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Alfabeti d'Italia. La lotta contro l'ignoranza nell'Italia unita

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Collanateoria e storia dell’educazione

diretta daGiorgio Chiosso, Simonetta Polenghi, Roberto Sani

© 2011 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torinowww.seieditrice.com

Prima edizione: 2011

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Stampatre - Torino

Indice

3 Introduzione

Capitolo primo7 Le vie dell’alfabeto7 1. Leggere, scrivere, far di conto e l’“uomo dabbene”

12 2. Verso l’Italia alfabeta17 3. La via maestra: la scuola21 4. I percorsi degli adulti. I protagonisti28 5. I percorsi degli adulti. Le esperienze39 6. L’altra metà della scuola. La via femminile all’alfabeto45 7. Il libro, la lettura e le biblioteche popolari52 8. Tra alfabeto e politica

Capitolo secondo59 Quale educazione per quali Italiani?

59 1. L’alfabeto imposto66 2. “Un grande operoso principio morale”70 3. Lo Stato come supremo ordinatore75 4. Fede nella scienza e fede nella patria80 5. Tra istruzione, educazione e primato della classicità85 6. Il sodalizio Villari-Gabelli93 7. Contro lo “Stato educatore”. Bonghi e Allievo99 8. Un’“educazione fisica collettiva e vistosa”

110 9. La Nazione dei forti114 10. L’italiano di fine secolo

vi indice

Capitolo terzo125 I cattolici e l’educazione popolare. L’esperienza dei Salesiani

125 1. “Il pane dell’anima è la verità”131 2. Don Bosco e i Salesiani nella cultura pedagogica tra i due secoli136 3. La Congregazione dei giovani138 4. Un rinnovato impegno educativo143 5. Con don Bosco e oltre don Bosco149 6. La popolarità, baricentro dell’educazione salesiana153 7. La questione dei giovani tra Otto e Novecento161 8. L’apporto delle Figlie di Maria Ausiliatrice167 9. I Salesiani e la scuola

Capitolo quarto177 Diventare maestri. La conquista della professione magistrale

177 1. Un mestiere dai contorni incerti182 2. Un maestro esemplare185 3. Alle origini della professione magistrale: la scuola normale193 4. Le conferenze magistrali degli anni ’80199 5. L’azione degli ispettori scolastici203 6. La divulgazione pedagogica tra giornali e Società magistrali209 7. La professione magistrale nella manualistica pedagogica218 8. Verso il nuovo secolo

Capitolo quinto221 Maestri privati, suore, medici e altro.

Antichi e nuovi protagonisti dell’educazione

221 1. Il tramonto del precettore228 2. Maestri e scuole private dopo l’Unità232 3. Preti maestri e preti educatori del popolo238 4. Le maestre “sacerdotesse del bene”243 5. La suora maestra250 6. Il medico tra cura del corpo e filantropia sociale257 7. Il divulgatore agrario

Capitolo sesto265 I libri di testo e l’editoria scolastica265 1. Un prezioso documento della scuola del passato267 2. Dal libro d’istruzione al manuale obbligatorio272 3. L’editoria per la scuola e l’educazione290 4. Il mercato del libro scolastico297 5. L’educazione dell’Italiano nei libri di lettura

309 Indice dei nomi

indice vii

A don Enzo Giammancheriindimenticabile e insostituibile maestro

Alfabeti d’ItaliaLa lotta contro l’ignoranza

nell’Italia unita

Introduzione

La costruzione della coscienza nazionale degli Italiani all’indo-mani dell’Unità poggiò su due principali criteri regolativi: la gra-duale alfabetizzazione delle masse popolari e la promozione in lorodi una solida coscienza etica. La sola “istruzione” senza “educazio-ne” avrebbe potuto sortire conseguenze imprevedibili: la capacitàdi leggere e scrivere era chiaramente desiderabile in uno Statomoderno, ma come impedire di avvalersi delle nuove abilità tra-smesse dalla scuola per assorbire e propagare le idee malsane orivoluzionarie?

Questi concetti erano esemplarmente espressi nei programmiscolastici per la scuola elementare del 1867 là dove si affermavache la padronanza del leggere, dello scrivere e del far di contoandava subordinata alla formazione di “giovinetti istruiti e savi epiegati al bene”. Alla istruzione andava “sempre congiunta l’edu-cazione”, senza la quale “essa è cosa morta, anco dannosa”. Duedecenni più tardi il ministro che aveva vinto la battaglia parla-mentare dell’obbligo scolastico, Michele Coppino, ribadiva ilmedesimo principio quando affermava che lo scopo dell’istruzio-ne elementare doveva essere quello di “formare una popolazione,per quanto possibile, istruita ma principalmente onesta, operosa,utile alla famiglia”.

La formazione dell’uomo onesto e utile a sé e agli altri erainsomma individuata come il presupposto sul quale si dovevano“fare gli Italiani”. Questo motivo pedagogico ricorrente si tradus-se, come è ben noto, in una sterminata produzione editoriale scola-stica e popolare. Tematiche come il valore del lavoro, la diffusionedell’istruzione, la denuncia dei vizi degli Italiani, il potenziamentodella loro capacità di volere, erano presentate come altrettanti tas-selli indispensabili per costruire il mosaico di una Nazione ordina-

4 introduzione

ta e produttiva della quale ciascuno si sentisse parte. Si trattava diintrecciare, in altre parole, la costruzione del carattere individualecon un senso della Nazione facilmente comprensibile.

Nei libri destinati agli alunni delle scuole elementari, ad esempio– un osservatorio privilegiato per esplorare i processi di nazionaliz-zazione –, la Nazione era spesso descritta come una madre solleci-ta, impegnata a custodire e proteggere gelosamente, anche graziealla sua morfologia naturale (la cinta alpina e i mari), i suoi abitan-ti, garantendo con la varietà delle risorse naturali (monti, pianure,mare) quanto era necessario al loro sostentamento. Le principalicittà erano presentate come figlie obbedienti di una genitrice solle-cita, con Torino e Firenze pronte a passare a Roma la corona diprimogenita.

Talora la Patria era invece presentata come una sposa alla qualesi doveva fedeltà. Alla figura del padre corrispondeva quella delsovrano in grado di conferire al concetto di Patria la saldezza e laforza emotiva di una “grande famiglia”, superando barriere socialie particolarismi geografici. Soltanto più tardi, a partire dagli anni’80, la Nazione sarebbe stata descritta anche “in armi”. Il passaggiodall’Italia materna alla celebrazione di una grandezza le cui radicierano riposte nelle glorie di Roma antica, non fu estraneo ai sognicoltivati da Dogali in poi.

L’umanizzazione della nozione di “Patria” non era solo un artifi-cio retorico per assecondare la psicologia infantile: era un modoper rendere comprensibile un concetto in genere estraneo allemasse rurali inclini a restare fedeli ad antiche tradizioni e legate aconsolidate abitudini e superstizioni. Il bambino che tornava a casae raccontava ciò che gli aveva insegnato il maestro diventava inmolti casi il mediatore tra la società che guardava alla modernità equella ripiegata sul passato.

Vista in questa prospettiva la battaglia contro l’ignoranza fuqualcosa di più della semplice estensione delle capacità alfabeti-che e fu a lungo accompagnata da alcuni dilemmi: fino a chepunto le masse dovevano essere “istruite” e in nome di quali valo-ri potevano essere “educate”? Valori soltanto laici o anche reli-giosi? Attraverso quali vie si potevano promuovere sentimenti diappartenenza a un’unica storia? Come era possibile comporre leconsuetudini del passato e la prospettiva di un futuro diverso?

introduzione 5

Ripercorrere le risposte date a questi interrogativi significa rico-struire non solo alcuni passaggi strategici della storia educativa epedagogica dell’Italia unita, ma approfondire i molteplici significa-ti attribuiti all’idea nazionale e incontrare le diverse idee di “popo-lo” a cui le parti in causa fecero riferimento. Capire perché si com-batté l’ignoranza e come si promosse l’alfabetismo, associandol’una e l’altro all’idea nazionale, favorisce, dunque, una più esausti-va comprensione del processo unitario.

Raccolgo in questo volume scritti apparsi in tempi diversi e altriappositamente stesi per questa occasione.1 Non si tratta di una sto-ria compiuta della battaglia contro l’ignoranza intrapresa – aspettoche non va dimenticato né sottovalutato – con tempi e modalitàdifferenti nelle varie parti dell’Italia. Mi limito a qualche sondaggioesemplificativo dal quale emerge che il passaggio dall’Italia del-l’ignoranza all’Italia alfabeta si compì mediante il concorso dinumerosi soggetti sociali, politici e religiosi che, con scopi spessodiversi e talvolta alternativi, risposero in modo positivo ai cambia-menti nei quali si trovarono ad agire. La realtà delle cose fu insom-ma più forte dei pregiudizi e delle ideologie.

Questa constatazione sembra confermare le tesi di quanti, oppo-nendosi tanto alle spiegazioni lineari della storia d’Italia quanto

1. Richiamo i titoli originari dei saggi che, ampiamente rivisti, aggiornati sul pianobibliografico e talvolta risistemati entro un nuovo quadro narrativo, sono ripropostinelle pagine che seguono. Sono inediti i capitoli secondo e quinto.

– Ignorante, galantuomo, analfabeta, in M. Ferrari (ed.), I bambini di una volta. Pro-blemi di metodo, Milano, Angeli, 2006, pp. 187-194.

– Le vie dell’alfabeto tra Otto e Novecento, in B. Gera (ed.), Un insegnamento per tutti.Centocinquant’anni di mutua istruzione nelle Società operaie piemontesi, Torino, CentroStudi Piemontesi, 2000, pp. 9-31.

– Nazionalità ed educazione degli Italiani nel secondo Ottocento, in “Pedagogia e vita”,1986-1987, n. 4, pp. 421-440.

– L’apporto dei Salesiani all’educazione fra Otto e Novecento, relazione svolta al Con-gresso internazionale di studi Don Rua nella storia, Roma, 29-31 ottobre 2010 (incorso di pubblicazione).

– “Valenti, mediocri e meno che mediocri”. I maestri alla conquista della loro professione,in E. Becchi, M. Ferrari (edd.), Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori,Milano, Angeli, 2009, pp. 419-453.

– Il libro di scuola tra editoria e pedagogia, in L. Braida, M. Infelise (edd.), Libri pertutti. Generi editoriali di larga circolazione tra antico regime ed età contemporanea, Torino,utet, 2010, pp. 203-226.

6 introduzione

prendendo le distanze da revisionismi variamente ispirati, hannosuggerito di guardare ai processi unitari in termini, per usareun’espressione oggi corrente, più di società civile che di Stato.Senza ovviamente trascurare il peso esercitato da quest’ultimo, illettore potrà verificare che la battaglia contro l’ignoranza fu com-battuta su tanti fronti e non è detto che le forze messe in campodallo Stato, per quanto significative, siano state quelle decisive peril suo esito positivo.

G.C.

Capitolo primo

Le vie dell’alfabeto

1. Leggere, scrivere, far di conto e l’“uomo dabbene”

Il peso di circa il 75% di analfabeti censiti al momento dell’Unità– i tre quarti della popolazione sopra i cinque anni di età non sapevané leggere né scrivere – apparve un macigno che pesava sul destinodell’Italia. La metafora della “conquista” proposta da alcuni studiosirestituisce in modo efficace la lotta contro l’analfabetismo.1

La lotta contro l’ignoranza dovette infatti misurarsi con difficol-tà di ogni genere: dall’arretratezza dell’economia alla povertà dellepopolazioni, dagli squilibri territoriali in fatto di distribuzione dellescuole all’indifferenza dei genitori, dall’ostilità di una parte delclero ai timori della stessa classe dirigente che l’eccessiva familiari-tà con il leggere, lo scrivere e il far di conto potesse scatenare con-seguenze sociali imprevedibili.

In poco più di mezzo secolo – tra gli anni ’30-’40 e la fine del-l’Ottocento – l’Italia compì un decisivo passo verso l’alfabetismo. Idati statistici documenteranno per molto tempo persistenti e rile-vanti quote di persone analfabete (al censimento del 1901 eranoancora intorno al 50% della popolazione e sacche di analfabetismodiffuso si prolungarono fin verso le metà del secolo scorso), maall’alba del nuovo secolo era cambiata in modo irreversibile la per-cezione del fenomeno.

Saper leggere, scrivere e conteggiare non sono più abilità confi-nate nella dimensione privata. Esse sono sempre più strettamente

1. G. Vigo, Gli italiani alla conquista dell’alfabeto, in S. Soldani, G. Turi (edd.),Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993,vol. i, pp. 37-66. All’immagine della “conquista” si è richiamata, pur in diverso con-testo storico, anche M. Roggero, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Ita-lia tra Sette e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1999.

8 capitolo primo

associate all’evoluzione sociale, economica e civile. Di qui i vincolidi obbligatorietà con cui lo Stato procedette alla scolarizzazionedelle giovani generazioni.

Si delinea gradualmente, ma senza ritorno, una realtà del tuttodiversa rispetto ai primi decenni dell’Ottocento quando la perso-na analfabeta era normalmente accettata e il giudizio socialeespresso sugli individui era indipendente dalle loro capacità di let-tura, scrittura e calcolo.

Non è necessario, per averne conferma, scomodare il tradizio-nalismo antirivoluzionario di autori come il conte Monaldo Leo-pardi o il principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, convintiche la diffusione dell’istruzione avrebbe finito per “distruggereogni religione, corrompere i costumi alla loro fonte, scalzare infine la morale stessa e l’intero ordine sociale alle loro basi”.2 E nep-pure richiamare l’autorità del dizionario tardo settecentesco sul-l’educazione del Fillassier tradotto per la prima volta in italiano nel18423 nel quale non compare la voce “istruzione”.

È sufficiente affidarsi ad altre fonti coeve in fama di moderatoprogressismo, diverse come sensibilità culturale e idealità politiche,ma su questo punto convergenti: i racconti morali di Cesare Cantùe il periodico “Letture popolari” di Lorenzo Valerio.

In entrambi i casi l’“uomo dabbene”, utile a sé e alla societàappare connotato da due principali caratteristiche: il possesso divirtù etiche personali e civiche che ne fanno un uomo probo e lapadronanza di un mestiere che lo rende un suddito capace di man-tenere sé e la propria famiglia.

Così Cantù descrive il suo “galantuomo”: “semplice calmo, schietto, compiacente, non abietto, non superbo; nonrozzo e stentato, ma franco e sciolto; non presuntuoso, ma non timido;con una certa ingenua fiducia di sé, che infonde confidenza rispettosa”4

2. N. Del Corno, “L’abuso dei lumi”. I reazionari e il problema dell’educazione nel-l’Italia del Risorgimento, in “Società e storia”, 1998, n. 82, pp. 799-830.

3. J.J. Fillassier, Dizionario storico di educazione, Venezia, Fratelli Gattei tipografieditori, 2 voll., 1842. Jean-Jacques Fillassier (1745-1799), abate, agronomo, deputatoall’Assemblea Legislativa, noto in campo educativo soprattutto per l’Éraste ou l’ami dela jeunesse, Paris, Vincent, 1774 che ebbe ampia circolazione e più edizioni.

4. C. Cantù, Il Galantuomo: libro di morale popolare, Fraticelli, Firenze, 1842,p. 120 (la prima edizione è del 1837, Milano, Truffi).

le vie dell’alfabeto 9

e, al contempo, contadino esperto che “mescolandosi nei colloquj deicontadini e degli altri paesani, procurava di svellere gli errori dal capoe l’irriflessione degli atti loro. Avrebbe voluto che rispettassero le usan-ze dei vecchi, ma che provassero anche le nuove, senza rifiutarle collasciocca ragione del ‘si è sempre fatto così’”.5

Se l’istruzione e la frequenza della scuola sono già vivamenteraccomandate, esse tuttavia non rientrano ancora tra i criteri obbli-ganti per giudicare un adulto. Baldassarre, protagonista dellanovella La famiglia e l’educazione, diventa un “galantuomo” anchesenza aver studiato:

“Appena mio padre s’accorse che io non era fatto per gli studj, persua-so che, anche senza di questi, si possa riuscire galantuomo, mi tenne incasa e m’avviò negli affari, dove trovandomi nel mio elemento, non glicagionai più que’ disgusti che provava egli, qualora, addomandandonei nostri precettori, udiva rispondersi che non profittavo, che scaldavo lepanche e nulla più”.6

L’amore per il lavoro, il rispetto delle regole sociali, il senso dellafamiglia congiunti alla condanna dei vizi che abbruttiscono l’uomocome il gioco e l’alcolismo e al contenimento dell’ambizione smo-data costituiscono anche per il giornaletto del Valerio i principalielementi di giudizio dell’adulto probo. Il Codice dell’uomo onesto noncontempla ancora la dimensione dell’istruzione7 e il periodico nonesita, d’un lato, a elogiare anche “un dotto senza scuola”8 e, dall’al-tro, a denunciare i rischi della presunzione di chi fa cattivo usodella propria cultura.9

Attraverso il marchese Carlo Tancredi di Barolo giunge un’ulte-riore conferma sugli ancora incerti confini tra società alfabeta e stilidi vita analfabeti. Impegnato nell’educazione della prima infanzia

5. Ibidem, p. 122. 6. C. Cantù, Calambrogio da Montevecchia, Milano, Stab. Librario Volpato, 1850,

p. 197 (la prima edizione è del 1836). 7. M. Sartorio, Codice dell’uomo onesto, in “Letture popolari”, 1839, n. 10, p. 80 e

n. 11, pp. 87-88. 8. D. Viviani, Un uomo dotto senza scuola, in “Letture popolari”, 1837, n. 11,

pp. 85-86.9. A.M., Danni di un’istruzione mal diretta. Fatto vero, in “Letture popolari”, 1837,

n. 28, pp. 219-220.

10 capitolo primo

nella Torino degli anni ’30, il marchese si dichiarava disposto adaccogliere nei suoi asili maestre che, “avendo gli altri requi siti per lavita religiosa”, sapessero leggere, ma non necessariamente sapesseroanche scrivere. Era insomma convinto che fosse vantaggioso avva-lersi di donne soltanto parzialmente alfabetizzate nel timore chefosse poi “difficile il piegare le persone un po’ men popola ri all’uffi-cio volgare, faticoso, direi quasi abietto, di cui si tratta”10 e cioèl’educazione dei bambini piccoli.

Eppure tutti questi personaggi hanno ben vivo il valore dell’istru-zione. Nelle pagine delle “Letture popolari” circola un doppio auspi-cio: che i genitori inviino i figli a scuola e che le autorità, a loro volta,provvedano all’apertura di scuole popolari. Anche il Cantù individuatra i doveri primari dei genitori quello dell’istruzione dei figli:

“Dovete dunque ai vostri figli l’istruzione come il pane; l’alimento dellospirito come quello del corpo. Vero che oggi questo dovere non vi saràfacile. Stretti dalle necessità materiali, a pena potete il pensiero... Ma ilvostro dovere avete a farlo quando potete e ad una volontà ferma pochiostacoli sono insormontabili”.11

Dal canto suo il Barolo, in un’operetta scritta nel 1837,12 accantoalla denuncia dell’ozio, dell’inerzia, della vita scioperata e dell’ecces-siva ambizione, sottolinea l’importanza dell’istruzione. Se “propor-zionata” alle condizioni sociali, essa costituisce un fattore importan-te di miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari.

Come dunque conciliare l’apprezzamento per l’“uomo dabbene”anche non alfabetizzato e la promozione dell’istruzione?

Questi autori riflettono una realtà nella quale è ancora netto lostacco tra due generazioni che manifestano un diverso atteggia-mento verso la scuola. Quella più anziana è formata per largaparte da adulti analfabeti o sommariamente alfabetizzati attraver-

10. Lettera ad Antonio Rosmini del 13 luglio 1834 (Archivio Barolo, mazzo 216,n. 14). L’intera vicenda è ora minuziosamente ricostruita in M. Falletti di Villa-falletto, Un uomo che seppe contare i propri giorni, Firenze, Anscarichae Domus, 2006,pp. 151-178.

11. Cantù, Calambrogio da Montevecchia, op. cit., p. 192. 12. C.T. Falletti di Barolo, Brevissimi cenni diretti alla gioventù che frequenta le

Scuole italiane intorno ai vari stati che da essa possonsi eleggere ed alle disposizioni con cui sidevono abbracciare, Torino, per Giacinto Marietti, 1837.

le vie dell’alfabeto 11

so l’esperienza pratica. Il metro di giudizio sociale dell’adulto noncontempla ancora come prioritario il livello di istruzione. Quellapiù giovane ha ormai un rapporto più stretto con la scuola, conce-pita come una risorsa utile di cui non si può fare a meno. L’istru-zione comincia perciò a entrare nella considerazione dell’adulto“dabbene”.

Se in questi autori era dunque ben chiara la percezione di unfuturo sempre più segnato dall’alfabetizzazione e dalla scolarizza-zione, gli incipienti cambiamenti erano tuttavia vissuti in modocommisurato ai bisogni sociali effettivi e non come una scelta inun certo senso “ideologica”. Non meno realistica era poi la consa-pevolezza che la forza della società non si poteva affidare alla solaistruzione, ma dipendeva anche dalla capacità di capitalizzarel’esperienza e, soprattutto, dalla statura etica delle persone.

Il loro orizzonte ideale (esemplarmente documentato nel Can-tù) è ancora quello della semplicità del villaggio nel quale s’in-trecciano la vita rurale, il piccolo commercio e la filanda, gover-nato dal buon parroco, dal buon sindaco e dal buon padrone doveil controllo sociale si manifesta attraverso la pubblica reprimendao il rimprovero accettato di buon grado. La scarsa familiarità conla lettura e la scrittura non appare come un serio ostacolo al rag-giungimento di una vita buona, in coerenza con un modellosociale ancora pre moderno e saturo di paternalismo pre borghe-se. Insomma meglio un onesto ignorante che un alfabeta sposta-to e inquieto.

Questo schema si trova nel Giannetto, il libro per l’educazionepopolare compilato a metà degli anni ’30 da Luigi Alessandro Par-ravicini, il più diffuso nel xix secolo, al quale si ispira larga partedella produzione dei testi di lettura per le scuole elementari primae dopo l’Unità.

La madre di Giannetto, Gioconda, è una “buona donna, tuttacarità e amor del prossimo” con “una sola tara, cioè non sapevamolto leggere... Ogni giorno sentiva in sé di non essere stata beneistruita”. Non di meno è una solidissima madre che rappresenta labussola per la vita familiare, in tutto somigliando alla pestalozzianaGertrude. Non esita a inviare i due figli maschi, Giannetto e Meni-cuccio, alla scuola; la figlia Rosalia viene invece trattenuta nelle fac-cende domestiche. Quando Giannetto studia e ripassa la lezione,

12 capitolo primo

“la buona fanciulletta, senza farselo dire, pigliava i ferri da maglia,lavorava alle calze che aveva alla mano e canterellava per divertire ilbambino” più piccolo ancora nella culla.13

Alla resistenza a riconoscere anche alle bambine gli stessi dirittidei maschi, si affianca una concezione subito fruibile dell’istruzio-ne. Andare a scuola serve se si imparano nozioni utili in grado ditradursi in esperienza pratica. Nel servizio in una bottega dellacittà Giannetto, ormai ragazzetto di servizio, riesce a farsi stradaperché “sapeva far di conto, componeva lettere per benino e scrive-va con bellissimo carattere nei registri del negozio”. Quando,ormai anziano e apprezzato membro della comunità, Giannettovuole migliorare il villaggio comincia col fondarvi una scuola di artie mestieri dove i fanciulli possono prepararsi a diventare agricolto-ri esperti e artigiani competenti.

2. Verso l’Italia alfabeta

Poco oltre la metà del secolo, una generazione, o poco meno,successiva a quella dei Cantù, dei Valerio, dei Parravicini, prospettauna visione dell’“uomo dabbene” molto più complessa che, mentreprolunga e sviluppa proprio le intuizioni di Giannetto circa l’utilitàsociale della scuola, molto rafforza quella che – diremmo oggi – è ladimensione cognitiva dell’uomo (e non solo esperienziale).

Si diffonde e si generalizza la convinzione che per essere “civili”le persone devono essere almeno un minimo istruite. È lo stessoCantù degli anni ’70 a documentare questo passaggio quando, adesempio, nella prefazione a Buon senso e buon cuore scrive che

“l’odierna espansione della democrazia, in quel senso migliore che iovenero, rende necessario di avezzar il popolo a vivere nella nuovaatmosfera, a usufruire le magnificenze della ricchezza pubblica e delsapere, e le tante scoperte, le tante applicazioni; a voler l’eguaglianzanon col deprimere chi è elevato, ma con alzare chi è depresso”.14

13. L.A. Parravicini, Giannetto, Napoli, Libreria e tipografia Simoniana, 1839,parte iv (premiato nel 1836, la prima edizione è del 1837, Como, Ostinelli).

14. C. Cantù, Buon senso e buon cuore, conferenze popolari, Milano, Agnelli, 1870,p. viii.

le vie dell’alfabeto 13

Michele Lessona è ancor più esplicito. Fin dalle prime pagine diVolere è potere (1869) afferma che “l’uomo si distingue dal bruto perla tempra del suo intelletto: quanto più l’uomo coltiva lo intelletto,tanto più si solleva, si stacca e si allontana dalla bestia”. Quasi avoler rispondere a possibili rilievi critici così rincalza la sua tesi conalcuni esempi:

“In guerra il soldato che sa leggere e scrivere è altresì più coraggioso,più disciplinato, più tollerante dei disagi, più forte, più umano delloanalfabeto. Le rivolte sanguinose e feroci sono state fatte da tali chenon ebbero mai a che fare coi sillabarii, né per certo è la stampa liberache muove gli antropofagi divorarsi”. La conclusione è perciò quasiscontata: “Non si tenti perciò d’impedire che l’alfabeto penetri nelleofficine, nei sottotetti, nelle stalle, per tutto, che la cosa oggidì sarebbenon pure impossibile, ma anche malefica”.15

Impegno da estendere anche alle donne: “Non è la lettura, non èil lavoro, non è l’esercizio dell’intelletto che guasta la donna, mal’inerzia, l’ozio, la vanità della mente”.16 Nel termine “volere” Les-sona ingloba un insieme di contenuti etici e pragmatici funzionaliad una concezione progressista dell’individuo e della società. Nel“volere” non c’è solo l’esercizio della volontà, ma ci sono anchel’intraprendenza personale in vista del miglioramento delle condi-zioni personali e ciò che rende possibile fattivamente l’intrapren-denza stessa e cioè il sapere.

L’impiego e la circolazione dell’espressione “analfabeto” (solopiù tardi entrerà nell’uso la forma attuale “analfabeta”) fornisco-no qualche indizio interessante. Fino alla metà degli anni ’40 neidizionari non si trova traccia di questi lemmi. Letterati e uominidi scienza preferirono a lungo ricorrere al termine “ignorante” o“illetterato” nei quali si erano condensati per secoli sia l’idea dirozzezza dei modi di vita sia quella d’incultura.

Il lemma non compare, per esempio, nell’autorevole EnciclopediaPopolare del Pomba (1841-1849) e neppure nella revisione del Voca-bolario della Crusca curata dal Manuzzi (1833-1840). Quando laparola viene censita, essa è documentata in un’accezione principal-

15. M. Lessona, Volere è potere, Firenze, Barbèra, 1869, pp. 6-7. 16. Ibidem, p. 9.

14 capitolo primo

mente storico-letteraria. Lo dimostrano sia una delle tante versio-ni del vocabolario del Tramater sia il Supplemento a’ vocaboli italianicurato dal Gherardini (1852). In entrambi i casi prevale infatti ildotto richiamo all’imperatore Giustino gratificato dallo storicoProcopio come “analfabeto... per significare la sua profonda igno-ranza ed applicabile a chiunque non sa di lettere”17 piuttosto che ilsenso presto destinato a diventare usuale.

È solo dagli anni ’60, a partire dal notissimo vocabolario delTommaseo, che comincia a comparire il significato corrente dellaparola: “Che non conosce l’alfabeto. Non sa scrivere né leggere. Ilpopolo dice che non sa leggere, non sa di lettere”.18 Di qui in poiquesta accezione diventa corrente. E se ancora Tommaseo nelleesemplificazioni conserva la citazione di Procopio, questa vieneomessa nei più importanti vocabolari successivi come in quello delPetrocchi (“che non sa leggere. Es.: Popolo analfabeta. Donnaanalfabeta. Gli analfabeti”) e nel Nuovo vocabolario della lingua italia-na secondo l’uso di Firenze (“che non sa né leggere né scrivere. Es.:Moltitudine analfabeta. Gli analfabeti”).19

La transizione dall’interpretazione storico-letteraria dell’eti-mologia a quella socio-linguistica si svolge non casualmente conla corrispondente transizione della generalizzazione dell’istru-zione, con la successiva, graduale, ma sostanziale estensione delsignificato nel senso di persona che, in quanto non alfabeta,costituisce un potenziale elemento di perturbazione nella vitasociale.

17. Vocabolario universale della lingua italiana, edizione eseguita su quella del Tramaterdi Napoli, Mantova, Fratelli Negretti, 1845, p. 378. Si tratta di una nuova edizione delVocabolario universale italiano compilato da un gruppo di studiosi coordinati dal lingui-sta partenopeo Raffaele Liberatore allievo del Puoti e pubblicato in Napoli, SocietàTipografica Tramater e C.i., Napoli, 1829-1840 in 7 voll. apparsi tra il 1829 e il 1840.Ved. anche G. Gherardini, Supplemento a’ vocaboli italiani, Milano, Stamperia diC. Bernasconi, 1852, p. 343.

18. N. Tommaseo, B. Bellini, Dizionario della lingua italiana, Unione Tip. Editri-ce Torinese, Torino, 1865, vol. i, p. 412. Nel Vocabolario degli Accademici della Crusca,Firenze, Tip. Galileiana, 1863 (e dunque di poco anteriore) compare ancora l’accezio-ne storico-letteraria.

19. P. Petrocchi, Dizionario universale della lingua italiana, Milano, Treves, 1887,3 voll.; Nuovo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze ordinato dal Mini-stero della P. I., Firenze, Tip. di M. Cellini e C., 1897, 4 voll, p. 86.

le vie dell’alfabeto 15

A documentare il crescendo dell’uso intensivo del termine “anal-fabeta” sta un’imponente messe di esempi che si estendono dallaletteratura self-helpista alla narrativa popolare, dalla produzionescolastica alla pubblicistica periodica.

Alcuni motivi risultano ricorrenti. L’analfabeta è rappresentatoinnanzi tutto come un infelice perché non dispone delle risorseminime per vivere in una società moderna:

“Chi non sa leggere e scrivere, è un sordo muto cieco... È sordo perchénon può comprendere a modo i pensieri altrui, e tutto ciò che intornoad esso avviene, è per lui come un mistero. È muto, perché non samanifestare convenientemente i propri pensieri. Infine è cieco, doven-do nei suoi interessi lasciarsi condurre qua e colà a posta d’altri. Inpoche parole: l’analfabeta è lo schiavo di tutti, ché tutti ne sanno gliinteressi, e sovente più di lui”.20

È poi dipinto come un inabile destinato alla marginalità sociale: “Ogni momento gli tocca la mortificazione di dover dire: Non so scri-vere; se fa da testimonio o da padrino non può mettere la propriafirma; non può che segnare di una croce le ricevute e gl’istrumenti; isuoi figlioli vanno a scuola ed egli non capisce niente su’ libri loro, nonpuò osservare se facciano bene”.21

Ma ancor più egli è esposto alla povertà perché i luoghi di lavo-ro gli preferiscono quanti sanno leggere, scrivere e far di conto.Primo Macchiati raccomanda agli operai lo

“strettissimo dovere di procacciarsi molte cognizioni perché l’istruzioneè il solo mezzo acconcio ad ottenere un maggiore e più sicuro guada-gno... Il voler oggi lavorare alla guisa dei nostri buoni vecchi è il mede-simo che voler stare fermi mentre tutti gli altri camminano; è volerviaggiare sulle vetture quando vi sono le ferrovie; è recare onta e dannoalla patria nostra; è fare ingiustizia all’umana intelligenza e a Dio”.22

Appare infine come un membro nocivo, perché facile vittima divizi come lo sperpero del denaro, il vino, il fumo, il gioco, tutticonseguenti ad una volontà malferma che, non esercitata a suo

20. P. Fornari, Tomaso o il galantuomo istruito, Torino, Paravia, 1887, pp. 28-29. 21. G. Castrogiovanni, Letture secondo il programma legislativo per la terza e quar-

ta classe elementare, Torino, Paravia, 1874, p. 87.22. P. Macchiati, I ricordi di un padre, Torino, Vaccarino, s.d. (ma 1875?), p. 28.

16 capitolo primo

tempo sui libri e sui quaderni, è facile premessa del disordine nellavita adulta. Si tratta di un topos che dal disgraziato Franceschino delGiannetto, che aveva concluso in carcere una carriera iniziata mari-nando la scuola, si sparge a cascata in decine di racconti e novelle.Dalle seduzioni dei divertimenti alla perdizione dell’osteria dove sidimenticano nel vino gli obblighi della vita, tutto si collega all’eser-cizio più o meno virtuoso dello studio e dell’impegno scolastico.

Come non richiamare qui le mille impertinenti esperienze delburattino Pinocchio tutte infine riscattate dall’esito virtuoso finale?

In quanto nocivo sul piano della felicità individuale e familiarel’analfabeta diventa anche la causa di mali sociali più grandi. Gusta-vo Strafforello, ad esempio, imputa all’analfabetismo le disgraziedell’Italia del suo tempo:

“Quando la statistica rivelò il fatto che in Italia annoveransi 17 milionidi analfabeti, una sorpresa dolorosissima corse dall’un capo all’altrodella penisola; tutti compresero allora il perché della frequenza e ilmoltiplicarsi dei delitti, dell’infingardaggine, della superstizione, dellapovertà, della miseria, della semi-barbarie, in un parola, che contami-na tanta parte del bel Paese”.23

A fine secolo Luigi Credaro nella voce “analfabeta” del Diziona-rio illustrato di pedagogia non esita sia a misurare i livelli di civiltàdelle nazioni dal rapporto tra alfabeti e analfabeti (“la statisticadegli analfabeti è uno degli elementi più importanti per determina-re il grado di civiltà di un popolo o di una provincia”) sia ad indivi-duare il livello di progresso di una nazione in ragione alla diffusio-ne generalizzata dell’istruzione obbligatoria.24

Quando si apre il nuovo secolo il cerchio è ormai chiuso. Ilmodello dell’“uomo dabbene” di 50-60 anni prima istruito princi-palmente dall’esperienza e senza scuola è ribaltato. Al centro del-l’inciviltà, a sua volta, non sta più l’ignorante genericamente inteso,ma l’analfabeta che non è andato a scuola.

