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Nome e "pratiche" dell'oro nell'Italia pre-romana

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AURUMFunzioni e simbologie dell'oro

nelle culture del Mediterraneo antico

a cura diMarisa tortoreLLi GHidini

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

auruMFunzioni e simbologie dell'oro

nelle culture del Mediterraneo antico

© Copyright 2014 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDERVia Cassiodoro, 11 - 00193 Roma

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Progetto grafico:«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

Tutti i diritti risevati. è vietata la riproduzionedi testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore.

In copertina:Lamine d’oro trovate a Pélinna (fine IV secolo a.C.). Museo di Larissa (foto G. Tzartzas).

Aurum. Funzioni e simbologie dell’oro nelle culture del Mediterraneo antico / Marisa Tortorelli Ghidini (a cura di) - Roma : «L’Erma» di Bretschneider, 2014. - 458 p. : ill. ; 20 cm. (Studia Archaeologica 193)

ISBN CARTACEO 978-88-913-0482-7ISBN DIGITALE 978-88-913-0480-3

CDD 739.2

1. Oreficerie - Storia 2. Oro - Storia

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Infatti proprio a queste civiltà apparten-gono i manufatti in oro rinvenuti tra i corredi di tombe principesche di epoca orientalizzante e alcuni di questi oggetti recano iscrizioni. Per l’altro importante gruppo di lingue che occupava la Peniso-la italiana nell’antichità, quello designato in senso “sabellico” più lato, in cui si iscri-ve linguisticamente anche il mondo ‘sabi-no’, non abbiamo testimonianze epigrafi-che arcaiche su manufatti d’oro. Ciò non di meno, la civiltà sabina ugualmente partecipa al modello ideologico arcaico per cui l’oreficeria è connotato delle loca-li aristocrazie arcaiche, secondo quanto mostrano i corredi tombali. Per esempio nella tomba XI della necropoli di Colle del Forno, località forse da identificarsi con l’antica Eretum, sono stati rinvenuti numerosi oggetti in oro, databili tra il VI e l’inizio del V secolo a.C., pertinenti a per-

sone di rango maschile: in specifico pen-denti, pettorali e bracciali connessi non solo allo stato sociale elevato dei defunti, ma anche al loro ruolo di guerrieri1.

Questo inquadramento generale è sufficiente per dare fondamento all’idea che il termine per designare l’oro era già presente nelle principali lingue che so-stanzialmente si spartivano la quasi to-talità della penisola italiana nell’antichi-tà, cioè il latino, l’etrusco e le lingue del gruppo sabellico. Inoltre, la raffinatezza dei manufatti che accompagna i corredi delle tombe principesche rende fondata anche l’impressione dell’esistenza di una terminologia relativa alle pratiche di lavo-razione e di fruizione dei manufatti in oro.

Alla documentazione ‘diretta’ fornita dall’archeologia e dall’epigrafia si con-giungono le testimonianze indirette del-la tradizione letteraria che accreditano

NOME E “PRATICHE” DELL’ORO NELL’ ITALIA PRE-ROMANA

Paolo Poccetti

i. preMessa

è noto che l’oro e le pratiche legate alla sua lavorazione appartengono alle fasi più antiche della storia delle civiltà dell’Italia pre-romana, non diversamente da altri ambiti del Mediterraneo antico. Tuttavia, elemento distintivo rispetto ad altre civiltà del mondo antico è il fatto che l’oro (in-sieme ad altri metalli preziosi) è il materiale che contrassegna i suppor-ti delle prime apparizioni della scrittura almeno presso due importanti gruppi linguistici della Penisola: quello latino e quello etrusco.

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una complessa simbologia nell’uso e nel-le valenze dell’oro che connotano l’età ar-caica. Non è azzardato affermare che uno degli indicatori della fine dell’orizzonte ideologico arcaico, legato al cosiddetto ‘mondo principesco’ delle aristocrazie tirreniche, è il rapporto di ostentazione e fruizione dell’oro2. I freni e le proibizioni del ‘lusso funerario’ con esplicito divieto di seppellire i defunti perfino con protesi dentarie in oro, secondo le disposizioni, formulate dalla legge delle XII Tavole rap-presentano un significativo segnale di cambiamento di questo orizzonte ideolo-gico3. D’altro canto, l’archeologia - come mostra una tomba arcaica da Satricum di VII secolo, dove è stata ritrovata una montatura di denti in oro4 - ci conferma la pratica condannata nel corso del V secolo dalle XII Tavole.

ii. testi arcaici su ManuFatti in oro

Nella fase più arcaica il mondo etrusco, di ambito tanto meridionale quanto set-tentrionale, offre una varietà di contesti sepolcrali che ci hanno restituito esempi ragguardevoli di oreficeria. La più rappre-sentativa per la sua ricchezza di corredo è, in ambiente ceretano, la Tomba Regoli-ni Galassi, dalla quale proviene, tra l’altro, la celebre fibula a disco lunga cm. 325. Ma opere di gioielleria sono state rinvenute in tombe di Vetulonia, Chiusi, Vulci, Vol-terra. Bologna, tutte inserite nell’orizzon-te del VII secolo a.C.6, che mostrano già i caratteri di una tecnica di lavorazione dell’oro, raffinata e matura. Sempre nel VII secolo a.C. si collocano i rinvenimenti di oreficeria in area latina, legati in parti-colare alle tombe Barberini e Bernardini di Praeneste7, che riflettono nei loro cor-redi un ambiente già fin da allora multi-culturale e multilingue, come mostrano oggetti di altro metallo prezioso, cioè

l’argento, di diversa lavorazione e recanti iscrizioni in lingue diverse dal latino8.

Proprio l’epigrafia rivela che nell’I-talia tirrenica le tecniche e le pratiche dell’oreficeria, oltre alla lavorazione e alla fruizione dei manufatti in sé, si ac-compagnano alle prime manifestazioni della scrittura, sviluppandosi in contesti di intrecci sociali tra le comunità appar-tenenti alle principali componenti lingui-stiche della Penisola, appunto quelle già ricordate, etrusca, latina e ‘sabellica’, ma anche in una rete di contatti culturali con componenti allogene e alloglotte. Infatti, proprio nel periodo alto-arcaico o, nella fase proto-documentaria della scrittura, la lavorazione e la circolazione di oggetti di metalli preziosi (oro e argento) o, più in generale, di materiali pregiati manife-sta strette relazioni con il mondo egeo e, più in particolare, con genti del Vicino Oriente antico. Certamente ad influsso orientale appartiene il ‘know how’ tecno-logico dell’oreficeria arcaica, i cui modelli orientali sono stati messi in evidenza nei corredi rivenuti nella tomba ceretana Regolini Galassi. Ma anche l’apposizione della scrittura su beni di pregio sembra praticata in ambito orientale, più che in quello propriamente greco, nella prima metà del I millennio a.C.

Di influsso orientale è sicuramente il concepimento della scrittura come un ulteriore valore aggiunto al manufatto (su metallo prezioso o ceramica) che si diffon-de nei ceti elevati di ambito tirrenico. Tut-tavia, una rielaborazione peculiare della funzione della scrittura negli ambienti del-le aristocrazie tirreniche dell’epoca ‘orien-talizzante’ consiste nel connotato ideolo-gico come strumento che serve a marcare il possesso personale, spesso come risulta-to di dono o scambio dell’oggetto tra ap-partenenti allo stesso ceto sociale9.

è ormai accertato che tecniche e mo-tivi di oreficeria sono stati introdotti nel

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periodo orientalizzante da artigiani pro-venienti dal bacino orientale del Mediter-raneo e che la circolazione di manufatti in materiale prezioso, nota in occidente tra VIII e VII secolo a.C., era sicuramente in mano a genti semitiche a cui si connette anche la pratica di apporre iscrizioni sui medesimi oggetti lavorati. Non è certo casuale la circostanza che più di ¾ delle iscrizioni semitiche (in fenicio o aramai-co) rinvenute in Italia e databili tra l’VIII e il V secolo a.C. siano incise su manufatti in oro e argento, oltre ad altri materiali pregiati, come la serpentina rossa, di cui consistono gli scarabei iscritti rinvenuti a Ischia, a Francavilla Marittima (entrambi fine VIII secolo a.C.)10. Agli inizi del VII se-colo si collocano le due coppe di argento con decorazione sbalzata e provviste di iscrizione, provenienti l’una da Ponteca-gnano, l’altra da Praeneste. La coppa fe-nicia da Praeneste con iscrizione fenicia, costituita dal «nome personale + patro-nimico» (šmny‘d bn ‘št)11, proviene dalla stessa Tomba Bernardini prenestina, che ci ha restituito la fibula in oro iscritta di Manios e la coppa argentea con la scrit-ta Vetusia12. è innegabile che in questo contesto le iscrizioni semitiche apposte su tali oggetti, rinvenuti in territorio ita-liano e ascrivibili a tale orizzonte crono-logico, recano nomi personali riferibili, in astratto, tanto ai fabbricanti quanto ai proprietari. Nella coppa di Pontecagnano Garbini aveva identificato il riferimento ad una categoria di fonditori di metalli13. Tale ipotesi è molto interessante e, di per sé, verosimile, per quanto senza confronti almeno in Italia, e, pertanto, difficilmente dimostrabile. Altrettanto difficile è stabi-lire dove questa corporazione di fonditori fosse ubicata, tanto più che le caratteri-stiche esterne delle due coppe sembra-no rimandare ad un ambiente periferico rispetto alla Fenicia vera e propria14. Tut-tavia, occorre tener presente che i beni di

lusso dei corredi di tombe ‘principesche’ dell’Orientalizzante si compongono di materiali tanto di importazione quanto di fabbricazione locale15.

Oltre a queste, in Occidente si co-noscono iscrizioni fenicie di età arcaica o tardo-arcaica su altro tipo di supporti in oro e con tutt’altra funzione, come la lamina frammentaria di VII secolo dal tophet di Sant’Antioco (antica Sulcis) in Sardegna16 e, naturalmente, le lamine d’oro di Pyrgi con le note iscrizioni bilin-gui etrusco-puniche. In entrambi i casi va sottolineato il fatto che il manufatto in oro non è un bene strumentale o suntua-rio, a cui si appone la scrittura come ele-mento aggiuntivo, ma è stato concepito esclusivamente in funzione di supporto per la scrittura stessa. In altre parole, si rovescia il rapporto funzionale rispetto alla categoria dei manufatti ‘strumentali’ in metallo prezioso: per questi ultimi la scrittura è un valore ‘aggiunto’, mentre i supporti in oro destinati ad ospitare la scrittura costituiscono essi stessi il valore aggiunto alla scrittura. Sotto tale profilo la produzione epigrafica della colonizza-zione fenicio-punica nel Mediterraneo assume dei connotati autonomi rispetto a quella delle culture indigene, ma anche rispetto a quella della madrepatria. In-dubbiamente, al trasformarsi in fucina di prodotti e modelli differenti da quelli del-la madrepatria ha contribuito l’impulso derivante dal contatto con diverse com-mittenze e nuove esigenze di ‘mercato’17.

