazione scientifici per la pianificazione di linee d’intervento sempre più appropriate e moderne.

Annali di Diritto costituzionale Anno III, n. 4

La sicurezza urbana: profili di coordinamento e di integrazione tra Stato e autonomie

Luciano Vandelli

1. Tematica dalle molteplici valenze, sfaccettature, implicazioni – anche e partico-larmente sul piano giuridico – la sicurezza ha trovato una schematica articolazione di competenze nella Carta costituzionale con la riforma del 2001; ove si delinea un riparto di funzioni che, pur riservando allo Stato il nucleo di attività essenzialmente riconducibile all’ambito dell’ordine pubblico, apre ad un riconoscimento di ruoli da parte delle autonomie, recependo le tendenze di una riflessione sviluppata negli ultimi decenni dalle scienze sociali e tenendo conto delle esperienze realizzate nelle concrete situazioni locali, anche in Italia.

In sintesi, il disegno costituzionale certamente si basa su una riserva alla legisla-zione dello Stato, in via esclusiva, della materia ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lett. h); ma inserendola in un contesto che lascia alle autonomie spazi di intervento tutt’altro che marginali.

La materia riservata alla competenza statale, e nella quale l’attribuzione in via esclu-siva consente dunque allo Stato di dettare una disciplina anche di dettaglio, si riferisce – secondo i chiarimenti forniti dalla giurisprudenza costituzionale – alla prevenzione dei reati ed al mantenimento dell’ordine pubblico (sent. n. 218 del 1988); ma non va trascurato che tra le competenze legislative – concorrenti o piene – delle regioni, sono numerose e rilevanti quelle che incidono variamente sulle condizioni e sul contesto in cui si sviluppano le insicurezze e gli stessi fenomeni criminali: dal governo del territo-rio alla tutela della salute (materie concorrenti ai sensi dell’art. 117, comma 3, in cui sono riservate al legislatore statale la determinazione dei soli principi fondamentali), o dalla polizia amministrativa locale ad ambiti quali, ad esempio, i servizi sociali (ambiti che, per non essere espressamente considerati nelle competenze statali, né in via esclu-siva né in via concorrente, rientrano nella competenza legislativa delle Regioni in base all’art. 117, comma 4, tranne la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che riguardano i diritti civili e sociali, che sono comunque riservati, in maniera uni-forme sull’intero territorio nazionale, allo Stato: art. 117, secondo comma, lett. m).

Del resto, la stessa Costituzione si presenta pienamente consapevole delle pe-culiari esigenze delle competenze concernenti la sicurezza; al punto da considerare

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specificamente la materia dell’ordine e della sicurezza come ambito in cui la legge statale è chiamata a disciplinare forme di coordinamento fra Stato e regioni (art. 118, comma 3).

Né va trascurato il fatto che in ogni caso l’allocazione delle funzioni ammini-strative deve articolarsi in base al principio di sussidiarietà, a partire dai comuni e proseguendo sino allo Stato, per assicurarne l’esercizio unitario (art. 118, comma 1), e che l’attività dei vari livelli territoriali deve comunque ispirarsi al principio di leale collaborazione (cfr. art. 120 Cost. in riferimento ai poteri sostitutivi, ma il principio ha, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale, una valenza generale).

2. Significativamente, del resto, già prima della modifica costituzionale il legislatore aveva sancito un dovere di collaborazione, da parte dello Stato, delle regioni, degli enti locali nell’ambito delle rispettive competenze, al perseguimento delle condizioni ottimali di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini.

Il dovere veniva stabilito esplicitamente, in particolare, in occasione dei trasfe-rimenti di risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti attribuiti dal decreto 112 del 1998 (DPCM 12 settembre 2000, art. 7); ove si prevedevano an-che specifici progetti di ammodernamento e potenziamento tecnico e logistico delle strutture e dei servizi di polizia amministrativa regionale e locale, nonché dei servizi di sicurezza e tutela sociale, e ulteriori forme di collaborazione per gli interventi di riduzione dei danni e per l’educazione alla convivenza nel rispetto della legalità.

A queste finalità erano volti, in particolare, accordi da promuovere in Conferenza unificata tra Governo, regioni, enti locali per lo svolgimento in forma coordinata delle attività di rispettiva competenza.