Fin qui il graduale transitare dalla nozione di ignorante a quel-la di analfabeta. Se si va un poco più a fondo, bisogna poi conside-

23. G. Strafforello, Il nuovo Chi s’aiuta Dio l’aiuta, Torino, Unione Tip. Editri-ce Torinese, 1870, p. 62.

24. L. Credaro, Analfabeta, in A. Martinazzoli, L. Credaro (edd.), Dizionarioillustrato di pedagogia, Milano, F. Vallardi, s.d., vol. i, pp. 47-48.

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rare quanti tra gli italiani censiti come “alfabeti” lo erano effettiva-mente ed erano cioè in grado di leggere, scrivere, comprenderedei testi anche semplici e conteggiare in modo appropriato. Que-stione che sposta il discorso dagli “alfabeti ufficiali” agli “alfabetireali”.

A partire dal 1861 la qualifica di alfabeta viene attribuita a chidimostra di saper apporre la propria firma e di possedere la capaci-tà di leggere. Ma tali requisiti non vanno presi in modo rigido per-ché tra l’analfabeta e l’alfabeta c’è la schiera assai ampia dei semial-fabeti e cioè quanti, ad esempio, sanno leggere, ma non sannoandare oltre la propria firma o quelli che possiedono in modo stru-mentale la capacità di leggere e di scrivere, ma difficilmente capi-scono ciò che leggono.25

Se si guarda agli “alfabeti reali” e cioè agli “italofoni”, ossia acoloro che erano in grado di parlare e di capire la lingua italiana,essi, secondo i calcoli di De Mauro, erano al momento dell’Unitàsoltanto il 2,5% sul totale della popolazione italiana, percentualestimata per difetto da altri studiosi che l’hanno elevata a una cifraoscillante tra il 9 e il 12%,26 quota comunque molto distante dal25% degli “alfabeti ufficiali”.

3. La via maestra: la scuola

Tra i valori propri della società borghese gradualmente diffusilungo il xix secolo, quello dell’alfabetizzazione e della scolarizza-zione si configurò, dunque, come uno dei prioritari, un valore chevenne sempre più strettamente associato all’idea di progresso e dimodernità. Questi due concetti, a loro volta, furono interpretati intermini di visione laica dell’esistenza, di superiorità della civiltàindustriale, di razionalità impregnata di mentalità sperimentale.Non ci potevano essere progresso e modernità se non si generaliz-zava la diffusione della lettura, della scrittura e del far di conto.

25. C.M. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino nell’analfabetismo nel mondo occi-dentale, Bologna, Il Mulino, 2002 (1a edizione 1969), p. 21.

26. A. Castellani, Quanti erano gli italofoni nel 1861?, in “Studi linguistici italia-ni”, 1982, n. 1, pp. 3-26.

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Alcune anticipazioni in questo senso si possono già cogliere,come è noto, nel riformismo illuministico e, in particolare, neipiani di rinnovamento e potenziamento scolastico messi a punto daalcuni sovrani del secondo Settecento allo scopo di formare suddi-ti obbedienti e rispondere, al tempo stesso, alle esigenze dello svi-luppo economico. La rivoluzione francese, dal canto suo, avevaenfatizzato la necessità della formazione etico-politica di un citta-dino “nuovo”, posta in seguito a fondamento della costruzionedelle nazioni moderne. Non è certo un caso che, almeno per quan-to riguarda l’Italia, fu proprio nell’età del dominio francese e napo-leonico che si posero le premesse per l’avvio, più o meno spedito,di una fase di modernizzazione nel campo dell’istruzione.

Nella “conquista dell’alfabeto” furono messe in campo strategiediverse: dal potenziamento della scolarizzazione delle nuove gene-razioni alla organizzazione di iniziative d’istruzione per gli adulti,dalla divulgazione agraria e tecnologica alla produzione di giornalipopolari e di letture amene semplici e accattivanti, spesso a sfondosociale nella quale i ceti subalterni potevano immediatamenterispecchiarsi.

Antiche e nuove professioni unirono, a loro volta, gli sforzi percombattere l’ignoranza: il maestro e la maestra di scuola, attivi sullafrontiera tra sapere e incultura; il medico visto non solo come pro-fessionista della salute, ma come educatore popolare; il divulgatore(sia esso un filantropo, uno scrittore o un sacerdote) che, attraversola semplificazione del progresso scientifico o la preparazione allavoro, si fa tramite tra la borghesia e i ceti popolari, apre loro nuoviorizzonti di sapere ed assicura il possesso di conoscenze più alte.

Il primo e fondamentale canale attraverso cui si diffusero i pro-cessi di alfabetizzazione fu, in ogni caso, certamente la scuola. Percogliere il peso esercitato dalla scuola nella formazione degli indi-vidui occorre pensare alla società a bassa comunicazione di metà-fine Ottocento nella quale la creazione della mentalità, specie tra iceti popolari, era alquanto circoscritta e passava attraverso pocheesperienze oltre a quelle familiari. Più avanti avremo occasione diapprofondire la variegata realtà dell’istruzione ottocentesca. Qui cilimitiamo a segnalare come tra Sette e Ottocento si trasformanol’idea stessa di scuola e della sua utilità sociale e, conseguentemen-te, la sua organizzazione e come tutto ciò sia ovviamente da colle-gare alla natura della società alfabeta.

le vie dell’alfabeto 19

Anche in precedenza, a partire in specie dal xvii secolo, la scuo-la aveva svolto un ruolo importante ed aveva cominciato ad esserefrequentata da un numero crescente di allievi provenienti anche, indeterminati casi, da ceti modesti. Gli studi compiuti sulla rete sco-lastica, sempre più fitta, dei collegi tenuti da vari ordini religiosihanno, per esempio, dimostrato la grande varietà di esigenze chequesto tipo di scuola, modellato dalla sapienza pedagogica deiGesuiti, soddisfaceva. Ma le caratteristiche della scuola dell’AncienRégime erano ispirate a princìpi alquanto diversi da quelli cheavrebbero guidato lo sviluppo scolastico successivo.

Il primo era che chi andava a scuola lo faceva a proprie spese ogodeva della disponibilità di generosi benefattori. Lo scopo non eraquello della alfabetizzazione elementare, ma quello di una futuraoccupazione di prestigio. Ovviamente gli Stati guardavano all’istru-zione con interesse, ma in stretto rapporto con i bisogni dell’appa-rato amministrativo e militare e, dunque, si trattava in genere di uninteresse rivolto ai gradi superiori dell’insegnamento. La scuola ailivelli inferiori era un affare privato o delle comunità locali: la scuo-la, in altre parole, apparteneva alla società e non allo Stato.

In secondo luogo la scuola – ma in questo caso sarebbe megliodire “le scuole” – si presentava con caratteristiche frammentate,modellate in stretto rapporto al soddisfacimento di esigenze esituazioni molto differenziate. Un conto, per esempio, erano i pre-stigiosi (e costosi) collegi dei nobili, che accanto al piano di studitradizionale offrivano una serie di attività parallele talvolta giudica-te più importanti del curricolo stesso,27 rispetto ai collegi destinatiai figli di famiglie semplicemente benestanti, meno ricchi di attivi-tà formative.28 Un’altra cosa ancora erano le accademie militari ovel’apprendimento scolastico era posto in funzione subordinataall’acquisizione delle competenze militari e alla futura carriera dicomando o i seminari ecclesiastici che, oltre alla formazione delclero, rappresentavano un’occasione per i figli dei ceti popolari diproseguire gli studi.

27. G.P. Brizzi, La formazione della classe dirigente nel Sei-Settecento. I seminaria nobi-lium, Bologna, Il Mulino, 1976.

28. A. Bianchi, L’istruzione secondaria tra barocco e età dei lumi. Il collegio di San Gio-vanni alle Vigne di Lodi e l’esperienza pedagogica dei Barnabiti, Milano, Vita e pensiero,1993.

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La fisionomia della scuola sei-settecentesca era, infine, imper-niata sull’egemonia del latino e si rivolgeva ad alunni provenientisolitamente da ceti sociali già alfabetizzati che ambivano far rag-giungere ai figli, nel minor tempo possibile, livelli più alti del-l’istruzione. Per lungo tempo soltanto a questo tipo di scuola furo-no riservate le dovute attenzioni e per esso furono predispostiopportuni strumenti didattici, come, ad esempio, i libri di testo.

Tutto il resto non era “scuola”, ma carità, beneficenza, libera ini-ziativa di insegnanti privati. Un chiaro esempio ci viene dai due tipidi scuola elementare frequentati rispettivamente da chi era destina-to a proseguire negli studi e dai figli dei ceti popolari. Tra la scuo-la propedeutica al collegio (o scuola primaria ordinata allo scopodi introdurre gli allievi alla conoscenza elementare del latino) e lascuola elementare (o scuola di carità in lingua volgare) non c’eracollegamento alcuno.

Le finalità di quest’ultima, talvolta limitata soltanto al leggere,erano semplicemente quella di associare al catechismo qualchecognizione ritenuta utile alla vita quotidiana. Il successivo passag-gio fu rappresentato dal graduale riconoscimento della dignitàanche delle scuole senza il latino, dal superamento di un certospontaneismo nello svolgimento dei programmi e dalla sempre piùavvertita necessità di disporre di maestri forniti di una preparazio-ne specifica. Le esperienze del pietismo nel mondo protestante equelle intraprese in Francia da Jean-Baptiste De La Salle costitui-scono al riguardo momenti molto significativi.

L’affermarsi di tali trasformazioni, congiunta alle spinte ideolo-giche della cultura illuminista e alle sollecitazioni pratiche dinumerosi economisti del xviii secolo, comportò un interventosempre più deciso da parte degli Stati nella vita scolastica fino agiungere nell’Ottocento alla generalizzazione del principio del-l’istruzione obbligatoria.

Il modello della scuola obbligatoria risulta molto diverso da quelloche abbiamo sommariamente fin qui descritto. La scuola viene laiciz-zata, da espressione della vita sociale diventa una funzione dello Statoche non si limita a integrare e razionalizzare le iniziative locali, maavoca a sé prima la direzione dell’insegnamento, poi anche la gestio-ne e il controllo sulle scuole. La diffusione dell’istruzione è uno deglistrumenti attraverso cui lo Stato liberale rafforza la sua influenza sullasocietà, lottando contro i particolarismi e i saperi tradizionali. La fre-

le vie dell’alfabeto 21

quenza della scuola non è più reputata soltanto come un’esperienzautile, ma confinata a livello personale: andare a scuola fu sempre piùconsiderato requisito associato all’identità stessa di cittadino.

L’intervento politico si svolse ad ampio raggio. La scuola ele-mentare (quella che tutti i cittadini dovevano frequentare almenoper un certo periodo) fu ordinata come un unico tipo di scuolavolta a soddisfare sia le esigenze di chi continuava gli studi sia leaspettative di chi la frequentava per pochi anni.

Le ambizioni della legge Casati (1859) di bruciare le tappe, man-dando a scuola tutti i fanciulli dai 6 ai 12 anni e quelle più circoscrit-te (ma anche più realistiche) della legge Coppino (1877) che sancival’obbligo di frequenza tra i 6 ed i 9 anni e dei provvedimenti in mate-ria di lavoro che subordinavano la possibilità di impiegare manodo-pera infantile al soddisfacimento dell’obbligo, restarono a lungoinattese. Il cammino verso la piena scolarizzazione infantile proce-dette molto lentamente, molto più lentamente di quanto stava acca-dendo in altri paesi come la Francia, la Germania, l’Inghilterra, ilBelgio. Nel 1901 l’Italia era giunta appena a metà del guado: il 50%della popolazione adulta non sapeva ancora leggere e scrivere.29

4. I percorsi degli adulti. I protagonisti

Le vie dell’alfabeto percorsero anche altri territori. A fiancodella scuola elementare si moltiplicarono le iniziative per l’alfabe-tizzazione degli adulti come le scuole serali e festive nelle qualiinsegnavano spesso gli stessi maestri della scuola diurna; le scuoledi agricoltura e quelle per operai i cui docenti erano spesso lavora-tori esperti, preti pieni di zelo caritativo o filantropi impegnatinell’“elevazione delle plebi”; le scuole reggimentali organizzate

29. Studi e ricerche sul fenomeno dell’analfabetismo tra Otto e Novecento si sonomoltiplicati negli ultimi anni. Oltre al saggio di Vigo citato in nota 1, sono da segna-lare E. De Fort, Scuola e analfabetismo nell’Italia del ’900, Il Mulino, Bologna, 1998;alcuni saggi di D. Marchesini tra cui Qualis pater...? La trasmissione dell’alfabetismonell’Italia otto-novecentesca, in “Annali di storia moderna e contemporanea”, 1997,pp. 435-447; X. Toscani, Alfabetismo e scolarizzazione dall’unità alla guerra mondiale, inL. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Ottoe Novecento, La Scuola, Brescia, 1999, pp. 283-340.

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presso le caserme in consegna a sottufficiali e ufficiali. Alcuni par-titi – in particolare quelli di opposizione come il partito repubbli-cano, quello radicale e quello socialista – diedero inoltre vita, inspecie dopo l’estensione del diritto di voto (1882), ad apposite ini-ziative nelle quali si congiungevano militanza e alfabetizzazione.

Gli sguardi che si erano a lungo posati sulla Francia, sulla Svizzerae sull’Austria, dopo il 1870 si spostarono sulla Germania. I successibismarckiani erano fatti risalire non solo alla potenza militare e aquella economica, ma ancor più alla lungimirante politica scolasticache aveva praticamente azzerato l’analfabetismo tra le giovani gene-razioni e ridotto a quote minime quello adulto. Occorreva, anche inItalia, lavorare sui due fronti, quello della scuola per i bambini e quel-lo dell’istruzione popolare rivolta agli adulti. In questo senso c’era ilprecedente del Regno di Sardegna ove già nel 1849 era stata emana-ta un’apposita Istruzione per l’apertura di apposite “scuole primarieper adulti” allo scopo “di continuare, di sviluppare e di applicarel’istruzione ricevuta dai fanciulli o di supplire al difetto di essa”.

Al ministro dell’istruzione Domenico Berti, piemontese, anima-tore del rinnovamento scolastico subalpino negli anni ’50 e uno deipromotori del provvedimento del 1849, va il merito di aver fornitoil primo quadro operativo nazionale in questo secondo campo (chela legge Casati aveva trascurato e dunque lasciato all’iniziativa priva-ta) con una importante circolare del 1866. In essa si impartivano “leistruzioni sul modo di ordinare le scuole degli adulti” con l’indica-zione di alcune distinzioni fondamentali fra la scuola elementare deifanciulli e quella degli adulti. Modeste somme furono anche postein bilancio per la promozione dell’istruzione popolare e distribuitein sussidi a favore dei Comuni, delle società filantropiche e mutue,degli insegnanti e dei privati cittadini interessati ad istituire questogenere di scuole.

Il Berti tentò anche di ordinare e di rendere esteso e più efficacequesto particolare tipo di insegnamento, ma i suoi progetti nonebbero seguito e l’istruzione popolare restò in sostanza affidata allaprecarietà dei sussidi occasionali.30

A fronte della debolezza del contesto normativo – che aveva peròil pregio di lasciare larga libertà di iniziativa agli interventi della

30. M.P. Tancredi Torelli, Gli esclusi dall’alfabeto. Iniziative di scuola per adulti, inAa. Vv., L’istruzione di base in Italia (1859-1977), Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 73-114.

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società civile – alcuni studiosi cominciarono a dedicarsi in modospecifico al tema dell’educazione degli adulti, mediante studi edesperienze innovativi. Vincenzo Garelli e Giovanni FrancescoCapurro rappresentano due interessanti voci precorritrici.

Già collaboratore di numerosi giornali popolari e pedagogicidegli anni ’40, vicino al pedagogista torinese Rayneri e sodale delBerti, il Garelli31 a partire dagli anni ’60 mise a punto un propriometodo di insegnamento per gli analfabeti che sperimentò nellescuole serali di Genova, poi esteso con apposite iniziative anche aSavona e a Voltri. Sulla base di queste esperienze, pubblicò nel1864 una Guida teorico-pratica pel primo ammaestramento degli adultie Sillabario graduato ad uso delle scuole per gli adulti. Tra il 1867 e il1869 diresse il periodico “Il maestro degli adulti” destinato “allescuole serali, domenicali, reggimentali” e a dibattere in genere lequestioni dell’educazione popolare e si fece promotore dell’istitu-zione di biblioteche circolanti nei comuni rurali per favorire la let-tura. Incaricato di organizzare le scuole per i carcerati nelle isoledell’arcipelago toscano, il Garelli approfondì inoltre le questioniconnesse con la rieducazione dei delinquenti in varie memorie, inspecie Della pena e dell’emenda. Studi e proposte (1867). Pubblicòanche opere di divulgazione agraria e di taglio narrativo-popolarecome La forza della coscienza. Storia di Policarpo Davvegni del 1872 eDi un paese che si rifa. Racconto campestre del 1879.

Quanto al Capurro,32 egli fu una singolare ed eclettica figura diintellettuale. Sacerdote, maestro, archeologo, bibliofilo, animato-re di Società di mutuo soccorso, intorno al 1846 mise a punto un

31. Sulla figura di Vincenzo Garelli (1818-1879) ved. la nota biografica in Marti-nazzoli, Credaro, Dizionario illustrato di Pedagogia, op. cit., vol. ii, pp. 22-23;A. Peyron, Notizie sulla vita e sugli scritti di V. Garelli, in “Atti della R. Accademia delleScienze di Torino”, vol. xv, 1879, pp. 231-242; G. Mantellino, La scuola primaria esecondaria in Piemonte e particolarmente in Carmagnola, Carmagnola, presso l’autore,1909, pp. 255-258; G.B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del sec. XIX, Torino,Paravia, 1910, pp. 703-704; G. Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Ari-stocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Torino, sei,2007, ad indicem.

32. Su Giovanni Francesco Capurro (1810-1882) esiste una scarsa documentazio-ne per lo più meritoriamente raccolta nel fascicolo di G. Pipino, Notizie e documentisulla vita e l’opera di Gianfrancesco Capurro, Novi Ligure, Città di Novi Ligure - Socie-tà Storica del Novese, 1983. Sono in corso di stampa gli atti del convegno dedicato alCapurro e alle sue molteplici iniziative svoltosi in Novi Ligure il 23 ottobre 2010.

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suo metodo di insegnamento della lettura e della scrittura inizial-mente destinato alle scuole elementari. Esso era basato sulla asso-ciazione di un oggetto di uso comune a ciascuna lettera dell’alfa-beto e sulla realizzazione di un singolare “telegrafo alfabetico” conil quale si potevano formare tutte le combinazioni possibili di sil-labe, parole e numeri. Il metodo era poi completato dal coinvolgi-mento diretto degli alunni mediante esercizi vocali collettivi – conqualche analogia con gli attuali metodi per l’addestramento azien-dale – con i quali si stimolavano risposte collettive con domande ocon imbeccate.

Il metodo, illustrato dal Capurro in uno scritto del 1849, nonincontrò quella fortuna cui ambiva il suo ideatore, forse per unacerta macchinosità nella sua applicazione. Accantonato nell’impie-go con i bambini, esso fu adattato qualche anno più tardi da un suoallievo, il maestro Angelo Bovone, alle esigenze delle scuole peradulti per le quali questi predispose nel 1875 un’apposita Guida teo-rico pratica, affiancata da alcuni appositi testi e da una pubblicazio-ne periodica, peraltro di breve durata, dal significativo titolo “Ilsistema Capurro ossia la guerra all’analfabetismo”.33 Il Bovone pro-mosse instancabilmente il metodo sia nelle scuole reggimentali siain molte scuole delle Società operaie del tempo, entrando in con-correnza con altri metodi più o meno originali del tempo e, in par-ticolare, con quello molto più noto del Garelli.

La diffusione delle scuole serali, festive e per adulti sollecitòanche una apposita produzione editoriale nella quale si cimentaro-no in genere maestri e professori delle scuole normali. In alcunicasi i libretti predisposti per i corsi degli analfabeti non erano cheriedizioni adattate di testi destinati alle scuole elementari. In altricasi furono predisposti manualetti specificamente concepiti per unpubblico adulto. Ne furono autori il maestro torinese FedericoViassolo, il bolognese Primo Macchiati e soprattutto il direttoredelle scuole elementari di Venezia Giuseppe Menghi.

Verso la metà degli anni ’70 il Menghi pubblicò un sillabario etre volumetti di letture ordinate secondo un organico piano di svi-luppo della capacità di comprensione. La serie, dal titolo L’artiereitaliano. Libro di lettura proposto per le scuole serali e festive, fu inaugu-

33. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Bre-scia, La Scuola, 1997, pp. 678-679.

le vie dell’alfabeto 25

rata presso un piccolo stampatore-editore veneziano nel 1874.Poco dopo i libretti furono rilevati da Paravia che fiutò il potenzia-le affare. Associati a un’altra operetta, Il campagnuolo e l’artigianello(La campagnola e l’artigianella nella versione femminile) rivolta alle“scuole di campagna”, i libretti del Menghi incontrarono infatticosì ampio consenso da essere riproposti per circa un quarto disecolo con immutata fortuna.

A fianco di questa produzione a prevalenti scopi didattici, si mol-tiplicarono in specie dopo il 1860 altri scritti “popolari” allo scopodi delineare i contesti etici, sociali ed educativi entro i quali collo-care i lenti, ma costanti progressi di alfabetizzazione adulta.

Questi libri, destinati a un vasto pubblico, avevano lo scopo difugare i timori di un eccesso di scuola e d’istruzione e di contra-stare la convinzione che l’espansione del sapere – compresoquello elementare – potesse provocare squilibri sociali. L’obietti-vo era invece quello di incoraggiare il miglioramento delle con-dizioni di vita dei ceti subalterni. Si trattava di sottrarli al fatali-smo, alla rassegnazione, alla riottosità, di inserirli in un contestofatto di ordine, disciplina, senso del dovere, amore per il lavoro,avviandoli a condividere quello che era definito lo “spirito bor-ghese”.

Un’attenzione specifica era riservata alle pratiche scolastiche esoprattutto a quelle professionali (corsi di avviamento al lavoro,scuole di arti e mestieri). Con l’avvento dell’industrializzazione,abitudini e costumi inveterati risultavano superati, il lavoro assu-meva una forza tale da incidere sulla qualità stessa delle relazionisociali: di qui l’esigenza di promuovere il modello di una nuovaetica che trovava la sua giustificazione nel lavoro produttivo. Ilmestiere assumeva un nuovo significato, si congiungeva a un’ideadi società molto diversa dal passato, ricca di prospettive che spetta-va all’uomo cogliere e coltivare in modo adeguato.

È pressoché impossibile rendere conto in breve spazio di quellache è stata definita una “alluvione di letteratura pedagogica” desti-nata principalmente ai ceti popolari da “educare” e per lo più ispi-rata in vario modo alla cultura del self help. Bastano pochi nomicome quelli di Gustavo Strafforello traduttore della principaleopera di Samuel Smiles, Chi s’aiuta, Dio l’aiuta (1865); di MicheleLessona con il suo fortunatissimo Volere è potere (1869), il vero bestseller della letteratura self helpista italiana; di Cesare Cantù con il

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Portafoglio di un operajo (1870); di Paolo Mantegazza con Ordine elibertà. Conversazioni di politica popolare (1864), Le glorie e le gioje dellavoro (1870) e soprattutto Testa (1887); di Carlo Lozzi con Dell’ozioin Italia (1870) per richiamare un genere letterario assai diffuso.34

Esso poggiava sulla presentazione di personalità esemplari, dipoveri capaci di raggiungere la meritata fortuna mediante la tena-cia e la fatica del lavoro, di raccomandazioni igieniche volte a sot-trarre le plebi alle condizioni di vita più disagiate, di severe con-danne per contrastare gli abusi alcolici, ridurre la frequenza delleosterie, scongiurare la tentazione del gioco. Una vera e propria“pedagogia popolare” presentata talora nella forma dei medaglionibiografici, tal’altra con il ricorso alla narrazione romanzata. Il mes-saggio veicolato da queste opere è che anche la persona di estra-zione sociale modesta può ambire al miglioramento della propriaposizione. La fortuna può arridere a chiunque a condizione chel’individuo sappia scegliere la buona strada e gestire bene il pro-prio destino, mettendo a frutto le sue buone qualità.

Se si vuole trovare un testo che riflette tutte insieme queste pre-occupazioni e disegna un piano pedagogico capace di corrispon-dervi, è quasi scontato citare il fortunatissimo saggio di AugustoAlfani sul carattere degli Italiani apparso nel 1878 e a lungo ristam-pato.

L’opera dello studioso fiorentino, insegnante e scrittore, espo-nente del moderatismo toscano, si può leggere in due maniere.Una come una testimonianza del possibile intreccio tra i processi dimodernizzazione politica e sociale di quegli anni e la tradizionereligiosa nazionale concepita come una riserva inesauribile e irri-nunciabile di valori cui attingere se si volevano assicurare stabilitàsociale, ordine politico e progresso economico.35 Alfani si propone-va in tal modo di contenere gli esiti laicizzanti della letteratura delself help per lo più incentrati sul pieno utilizzo delle possibilità del“presente terreno”.

34. G. Baglioni, L’ideologia della borghesia liberale nell’Italia liberale, Torino, Einau-di, 1974, pp. 309-365; S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Ita-lia. 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 89-162.

35. M. Moretti, Spunti liberali sul mondo cattolico. Alcuni appunti, in A. Zambarbie-ri (ed.), I cattolici e lo Stato liberale nell’età di Leone XIII, Venezia, Istituto Veneto diLettere, Scienze ed Arti, 2008, pp. 245-277.

le vie dell’alfabeto 27

La seconda lettura riguarda l’itinerario da perseguire per forma-re quel “carattere” che, al di là dell’ignoranza strumentale, sembra-va ancora mancare a troppi Italiani. Anche l’Alfani, come numero-si altri intellettuali (ved. quanto diremo nel capitolo successivo), eraconvinto che l’arretratezza del Paese fosse di natura soprattuttomorale e che il processo di rigenerazione avviato con la conquista-ta unità politica fosse appena avviato.

“Il carattere morale costituisce la natura di chi è proprio degno di chia-marsi uomo. Più d’ogni ricchezza è prezioso tesoro il carattere, chehan solo i galantuomini. I quali, tenaci nell’esercizio di ogni virtù, nonpiegano mai né per lusinga né per paura, non per cause interne odesterne, tetragoni a’ colpi di fortuna o alle tempeste dell’appetito; sì sìno no, e la parola è un contratto, dice il proverbio”.36

Ad esso l’Alfani guardava soprattutto come alla prima e impre-scindibile condizione per creare una retta coscienza pubblica ovedoveri e diritti (in verità con un accento che cadeva più volentierisul primo termine) fossero adeguatamente bilanciati e orientatiall’armonia politica e sociale.

“Se il carattere morale dell’uomo sta nell’abito del dovere e nel forte evivo sentimento di esso, lo spirito del dovere che animi tutta unaNazione deve considerarsi come una gran cosa! Finché vi duri, non c’èda temere alle sorti e all’avvenire di essa. Solamente quando l’idea deldovere ed il suo amore si oscuri o si smarrisca, la rovina di quel popo-lo non può farsi molto aspettare”.37

Accanto al vigoroso richiamo alla responsabilità personale nel-l’educazione di “se medesimo” (concepita principalmente come“energia e costanza di onorandi propositi” e “fedeltà alla leggedella ragione che impera sulla volontà”), l’Alfani tracciava quindiun meticoloso itinerario, quasi una precettistica, che dalla fami-glia e dalla scuola si dilatava verso i doveri educativi della stampa,dell’azione politica, del lavoro, con una particolare sottolineaturadella forza traente dei buoni esempi, tema al quale qualche annodopo lo scrittore fiorentino avrebbe dedicato un altro volume daidestini editoriali ugualmente fortunati.38

36. A. Alfani, Il carattere degli Italiani, Firenze, Barbèra, 1912 (1a edizione 1878), p. 10.37. Ibidem, pp. 22-23.38. A. Alfani, Battaglie e vittorie. Nuovi esempi di volere è potere, Firenze, Barbèra, 1895.

28 capitolo primo

Lo scopo era quello di contrastare, come scriveva anche Miche-le Lessona,

“l’ignoranza, le superstizioni, l’aborrimento al lavoro, la glorificazionedell’ozio, gli errori, l’incuria della dignità personale e dell’onesto sen-tire, la discordia, l’invidia, l’ira di parte, il municipalismo, nemici benpiù pericolosi e tremendi che l’austriaco non fosse”39

ovvero le cause prime del ritardo degli Italiani sulla strada del pro-gresso.

Non è naturalmente scontato che questi libri circolassero anchetra i lettori più sprovveduti: sarebbe interessante sapere quanti arri-vavano realmente nelle case dei contadini e degli operai e quanto,invece, essi siano da prendere in considerazione soprattutto comesegno della preoccupazione della borghesia liberale verso l’inedu-cazione dei ceti popolari. Il rapporto tra letteratura e cultura popo-lare, come vedremo meglio tra breve, non è esente da molte inco-gnite che si manifestano, di volta in volta, nello scarto tra libro elettore, tra pagina stampata e cultura orale, tra lettura e memoria,in una parola nello scarto esistente tra due diversi strati culturali.40

5. I percorsi degli adulti. Le esperienze

Accanto all’iniziativa di uomini politici, scrittori, educatori avario titolo impegnati nella promozione dell’educazione e alfabe-tizzazione degli adulti (meno significativo fu l’apporto in questocampo dei pedagogisti che in genere concentrarono la loro atten-zione sulla scolarizzazione di bambini e ragazzi) occorre ora consi-derare nel dettaglio alcuni ambiti sociali entro cui si svolsero inconcreto le attività per gli adulti.

In primo piano stanno certamente, per ampiezza dell’utenza eper la capillarità dell’intervento, le scuole reggimentali, a partiredalle esperienze avviate nel Piemonte preunitario. Qui furonoaperte, già negli anni ’40, apposite “scuole di scrittura e di aritme-

39. M. Lessona, Volere è potere, Firenze, Barbèra, p. 31. 40. S. Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nell’Italia liberale. Discussioni e

ricerche, Milano, Angeli, 1986, pp. 35-36.

le vie dell’alfabeto 29

tica” sia nei reggimenti sia presso l’arsenale marittimo. L’idea allabase delle scuole reggimentali era complementare a quella dellescuole elementari: nell’uno e nell’altro caso il proposito era quellodi agire ad ampio raggio sulle leve anagrafiche, rispettivamentequelle delle reclute incolte e quelle dei bambini.

La prima sistemazione organica delle scuole reggimentali pie-montesi maturò tra il 1849 e il 1850 con l’allora ministro dellaGuerra, il generale Alfonso La Marmora. Esse dovevano insegnarea leggere, scrivere e conteggiare ai militari di truppa analfabeti. Ipiù meritevoli erano premiati con menzioni, promozioni e sussidiin denaro. Erano previsti appositi libri di testo a carico del reggi-mento che doveva attrezzare ad aula locali adeguati e sostenere icosti del materiale di consumo.41

All’indomani dell’Unità le scuole reggimentali si diffusero rapida-mente e per circa un ventennio, tra il 1860 e il 1880, contribuironoalla diminuzione degli analfabeti adulti. A partire dal 1869 fu ancheintrodotto l’obbligo di frequenza, poi ribadito nel 1872. Il coscrittoanalfabeta che durante il servizio militare imparava a leggere e scri-vere rappresentò uno dei topoi della vita militare. L’insegnamentoandava affidato “per quanto possibile” a caporali o soldati in posses-so della patente magistrale. I metodi seguiti erano “quelli dellescuole elementari, tenuto però il debito conto, sì nei mezzi, sì nelleforme didattiche, dell’età e della condizione militare dei discenti”.42

Le scuole erano organizzate su quattro classi e coloro che supe-ravano gli esami finali potevano iscriversi alla scuola reggimentaledi contabilità oppure essere impiegati come “aiutanti maestri”. Nelcaso, non infrequente, che una classe di leva fosse mandata antici-patamente in congedo, i soldati della scuola reggimentale doveva-no superare un apposito esame (“esame per congedanti”). Chi nonlo superava era tenuto a completare la sua ferma militare, conti-nuando a frequentare la scuola.

Le esigenze delle scuole reggimentali – analogamente a quan-to accadeva per le scuole serali e festive – sollecitarono una spe-cifica produzione editoriale di libri di testo nella quale si cimen-

41. G. Mastrangelo, Le “scuole reggimentali”. 1848-1913. Cronaca di una forma diistruzione degli adulti nell’Italia liberale, Roma, Ediesse, 2008, pp. 50-53.