In conclusione, la lavorazione di metalli preziosi per la fabbricazione di oggetti legati al banchetto e all’orna-mento personale, a cui viene ben presto aggiunta la scrittura come marca di pos-sesso, di appartenenza o di scambio le-gato al rango sociale, appare un conno-tato delle aristocrazie locali della fascia tirrenica di ambito tanto etrusco quanto latino. Questo aspetto ci permette di

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individuare una differenza rispetto al comportamento dei corrispettivi ceti aristocratici della Grecia di epoca coeva. Uno dei rari esempi di scrittura apposta su un manufatto d’oro è la coppa dei Kypselidai, cioè i discendenti di Kypse-los, tiranno di Corinto. L’oggetto sembra il solo superstite di dediche votive su vari manufatti di pregio (statue, scrigni) offerte da questo en nei santuari panellenici di Delfi e di Olimpia, di cui si hanno soltanto notizie indirette. La cop-pa d’oro iscritta, proveniente da Olimpia e ora conservata a Boston, datata tra 625-550 a.C.18, che reca il testo di un’of-ferta votiva dal bottino preso ad Eraclea, conferisce all’apposizione della scrittura su oggetti preziosi una funzione comu-nicativa e rappresentativa presso i ceti aristocratici della Grecia differente da quelli coevi dell’Italia tirrenica.

I già menzionati corredi delle tombe Regolini Galassi a Caere e della Tomba Bernardini a Praeneste, già fatti oggetto di confronti tipologici per la loro conno-tazione dell’ideologia ‘principesca’ tipica del periodo orientalizzante, mostrano una significativa ripartizione dei metalli preziosi in funzione del loro uso ‘stru-mentale’: l’argento è riservato ai vasi potori da banchetto, mentre l’oro è riser-vato ad oggetti di ornamento persona-le (come le fibule e i pendagli). Quanto alla testualità su vasi potori d’argento, merita sottolineare, come comune de-nominatore tra la coppa argentea della tomba Bernardini e quelle della Regolini Galassi, la registrazione del solo nome individuale del proprietario. Lasciando da parte il caso di Vetusia della tomba Bernardini, di controversa attribuzione linguistica19, il nome Laria apposto sui vasi argentei della Regolini Galassi (seb-bene rinvenuti insieme al corredo di una deposizione femminile) coincide con quello del titolare della stessa tomba,

segnalato dall’iscrizione mi Larqia20. Tale circostanza denuncia l’appartenenza degli oggetti al ‘fondatore’ della tomba stessa21.

In una diversa e più complessa ti-pologia testuale si riconducono, invece, le iscrizioni su fibule auree etrusche e latine. Come tratto comune delle fibule etrusche spicca la ricorsività della formu-la di possesso con mi e l’occorrenza della designazione personale binomia: a) mi Araθia Velaveśnas zamaθi da Castelluccio di Pienza22; b) mi Velarunaś Atia probabil-mente da Caere23; c) mi Mamerces Artes{i} da Vulci24.

Come si constata anche ad un primo sguardo, le iscrizioni etrusche su fibule auree di età alto-arcaica sono ben più complesse rispetto alle scritte su mate-riali potori in argento, ponendo proble-mi interpretativi cruciali. Analoga consi-derazione può farsi anche per l’iscrizione latina sulla famosa fibula da Praeneste, recentemente riscattata dall’ingiusta accusa di falsificazione25, al cospetto di quella sulla coppa argentea rivenuta nel-lo stesso contesto. Infatti, il denominato-re comune di tutti questi testi su fibule auree consiste nel fatto che all’indicazio-ne della proprietà si affianca la specifica-zione del processo di acquisizione della proprietà stessa attraverso il nome vuoi del fabbricante e/o donatore vuoi del committente e/o destinatario dell’ogget-to. è evidente che con il variare di questi ruoli, assegnabili ad uno degli ‘attanti’, varia anche quello dell’altro ‘attante’ ap-punto nella dinamica rispettivamente di fabbricante ~ committente e donante ~ donatario, ruolo che a sua volta si scala tra quello di detentore e proprietario in rapporto al criterio di alienabilità o ina-lienabilità.

Le diverse tecniche impiegate nel-la lavorazione delle fibule auree con iscrizione – che ci limitiamo a prendere

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qui in considerazione rispetto alla va-sta gamma di fibule anepigrafi– coin-volgono anche diverse modalità di realizzazione delle iscrizioni. Così, per esempio, la fibula etrusca di Castelluc-cio di Pienza, ora al museo del Louvre, a differenza di altre, è eseguita con la raf-finata tecnica della granulazione, che si ripercuote anche nel procedimento di apposizione della scrittura che dunque doveva essere di competenza dell’o-refice arcaico che l’ha realizzata26. Tale raffinatezza della scrittura contrasta con l’incisione maldestra della celebre fibula latina della tomba Bernardini. Quest’ultimo particolare, relativo alla fibula di Praeneste, è stato, in passato, a torto utilizzato come argomento a favore della falsificazione dell’iscrizio-ne latina, riconosciuta come «un vero e proprio raspaticcio, del tutto indegno di un oggetto aureo di grande prete-sa»27.

In realtà, questo dettaglio, gioca, a nostro avviso, a favore dell’autenticità della scritta, inducendo ad interrogarsi sulla provenienza dell’artigiano che ha inciso l’epigrafe, soprattutto alla luce dell’osservazione di Cristofani che la scrit-tura della fibula di Manios «rivela tenden-ze grafiche proprie della scuola scrittoria ceretana dell’epoca, benché tradotta in stile rozzo e problematico»28, circostanza che, dal punto di vista della tecnica arti-gianale, potrebbe avvalorare l’ipotesi che la fibula sia «opera di orafi etruschi»29. In parallelo a questo interrogativo si affian-ca la domanda, già posta da tempo in re-lazione al tipo di latino usato nell’iscrizio-ne, cioè quale varietà di lingua parlasse colui che ha inciso o fatto incidere il testo stesso rispetto a quella del committente o destinatario dell’oggetto30.

In questo quadro articolato è utile riepilogare i dati relativi alle scritte su fi-bule auree di età arcaica:

Etrusco Latino

1) Castelluccio di Pienza: mi Araθia Velaveśnas zamaθi Manurke mulvenike Turśikina (CII 806 = ET Cl. 2.3)2) Vulci: mi Mamerces Artes{i} (CII 2184 = ET Vc 2.2)3) Caere (?): mi Velarunaś Atia (ET Cr. 2.26)

1a) Praeneste: Manios med fefaked Numasioi

Elemento comune delle iscrizioni su fibule etrusche è rappresentato dall’in-dicazione della proprietà dell’oggetto. Tale dato è topicalizzato nelle iscrizio-ni in etrusco attraverso la formula con mi+genitivo, mentre l’iscrizione latina di Manios presta il fianco ad una lettura più complessa, peraltro, suscettibile di rimettere in questione, in misura diversa, anche la lettura e l’interpretazione delle scritte etrusche sulla fibula di Castelluc-cio di Pienza e su quella da Vulci.

Il testo etrusco della fibula di Castel-luccio di Pienza (1) e quello latino di Prae- neste (1a) presentano una struttura più complessa rispetto alle altre fornendo indicazioni supplementari rispetto alla pura indicazione del ‘possesso’ o della ‘proprietà’, che trascinano con sé alcuni problemi interpretativi di ordine gene-rale. Entrambe le scritte, infatti, conver-gono nel segnalare che il proprietario dell’oggetto è il destinatario di un dono o di una committenza, indicando anche il nome del donante, suscettibile di iden-tificarsi con quello dell’artefice. Mentre la lettura, ormai comunemente accolta della fibula aurea etrusca, a seguito del-la integrazione mulvenike (verbo nodale per la semantica del testo, su cui si ritor-nerà in seguito), non lascia adito a dubbi

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sui ruoli del donante (Manurke Turśikina) e del destinatario/proprietario (Araqia Velaveśnas), restano, invece, problemati-che le figure dei due ‘attanti’ (rispettiva-mente Manios e Numasios), menzionati nella fibula in latino da Praeneste. Il nodo della questione riposa, in realtà, sulla semantica del verbo fefaked suscettibi-le di intendersi con il valore di «ha fatto (per)» o come causativo, cioè «ha fatto fare (per)». Nel primo caso il proprietario dell’oggetto (Numasios) sarebbe un sem-plice committente e Manios si configure-rebbe come l’artigiano che ha realizzato il manufatto; nel secondo caso il proprieta-rio dell’oggetto sarebbe il destinatario di un dono e di conseguenza Manios sareb-be il committente.

Mettendo per un momento da parte la questione dei ruoli semantici dei due ‘attanti’ implicati nella ‘cessione’ o nella ‘consegna’ del manufatto in oro – pratica che ha certo la sua importanza in rela-zione all’ideologia arcaica in cui si conte-stualizza – le due interpretazioni possibili del verbo fefaked hanno diverse ricadute per quanto riguarda la problematica in-vestita dal nostro tema.

Infatti, se fefaked si riferisce alla rea-lizzazione materiale dell’oggetto da parte di un artefice, nella fattispecie Manios, sa-remmo in presenza di una vera e propria firma di ‘orefice’: tra l’altro, l’unica sicura, relativamente a questa tipologia di og-getti e alla fascia cronologica interessata. Tale interpretazione (di per sé plausibile) lascia, comunque, indefinito il ruolo di Numasios quale committente del manu-fatto oppure come destinatario del dono. Quanto si può osservare è che dal punto di vista onomastico i due ‘attanti’, tanto nella fibula latina di Praeneste quanto in quella etrusca di Castelluccio di Pienza, sono messi sullo stesso piano: designa-zione monomembre nell’una, designa-zione bimembre nell’altra.

Le firme arcaiche di artefici, ben co-nosciute secondo la diversa tipologia fin dall’età arcaica, sono generalmente apposte su manufatti ceramici. Come è noto, nel processo della lavorazione vascolare in ambito tanto greco quanto etrusco due verbi distinguono due pro-cessi della lavorazione, cioè quello del fabbricante/vasaio e quello del decorato-re/pittore del vaso, rispettivamente indi-cati da epise (in greco) e da zinace (in etrusco) e da erae e ziχuce31.

Le scritte su altri tipi di materiali non permettono di cogliere, almeno per la fase arcaica, analoghe differenziazioni terminologiche nelle mansioni artigianali per quanto riguarda le diverse fasi della lavorazione di altri materiali32. Il punto cruciale della questione in relazione al tema di nostro interesse è se in epoca arcaica esistesse un lessico specializzato per la lavorazione dei metalli e, più spe-cificamente o distintamente, del metallo prezioso per eccellenza, appunto l’oro. Ci si può chiedere, in altre parole, se esi-stesse un termine apposito per indicare il cesello di oggetti metallici in generale e più specificamente dell’oro in particolare. Il lessico latino possiede il verbo caelare ‘cesellare’ attestato già nel IV secolo a.C. nella firma artigianale di uno specchio bronzeo da Praeneste, decorato con figu-re incise, probabile opera di un artefice di area meridionale, come indica il nome personale: Vibis Pilipus cailavit33. In realtà, caelare, riferito anche a metalli diversi da quelli nobili, come mostra l’iscrizione sul-lo specchio prenestino in bronzo, signifi-ca anche ‘lavorare a sbalzo’ e non si appli-ca strettamente a metalli, come mostra l’occorrenza presso Ennio in riferimento al soffitto: domum tectis caelatis laquea-tis instructam34. In ogni modo, in latino il verbo caelare è correntemente usato an-che per l’oro e per l’argento (es.: caelatum aurum et argentum35; scuta alterius auro,

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alterius argento caelaverunt36). Per Plinio, tuttavia, è motivo di sorpresa il fatto che, a differenza della cesellatura dell’argen-to, non sia diventato famoso nessuno che si è dedicato alla cesellatura dell’oro:

mirum auro caelando neminem inclaruisse, ar-gento multos37.