Nella realtà, in molte situazioni locali – particolarmente nelle grandi città – si sono realizzati patti che, dapprima sperimentalmente, quindi in forme sempre più definite e consolidate, hanno visto convergere competenze, personale, risorse statali, regionali e comunali nel condiviso obbiettivo di contrastare fenomeni di insicurezza, recuperare aree degradate, migliorare le condizioni di vita e la percezione della sicu-rezza da parte dei cittadini.

3. In questo contesto e con questi precedenti, si colloca il ruolo attribuito al sindaco dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (conv. in l. 24 luglio 2008, n. 125) e l’individuazione di un nuovo ambito materiale definito come “sicurezza urbana”.

Sostituendo integralmente l’art. 54 del testo unico, il decreto legge (art. 6) ha demandato al sindaco, quale ufficiale di governo, il compito di adottare, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, provvedimenti anche contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, disponendone la preventiva comunica-zione al prefetto, anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti neces-sari alla loro attuazione. Al prefetto stesso sono affidati compiti di coordinamento

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Luciano Vandelli

(particolarmente nel caso in cui i provvedimenti adottati dai sindaci comportino conseguenze sull’ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o li-mitrofi; caso in cui il prefetto indice un’apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e, qualora ritenuto opportu-no, soggetti pubblici e privati dell’ambito territoriale interessato dall’intervento), di ispezione (per accertare il regolare svolgimento delle funzioni esercitate dal sindaco come ufficiale di governo, nonché per l’acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale) e di sostituzione (in caso di inerzia del sindaco o del suo delegato nell’esercizio delle funzioni di ordinanza).

La definizione della “sicurezza urbana” – oltre che quella, in realtà meno inno-vativa e problematica, di “incolumità pubblica” – viene rinviata ad un decreto del Ministro dell’Interno, chiamato – oltre che ad adottare gli atti di indirizzo che si rivelino opportuni per l’esercizio da parte del sindaco delle funzioni di ufficiale di governo – a disciplinare l’ambito di applicazione delle ordinanze.

In concreto, il decreto adottato dal Ministro dell’Interno il 5 agosto 2008, dopo aver ribadito che la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza è riservata esclusi-vamente allo Stato, e dopo aver riferito la “incolumità pubblica” alla “integrità fisica della popolazione”, individua la “sicurezza urbana” come bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità dei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale.

La definizione è da leggere, a mio avviso, in relazione alle elaborazioni sviluppate dalle scienze sociali che da tempo, anche in ambito europeo, si occupano di questi temi, tendendo a distinguere questo ambito “dai concetti tradizionali di sicurezza ed ordine pubblico e intende evidenziare l’affermarsi di una sicurezza che non è più sol-tanto garanzia di un’assenza di minaccia, ma anche attività positiva di rafforzamento della percezione pubblica della sicurezza stessa (Zedner). Secondariamente, l’aggetti-vo “urbana” richiama in maniera esplicita il luogo dove si manifestano oggi rilevanti problemi di sicurezza, e dove è necessario concentrare gli interventi. Il riferimento al contesto urbano, tuttavia, allude anche agli attori istituzionali che hanno la respon-sabilità, a livello locale, di farsi carico dei problemi dei cittadini – compresi quelli relativi al rischio oggettivo di vittimizzazione e alla percezione dell’insicurezza – cioè gli amministratori delle città”1.

In questi termini, il legame con il contesto urbano coinvolge il governo della città, ponendo la necessità di considerare le relazioni tra fenomeni locali e problemi ben più ampi, come avviene per la prostituzione o lo spaccio di droghe; e in questi termini la sicurezza urbana evoca interessi pubblici primari come l’integrità delle persone e la qualità della vita nelle città, con una forte caratterizzazione funzionale, come evidenzia il diffondersi di accordi, intese, patti per la sicurezza (A. Pajno): e a convenzioni ha fatto riferimento la finanziaria per il 2007 (l. 296 del 2006, art. 1,

1 Così, anche con riferimenti alla letteratura internazionale, R. Selmini, Sicurezza urbana, Il Mu-lino, Bologna, 2004.

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comma 439), sottolineando ancora l’esigenza di una collaborazione che renda ope-rative politiche integrate.