42. Ibidem, p. 58.

30 capitolo primo

tarono anche autori molto noti come Vincenzo Troya e Giovan-ni De Castro. Il libro del soldato italiano del De Castro uscito nel1862 ebbe continue edizioni per almeno una ventina di anni.Negli anni ’80 il Marselli precisò i contenuti e delineò le qualitàdidattiche del “libro del soldato”. Circa i primi il testo dovevapromuovere i doveri del buon cittadino onde formarne “il carat-tere” e presentare i principali fatti della storia militare italiana.Alla trattazione si chiedevano “brevità di definizioni, moderatosvolgimento dei concetti, larga messe di esempi storici, e diquando in quando la viva dipintura di un carattere, che personi-fichi le virtù di cui si è tenuto discorso”. Non si doveva perderedi vista che

“il libro, sebbene diretto al soldato, non potrebbe mai, per popolareche fosse, riuscire appieno intelligibile al comune de’ soldati, i quali alpiù sanno stentatamente leggere e malamente scrivere; ma dovrebbenon oltrepassare il livello della modesta cultura de’ sottufficiali, natu-ralmente deputati a spiegarlo a’ soldati, nel che troveranno altresìun’occasione per una migliore educazione del proprio animo”.43

Oltre al corpus etico che doveva regolare la vita del soldato(rispetto per la disciplina, il disprezzo delle fatiche, lo spirito disacrificio, la solidarietà cameratesca), i manuali per i soldati pre-scrivevano minuziosamente i comportamenti quotidiani. Ai solda-ti si raccomandavano cortesia, compostezza nell’incedere, l’impor-tanza del saluto, la temperanza nel mangiare e nel bere, la necessi-tà dell’igiene personale e sessuale, dell’ordine e della puntualità. Isoldati erano invitati a non fare debiti, a non chiedere soldi allefamiglie, a non giocare d’azzardo e a mostrare il loro coraggio nonsolo nelle azioni belliche, ma soprattutto aiutando le popolazionicivili in occasioni di calamità naturali.44

Tra il 1865 (classe 1845) e il 1880 (classe 1860) la percentualedelle reclute alfabete passò dal 33,9% al 53,4% (primo tangibileeffetto dei processi di scolarizzazione) e la quota dei congedati alfa-beti salì nel medesimo periodo dal 56,4% al 90,1% con un aumen-

43. N. Marselli, La vita del Reggimento. Osservazioni e ricordi, Firenze, Barbèra,1889, poi altra edizione, Roma, Voghera, 1903 (da cui citiamo), pp. 195-196.

44. S. Polenghi, Educazione militare e Stato nazionale nell’Italia ottocentesca, in“Pedagogia e vita”, 1991, n. 1, pp. 131-132.

le vie dell’alfabeto 31

to di circa 34 punti percentuali.45 Secondo alcune attendibili stimele scuole reggimentali nel periodo di maggior espansione avrebbe-ro garantito l’istruzione di base a 15-20 mila giovani per ogni clas-se,46 anche se non manca chi avanza qualche fondato dubbio suirisultati effettivi dell’insegnamento.47

A partire dal 1881 si verificò un leggero regresso dell’incidenzadelle scuole reggimentali che, negli anni successivi si manifestò inmaniera più significativa. Era questo il primo segnale del lorodeclino fino alla soppressione decretata nel 1892, anche se la chiu-sura legale non coincise con l’effettiva conclusione dell’esperienza.Tra il 1892 e i primi anni del secolo continuarono infatti a funzio-nare iniziative per soldati analfabeti durante il periodo di leva, maa discrezione dei comandanti e “nelle ore a disposizione”.

Il declino delle scuole reggimentali fu una delle conseguenzedella diversa concezione dell’esercito che si affermò negli anni ’80.Alla funzione principalmente difensiva assegnata fino ad allora alleforze armate e al loro ruolo di aggregazione e di creazione del con-senso, subentrò un esercito di stile prussiano funzionale alla politi-ca di affermazione dell’Italia come grande potenza. Questa sceltaebbe effetti contraddittori. Mentre infatti – come vedremo nel suc-cessivo capitolo – si andò accentuando, specie in alcuni settori cul-turali e politici, l’innalzamento dell’esercito non solo a simbolodell’Unità, ma anche a suprema icona educativa del popolo italia-no, le restrizioni delle spese militari “non obbligatorie” ridimen-sionarono l’intervento dell’esercito nel campo dell’istruzione.

Soltanto agli inizi del nuovo secolo le scuole presso i reggimen-ti tornarono al centro del dibattito politico-scolastico e furonoripristinate nel 1911 dalla legge Daneo-Credaro, con una novitàtuttavia non di poco conto. Le spese per tali scuole erano previstein parte a carico del Ministero della P.I. e in parte addebitate albilancio di quello della Guerra, facendo in tal modo perdere all’au-torità militare l’esclusiva sovranità sulla loro direzione.

45. Mastrangelo, Le “scuole reggimentali”. 1848-1913, op. cit., pp. 70-71. 46. G. Oliva, Soldati e ufficiali. L’esercito italiano dal Risorgimento a oggi, Milano,

Mondadori, 2009, p. 67. 47. L. Ceva, Storia delle forze armate, Torino, Utet Libreria, 1999, p. 81 annota che

“come afferma qualche testimone, ben di rado [l’insegnamento] approdava a qualco-sa di più del semplice ‘disegno’ della firma da parte dell’analfabeta”.

32 capitolo primo

Mentre le scuole reggimentali rientrano nell’ordine dell’educazio-ne formale, altre iniziative per gli adulti ebbero caratteristiche piùinformali, affidate a una pluralità di soggetti a vario titolo interessa-ti, indirettamente o direttamente, all’incremento dell’alfabetismo.

La necessità di innovare le pratiche agrarie e in tal modo innal-zare la produttività delle campagne offre un caso esemplare di inte-resse indiretto all’alfabetismo. Il contadino analfabeta o scarsamen-te alfabetizzato fu a lungo considerato più affidabile del contadinocapace di leggere, scrivere e conteggiare in modo autonomo. Sononote le riserve dei grandi proprietari terrieri che, specie nel suddell’Italia, accompagnarono lo sviluppo scolastico e la preoccupa-zione abbastanza generalizzata che la frequenza scolastica non pro-ducesse, come si diceva allora, degli “spostati” e cioè individui conambizioni non compatibili con la stabilità del sistema sociale deltempo.

Nonostante queste prudenze, al mondo rurale si rivolsero nume-rose iniziative che, finalizzate a migliorare le conoscenze dei conta-dini, a sottrarli al peso delle tradizioni e delle consuetudini e aintrodurli a nuove pratiche di coltivazione, ebbero rilevanti ricadu-te anche sul piano delle conoscenze elementari. In tal senso agiro-no, per esempio, i Comizi agrari, sodalizi sperimentati dapprima inPiemonte e poi estesi da una legge del 1866 in tutta l’Italia. I com-piti attribuiti ai Comizi erano di natura strettamente tecnica (farconoscere e adottare le migliori colture, i concimi vantaggiosi,nuovi attrezzi agricoli, ecc.), ma per migliorare le competenze deicontadini era giocoforza far leva anche sulla loro alfabetizzazione.

Altre forme di istruzione agraria popolare furono quelle delleCattedre ambulanti di agricoltura, spesso realizzate dagli enti loca-li e poi sostenute anche dal Ministero dell’Agricoltura. Il loroscopo era quello di “spiegare un’azione continua e salutare sui pos-sidenti e sui campagnoli” mediante conferenze, piccole pubblica-zioni, informazioni e istruzioni “a quanti ne abbisognano”, campisperimentali, l’introduzione di nuove macchine.48 Anche le scuoleagrarie, svilupparono, oltre ai compiti istituzionali (e cioè la pre-parazione di giovani allievi da impiegare come specialisti nell’atti-

48. M. Zucchini, Le Cattedre ambulanti di agricoltura, Roma, Giovanni Volpe edi-tore, 1970.

le vie dell’alfabeto 33

vità agraria), un’intensa attività di informazione a largo raggio, spe-cie in riferimento alle crisi produttive che colpirono l’Italia negliultimi decenni dell’Ottocento.49

Non si contano, poi, le iniziative private avviate da lungimirantiimprenditori agricoli, da società agrarie, casse e unioni rurali, dapreti e sodalizi cattolici, accomunati dal proposito di far fronte allamiseria delle campagne, valorizzare il lavoro agricolo e soprattuttocontenere la rabbia contadina e la diffusione del socialismo.

In un contesto diverso, con un’azione forse ancor più capillare,svolsero un ruolo altrettanto significativo le Società operaie dimutuo soccorso. A differenza del mondo contadino, gli ambientioperai erano più sensibili alle opportunità offerte dall’alfabetismo.Le Società di mutuo soccorso fecero leva proprio sull’istruzionevista come la condizione primaria e indispensabile per migliorare lecondizioni dei lavoratori. Già negli anni ’50 in Piemonte questisodalizi avevano preso ripetutamente posizione in occasione deiloro congressi in favore dell’obbligatorietà dell’insegnamento,della diffusione dell’istruzione dei ceti popolari e, soprattutto, del-l’istruzione professionale e tecnica, dando vita a scuole elementari,serali e festive per ragazzi e adulti, e a scuole pratiche maschili efemminili in cui venivano insegnati i più vari mestieri.50

Dopo l’Unità il movimento in favore dell’istruzione popolare etecnico-professionale si estese soprattutto nelle regioni settentrio-nali con una considerevole fioritura di scuole e corsi d’insegnamen-to di ogni tipo che sorsero per iniziativa privata – sia sul versantedelle Società di mutuo soccorso a direzione moderata sia su quelloa direzione democratica –, ma anche ad opera di amministrazionilocali, di artigiani, di industriali, di uomini politici, di sacerdoti eistituzioni ecclesiastiche.

Queste iniziative furono affiancate da una fiorente pubblicisticafatta di giornali popolari, opuscoli, almanacchi, ecc. Negli anni ’70

49. A.P. Bidolli, S. Soldani (edd.), L’istruzione agraria. 1861-1928, Roma,Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2001,pp. 65-66.

50. F. Susi, Anticlericalismo e religione civile nelle società operaie piemontesi (1849-1860), in“Studi storico religiosi”, 1979, n. 1; N. Lisanti, La nascita del movimento operaio. 1815-1860, in A. Agosti, G.M. Bravo (edd.), Storia del movimento operaio e delle lotte sociali in Pie-monte, Bari, De Donato, 1979, vol. i, pp. 260-265; B. Gariglio, Stampa e opinione pubblicanel Risorgimento. La “Gazzetta del popolo” (1848-1861), Milano, Angeli, 1987, pp. 95-111.

34 capitolo primo

l’organo delle Società operaie di mutuo soccorso di Torino, “L’edu-catore del popolo”, si distinse, ad esempio, per le appassionatecampagne contro l’analfabetismo, a favore dell’istruzione tecnica edelle biblioteche popolari, per la cultura laica e l’emancipazionefemminile.51

Le iniziative delle Società di mutuo soccorso puntarono attra-verso l’istruzione e la preparazione al mestiere a stimolare nei cetiartigiani e operai “una mentalità, un costume, un’etica nuova fon-data su un rapporto stretto fra il lavoro manuale e le cognizionitecniche e scientifiche”, non soltanto al fine economico di promuo-vere un più elevato livello di preparazione professionale, “ma alfine civile e politico di rendere più ampie le basi di una nuova civil-tà costituita sulla scienza”.52

I valori additati come modello agli operai sono riconducibili inlarga parte alla mentalità self helpista come dimostrano l’invito a farleva sulle proprie capacità, l’aspirazione all’arricchimento e alla pro-prietà, la previdenza, l’istruzione. Il grande interesse dimostratoverso l’istruzione come condizione indispensabile per il pieno inse-rimento nella vita sociale non era soltanto congeniale alla fiducia nelprogresso, ma rispondeva anche alla necessità pratica di accrescerele capacità e la produttività della mano d’opera.

Il riferimento alla tecnica e alla scienza costituiva un’affermazio-ne di laicità senza che questo fatto comportasse il rifiuto di ricono-scere l’importanza dei valori religiosi che, tuttavia, spesso nonerano più presentati secondo la tradizione cattolica. Si trattava soli-tamente di “un cristianesimo svuotato dei suoi princìpi teologici etradotto nelle forme di una morale attivistica di tipo protestante,anzi calvinista”53 che si svolgeva secondo una gamma molto artico-lata di posizioni che andavano da quelle che ancora fiancheggiava-no le istituzioni ecclesiastiche ad altre a vaga concezione deisticaad altre ancora dai tratti fortemente anticlericali.

Gli animatori delle Società operaie temevano, in sostanza, chel’ateismo contagiasse gli operai e travolgesse, con la religione,

51. M. Bellocchio, Anticlericalismo ed emancipazione femminile sulle pagine del perio-dico torinese “L’educatore del popolo”, in “Studi piemontesi”, 1991, n. 2, pp. 21-44.

52. G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’unità. 1848-1876, Roma-Bari, Laterza,1981, p. 90.

53. Ibidem, p. 85.

le vie dell’alfabeto 35

anche i princìpi della morale. Alle Società operaie era perciò affi-dato il compito di farsi promotrici di una riforma morale capacedi sottrarli allo scetticismo e all’egoismo individualistico e di edu-carli, invece, al risparmio, al lavoro, all’ordine, alla sobrietà, allaricerca razionale della verità. Le Società dovevano perciò diven-tare esse stesse

“scuole mutue, dove nessuno sia maestro, ma tutti eguali e che fra parie amici si discutano le questioni e si cerchi con raziocinio la verità. Laverità morale, trovata con fatica, s’imprime a caratteri indelebili nellamente dell’operaio, che l’ama coll’orgoglio dello scopritore”.54

Per molti versi vicine alle Società di mutuo soccorso, ma piùesposte sul piano della esplicita militanza laica e spesso anche aper-tamente anticlericale, furono le esperienze delle varie Leghe perl’istruzione del popolo sorte in Italia negli anni successivi alla presadi Roma sul modello di analoghe iniziative intraprese in Belgio, inFrancia, in Inghilterra.

Tali associazioni erano costituite in genere da un certo numerodi società e circoli (società operaie di mutuo soccorso, società coo-perative, banche popolari di credito, circoli politici e culturali) cheunivano forze e mezzi per il perseguimento di obiettivi comuni.Accanto all’opera di fiancheggiamento dell’attività dei Comuni inmateria scolastica (per esempio mediante la collaborazione percontrastare il fenomeno dell’evasione all’obbligo), le Leghe siimpegnarono per sconfiggere l’analfabetismo adulto e per pro-muovere l’istruzione professionale.

Questi obiettivi furono perseguiti in vario modo: con l’apertu-ra di apposite scuole serali e festive, mediante l’organizzazione diconferenze popolari, attraverso la divulgazione agraria, con lacostituzione di biblioteche popolari, aprendo ricreatori e asiliinfantili – questi ultimi spesso nella forma dei giardini fröbelia-ni –, dando vita a pubblicazioni periodiche e opuscoli di facilelettura e promuovendo iniziative in favore dell’educazione fem-minile.

Leghe per l’istruzione del popolo sorsero a Bologna, Mantova,Roma, Torino, Verona, Ferrara, Milano sostenute da personalità

54. Il libro delle Società operaje, Milano, Sonzogno, 1886, p. 57.

36 capitolo primo

sensibili alle ragioni del filantropismo laico, esponenti delle cor-renti democratiche, docenti universitari e insegnanti convinti chemigliorare le condizioni di vita delle classi subalterne significassesottrarle alle lusinghe del socialismo, favorire un progresso gradua-le e senza rotture e contenere l’influenza della Chiesa.55

Al successo di questi e di altri sodalizi analoghi sorti in varie partid’Italia contribuì il sostegno delle logge massoniche. Gli scopidelle Leghe erano coerenti con le finalità perseguite dalla Masso-neria italiana (ed europea), i cui forti interessi in campo educativoerano entrati nell’agenda dell’organizzazione fin dall’indomani del-l’Unità. Già nel corso della prima assemblea costituente del Gran-de Oriente d’Italia convocata a Torino nel dicembre 1861, era statoinfatti stilato un documento nel quale si affermava la volontà dipromuovere il miglioramento delle condizioni materiali e moralidelle classi sociali più disagiate “mediante l’educazione morale, fisi-ca, intellettuale del popolo”. A tal fine si proponeva di “fondarecase di ricovero per vecchi, asili d’educazione per l’infanzia, scuoleserali e tecniche per gli operai”.56

Questi iniziali intenti furono perseguiti all’interno di un pianod’azione molto vasto e ambizioso57. Un significativo tassello fu rap-presentato proprio dal sostegno e dall’attiva partecipazione alleLeghe. In uno scritto apparso sulla “Rivista della massoneria italia-na” nel 1870 si associava l’iniziativa delle Leghe all’esigenza di unaistruzione “larga, libera, universale, istruzione che sradichi dallamente delle moltitudini quel resto della vecchia ignoranza che le

55. Verucci, L’Italia laica, op. cit., pp. 106-112. Ved. anche D. Bertoni Jovine,Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 193-195.

56. F. Conti, Massoneria, scuola e questione educativa nell’Italia liberale, in “Annali distoria dell’educazione e delle istituzioni educative”, 2004, n. 11, pp. 11-12.

57. Nel saggio sopra indicato (ibidem, p. 17) il Conti ha indicato tre principalidirettrici dell’azione massonica nel campo dell’istruzione e dell’educazione: 1) l’azio-ne politica intrapresa ai diversi livelli (dal Parlamento ai Comuni) in favore dell’istru-zione laica, obbligatoria, gratuita e contro l’insegnamento religioso; la promozionedel sapere scientifico e tecnologico e dei valori democratici; 2) la creazione di struttu-re educative per l’infanzia, i giovani, le ragazze e i lavoratori adulti concepiti secondomodalità alternative e concorrenziali alle analoghe iniziative sostenute dal clero edalle congregazioni religiose; 3) un’intensa opera di proselitismo svolta tra insegnan-ti e professori universitari e cioè tra quelle figure adulte a diretto contatto con i gio-vani in grado di orientarne l’educazione.

le vie dell’alfabeto 37

rende, anche oggi, facile strumento alle voglie degli ambiziosi;istruzione che serve a completare le moderne libertà, a coronare loedificio della civiltà e del progresso”.58 In tal modo, concludeval’articolo, l’istruzione rappresentava non solo un efficace mezzoper l’emancipazione del popolo, ma anche “un valido strumentoper sottrarre la società all’influenza clericale”.59

La connotazione anticlericale delle Leghe e l’azione capillare dimolte logge massoniche in campo educativo suscitarono l’allarmedel mondo cattolico e la reazione della Chiesa. Lo dimostrano iripetuti interventi della “Civiltà Cattolica” (in particolare all’azionedelle Leghe fu dedicato nel 1882 un articolo nel quale si denuncia-va il sostegno alle biblioteche circolanti, alle conferenze popolari eall’istruzione elementare) e il moltiplicarsi di iniziative per preser-vare i giovani dalle influenze irreligiose. La conclamata neutralitàin materia religiosa delle Leghe e delle società di mutuo soccorsocui spesso si appoggiavano si traduceva nei fatti, secondo l’autore-vole organo dei padri gesuiti, nell’insegnamento “di una scienzache non faceva riferimento a Dio Creatore”, di teorie sociali “incui si prescindeva da Dio e dalla Chiesa”, di una storia in cui lafigura di Gesù Cristo “non si differenziava dagli altri fondatori direligioni”.

L’invito rivolto ai cattolici era duplice: prendere consapevolezzadell’insidia che si celava dietro la filantropia laica e rispondere conanaloghe iniziative di segno avverso. L’intervento della “CiviltàCattolica” non celava l’insoddisfazione per la scarsa efficacia delleiniziative in corso e l’invito non solo a moltiplicare gli sforzi, ma arenderli più funzionali ai mutamenti in atto.

È precisamente per rispondere in modo adeguato alle sollecita-zioni di una realtà dai molti tratti ormai diversi dal passato cheanimatori di attività educative e sociali come Giovanni Bosco,Leonardo Murialdo, Giovanni Piamarta, Luigi Guanella, MariaMazzarello, Giovanni Battista Scalabrini, Francesca Cabrini,Luigi Orione furono costretti ad uscire dai ristretti orizzonti, sia

58. T. Tomasi, Massoneria e scuola dall’Unità ai nostri giorni, Firenze, Vallecchi,1980, pp. 82-84.

59. M. Novarino, Massoneria ed educazione a Torino in età liberale, in “Annali di sto-ria dell’educazione e delle istituzioni educative”, 2004, n. 11, p. 81.

38 capitolo primo

in senso spaziale sia in senso culturale, in cui erano stati educati ead inserirsi nei flussi del cambiamento sociale, economico, politi-co del loro tempo, figure-ponte al crocevia tra la fedeltà al passa-to e la precisa percezione del suo inevitabile ed irreversibile supe-ramento.

Con l’attenzione prestata all’infanzia, alla scuola e alla prepara-zione professionale dei giovani e la cura riservata all’educazionefemminile anche le iniziative dei cattolici s’inserirono nel lento, masostanziale, svolgersi dell’alfabetizzazione e della modernizzazionedell’Italia. Ciò che li distinse dagli oppositori intransigenti non futanto il giudizio negativo sulla società “moderna”, ma un nuovoatteggiamento nei confronti della responsabilità del cristiano difronte alla storia.

Le numerose congregazioni religiose sorte nell’Ottocento siposero in modo attivo nei confronti dei cambiamenti, sviluppando,per esempio, un’avvertita sensibilità spirituale, pastorale e caritati-va verso le nuove povertà, i nuovi bisogni, le nuove piaghe socialiprodotte dall’incipiente sviluppo industriale e dai fenomeni ad essocollegati come l’urbanesimo, le trasformazioni sociali ed economi-che. Nell’interagire con una realtà nuova esse furono costrette, aloro volta, ad approfondire la conoscenza – non foss’altro che permotivi legati alle loro attività caritative e pastorali – del funziona-mento della società liberale e degli apparati amministrativi delnuovo Stato, contribuendo indirettamente in alcuni settori o inalcune aree geografiche alla presa di coscienza di una realtà in rapi-da trasformazione.60

L’atteggiamento positivo verso l’istruzione, in particolare, si tra-dusse in una idea di cambiamento che non escludesse quel patri-monio di memoria, di tradizioni e di valori etico-religiosi indispen-sabile per assicurare ai processi di trasformazione collettiva i neces-sari caratteri di stabilità. Gli ambienti dell’intransigentismo catto-lico, pur contrastando con vigore i princìpi dello Stato liberale, nontradussero perciò il loro antistatalismo in opposizione all’idea diuna Nazione italiana. Essi si impegnarono piuttosto a difendere

60. F. De Giorgi, Cattolici ed educazione tra Restaurazione e Risorgimento. Ordini reli-giosi, antigesuitismo e pedagogia nei processi di modernizzazione, Milano, Isu-UniversitàCattolica, 1999, pp. 11-12.

le vie dell’alfabeto 39

l’idea di una “Italia cattolica” rivendicata come diversa rispetto aquella che si era compiuta contro il papa e la Chiesa.61

Riprenderemo alcuni di questi punti più avanti, in speciequando ci soffermeremo, in dettaglio, sull’azione educativa svol-ta dalla più importante congregazione religiosa rivolta ai giovani,i Salesiani, e sulla figura del prete educatore e della suora mae-stra.

6. L’altra metà della scuola. La via femminile all’alfabeto

Con una felice metafora – l’altra metà della scuola – un recentelibro ha richiamato la rilevanza che tra Otto e Novecento assunse ilprocesso di alfabetizzazione e di scolarizzazione delle bambine.Esso s’intrecciò con il graduale ingresso delle donne nel mondo dellavoro e con le prime iniziative intraprese dal movimento emanci-pazionista femminile in vari ambiti della vita sociale.62

La differenza dell’approccio all’alfabeto che per tutto l’AncienRégime aveva differenziato l’educazione dei maschi e delle femmi-ne, nel corso dell’Ottocento cominciò ad attenuarsi. Nonostantele resistenze opposte da più parti all’istruzione femminile motiva-ta dalla sua presunta inutilità e dai possibili rischi che essa avrebbepotuto comportare, l’accostamento femminile all’alfabeto compìprogressi significativi. La generalizzazione della legge Casati cheprevedeva il medesimo obbligo d’istruzione per maschi e femmi-ne, l’apertura di scuole per le bambine e una più moderna conce-zione della donna (pur nel rispetto di princìpi consolidati come ladedizione alla famiglia, il ruolo materno, l’affermazione di unapresunta inferiorità che prolungava pregiudizi antichi) furonoalcuni fattori che favorirono la diffusione dei processi di alfabetiz-zazione.

Le donne analfabete diminuirono in cinquant’anni di ben 39punti, passando dall’81% del 1861 al 42% del 1911 contro i 35 puntiche segnarono i progressi maschili (dal 68% al 33%). Questo dato

61. G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubbli-ca, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 40-42.

62. C. Ghizzoni, S. Polenghi (edd.), L’altra metà della scuola. Educazione e lavorodelle donne tra Otto e Novecento, Torino, sei, 2008.

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assoluto è confortato da altri indicatori: le scuole primarie femmini-li passarono dal 42% del 1863 al 50% del 1901 rispetto al totale dellescuole. La bambine iscritte alle classi elementari crebbero percen-tualmente con il trascorrere degli anni, aumentando dal 43% delprimo decennio unitario al 48% del periodo 1901-1910.63

Se i dati documentano in via generale una alfabetizzazione dellefemmine più incisiva rispetto a quella maschile (giustificata peral-tro da un punto di partenza molto più basso), una più accurata ana-lisi che, oltre all’aspetto quantitativo, consideri anche quello quali-tativo, svela una situazione più complessa.

Per esempio è stato dimostrato che “anche se alfabetizzate, ledonne disponevano di un bagaglio tecnico (così possiamo definirela capacità di leggere e scrivere) assai più approssimativo dei lorocoetanei”. Lo dimostra il fenomeno del semianalfabetismo (cioèpersone in grado di leggere, ma non di scrivere; questione cheriprenderemo più avanti): ebbene la frazione più significativa tra il1861 e il 1881 di persone semianalfabete era di sesso femminile(nel 1881 il 3% del maschi contro l’11% delle femmine).64

Un’altra significativa spia riguarda l’abituale accostamento tral’istruzione femminile e quella impartita nelle prime classi maschi-li che ricorre puntualmente sia sulle pagine delle riviste magistralisia nelle periodiche conferenze organizzate per l’aggiornamentodei maestri.

Fino al termine del primo ciclo scolastico (le prime tre classidella scuola elementare) la distinzione tra maschi e femmine erapiuttosto sfumata: di lì in poi i maschi diventavano oggetto di spe-ciali attenzioni, mentre per le bambine si aprivano scenari moltopiù modesti. Ancora nell’Ottocento inoltrato era diffusa la convin-zione che a queste ultime bastassero pochi elementi del sapere:all’accettazione dell’istruzione femminile generalizzata corrispon-deva insomma la convinzione che essa doveva restare confinataentro le conoscenze più semplici.

Le maestre erano giudicate più adatte all’insegnamento inferio-re e femminile, mentre i maestri riservavano a sé quella che era

63. D. Marchesini, L’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristichee dinamiche, in S. Soldani (ed.), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femmi-nile nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1989, pp. 39-41.

64. Vigo, Gli italiani alla conquista dell’alfabeto, cit., pp. 54-55.

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giudicata la parte più nobile della scuola elementare e cioè le classisuperiori maschili. Queste consuetudini dipendevano certamentedalla stretta associazione tra ruolo magistrale e compiti materni,ma anche dalla convinzione che la “scuola” coincidesse con quelladegli alunni maschi destinati al proseguimento, più o meno ampio,degli studi. A parità di impegno, le maestre erano conseguente-mente retribuite con uno stipendio inferiore a quello dei colleghimaschi e soltanto all’inizio del Novecento quella che oggi ci appa-re una intollerabile discriminazione fu superata in via definitiva.

Non sorprende perciò che all’indomani dell’Unità e ancora perqualche decennio – salvo che nelle aree più scolarizzate delle regio-ni centro-settentrionali – la scuola femminile presentasse caratteri-stiche alquanto diverse rispetto a quelle dei maschi, sottolineatedagli stessi documenti ministeriali quando avvertivano che

“un certo apparato di scolastica solennità può tornar utile ad eccitarnei fanciulli l’emulazione e il desiderio della lode, perché ad essi èaperto qualsiasi pubblico arringo; ma non sarebbe senza pericolo per legiovinette, alle quali spettano più tranquilli uffici da compiere, e chedall’avvezzarsi a sostenere gli sguardi e il giudizio del pubblico trarreb-bero assai più di danno che di vantaggio. La maestra non dimentichimai ch’ella tien luogo della madre alle sue alunne e che ogni cosa nellascuola dev’essere stromento che svolga in esse i sentimenti che soliconvengono a sagge e riserbate fanciulle, acciò più tardi riescano vir-tuose mogli e madri di onesti cittadini”.65

Questa diversità si traduceva nei fatti in una scuola femminilemeno attenta all’alfabetizzazione e impegnata soprattutto nel-l’esercizio di pratiche religiose e dei lavori donneschi come cuci-to, maglia, ricamo. Invano si cercherebbero nelle preoccupazioniper l’educazione delle figlie, senza distinzioni tra le famiglie bor-ghesi e quelle contadine, le medesime aspettative che si riservava-no ai figli maschi.66

Dire scuola femminile evocava spesso luoghi di esercitazionipratiche, se non proprio di lavoro, sotto la guida di una persona

65. Cit. in S.A. Costa, La scuola e la grande scala. Vita e costume nella scuola sicilianadal 1860 agli inizi del Novecento, Palermo, Sellerio, 1990, p. 198.

66. M. D’Amelia, Figli, in P. Melograni (ed.), La famiglia italiana dall’Ottocento aoggi, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 499-507.

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esperta.67 Molte testimonianze convergono in tal senso. Nel 1864il provveditore di Caltanissetta lamentava che nei Collegi di Mariadella provincia di sua competenza non vi fosse

“una maestra abile; e quindi un insegnamento che si limita a’ soli lavo-ri di cucito; di leggere e scrivere poco o nulla; non un cenno di aritme-tica; ed inoltre, stanze non adatte all’insegnamento perché anguste edumide; gli arredi scolastici mancanti del tutto; cosicché ne discapitanoad un tempo l’istruzione e l’igiene; e le allieve, che sono in sufficientenumero, non ritraggono quindi il menomo profitto, e corrono anzipericolo di soffrire nella salute”.68

Qualche anno più tardi una relazione ispettiva informava il Mini-stero che tanto nelle scuole elementari tenute da religiose quanto inquelle pubbliche di Napoli

“le maestre occupandosi di un po’ di lettura e scrittura, dei lavori don-neschi e del catechismo di religione, punto non svolgono le facoltàmentali, né danno quella istruzione più ampia dalle condizioni civilirichieste. L’istruzione è considerata come ornamento, non come biso-gno di ogni persona, molto meno come mezzo di conoscere i suoidoveri ed aiuto ad adempirli”.69

Anche là dove erano meno vistosi questi fenomeni, era forte-mente sentita la preoccupazione per una scuola dai contorni prati-ci. A questa esigenza non sfuggiva, beninteso, la scuola maschileche, a sua volta, era vigorosamente richiamata a essere intrisa diconcretezza. Basta sfogliare qualche libro di testo per averne pienaconferma: gli autori erano invitati “non a dilettare”, ma a formare“l’uomo eminentemente morale ed abile” in modo che potesse“bastare a sé con decoro e con minor disturbo possibile agli altri,sostenendo dignitosamente e valentemente la lotta della vita”.70

67. S. Soldani, Il libro e la matassa. Scuole per “lavori donneschi” nell’Italia da costrui-re, in Soldani, L’educazione delle donne, op. cit., pp. 87-129.

68. S. Franchini, P. Puzzuoli (edd.), Gli istituti femminili di educazione e di istru-zione (1861-1910), Roma, Ministero per i Beni e le attività culturali - Dipartimentoper i beni archivistici e librari, 2005, p. 198.

69. C. Covato, A.M. Sorge (edd.), L’istruzione normale dalla legge Casati all’età gio-littiana, Roma, Ministero per i Beni e le attività culturali - Ufficio centrale per i beniarchivistici, 1994, p. 67.

70. P. Fornari, Libro di lettura, in Martinazzoli, Credaro, Dizionario illustrato diPedagogia, op. cit., vol. ii, pp. 519-420.

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Ma nel caso della scuola femminile l’attenzione alla “praticità”aveva altre motivazioni. Essa, d’un lato, scontava il retaggio di unpassato nel quale per le bambine erano giudicate superflue, se nonaddirittura dannose, le conoscenze elementari, e per un altro versoindicava come fosse di ardua comprensione tra i ceti popolari unascuola, in specie per le bambine, tutta (o troppo) centrata sul legge-re, scrivere e far di conto.

Di questa realtà prendeva atto Giovanni Scavia, stretto collabora-tore del ministro Berti già a Torino e poi a Roma e autore di unadelle prime riflessioni pedagogiche sull’educazione femminile dopol’Unità. Secondo lo Scavia bisognava modificare un’antica tradizio-ne piuttosto che sperare di capovolgerla. Occorreva, cioè, trasfor-mare le vecchie scuole di lavoro, immettendo in esse una nuovalinfa, ovvero quelle “cognizioni essenziali” necessarie per combatte-re l’ignoranza delle donne. Contro questo “nemico pericoloso” lostudioso piemontese metteva tuttavia in campo un programma piùcircoscritto rispetto a quello dei maschi, centrato sulla lettura che,se bene appresa, costituiva “una ricchezza che non si perde”.71

La convinzione che quanto più la scuola fosse “pratica” tanto piùera apprezzata in quanto coerente con le aspettative sociali spiega ilpersistere dell’importanza educativa attribuita ai lavori donneschi.Tale tratto accompagna lo sviluppo delle scuole femminili anchequando esse, in specie dagli anni ’80 in poi, assumeranno una fisio-nomia meno distante da quelle maschili.

Lo documentano varie fonti come, innanzi tutto, i puntualirichiami che si trovano dei Programmi scolastici di fine secolo, maanche l’attenzione con cui la stampa magistrale s’ingegna a sostene-re l’attività didattica delle maestre con una costante e ampia atten-zione verso le attività pratiche femminili. L’esempio forse più signi-ficativo riguarda la rivista “La collaboratrice della maestra” apparsanel 1880 a Torino che si caratterizza per un supplemento che neaccompagna la quasi ventennale vicenda editoriale proprio dedica-to ai lavori femminili.72 Non meno indicativo risulta l’ampio spazio

71. G. Scavia, Dell’istruzione professionale e femminile in Francia, Germania, Svizze-ra, Italia. Memorie e osservazioni presentate al Ministro della pubblica istruzione del Regnod’Italia, Torino, Vaccarino, 1866, p. 144.

72. Chiosso, La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), op. cit.,pp. 188-190.

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che a questo tema viene riservato sul Dizionario illustrato di pedago-gia, un’opera che – come è ben noto – rappresenta un documenta-to spaccato della vita educativa e scolastica dell’ultimo Ottocento.