Analoga meraviglia suscita a Plinio la circostanza che Roma avesse imposto ai popoli vinti tributi in argento e non in oro, pur riconoscendo che ciò non era do-vuto alla scarsità del metallo nel mondo:

equidem miror populum Romanum victis gen-tibus in tributo semper argentum imperasse non aurum… Nec potest videri paenuria mundi id evenisse38.

è probabile che alla base di questi fatti, che destano stupore a Plinio, ci fos-sero – come, del resto, anche in epoche più vicine alle nostre – ragioni puramen-te commerciali: l’argento, meno costoso dell’oro, è più diffuso e ha un più ampio ventaglio di manifatture e di applicazioni decorative che lo stesso Plinio descrive39. Ciò doveva anche implicare una differen-ziazione professionale ed organizzativa nella lavorazione dei due metalli prezio-si. Qualche indiretta conferma ci viene anche dal lessico latino. Infatti, il latino possiede un termine specifico per de-signare chi lavora l’oro, cioè aurifēx, alla base della parola italiana ‘orefice’ e dello spagnolo antico orespe40, che distingue l’addetto professionale alla lavorazione dell’oro da chi lavora altri metalli o mate-riali. Anche il greco possiede termini spe-cifici per indicare addetti alla lavorazione del prezioso metallo. Nel greco miceneo è stato individuato un termine che de-signa l’addetto alla lavorazione dell’oro, circostanza che certo non stupisce al cospetto dei ben noti manufatti di orefi-

ceria rivenuti in tombe micenee: si tratta del composto ku-ru-so-wo-ko. Tuttavia, il suo corrispondente nel greco alfabetico, cioè rusur41, è attestato solo a partire dai LXX, mentre la forma più co-mune a partire da Omero e nell’uso lette-rario, anche del teatro comico e tragico, è rus, a cui si connette una ricca famiglia lessicale, come ruse, rusein, rusik.

La peculiarità del latino aurifēx, in relazione alla distinzione professionale di chi lavora il prezioso metallo rispetto ad altri, risalta dal fatto che per altri metalli, come l’argento, il ferro, il bronzo, non si ha traccia di formazioni analoghe. In altre parole, non esistono composti del tipo *argentifēx o *ferrifēx, mentre si usano i derivati aggettivali argentārius e ferrārius come attributi di faber o sostantivati per ellissi di faber. Parallelo a queste forme aggettivali è aurārius, che però è più raro42, fors’anche a causa della sovrappo-nibilità morfologica con i derivati da aura e auris43, oltre che per l’omofonia, a livello di parlato, con (h)orārius derivato di hora. Aurarius (faber) è creazione analogica sul modello della folta serie di aggettivi latini che hanno alla base nomi di materiali (es. argentārius, ferrārius, lignārius, aerārius, ecc.). A dispetto della sua rarità nella lin-gua letteraria, dove è usato soprattutto in contesti scherzosi, aurarius faber o auri faber devono avuto una certa diffusione, essendo alla base del francese moderno orfèvre.

Ad una formazione in -ārius appartie-ne, invece, bratteārius, altra designazione, peraltro tarda e circoscritta, dell’addetto alla lavorazione dell’oro, di cui dispone il lessico latino44. Bratteārius è un derivato da brattea «lamina (per lo più) d’oro»45, termine di etimologia ignota, il cui signi-ficato tecnico ha indotto a sospettare un prestito da altra lingua46. Non è chiaro, in realtà, se la parola già all’origine si lega

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all’accezione specifica di «lamina d’oro» e si è desemantizzata nel corso del tempo passando a designare qualunque tipo di lamina come sembrerebbero indicare le specifiche brattea auri in Lucrezio47 e la distinzione tra argenteis bratteis e brattea aurea presso Plinio48. La probabilità che tale parola, indipendentemente dalla sua origine, potesse designare specificamen-te una «lamina d’oro» è determinata dalla duttilità, riconosciuta nell’antichità come peculiare del nobile metallo, di poter ri-cavare lamine sottili ed estese che Plinio calcola per ogni oncia in oltre 750 lamine quadrate con lato misurante quattro dita:

nec aliud laxius dilatatur aut numerosius divi-ditur, utpote cuius unciae in septingenas quin-quagenas pluresque bratteas quaternum utro-que digitorum spargantur49.

Tale spiccata proprietà di laminazio-

ne permette, da una parte, i procedimen-ti di doratura e, dall’altra, di poter utilizza-re le lamine come supporto di scrittura, ben noto nel mondo antico.

Analogo interrogativo sulla parabola semantica di brattea solleva l’uso (tardo ed occasionale) del derivato bratteārius come attributo di aurifēx50, inducen-do per il sintagma aurifēx bratteārius il riconoscimento tanto del significato specifico di «orefice specializzato nella lavorazione di lamine d’oro» quanto di un’espressione ridondante per «orefice».

Aurifēx si pone tra i composti nominali latini in –fēx di più antica attestazione51. Pur collocandosi in un ristretto gruppo di nomi indicanti mestieri o attività pro-fessionali (come artifēx, opifēx, carnifēx) è, tuttavia, l’unico che si riferisce ad una mansione artigianale specifica, relativa appunto alla lavorazione del metallo indi-cato nella prima parte del composto.

In ogni modo aurifēx ha avuto una vitalità nella lingua comune dal momen-

to che in diverse iscrizioni funerarie ac-compagna come qualifica professionale il nome del defunto. Queste iscrizioni ci permettono di constatare la condizione servile (schiavi o liberti) di coloro che nel mondo romano esercitavano il mestiere di aurifēx52. Inoltre Aurifēx è noto nell’o-nomastica personale come cognomen53.

La creazione della parola aurifēx, insieme alla sua frequenza a spese di aurārius faber, induce a un paio di consi-derazioni. La prima è il fatto che aurifēx distingue la designazione dell’artigiano che lavora l’oro rispetto a quella degli addetti alla lavorazione di altri tipi di metalli o materiali (come argentārius, aerārius, ferrārius ecc., formate, come già detto, da derivati aggettivali in -ārius in quanto attributi di faber, poi sostantiva-ti). La seconda considerazione, di ordine morfosintattico, porta ad individuare alla base del composto aurifēx un soggiacen-te sintagma aurum facere. Senza questo, infatti, difficilmente i pochi composti in -fēx presenti nella fase più antica del la-tino potrebbero aver esercitato una forza di attrazione sufficiente a comprendervi anche la composizione con aurum. Ora il sintagma con facere è ben attestato nel latino tanto che l’espressione aurum fac-tum significa «oro lavorato»� e determina l’associazione con aurifēx nelle Verrine:

cum vellet sibi anulum facere, aurificem iussit vocari55.

L’uso di facere in relazione alla lavo-razione dell’oro ci riporta al nodo inter-pretativo del verbo fefaked nell’iscrizione latina arcaica sulla fibula aurea di Manios, forma di perfetto arcaico riconducibile al paradigma di facio dal radicale *dheh1-. L’impiego di questo verbo, che, per le ra-gioni appena ricordate, era applicato nel caso specifico alla lavorazione dell’oro, costituisce un tassello a favore dell’identi-

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ficazione di Manios nel ruolo dell’artefice che ha realizzato la fibula.

A tal proposito occorre precisare che nel sintagma aurum facere così come nel composto aurifēx il ruolo semantico di aurum non è semplicemente l’indicazio-ne del metallo prezioso quanto piuttosto degli oggetti o dei manufatti risultanti dalla sua lavorazione. In altre parole come aurum facere è «fare o fabbricare» non l’o-ro, bensì «oggetti in oro» così aurifēx è il «fabbricante oggetti d’oro». Questo du-plice valore di aurum, cioè come designa-zione del metallo e dei manufatti con-seguenti alla sua lavorazione, in genere gioielli, legati all’ornamento personale risulta da un procedimento metonimico piuttosto comune per cui il nome del ma-teriale può estendersi ai prodotti da esso derivati. La letteratura latina offre nume-rosi esempi di tale valore a partire dalle commedie di Plauto, dove sintagmi come vestis et aurum, aurum et palla, aurum et purpura, aurum et ornamenta indicano le vesti e i gioielli nel loro complesso56, con allusione scherzosa alle tipiche debolez-ze femminili. di aurum in riferimento ai gioielli in oro è esplicitato da Varrone:

quae mulier suum in instrumentum vestis atque auri veteribus vocabulis appellat57.

Ma il semplice vocabolo aurum può servire metonimicamente anche ad indi-care altri tipi di prodotti della lavorazione dell’oro come i recipienti (es. Bacchus in auro ponitur)58 o i fili d’oro utilizzati nella tessitura delle vesti (aurum intexere inve-nit Attalus)59.

Analogo procedimento metonimico si trova anche in altre lingue, come per es. nel sanscrito hiranyam che indica sia l’oro come gli oggetti d’oro. Con gli stessi va-lori si presenta il termine greco rus che in Omero si alterna ai sintagmi con il corrispondente aggettivo ruse:

rusn en pemnd ien ΰte kur (Il., 2, 872) «se ne andava in guerra con oro (= con armi d’oro) come (si adorna) una fanciulla» (eu) titusket akpd ipp kupeta rusesin eeirsin kmnte rusn d aut edune peri ri ent d imasn rusein eutuktn (Il., 8, 41-45) «(zeus) aggiogò al carro i cavalli dai piedi di bronzo, dal rapido volo e che hanno le criniere d’oro; e oro mise lui stesso attorno al corpo e prese la frusta d’oro ben fatta»tn tina karreusa aiiadn eupepn pr rus pern katamuat eira arain (Il., 5, 424-425) «carezzando una delle Achee dai pepli leggiadri si è graffiata la tenera mano contro una spilla d’oro»

Una considerazione attenta dei passi omerici mette in evidenza come il discri-mine tra l’uso di rus in riferimento a manufatti specifici in oro (gioielli, ma anche armi e ornamenti da battaglia) e il corrispondente aggettivo ruse è determinato dalla qualità inerente indi-viduata di volta in volta dal contesto. In concreto, il rivestirsi di oro da parte degli eroi omerici non può che fare riferimento alle armature, mentre l’oro di cui si riveste zeus si definisce in relazione all’immagi-ne convenzionale della massima divini-tà. Analogamente, per quanto riguarda l’uso parallelo del termine latino aurum, l’associazione con vestis come arma per conquistare le ragazze nelle commedie di Plauto non può che alludere ai gioielli.