In questo senso, la “sicurezza urbana” non si configura né come una nuova mate-ria in senso proprio, né come una componente da ricomprendersi pienamente nella materia “ordine pubblico e sicurezza” riservata alla competenza esclusiva dello Stato. Rappresenta, piuttosto, un punto di intersezione tra materie e competenze diverse. L’esigenza di collaborazione – tra diversi soggetti, livelli, competenze, politiche pub-bliche – sembra, così, connotare la sicurezza urbana in maniera imprescindibile, è nella natura stessa del concetto.

In questa direzione, si presenta significativa la lettera del medesimo decreto mini-steriale del 5 agosto 2008, che si apre con una precisazione importante, che delimita esplicitamente l’obbiettivo e l’ambito di applicazione della definizione adottata: “Ai fini di cui all’art. 54 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall’art. 6 del d.l. 23 maggio 2008, n.92, convertito, con modificazioni, in l. 24 luglio 2008, n. 125, per incolumità pubblica si intende […] e per sicurezza urbana”.

Dunque, non rilevano qui obbiettivi di collocazione della materia nel quadro co-stituzionale, non si toccano le imputazioni delle competenze: si tratta, qui, di adotta-re una definizione esclusivamente ai fini della configurazione dei poteri di ordinanza. Questo significa che rimane impregiudicata ogni questione relativa alla delimitazione delle funzioni dei comuni, come fondamentali, proprie, o conferite, secondo le clas-sificazioni presenti nell’art. 118 Cost.

D’altronde, il potere di ordinanza del sindaco quale ufficiale di governo ben può esplicarsi in materie anche non statali, senza attrarre queste materie alla competenza dello Stato. Questa considerazione è confortata anche dai precedenti, osservando che, in certe fasi, le ordinanze in materia, ad esempio, di sanità erano attribuite al Sindaco in quanto ufficiale di governo, senza che questa circostanza implicasse alcu-na attrazione della materia sanità alla competenza statale. Analogamente, si può far riferimento, oggi, al tema delle ordinanze di modifica di orari, per casi di emergenza connessi con il traffico o con l’inquinamento, richiamate pure dall’art. 54, del TUEL (comma 6), materie che certamente rimangono di competenza regionale e locale.

4. In questo senso, del resto, la lettura della disciplina in vigore corrisponde alla com-plessità sostanziale delle questioni: i sintomi di degrado, i fenomeni di insicurezza urbana hanno una natura complessa e composita e richiedono inevitabilmente, per loro natura, delle risposte composite, che mobilitano diversi strumenti giuridici (tra cui le ordinanze contingibili e urgenti), varie istituzioni, molteplici tipi di politiche pubbliche: che, ben al di là delle stesse competenze in materia di polizia ammi-nistrativa locale, coinvolgono tematiche e politiche tipicamente locali, a partire da quelle sociali, edilizie, urbanistiche, del traffico e della mobilità, ecc., da modulare e collocare in una prospettiva di contemperamento, di collaborazione e, se del caso, di integrazione con le competenze di altri soggetti, a partire dalle attività statali che riguardano l’ordine pubblico e la sicurezza.

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Michele Belletti, Ricercatore di Diritto costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna.

Chiara Camposilvan, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna.

Corrado Caruso, Dottorando di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna.

Gianluca Dradi, Assessore Polizia municipale e sicurezza, Comune di Ravenna.

Caterina Drigo, Assegnista di ricerca in Diritto costituzionale, Università di Bologna.

Gabriele Ferrari, Assessore Protezione civile e polizia provinciale, Provincia di Parma, UPI Emilia-Romagna.

Nicola Gallo, Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato.

Tommaso F. Giupponi, Professore associato di Diritto costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna.

Roberto Massucci, Primo Dirigente della Polizia di Stato.

Luca Mezzetti, Professore ordinario di Diritto costituzionale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna.

Gli Autori

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Roberto Reggi, Sindaco di Piacenza, ANCI Emilia-Romagna.

Moira Rotondo, ANCI nazionale.

Alvise Sbraccia, Ricercatore di Sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna.

Rossella Selmini, Responsabile Servizio politiche per la sicurezza e polizia locale, Regione Emilia-Romagna.

Luciano Vandelli, Professore ordinario di Diritto amministrativo, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Bologna.

Finito di stampare nel mese di dicembre 2010presso Editografica – Rastignano (BO)