Altre testimonianze, più indirette, sulla necessità di un’educazio-ne senza fronzoli e coerente con il destino delle allieve (spose emamme) giungono dai periodici “per fanciulle” (e, verso fine seco-lo, “per signorine”) e da una varia pubblicistica composta da opu-scoli, “galatei”, gallerie di donne celebri, ecc. destinata alle fami-glie, alle scuole e ai collegi femminili.73 La fanciulla doveva istruir-si, ma non troppo. A lei si dovevano solo quelle cognizioni poi utili,una volta madre, per l’educazione dei figli: nozioni, dunque, limita-te in modo da non superare il pericolo dello stravolgimento delletradizionali strutture familiari.

Pur entro questi oggettivi condizionamenti (sostenuti dallaconvinzione “scientifica” positivista della inferiorità biologicadella donna), i processi di scolarizzazione femminile con l’avvici-narsi dell’ultimo scorcio del secolo si rivelarono sempre più diffu-si e meno specifici per genere (lo dimostra, ad esempio, il molti-plicarsi di “galatei” scolastici destinati a maschi e femmine)74 e sicolorarono implicitamente di un forte significato simbolico. Ilvalore riconosciuto all’istruzione delle bambine era una conse-guenza dei mutamenti che gradualmente stavano animando anchela società italiana con una incipiente e nuova percezione socialealle donne.

Non è certamente questa la sede per ripercorrere in poche bat-tute la complessità di uno scenario ampiamente esplorato daglistudi sul continente femminile tardo ottocentesco. Ci limitiamo aricordare alcuni significativi passaggi che testimoniano il crescentespazio riconosciuto all’educazione delle ragazze e delle donne:l’apertura dei corsi universitari a partire dal 1875, la possibilità diiscrizione alle scuole tecniche e a quelle liceali (1883), la contro-versa vicenda della laicizzazione dei pre-esistenti istituti d’Ancien

73. A. Gigli Marchetti, La stampa lombarda per signorine, in Soldani, L’educazio-ne delle donne, op. cit., pp. 445-462; A. Ascenzi, Itinerari e modelli di educazione femmi-nile nella pubblicistica educativa e scolastica del secolo XIX, in Ghizzoni, Polenghi, L’altrametà della scuola, op. cit., pp. 3-31.

74. G. Di Bello, Le bambine tra galatei e ricordi nell’Italia liberale, in S. Ulivieri(ed.), Le bambine nella storia dell’educazione, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 269.

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Régime e soprattutto la femminilizzazione delle scuole normali e ilmoltiplicarsi di apposite scuole professionali che aprirono nuoveprospettive di lavoro e di autonomia sociale al mondo femminile.

7. Il libro, la lettura e le biblioteche popolari

Tutto quanto abbiamo fin qui detto si intrecciò con altri fenome-ni strettamente connessi con i processi di alfabetizzazione e scola-rizzazione e cioè con la diffusione del libro e l’incremento della let-tura da parte delle classi inferiori.

L’aumento degli alfabetizzati è infatti certamente alla base dellatrasformazione del libro in oggetto di uso corrente e, in quantotale, un libro “diverso” rispetto a quello del passato. La percezionedel libro muta: da strumento proprio dei ceti colti, esso diventa unoggetto alla portata di tutti,75 un oggetto – diremmo oggi – di“consumo”. Questa significativa transizione ne modifica la produ-zione: non solo essa dovette far fronte all’allargamento del pubbli-co, ma fu chiamata a confrontarsi anche con la necessità di adegua-re i testi a una realtà linguistica differenziata e con i gusti dei nuovilettori.

Nell’agosto 1879 Emilio Treves, allora presidente dell’Associa-zione Tipografico-Libraria, nel commemorare la figura e l’operadell’editore torinese Giuseppe Pomba, delineava le nuove respon-sabilità dell’editore: impegnato a soddisfare le esigenze non piùsolo di un ristretto pubblico di persone colte, egli doveva rivolgerelo sguardo “al gran pubblico” e sentirsi investito di un compitoquasi pedagogico.76 La lettura si avviava ad essere un’esperienzadiffusa anche tra le classi popolari e i cataloghi dovevano tenerneconto.

Proprio allora il fenomeno della specializzazione e della setto-rializzazione dei cataloghi cominciava a manifestarsi in modo pro-nunciato: le differenze professionali, territoriali, religiose e di

75. G. Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’Unità al post-moder-no, Torino, Einaudi, 1999, p. 3.

76. Cit. in A. Chemello, La letteratura popolare e di consumo, in G. Turi (ed.), Sto-ria dell’editoria nell’Italia contemporanea, Firenze, Giunti, 1997, p. 171.

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genere erano alla base di nuove collane volte a soddisfare una plu-ralità di bisogni di conoscenza o di ricreazione. Sempre maggiorispazi furono destinati alle iniziative di carattere popolare, dalla let-teratura educativa e istruttiva alle letture amene, dai romanzi diavventura a quelli di appendice.

L’area di mercato coperta dall’editore milanese Sonzogno puòessere assunta a caso emblematico dei nuovi criteri cui si ispiraronole principali imprese editoriali: una rete di giornali di informazio-ne, riviste e settimanali illustrati ognuno dei quali destinato a unaparticolare tipologia di lettori, una serie di collane in grado diincontrare i gusti di un pubblico eterogeneo tra le quali spiccano la“Biblioteca del popolo” e la “Biblioteca romantica illustrata”. Que-st’ultima era dedicata alla narrativa contemporanea con moltiromanzi di avventura, spesso già pubblicati in appendice al piùletto quotidiano del tempo, “Il secolo”, e messi in vendita a prezziaccessibili alle borse anche più modeste.

Su questa strada si pongono altri importanti editori come Tre-ves, Barbèra, Salani – per citare soltanto i maggiori – che, oltrealla continua riedizioni di classici, si contendono le firme di mag-gior richiamo: Emilio De Marchi e Carolina Invernizio, France-sco Mastriani e Paolo Mantegazza, il giovane Giovanni Verga ealcune scrittrici straniere di successo come Elisabetta Marlitt,Guglielmina Heimburg ed Elisabetta Werner. La “popolarizzazio-ne” dell’editoria coinvolge, in forme ovviamente più contenute, manon meno incisive rispetto alle imprese maggiori, una miriade diiniziative locali. Si verifica insomma anche in Italia quella medesi-ma trasformazione editoriale già in atto fin dal primo Ottocentoin varie parti d’Europa, dalla Germania alla Francia, alla GranBretagna.

Alcuni studiosi si sono posti il problema di come sia possibiledimostrare la corrispondenza tra la diminuzione dell’analfabetismoe l’aumento della produzione e della circolazione libraria consuma-ta proprio da quei ceti che stanno lentamente diventando alfabeti.La risposta a questo interrogativo segue diverse strade.

Per esempio c’è chi ha attentamente esaminato i dati relativiall’espansione del sistema editoriale che corre parallelo ai progres-si dell’alfabetismo. Si passa dai 4 mila titoli circa usciti nel 1863 ai9 mila del 1886 e dalle 20 mila opere, tra titoli vecchi e nuovi, ven-

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dute nel 1878 alle 30 mila del 1891.77 Nell’ultimo ventennio delxix secolo si registra inoltre un costante aumento delle pubblica-zioni che “per prezzo di copertina e numero delle pagine possonoverosimilmente essere assimilate all’area del consumo popolare”.Dal 1884 al 1895 i periodici pubblicati in Italia passano da 951 a1269 (più 33%), ma l’incremento di quelli a minor costo sfiora il91%: mentre insomma “l’analfabetismo decresce” la curva relativaai periodici di consumo popolare “sale più rapidamente rispetto aperiodici di altro tipo”.78

Altre indicazioni sono suggerite dall’analisi dei canali attraversocui erano distribuiti i libri. Soltanto una irrilevante parte di lettoridelle classi popolari si avvaleva delle librerie che a lungo restaronoun tipico punto di riferimento per il ceto colto o, al massimo, per lavendita dei libri scolastici. Non va del resto dimenticato che lelibrerie erano in genere dislocate solo nei centri urbani e non eranoperciò in grado di soddisfare capillarmente il fabbisogno di libri.

Le ricerche condotte sulle strategie diffusionali del mondo cat-tolico documentano la varietà delle iniziative messe in campo perfavorire la circolazione dei libri e accostare alla lettura fasce dipopolazione fino ad allora estranee al libro. Fin dalla metà dell’Ot-tocento la distribuzione libraria fu predisposta attraverso canalidiversi: l’abbonamento, le parrocchie e gli istituti religiosi, il coin-volgimento del laicato già alfabetizzato.

Si trattava, specie in quest’ultimo caso, di “lettori-mediatori”che ottimizzavano la distribuzione, avvicinando al libro anchequelle fasce di persone semi illetterate (o anche del tutto illettera-te) che altrimenti non avrebbero avuto occasione di venire in con-tatto con la carta stampata. I lettori-mediatori, in altre parole,erano pensati “non solo come i destinatari-acquirenti del prodot-to editoriale” ma anche come “attivi collaboratori, chiamati, a lorovolta, a partecipare alla propagazione di ‘libri buoni’” all’internodi ceti che non disponevano degli strumenti per avvicinarsi al cir-cuito librario.79

77. Ragone, Un secolo di libri, op. cit., p. 34. 78. S. Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare nell’Italia liberale. Discussioni e

ricerche, Milano, Angeli, 1986, pp. 59-60. 79. I. Piazza, “Buoni libri” per tutti. L’editoria cattolica e l’evoluzione dei generi lettera-

ri nel secondo Ottocento, Milano, Unicopli, 2009, p. 92.

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Non era infrequente che il prete, il maestro o semplicemente lapersona devota leggesse a voce alta, sostituendo con un testo scrit-to, i racconti e le leggende narrate a memoria nelle veglie serali,oppure istruisse anche fuori della scuola quanti desideravano impa-rare a leggere.

In altri casi gli editori cattolici si rivolsero direttamente al pub-blico popolare, allettandolo con l’esiguità dei prezzi di associazionee la semplicità dei testi proposti. Questa strategia, sperimentatacon successo dalle “Letture cattoliche” di don Giovanni Bosco epoi fatta propria da altre analoghe iniziative, si dimostrò efficacesoprattutto in ambienti già abbastanza alfabetizzati e, dunque, piùpreparati di altri alla lettura.80 La sfida dell’alfabetismo e della let-tura moltiplicò insomma gli sforzi cattolici per la diffusione delle“buone letture” e attraverso di esse contenere quello che era perce-pito come il tentativo del mondo laico e incredulo di sottrarre i cetipopolari all’insegnamento della Chiesa.

Non meno interessanti sono le analoghe iniziative intrapresenegli ambienti evangelici e in quelli valdesi in particolare,mediante la pratica del colportage. Per ampliare la propria area diinfluenza le comunità protestanti si avvalsero di una rete didistributori ambulanti (i “colportori”) nella duplice veste di ven-ditori di libri popolari, ma anche di predicatori. Con la lorobiblioteca ambulante raccolta in una borsa, in un carretto o, nelmigliore dei casi, in una vera e propria carrozza trainata da uncavallo (la “carrozza biblica”) i colportori furono attivi soprat-tutto nelle realtà rurali. Si fermavano nei paesi durante le fiere ei mercati settimanali, frequentavano le locande e bussavano aicasolari isolati, accompagnavano la vendita del libro (e della Bib-bia in particolare) con la lettura ad alta voce e poi con la spiega-zione e il commento dei testi, dando così luogo ad una predica-zione itinerante.

Se il primo obiettivo perseguito dal colportore era quello di pro-muovere la conoscenza della dottrina evangelica attraverso la predi-cazione, il passo successivo era quello di introdurre il fedele alla let-tura, sia mediante la lettura collettiva della Bibbia durante il culto,sia con la lettura individuale. La conoscenza biblica era poi accom-

80. Ibidem, pp. 96-97.

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pagnata da un’ampia letteratura che spaziava su vari generi, non dis-simili da quelli presenti nell’editoria popolare cattolica: fogli volan-ti, almanacchi, semplici opuscoli, apologetica evangelica, biografieesemplari, riviste religiose, ma anche racconti e romanzi.81

Un altro importante capitolo del rapporto libro/alfabetizzazio-ne/lettura riguarda le esperienze delle biblioteche popolari, la cuiistituzione era stata auspicata fin dagli anni pre unitari dagli ambien-ti delle società di mutuo soccorso. L’avvio alla loro costituzione informa organizzata risale al 1861 per iniziativa di Antonio Bruni,uomo di scuola e pedagogista. Nell’ottobre di quell’anno egli diedevita alla Società per la lettura popolare in Prato che aprì la primabiblioteca popolare circolante in Italia.82 Lo scopo dell’iniziativaera quello di favorire la lettura nei ceti popolari attraverso il presti-to dei libri a domicilio. Il modello era quello della “Library Com-pany” aperta nel 1731 a Filadelfia da Beniamino Franklin nell’am-bito delle sue varie iniziative filantropiche.

Negli anni successivi furono intraprese in varie parti d’Italia altreanaloghe iniziative, sostenute da intellettuali (ad esempio Lambru-schini, Tommaseo, Mayer, La Farina, Rapisardi), uomini politici(Amari, Matteucci, lo stesso Garibaldi), giornali (“La nazione”,“Patria e famiglia”, “La donna e la famiglia”), editori e sodalizi divaria natura. Nel 1870 si costituì a Milano un apposito Comitatoitaliano per la diffusione delle biblioteche popolari, precedutoqualche anno prima, sempre nel capoluogo lombardo, da unaSocietà promotrice delle biblioteche popolari di Milano.

Il movimento per le biblioteche popolari si sviluppò tuttavia inmodo meno rapido di quello che avrebbero desiderato i suoi soste-nitori e diventò un fenomeno diffuso soltanto agli inizi del Nove-cento quando il bisogno di lettura si manifestò in forme più matu-re. Nonostante queste difficoltà, la costituzione delle bibliotechepopolari, là dove esse furono in grado di durare nel tempo, rappre-sentò un’importante occasione di rafforzamento dell’alfabetizza-zione iniziale.

81. G. Solari, I colportori evangelici: venditori ambulanti di bibbie, opuscoli religiosi efogli volanti, in “Culture del testo. Rivista italiana di discipline del libro”, 1996, n. 4,pp. 37-50; Ead., Produzione e circolazione del libro evangelico nell’Italia del secondo Otto-cento. La casa editrice Claudiana e i circuiti popolari della stampa religiosa, Manziana, Vec-chiarelli, 1997.

82. Verucci, L’Italia laica, op. cit., p. 94.

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Pur nell’estrema varietà delle situazioni e nell’esiguità delladocumentazione disponibile è possibile individuare alcune lineeprivilegiate di lettura da cui emergono interessi e gusti letterari deinuovi lettori.

Nell’offerta dei cataloghi delle biblioteche stavano, in primoluogo, letture di carattere letterario-patriottico-civile con gli auto-ri classici della tradizione risorgimentale liberal-cattolica e demo-cratica (D’Azeglio, Pellico, Berchet, Cantù, Tommaseo, Grossi,Manzoni, ma anche Dall’Ongaro, Farini, Nievo, De Amicis).C’erano poi scritti di carattere tecnico-professionale-scientificosullo sfondo di una visione self helpistica del lavoratore (con operedi divulgazione scientifica, medica, agraria, ecc. dovute a Macé,Mantegazza, Cantoni, Smiles, Strafforello, Boccardo, Lessona; nel1875 apparvero i primi manuali Hoepli). Molto affollata risultavainfine la sezione dedicata alla narrativa contemporanea nelle suevarie forme e articolazioni dal racconto alla novella a sfondo socia-le, dal romanzo ai feulletons, ai resoconti di viaggi, ecc. Accanto aromanzi di grandi autori come Hugo, Sue, Verne, Zola c’era unamiriade di mediocri imitatori che amavano le tinte forti e le situa-zioni paradossali, andando a soddisfare i gusti avventurosi e talvol-ta un po’ macabri dei lettori.83

Lo stesso mondo cattolico in genere avverso al genere romanze-sco fino al primo Ottocento, considerato da molti il prodotto “piùsovversivo del romanticismo”, finì per cambiare opinione. Di fron-te alla impossibilità di sradicare una ormai più che “consolidataaffezione alla letteratura romanzesca”, mutò strategia e, a poco apoco, le pubblicazioni delle case editrici cattoliche cominciaronoad affiancare alla, fino ad allora, prevalente produzione devota eapologetica, il genere del romanzo, riconoscendo che “anche que-sto era un mezzo di più per combattere il male”.84

Altri studiosi si sono inoltrati in un ulteriore tipo di indagine,cercando di stabilire attraverso quali vie informali e occasionali sisvolgesse il processo di apprendimento della lettura di quegli adul-ti che magari avevano frequentato per qualche tempo la scuola, mapossedevano un alfabetismo assai approssimativo. Su questo feno-

83. Ibidem, pp. 103-106.84. Piazza, “Buoni libri” per tutti, op. cit., pp. 150-156.

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meno si trovano ricorrenti denunce, dalle osservazioni contenutenell’inchiesta agraria Jacini alle relazioni degli ispettori che lamen-tavano l’esagerato numero di analfabeti o quasi analfabeti tra icoscritti,85 fino all’inchiesta d’inizio Novecento di Mario Carrara ePaola Lombroso dall’inequivoco titolo Nella penombra della civiltà.86

Abbiamo già richiamato una di queste pratiche, forse la più dif-fusa, e cioè quella del lettore-mediatore. La sua funzione, comeabbiamo visto, era quella non solo di comunicare alcuni specificicontenuti, ma anche di introdurre l’analfabeta alla lettura. Que-sto proposito veniva perseguito in vario modo: leggendo ad altavoce e facendo ripetere quanto ascoltato, sollecitando la memo-rizzazione di preghiere, del catechismo o di semplici formule dicarattere religioso o politico, agendo attraverso l’iconografia chedi solito era accompagnata da brevi frasi e, ad una fase un pocopiù avanzata, proponendo la lettura di fogli volanti e semplicissi-mi opuscoli.

Altre pratiche prevedevano il ricorso all’uso della forma dialogi-ca, metodo applicato tanto nelle predicazioni religiose e nei foglidelle “missioni popolari” quanto dai militanti socialisti nelle loroiniziative di propaganda. Protagonisti dei dialoghi erano il buoncristiano o il prete e il miscredente oppure il lavoratore politica-mente ben ferrato e il contadino non ancora cosciente dei propridiritti, oppure ancora il prete e il socialista. L’adulto analfabeta oappena capace di leggere non solo si identificava con la sua condi-zione reale, ma vedeva espressi i suoi problemi in una lingua sem-plice ed accessibile (spesso anche in dialetto) che facilitava il pas-saggio alla lettura.

Siamo in questi casi di fronte a situazioni che potremmo defi-nire pre alfabetizzanti, ancora lontani dal libro popolare propria-mente inteso, anche se l’obiettivo finale era quello della letturadel libro. Siamo cioè entro i margini di quell’area cosiddetta “gri-gia” tra ignoranza e alfabetismo le cui dimensioni erano nellarealtà sociale più ampie e mobili di quanto non indichino le stati-stiche.

85. Vigo, Gli italiani alla conquista dell’alfabeto, cit., p. 47. 86. M. Carrara, P. Lombroso, Nella penombra della civiltà. Da un’inchiesta sul pen-

siero del popolo, Torino, Bocca, 1906.

52 capitolo primo

Questa realtà di confine – per esempio quella dei “solo leggenti”e cioè in possesso della sola capacità di leggere – documenta lacomplessità della transizione verso il mondo della cultura scritta.Più che la denuncia di un oggettivo limite, essa va vista come unacondizione molto più accettabile di quanto possa apparire oggi, inquanto coerente ai bisogni sociali dell’epoca e all’uso effettivo chela gente faceva dell’alfabetismo.87

8. Tra alfabeto e politica

Il rapido excursus sulla molteplicità delle “vie dell’alfabeto” cheabbiamo condotto nelle pagine precedenti sarebbe gravementelacunoso se non considerassimo il ruolo svolto dalle cosiddette“correnti di opposizione” allo Stato liberale – l’“estrema” delloschieramento politico: repubblicani, radicali, socialisti, anarchici –che collegarono la militanza ad un’intensa opera contro l’ignoran-za, la superstizione, la concezione del mondo come realtà immobi-le e spesso anche contro la fede religiosa (ma non mancarono inve-ro forme di evangelismo socialista),88 ritenute altrettante causedella povertà, della rassegnazione, in una parola della subalternitàsociale e politica di cafoni e operai.

L’educazione del popolo era concepita da questi gruppi politiciin funzione della modificazione della società esistente e dellacostruzione di una nuova realtà: impostazione condivisa sia dai fau-tori dell’azione diretta attraverso l’iniziativa insurrezionale sia daisostenitori della lotta compatibile con la legalità e cioè tanto da chisperava nello scoppio di una grande rivoluzione quanto da chi lavo-rava invece per una trasformazione lenta e graduale della societàborghese.

La prima scuola di formazione era costituita dall’impegno politi-co e dalla lotta per la difesa del posto di lavoro, per la conquista deidiritti fondamentali, per la liberazione dallo stato di dipendenza edi sfruttamento, per l’accesso alla cultura e alla frequenza scolasti-

87. Marchesini, L’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento, cit., p. 52.88. S. Pivato, Clericalismo e laicismo nella cultura popolare italiana, Angeli, Milano,

1990, pp. 66-120.

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ca. Il problema della militanza s’intrecciò perciò con la padronan-za degli strumenti per intraprendere il processo di emancipazione.

Frutto dell’incontro tra intellettuali di estrazione democratica euna base operaia e contadina, il partito socialista fu il primo movi-mento politico a sviluppare una politica di massa. Nella ricerca delconsenso attorno all’ipotesi di un rinnovamento radicale di valori,esso pose un’enfasi particolare sui temi dell’istruzione e dell’educa-zione civile, in un’opera pedagogica indissolubile dall’azione permigliorare le condizioni di vita, materiale e civile.89 Il giovaneGramsci arrivò poi a scrivere, forse con qualche esagerazione, chela diminuzione dell’analfabetismo non era

“tanto dovuta alla legge sull’istruzione obbligatoria quanto alla vitaspirituale, al sentimento di certi determinati bisogni della vita interio-re che la propaganda socialista ha saputo suscitare negli strati proleta-ri del popolo italiano”,90 concetto poi ribadito in altra circostanza conuna frase spesso citata: “Ha più giovato all’alfabetismo la propagandasocialista di tutte le leggi sull’insegnamento obbligatorio”.91

La diffusione delle idee socialiste concorse a cambiare l’atteggia-mento delle classi popolari verso l’istruzione, dal momento che nemodificava la mentalità, i comportamenti, il costume, rendendoleprotagoniste del proprio riscatto.

Non è possibile in questa sede esaurire la complessità delle ini-ziative intraprese e, tanto meno, esaminare la varietà delle posizio-ni espresse nei confronti della scuola, considerata un’istituzione daconquistare, cambiare e modificare per renderla coerente con lebattaglie popolari. Accenneremo soltanto ad alcune iniziative par-ticolarmente significative.

L’impegno per l’alfabetizzazione popolare trovò una prima con-creta realizzazione, per esempio, con le “scuole elettorali” organiz-zate per opera dei primi socialisti subito dopo l’approvazione dellanuova legge elettorale del 1882. La legge ammetteva al voto quan-ti erano in possesso della licenza elementare inferiore. Ma era con-sentito anche a quanti non possedevano questa certificazione iscri-

89. G. Turi, Intellettuali e propaganda nel movimento socialista, in Soldani, Turi,Fare gli italiani, op. cit., pp. 462-463.

90. A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1958, p. 58. 91. Ibidem, p. 81.

versi alle liste elettorali a condizione che producessero alla giuntacomunale una domanda scritta e firmata di loro pugno. Le “scuoleelettorali” sorsero proprio allo scopo di fornire il minimo di sape-re strumentale in modo da poter essere iscritti nelle liste.

L’istruzione popolare intrecciata all’educazione politica noncessò, di qui in poi, di essere perseguita all’interno delle organizza-zioni di classe. Ai medici e ai maestri, i primi tra gli intellettuali “asentire il richiamo del profondo movimento innovatore socialista...impegnandosi con spirito di pionieri nella lotta contro la pellagra el’analfabetismo”,92 si affiancarono professori universitari, giornali-sti, professionisti, donne emancipazioniste che si prodigarono perfornire a contadini e operai gli strumenti basilari del sapere e, attra-verso questi, familiarizzarli con le tesi socialiste. Ogni occasione erabuona: dalla conferenza alle riunioni popolari, dalle pubbliche lettu-re ai dibattiti nei circoli socialisti, dall’osteria ai luoghi di lavoro.

Queste le regole che nel 1893 Oddino Morgari, animatore diuna scuola per propagandisti a Torino, suggeriva di seguire perattrarre al partito i lavoratori:

“Per convincerli occorrerà parlare e scrivere in maniera da essere com-presi. Bisogna ridurre ai termini minimi il bagaglio delle idee, render-le semplici, riferirsi a dei fatti conosciuti, partire dal noto per giungereall’ignoto, servirsi di parabole e fare impiego di una lingua che altronon sia che il dialetto tradotto, insomma discendere sino al basso livel-lo culturale delle masse lavoratrici, prenderle per mano e riaccompa-gnarle adagio all’insù”.93

Non bastava pubblicare opuscoli, scrivere articoli di giornale, sfor-nare almanacchi e catechismi di classe: per essere efficace questa vastae articolata produzione aveva bisogno di superare gli steccati diordine linguistico-culturale esistenti tra i diversi livelli di conoscenza.

Le iniziative miste tra educazione politica, propaganda e accul-turazione si intrecciarono, a loro volta, con attività formative piùsistematiche e con un’azione politica che perseguì il potenziamen-to e il miglioramento della scuola:

“Pane e alfabeto, ecco dunque un motto d’ordine da non dimentica-re... All’opera, dunque! Lo sviluppo e lo svecchiamento dell’istruzione

92. G. Arfé, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Torino, Einaudi, 1965, p. 43. 93. Cit. in Turi, Intellettuali e propaganda nel movimento socialista, cit., pp. 486-487.

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primaria è oggi in Italia uno dei fattori più rivoluzionari; è un po’ lacondizione di tutto il resto e noi sappiamo che ‘spirito rivoluzionario’e ‘coscienza socialista’ non possono formarsi senza questa riforma pre-liminare”.94

A differenza degli anarchici che rifiutavano la scuola pubblicaritenuta espressione del potere borghese e si sforzarono di contrap-porle esperienze alternative, i socialisti accettarono il principiodella sua trasformazione graduale in attesa del compimento dellasocietà socialista. Difesero l’utilità degli asili infantili visti come unsostegno assistenziale in favore delle madri lavoratrici, chiesero chela frequenza della scuola elementare fosse sostenuta con concreteiniziative come la refezione scolastica e aiuti economici ai più indi-genti, si batterono per le scuole professionali di arti e mestieri,sostennero le rivendicazioni economiche e professionali dei mae-stri, rivendicarono una scuola antagonista verso la religione e lachiesa dalla quale il “prete fosse escluso” e in cui s’insegnassero“esclusivamente il dimostrabile e lo sperimentabile”, valorizzaro-no il ruolo dei comuni.

La battaglia per l’istruzione dei socialisti non si differenziò in modosignificativo sul piano delle rivendicazioni concrete da quella condot-ta dai repubblicani e dai democratici in genere: analoga fu infatti l’insistenza sui temi che abbiamo appena richiamato, anche se lemotivazioni culturali e politiche muovevano da presupposti diversi.

I repubblicani, eredi e interpreti della tradizione mazziniana ecattaneiana, includevano nel loro bagaglio pedagogico un insiemedi valori patriottici ispirati al principio della nazionalità che eranoinvece esclusi nella visione internazionalista dei socialisti. Diversaera anche la collocazione, per così dire “politica”, dell’azione edu-cativa. Mentre i primi associavano politica e pedagogia per educa-re le masse ai valori della giustizia, della solidarietà e della libertà, isecondi guardavano all’educazione come a un momento propedeu-tico rispetto alla lotta sociale.

Accanto alle battaglie per la scuola fu sempre alta anche l’atten-zione all’istruzione degli adulti. Così, ad esempio, nell’ambito della

94. Cit. in T. Tomasi et all., Scuola e società nel socialismo riformista (1891-1926).Battaglie per l’istruzione popolare e dibattito sulla “questione femminile”, Firenze, Sansoni,1982, p. 16.

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Camera del lavoro di Milano, a partire dal 1892, vennero istituiticon buon successo corsi di economia, contabilità, aritmetica, geo-metria, salute dell’operaio in fabbrica.95 Iniziative analoghe furonoavviate in varie parti d’Italia (a Torino, a Genova, in Lunigiana, inTrentino, nella Marche, ecc.) come risulta dalle numerose ricerchelocali di cui è ricca la storiografia del movimento operaio e socialista.

L’esclusione dalle liste elettorali nel 1894 di quasi un milione dianalfabeti rappresentò un segnale di allarme che spinse i circolisocialisti, come quelli democratici e repubblicani, a impegnarsi inuna intensa attività di alfabetizzazione dei lavoratori. La discussionepolitica veicolò non soltanto visioni del mondo e regole di vita, mafavorì anche i processi strumentali del leggere e dello scrivere, lacapacità di sistemare le proprie conoscenze e di argomentarle, non-ché l’ampliamento, talvolta, delle stesse competenze professionali.

Nei primi anni del Novecento questo impegno assunse caratteri-stiche più organiche: Camere del lavoro, leghe, federazioni di cate-goria, società di mutuo soccorso istituirono biblioteche interne,corsi di preparazione, scuole elettorali, serali e festive; partecipa-rono al funzionamento di scuole professionali e università popola-ri; si collegarono con altri enti per la realizzazione di programmicomuni.

Tali iniziative variavano da zona a zona e mancano dati statisticicompleti e omogenei per coglierne l’efficacia duratura. Qualchedato suggerisce l’ampiezza dell’impegno profuso. Nel 1904 laFederazione nazionale delle società di mutuo soccorso contava 310società (sulle 521 aderenti) che si occupavano a vario titolo di istru-zione. Per le Camere del lavoro si sa che nel 1914 su 73 Camere dicui si conoscevano i bilanci (sulle 107 esistenti) 18 presentavanospese per scopi educativi, perseguiti quasi sempre con biblioteche escuole professionali.96

Di notevole ampiezza e qualità fu, in particolare, l’impegno nelcampo delle scuole tipografiche (Milano, Torino, Bologna, Firen-

95. M. Bonaccini, R. Casero, La Camera del Lavoro di Milano dalle origini al 1904,Milano, SugarCo, 1975, p. 217.

96. C.G. Lacaita, Politica e istruzione popolare nel movimento socialista, in G. Geno-vesi, C.G. Lacaita (edd.), Istruzione popolare nell’Italia liberale. Le alternative delle cor-renti di opposizione, Milano, Angeli, 1983, p. 40.

le vie dell’alfabeto 57

ze) che si reggevano anche con sovvenzioni governative, delleamministrazioni locali, delle associazioni industriali e con interven-ti privati. A Ravenna furono aperte scuole per analfabeti, a Monzasi sperimentarono le proiezioni luminose, un metodo allora d’avan-guardia per rendere più efficace l’insegnamento. Né va dimentica-ta l’azione dei giornali di categoria che a volte pubblicavano rego-lari lezioni di aritmetica, geometria, costruzioni e che trattavanoproblemi non solo rivendicativi, ma anche di economia e di legisla-zione sociale.

Su tutti questi temi si distinse soprattutto la Società Umanitariadi Milano che per il socialismo italiano rappresentò un vero e pro-prio centro di sperimentazione e di organizzazione diffusiva di ini-ziative concrete.

Nell’ambito delle sue molteplici attività essa promosse scuole-laboratorio di perfezionamento per diversi rami delle attività lavo-rative e concorse con altre istituzioni (come il Politecnico di Mila-no) alla realizzazione di progetti formativi nel campo dell’industria.Il disegno pedagogico e culturale fu quello di soddisfare, ad untempo, “i bisogni più urgenti dei lavoratori, di portare nella scuolala ‘vita’ e lo ‘spirito innovatore che la scienza e l’esperienza, le idea-lità morali e le concezioni sociali nuove additavano’ e di svilupparenegli operai l’esigenza di una continua elevazione civile e cultura-le... al fine di realizzare ‘l’auto-formazione del lavoratore’ che sivoleva artefice del proprio riscatto”.97

97. Ibidem, p. 41. Per un quadro generale ved. E. Decleva, Etica del lavoro, sociali-smo, cultura popolare. Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano, Angeli, 1985.

Capitolo secondo

Quale educazione per quali Italiani?

1. L’alfabeto imposto

I 6 milioni di Italiani dichiarati nel 1861 “alfabeti” – di cui unaquota, certamente non piccola, lontana dal possesso reale dellacapacità di leggere e di scrivere – rappresentavano appena un quar-to della popolazione, pochi rispetto ai 17 milioni di Italiani analfa-beti. Coloro, poi, che erano in grado di padroneggiare la linguanazionale costituivano, come s’è già ricordato nel capitolo prece-dente, una ulteriore esigua minoranza.1

Questi dati ponevano l’Italia a grande distanza non solo dallaPrussia e dall’Inghilterra, ma anche dalla Francia e dall’ImperoAsburgico, alla pari con la Spagna e poco sopra all’Impero Russo.

Quarant’anni più tardi, nel 1901, quasi a un quarto di secolodopo l’effettiva introduzione dell’istruzione obbligatoria (1877), lasituazione era certamente migliorata, ma ancora la metà degli abi-tanti del Regno era analfabeta. Forti squilibri persistevano tra levarie regioni del Paese: a fronte del 32% di analfabeti del nord, sta-vano infatti il 52% di analfabeti del centro e addirittura il 70% delsud. All’inizio del Novecento gli analfabeti in Inghilterra eranoappena il 3% della popolazione adulta, quelli francesi il 5% e quel-li belgi si aggiravano intorno al 12%.

A Vienna e a Parigi coloro che non sapevano né leggere né scri-vere erano una minoranza irrilevante (rispettivamente il 3% e il4%), mentre a Roma erano ancora il 22% e a Napoli il 43%.2

1. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2008 (1a

ediz. 1963), p. 37. 2. C.M. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occiden-

tale, Bologna, Il Mulino, 2002 (1a edizione 1969), tabelle statistiche in appendice.

60 capitolo secondo

L’analfabetismo tra le reclute italiane si aggirava intorno al 30%contro il 12% del Belgio, il 4,3% della Francia, il 2,3% dell’Olan-da e la pressoché piena alfabetizzazione dei soldati tedeschi.