Laddove, invece, la proprietà di esse-re ‘aureo’ non è individuata dal contesto o non è implicata dalle presupposizioni culturali si ricorre alla determinazione ag-gettivale, come mostra l’esempio di Il., 5, 425, nel quale la specificazione di «aurea» attribuita alla fibula che graffia la mano di chi accarezza la veste serve a distinguere fibule fabbricate in altri metalli.

370 Paolo Poccetti

Un parallelismo semantico a quanto rilevato per aurum in latino e rus in greco è forse rilevabile anche in etrusco nel termine zamaθi che occorre nella fi-bula di Castelluccio di Pienza (n° 1 dello schema sopra riportato). Il testo della fibula etrusca si compone di due enun-ciati, di cui il primo è costituito dalla formula dell’«oggetto parlante» il quale si autodefinisce appunto come zamaθi: mi Araθia Velaveśnas zamaθi «io sono zamaθi di Arnθ Velaveśna». In tale conte-sto zamaθi non è altrimenti interpretabi-le che come «(fibula d’) oro» o «(oggetto d’) oro» di Arnθ Velaveśna. D’altra parte, nel Liber Linteus di zagabria ricorre più di una volta la forma zamθic, probabile de-rivato da zamaθi60. Zamθic (con sincope vocalica interna tipica dell’etrusco recen-te) ha una funzione aggettivale come in latino aureus rispetto ad aurum o in greco rusu rispetto a rus. Pertanto, zamθic come derivato di zamaθi si con-figura con il valore di aureus, lasciando intendere il riferimento al metallo, men-tre l’occorrenza di zamaθi nella fibula arcaica di Castelluccio di Pienza non può che alludere allo specifico manufatto o oggetto lavorato. Si dovrà, dunque, con-cludere che, anche in etrusco, come per i rispettivi termini del greco e del latino, il nome dell’ ‘oro’ (zamaθi) poteva indicare metonimicamente anche gli oggetti o le lavorazioni dello stesso metallo.

La fibula aurea di Castelluccio di Pien-za offre un ulteriore spunto di riflessione per quanto riguarda la terminologia del-la lavorazione del metallo con ricadute sull’interpretazione del testo recato dalla fibula stessa: mi Araθia Velaveśnas zamaθi Manurke mulvenike Turśikina61.

Merita richiamare l’attenzione sulla circostanza che il verbo mulvenike nel secondo enunciato, che compone il te-sto della fibula, cioè Manurke mulvenike Turśikina, risulta da una ricostruzione,

essendo la scrittura in quel punto grave-mente danneggiata. Tale ricostruzione, però, non è stata del tutto unanime e vale la pena ripercorrerne le tappe. Nel 1971 J. Heurgon aveva dedicato all’og-getto una lunga nota62, sottoponendo l’iscrizione ad un’attenta rilettura con proposte di integrazione proprio per la porzione maggiormente danneggiata. In particolare, per il verbo aveva suggerito la ricostruzione di una forma mrevenike o revenike, un hapax a cui Heurgon aveva attribuito il valore del lat. caelavit. In tal modo, Heurgon individuava un verbo etrusco apposito per indicare il processo di lavorazione del metallo (o di metalli in generale). L’idea di un termine specializ-zato per le tecniche di lavorazione dell’o-ro era stimolata dalla particolare realizza-zione della fibula in questione mediante la raffinata tecnica della granulazione che richiedeva una speciale perizia arti-gianale. Del resto l’esistenza di un verbo specifico per la lavorazione del nobile metallo non è di per sé sorprendente di fronte allo sviluppo dell’oreficeria etrusca arcaica, rivelata appunto dai ricchi corre-di funerari aristocratici.

Tuttavia, a seguito della nota di Heur-gon, Pallottino e la sua scuola63, da una parte, e Pfiffig64, dall’altra, ricusarono tale ricostruzione della forma verbale, prefe-rendo una lettura facilior che, restituendo mulvenike, allineava tale forma alle mol-teplici attestazioni di questo verbo (con diverse varianti)65 nelle iscrizioni che ac-compagnano gli oggetti di dono dell’E-truria arcaica66.

In tal modo, il secondo enunciato del testo della fibula non era più una fir-ma dell’artigiano, con un verbo inusitato, ma diventava una formula di dono, con un verbo comune. Heurgon, pur senza troppo entusiasmo si allineò a questa ipo-tesi di lettura, che trovava il consenso dei massimi rappresentanti dell’etruscologia

371Aurum

dell’epoca, appunto Pallottino e Pfiffig. Tale lettura che aveva il vantaggio di sba-razzarsi di uno scomodo hapax etrusco a vantaggio di un verbo molto comune, che riportava il testo nell’alveo di una tipolo-gia più diffusa inserendolo nella cornice di una pratica sociale ben nota in età arcaica, cioè quella dello scambio di doni tra per-sonaggi di rango elevato. Va riconosciuto, tuttavia, che l’integrazione mulvenike, ol-tre a non essere sostenuta da un’inoppu-gnabile evidenza epigrafica, non è impo-sta dal co-testo, dal momento che la prima parte del testo ne enuncia la proprietà, no-zione che viene così separata dal processo della sua acquisizione in forza di un dono o di uno scambio. Infine merita ricordare che la fibula di Castelluccio di Pienza è l’unico manufatto su metallo prezioso che reca il lessema verbale del ‘dono’ arcaico (mulu, muluvanike, ecc.)67.

Anche l’iscrizione su un’altra fibula aurea etrusca arcaica, quella da Vulci (n° 2) presta il fianco a problemi di lettura e di conseguente interpretazione che chiamano in causa i ruoli degli ‘attanti’ tra artefice/committente e dedicante/desti-natario. Infatti, a seguito di M. Cristofani, che ha riconosciuto come non pertinente il segno finale, il testo dell’iscrizione viene generalmente emendato mi Mamerces Artes{i} che dà luogo ad un’ineccepibi-le formula di possesso costituita da un nome personale bimembre, mettendosi, così, in parallelo sia al primo enunciato della fibula di Castelluccio di Pienza (mi Araθia Velaveśnas zamaθi), ma anche alla formula di possesso nella fibula di Caere (mi Velarunaś Atia)68. In tal modo, si enu-clea un filo comune che lega le tre fibule etrusche iscritte, cioè il presentare come enunciato unico o primario l’indicazione della proprietà.

Qualora, invece, per la fibula di Vulci si volesse tener ferma la lettura mi Ma-merces Artesi, riconoscendo come per-

tinente il segno finale, ci troveremmo di fronte a due elementi onomastici in opposizione funzionale marcata dai due distinti morfemi casuali. Tale circostanza fa ricadere nelle alternative interpretative del ruolo degli ‘attanti’ già prese in esame, da una parte, per la fibula latina di Manios e, dall’altra, per quella etrusca di Castel-luccio di Pienza, cioè quelle tra artefice/committente e dedicante/destinatario. Infatti la lettura mi Mamerces Artesi tro-verebbe giustificazione con un lessema sottinteso esprimente o il «dono» (mulu) o l’«opera» (acil): le due alternative dareb-bero luogo rispettivamente alla tipologia del ‘dono’ arcaico e ad una ‘firma’ dell’ar-tefice. In quest’ultimo caso, l’esplicitazio-ne del nome di colui che è il destinatario/fruitore e, in definitiva, il detentore dell’o-pera ci pone di fronte a problematiche er-meneutiche non dissimili da quelle poste dal testo latino della fibula di Manios.

Un ulteriore aspetto ci sembra me-ritevole di attenzione nelle iscrizioni che accompagnano le fibule etrusche. Nella fibula di Vulci, come in quella di Chiusi il nome del dedicante o dell’artefice (o di chi ricopre entrambi i ruoli, se essi si iden-tificano nella stessa persona) in base alle alternative sopra proposte presentano un nome personale non etrusco, ma di indiscutibile origine ‘italica’, forse proprio di area ‘umbro-sabina’, cioè Mamarkos ac-climatato in etrusco come Mamarce con varianti conseguenti all’indebolimento della vocale in sillaba mediana (Mamerce, Mamurce, Mamrke)69. Tale nome indivi-duale è piuttosto frequente in etrusco ar-caico soprattutto in aree di contatto con genti ‘italiche’ come la fascia a ridosso della valle del Tevere e in Campania. Inol-tre, nella fibula di Castelluccio di Pienza tale prenome si accompagna al gentilizio Turśikina che, come mostrato a suo tem-po da C. De Simone, si fonda sul nome at-tribuito dagli ‘Italici’ agli Etruschi. In altre

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parole, Manurke Turśikina appare come designazione personale ‘umbro-sabina’, perfettamente integrata nel sistema etru-sco, che delinea la figura del dedicante o dell’artefice della fibula aurea come un ‘italico’ etruschizzato o, comunque, per-fettamente inserito nella società etrusca.

Il particolare non è di per sé significa-tivo in relazione all’alto numero di nomi di origine ‘italica’ che figurano nella do-cumentazione etrusca arcaica. Tuttavia, nel caso specifico delle scritte su fibule d’oro, e più in particolare, la presenza del nome Mamarko- in quella da Castelluccio di Pienza e in quella da Vulci, viene da domandarsi se tale circostanza sia total-mente casuale tanto se si considerano i due testi sotto il profilo interpretativo della pratica del ‘dono’ arcaico quanto nell’ipotesi (non necessariamente alter-nativa) di possibili firme artigianali. Nel primo caso la domanda si sposta sulle possibili dinamiche interetniche della pratica del ‘dono’, mentre nel secondo caso equivale a chiedersi se la lavorazio-ne di oggetti d’oro e in specifico di fibule fosse affidata a maestranze locali. Non del tutto dissimile è la problematica po-sta dall’onomastica dei due ‘attanti’ della fibula latina, cioè Manios, riconoscibile come nome prettamente latino e Numa-sios, la cui pertinenza è stata rimessa in discussione dalla recente segnalazione di Numasiana in un’iscrizione etrusca ar-caica70.

iii. La Lavorazione e La pratica deLL’oro neLLa tradizione saBina e roMana

Gli indizi onomastici che lasciano sup-porre vuoi il dono o lo scambio di beni suntuari, e specificamente in metalli preziosi, tra figure ‘principesche’ di aree linguistiche diverse vuoi la circolazione e le committenze di beni e la mobilità di

fabbricanti tra mondo etrusco, sabino e latino si armonizzano con altri filoni testi-moniali. Innanzitutto il fatto che la lavora-zione e le forme decorative dei manufatti in oro rinvenuti in necropoli arcaiche di area sabina, etrusca e latina71 mostrano tratti simili lascia pensare ad una circo-lazione e un’osmosi tra committenti e artigiani di aree linguisticamente diver-se. In secondo luogo, diversi filoni della tradizione, relativi alle pratiche culturali connesse all’uso degli ornamenti in oro e, conseguentemente, alla lavorazione del metallo, collegano il mondo sabino e quello romano arcaico.

In particolare la tradizione annali-stica risalente a Fabio Pittore e a Cincio Alimento sottolinea che a quel tempo i Sabini erano inclini al lusso degli oggetti d’oro non meno degli Etruschi:

men Fai te kai iki rausin …. rusri ar san i aini tte kai urrnn u ttn ardiaiti72.

Tale accenno si inserisce nella corni-ce di episodi collocati agli albori dei rap-porti tra Sabini e Romani, di cui si trova eco anche presso Livio nel riferirsi agli stessi avvenimenti73, circostanza che do-cumenta una comune fonte annalistica pre-catoniana.

Uno di questi episodi è l’accenno al tentativo di corruzione dei Romani me-diante l’oro perpetrato dai Sabini; l’altro, più circostanziato, è il tradimento di Tar-peia nell’ambito della guerra tra la Roma di Romolo e i Sabini di Tito Tazio. Secon-do questa versione, la giovane Tarpeia, attratta dai braccialetti d’oro che i Sabini portavano al braccio sinistro, promise al loro re Tito Tazio di consegnare la patria in cambio di quell’oro. Il re sabino avreb-be acconsentito a cedere i bracciali d’oro, ma poi, avuto libero accesso in città, fece

373Aurum

seppellire la giovane sotto gli scudi che i suoi soldati portavano al braccio sinistro insieme ai bracciali d’oro.

Dionigi sottolinea che su questo punto la tradizione annalistica è concor-de74. Infatti, le variazioni nei vari filoni del-la tradizione sono di dettaglio, evidente-mente scaturite dall’intento di riabilitare o riscattare Tarpeia dal ruolo di traditore della patria. Per esempio, secondo l’anna-lista Calpurnio Pisone75, Tarpeia avrebbe mirato non all’oro, bensì a disarmare i nemici e di tale intenzione avrebbe per-fino informato Romolo, mentre Properzio raccoglie la tradizione che vorrebbe il tra-dimento di Tarpeia dettato dall’innamo-ramento per il re sabino76. Comunque sia, nel racconto annalistico è da sottolinea-re il fatto che i Sabini portano i bracciali d’oro a sinistra come le armi da difesa (gli scudi) e che Tarpeia viene uccisa non con le armi da offesa, ma appunto con quelle da difesa, cioè sepolta sotto la montagna di scudi. C’è, dunque, una sorta di dissol-venza tra bracciali d’oro e scudi da guerra per quanto riguarda la loro funzione, che è propriamente difensiva ed apotropaica, ma che diviene anche offensiva come strumento che può generare morte.

Al di là dei dettagli e delle varianti della leggenda di Tarpeia, è opportuno valorizzare un aspetto che dà credito alla testimonianza dei primi annalisti, almeno per quanto riguarda l’uso di ornamen-ti d’oro anche in assetto militare, cioè il contrasto con il carattere convenzionale con cui i Sabini vengono rappresentati nella cultura romana, almeno a partire da Catone. è noto, infatti, che Catone, riven-dicando le origini spartane dei Sabini, ne sottolineava la frugalità, l’austerità e il ri-gore dei costumi, certamente ben lontani dal lusso simboleggiato dagli ornamenti in oro, collegando le origini più antiche dei mores Romani alla disciplina austera e alla rigida frugalità sabina77. Le due diver-

se visioni storiografiche, fatte oggetto di ripetute analisi, muovono da una diversa chiave di lettura ideologica che valorizza angolazioni cronologiche e geografiche diverse. Senza dubbio, l’immagine di una Sabina ricca e opulenta è legata cronolo-gicamente alla reminiscenza di una fase arcaica (quella appunto delle ‘aristocrazie principesche’ che si scontrano, ma an-che, in larga parte, si amalgamano con la Roma del periodo regio) e geografi-camente più circoscritta alla fascia gra-vitante sul medio-basso corso del Tevere (quella appunto prossima all’ambiente falisco ed etrusco e in qualche modo rap-presentata archeologicamente dai rinve-nimenti di manufatti aurei nella necropo-li di Colle del Forno)78.

è sicuramente in questa zona che, per ovvi motivi, si addensavano in età arcaica manifestazioni aristocratiche di agiatezza e di lusso nei quali i Sabini, se-condo la tradizione raccolta da Livio e da Dionigi, sarebbero stati al pari degli Etru-schi79. Inoltre, significativamente, per l’età alto-arcaica, oltre agli episodi sopra men-zionati, non mancano in seno alla tradi-zione ulteriori riferimenti alla ricchezza in oro di leggendarie figure di capi sabini ar-rivati nella Roma delle origini, quali Atta Clauso e Appio Erdonio80.

Va detto, d’altra parte, che del mon-do sabino la tradizione ha messo l’ac-cento anche su aspetti e ruoli ben diversi da quelli del lusso, come, per esempio, mostrano i filoni che ruotano intorno alla figura di Numa, re sabino per eccellenza.

Sull’altro versante, la rappresentazio-ne, un po’ stereotipata, dei Sabini, come depositari degli antichi mores Romani non ancora influenzati dall’ellenismo, caldeg-giata da Catone81, riflette con tutta proba-bilità una fase più recente, successiva alle trasformazioni che hanno attraversato le civiltà della Penisola nel corso del V seco-lo, e forse anche un’area geograficamente

374 Paolo Poccetti

arretrata nell’entroterra appenninico (per esempio la zona di Amiternum). L’imma-gine idealizzata da Catone in chiave anti-ellenica è quella di una Sabina che si so-stiene sulla piccola proprietà contadina e che costituisce il terreno di elezione di quella classe di proprietari terrieri-soldati che alimenta la società romana tardo-re-pubblicana82 ormai distante dall’orizzonte ideologico del lusso arcaico. In ogni modo, la Sabina di Catone è quella cronologica-mente a lui più vicina, che meglio si presta all’identificazione concreta della sua visio-ne ideale dei mores.

Per quanto qui interessa, si può, dun-que, prestar fede al filone della tradizione annalistica antecedente Catone, riferita da Dionigi di Alicarnasso83 e da Livio84, che, in relazione ad avvenimenti di epoca arcaica, mette sullo stesso piano Sabini ed Etruschi nell’ostentazione della ricchezza simbo-leggiata dagli ornamenti in oro. Questo filone della tradizione ha avuto anche un riflesso linguistico, su cui ora focalizzere-mo l’attenzione, in quanto ha un peso ine-ludibile anche per chi si occupa dell’etimo-logia del nome latino dell’oro. Una glossa di Festo, infatti, relativa proprio al termine latino aurum, tra le varie tesi circa la sua origine, alcune delle quali sono manifesta-mente insostenibili sul piano linguistico, espone una possibile provenienza sabina della parola, di cui si adduce una forma pre-rotacistica ausum:

aurum dictum quia praecipue custoditur. Gra-ece enim rein custodire dicitur; unde et thesaurum. Hippocrates medicus de nomine inventoris id dictum putat, quem vocitatum ait Aurion. Quidam ad similitudinem aurorae co-loris nomen traxisse existimant; nonnulli, quia mentes hominum avertat; alii a Sabinis transla-tum putant, quod illi ausum dicebant85.

Ci pare difficile disgiungere l’intero filone di tradizioni antiquarie che asseri-

scono l’uso e le pratiche dell’oro presso i Sabini in epoca regia dal filone gramma-ticale che ascrive l’origine della parola allo stesso ambiente linguistico, in con-siderazione del fatto che l’etimologia an-tica generalmente trae ispirazione dalle relazioni culturali profonde che legano le parole ai rispettivi denotata e ai rispettivi contesti di circolazione.

iv. La paroLa Latina per ‘oro’

La glossa di Festo sintetizza le molteplici riflessioni sull’origine del termine latino aurum, che lasciano trasparire anche in-teressanti risvolti per il trattamento sin-cronico della parola in latino.

In questa glossa, che ci viene conser-vata nella riduzione dell’escerto di Paolo e che conseguentemente doveva essere più estesa nel suo assetto originale, ven-gono elencate diverse spiegazioni anti-che attribuite al termine latino per ‘oro’. Significativamente l’elenco si apre con l’ipotesi dell’origine greca che la associa anche alla parola thesaurus in nome di una comune ascendenza dal verbo greco rein ‘custodire’ e si chiude con la pro-posta dell’origine sabina. Questa bipar-tizione tra origine greca e origine ‘italica’ è caratteristica ricorrente nelle pratiche etimologiche del mondo romano. Essa ha la sua radice ultima nella duplice chiave interpretativa, non esente dall’impronta ideologica e politica, che la cultura ro-mana di epoca repubblicana ha dato del vocabolario latino, angolandolo tra com-ponenti indigene ovvero italiche, segna-tamente sabine, e componenti allogene, segnatamente elleniche. Questa duplice chiave di lettura, che si rispecchia anche nell’opera di Varrone86, consiste nell’attri-buire un maggiore o minore peso all’una o all’altra componente, accentuando, da un lato, il prestigio dell’ascendenza greca

375Aurum

del latino e, dall’altro, invece, valorizzan-done l’autonomia in nome di una autoc-tonia linguistico-culturale.

Per quanto riguarda la presunta ori-gine greca del termine aurum (Graece enim rein custodire dicitur; unde et the-saurum), la relazione suggerita tra aurum e rein cela un interessante risvolto relativo alla realtà fonica soggiacente. Il rapporto tra aurum e rein, infat-ti, non può che basarsi sulla pronuncia monottongata di aurum, di cui abbia-mo, in sintonia con le vicende evolutive della lingua latina, anche altre esplicite testimonianze. Tra queste, per esempio, la glossa, sempre di Festo, che mette in relazione l’ittionimo orata (così scritto) con aurum, di cui si esplicita la pronuncia ‘sub-standard’ orum:

Orata genus piscis appellatur a colore auri, quod rustici orum dicebant, ut auricola, oricu-las (Fest. 196, 26 L.).

Nello stesso senso depone la grafia aurichalcum in luogo di orichalcum che, in quanto prestito dal greco reiak ‘ottone’, in origine non aveva niente a che vedere con l’oro87. Tuttavia l’assimilazione paretimologica al nome dell’oro, è stata agevolata, da una parte, dalla precoce monottongazione del dittongo iniziale /au/, per la quale, essendo già presente nel latino sub standard, non c’è necessità di ricorrere ad una mediazione dell’um-bro88, e dall’altra dall’associazione per-cettiva legata alla prossimità del colore. Proprio per questo, probabilmente, cioè per l’assonanza fonica e per la somiglian-za della materia, nella sensibilità comu-ne dei parlanti aurum e aurichalcum, fin dai primordi della letteratura, sembrano polarizzarsi quasi come antonimi, incar-dinandosi l’uno come designazione dell’ «oro ‘vero’, moneta dei padroni» e l’altro come «oro ‘finto’, moneta degli schiavi»

secondo quanto viene mostrato da un passo di Plauto:

PH. Auro contra cedo modestum amatorem: a me aurum accipePA. Cedo mihi contra aurichalco, quoi ego sano serviam89.

Anche presso gli autori di età classica aurichalcum si configura come imitazio-ne del prezioso metallo (aurum)90 incardi-nandosi nello stesso rapporto di stagnum rispetto a argentum91.