Considerando i dati relativi alle classi più giovani, in specie quel-le infantili, la situazione appariva tuttavia in netta evoluzione. Duebambini su tre frequentavano più o meno regolarmente le primeclassi scolastiche e la forbice tra l’analfabetismo maschile e quellofemminile si stava gradualmente attenuando.

Mentre il quadro generale era segnato dalla progressiva, perquanto lenta, crescita alfabetica degli Italiani, questo processo sisvolgeva tuttavia tra luci e ombre, spinte modernizzanti ed ereditàdel passato: insomma qualcosa di meno scontato e lineare di quan-to potesse sembrare a prima vista. L’analisi incrociata di varie seriestatistiche documenta in particolare il concentrarsi dell’analfabeti-smo in alcuni soggetti e aree geografiche deboli della società italia-na: le classi d’età più anziane, le donne, le zone rurali, le regionimeridionali.3

Questa variegata realtà si accompagnava alla estraneità dellemasse popolari alla vita e agli ideali dello Stato liberale, un fenome-no che, come è ben noto, rappresentò uno dei problemi che piùinquietavano le élites dirigenti. La distanza tra i ceti subalternirispetto agli ideali che avevano animato la stagione risorgimentalesembrava incolmabile e affondava in motivi diversi.

Gli strati sociali popolari percepivano come estranee e oppressi-ve le strutture politiche dello Stato liberale che si presentava ai loroocchi con il volto di un ingiusto e pesante fiscalismo burocratico,del servizio militare (la renitenza alle prime leve post unitarie inalcune zone dell’Italia meridionale si avvicinava al 50%), della cor-ruzione amministrativa e dei favoritismi personali. All’estraneitàtra Stato e plebe corrisposero, quasi inevitabilmente, dei movimen-ti popolari che, almeno in una fase iniziale, proclama vano la neces-sità di abbattere il giovane Stato nazionale, contrapponendo conforza polemica il “paese reale” al “paese legale”.

Non è perciò un caso che la celebre affermazione di MassimoD’Azeglio secondo cui “fatta l’Italia” occorreva provvedere a “fare

3. D. MARCHESINI, L’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristiche edinamiche, in S. Soldani (ed.), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femmini-le nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1989, pp. 49-51.

quale educazione per quali italiani? 61

gli Italiani” abbia avuto tanta fortuna e sia stata continuamenterilanciata per molti decenni. Ancora a fine secolo, nel 1896, erafatta propria in un discorso dal ministro dell’Istruzione FerdinandoMartini. La citazione per disteso della frase consente di megliocomprendere la complessa articolazione del pensiero dell’uomopolitico piemontese:

“Io pensavo, come la penso ancora, che del carattere nazionale biso-gna occuparsi, che bisogna fare gl’Italiani, se si vuole avere l’Italia, eche una volta fatti davvero, allora l’Italia farà da sé”.

La constatazione che gli Italiani non ci fossero equivaleva a pen-sare all’Italia come a una Nazione senza popolo, una Nazione chetraeva legittimità da una serie di fattori storici, geografici e lingui-stici, ma, per essere veramente tale, mancava di un idoneo sogget-to collettivo. Di qui la convinzione che all’unificazione nazionalefosse mancato un efficace amalgama e che occorresse perciò prov-vedere a posteriori con estrema urgenza. Quel che bisognava fare,in altre parole, era proprio l’Italia intesa come unità politica nazio-nale, come Stato moderno, come società liberale e moderna.

Nella frase dell’autore de I miei ricordi si poteva cogliere ancheun’altra indicazione e cioè che gli Italiani “andavano fatti”: in man-canza della condivisione di spontanei sentimenti di appartenenzanazionale, toccava allo strato socialmente esiguo dei ceti già nazio-nalizzati il compito di integrare nella nuova realtà dell’Italia glialtri cittadini.4 Soltanto a questa condizione l’Italia si sarebbe dataun futuro.

Convinto di dover fare gli Italiani, il ceto liberale agì lungo unaduplice tendenza: l’ampliamento delle basi sociali del consensoattraverso la coopta zione di nuovi gruppi mediante una iniziativapolitica di tipo “pedagogico” secondo un modello organico;5 ilricorso sistematico all’imposizione del pro prio potere identificatocon l’autorità dello Stato.

4. F. Traniello, Nazione e storia nelle proposte educative degli ambienti laici, inL. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Ottoe Novecento, Brescia, La Scuola, 1999, pp. 69-70.

5. Per i caratteri del modello della società organica ved. P. Rossi, La sociologia posi-tivistica e il modello di società organica, in A. Santucci (ed.), Scienza e filosofia nella cultu-ra positivistica, Milano, Feltrinelli, pp. 15-37.

62 capitolo secondo

La subordinazione del momento dell’allargamento del consensoa quello della costrizione rimase comunque preminente. I ceti diri-genti rivendicarono a sé un’appartenenza nazionale forte, pensan-do alle moltitudini in termini di “cittadinanza debole”, continua-mente da sorvegliare. Poiché a questa larga base popolare era deltutto estraneo il significato moderno dei diritti e dei doveri, la cit-tadinanza non poteva che essere parziale e da compiersi attraversouna graduale e sistematica trasmissione di nuovi valori.

Questa prospettiva andò irrigidendosi col trascorrere degli anni,in seguito all’emer gere della questione sociale. Episodi come quel-li di Romagna del 1874 e del Matese tre anni più tardi, la ribellio-ne della “boje” del proletariato agricolo padano nel biennio 1884-1885, le lotte degli edili sul finire degli anni ’80, la rivolta dei Fascisiciliani del 1893, i fatti di Lunigiana dell’anno successivo segnala-vano, con un crescendo impressionante, la drammaticità della que-stione sociale, dando nuova esca ai timori dei conservatori, risve-gliando i fantasmi della guerra civile e degli incendi di Parigi.

All’estraneità delle masse popolari corrispondeva, a sua volta, ladiffidenza con la quale erano spesso accostate dal ceto colto. A que-sto riguardo non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Nel 1877, ad esempio, Renato Fucini compie un viaggio a Na -poli con Giustino Fortunato per scrivere un ritratto della città die-tro l’espresso invito di Pasquale Villari. Fucini parte con entusia-smo, ansioso di visitare una “terra promessa” e a soddisfare un“sogno di gioventù”. Altro che sogno: il suo taccuino di viaggio èspietato fino al disgusto. Napoli gli appare come una “immensabottega di rigattiere”. Lo spettacolo della miseria gli fa “spavento”,il contatto con il popolo lo “irrita”. Bastano pochi giorni e il solodesiderio è tornare quanto prima nella “civile Toscana”.6

Ma non è soltanto l’immaginario letterario a essere colpito dalladiversità tra gli strati sociali. Dall’Uomo delinquente del Lombrosoin poi un’intera generazione di antropologi e criminologi si sforzòdi spiegare come i diversi livelli di incivilimento di una societàpotevano essere giustificati in rapporto a diversi stadi evolutivi. Ilpasso verso una lettura razziale della questione sociale e di quella

6. R. Fucini (Neri Tanfucio), Napoli a occhio nudo. Lettere ad un amico, Firenze, LeMonnier, 1878.

quale educazione per quali italiani? 63

meridionale era breve: i dati relativi alla criminalità con il loro cari-co di sangue sembravano dar ragione a chi, come lo studioso tori-nese e i suoi seguaci, erano convinti che la violenza fosse un evi-dente segnale di barbarie e, a sua volta, la barbarie un buon indica-tore della degenerazione razziale.7

I timori connessi con l’espansio ne del socialismo mentre rese-ro più urgente negli ultimi quindici anni del secolo l’allargamen-to delle basi sociali della vita nazionale e dello Stato, contribuiro-no a indebolire la fiducia nelle ca pacità intrinseche al metodoliberale per la soluzione dei contrasti so ciali. Di qui il rafforza-mento dell’esecutivo, le leggi di polizia, le scelte protezionistiche,l’aumento del bilancio militare.

Va tuttavia subito precisato che anche con Crispi, il più auto-ritario tra i governanti della Terza Italia, non fu mai posta indiscussione – almeno in via di principio – la sintesi tra Nazionee libertà. Per la classe dirigente liberale “formare la coscienzaattraverso la libertà” era l’unica via praticabile per edificare una“nuova Italia capace di porsi ai primi posti nella gara delle nazio-ni moderne” come era stata vagheggiata dagli artefici del Risorgi-mento.8

Ma quale libertà per quali Italiani e per quale Italia? E soprattut-to: quale educazione alla libertà? Intorno a questo cruciale interro-gativo si aprì un grande dibattito nel quale interagirono intellet-tuali, uomini politici, scrittori, pedagogisti, uomini di Chiesa.

Un primo punto di riferimento è costituito, come molta storio-grafia ha richiamato, da Angelo Camillo De Meis, medico e uomopolitico, allievo a Napoli del Puoti e del De Sanctis, che nel 1868pubblicò alcuni articoli poi raccolti nel volume dal titolo Il sovrano.9

A giudizio del De Meis lo Stato democratico era una “impossibilità

7. Ch. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Roma-Bari,Laterza, 2008, p. 307.

8. E. Gentile, La Grande Italia. Il mito della Nazione nel XX secolo, Roma-Bari,Laterza, 2009, p. 53.

9. Il riferimento all’opera del De Meis ricorre spesso tra gli studiosi che han-no ricostruito i dibattiti sulla nazionalizzazione italiana. Sull’intrinseca valenzaanche educativa della sua analisi politica ha richiamato, in particolare, l’attenzioneL. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1951,pp. 61-67.

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storica” perché la società era “divisa in due popoli opposti”, vale adire una plebe “più vicina all’animalità che all’umanità” e una mino-ranza, molto ristretta, di uomini colti. Pensare in una siffatta condi-zione, all’ampliamento dei diritti e dei doveri sarebbe stato pura irre-sponsabilità. La democrazia era possibile “soltanto dove tutti i mem-bri di una data società hanno raggiunto lo stesso stadio di sviluppo”.

L’unica soluzione realistica era perciò quella di creare “una tiran-nia del popolo che pure in qualche modo pensa, sul popolo che nonpensa in alcun modo”. Per tenere insieme i due popoli occorrevaperò un mediatore capace di accoppiare in sé le qualità principalidei due opposti strati della popolazione, un sovrano in altre parole

“grande, bello e forte al possibile, sfarzoso, un po’ sensuale, materialeanzi che no, ma sopra ogni cosa fa d’uopo che sia religioso, e se non loè nell’animo bisogna che si guardi dal farlo parere”, ma anche – perchésia bene accetto dagli intellettuali – “amico del progresso, spassionatodell’indipendenza, dell’unità e della grandezza della patria”.

Alla figura carismatica del sovrano era demandato un compitonon solo di rappresentanza, ma anche educativo, sia sul piano del-l’esemplarità delle sue azioni sia per la capacità di interpretare isentimenti comuni. Soltanto a queste condizioni era possibile pro-muovere anche nei ceti subalterni il senso del dovere e dell’appar-tenenza a un comune destino. Nella letteratura popolare questaduplice esigenza assunse non casualmente spesso la fisionomia delbuon padre di famiglia che, a sua volta, s’intrecciò all’immaginedell’Italia concepita come figura materna.

Soltanto in una imprecisata ultima fase dello sviluppo storico,concludeva il De Meis, quando tutti gli uomini avessero superato ilimiti di una concezione particolaristica dell’esistenza e si fosseinstaurato il dominio universale della ragione, si sarebbe potutopensare a una società democratica.

Al paternalismo sentimental-politico del De Meis, dietro le cuitesi occhieggiavano Vico e Cuoco, corrispose il pragmatismo abase economico-sociale di Leone Carpi, un proprietario fondiariodai molteplici interessi, già cospiratore mazziniano, autore di unvolume dal titolo L’Italia vivente apparso nel 1878.10 Per il Carpi

10. L. Carpi, L’Italia vivente. Aristocrazia di nascita e del denaro, borghesia, clero, buro-crazia, Milano, Vallardi, 1878.

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doveva essere lo “sviluppo” – espressione che egli impiegava inun’accezione molto vicina alla nostra – a costituire la potente mollaper unificare l’Italia.

Secondo questa prospettiva l’attivismo e il lavorismo erano innal-zati a pedagogia nazionale: la trasformazione economica era pre-messa perché l’arretratezza e l’ignoranza non travolgessero le con-quiste civili risorgimentali.

“L’Italia d’oggidì io me la raffiguro come uno stupendo e solido modellodi un grande edificio in legno, ben ideato e ben architettato da chi seppecondurla da Novara a Roma: ma rimane quasi, direi, il più a farsi rispettoall’avvenire, e cioè rimane a costruirlo in pietra adamantina e con cemen-ti invulnerabili e ciò non può conseguirsi senza rendere l’Italia, a qualun-que costo e con qualsiasi mezzo, eminentemente industriale e marittima,e proprietaria di colonie territoriali transoceaniche proprie”.11

Come il De Meis, anche il Carpi era convinto di trovarsi di fron-te a “due popoli”: ma anziché pensare all’immaginifica figura di unsovrano-tiranno capace di guidare i destini della Nazione, l’econo-mista ferrarese prospettava la soluzione della questione sociale enazionale in chiave lavorativa. Si trattava di creare posti lavoro e,contestualmente, di allontanare i soggetti eccedenti o insubordina-ti (e cioè incapaci di trovare lavoro o di assoggettarsi alla comunedisciplina), orientandoli verso l’emigrazione libera e, nei casi piùgravi, da raccogliere in “colonie di deportazione”.

L’educazione del popolo era insomma concepita come una “orto-pedia lavoristica” guidata dalle classi superiori e dal ceto medio. Perplasmare le nuove generazioni all’insegna del lavoro non era suffi-ciente, a giudizio del Carpi, incrementare gli studi scientifici e gliaddestramenti professionali o, tanto meno, promuovere nelle scuo-le la conoscenza di biografie di uomini illustri ed esemplari come,ad esempio, suggerivano i sostenitori del self helpismo.

Il conseguimento dell’“ortopedia lavoristica” era piuttosto lega-to alla forgiatura del corpo mediante la pratica di attività parasco-lastiche da rendere obbligatorie (esercizi fisici, tiro al bersaglio,escursioni montane ed altre iniziative analoghe). In questo modo

11. Cit. in S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia. 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979, p. 23.

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si potevano avere lavoratori abituati a confrontarsi con la fatica ela disciplina produttiva. Il Carpi riconosceva la necessità di saperparlare anche ai sentimenti del popolo. A questa esigenza doveva-no provvedere le feste, le grandi cerimonie e soprattutto il teatroove si traducono “in azione quasi tangibile il bello e il vero, l’orri-do e il riprovevole colle loro inevitabili ed evidenti sanzioni dellafelicità e dell’infamia”.

Pur collocati entro sfondi culturali molto diversi, il progetto delDe Meis e quello del Carpi convergevano in ogni caso su un puntoe cioè sulla convinzione che l’educazione del popolo fosse una que-stione non tanto o, per lo meno, non solo di educazione intellet-tuale, ma di educazione dei sentimenti e, attraverso il loro discipli-namento, di educazione morale. Nel caso del De Meis la moralitàemanava direttamente dal sovrano, per il Carpi era il frutto del-l’abitudine al lavoro.

2. “Un grande operoso principio morale”

Il convergere sul primato della formazione etica non era casuale.La rigenerazione delle popolazioni italiane così da sottrarle all’iner -zia, all’indifferenza e all’ignoranza si congiungeva al bisogno diinquadrarle entro i valori della Nazione. E l’idea di nazionalità eraconcepita come “un grande ed operoso principio morale” che po nevaa suoi fondamenti la volontà di ciascuno, la coscienza personale, ladimensione intrinsecamente spirituale della comunità nazionale.

Era in pratica l’inveramento dell’insegnamento mazziniano sullaNazione che, battuto come metodo rivoluzionario, ebbe tuttavia ilpotere, come è stato notato, “di mobilitare l’opinione pubblica, diinculcare ideali di attività e di sacrificio, di diffondere l’idea che peressere Nazione non bastava una lingua, una tradizione, un’areageografica comune, ma occorreva una volontà comune che non erala rousseauiana ‘conven zione iniziale’ né un portato della natura,ma un’operosità continua e incessante”.12

12. F. Gaeta, Dalla nazionalità al nazionalismo, in Aa.Vv., La cultura italiana tra’800 e ’900 e le origini del nazionalismo, Firenze, Olschki, 1981, p. 32 e più distesamen-te in Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981.

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Se talune ambiguità della dottrina nazionale di Mazzini restava-no ancora aperte (come, ad esempio, i contrasti irrisolti tra libertàindividuale ed iniziativa nazionale, tra spontaneità singola ed auto-rità della Nazione),13 prevalevano in ogni caso fattori spirituali cherappresentavano la nota caratteristica della riflessione italiana sul -la Nazione a diversità di quella tedesca nella quale il richiamoal diritto secondo natura aveva sempre avuto, da Fichte in poi,larga parte.14

Al processo di interiorizzazione dell’idea di Nazione, postocome presupposto per la costruzione della comunità degli Ita-liani, corrispose l’istanza del “dovere” di farne onorevolmenteparte. Questo obiettivo si sarebbe potuto compiere soltanto entroun progetto politico e pedagogico capace di stringere in un unicoprocesso virtuoso le nozioni di Nazione, Stato ed educazionemorale.

In questa ambiziosa impresa parte rilevante ebbero la riflessio-ne e la militanza politica di Francesco De Sanctis che fece pro-prio in prospettiva educativa il principio dell’eticità dello Statodisegnato dai neohegeliani-spaventiani napoletani. Una inter-pretazione del rapporto tra Nazione e Stato, come vedremo, cheera destinato a rafforzarsi nel tempo fino all’appiattimento, inpratica, della prima nel secondo in età crispina, sul finire delsecolo, quando così lo statista siciliano si esprimeva: “Lo Stato èl’associazione di tutti gli elementi di attività di un popolo con-giunti nello scopo di raggiungere il benessere e la grandezzadella Nazione”.15

Fin dagli anni ’50, nei dibattiti scolastici in corso a Torinodov’era esule, lo Spaventa aveva sostenuto la tesi che lo Stato,hegelianamente, traeva la propria eti cità in quanto espressione sto-rica del divenire della Nazione. Nello Stato lo Spaventa individua-va non solo l’unico organismo che assicurava unità e senso politico

13. Restano ancora valide le annotazioni, svolte con puntuale attenzione alle impli-canze pedagogiche in Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, op. cit.,pp. 81-84.

14. F. Chabod, L’idea di Nazione, Roma-Bari, Laterza, 1961-1974, pp. 68-79.15. U. Levra, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino,

Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, 1992,pp. 315-316.

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alla Nazione, ma anche la sorgente dei princìpi e dei valori ispira-tori di un armonioso sviluppo civile e culturale. Sulla base di que-sta convinzione aveva nettamente contrastato le tesi disponibili ariconoscere la libertà di insegnamento che erano allora prevalentinegli ambienti liberali piemontesi.16

Anche per il De Sanctis non si poteva parlare dell’educazionedegli Italiani senza intrinsecamente associarla al binomio Nazione-Stato. Di qui la sua polemica contro gli esponenti della scuola cle-rico-moderata, e il Cantù in particolare, che riconoscevano l’auto-nomia della società civile e ai valori religiosi una forza educativapositiva.

Dove non c’è Nazione non può esserci Stato, ma dove c’è laNazione occorre costruire lo Stato perché senza di esso si ritornaverso la pura animalità e la disgregazione. La forma più alta e nobi-le dello Stato era quella descritta da Hegel, uno Stato la cui identi-tà è data dalla sua natura etica e di conseguenza dalla soggezio-ne/condivisione da parte dei cittadini della sua autorità e dell’ordi-ne che da essa discende.

Il De Sanctis era ben consapevole della complessa realtà italianae della arretratezza dei ceti popolari. Se ne hanno precise testimo-nianze nei suoi scritti politici e, in modo particolare, nei suoidiscorsi come ministro dell’Istruzione. Lo Stato etico doveva per-ciò farsi “maestro” e “guida” così da promuovere la coscienza del-l’appartenenza alla Nazione, affidandosi a un impiego disciplinatodella libertà.

Se il liberalismo dello studioso irpino si basava sul principio che“la libertà s’impara con la libertà”, egli negava tuttavia la possibili-tà di governare con ordinamenti liberali un popolo “non libero ecioè che non abbia fatto propri gli elementi fondamentali delloStato di diritto: il rispetto della legge, la tutela propria e delle pro-prie cose attraverso mezzi legali, il principio che il bene pubblicosupera l’interesse privato”.

Alle istituzioni scolastiche ordinate e sorvegliate dallo Stato eradunque affidato il compito “di contribuire in modo decisivo a for-

16. Gli scritti, apparsi originariamente nel 1851 sul giornale “Il progresso”, espres-sione della sinistra democratica, furono più tardi raccolti e ripubblicati da G. Gentilein B. Spaventa, La libertà d’insegnamento. Una polemica di settant’anni fa, Firenze, Val-lecchi, 1920 (da cui citiamo), pp. 42-131.

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mare una società dove fosse possibile l’applicazione integrale deiprincìpi liberali” senza che tuttavia se ne avvantaggiassero quelleforze (e il De Sanctis pensava non solo alla Chiesa, ma anche aquella parte di maggiorenti diffidenti o contrari allo Stato liberale)che si ispiravano a princìpi radicalmente opposti, una societàinsomma “in cui la concezione del suffragio universale non signifi-casse ‘il regno dei preti’ e de’ più ricchi e influenti”.17

L’educazione alla libertà disciplinata doveva certamente comin-ciare dall’intelletto, sgombrandolo dai miti, dai pregiudizi, dallesuperstizioni, ma doveva compiersi soprattutto nella formazionedella “tempra”.

Cosa l’autore della Storia della letteratura italiana intendessecon questa espressione era bene espresso nelle riflessioni svoltesull’uomo del Guicciardini e sull’uomo del Machiavelli. Mentrenel primo il De Sanctis denunciava una pronunciata divaricazio-ne tra l’arricchimento delle facoltà intellettuali e il raffinamentodel sentimento artistico e la caduta dei valori morali e dellaresponsabilità civile e sociale, nel secondo veniva invece celebra-ta la fusione tra “ideale” e “reale”, tra pensiero e azione, tra “par-ticulare” e generale, un uomo capace di volere non per sé, ma perun disegno più grande. La tempra era per l’appunto la volontà diperseguire un obiettivo nobile, non egoistico, identificato nelprincipio etico nazionale.

Il Risorgimento aveva avviato l’opera di rigenerazione degli Ita-liani, ma “l’uomo del Guicciardini” era ancora vivo nel carattereitaliano: l’incerta moralità, la doppiezza e la simulazione esercitatenella prospettiva dell’interesse singolo, retaggio di secoli di confor-mismo, dogmatismo, scetticismo, erano altrettanti ostacoli all’edu-cazione di un italiano “nuovo”, cittadino di uno Stato capace diguidare la Nazione alla conquista della modernità.18

Questo sarebbe stato possibile nella misura in cui gli Italianiavessero conquistato una tempra matura e cioè un carattere affattonuovo, sgombro dal passato. Ma perché questo si realizzasse occor-reva che la religione laica del dovere imitasse la fede cattolica la cui

17. G. Talamo, Scuola e Nazione in Italia nei primi decenni post-unitari, in P.L. Bal-lini, G. Pécout (edd.), Scuola e Nazione in Italia e in Francia nell’Ottocento, Venezia,Istituto Veneto di Lettere, Scienze ed Arti, 2007, p. 25.

18. Gentile, La Grande Italia, op. cit., pp. 39-40.

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potenza, annotava il De Sanctis, “non [era] il catechismo”, bensì“l’uomo preso dalle fasce e tenuto stretto in pugno fino allatomba”. Come non sentire che

“doveva cominciare una nuova vita” e che “tutta quell’attività che nellecospirazioni, nelle sette, nelle battaglie ci condusse ad acquistarci unapatria” andava rivolta “contro il tiranno che è in noi, che non è mortoancora, che vive nei nostri costumi e nei nostri pregiudizi?”.19

3. Lo Stato come supremo ordinatore

Intorno a questa concezione etica della Nazione, del rapportotra Stato e individuo e di conseguenza della priorità di una educa-zione pubblica incentrata sulla interiorizzazione del senso deldovere, moderati e democratici, esponenti della destra e rappresen-tanti dei circoli della sinistra si trovarono nella sostanza concordi.Non soltanto i neohegeliani furono dunque animati dalla convin-zione che il passaggio da “plebe” a “popolo libero” fosse affidatoprincipalmente a regole morali di cui lo Stato era il supremo ordi-natore e regolatore. Questo principio costituì un fil rouge destinatoa percorrere lungo tratto della storia italiana.

Esso fu srotolato dai principali ministri dell’Istruzione che si sus-seguirono alla Minerva tra l’Unità e la fine del secolo: lo stesso DeSanctis, Michele Coppino, Guido Baccelli. Da soli questi tre mini-stri ricoprirono complessivamente oltre due decenni di incarico,licenziando importanti norme legislative e duraturi programmiscolastici. Due provvedimenti, in particolare, e cioè l’introduzionedell’insegnamento dei “doveri dell’uomo e cittadino” voluto dalCoppino nel 1877 (a fianco e a sostegno della contestuale obbliga-torietà dell’istruzione) e quello della ginnastica, predisposto l’annosuccessivo dal De Sanctis e rilanciato in seguito dal Baccelli, rap-presentano a riguardo del nostro discorso passaggi strategici.

Queste due iniziative, soprattutto la prima, rientrano nel piùampio dibattito che dopo l’Unità si aprì in Italia sulla laicità dellascuola e sulla sua obbligatorietà. In specie dopo il 1870 si rafforzòla convinzione che l’una e l’altra fossero condizioni irrinunciabili

19. F. De Sanctis, I partiti e l’educazione della nuova Italia, Torino, Einaudi, 1970,p. 40.

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non soltanto per il progresso della società e il rafforzamento delsentimento nazionale, ma anche per il superamento dei valori cat-tolici ai quali una parte del ceto liberale addebitava la responsabili-tà dell’immobilismo economico e culturale.

La sostituzione dei princìpi di morale civile al catechismo catto-lico a livello della scuola elementare inferiore (quella obbligatoria edunque quella frequentata dalla maggior parte dei bambini) rap-presentò un primo e significativo passo in tal senso. Questo orien-tamento era stato anticipato dalla decisione del ministro Correntidi rendere facoltativo, per via amministrativa con la circolare del29 settembre 1870, l’insegnamento religioso e dai propositi imme-diatamente successivi dello stesso Correnti e del suo successoreScialoja di congiungere in un unico progetto l’obbligatorietà dellascuola elementare e la sua laicizzazione.

In occasione del dibattito sul bilancio preventivo della PubblicaIstruzione, che coincideva con la presentazione della proposta sul-l’obbligatorietà del ministro Scialoja (gennaio-febbraio 1873), sierano levate numerosi voci a reclamare l’introduzione nella scuolaelementare di un insegnamento di morale laica alternativo al cate-chismo. Il disegno di legge prevedeva per la prima volta l’insegna-mento delle “prime nozioni delle più essenziali istituzioni delloStato” affiancate da “massime di giustizia e di morale sociale in cuiqueste si fondano”.20

E se non mancavano – come diremo meglio più avanti – autore-voli esponenti della stessa cultura laica, come ad esempio Villari eGabelli, che manifestavano perplessità e contrarietà riguardo allaabolizione dell’insegnamento religioso nel timore di lasciare unvuoto che la scienza positiva o l’etica razionale non erano in gradodi colmare, più forte di queste cautele era la convinzione che ancheai ceti inferiori si dovesse impartire un’educazione morale cherispecchiasse i princìpi ideali del nuovo Stato.

Avverso a ogni estremismo anticlericale, ma anche altrettantoconvinto che la questione religiosa doveva essere confinata nelladimensione personale privata e che lo Stato aveva il compito di pro-porre una propria etica senza debiti verso la religione, il Coppino

20. Sull’intera vicenda ved. G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876. Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari, Laterza,1981, pp. 154-157.

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fece sue le proposte dello Scialoja. Nella prima versione del disegnodi legge del 1877 si parlava di “prime nozioni della morale”, deno-minazione poi modificata nel testo definitivo in “prime nozioni deidoveri dell’uomo e del cittadino”.

L’inserimento della nuova disciplina nei programmi per la scuo-la elementare, senza che peraltro venisse esplicitamente cancellatala norma della legge Casati sull’obbligatorietà dell’insegnamentoreligioso (a differenza dei ben più drastici interventi che in queglistessi anni portarono alla soppressione delle Facoltà di Teologia edei direttori spirituali delle scuole secondarie), aprì un vasto con-tenzioso che durò alcuni decenni.

Su quale dovessero essere, secondo il ministro piemontese, ilsenso e l’impostazione del nuovo insegnamento, essi emergono inmodo nitido in un documento di qualche anno più tardi. Ritorna-to alla guida del Ministero, il Coppino affrontò la questione in unacircolare del 1887, collocando l’educazione al dovere nel più ampioquadro dei compiti dei maestri come “educatori del popolo”:

“Né si creda che basti far recitare in coro il catechismo o far ripetereastrattamente le nozioni dei diritti e doveri. Il sentimento morale devevivificare ogni insegnamento e scaturire in ogni occasione. Nelle varielezioni, nelle passeggiate, nelle conversazioni, nei giuochi, il maestrosempre si adoperi a suscitare nell’animo dei fanciulli la coscienza mora-le, a destarvi il sentimento dell’onore, ad ispirare orrore al vizio, adesercitare la loro volontà negli atti virtuosi”. I maestri erano perciòchiamati a dare per primi “esempio di probità, di ordine, di devozioneai propri doveri, di onore, di abnegazione; ed allora in lui si specchie-ranno i discepoli”.21

Era insomma la scuola nel suo insieme, attraverso i maestri, adessere chiamata a veicolare un senso di appartenenza e un ordine divita ispirato a valori tutti mondani, a un’etica che era compito delloStato promuovere in vista di un “nuovo Italiano” proteso verso ilprogresso e il bene sociale identificato con il bene della Nazione.Quando nel 1888 furono rivisti e riscritti i programmi di insegna-mento per la scuola elementare il baricentro della nuova disciplinafu individuato proprio nella formazione di quel carattere che sem-

21. A.A. Mola (ed.), Michele Coppino 1820-1901. Scritti e discorsi, Alba, FamijaAlbeisa, 1978, p. 557.

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brava a tanti, e forse ai più, il vero tallone d’Achille dell’Italia postunitaria.

Il risalto dato in quei programmi alla formazione intellettuale,giudicata indispensabile perché “la mente più è illuminata più com-prende l’utilità del vivere onesto e del retto operare”,22 si associòalla preoccupazione di non trascurare la formazione dell’animo e,di conseguenza, di potenziare il carattere degli Italiani.

Lo scolaro non avrebbe dovuto soltanto conoscere i doveri,quanto “assuefarsi ad adempierli”, poiché anche in questo caso,“più che il conoscere importa il fare”. Il mancato adempimento deldovere non derivava dalla loro ignoranza perché “quali siano idoveri” ciascuno “lo impara da tutta la vita che ci attornia”, ma ciòche essa “non ci dà è la forza di soddisfarvi”. Era proprio questarobustezza ed energia morale che la scuola “senza mollezze e senzatransazioni”23 doveva inculcare nel fanciullo.

Anche la decisione di introdurre la pratica ginnastica nelle scuo-le, provvedimento voluto dal De Sanctis nel 1878, corrispondeva –invero con qualche maggiore ambiguità sul senso da attribuireall’educazione morale – all’ideale di un italiano dalla tempra robu-sta. Secondo l’uomo politico irpino alla base dell’educazione voliti-va, di quella che con altra espressione egli definiva anche “l’educa-zione virile”, stava ciò di cui

“meno ci curiamo e di cui parliamo talvolta anche con dileggio, l’edu-cazione del corpo, la quale si congiunge all’igiene e della quale siamotroppo poco solleciti... Quando il corpo è sano e forte, nasce nell’uo-mo non solo il coraggio fisico, che è la cosa più comune, ma ciò che èpiù raro, anche il coraggio morale, e la tempra, e il carattere, e la sin-cerità nella condotta, e l’aborrimento delle vie oblique, di quelle fur-berie machiavelliche che hanno macchiato la storia italiana nella suadecadenza”.24

Il controllo del corpo indotto dagli esercizi ginnici non era, dun-que, funzionale soltanto al miglioramento del fisico, ma era giudica-

22. Istruzioni generali ai Programmi per le scuole elementari del Regno, in «Bollettinoufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica», vol. xiv, settembre 1888, p. 498.

23. Ibidem, p. 499.24. F. De Sanctis, Scritti e discorsi sull’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1967,

p. 169.

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to “utilissimo” per il perfezionamento morale in quanto esito di uncomplesso di sforzi che contribuivano all’autocontrollo personale.

L’interesse del De Sanctis per la ginnastica non era né nuovo néimprovvisato. Già se n’era occupato nel 1848 quando aveva stesoun piano di riforme nel Regno di Napoli. Negli anni successivi,prima a Torino e poi durante il suo soggiorno svizzero aveva con-statato l’efficacia della ginnastica per rafforzare il fisico ed esercita-re la volontà. Ma accanto a questi motivi educativi, il De Sanctisaffiancava anche ragioni di opportunità militare quando affermavache gli eserciti “non s’improvvisano” e osservava che non bastavadecretare sulla carta

“un ordine militare simile a quello della Prussia per avere un esercitosomigliante. Il soldato suppone che ci sia l’uomo; e l’uomo non siforma né in tre, né in quattro, né in sette anni, l’uomo si forma fin daprincipio con un’educazione virile. Dunque un tale argomento ha unagrande importanza per quel che riguarda le virtù militari”.25

Il senso di questa affermazione era chiarito durante i lavori par-lamentari. Nei principali Paesi europei, annotava il De Sanctis, igoverni erano impegnati a tener desto l’addestramento militare deigiovani mediante varie iniziative predisposte al di fuori dell’eserci-to attivo perché in caso di guerra tutta la Nazione andava mobilita-ta. L’educazione virile non doveva dunque soltanto “aumentare laforza fisica della popolazione”, ma andava accompagnata dall’edu-cazione morale. “Tutte le classi, tanto le elevate, come le pococolte” dovevano capire bene “cosa vuol dire patria, indipendenza,disciplina, abnegazione... che il sacrificarsi per il bene della Patria èun onore”.26

Toccò tuttavia a Guido Baccelli interpretare in modo più radica-le l’ideale del cittadino-soldato. Nel 1881, ministro per la primavolta, avanzò la proposta per istituire appositi corsi popolari dicomplemento dell’istruzione obbligatoria da destinare ai giovani inetà compresa tra i 16 e i 19 anni. In tali corsi, da svolgersi in orarioserale, oltre al richiamo e al rafforzamento delle conoscenze acqui-

25. Ibidem, p. 184. 26. Sui progetti del De Sanctis e i rapporti tra educazione morale ed esercizi gin-

nico-militari ved. G. Bonetta, Corpo e Nazione. L’educazione ginnastica, igienica e ses-suale nell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1990, pp. 82-85.