Da un altro lato, però, si assiste ad una crescente incertezza sulla reale na-tura dell’ aurichalcum, che viene identi-ficato come una lega di metalli, di volta in volta diversi, con l’oro. Tale confusione genera la perdita della nozione reale del-la designazione originaria, di cui si fa por-tavoce Servio quando lo definisce il più prezioso di tutti i metalli

Apud maiores orichalcum pretiosius metallis omnibus fuit92.

Tale conclusione è stata, probabil-mente indotta, oltre che dall’uscita della parola orichalcum dall’uso comune, dal verso di Virgilio, commentato da Servio, nel quale aurum e orichalcum sono ac-costati nella fattura dello stesso oggetto:

ipse dehinc auro squalentem alboque orichalco circumdat loricam umeris93.

Il secondo filone della tradizione ri-ferita dalla glossa festina collega l’origine della parola latina per ‘oro’ con il nome del suo presunto scopritore Aurion, se-condo la testimonianza attribuita a Ip-pocrate medico, che è forse preferibile correggere con il nome del grammatico Ipsicrate94. L’attribuzione dell’origine di una parola al nome di un immaginario prt eurt dell’oggetto designa-

376 Paolo Poccetti

to appartiene ad una prassi etimologica comune nel mondo antico che non ha bisogno di soverchia analisi. Tuttavia, si-gnificativamente, dal punto di vista mor-fologico Aurion (omofono all’avverbio greco aurin “domani”) è un derivato di aurum, circostanza che rovescia la prassi usuale per cui è il nome del prodotto o dell’istituzione ad essere morfologica-mente meno marcato rispetto a quello del suo presunto inventore o fonda-tore (es. ta rispetto a taia ike rispetto a ikeia.

Più interessante, invece, è la notizia riportata nella glossa in terza posizione ed attribuita a fonti sconosciute (quidam ad similitudinem aurorae coloris nomen traxisse existimant), che mette in relazio-ne aurum e aurora in base al colore di quest’ultima. Tale relazione merita atten-zione per due ordini di ragioni. Per prima cosa l’indubbia similarità formale, che, almeno nella sincronia del latino, pote-va agevolmente indurre all’associazione tra le due parole in virtù della sovrap-ponibilità della rispettiva parte radicale, identificabile in una forma pre-rotacistica comune, cioè *aus-.

D’altra parte, una comune protofor-ma indoeuropea di tale parte radicale, al di là della diversa morfologizzazione, non è stata esclusa, pur con diverse sfumatu-re di dettaglio. Come avverte De Vaan, la ricostruzione di una duplice laringale nella radice di aurum < *h2e-h2us-o-, che si distinguerebbe così da quella di aurora < *h2eus-ōs- risponde più che altro all’esi-genza di giustificare la dimensione accen-tuativa della parola lituana per ‘oro’ áu(k)sas95 che costituisce il comparandum più diretto per la parola latina. Va sottolinea-to, al proposito, che, nel panorama delle lingue indoeuropee, il latino aurum, oltre alle lingue baltiche (nel già citato lituano áu(k)sas e l’a.pruss. ausis), non ha altri ri-scontri salvo il lontano tocario (toc.A wās;

toc.B yasa). Tale circostanza ha dato adito all’ipotesi di un prestito della parola dalle lingue uraliche96, che appare non pura speculazione in considerazione del fatto che le regioni di ambito siberiano sono note per la presenza di miniere di oro.

Ma al di là di tale ipotesi, che chia-ma in causa relazioni remotissime ed insondabili tra famiglie linguistiche, merita osservare che il latino e le lingue baltiche condividono nell’ambito della famiglia indoeuropea, non solo le mag-giori affinità formali nel nome dell’oro, ma anche uno spiccato parallelismo nel trattamento morfologico del termine per ‘aurora’ rispetto a quello per ‘oro’. Infatti, il lituano aušrà ‘aurora’ converge con il ter-mine latino aurora relativamente al suo inserimento tra i temi in –ā, a differenza della flessione come tema in consonan-te –es/-os di altre lingue (es. greco attico e; a.i. uṣāh).

Sul piano semantico una relazione tra il nome dell’oro e quello dell’aurora fa parte di una percezione piuttosto dif-fusa. Nell’antichità era ben presente la consapevolezza del rapporto tra il colore dell’aurora e lo splendore dell’oro, come esplicitamente affermato nel commento alla derivazione etimologica istituita da Varrone:

aurora dicitur ante solis ortum, ab eo quod igni solis aureo aer aurescit97.

L’anello di tale relazione è il colore assunto dalla luce solare al suo sorgere, come sottolinea la voluta assonanza tra aurora e la sequenza aureo aer aurescit. In sostanza Varrone si fa portavoce di una percezione condivisa nell’antichità che attribuiva alla luce solare (igni solis) la proprietà di assumere il colore dell’oro al suo primo apparire nel giorno. Questa proprietà di «essere come l’oro» o «avere il colore dell’oro» in latino è stata lessica-

377Aurum

lizzata appunto nel verbo aurescere, di cui la testimonianza varroniana costituisce l’unica attestazione sicura, sì da essere stata perfino ritenuta una creazione arti-ficiosa dello stesso Varrone98.

In realtà, tale verbo trova un’altra pos-sibile occorrenza in un frammento delle Atellane di Novio, conservato da Nonio attraverso una tradizione manoscritta piuttosto tormentata, ove è stata restituita la variante sub-standard orescit (in luogo di aurescit):

Ut sole orescit crepera (scil nox), castra crebro catapulta inpulit99.

La giunzione sintattica del verbo con la parola per ‘sole’, presente anche nel passo sopra citato di Varrone, costituisce un elemento a favore dell’identificazione delle due forme verbali aurescit e orescit, secondo un’oscillazione nella realizzazio-ne del dittongo /au/ molto frequente, e porta ad escludere la relazione di orescit con altri verbi100. Pertanto, le due uniche attestazioni del verbo in latino convergo-no nella relazione sintattico-semantica con il colore assunto dalla luce solare nel dissipare le tenebre. La specificità seman-tica, che trova coerenza morfologica con i verbi uscenti in –esco derivati da nomi di colore, distinguendosi da altri deno-minali da aurum come aurare «dorare, in-dorare», riesce a giustificare la rarità delle occorrenze nella latinità.

Peraltro, la relazione tra l’aurora e il co-lore dell’oro appare anche in lingue dove i due termini non intrattengono alcuna so-miglianza formale, come in greco. Nei poe- mi omerici, infatti, oltre al frequentissimo rddaktu, l’altro epiteto con cui si accompagna il nome dell’ ‘aurora () è rusrn, che figura altrove come attributo di varie divinità, quali Era e Arte-mide (sempre in Omero), Demetra e Iside (in altra poesia).

Ritornando al lessico latino, un rap-porto semantico di metonimia tra il nome dell’oro e quello dell’aurora, in riferimento al colore, è percorribile in entrambi i sensi: la designazione dell’aurora può ispirarsi al colore dell’oro e, quindi, derivarne il nome o, inversamente, l’oro prendere nome dal colore dell’aurora. D’altra parte, in diver-se lingue indoeuropee il nome dell’oro è connesso con quello del colore, nello spe-cifico il ‘giallo’ come si verifica nelle lingue germaniche, in quelle slave, oltre all’antico indiano: es. got. gulƥ; ingl. ted. Gold101; a.sl. zlato102; a.i. hiranyam103.

Passiamo, infine, al segmento delle notizie etimologico-antiquarie, con cui si chiude la glossa di Festo, cioè le asserite origini sabine del nome latino dell’oro:

alii a Sabinis translatum putant, quod illi au-sum dicebant.

Tale informazione, che accredita quale antecedente del latino aurum, una forma pre-rotacistica ausum < *ausom importata dalla lingua dei Sabini, è certa-mente quella più attendibile e che merita maggiore interesse per varie ragioni.

Innanzitutto la forma pre-rotacistica *ausom trova conferma nei confronti con le altre lingue indoeuropee che condivi-dono con il latino la stessa parola per de-signare l’‘oro’, cioè, come già detto sopra, le lingue baltiche e il tocario. La possibilità che a questo novero di lingue si aggiun-ga anche il sabino e le altre lingue del gruppo sabellico è del tutto plausibile. Sul versante del latino preletterario, nessuna difficoltà per l’esistenza di una forma pre-rotacistica *ausom è rappresentata dal frammento della legge delle XII tavole che serba menzione del nome dell’oro:

neve aurum addit, at cui auro dentes iuncti escunt, ast im cum illo sepeliet uretve se fraude esto104.

378 Paolo Poccetti

Infatti, tale prescrizione dell’antica legge decemvirale ci è stata tramanda-ta dal De Legibus di Cicerone105, il quale ha adottato un maquillage di adegua-mento linguistico, operato per rendere comprensibile il testo106 e agevolarne la memorizzazione, sempre secondo la testimonianza dello stesso Cicerone. La presenza di alcuni arcaismi, sicuramente presenti nel dettato originale del fram-mento, come im e escunt, combinando-si con la forma pre-rotacistica *ausom, risponde alla logica, esplicitamente dichiarata dallo stesso Cicerone, della maggiore autorevolezza che il connotato stilistico arcaizzante conferisce ad un te-sto di legge. Quanto al rotacismo, d’altra parte, nessuno dei frammenti delle XII Ta-vole che ci sono stati tramandati conser-va forme pre-rotacistiche, anche laddove sarebbero da aspettarsi (es. proletarius, aeris, maiorem, minorem, horum), sebbe-ne il rotacismo sia stato assunto, almeno nella norma ‘standard’ del latino, non pri-ma della metà del IV secolo a.C., secondo la nota tradizione107. In conclusione, l’at-testarsi di aurum nel frammento delle XII Tavole non scalfisce affatto la plausibilità di una forma pre-rotacistica ausum.

Il nucleo della notizia della glossa di Festo, cioè, il fatto che aurum<*ausom possa essere una parola di prestito dalla lingua dei Sabini, ha una sua plausibilità, non essendo ostacolata da alcuna con-troindicazione, anche se, ovviamente, non ha il grado di certezza. L’ipotesi di un prestito può sostenersi sulla tendenza generale per cui la parola per ‘oro’ in mol-te lingue è stata importata da un’altra lin-gua. Così, per esempio, il greco rus è generalmente ritenuto un prestito dal semitico108 e le rispettive parole delle lin-gue celtiche e dell’albanese derivano dal latino aurum109. A sua volta, a livello di macro-famiglie l’attestazione del tocario ha dato adito, come si è detto, all’ipotesi

che il lessema alla base di aurum avesse origine dalle lingue uraliche.

Nessuna meraviglia, dunque, che anche la voce latina aurum possa es-sere un prestito da una lingua finitima, il sabino, espressa da una civiltà forte-mente compromessa con la storia di Roma arcaica. A favore della direzione di tale prestito possono giocare le tra-dizioni antiquarie sulle pratiche dell’o-ro da parte dei Sabini nelle fasi del loro impatto con Roma, tradizioni che con-vergono con le testimonianze archeo- logiche di un’oreficeria ‘sabina’ arcaica. Tuttavia, almeno in linea di principio, è altrettanto plausibile anche la direzione inversa del prestito, cioè che la forma sa-bina accreditata possa essere un prestito dal latino, ovviamente nello stadio pre-rotacistico.

In ogni modo, entrambe le soluzio-ni convergono su una sola conclusione, cioè che il termine *ausom > lat. aurum facesse parte, come molte altre, del pa-trimonio lessicale comune ai due gruppi linguistici, quello latino e quello sabelli-co, circostanza che accresce la probabili-tà che la parola, piuttosto che un prestito nell’una o nell’altra direzione, apparte-nesse al fondo più remoto del lessico del ramo ‘italico’ delle lingue indoeuropee. Questa visione rafforzerebbe, in un’ottica comparativa più generale, l’importanza di questa isoglossa lessicale che lega più strettamente il gruppo italico con quello baltico e con il tocario rispetto alle altre lingue indoeuropee, che, per designare l’oro, hanno fatto ricorso ad elementi les-sicali tra loro diversi.

Tuttavia, nei percorsi della linguistica storica, antecedentemente alla scoperta del tocario e, poi, indipendentemente da questa, è stata valorizzata l’isoglossa ita-lo-baltica, perché non solo offre maggio-re grado di certezza, ma anche permette di inserire il nome dell’oro nella cornice

379Aurum

di relazioni più strette e specifiche tra mondo mediterraneo e Europa setten-trionale. In tal senso è stata elaborata una terza teoria che considera *ausom quale termine ‘pre-indoeuropeo’ antichissimo «comune all’Europa mediterranea e con-tinentale […] come relitto di una primiti-va unità linguistica paleo-europea»110. Ma tale prospettiva ha finito per arenarsi nel porto delle nebbie delle presunte radici ‘mediterranee’ e/o ‘paleo-europee’ omo-fone come *aus(a)- presente in numerosi idronimi variamente analizzabili111.

Per restare, invece, su un terreno di maggiore solidità storica, meritevole di interesse è l’isoglossa italo-baltica relati-va al nome dell’oro, su cui aveva richia-mato l’attenzione alla fine dell’Ottocento W.Helbig nella cornice di un lavoro sul commercio dell’ambra112. Helbig aveva suggerito la diffusione del nome ‘italico’ dell’oro in area baltica attraverso le ‘vie dell’ambra’, in cui gli Italici avrebbero portato nel nord-Europa oro in cambio di ambra, ritenuta per la sua rarità altrettan-to preziosa. Non si può escludere, però, che le caratteristiche simili tra i due mate-riali, associabili tanto per lucentezza e co-lore quanto per l’uso in oggetti di pregio destinati all’ornamento personale, abbia-no potuto generare una sovrapposizione o uno scambio tra i rispettivi nomi.

Infine, un’ultima osservazione riguar-da il rapporto tra latino e sabino relativa-mente al nome dell’oro. Una nota glossa di Festo relativa al culto solare della gens Aurelia,cioè

Aureliam familiam ex Sabinis oriundam a sole dictam putant, quo dei publice a populo Roma-no datus sit locus, in quo sacra faceret Soli, qui ex hoc auseli dicebantur113,

è stata spesso utilizzata a documen-

tazione del termine sabino per ‘sole’ in giunzione con il termine etrusco usil

che designa ugualmente il ‘sole’, come confermato dall’iconografia su specchi etruschi. La forma auselo-, ricostruibile alla base del gentilizio Aurelius e segna-lata dalla glossa stessa, ha dato luogo in passato all’ipotesi che il nome etrusco del ‘sole’ fosse un prestito dal sabino114. Tale conclusione è stata più di recente revo-cata in dubbio con validi argomenti da C. De Simone115 sulla base di due conside-razioni essenziali: a) è tutt’altro che certo che la forma sabina del nome del sole sia *ausel(o)- ; b) esiste in etrusco arcaico un prenome Usele suscettibile di indicare altre soluzioni esplicative della parola (e teonimo) usil ‘sole’. In effetti, una forma *auselo-, come ipotetico nome sabino del sole, è pura illazione ricavata dal det-tato della glossa di Festo, che, tuttavia, di fatto, non lo esplicita. Ora tale deduzio-ne, che era già in palese contrasto con l’affermazione di Varrone sol vel quod ita Sabini116, che accredita alla lingua dei Sa-bini una forma identica a quella latina, ha ricevuto di recente un’ulteriore (e proba-bilmente definitivo) colpo dall’attestarsi del nome del sole in una nuova iscrizio-ne osca nella forma suleis (gen. sing.)117. Questa nuova attestazione dell’osco, lingua appartenente allo stesso gruppo linguistico del sabino, dà credito al passo varroniano che il nome del sole in sabino fosse sostanzialmente coincidente con quello latino.

A questo punto per la spiegazione della forma sabina auselo-, riconoscibile alla base del gentilizio degli Aurelii, oc-corre percorrere un’altra strada, recente-mente aperta, cioè quella, formalmente ineccepibile, di un rapporto con il nome dell’oro118. Infatti la forma auselo- ben si presta a riconoscersi quale derivato in –o/e-lo- dalla base auso-, ricostruibi-le come *h2ah2us-el-o-119. Siffatta forma risponde ad un tipo morfologico abba-stanza comune e frequente nell’onoma-

380 Paolo Poccetti

stica arcaica, di cui si serbano testimo-nianze in diversi canali della tradizione. A tale tale tipo appartengono nomi come Romulus e Caeculus (mitico fondatore di Praeneste) e altri sopravvissuti come cognomina o documentati da lingue prossime come Proculus, Mitulus (osco Mitl.), Paculus (osco Paakul)120. Altri nomi ancora sono noti attraverso altre tradi-zioni come l’etrusco (es. Rutile, Titele, ol-tre a Puinel < Poenulus)121 e il greco (es. Eie Pape)122. Analogo proce-dimento formativo può riconoscersi alla base di diversi gentilizi latini come Aemi-lius, Cornelius, ecc.

Il morfo -o/e-lo- non funge solo da ipocoristico, ma ha molteplici funzioni mostrate dal lessico latino in dipendenza della base lessicale123. Nell’onomastica indica primariamente una relazione di appartenenza in rapporto al lessema o al nome su cui si appoggia: così Romulus indica «chi è in rapporto o ha relazione con Roma» e non il ‘Romanino’124. Appa-re, pertanto, legittima la considerazio-ne di auselo- come derivato di auso-, in quanto designazione di ‘chi è in relazione con l’oro’. Questa forma, pienamente co-erente con le regole morfologiche della lingua sabina, originatasi nell’ambito del lessico, sarebbe poi passata all’onomasti-ca personale, secondo un flusso del tutto normale.

Comunque sia, la fase certa di un an-troponimo sabino *auselo-, alla base del gentilizio Aurelius, suggerisce anche una spiegazione alternativa per il prenome etrusco Usile come derivato dal sabino auselo-. Infatti, una tale origine, paral-lela ad altri prenomi etruschi arcaici, ivi compresi quelli con il morfo -o/e-lo- rico-struibili attraverso i gentilizi arcaici tipo Rumelna, Rutelna, *Hustile(ia)125, appare altrettanto plausibile quanto l’inserimen-to di Usile all’interno delle dinamiche morfologiche dell’etrusco126.

L’esistenza di un elemento lessicale auselo-, connesso al nome dell’oro, porta, così, un’ulteriore conferma all’esistenza di una forma sabina *ausom, omologabi-le a quella latina e, dunque, converge con la notizia riferita nell’altra glossa festina (sopra citata), che asserisce la presen-za di tale parola nella lingua dei Sabini. Dall’altro canto, però, auselo- non ci dice nulla sulla valenza semantica o ideologi-ca soggiacente il suo uso nell’onomastica personale. Una relazione semantica im-mediata può essere offerta dalla relazio-ne con il colore del metallo, che si mette su un piano di immediata comparazione con la funzione di altre basi onomastiche ispirate a nomi di colori che motivano nomi personali arcaici, come Rutilus > etr. Rutile, lat. Flav(i)us > etr. Vhlave; Fulv(i)us > etr. Hvuluves, ecc.127. Tuttavia, la parola per ‘oro’, anche se l’uso metonimico in riferimento al colore è piuttosto comune in varie culture, non è propriamente un nome di colore, che si applica in modo inequivocabile per identificare i tratti fi-sici di una persona. è fuor di dubbio che, in qualunque società, ivi comprese quelle arcaiche, un nome personale che suona letteralmente come «chi ha relazione con l’oro» si carica di una valenza ideologica che travalica la semplice connotazione di caratteristiche fisiche, legate al colore di parti del corpo (in genere, i capelli). Ma anche tale definizione non appar-tiene certo ad un’espressione comune, se si riflette al fatto che l’attributo greco ruskm ruskm «dalla chioma o capelli d’oro» è riferito a divinità piuttosto che ad esseri umani.

Certo, per la forma auselo-, usata per l’individuazione personale, non è del tutto da escludere un possibile rife-rimento alle caratteristiche fisiche, che, tuttavia, non lascia aperte altre strade, se non all’avventurarsi nel terreno delle ipotesi. In tale terreno potrebbe essere

381Aurum

invischiata anche l’annosa questione del nome degli Ausoni, per il quale la derivazione dal nome dell’oro, già avan-zata da tempo, ha maggiore plausibilità morfologica128 rispetto ad altre agnizio-ni etimologiche che si sono accavallate sull’etnonimo129.

In ogni caso, la connessione, for-malmente plausibile, di auselo-, quale termine sabino alla base del nome degli Aurelii, con la parola *ausom ‘oro’ non può essere distolta dalla cornice in cui si in-serisce la glossa che ne dà l’indicazione: cioè il dato culturale del rapporto con il culto del sole, fatto proprio come vessillo gentilizio degli Aurelii e introdotto attra-verso la mediazione di questa gens come culto pubblico a Roma (quod ei publice a populo Romano datus sit locus). Pertanto, nel pernio della relazione con il culto del sole, intorno a cui ruota l’intero dettato della glossa, deve inserirsi la relazione onomastica con il nome dell’oro rintrac-ciabile in auselo-. In tale prospettiva si aprono altri interrogativi, che toccano il legame effettivo tra il ‘nome’ (legato all’o-ro) e la ‘realtà fattuale’ (il rapporto con il culto del sole). Il rapporto tra la ‘parola’ e ‘la cosa’ si traspone sostanzialmente nella questione di definire quale ne sia il ‘prius’ ovvero di stabilire in che misura il culto gentilizio del sole sia un portato dell’in-terpretazione ideologica del nome ause-lo- o, inversamente, se la pratica del culto solare abbia dato una motivazione ad un nome come auselo-, che poteva, in origi-ne, motivarsi da basi diverse o caratteriz-zarsi con altre connotazioni. In entrambi i casi resta fuori discussione la motivazio-ne ideologica (nell’uno, ex ante, nell’altro, ex post) che la parola per ‘oro’ sussume in riferimento al vero bene indispensabile agli esseri umani e necessario alla produ-zione di qualunque ricchezza, cioè il sole. Questa stretta associazione della luce e del calore solare con l’oro viene esplicita-

mente sottolineata dal passo del ‘sabino’ Varrone, sopra citato, in cui l’oro viene doppiamente evocato dall’aggettivo au-reus e dal verbo aurescit: igni solis aureo aer aurescit130.

note

1 Cfr. santoro 1973, pp. 69-74; santoro 1977, pp. 263-265.

2 aMpoLo 1980; cristoFani 1983.3 aMpoLo 1984, p. 80.4 Riferimenti in aMpoLo 1984, p. 81.5 cristoFani-MarteLLi 1983, p. 261.6 cristoFani-MarteLLi 1983, pp. 261-287.7 idd., pp. 253-257.8 Si tratta della coppa con iscrizione semi-

tica e di quella con la scritta Vetusia, rinvenuti insieme alla fibula di Manios nella tomba Ber-nardini.