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site nella scuola elementare, si sarebbero dovuti tenere appositiesercizi di ginnastica militare per preparare “cittadini utili a sé edifensori disciplinati e coraggiosi del Paese”.

L’iniziativa del Baccelli era sostenuta da almeno due ragioni. Laprima era quell’idea di esercito (tema già sfiorato nel capitolo pre-cedente e che riprenderemo più avanti) inteso come istituzionedepositaria della tradizione storica e sintesi delle virtù civiche, inparticolare quella relativa alla volontaria scelta della disciplina infunzione dei superiori interessi della Nazione. La seconda era unaragione d’ordine economico e sociale. Se si fosse potuta assicurarel’acquisizione di un certo numero di abilità motorie e premilitarial di fuori della ferma obbligatoria sarebbe stato possibile ridurre laferma stessa con vantaggi sia per l’erario sia per l’economia dellefamiglie.

I progetti del ministro del Baccelli non riuscirono tuttavia asuperare la discussione parlamentare. Fu soprattutto Ruggero Bon-ghi ad avversare il proposito di trovare nell’esercizio fisico e inquello militare il fondamento dell’educazione morale. Già critico, asuo tempo, contro la decisione di affidarsi nell’educazione scolasti-ca alla morale laica, l’uomo politico napoletano giudicava il pro-getto del Baccelli come nefasto e soprattutto poco praticabile.

Nonostante questo iniziale scacco il Baccelli non abbandonòle sue convinzioni che lo avrebbero accompagnato anche neglianni seguenti, fino a vederle finalmente condivise con maggiorsuccesso sul finire del secolo in un contesto che, come vedremo,era nel frattempo mutato dietro le spinte nazionalistiche e colo-nialiste.

4. Fede nella scienza e fede nella patria

È meno sorprendente di quanto potrebbe apparire a primavista che nella letteratura pedagogica del positivismo italiano –per lo meno di quel positivismo intriso di comtismo e darwini-smo che influenzò una parte della pedagogia italiana del secondoOttocento, diverso è il discorso per studiosi come Villari e Gabel-li – non vi sia una riflessione approfondita sui fondamenti del-l’educazione nazionale, a differenza di quanto sarebbe poi acca-

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duto in pieno clima antipositivistico all’inizio del nuovo secolo27

quando intorno a questo tema si svolse un ampio dibattito. Nell’orizzonte segnato dall’etica positiva le idealità sono forma-

zioni naturali che non dipendono dal libero arbitrio, ma si impon-gono ad esso. Scartato il piano religioso giudicato non compatibilecon la certezza del “fatto”, troppo lon tano dalle masse popolari ilverbo scientifico, non restavano per i sostenitori della scienza posi-tiva che i valori sociali “oggettivi” espressi dalla sta gione risorgi-mentale. Lo Stato nazionale e il patrimonio ideale sul quale essoera stato costruito furono così visti come un dato incontrovertibiledal quale non si poteva prescindere.

Mentre, dunque, la pedagogia si riconfigurava come scienza del-l’educazione, s’intrecciava con gli apporti della sociologia, dellapsicologia e dell’antropologia e diventava il tramite di una menta-lità antimetafisica in controtendenza rispetto ai motivi dello spiri-tualismo romantico, i rapporti tra individuo, società e Stato furonoconsiderati secon do una logica fatta piuttosto di continuità che dirottura. La fede nella Nazione convisse insomma con lo sviluppodel positivismo e la fede nella scienza fu quasi un corollario dellafede nella patria, facendo tutt’uno con il sentimento nazionale.

Nei casi più avvertiti (De Sanctis, Gabelli, per citare due solinomi) la raccomandazione era che la scienza non si trasformasse indottrinarismo astratto, ma stabilisse un rapporto organico con lavita. La scienza era chiamata a vivificarla con un approccio nondogmatico, capace di “veder le cose come sono”, di rimuovere ipregiudizi, di rendere attiva la coscienza personale mediante, comesuggeriva il Gabelli, “l’esame, la critica, la scoperta e infine undurevole convincimento”.28

27. Col nuovo secolo il dibattito sull’educazione nazionale fu ripreso lungo ottichealmeno in parte diverse rispetto al secondo Ottocento, in conseguenza della complessi-va crisi di fine secolo che comportò una generale revisione ideale e culturale. Sulla crisidi fine secolo ved. le molte pagine dedicate da E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filo-sofia in Italia dopo l’Unità, Roma-Bari, Laterza, 1983 e L. Mangoni, Una crisi fine secolo,Torino, Einaudi, 1985. Per la riproposta degli ideali educativi nazionali ved. G. Chios-so, L’educazio ne nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola, 1983.

28. Il tema è sviluppato in A. Gabelli, Il metodo di insegnamento nelle scuole elemen-tari d’Italia, Roma, Libreria Manzoni, 1880, ora in Positivismo pedagogico italiano, acura di D. Bertoni Jovine e R. Tisato, Torino, utet, 1973, vol. i, pp. 650-654.

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La riflessione di Andrea Angiulli si presenta a tal riguardo emble-matica perché si misura senza scorciatoie con il rapporto tra Stato,educazione e scuola. L’Angiulli non è una voce isolata e la sua rifles-sione è in linea, almeno su questo punto, con quella di altri studiosia lui coevi come Edoardo Fusco, Francesco Saverio De Dominicis,Nicola Fornelli e di divulgatori molto attivi nella formazione del-l’opinione magistrale del tempo come Ildebrando Bencivenni,Guido Antonio Marcati, Paolo Vecchia, Marcello Zaglia.

Il giovane Angiulli respira l’aria neohegeliana di Napoli (dove siera trasferito dalla natía Puglia), ma dopo un soggiorno a Berlino –ove assiste, dapprima sgomento e poi fiducioso per le nuove pro-spettive che si aprono, all’“abbandono di Hegel” – è protagonista diuna drastica conversione al nuovo verbo positivista.

Nel suo primo libro importante, La filosofia e la ricerca positiva del1868,29 si compiace che “oggidì in Germania il tempio della specula-zione è deserto e la divinità che trionfa è la ricerca scientifica” ed esal-ta il primato delle scienze positive, principio ordinatore della storiamoderna, che reclamano e generano al tempo “una nuova filosofia”.Poste queste premesse, così distanti in via di principio da Mazzini eSpaventa, ci si aspetterebbe un’idea almeno in parte diversa anche dieducazione e di scuola. E invece quando l’Angiulli scende su questoterreno non oltrepassa l’idea dello “Stato educatore” e della scuoladello Stato come principale espressione dell’educazione nazionale.

Se lo Stato è interprete ed espressione della volontà nazionale(non è forse “l’organizzazione del popolo che go verna la propriaesistenza”?),30 anche la scuola che lo Stato ha il diritto di imporre innome della pubblica utilità (facendo “né più né me glio di quandoimpone il rispetto della proprietà e dell’ordine pubbli co”)31 è auto-matica espressione degli interessi nazionali.

Lo Stato viene così presentato dallo studioso pugliese “comel’educatore della società”, “istituto di educazione sociale”:32 nessun

29. A. Angiulli, La filosofia e la ricerca positiva. Quistioni di filosofia positiva, Napoli,tip. Ghio, 1868.

30. A. Angiulli, La pedagogia, lo Stato e la famiglia, Napoli, De Angelis e figlio,1876, ora in Positivismo pedagogico italiano, a cura di R. Tisato, Torino, utet, 1976,vol. ii, p. 152.

31. Ibidem, p. 153.32. Ibidem, p. 153.

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altro soggetto sociale ha, conseguentemente, il preminente dirittodi educazione proprio dello Stato, il quale “non deve prendere asua norma le condizioni intellettuali e morali della mag gioranzanumerica che è sempre nel grado meno avanzato della civil tà”, maraccogliere i princìpi che “si appalesano nelle produzioni su perioridella cultura e rifonderli nel seno degli strati più bassi della so cietàper sollevarli sulla strada del progresso”.33

L’educazione nazio nale, civile e laica, era dunque prerogativa dichi “ha fede nel potere della scienza e del progresso civile che daquesta deriva”: con l’Angiulli si realizzò in tal modo il massimosforzo di osmosi tra funzione pe dagogica degli intellettuali, educa-zione e scienza sotto l’egida di uno Stato. Il classico schema dellasociologia positiva era illuminato dalla luce che riverberava dallaancor recente vicenda risorgimentale e la faceva sua.

Queste tesi penetrarono diffusamente nel tessuto della vita scola-stica attraverso la manualistica per le scuole normali e soprattutto larigogliosa stampa per i maestri grazie alla mediazione di autorevoliuomini di scuola. Ildebrando Bencivenni, ad esempio, nei suoi Suntidi pedagogia, tre volumi “dettati in servigio delle Scuole Normalimaschili e femminili e degli Aspiranti Ispettori” apparsi nel 1889,riportava ampie citazioni tratte dagli scritti dell’Angiulli all’internodi un paragrafo dall’inequivoco titolo “Lo Stato educatore”.

Nel commentare i testi del pedagogista pugliese, il Bencivenniannotava che “nessuna altra parola” gli sembrava così “efficace eautorevole come la sua”. E così ulteriormente spiegava:

“Lo Stato, considerato come un organismo, ha l’istinto della conserva-zione, e vi provvede con l’esercizio della funzione educatrice, median-te cui si consolidano e si rinnovano gli elementi dei quali è costituito...Lo Stato provvede dunque alla propria conservazione e al benesseresociale, fondando e prescrivendo la fondazione di pubbliche scuole,obbligando i cittadini a far frequentare dai loro figli quelle nelle qualisi acquista il grado minimo di coltura, necessario all’adempimento deidoveri e all’esercizio dei diritti”.34

La tesi dello “Stato educatore” trovò un potentissimo amplifi-catore nella categoria magistrale – che andava allora organizzan-

33. Ibidem, pp. 156-157.34. I. Bencivenni, Sunti di pedagogia, Torino, Tarizzo, 1889, p. 474.

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dosi nelle prime forme associative – per ragioni pratiche e corpo-rative più che per una precisa scelta politica. Di fronte alla realtàdi molti Comuni inadempienti o molto tiepidi nei confronti dellascuola o subalterni alle logiche clientelari locali cominciarono alevarsi molte voci a favore dell’avocazione delle scuole elementa-ri allo Stato. In tal modo i maestri speravano in una maggioretutela e di spuntare stipendi migliori. Da Nord a Sud molti perio-dici professionali fecero dell’avocazionismo il loro principale pun-to di riferimento.

Anche quegli studiosi, come ad esempio Francesco Saverio DeDominicis, che erano meno inclini a trasferire nel positivismol’idea di statualità etica, non rinunciavano tuttavia a considerare loStato come il principale protagonista della promozione dell’istru-zione popolare:

“Se lo Stato deve far sentire l’autorità della legge in quelle istituzioniappunto, la cui bontà non potrebbe essere apprezzata dalle moltitudi-ni, perché non da esse intesa; se l’azione sua deve essere maggiore làdove maggiori possono essere i pericoli o i vantaggi; se tutto ciò è vero,è la scuola popolare destinata a diventare la sua odierna missione. Invero: quale privato o associazione privata potrebbe oggi, colle sole sueforze, fondare la scuola popolare? Metterla in consonanza coi bisognide’ tempi? Variarla secondo i luoghi? Provvederla dei mezzi necessari araggiungere non solo lo svolgimento teorico delle cognizioni, maanche la loro pratica attuazione?”.35

A questi interrogativi, secondo il De Dominicis, le amministra-zioni civiche non erano in grado di dare risposte efficaci: i Comu-ni erano impotenti “economicamente, intellettualmente, moral-mente” a rispondere al bisogno di scuola e perciò non restava chel’azione dello Stato, non più uno Stato “privilegio di alcuni”, malo Stato “veramente nazionale che attinge le sue forze dal senodella Nazione”.36

Bisogna avvertire che l’enfasi posta sui compiti educativi delloStato non sconfinò nell’Angiulli, nel De Dominicis e in quanti

35. F.S. De Dominicis, L’odierna missione dello Stato nell’istruzione pubblica, relazio-ne svolta nel 1881 nell’ambito delle conferenze magistrali di Foggia, ora in Positivismopedagogico italiano, a cura di R. Tisato, op. cit., vol. ii, p. 978.

36. Ibidem, p. 981.

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erano attestati su posizioni analoghe in esiti nazionalistici connota-ti di volontà di potenza, militarismo, espansioni smo. L’interventodello Stato restò nei confini di un’educazione patriottica dai con-torni magari alquanto autoritari, ma sempre volto all’incivilimentodelle plebi e alla soluzione dei problemi interni della vita sociale. Ilpassaggio a un’educazione nazionale sostenuta anche da istanzeespansionistiche sarebbe appartenuto a una fase successiva dellastoria italiana e ad altri protagonisti.

5. Tra istruzione, educazione e primato della classicità

La diffusa convinzione della primaria responsabilità dello Statonel campo della costruzione dell’etica pubblica attraverso la scuolaebbe conseguenze di varia natura.

La prima, invano contrastata da personalità come Carlo Catta-neo, Raffaello Lambruschini, Luigi Settembrini, fu la creazione diun sistema di governo fortemente centralizzato presso il ministerodella P.I. Nel momento in cui la scuola era concepita come poten-te fattore di nazionalizzazione sovraordinata dallo Stato era fataleche lo Stato stesso se ne dovesse appropriare. Ciò che gradualmen-te avvenne, irrigidendo attraverso l’azione amministrativa e alcuniinterventi legislativi i princìpi relativamente liberali posti alla basedella legge Casati.

Di qui, per esempio, la decisione prevista da una norma del1867 di far dipendere l’ufficio del Provveditore agli studi dal Pre-fetto; la moltiplicazione degli ispettori scolastici capillarmentedistribuiti sul territorio nazionale; l’ampio impiego della visitaispettiva come forma di sorveglianza sulla lealtà patriottica deidocenti; il controllo esercitato sui libri di testo; la sorveglianzasulla formazione dei maestri.

Bisogna ricordare che nei primi decenni post unitari non erasoltanto il lento sviluppo della scuola elementare comunale adestare preoccupazioni, quanto la preferenza accordata in molteparti del Regno alle scuole secondarie religiose anziché ai regilicei. Il ceto dirigente liberale aveva ben chiaro il ruolo fondamen-tale dell’istruzione secondaria nella trasmissione dei valori fondantidel nuovo Stato e non poteva perciò assistere in silenzio all’espro-

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priazione del ruolo della scuola pubblica, come denunciava il Villa-ri in un discorso in Parlamento nel 1875.37

Ma il fenomeno più significativo cui approdò il principio statali-stico fu la lenta, ma irreversibile erosione dell’autonomia previstanel 1859 per i Comuni in materia di istruzione elementare. Agliinizi del ’900 essa fu messa in aperta discussione anche sul pianoparlamentare e drasticamente ridimensionata con il passaggio dellescuole elementari allo Stato avviato con la legge del 1911.

Una seconda conseguenza riguardò il significato da attribuireall’opera di alfabetizzazione dei ceti popolari e alla nozione stessadi obbligo scolastico. L’ignoranza appariva certamente la migliorealleata della reazione e, anzi, addirittura – come avvertiva il DeSanctis – la condizione stessa perché la reazione fosse forte tra glistrati della popolazione più povera.38

Ma non di meno la base alfabeta dell’Italia poneva qualche pro-blema. Ricorrente e insistito fu il richiamo che all’istruzione siaccompagnasse “l’educazione”. Non bastava imparare a leggere, ascrivere e a fare di conto se poi queste abilità erano poste al servi-zio di una cattiva causa. Il cosiddetto “petrolio parigino” – e cioèl’insurrezione popolare a tinte socialiste del 1871 della capitalefrancese – stava lì a dimostrare, secondo più d’uno, che occorrevaprocedere con molta cautela, che non bisognava esagerare con lebattaglie anticlericali, che era opportuno considerare in tutti i suoicomplessi e delicati aspetti quella che fin da allora cominciò adessere definita la “questione sociale”; che un eccesso di scuola pote-va creare degli spostati inquieti.

E alla speranza che a ogni classe scolastica che si apriva si chiu-desse una cella in prigione (la ben nota alternativa tra “il boia e ilmaestro di scuola”)39, i dati opposero che la realtà appariva alquan-to diversa e comunque non così automatica.

Stretta tra due spinte contrapposte – moltiplicare le scuole perallinearsi alle nazioni più progredite, ma, al tempo stesso, evitarecontraccolpi sociali – la classe dirigente finì per scegliere una via

37. Ved. il testo del discorso del Villari pronunciato alla Camera il 6 maggio 1875in Positivismo pedagogico italiano, op. cit., vol. i, pp. 464-478.

38. F. De Sanctis, Il Mezzogiorno e lo Stato unitario, a cura di F. Ferri, Torino,Einaudi, 1960, pp. 87-100.

39. Angiulli, La pedagogia, lo Stato e la famiglia, op. cit., p. 151.

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mediana di un’istruzione prudente e graduata alle diverse posizio-ni sociali. Si trattava di una soluzione già tracciata dai riformatoripiemontesi e proposta dal De Sanctis tra gli anni ’40 e ’50 e rilan-ciata da personalità non in odore di conservazione e saldamenteconvinti dell’importanza dell’istruzione come, ad esempio, Coppi-no e Gabelli.

In una circolare emanata nel 1887 il ministro che aveva legato ilsuo nome all’obbligo scolastico precisava che

“dalla scuola primaria i figliuoli del popolo debbono ritrarre conoscen-za ed attitudini alla vita reale delle famiglie e de’ luoghi, e conforto arimanere nella condizione sortita dalla natura, anziché incentivo adabbandonarla”

e, a sua volta, il Gabelli annotava che quando la scuola, distoglie-va “dalla condizione sua” l’uomo del popolo, ne faceva “uno spo-stato di più disutile a se stesso e agli altri o un operaio incapace,pretenzioso e malcontento”.40 Alla potenzialità modernizzantedella scuola si associò il suo contenimento entro i confini dellasocietà tradizionale.

La cultura classica, a sua volta, fu concepita – terza conseguenza– come particolarmente coerente con il principio dell’eticità nazio-nale e posta a presidio del nuovo Stato. Di fronte alla mancanza diuna unità culturale nazionale, alla classicità fu assegnato il compitodi riempire il vuoto nel tentativo di portare la complessità dei varilocalismi a punto di coerente fusione intorno a un patrimonio con-diviso di conoscenze e di comportamenti. A dispetto del riconosci-mento del valore e, in non pochi casi dell’esaltazione addirittura,del binomio scienza-progresso, la società e la scuola italiane resta-rono bene ancorate ai canoni della classicità.

Ogni tentativo, anche larvato, di metterne in discussione alcunipresupposti, fu stroncato fin dall’inizio. Quando sul finire deglianni ’80, ad esempio, il ministro Boselli si azzardò a introdurrepochi correttivi modernizzanti all’impianto del ginnasio-liceo (lapossibilità di optare tra greco e matematica all’esame di maturità, lescienze naturali nel ginnasio oltre a disegno e francese come mate-rie facoltative), essi furono immediatamente soppressi dal suo suc-

40. Cit. in G. Bini, Romanzi e realtà di maestri e maestre, in C. Vivanti (ed.), Storiad’Italia. Intellettuali e potere. Annali 4, Torino, Einaudi, 1981, p. 1205.

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cessore, il Villari. La scuola secondaria classica aveva come scopo,secondo un altro ministro, il Baccelli (che era un illustre clinico e,dunque, un uomo che in via di principio non doveva essere insen-sibile alle ragioni della scienza), di “formare uomini e cittadini, nonscienziati”, opinione condivisa anche dalla maggior parte degliintellettuali positivisti.41

Le tesi di quanti (l’economista Gerolamo Boccardo, politicicome Mauro Macchi e Quintino Sella, l’ingegnere GiuseppeColombo, l’industriale Alessandro Rossi) cominciarono a sostene-re la necessità del potenziamento dell’istruzione tecnica e profes-sionale restarono a lungo minoritarie. La “malattia sociale” di cuiaveva parlato il Macchi sul “Politecnico” fin dal 1860 che si sareb-be manifestata “se la maggioranza dei giovani” si fosse avviata versole scuole classiche”42 restò uno spettro senza seguito. E neanche lagrande impressione che suscitò in Italia l’Esposizione internazio-nale di Parigi del 1867 – dove era apparso evidente che i ritardiaccumulati da molti paesi sulla strada dell’industrializzazione stava-no per essere più rapidamente colmati rispetto a quanto accadevain Italia – riuscì a erodere l’egemonia classicista.43

Neppure gli strenui sostenitori dell’utilità delle scuole professio-nali e tecniche, del resto, pensavano a sostituire la cultura classicacon quella scientifica. Il loro scopo era piuttosto quello di evitareche il sistema scolastico si sviluppasse in prevalenza sul versantedegli studi “disinteressati”, sottovalutando l’utilità delle conoscen-ze tecnico-scientifiche. Se si scorrono, ad esempio, i programmidelle scuole tecniche si può facilmente constatare come le discipli-ne scientifiche fossero incastonate entro una robusta cornice lette-raria e storica.44

La classicità fu insomma indiscutibilmente assunta come baseideologica del modello pedagogico liberale e la sua funzione peda-

41. L. Besana, Il concetto e l’ufficio della scienza nella scuola, in G. Micheli (ed.), Sto-ria d’Italia. Scienza e tecnica. Annali 3, Torino, Einaudi, 1980, pp. 1167-1284.

42. M. Macchi, La nuova legge del pubblico insegnamento, in “Il Politecnico”, 1860,pp. 358-359.

43. C.G. Lacaita, Istruzione e sviluppo industriale in Italia. 1859-1914, Firenze,Giunti, 1973, pp. 63-70.

44. Per l’insegnamento della storia ved. A. Ascenzi, Tra educazione etico-civile ecostruzione dell’identità Nazionale. L’insegnamento della storia nelle scuole italiane dell’Ot-tocento, Milano, Vita e pensiero, 2004.

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gogica consistette nell’assicurare una stretta saldatura tra un passa-to illustre e un presente chiamato a rinverdirlo, in una parola trastoria ed etica civile.

La personalità di Giosue Carducci occupò in questo disegno unruolo centrale, convergendo con gli apporti di altri influenti intel-lettuali, dallo stesso De Sanctis a Gabelli e Villari. Ma fu soprattut-to attraverso la poesia classicheggiante del poeta-vate che si compìla “sintesi della componente monarchica, aristocratica e militaredel Risorgimento con quella piccolo-borghese, laica e democrati-co-costituzionale”. Questa sintesi, a sua volta, si incentrò “sullaricerca dell’unità e della grandezza della Patria” e fu giustificata“con un’idea della storia d’Italia di un ‘primato’ di tipo nuovo,laico e nazionale”45 nettamente contrapposto a quello della stagio-ne neoguelfa che in Balbo e in Gioberti aveva trovato i suoi massi-mi interpreti.

Laico, mazziniano, anticlericale, intellettuale di grande presti-gio, Carducci fu l’interprete forse più autorevole dei sentimentidi quella vasta frazione della borghesia risorgimentale, radicale eretorica, “per la quale la poesia ha una funzione surrogatoriavastissima” nel senso di costituire “un aspetto essenziale della for-mazione di un atteggiamento ideale” che serviva a comunicare“nella forma più omogenea possibile concetti, sentimenti, e posi-zioni politiche”.46

La scuola classica rappresentò la via preferenziale non solodella formazione del ceto dirigente, ma anche per quei ceti mediscolarizzati solo fino al traguardo del ginnasio o, nel migliore deicasi, del liceo che rappresentavano l’ossatura della burocrazia edegli impieghi minori.47 Le lingue classiche non solo consentivanodi entrare nell’esemplarità della civiltà greca e romana, ma erano

45. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia. Dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi,1975, vol. iv/2, pp. 949-950.

46. Ibidem, p. 946. 47. D. Ragazzini, Per una storia del liceo, in T. Tomasi (ed.), La scuola secondaria in

Italia (1859-1977), Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 137-245; M. Raicich, Itinerari dellascuola classica dell’Ottocento, in S. Soldani, G. TURI (edd.), Fare gli Italiani. Scuola e cul-tura nell’Italia contemporanea. La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993,pp. 131-170; A. Scotto Di Luzio, Il liceo classico, Bologna, Il Mulino, 1999;E. De Fort, La scuola secondaria e la nazionalizzazione dei ceti medi, in Ballini,Pécout, Scuola e Nazione in Italia e in Francia nell’Ottocento, op. cit., pp. 207-245.

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giudicate indispensabili allo sviluppo della capacità di astrazione ealla costruzione del ragionamento. Così il Villari si esprimeva aquesto proposito:

“Ogni autore latino si legge, si esamina, si spiega, senza lasciare unaparola oscura, nessuna difficoltà non risoluta. Si richiama la storia, lageografia, la mitologia. In tutto ciò sono sempre i giovani che fanno lafatica principale, il professore li accompagna e li guida. Pochi fatti, pocheidee, ma fatti e idee fondamentali, chiari, precisi, detti e ridetti millevolte, fino a che non siano più dimenticabili, direi quasi in tutta la vita”.48

Attraverso la loro perfezione formale latino e greco promuove-vano l’esercizio rigoroso del pensiero e, attraverso questo, stili divita improntati a puntualità, precisione, rigore. Quei metodi anda-vano difesi ed arricchiti contro ogni tentazione di percorrere lascorciatoia delle scuole tecniche viziate da un basso utilitarismo einette a formare “teste pensanti”.

La preferenza per la scuola pubblica classica verso la quale loStato non lesinò risorse – per molto tempo minoritaria rispetto allescuole private, confessionali e comunali, alle quali andava la prefe-renza delle famiglie – si configurò perciò come una battaglia per ilcontrollo dei canali di formazione di quel ceto colto e mediamentecolto sulla base dei valori di laicità e primato dell’interesse pubbli-co. Il crescente peso svolto dallo Stato nell’istruzione secondaria siassociò insomma alla centralità culturale ed etico-politica attribui-ta alla classicità.

6. Il sodalizio Villari-Gabelli

Per disporre di un quadro il più esauriente possibile degli orien-tamenti educativi e delle elaborazioni pedagogiche della temperiepost unitaria dobbiamo ora rivolgere l’attenzione ad alcuni autoriche, pur collocati nel contesto etico-educativo fin qui delineato,introducono tuttavia alcune varianti di cui merita rendere conto:Pasquale Villari e Aristide Gabelli per un verso, Ruggero Bonghi eGiuseppe Allievo per un altro.

48. P. Villari, Nuovi scritti pedagogici, Firenze, Sansoni, 1891, p. 351.

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Non ci si può occupare del Villari senza anche considerare ilGabelli, tanto stretto fu il loro sodalizio professionale a lungo eser-citato nel ministero della P.I., e così vicine le loro analisi sulla real-tà sociale, politica e scolastica. Comune fu il loro punto di vista nelgiudicare il processo unitario, “troppo esteriore e troppo diploma-tico”; condivisa fu la preoccupazione che la “conquistata libertà”potesse avere effetti controversi per l’inadeguato grado di maturitàcivile di ampi strati della popolazione; analoghi i motivi antiretori-ci che sorreggevano i loro discorsi, affidati non alla enunciazione diprincìpi solenni, ma radicati nei fatti, basati sui dati e ordinati conrigore metodologico.

Numerosi anche in campo scolastico furono i loro punti di con-vergenza: lo sguardo europeo con cui continuamente esaminaronola realtà italiana, confrontandola con quella di altri Paesi; l’impor-tanza assegnata alla scuola popolare quale fattore di progressosociale e di integrazione dei ceti subalterni; il sostegno al rinnova-mento dei metodi di insegnamento per contrastare verbalismo emnemonismo; la preoccupazione per una più efficace formazionedegli insegnanti; la tenace difesa dell’istruzione classica concepitacome il modello formativo più adeguato per la preparazione dellaclasse dirigente.49

Villari e Gabelli non furono soltanto accomunati da interessipolitico-scolastici e pedagogici, furono anche abili e competentiuomini d’azione, capaci di esercitare una notevole influenza negliambienti ministeriali ove ricoprirono diversi incarichi fino a quel-lo, nel caso del Villari, di ministro dell’Istruzione agli inizi deglianni ’90. Dunque personalità particolarmente significative per laloro capacità di congiungere studio, impegno politico e azioneamministrativa.

Accanto a tanti motivi comuni o adiacenti, Villari e Gabelli mani-festarono anche sensibilità in parte diverse. Allo studioso napoleta-no, in particolare, dobbiamo uno dei primi – e certamente tra i piùsignificativi – richiami al rapporto tra scuola e “questione sociale”. Ilsaggio, per l’appunto intitolato La scuola e la questione sociale, appar-ve nel 1872 sulle pagine della prestigiosa “Nuova antologia”, nel

49. G. Cives, Pasquale Villari pedagogista scomodo, in J.M. Prellezo (ed.), L’impegnodi educare. Studi in onore di Pietro Braido, Roma, Las, 1991, pp. 41-57.

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vivo delle reazioni ai fatti parigini dell’anno precedente e nel pienodei dibattiti allora in corso sulla laicizzazione scolastica.

Il timore dell’irrompere tumultuoso delle masse sul terreno dellerivendicazioni sociali e della lotta politica e la paura dell’incipientesocialismo sono alla base di uno stato d’animo comune a moltiintellettuali. Quelli più avvertiti (non solo il Villari, ma anche Jaci-ni, Sonnino, Franchetti) furono spinti a una attenta riflessione perevitare quello che Pasquale Turiello nel suo celebre saggio Governoe governati in Italia avrebbe poi paventato come uno “scoppio gran-de dopo tanti indizi sparsi e piccoli”.

Erano ben chiare a questi studiosi le dimensioni spaventose dellapovertà urbana e rurale denunciate in numerose e importantiinchieste. I tentativi d’introdurre un sistema fiscale più equo, diaccrescere la piccola proprietà contadina, una più responsabilecondotta dei datori di lavoro verso i fittavoli o gli operai s’infrange-vano in Parlamento, avversate da potenti lobby di deputati impegna-ti a difendere interessi precostituiti.

Con l’attenzione rivolta alla “questione sociale” (sulla cui impor-tanza ai fini della scolarizzazione aveva già richiamato l’attenzionein uno scritto del 1864 dedicato alla realtà dell’istruzione inglese)50

il Villari introduceva nel tema dell’educazione nazionale, in parti-colare quella rivolta ai ceti popolari, una rilevante variabile perchélo sforzo dell’impresa di formare la “tempra” invocata dal suo mae-stro e amico, il De Sanctis, non fosse un’aspettativa vana.

Anche al futuro ministro l’istruzione appariva il rimedio princi-pale per sollevare il popolo dallo stato di miseria morale e materia-le in cui si trovava abbandonato, ma a condizione che la politicascolastica fosse accompagnata da adeguati interventi orientati amigliorare le condizioni di vita dei ceti popolari. In un passo, spes-so citato, il Villari, nel riferirsi alla realtà di Napoli che ben cono-sceva, così si esprimeva:

“Che volete che faccia dell’alfabeto colui a cui mancano l’aria e la luce,che vive nell’umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlienella pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se ungiorno vi riuscisse d’insegnare a leggere e a scrivere a quella moltitudi-

50. P. Villari, L’istruzione elementare nell’Inghilterra e nella Scozia, Torino, Dal-mazzo, 1864.

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ne, lasciandola nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste unadelle più tremende rivoluzioni sociali. Non è possibile che, compren-dendo il loro stato, restino tranquilli. Ecco dunque un problema socia-le della più alta importanza, messo dinanzi a voi”.51

La crisi sociale era giunta, a suo giudizio, ad un grave punto ditensione: se la borghesia liberale intendeva pre venire e contene-re il moto di rivolta che la miseria del popolo avrebbe, prima opoi, prodotto, si doveva impegnare in una larga opera di giu stiziasociale.

In questo impegno Villari faceva consistere il vero compimentodel risorgimento nazionale.52 La libertà era restata incompleta edoccorreva realizzarla, perseguendo l’unica strada possibile e cioèquella dell’“affrancamento delle plebi dall’abbrutimento”. Eranecessaria un’azione di più vasto re spiro che rendesse il popolo piùautonomo, più consapevole, più atto a mi gliorare col lavoro le pro-prie condizioni di vita. Solo in tal modo, concludeva il Villari, erapossibile formare il carattere degli Italiani e assicurare, al tempostesso, “la dignità e il progresso della Nazione”.

“Voi volete sapere perché la scuola elementare non dà risultati, perchéle scuole secondarie vanno male e, sopra tutto, perché non vi riesce inmodo alcuno d’introdurre una buona disciplina e formare il carattere?Puramente e semplicemente, perché noi manchiamo ai nostri più sacridoveri. Se la classe media si rivolgesse veramente a sollevare i più mise-ri, e stendesse loro una mano pietosa, basterebbe questo fatto solo perrialzare d’un tratto la disciplina morale nel Paese e in tutte le nostrescuole. Voi chiedete ogni giorno, come s’insegna la morale agli alunni;vi stillate il cervello, cercate nei libri, provate i metodi. Io vi dico, chec’è un mezzo solo e semplicissimo d’insegnare la morale, e questo stanel fare una buona azione”.53

A chi poneva innanzi ad ogni passo il modello dell’istruzio netedesca, lo storico napoletano da buon conoscitore dei sistemi sco-lastici europei, ricordava che “la rigenerazione d’un popolo è unvasto problema morale, sociale, intellettuale ad un tempo, e noi

51. P. Villari, La scuola e la questione sociale, in Positivismo pedagogico italiano,op. cit., vol. i, p. 323.

52. P. Villari, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale, Milano 1885.53. Villari, La scuola e la questione sociale, cit., pp. 323-324.