9 cristoFani 1975.10 aMadasi Guzzo 1987; id. 1988; iMperato

1994, pp. 181-185.11 aMadasi Guzzo 1987, p. 26, n. 12.12 Sulla questione interpretativa della scrit-

ta in relazione all’attribuzione linguistica al lati-no o all’etrusco cfr. HartMann 2005, pp. 44-66, il quale si pronuncia a favore di una pertinenza latina dell’iscrizione, considerata meno proble-matica di una lettura in veste etrusca.

13 GarBini 1977, pp. 60-61.14 aMadasi Guzzo 1987, pp. 27-28.15 Come nel caso, appunto, della tomba

Bernardini a Praeneste e della Regolini Galassi a Caere.

16 aMadasi Guzzo 1967, Sard 38.17 Cfr. aMadasi Guzzo 1988.18 Cfr. JeFFery 1990, p. 127.19 La controversia riguarda l’attribuzio-

ne linguistica al latino (come nom. sing. di un nome femminile) o all’etrusco (come genitivo arcaico di un nome maschile): per lo status quae- stionis e in favore dell’attribuzione al latino: cfr. HartMann 2005 e FrancHi de BeLLis 2007.

20 cristoFani-MarteLLi 1983, p. 262.21 cristoFani-MarteLLi 1983, p. 261; cristoFani

1984. 22 et Cl., 2, 3.23 et Cr., 2, 26.

382 Paolo Poccetti

24 et Vc., 2, 2.25 Si veda FrancHi de BeLLis 2009; id. 2011.26 Sulla tecnica di incisione di scritte greche

arcaiche su oggetti in metallo, cfr. casson 1935.27 Citazione da Guarducci 1980, p. 445.28 cristoFani 1982, p. 30.29 ManGani 2005.30 MerinGer 1904.31 coLonna 1975.32 Così per esempio avremmo molte riserve

nel connettere la forma falisca fifiked che con-trassegna firme su vasi arcaici con la famiglia del verbo latino fingo (e non con facio) in riferimen-to alla specializzazione dell’attività del ‘vasaio’.

33 ciL I2 552 = ILLRP 1201.34 enn., scen., 95.35 cic., orat., 232. 36 Liv., 9, 40, 2.37 pLin., hist. nat., 33, 154.38 pLin., hist. nat., 33, 51.39 pLin., hist. nat., 33, 53-58.40 Meyer-LuBke 1911, s.v. aurifex.41 Beekes 2010, 1852, s.v. rus.42 Cfr. ThLL, 1, 1481, 45-75, s.v. Aurārius:43 Cfr. serv., Aen., 6, 816: auris: favoribus;

unde et aurarii dicuntur favisores; id., Aen., 6, 204: hinc (sc. ab aura i. splendore) at aurarii dicti, quo-rum favor splendidos reddit: cfr. ThLL 1, 1481, 50, s.v. aurarii.

44 ThLL, 2, 2167, 55-67, s.v. brattearius.45 Come tale glossato: brattea petan

(GL, 2, 31, 17) brattea petalum id est lamina au-rea (GL, 5, 652, 47); Brattearius: petaur (GLoss, 2, 406, 28); petapi (GLoss, 3, 371, 21)

46 ernout-MeiLLet 1985, s.v. brattea: «terme technique, sans doute emprunté».

47 Lucr., 4, 727.48 pLin., hist. nat., 37, 106.49 pLin., hist. nat., 33, 61.50 ciL, 6, 9210: aurifex bratiarius; Cod. The-

od., 13, 4, 2: blattiarii aurifices.51 Benedetti 1988, p. 95.52 Es. CIL, 9, 4797; 6, 4430, 9203, a cui si ag-

giunge il P. Caesennio P.l. Callido aurifici da Corfi-nium in Buonocore 1987, pp. 151-152.

53 cic., de orat., 2, 245; CIL, 13, 5908.54 Attestato, per es., in Liv., 34, 6; pLin., hist.

nat., 33, 51; Man., 5, 519. Inoltre non., 334 M. = varr. at., Rer. Div., 3: Lucius Scipio cum aurum factum haberet in cista viminea, fulmine ita est

ictus, ut cista esset integra, aurum conliquisset; isid., or., 16, 18, 13: aurum factum … quod in vasis et signis est.

55 cic., Verr., 5, 56.56 ThLL, 2, 1529 5-35, s.v. aurum.57 varr. at., Lat., 9, 20.58 ov., met., 6, 488. Cfr. inoltre: ThLL II 1529,

36-50, s.v. aurum.59 pLin., hist. nat., 8, 196. Cfr. inoltre ThLL, 2,

1529, 52-70, s.v. aurum.60 BeLFiore 2010, p. 102.61 CII, 806 = ET Cl., 2.3.62 HeurGon 1971.63 MaGGiani 1972, p. 469.64 pFiFFiG 1974.65 Già segnalate da pFiFFiG 1974, p. 293.66 Su questa tipologia di iscrizioni cfr. cri-

stoFani 1975.67 Se ne veda il catalogo in cristoFani 1975.68 ET Cr., 2.26.69 poccetti 2008.70 de siMone 2010.71 Come rilevato, per esempio, riguardo agli

ori della tomba XI della necropoli sabina di Colle del Forno che condividono similarità con quelli delle tombe Bernardini e Barberini di Praeneste e della Regolini Galassi di Caere: cfr. santoro 1977, p. 298.

72 D.H., 2, 38 = FaB. pict., hist., fr. 8 peter2 = cinc. aL., hist., fr. 5 peter2.

73 Liv., 1, 30, 4.74 Sulle variazioni all’interno della tradizio-

ne storiografica romana, cfr. Musti 1985.75 D.H., 2, 38 = caLp. piso, hist., fr. 5 peter2.76 prop., 4, 4.77 serv., Aen., 8, 638 = cato, hist., fr. 51 peter2:

Sabinorum etiam mores populum Romanum se-cutum idem Cato dicit.

78 Aspetto su cui insiste Musti 1985, pp. 87 ss.

79 D.H., 2, 38; Liv., 1, 30, 4. Cfr. seMioLi 2010, p. 320.

80 Liv., 2, 16, 3-5; 3, 15-18; D.H., 5, 40, 3-5; 10, 14-16.

81 Cfr. Letta 1985, pp. 22 ss.82 Cfr. GaBBa 1982.83 D.H., 2, 38.84 Liv., 1, 30, 4.85 Fest., 8, 9 L.86 Cfr. coLLart 1954, p. 218; pascucci 1979;

cavazza 1981, pp. 89 ss.

383Aurum

87 Cfr. Fruyt 1980.88 Cfr. caMpaniLe 1971, pp. 32 ss.89 pLaut., Curc., 201-202.90 cic., off., 3, 23: si quis aurum vendens ori-

chalcum se putet vendere.91 suet., Vit., 5.92 serv., Aen., 12, 87.93 verG., Aen., 12, 87.94 GRF, 108, fr. FunaioLi.95 de vaan 2008, p. 63: «Driessen 2003b re-

constructs a reduplicated form in order to get a sequence of laryngeal plus vowel causing the acute intonation of Lith. áuksas».

96 de vaan 2008, p. 63, s.v. aurum.97 varr., Lat., 7, 83.98 Cfr. MiGnot 1969, pp. 153 e 223, che fon-

da la sua argomentazione sul fatto che aure-scere ha una sola attestazione sicura presso Varrone e sul fatto che il verbo a differenza di altri in –sco (tipo rubescere, albescere, ecc.) ha alla base un sostantivo e non un aggettivo di colore. Tuttavia, aurum alla base di aurescere poteva essere facilmente associato alla cate-goria degli aggettivi di colore in particolari contesti in cui si vuol evocare appunto ‘il co-lore dell’oro’.

99 nov., com. (Pacevo), 66 = non., p. 552 (664, 15 quicHerat). La lezione orescit è accolta anche nell’edizione Frassinetti con varianti nel resto del frammento: sole orescit cerea castra crebro catapulta impulit (nov., com., 66 Frassinetti).

100 Per esempio un derivato di orior, su cui cfr. le legittime riserve di HaverLinG 2000, p. 177.

101 Cfr. LeHMann 1986, p. 162, s.v. gulƥ.102 derksen 2008, p. 547 s.v. zòlto.103 MayrHoFer 1956-1980, 3, pp. 581, 598.104 XII, T. 10, 8.105 cic., leg., 2, 24, 60.

106 unterMann 1986, pp. 15 ss.107 weiss 2009, p. 151.108 cHantraine 1984, p. 1278; Beekes 2010, p.

1852, s.v. rus.109 waLde-HoFFMann 1951, p. 86, s.v. aurum;

MaGGi 1953, p. 272.110 Citazione da MaGGi 1953, p. 268.111 Vd., per esempio, su questo le diverse

posizioni di devoto 1948 e di kraHe 1961.112 HeLBiG 1877, p. 8.113 Fest., 22 L.114 riX 1998.115 de siMone 2009b.116 varr., Lat., 5, 68, per quanto la lezione sol

sia un emendamento (ma il solo plausibile in quel contesto) del tràdito sola.

117 poccetti c.d.s.118 wodtko - irsLinGer - scHneider 2008, s.v.

h2ues-; Maras 2010, p. 152.119 wodtko - irsLinGer - scHneider 2008, s.v.

h2ues-.120 saLoMies 1987, p. 100.121 de siMone 2009a; 2009b.122 saLoMies 1987, p. 104; 2008, p. 31.123 LeuMann 1977, pp. 311 ss.124 prosdociMi 2009, pp. 34-36.125 Cfr. de siMone 2009a, p. 7.126 Come proposto da de siMone 2009b, pp.

120 ss.127 Come già suggerito da Maras 2010, p. 152.128 Cioè un derivato con il morfo –ōn, fun-

gibile all’onomastica (tipo Pompōn-, Catōn, ecc. rispetto a Pompo- > Pompius e cato- > catus).

129 Sulla complessa e dibattuta questione, cfr. la sintesi in MaGGi 1953, p. 275 e Lepore 1989, p. 84. Inoltre, più di recente, in favore di un’etimo-logia dal greco si è pronunciato Musti 1999; 2009.

130 varr., Lat., 7, 83.

BiBLioGraFia

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