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non possiamo risguardare la scuola come un meccanismo che, tra-sferito da un paese all’altro, porti dappertutto i medesimi resulta-ti”.54 Non era sufficiente limitarsi a copiare “sulla carta le leggi deipopoli che sono più innanzi di noi, e di avere le scuole tedesche,quando ne abbiamo adottato i programmi”, bisognava anche crea-re le condizioni perché “la cultura non si ridesta se non si agitano esi pongono in moto tutte le forze sociali”.55

La conoscenza della nostra realtà scolastica era ancora troppoarretrata: o tutta ideologica o affidata a dati puramente statistici suiquali era impossibile fondare una politica dell’istruzione rispon-dente a bisogni e condizioni diversi.

Sulla esigenza di far convergere ogni sforzo educativo sugli effet-tivi bisogni degli Italiani conveniva anche Aristide Gabelli che del-l’educazione naziona le aveva un concetto molto empirico e pocoideologico.

“Le nostre scuole, osservava nel celebre saggio sul Metodo di insegna-mento del 1880, riusciranno tanto più saviamente ordinate, e tanto piùutili, quanto più sapremo conoscere i nostri bisogni, non solamentecome uomini, ma anche come Nazione, rendendoci conto dei nostridifetti e usandole a rimediarvi”.56

Nel considerare quelli che erano i “nostri bisogni” anche ilGabelli, non meno del Villari, considerava la fragilità di una scuolache doveva convivere con l’indigenza di tanti contesti sociali pove-ri. La povertà e il sovraffollamento delle loro case, le precarie con-dizioni igieniche, il lavoro precoce nei campi, la mancanza non solodi libri e quaderni, ma anche di scarpe e vestiti, la miseria morale ditante famiglie facevano dire allo studioso veneto: “Credesi proprioche tutto questo non abbia alcuna influenza sopra la scuola?”.57

Ma pur con questa precisa consapevolezza, il Gabelli non siesponeva come il Villari nel richiamare la borghesia all’impegnonella questione sociale. La bussola del suo agire coincise piuttosto,come è stato notato, con la convinzione che occorresse “mutare

54. Ibidem, p. 306.55. Ibidem, p. 313. 56. A. Gabelli, Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d’Italia, in Positivismo

pedagogico italiano, op. cit., vol. i, p. 626.57. A. Gabelli, L’istruzione in Italia, con prefazione di Pasquale Villari, Bologna,

Zanichelli, 1903, p. 353.

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gradualmente gli uomini perché le istituzioni [potessero] mutaresenza scosse pericolose”.58 Egli diffida del progresso regolato sol-tanto dalle leggi e dalle riforme politiche e si affida generosamentealla forza dell’educazione e, in particolare, alla scuola come occa-sione di graduale diffusione della ragione e, al tempo stesso, dicomportamenti morali.

L’interesse del Gabelli è dunque tutto rivolto a come renderel’istruzione “educativa” e cioè in che modo conciliare sapere emoralità collettiva:

“Il fine vero delle scuole non è tanto di somministrare nozioni, comeapparisce al volgo, quanto di formare teste e uomini... L’utilità dellascuola viene a dipendere, più dal modo in cui le cose si insegnano, chenon dal numero o dalla qualità delle cose insegnate. Bisogna certamen-te badare anche a queste. Ma il metodo ha una tale influenza indirettasopra la mente, da lasciarvi un segno molto più visibile e, direi quasi,un solco più profondo, che non l’indole particolare di una scienzaquale si voglia considerata per sé medesima”.59

A questo proposito c’è un passo di uno scritto giovanile (apparsosul “Politecnico” nel 1866) che anticipa lucidamente una imposta-zione pedagogica cui il Gabelli restò fedele negli orientamenti suc-cessivi. Il fondamento di una solida educazione viene “dall’assiduoesercizio della riflessione e la riflessione vuole essere adoperatanella ricerca, nell’esame e nel giudizio, non della pietra filosofale odel moto perpetuo, ma semplicemente dei fatti”. L’abitudine aricercare il fondo delle cose, a confrontarsi con la realtà, a rinuncia-re a restare legati ai luoghi comuni o ad abbandonarsi a ipotesi fan-tasiose rappresenta uno stile di vita – o se si preferisce un “metodo”– intrinsecamente etico perché consente di penetrare con luciditàed acutezza nei problemi ed acquistare “quel senso del ragionevolee dell’opportuno” che con il sussidio dell’esperienza non teme lealterne vicende della fortuna.60

58. Così Dina Bertoni Jovine nell’introduzione a A. Gabelli, Educazione e vitasociale. Una antologia degli scritti, Torino, Loescher, 1961, p. xv.

59. A. Gabelli, L’istruzione e l’educazione in Italia, a cura di E. Codignola, Firenze,La Nuova Italia, 1950, p. 137.

60. A. Gabelli, Sulla corrispondenza dell’educazione alla civiltà moderna, in “Il Poli-tecnico”, 1866, poi in L’uomo e le scienze morali, Milano, Brigola librajo-editore, 1869,pp. 139-168.

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È questo il senso della formazione di quella che egli definisce la“testa chiara” e cioè capace

“di riflettere, di orientarsi, di capire e di agire. Poiché una società incui teoricamente è stata proclamata l’uguaglianza di tutte le classi,onde ciascuno ha in sua mano il proprio avvenire, chiamato il cittadinoa parte dei pubblici affari, si richiede una intelligenza proporzionata alpotere, ai diritti e alla libertà”.

Lo scopo della scuola era perciò quello di preparare “gente gio-vine di testa, senza dottrine fossili, senza idee pre concette, prontaad osservare ed esaminare qualunque cosa, aperta a tutte le inven-zioni utili, fiduciosa nella potenza dell’ingegno e del miglioramen-to umano”. Alle scuole si doveva chiedere di “formar uomini... svi-luppando e fortificando tutte le facoltà a tutte le attitudini dallequali dipende il loro valore e soprattutto servire fra noi a formareItaliani”. Gabelli condannava perciò “la smania di parere quelloche non si poteva essere” e consigliava alla classe politi ca “di fare almondo quella parte modesta che non disdice a chi co mincia”.61

Mediante il continuo richiamo alla concretezza e all’osservazio-ne dei fatti il Gabelli si poneva su una posizione in controtendenzarispetto a tanta pubblicistica politica e anche pedagogica coeva. Sipotrebbe così sintetizzare il senso della sua militanza pedagogica:diffidare della retorica e del dogmatismo e agire dal basso, consemplicità, umiltà e perseveranza; non illudersi sulla forza tauma-turgica di leggi, norme, regolamenti, ma puntare a trasformare lecoscienze.

Naturalmente anche il Gabelli condivide l’esigenza di uno Statoche si faccia carico del problema dell’analfabetismo, dell’istruzionepopolare, del miglioramento della condizione dei maestri (in talsenso si possono vedere i contributi apparsi sul giornale magistrale“Il risveglio educativo”),62 ma la sua principale preoccupazione èquella di dar vita a uno stile educativo idoneo a promuovere laforza della rettitudine, il rispetto alla legge, la fermezza di volon-tà;63 a sostenere lo spirito di famiglia e il risparmio, la tenace opero-

61. Cit. in Positivismo pedagogico italiano, op. cit. (nota intr.), vol. i, p. 540.62. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica. 1820-1943, Brescia, La

Scuola, 1997, pp. 548-550.63. Positivismo pedagogico italiano, op. cit., vol. i, pp. 520-523.

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sità, in una pa rola “quell’insieme di idee, di abitudini e disposizio-ni, che hanno per premio immancabile la grandezza di una Nazio-ne”.64

Era insomma ora giunto il tempo, come scriveva con un’efficaceimmagine nel giugno 1874, di smettere “di far i liberali alla france-se per diventare liberali all’inglese”:65 non un liberalismo soltantoideologico, ma un liberalismo pragmatico capace di modificare lasituazione complessiva agendo molecolarmente sulle piccole realtà.

Entro questo orizzonte si svolgono i “ricordi del vecchio Pasqua-le”, uno scritto che il Gabelli lascia inedito e apparso sulla “Nuovaantologia”66 un mese dopo la morte dell’autore, testo che lo studio-so veneto pensava di pubblicare in un libretto a grande tiratura dadistribuire a operai, artigiani, contadini. Il racconto riassume nellafigura del vecchio Pasquale il vivere quotidiano della famiglia conta-dina veneta, racconto metaforico e figurato nel quale si condensa uncostume fatto di parsimonia, di laboriosità, di solidarietà familiare,di rispetto dei valori tradizionali e, in particolare, di quelli religiosi.

Secondo alcuni studiosi i ricordi del vecchio Pasquale documen-terebbero l’involuzione conservatrice dell’ultimo Gabelli, comeforma di reazione verso la retorica velleitaria e nazionalistica di finesecolo. Ma in quell’ultimo scritto è anche possibile rinvenire cospi-cue tracce di quel realismo pratico che sembra essere in ultimaistanza la caratteristica di fondo della sua pedagogia e del suo impe-gno civile. E all’interno di questo realismo si collocano anche, instretta consonanza con il Villari, il suo rispetto per il valore educa-tivo della fede religiosa e la preoccupata avversione delle tesi dellaicismo radicaleggiante.

Vicino per convinzioni personali alle posizioni evangeliche efavorevole a un insegnamento non confessionale, per nulla tenerocon la Chiesa e ben consapevole della pochezza dell’insegnamentoreligioso impartito nella scuola, il Gabelli non si faceva tuttavia tra-scinare nel vortice della polemica anticlericale o irreligiosa. La suaperplessità derivava dalla preoccupazione che la soppressione delcatechismo avrebbe lasciato un vuoto, in specie in un popolo come

64. Ibidem, p. 516.65. Gabelli, L’istruzione in Italia, op. cit., p. 160. 66. A. Gabelli, I ricordi del vecchio Pasquale, in “Nuova antologia”, novembre 1891,

poi anche in apposito fascicolo, Padova, Drucker, 1892.

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quello italiano, che né la scienza positiva né la religione della patriasarebbero state in grado di colmare in breve tempo. Non menoforte era inoltre il timore che senza l’insegnamento religioso lascuola pubblica sarebbe stata boicottata e avrebbe perso alunni.

Così, dopo una lunga disamina il Gabelli concludeva la suariflessione, annotando che “l’insegnamento religioso nelle scuolenon è che un’insegna, ma se da un lato sarebbe pericoloso il levar-la, dall’altro nessuno è in grado di fare il miracolo ch’ella diventitosto qualche cosa di meglio e di più”. Il minor male era perciòquello di lasciare le cose come stavano.

7. Contro lo “Stato educatore”. Bonghi e Allievo

Il tema del rapporto tra fede religiosa, educazione nazionale eformazione dell’italiano trovò in Ruggero Bonghi e GiuseppeAllievo due autorevoli interpreti con opinioni in controtendenzarispetto alle tesi allora prevalenti. Accomunati dalla consuetudinecon il pensiero rosminiano, furono tutti e due convinti che senzaun fondamento religioso la stessa idea di patria fosse una entitàtroppo debole e che allo “Stato educatore” fosse da opporre il prin-cipio dello “Stato regolatore”. Per il resto i loro itinerari intellet-tuali seguirono strade diverse, quella della militanza politica dentroil moderatismo liberale nel primo, quella dell’assorta riflessioneaccademica nel secondo.

Nel liberalismo di Ruggero Bonghi si incrociano la convinzionedel primordiale e primario bisogno religioso dell’uomo come inti-ma manifestazione del suo essere e l’idea romantica della religionecristiana come culla della civiltà europea, tesi entrambe che l’uomopolitico napoletano aveva mutuato nella giovanile frequentazionedi Rosmini, Manzoni, Gustavo Cavour e di cui lasciò testimonian-za nelle Stresiane.

Tale impostazione lo spingeva a insistere sul piano metapoliticodell’esperienza religiosa e della ricerca di Dio quale condizione pri-maria per sfuggire al baratro dell’incredulità e dell’indifferenza:

“Dio non si scaccia dall’umana coscienza, perché è quello che vi ha dipiù profondo nella coscienza stessa... Questo Dio è l’archeo, è il centrodi ogni idealità umana, e l’uomo lo pone dinanzi a sé come la meta sua

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naturale più elevata. Questo è Dio, ed esso si alza nella vostra coscien-za e vi segna la via. E se voi poteste scacciare dalla umana società que-sto Dio, che vi segue dovunque, un immenso buio vi avvolgerebbe, einvano cerchereste di uscirne, in cerca di luce”.67

Se occorreva opporsi alla pretesa della Chiesa di “farsi partito” –con la riduzione della fede a clericalismo – il Bonghi negava tutta-via che la laicissima “religione del dovere” fosse da sola in grado diessere la fede di tutti: il dovere era destinato ad essere “religione dipochi” e anche in questi pochi il “dovere” sarebbe restato “unavoce che parlerà fuori di loro”.

Il pensiero politico del Bonghi si affidava, poi, a un’idea di Statoalquanto distante da quella hegeliana che animava Spaventa e DeSanctis. L’uomo politico napoletano condivideva con il primol’idea che allo Stato si dovesse chiedere il compito di assicurareattraverso una “libertà regolata” l’ordine della società, ma rifiutavadi concepirlo come eticità. Egli preferiva parlarne in termini di“utilità”: il legislatore era tenuto a predisporre soltanto le regolecosì da porre tutte le tesi in campo e i diversi gruppi sociali ingrado di esprimersi. Uno Stato, insomma, non detentore di una suaverità, ma semplice strumento regolatore dell’iniziativa della socie-tà civile: gran parte della “pubblica prosperità” dipendeva infattidal “complesso della cittadinanza”68 e cioè dalla sua capacità diinterpretare i bisogni e risolvere i problemi del tempo.

In coerenza con questa visione statuale “pluralista” il Bonghicontrastò, per esempio, la soppressione delle Facoltà teologicheinsieme a pochi altri liberal-cattolici come Domenico Berti e CarloBon Compagni. La loro conservazione all’interno dell’ordinamen-to universitario era giustificata dal fatto che lo Stato anziché espri-mere una tesi preferenziale fosse tenuto “a dare capo alle credenzepositive di professare nel seno delle Università pubbliche gl’inse-gnamenti che le interessano e che formano, se posso così dire, lasostanza, il vigore intellettuale di ciascuna di esse”.69 Egli si espri-

67. R. Bonghi, Religione, clericalismo e scuole, in N. Del Corno, Libertà, tolleranzae comunità politica. Il liberalismo di Ruggero Bonghi, Milano, Angeli, 2004, p. 187.

68. Cit. ibidem, p. 17. 69. R. Bonghi, Discorsi e saggi sulla Pubblica Istruzione, Firenze, Sansoni, 1876,

vol. i, p. 185.

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meva perciò a favore non solo delle Facoltà teologiche cattoliche,ma anche di quelle di altre confessioni, come la valdese, l’evangeli-ca, l’ebraica.

Intorno a queste coordinate politico-culturali il Bonghi delineòla sua concezione educativa di cui si trova traccia non solo nella suaattività ministeriale (breve, ma intensa, dal 1874 al 1876, l’ultimoesponente della Destra storica al vertice della Minerva), ma anchesoprattutto nel suo impegno parlamentare e nei numerosi scritti inmateria scolastica.

Nel prendere le distanze dall’insegnamento confessionale edichiarando il proprio favore per una scuola laica, il Bonghi fu tut-tavia una delle voci più critiche verso una laicizzazione scolasticache presumesse di fare a meno dell’insegnamento religioso. In par-ticolare egli avversò quanti (in specie i ministri Coppino e Baccel-li) ritenevano possibile una scuola nutrita di soli valori etico-civili.Questa soluzione, a suo giudizio, non solo sarebbe andata contro isentimenti della maggior parte delle famiglie (in questo condivi-dendo le preoccupazioni del Gabelli), ma avrebbe allevato unagenerazione di allievi miscredenti.

Convinto che “né il maestro possa insegnare il catechismo, né ilparroco possa essere chiamato nella scuola a insegnarlo”, in unoscritto del 1874 il Bonghi auspicava che i maestri sapessero comun-que educare il sentimento religioso, curando che “all’alunno siadato nel tempio che la famiglia vuole, in alcune ore della settimana,l’insegnamento della sua credenza da quello che è deputato da cia-scuna Chiesa a farlo”.70 In linea con questa visione plurale dellaquestione, in qualità di ministro della Pubblica Istruzione previdenel disegno di legge per l’istruzione elementare presentato allaCamera il 25 febbraio 1875 che l’insegnamento religioso fosseimpartito per “gli alunni di ciascuna credenza”, dove la chiave delpensiero del Bonghi – e la sua originalità rispetto alle tesi in campoin quegli anni – stava proprio nell’espressione “ciascuna credenza”.

Particolare attenzione riservò alla figura del maestro della scuo-la elementare. A suo giudizio non spettava ai maestri esprimerenella scuola una particolare concezione politica, in aperto dissensoall’opinione molto diffusa nell’opinione magistrale del tempo che

70. Ibidem, p. 435.

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celebrava il maestro come “testimone del progresso”. I maestridovevano invece rispettare le convinzioni delle famiglie e agiresoprattutto come un modello esemplare nella vita della comunità.

A tal fine l’uomo politico napoletano tracciava le condizioninecessarie per disporre di insegnanti ideali:

“Bisogna dargli [al maestro] il desiderio di vivere nel Comune in cui sta,il comodo di affiatarsi colla popolazione colla quale convive, e di pren-dere amore all’ufficio che adempie. Io non so se a questo fine vi sia nullapiù atto del procurare, che il maestro e la maestra comunali sieno delpaese in cui insegnano, ed in questo abbiano, nel più sano luogo delborgo, o del villaggio, una casa alla quale sia attigua la scuola ed il giar-dino di questa e loro. Ove ciò vi sia, ed ogni cosa in questa casetta siapreparata ad una vita decente e raccolta, ed una buona educazione edun’istruzione modesta abbiano preparato il maestro e la maestra all’uf-ficio loro, non servirà, forse, neanche aumentare per legge il minimumpresente degli stipendi, e gioverà meglio, poiché la scelta del maestro èconferita ad un’autorità competente, zelante e specialissima, di lasciarea questa di misurare meglio il compenso al merito e all’opera”.71

Se il Bonghi si affidava, dunque, alla forza educativa di una federeligiosa depurata da ogni tentazione temporalista e alla esemplari-tà dei maestri, la posizione di Giuseppe Allievo – anch’egli favore-vole a uno Stato rispettoso della pluralità sociale – fu segnata daun’analisi ancor più severa del principio dello “Stato educatore”.La contrarietà allo Stato che s’innalzava a “maestro” era congiuntoa una critica radicale tanto dell’hegelismo quanto del positivismo.

Se “a tutta prima hanno sembianza di due dottrine diametral-mente opposte e riluttanti”, di fatto esse erano “fra loro congiun-te da un punto di contatto intimo e profondo”: assoluta immanen-za, realtà come processo e sviluppo, celebrazione della scienza.Negli hegeliani il pedagogista torinese denunciava un soggettivi-smo incapace di coniugare reale e ideale con la riduzione dellarealtà ad idea e, dunque, dell’uomo al solo pensiero; dei positivistilamentava il restare “inchiodati alla nuda cerchia de’ fenomenidisconoscendo di proposito deliberato l’intima sostanzialità del-l’uomo, in cui essi fenomeni contengono la loro norma direttiva ela ragione suprema”.

71. Ibidem, pp. 433-434.

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Un sostanziale punto di convergenza sul piano politico era indi-viduato dall’Allievo nella concezione dello Stato configurato nel-l’una come nell’altra posizione nei termini di

“un gran Dio inesorabile a cui si vuole immolata in olocausto la digni-tà della persona individua, la coscienza religiosa, la libera attività delcittadino, l’indipendenza nazionale, sospirata da tutti i popoli, la caritàmedesima della patria, le stesse franchigie costituzionali. Mostro dallatesta gigantesca e dalle membra nane, lo Stato attrasse a sé tutta la vita-lità della Nazione esinanita dalle distrette economiche e dalla esorbi-tanza dei balzelli, e mutò in angosciosa delusione quelle speranze dilieto avvenire, che sorridevano all’Italia allorché essa si riscattava coninauditi sacrifici dallo straniero oppressore”.72

La coscienza nazionale che aveva fatto lievitare la stagione del-l’indipendenza italiana appariva ormai sopraffatta dall’invadenza“senza misura” dello Stato:

“Dapprima la Nazione era un principio sacro, incrollabile; lo Stato unmutevole accidente: poi i due termini si sconvolsero. I popoli congene-ri e unilingui corsero al fraterno amplesso quasi sospinti da divino furo-re, lottando a morte contro lo straniero che li divideva: premio dellatremenda lotta, un governo autonomo, nazionale. Le nazioni conqui-starono l’indipendenza, il Governo conquistò le nazioni che avevanoaffidato a lui le proprie sorti, e confusa con essa la propria esistenza”.73

La società civile che doveva essere servita dallo Stato ne era cosìasservita. Alla “uniformità monacale di pensare e sentire” l’Allievo,da buon discepolo anche lui del Rosmini, opponeva la natura pro-pria della società quale “consorzio di individualità libere, semoven-ti e personali” la cui conseguenza, sul piano scolastico, era quella diuna organizzazione ispirata al principio della libertà di insegnamen-to. Toccava ai genitori “il supremo diritto sulla scuola”: il maestro discuola non era il “mandatario del Governo i cui voleri abbiano adessere norma suprema per lui”, bensì “un inviato della famiglia” e dicui doveva “prima che dello Stato rispettare gli intendimenti”.74

72. G. Allievo, Lo Stato educatore, Torino, Tip. degli Artigianelli, 1889, poi in Opu-scoli pedagogici, Torino, Tip. del Collegio degli Artigianelli, 1909, p. 55.

73. G. Allievo, La riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato,Torino, Tip. Marino, 1879, poi in Opuscoli pedagogici, op. cit., p. 11.

74. G. Allievo, Lo Stato educatore, cit., p. 69.

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L’Allievo individuava nei valori espressi dalla tradizione cultura-le e pedagogica italiana quale si era sviluppata dall’Umanesimo inpoi il principio educativo chiamato a sorreggere l’educazione degliItaliani. Tradizione che il pedagogista torinese raccoglieva intornoa due principali criteri: “Educazione liberale, perché la personalitàumana non ha la sua sede altrove che nella personalità; educazioneitaliana, perché la personalità umana si concreta nella nostra Nazio-ne sotto una forma singolare determinata”.75

La sua, per così dire, “pedagogia nazionale” prendeva le distan-ze dall’empiria del positivismo pedagogico “esterofilo” e rivendi-cava alla cultura pedagogica italiana una capacità educativa ben piùincisiva in quanto capace non soltanto di “parlare all’intelletto”, maanche “al cuore”:

“La scienza parla alla fredda ragione, ma non al cuore, il quale non sinutre di entità astratte, ma vive di sentimento, di affetto, di realtà. Oggi-dì nell’ordine educativo la scienza ci avviluppa nel suo pesante paluda-mento, ma il cuore non batte più; si medita, si specula, si tortura il pensie-ro, ma non si sente, non si ama: il campo pedagogico mostra sembianza disquallida landa, dove, inaridite le sorgenti dell’affetto, istitutori ed alunnicamminano fra i triboli e le spine senza un’aura vitale che li conforti”.76

Anche l’Allievo, in ultima istanza, pensava all’educazione dell’Ita-liano come a un’educazione volta a “plasmare nel fanciullo il carat-tere dell’uomo”, esito della formazione di un “uomo vero”, del -l’“uomo interiore”, ma anziché principalmente affidarsi alla forzadell’educazione intellettuale (come suggeriva, ad esempio, il Gabel-li), insisteva sulla formazione del sentimento così da congiungereinsieme “i due poli della vita, pensare e operare”. E nella formazio-ne di questo sentimento particolare rilievo era attribuito ai valoriappresi in famiglia e, tra questi, un posto di assoluto rilievo era asse-gnato alla dimensione religiosa.

La presunzione di poter fare a meno del “senso di Dio” era con-siderata la chiave per comprendere le difficoltà entro cui si dibatte-va la scuola italiana del suo tempo.

75. G. Allievo, La riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato,cit., p. 33.

76. G. Allievo, Delle presenti condizioni della Pubblica Istruzione, Torino, Tip. Subal-pina, 1886, poi in Opuscoli pedagogici, op. cit., 1909, p. 480.

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Al tema del carattere approdava anche il Bonghi negli ultimianni della sua attività pubblica, tema al quale dedicò alcune rifles-sioni in due saggi apparsi tra il 1894 e il 1895. Formare il caratterevoleva dire in primo luogo “dar rilievo, aggiungere valore” al sen-timento della libertà personale senza il quale si rischiava di imma-ginare che “l’uomo sia altro che bestia”, mentre l’obiettivo cui ten-dere era invece quello di un ordine cui “ciascuna coscienza puòcreare e conformarvisi”.77 Questo irrinunciabile sentimento andavaa sua volta temperato dal “sentimento del bene”. Ogni filosofia,proseguiva ancora il Bonghi, “che sciupi, che attenui, che abbuiquesti due sentimenti, se pure potesse esser vera, non sarebbe edu-cativa, non sarebbe adatta a formare il carattere”.78

Alle “filosofie debilitanti” – con questa espressione egli si riferi-va alle dottrine fiduciose nell’“indole naturalmente buona dell’uo-mo” – lo studioso napoletano opponeva la “visione cristiana del-l’intelletto e del cuore”. Era questa l’unica in grado di assicurarel’unità di intenti necessaria per creare l’armonia necessaria allaconvergenza di scopi educativi, condizione giudicata primaria eirrinunciabile per la formazione del carattere.79 In questa unitàeducativa – che doveva rivolgersi all’intelletto, al cuore e allavolontà – non era davvero difficile ritrovare il suo debito verso lapedagogia rosminiana.

8. Un’“educazione fisica collettiva e vistosa”

Con espressioni diverse, ma affini – carattere, tempra, testa –uomini dalla differente storia biografica per formazione culturale,tendenze politiche e concezione pedagogica esprimevano l’esigen-za che l’Italiano “bene educato” coincidesse con persona capace di“governarsi da sé” e cioè sobria, responsabile, solidale, rispettosoverso gli altri e verso l’autorità. I libri di lettura per la scuola ele-mentare – e dunque quelli destinati alla totalità degli bambini cheandavano a scuola – costituiscono da questo punto di vista un

77. R. Bonghi, Studi e discorsi intorno alla Pubblica Istruzione, a cura di G. Candelo-ro, Firenze, Le Monnier, 1937, p. 431.

78. Ibidem, p. 426. 79. Ibidem, p. 427.

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osservatorio esemplare. Nella loro semplicità ed essenzialità essidocumentano l’itinerario pedagogico da percorrere per la forma-zione di quel carattere che ricorre con tanta insistenza nelle paginedi intellettuali e uomini di scuola: la forza dei buoni sentimenti,l’esempio di personaggi virtuosi e soprattutto la presentazione del-l’idea di Patria come l’estensione più ampia dell’intreccio dei dirit-ti e dei doveri e dei rapporti sociali sperimentati nel villaggio natìo.

La realtà era tuttavia ben più dura e difficile da governare rispet-to agli sforzi e ai buoni propositi e a quanto si poteva leggere suilibri di pedagogia e ascoltare nei discorsi parlamentari dove spessola retorica patriottica addolciva la durezza dei fatti. Lo ricordavanole numerose indagini che periodicamente si proponevano di resti-tuire attraverso dati statistici e tabelle riassuntive la complessitàdell’Italia scolastica dell’ultimo quarto del secolo. Quanto fossecomplicato non solo educare gli Italiani, ma anche soltanto con-vincerli a inviare i figli a scuola lo dimostrano gli ostacoli incon-trati, per esempio, nell’applicazione della legge sull’istruzioneobbligatoria del 1877, forse lo strumento più forte messo in campodalla classe dirigente liberale per sconfiggere l’analfabetismo.80

Questa difficoltà era una delle tante spie che denunciavano ildistacco profondo che separava la coscienza e l’agire dei gruppidirigenti dalle condizioni sociali dell’Italia. La sterzata conservatri-ce che si verificò in Italia negli ultimi due decenni del secolo cercòdi porvi rimedio, rafforzando il ruolo e la forza dello Stato. Questoorientamento si congiunse all’a spirazione a fare dell’Italia una“grande potenza” a somiglianza delle principali nazioni europeeimpegnate ad ampliare ed a consolidare i propri imperi coloniali eall’intrapresa di una politica economica di tipo protezionistico.

Al verificarsi di tale evento non erano estranee le influenze eser-citate dal fascino di Bismarck e, più in generale, dalla cultura poli-tica te desca come Chabod ha documentato in pagine ormai classi-che,81 ma occorre anche ricordare che, dopo il 1870, il principio dinazionalità si trovò a convivere in Europa in un contesto assaimutato rispetto alla temperie romantica.

80. G. Talamo, Istruzione obbligatoria ed estensione del suffragio, in L. Pazzaglia,R. Sani (edd.), Scuola e società nell’Italia unita. Dalla legge Casati al Centro-sinistra, Bre-scia, La Scuola, 2001, pp. 47-74.

81. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, op. cit., passim.

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La necessità e la lo gica dello sviluppo industriale misero inmoto o, per lo meno, condi zionarono in modo significativo, unprocesso spirituale e politico che, come è stato notato, “modificòprofondamente la concezione della Nazione e generò il nazionali-smo che... non può essere assolutamente guardato soltanto comeuna nuova concezione teorica e pratica dei rappor ti internaziona-li, ma deve essere considerato come un’organica visione di tutta lavita politica”.82

Nell’ottobre 1889 Crispi, presidente del Consiglio da due anni,proclamava la nuova e definitiva costituzione della Nazione che“non era più quella dei plebisciti” (espressione della volontà popo-lare attraverso la quale era stata raggiunta l’unità nazionale) perché“l’esi stenza e l’indipendenza delle nazioni non possono essere sog-gette all’arbitrio dei plebisciti”: l’Italia era Nazione “per dirittonaturale, eter no, immutabile”. In quanto “diritto naturale”, antece-dente il valore degli uomini, la Nazione acquistava anche una fata-lità di movimento in vista di espansioni ed ingrandimenti.

Con lo spostamento dall’interno all’esterno degli interessi nazio-nali la scuola, a sua volta, avrebbe dovuto reorientare le sue finali-tà: non solo combattere l’ignoranza per elevare le plebi, maaumentarne la forza ed educarne il senso del sacrificio per prepa-rarle allo scontro con un nemico esterno. Si trattava di un passag-gio legato a una molteplicità di fattori sui quali merita svolgerequalche approfondimento.

Le riflessioni e le proposte di Pasquale Turiello, secondo lo Cha-bod il primo, consapevole e sistematico teorico del nazionalismoitaliano, proposte nel suo scritto maggiore Governo e governati inItalia (1882) e in altri due saggi degli anni ’90, Saggio sull’educazio-ne nazionale in Italia e La virilità nazionale e le colonie italiane a que-sto riguardo sono assai indicative.

In aperto dissenso verso i sentimenti più diffusi, lo studiosonapoletano manifestava una aperta diffidenza verso la scuola.Nella migliore delle ipotesi, la scuola era in grado di fornire alcu-ni elementi essenziali in ordine all’istruzione, ma poco o nulla inordine all’“educazione”, cioè in fatto di coscienza nazionale epatriottica dei nuovi cittadini, di spirito collettivo, di disciplina,

82. Gaeta, Dalla nazionalità al nazionalismo, cit., p. 36.

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di consenso pronto e indiscusso alle istituzioni dello Stato. In unaparola, così scriveva,

“non abbiamo scuola educativa del corpo né della volontà... Mancanelle nostre scuole, dalle primarie alle universitarie, qualunque organi-smo estrinseco ed appariscente, per cui l’io del giovinetto italiano siaadusato a sentirsi noi. Ora a me sembra che la natura degli italiani siasiffatta che tutta l’educazione civile, e gran parte della educazionemorale debba in loro venire dall’esterno, da ciò che li freni e li deter-mini; più che dall’intimo, che è poi la via che riuscirebbe piuttosto adeccitare e sospingere il loro già prominente individuo”.83

Il Turiello pensava fosse necessario affidarsi a istituzioni educa-tive e politiche alternative alla scuola, capaci di rimediare alleconseguenze di quello che gli sembrava il vizio di fondo dei suoiconnazionali e cioè l’individualismo: istituzioni autoritarie, limi-tatrici delle libertà personali e nello stesso tempo promotrici delrinvigorimento del senso sociale e dell’esercizio del corpo.

In particolare egli guardava all’esercito come a un modelloinsuperabile di educazione nazionale. Quella che con espressio-ne colorita il Turiello definiva “la virilità nazionale”84 era infattistrettamente associata al modello educativo militare e alla suapossibile replicabilità, per lo meno parziale, anche in contestidiversi. Il “carattere sciolto” degli italiani andava imbrigliatoentro una rigida disciplina, l’insubordinazione del singolo o deigruppi doveva essere bloccata dall’organizzazione gerarchica, leviolenze latenti nei ceti popolari sublimate nell’agonismopatriottico e guerriero. L’esercizio dell’ubbidienza era finalizza-to a creare mentalità pronte a ricevere gli ordini e creare il con-senso alla autorità dello Stato incarnata nelle diverse gerarchiesociali.

Si trattava, dunque, non soltanto di rendere obbligatori nellascuola tutti gli esercizi pratici in qualche misura propedeuticiall’educazione militare propriamente detta, ma di promuoverenella vita sociale momenti educativi ispirati al culto del corpo e del-

83. P. Turiello, Governo e governati in Italia, Torino, Einaudi, 1980, p. 249. 84. P. Turiello, La virilità nazionale e le colonie italiane, in “Atti della Reale Acca-

demia delle Scienze morali e politiche di Napoli”, 1899, soprattutto il capitolo“L’educazione nazionale virile”, ora anche in R. Molinelli, Pasquale Turiello. Il pensie-ro politico e un’antologia degli scritti, Urbino, Argalìa, 1988, pp. 177-188.

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l’esercizio fisico attraverso cui interiorizzare sentimenti di parteci-pazione, solidarietà, appartenenza:

“L’esercito, ripeto, non basta a tutti, perché non v’entrano tutti... nébastano le scuole presenti, né le riformabili future. Perché queste, etutta l’educazione morale e fisica della prima età si sciupano qui trop-po spesso pel clima e per mali esempii, senza una educazione vigorosae fisica dell’adolescenza e della gioventù; e per cui si pieghi l’Italianoadulto ad una energia ordinata, agli abiti, poco spontanei in lui, dellacooperazione fida e dello sforzo sostenuto”.85

Lo studioso napoletano pensava nel dettaglio a forme di “educa-zione fisica collettiva e vistosa” e cioè a esercizi paramilitari dacompiere in manifestazioni pubbliche, appariscenti e coreografi-che, tali insomma “da richiamare l’attenzione delle famiglie e deicittadini, da suscitare negli spettatori l’idea e l’entusiasmo di unagioventù disciplinata e forte e perciò di una Patria che in essa ha ilsimbolo della propria coesione interna e della sua futura saldez-za”.86 L’incivilimento del popolo andava insomma affidato più allamobilitazione di emozioni e sentimenti che all’educazione dellefacoltà razionali.

Tanta fiducia nella spettacolarizzazione dell’esercizio fisico emilitare derivava dall’entusiasmo con cui le masse popolari segui-vano l’acrobatismo dei ginnasti e soprattutto le parate militari alpunto da far scrivere a uno dei più vivaci giornali antimilitaristi deltempo, “La pace” di Genova, questa sconsolata considerazione:

“le folle si compiacciono delle riviste militari e non si comprende qualè mai il segreto di questa strana e infantile psicologia del popolo, cheapplaude quegli stessi reparti che domani punteranno le baionette con-tro di lui”.87

Con il suo aspetto corale e civico l’ideale educativo del Turiellosi rifaceva a certe esperienze dell’antichità classica, per esempio ilmodello della legione romana, con la co scrizione militare congiun-

85. P. Turiello, Saggio sull’educazione nazionale in Italia, Napoli, Pierro, 1891,pp. 163-164.

86. P. BEVILACQUA, Introduzione a P. TURIELLO, Governo e governati, op. cit.,p. xxxi.

87. Cit. in G. Oliva, Soldati e ufficiali. L’esercito italiano dal Risorgimento a oggi, Mila-no, Mondadori, p. 5.

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ta ed assimilata a quella scolastica, con il cit tadino pronto a diven-tar soldato. Nell’orizzonte dello studioso napoletano non c’eranol’idea della scienza per la scienza o della scienza intesa come stru-mento ideologi co di lotta contro la religione e neppure un consa-pevole progetto di formazione dei ceti subalterni mediante la forzalavoro. La sua analisi era dominata dall’assillo della coesione e sal-dezza del corpo nazionale, in una parola dall’esigenza di garantire ilperfetto controllo dei governati da parte dei governanti.

Turiello non costituisce una voce isolata. La forza educativa del-l’esercito, la proposta della disciplina militare come esempio ancheper la vita sociale congiunte all’ammirazione dell’educazionenazionale prussiana rappresentano temi ricorrenti non solo nellapubblicistica militare del tempo.

Si tratta del prolungamento di tesi che risalivano alla pedagogiagiacobina il cui ideale democratico del cittadino-soldato era transi-tato attraverso Romagnosi, Cattaneo e Pisacane fino a dibattiti piùrecenti. Questi motivi vengono proposti con maggior forza, in spe-cie dopo il 1870, come voci alternative alle istanze sociali e demo-cratiche nel dibattito sull’educazione degli Italiani. Uno degli inter-preti più significativi di queste istanze – e certamente il più noto – èNiccola Marselli, ex ufficiale borbonico, poi generale nell’esercitoitaliano e segretario per alcuni anni del Ministero della Guerra.

Anche per il Marselli, come per Pasquale Turiello, il serviziomilitare è l’unica esperienza attraverso la quale l’italiano prendepiena coscienza di far parte di una collettività, matura il senso delladisciplina e della gerarchia ed entra in contatto con una memoriastorica esaltante fatta di imprese eroiche e di nobiltà d’animo. Perquesta ragione il generale Marselli si schiera a favore di un eserci-to di popolo con una ferma breve in modo da forgiare il maggiornumero di giovani italiani.

Non il maestro, ma l’ufficiale viene presentato come l’educatorein grado di plasmare il cuore del futuro cittadino:

“L’ufficiale e il suo aiutante, il sottufficiale, hanno a loro disposizione,per riuscire nella missione educatrice, maggiori mezzi del maestro discuola. Il piccolo maestro borghese, poveramente vestito, messo in cat-tedra in una sala, sovente sudicia e buia, dirimpetto a molti monelliimpancati, non può esercitare sull’immaginazione e sul cuore dei gio-vanetti quell’ascendente che nella milizia esercita un superiore, vestito

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coll’uniforme, rispettato, amato e spesso veduto nel pieno imperio delcomando militare”.88

Il Marselli guarda con sospetto all’“ineluttabile diffusione” dellamentalità democratica, vista come potenziale minaccia per la com-pattezza dello Stato e giudicata via privilegiata per il suo indeboli-mento. Come invertire questa tendenza e attrarre le masse popola-ri nell’orizzonte del rispetto della legge e dell’ordine sociale? Mar-selli non ha dubbi: non c’è altra istituzione se non l’esercito ingrado di svolgere a largo raggio quel ruolo di educazione popolareun tempo affidato alla forza della religione e illusoriamente conse-gnato alla scuola.

Se si vuole che i valori della vita militare penetrino nella coscien-za popolare, essi vanno veicolati mediante un paziente metodoeducativo volto non solo a sconfiggere l’ignoranza (mediante leapposite scuole reggimentali) e a irrobustire il corpo (con l’adde-stramento propriamente militare). La “vita del Reggimento” (que-sto il titolo dell’opera più nota del Marselli) è lo specchio ideale,nutrito di esemplarità e di moralità, della società disciplinata,coesa, ricca di ideali.

Negli scritti dell’alto ufficiale si incontrano numerose paginenutrite di una buona conoscenza della psicologia popolare e di unaavvertita sensibilità pedagogica. Egli si sofferma, innanzi tutto, sullemodalità con cui gli ufficiali debbono comportarsi con i subalterni:

“Prima di tutto senza parlar di legnate, senza ingiuriose minacce adogni piè sospinto; poi con un sistema misto, che gli faccia intendere [alsoldato] i suoi doveri, amare la vita militare, e che lo punisca all’occor-renza. Se quella natura un po’ ribelle, ma dignitosa, voi la sottoponetead un regime continuo di prigioni e di consegne, riuscirete forse adammansarla, ma ne farete certo un cattivo soldato e alle volte un biecomalfattore. Conquistate invece l’anima sua con un graduale e pazientesistema educativo e voi ne farete un risoluto soldato... Facile è il primomodo di comandare, difficile il secondo; ma bisogna persuadersi che,piaccia o non piaccia, viviamo in tempi ne’ quali il primo modo è unanacronismo, il secondo una necessità”.89

88. N. Marselli, La vita del Reggimento. Osservazioni e ricordi, Firenze, Barbèra,1889, poi altra edizione Roma, Voghera, 1903 (da cui citiamo), p. 177.

89. Ibidem, p. 181.

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La via più idonea per entrare nei cuori dei soldati non è insom-ma quella dell’autorità dei regolamenti che si traducono in autori-tarismo asettico, bensì quella del paternalismo che sa conveniente-mente miscelare buoni sentimenti e sottomissione.

La dimensione umana dell’ufficiale viene, a sua volta, collocataentro uno scenario nel quale hanno importanza la vita del campo edella caserma, i legami tra camerati, le parate, le uniformi, la rievo-cazione di fatti eroici e la memoria del Reggimento. Tutte espe-rienze capaci di far leva non solo sulla razionalità del soldato (quel-la che il Marselli definisce “la vita intellettuale”), ma anche esoprattutto sulle emozioni e la fantasia, la cui coltivazione vieneposta alla base della formazione morale. Non siamo insomma lon-tani, anche in questo caso, da quella “educazione fisica collettiva evistosa” così cara al Turiello.

Naturalmente Turiello e Marselli non furono gli unici né,tanto meno, i primi a proclamare il significato educativo del-l’esercito e richiamare il valore formativo della ginnastica nel suointreccio con l’addestramento premilitare. Se n’è già parlato nellepagine precedenti a proposito delle proposte dei ministri De San-ctis e Baccelli. L’intreccio tra la potenzialità educativa della vitamilitare e l’educazione degli Italiani trova del resto ampi riscon-tri non soltanto negli scritti delle riviste militari, ma ricorre sianei libri di testo per la scuola elementare sia in una diffusa lette-ratura popolare.

Il servizio di leva, ad esempio, era presentato non soltanto comeun obbligo (“chi non lo adempie è ingrato verso la Patria, come èingrato chi ricusa di soccorrere il padre e la madre che hanno biso-gno di lui”),90 ma come una prova che fortificava il corpo e rende-va saldo il carattere. Tra il fanciullo e l’uomo adulto c’era la severaesperienza della scuola militare, la cui disciplina rappresentava unainsostituibile occasione di crescita morale perché lo rendeva“coraggioso, forte, amatissimo dell’onore e alieno dalle risse, daivizi, dall’infingardia che genera debolezza, corruzione, viltà”.91

90. C. Lessona, Prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino, compilate per le scuo-le elementari, Torino, G.B. Paravia e Comp., 1891, p. 41.

91. A. Alfani, I tre amori del cittadino (la casa, il lavoro, la patria), Firenze, Barbèra,1886, vol. iii, p. 14.

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I soldati erano additati come cittadini esemplari, consapevoli deiloro doveri, forgiati dai disagi e dalle fatiche e soprattutto prontia pagare di persona per la difesa delle “nostre case, delle no-stre mamme, dei nostri babbi, dei nostri vecchi, dei nostri fratelliche essi difendono da valorosi”.92 Dai libri scolastici era esclusa,in genere, l’esaltazione della guerra offensiva: l’esercito era pre-sentato come uno strumento di difesa, di ordine, di aggregazione,di decoro in linea con i sentimenti prevalenti nelle popolazionirurali.

La rivista “Il corriere dell’Esercito” auspicava che ogni anno sispargessero per il paese

“quarantamila [ex coscritti] cittadini esemplari onde ognuno, capo diuna famiglia degna di sé, in pochi anni trasmetta e moltiplichi per unampio giro di parenti, di congiunti, di amici, l’amor di Patria, l’amordel lavoro, il sentimento della dignità nazionale, il culto degli affetti difamiglia, lo spirito militare”.93

Questa sotto molti aspetti irreale e idilliaca concezione della vitamilitare e del compito educativo dell’esercito – che oscurava feno-meni diffusi come diserzione, renitenza alla leva, simulazioni emutilazioni per sfuggire alla ferma – era amplificata su due versan-ti, uno legato alla propaganda dell’esercizio ginnico concepito infunzione premilitare e l’altro alla divulgazione letteraria.

Per quanto riguarda il primo punto, esemplare documento risul-ta un breve ma importante scritto del 1875 di Ernesto Ricardi diNetro, promotore a Torino trent’anni avanti della Società Ginna-stica, primo tentativo di portare la ginnastica fuori della caserma edarle una connotazione civile ed educativa. L’opuscolo, dal titoloemblematico Dell’Educazione nazionale,94 poggiava sul presuppostoche “la potenza di una Nazione dipende essenzialmente dal buon

92. I. Bencivenni, Il libro completo per gli alunni e le alunne della quarta classe ele-mentare, Torino, Tarizzo, 1892, p. 20.

93. Cit. in S. Polenghi, Educazione militare e Stato nazionale nell’Italia ottocentesca,in “Pedagogia e vita”, 1999, n. 1, p. 135.

94. E. Ricardi di Netro, Dell’Educazione nazionale. Considerazioni e proposte, Tori-no, Tip. Subalpina, 1875. Su questo scritto ved. A. Magnanini, La ginnastica e basedella formazione militare del cittadino: “Della Educazione nazionale” di Ernesto Ricardi diNetro, in G. Genovesi (ed.), Formazione nell’Italia unita: strumenti, propaganda, miti,Milano, Angeli, 2002, vol. ii, pp. 70-87.

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assetto della finanza e dalla forza fisica e morale del suo esercito”. Ilbuon legislatore era perciò chiamato “a crescere la forza di questo,senza nuocere alla floridezza di quella”,

“cosa che non si può altrimenti conseguire fuorché incominciandol’educazione militare assai prima dei vent’anni, preparando nella gio-ventù buoni elementi per l’esercito con una appropriata educazione diginnastica, di tiro a segno, di nuoto... L’educazione nazionale incomin-ciar deve fin dalle prime scuole, e crescer grado a grado nelle successi-ve, per venirsi a completare nell’esercito”.95

A trarre vantaggio da una precoce impostazione educativa pre-militare allo scopo di fare “del figlio il soldato” non era soltantol’esercito, ma anche il sodalizio civile. Essa infatti “procurerebbeai robusti figli delle campagne l’agilità, l’ordine, la disciplina, ilsenso del dovere” e “ai giovani studiosi delle città, cioè alla partepiù intelligente e colta, darebbe la forza e l’energia che facilmentele mancano” e, unitamente, “annullerebbe con il tempo la varietàinfinita di coltura e d’incivilimento in cui si trovano le diverse pro-vince italiane”, fissando una meta comune per tutta la gioventùitaliana.96

I programmi scolastici per l’insegnamento della ginnastica sisvolsero a lungo in questo senso, tracciati dalla competenza di Feli-ce Valletti, stretto collaboratore e sodale del Ricardi di Netro.

Quanto alla divulgazione letteraria esiste un’ampia produzione– il cui punto più alto è rappresentato dal De Amicis e dall’Abba –ispirata principalmente all’esercito, alle sue gesta eroiche e alla rie-vocazione della vita dei soldati come nel caso, ad esempio, delleopere del capitano Arturo Olivieri Sangiacomo.

Attraverso questi racconti viene descritta una sorta di secon-da scuola per quanti ne avevano già avuto una e “la scuola” pertutti gli altri. La ruvida scorza dell’ufficiale severo era tempera-ta dai gesti eroici compiuti in battaglia e dalla capacità di com-prensione; la vita di caserma con la sua severa disciplina non erache la proiezione della vita civile fatta di fatica e sudore; lanostalgia della casa era compensata dall’amicizia e dalla solida-rietà tra soldati.

95. Ricardi di Netro, Dell’Educazione nazionale, op. cit., pp. 4-5. 96. Ibidem, p. 9.

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Nel complesso, come è stato notato, una visione interclassista,paternalista, senza slanci militaristi nella quale la coscrizione trova-va piena legittimazione non solo nei termini di un’accettazione ras-segnata di un obbligo che segnava la vita, ma era presentata comeun formidabile strumento che forgiava il carattere del giovane e lofaceva diventare adulto.97 Si trattava di un approccio, sia detto inci-dentalmente, che si sforzava se non proprio di sconfiggere quelloche è stato definito “l’antimilitarismo istintivo” latente nei cetiinferiori, per lo meno puntava a contenere il rifiuto dell’esercitonella coscienza popolare.98

Nonostante alcuni aspetti di adiacenza e una terminologia chein qualche caso si sovrappone, una irriducibile differenza marcavale tesi etico-militariste della ginnastica, la celebrazione dell’eserci-to educatore e le posizioni di un Turiello o di un Marselli. Mentrele prime restavano inquadrate entro una concezione che affidavacomunque e soprattutto alla scuola il compito dell’educazione delcittadino (e, in quanto cittadino, anche formato al suo dovere disoldato), nel secondo caso era manifesta la sfiducia verso la capaci-tà plasmatrice della scuola. Il baricentro era così spostato verso unaconcezione militarizzata dell’educazione.

Non era più la scuola, o per lo meno solo la scuola, ad essereinvestita del compito di principale istituzione educativo-nazionale,ma questo compito era consegnato soprattutto all’esercito.

Anche se sul piano istituzionale questa concezione della forma-zione dell’Italiano non si tradusse in decisioni concrete, essa andòsempre più congiungendosi, in specie a partire dagli anni ’80, allatesi che fosse necessaria la grande prova della guerra per trasfor-mare un popolo senza identità in una Nazione consapevole delproprio destino. Fin dal 1866 il Crispi, a esempio, aveva reclamatoper l’Italia “un battesimo di sangue” come segno della sua grandez-za99 e spesso e volentieri uomini di politici di varia collocazione,

97. L. Ceva, Storia delle forze armate, Torino, Utet Libreria, 1999, p. 81. Ved. ancheP.G. Genovesi, L’esercito, “vera scuola della Nazione”. Aspetti di educazione militare nel-l’Italia liberale, in G. Genovesi (ed.), Formazione nell’Italia unita: strumenti, propagan-da, miti, Milano, Angeli, 2002, vol. iii, pp. 117-134.

98. G. Rochat, G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943,Torino, Einaudi, 1978, pp. 132-133.

99. Cit. in Levra, Fare gli Italiani, op. cit., p. 337.

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giornali e intellettuali riproposero a loro volta, condividendole, lecelebri parole del maresciallo Moltke, il vincitore di Sedan:

“La guerra è un’istituzione di Dio, un principio d’ordine nel mondo; inessa e per essa le più nobili virtù dell’uomo si svolgono, il coraggio, l’ab-negazione, la fedeltà al dovere, l’amore del sacrificio. Senza la guerra, ilmondo cadrebbe in putrefazione e si perderebbe nel materialismo”.

9. La Nazione dei forti

Posizioni come quelle di Turiello e di Marselli erano una tangi-bile testimonianza dell’inquietudine crescente di quella parte dellaclasse dirigente liberale che nell’ultimo scorcio del secolo comin-ciava a interrogarsi sul rapporto tra la borghesia italiana e la moder-nizzazione dei processi sociali. La crisi degli equilibri di classe suiquali poggiava il regime liberale e in particolare la sfida portatadalle nuove forze organizzate cattoliche e socialiste, rilanciarono, aloro volta, talora in modo drammatico, l’irrisolta questione del rap-porto tra gli ordinamenti liberali e il “paese reale”.

Il trasformismo, ovvero l’estenuata mediazione delle varie istan-ze e dei diversi contrasti, sembrava inadeguato a far fronte alle sca-denze del futuro. Il sistema del pragmatismo parlamentare – spes-so sperimentato in modo disinvolto dal Depretis – appariva agliocchi dei contemporanei non soltanto il segno di una mancanza diidentità culturale, ma anche come una vera e propria degenerazio-ne della rappresentanza politica.

L’ascesa di Francesco Crispi al governo (1887), accompagnata daun consenso pressoché plebiscitario, fu vissuta come una svoltaquasi epocale. Il nuovo presidente del Consiglio “col suo passatodi garibaldino convertitosi alla monarchia, con i suoi modi irruen-ti e radicali, con la sua fiducia nel superiore imperio delle leggi e ildisprezzo per gli indugi d’una correttezza formale, sembrò imper-sonificare il riscatto che s’attendeva”.100 Nei progetti dello statistasiciliano, affascinato dal modello di democrazia autoritaria di stam-po bismarckiano, l’azione del governo avrebbe dovuto caratteriz-zarsi per il rafforzamento dello Stato attraverso cui far progredirela “rivoluzione borghese” fino ad allora incompiuta.

100. R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Bologna, Il Mulino, 1979, p. 344.

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L’idea della “borghesia rivoluzionaria” era a sua volta congiuntaalla convinzione che ad essa spettava di rappresentare gli interessidei ceti popolari e di legarli alla causa nazionale. In tal modo Crispisperava di sconfiggere sul loro stesso terreno democrazia radicale esocialismo dei quali era solito additare le matrici non nazionali e lafunzione sociale disgregatrice. Alla fine del 1890 parlò di uno“Stato sociale” basato su una pacificazione “che legasse Stato eclassi operaie nel comune vincolo dell’amore per la patria”.101

Convinto, inoltre, di essere il fedele interprete della volontànazionale, il Crispi concepì il destino dell’Italia come “vocazionealla potenza”, accusando quanti diffidavano della sua politica este-ra di essere nemici della Patria perché volevano un’Italia “debole eimpotente”, “preda ai vincitori”, un’Italia “studio di artisti, museodi antichità, e non una Nazione”.102 Per questo considerò “negato-ri della patria”, alla pari di anarchici e clericali, quanti avrebberovoluto evitare le imprese coloniali e concentrare ogni sforzo nellasoluzione dei problemi interni del Paese.

Per cogliere appieno la temperie di quegli anni in cui l’apparte-nenza alla Nazione fu indissolubilmente associata all’idea di unoStato forte, bisogna richiamare alcuni aspetti della cultura positi-vista che fornirono nuovi strumenti di analisi.

Senza rinunciare alla riflessione storica, letteraria e filosofica,entrarono nel bagaglio culturale di numerosi protagonisti di quel-la stagione anche i dati forniti dalle scienze emergenti come socio-logia, psicologia, economia, antropologia. Questi elementi spessosconfinarono nella certezza che, analogamente a quanto accadevanel mondo della natura, anche per il mondo dell’uomo si sarebbe-ro potuti individuare con appositi procedimenti sperimentali itratti salienti della convivenza umana, dell’evoluzione sociale, deicomportamenti delle masse.

L’estensione delle teorie evoluzioniste darwiniane e spencerianedalle scienze biologiche e naturali alla politica e all’economia, ilben noto fenomeno del “darwinismo sociale”, modificò la conce-zione della Nazione romantica che aveva animato i primi tre quar-ti del secolo.

101. Ibidem, p. 351. 102. Gentile, La Grande Italia, op. cit., p. 52.

112 capitolo secondo

Sempre più ricorrenti furono il richiamo alla storia anche biolo-gica e razziale delle nazioni; l’affermazione della concorrenza tragli uomini come legge immutabile, l’unica in grado di assicurare laselezione naturale e garantire il più forte; la denuncia del pericolodella decadenza causata sia da processi degenerativi interni (comead esempio la corruzione politica) sia soprattutto da minacce ester-ne o stili di vita incompatibili con l’idea di grandezza come l’edoni-smo sfrenato, l’individualismo, il “socialismo del ventre”. Alla pro-fezia lanciata dal Turiello di “una lotta mondiale per la sopravvi-venza” corrispose la convinzione che alcuni popoli erano destinatia decadere mentre altri sarebbero progrediti e cioè quelli capaci diadat tarsi ai cambiamenti.

In questa direzione non venne meno anche l’apporto della peda-gogia. Secondo il De Dominicis, ad esempio, la storia di una Nazio-ne era “fatta dai suoi nervi e dallo stato sano od ammalato del siste-ma nervoso”: da come s’era delineato nel corso dei tempi “dipendo-no, in ultima analisi, le sue glorie ed i suoi avvilimenti, le sue vittoriee le sue sconfitte, la sua caduta irreparabile od il suo risorgimen-to”.103 Chi considerava “coll’occhio della scienza la Natura” non vitrovava “quell’apoteosi di tranquillità e di amore che vi pone l’oc-chio volgare” bensì soltanto una tragica lotta per la sopravvivenza:

“Dal filo d’erba all’uomo tutto lotta. Lottano l’un l’altro i popoli, percontendersi i mezzi di sostentamento, per i loro sentimenti, le loroidee strettamente associate al complesso della loro storica esistenza. E,come fra tutti gli organismi, così anche fra i popoli sopravvivono imeglio adatti; e questi, conferendo, per l’eredità, ai loro generati i van-taggi ottenuti, si rendono capaci di maggiori progressi per rispetto adaltri, o anche di egemonia”.104

Altri esempi potrebbero rafforzare le tesi del De Dominicis. Maè soprattutto attraverso i libri di testo che si può cogliere il cambiodi prospettiva.

Nell’ultimo scorcio del secolo la celebrazione della Patria italia-na si associò alla presentazione dell’Europa come il continente cheper sviluppo civile, culturale, economico ed anche morale era supe-

103. F.S. De Dominicis, La pedagogia e il darwinismo, Napoli, Jovene, 1879 ora inPositivismo pedagogico italiano, a cura di R. Tisato, Torino, Utet, 1976, vol. ii, p. 915.

104. Ibidem, p. 919.

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riore agli altri e, dunque, in dovere di civilizzare quelle parti delmondo abitate da popolazioni giudicate barbare, selvagge, rozze,idolatre. Il modello antropologico era quello dell’uomo bianco:attivo, industrioso, laborioso, oltre che moralmente non corrotto,delineato secondo il canone settecentesco dell’antropologo tedescoJohann Friedrich Blumenbach, considerato il padre del razzismoscientifico e della craniologia.

Tra le confessioni religiose, il cristianesimo veniva descrittacome la religione dell’incivilimento e della carità. Gli Europeirisultavano infine più progrediti anche nella vita politica e sociale adifferenza delle “etnie selvagge” organizzate in associazioni primi-tive, quali tribù e clan, e fornite di mezzi di sussistenza, abbiglia-menti e dimore che ricordavano il modo di vivere che le genti“civili” avevano avuto nei tempi preistorici.105

Fu per l’appunto su queste basi che prese fisionomia l’ideologianazionalista intrisa di volontà espansionistica e sintesi di biologiaed economia. Biologico era il richiamo al senso della “vitalità di unpopolo”, economico l’incitamento a realizzare una “civiltà indu-striale”, sintesi superiore dei contrasti tra borghesia e proletariatonel vincolo elementare di solidarietà nazionale.

Ad una concezione della Nazione tutta in interiore homine furonogiustapposti altri motivi che poneva no il fondamento del principiodi nazionalità in un dato oggettivo “a priori”, preesistente allacoscienza ed alla volontà dei singoli. Veniva così legittimata unapolitica non solo di forza, ma di conquista con il mutare lento, masostanziale, dei princìpi sui quali era stata co struita l’unità italiana.Si realizzava in sostanza il graduale passaggio dalla nazionalitàmaz ziniana al nazionalismo filo prussiano.

Non fu perciò casuale se nell’imperialismo si cominciò a vedere“il punto di arrivo di un’etica laica e terrena” chiamata a potenzia-re nell’uomo “l’attività e la lotta”, riuscendo in tal modo “a conci-liare le contraddittorie tendenze verso l’utile e l’ideale, verso lanazionalità e il mito, verso il determinismo storico e verso l’attivi-smo positivo”.106

105. G. Chiosso, “Formar l’uomo eminentemente morale e abile”. Il libro di letturadopo l’Unità, in “Esperienze letterarie”, 2010, n. 3, pp. 17-34.

106. C. Cesa, Tardo positivismo, antipositivismo, nazionalismo, in La cultura italianatra ’800 e ’900, op. cit., pp. 95-96.

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10. L’italiano di fine secolo

Le inquietudini nazionalistiche e le aspirazioni espansionistichesi riflessero ovviamente sul modo di concepire in generale la for-mazione dell’Italiano e, più in dettaglio, in alcuni importanti aspet-ti della scuola italiana, anche se l’ambito dell’istruzione fu in prati-ca l’unico a non essere interessato da Crispi a una vera e propriariforma complessiva.107

Si rafforzò la convinzione, peraltro mai venuta meno, di pensarein modo distinto all’educazione del “popolo consapevole”, e cioèla borghesia, da quella delle “plebi” ancora “imbozzolate in un’ot-tusa animalità” le cui menti erano “viziate dalla mezza ignoranza” edi cuori “deturpati dalla invidia e dalla ingratitudine”.108 Di frontealla mancanza di un reale amalgama nazionale e all’impotenzamanifesta dei tanti appelli all’educazione del carattere, si fece stra-da un’altra tesi: quella di un massiccio ricorso ai valori patriottici eparamilitari promossi mediante un’oculata regìa.

Il primo passaggio fu quello di mutare il modo di concepire ilsentimento nazionale: esso era stato creato in età romantica soprat-tutto da poeti, scrittori e pensatori ed era per lo più restato, per unverso, nell’orizzonte della letteratura e della filosofia e, per l’altro,proposto come un ideale etico.

Si trattava ora di darvi consistenza e concretezza: l’esortazionefoscoliana “alle istorie” fu perciò riproposta come invito a far rivi-vere, in una specie di immedesimazione presente-passato, la gloriae la poten za dell’Impero romano, ad esaltare l’espansione dellerepubbliche mari nare in Oriente, a celebrare la “rustica virtù” degliuomini dei Comu ni.

Carducci, il “vate della Terza Italia”, ed Oriani, l’interprete deisen timenti di italianità repressi, rappresentarono più d’ogni altroquello che avrebbe dovuto essere il nuovo sentimento nazionalericondotto alla categoria di “italianità” destinata di qui in poi agrande fortuna e a durare a lungo. La Roma im periale e le flotte di

107. E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia dall’unità a oggi, Tori-no, Einaudi, 1976, vol. iv/3, p. 1758.

108. Levra, Fare gli Italiani, op. cit., p. 341.

quale educazione per quali italiani? 115

Genova e Venezia, Alberto da Giussano e la batta glia di Lepantofurono motivi variamente presentati, ma accomunati dall’auspiciodi un Mediterraneo per la terza volta italiano.

Oriani celebrava nel romanzo Fino a Dogali109 la continuità idea-le tra la bandiera italiana e le antiche aquile romane:

“II popolo sentì... la grande ora quando fremente d’inesprimibile emo-zione si accalcò sul porto salutando con epico orgoglio i soldati chetornavano in Africa. Sì, tornavano in Africa, perché da tremila annidurava la lotta fra l’A frica e l’Italia e l’Italia vi aveva vinto Annibale,imprigionato Giugurta, sottomessi i Tolomei, vinti i Saraceni, dissipa-ti i Barbareschi; per ché l’Italia, altra volta sintetizzando tutta l’Europae profetandone l’av venire, vi si era battuta contro tutto lo sforzo del-l’Oriente ed aveva vinto”.110

Il mito della Terza Roma, a sua volta, fu simmetrico a quellodella Terza Italia. La “grandezza della nuova Roma” era “qualchecosa d’identico alla grandezza di tutta l’Italia, era una nuova gran-dezza che derivava a Roma dall’essere emblema dell’unità naziona-le”.111 Alla celebrazione delle glorie del passato si associò il propo-sito di fare di Roma il centro della modernità, il simbolo dellademocrazia e della libertà contro l’oscurantismo del Papato.

Roma funziona insomma come “una immagine-calamita” intor-no a cui si aggregano “riferimenti alla memoria storica e al senti-mento collettivo di un’antica grandezza”, imponendosi come unsimbolo vincente.112 E se l’antica Roma manifestava tutta la suagrandezza nei resti maestosi del passato, nella nuova Roma si pote-va trovare la fierezza non solo di una capitale, ma di una città cheambiva a proporsi come esaltazione della modernità e di un futurogià in marcia.

109. A. Oriani, Fino a Dogali, Milano, Libreria Galli, 1889.110. Ibidem, p. 394.111. Gentile, La Grande Italia, op. cit., p. 48. Ved. anche A. Caracciolo, Roma

capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Roma, Rinascita, 1956 e su Roma“città universale” in quanto sede del Papato, A. Zambarbieri, Roma, “Romanitas”:un’ecclesiologia della visibilità e dell’autorità nel secondo Ottocento, in Id., I cattolici e lo statoliberale nell’età di Leone XIII, Venezia, Istituto veneto di Scienze, Lettere e Arti, 2008,pp. 69-118.

112. I. Porciani, Stato e Nazione: l’immagine debole dell’Italia, in Soldani, Turi,Fare gli Italiani, op. cit., p. 424.

116 capitolo secondo

Alla “Roma italiana” si doveva guardare come a “un faro di civil-tà”, centro universale del libero pensiero e della scienza, simbolo –in una parola – di emancipazione dell’umanità. Proprio questa èl’immagine della capitale promossa, ad esempio, dalla EsposizioneGenerale Italiana di Torino del 1884 ove le statistiche sanitarie equelle scolastiche, il nuovo assetto urbanistico della città, le gigan-tografie dei lavori in corso documentano la modernizzazione delsecolare volto della Città eterna.113

Se questi propositi animavano il dibattito tra le élites politiche eculturali e in certa misura erano condivisi anche dagli strati delpopolo-borghesia, risultavano però alquanto estranei alle “plebi”.Tra queste esercitavano maggior fascino, almeno in alcune regioniitaliane, i richiami dell’anarchia e del primo socialismo. Poco piùche un pio desiderio era, poi, quanto si leggeva dei programmi perle classi elementari del 1894 là dove si preconizzava “il compiacer-si spontaneo del fanciullo sentendo di appartenere a una Nazionestimata e potente che da Roma trasse auspici di unità e grandezza”.

Fu soprattutto perciò sulle plebi incolte che si concentrò unamassiccia opera di divulgazione della grandezza dell’Italia nei ter-mini di un vero e proprio culto laico, ordinato intorno a una tradi-zione semplice e facilmente comprensibile. Si trattava, in sostanza,del compiersi di quanto era andato a lungo auspicando e propo-nendo il De Sanctis. Ma anziché guardarla, come aveva suggeritonella sua Storia della letteratura italiana, come espressione di unmoto di cultura di lunga durata e di rinnovamento ideale, fu ridut-tivamente identificata in un Risorgimento mitizzato e reinterpreta-to nei termini di una vera e propria epopea.

Un importante segnale in tal senso giunse dai programmi scola-stici di storia che si susseguirono dal 1888 fino, in pratica, alloscoppio della Grande Guerra e il cui primo e decisivo impulsovenne dalle iniziative intraprese da Paolo Boselli ministro del-l’Istruzione con Crispi dal 1888 al 1891. Il ruolo assegnato all’inse-gnamento della storia passava da una concezione etica (la storiaintesa soprattutto come una palestra di exempla attraverso cui for-mare l’uomo considerato nei suoi lineamenti eterni) a una conce-zione politica e cioè l’uomo visto come parte di una comunità e, al

113. B. Tobia, Una patria per gli Italiani, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 89.

quale educazione per quali italiani? 117

pari di essa, immerso nella storia, scelta che assegnava alla storiacontemporanea una particolare rilevanza.114

La storia contemporanea fece per la prima volta la sua comparsanei programmi per la scuola elementare del 1888 della terza classe:non si potevano prosciogliere dall’obbligo gli allievi senza cheavessero acquisito la conoscenza dei “passi principali riguardanti laformazione del Regno d’Italia”.

Modifiche sostanziali furono inoltre apportate ai precedenti pro-grammi di storia dell’istruzione classica. Mediante la redistribuzio-ne della scansione cronologica degli argomenti, si fece in modo chenell’ultimo anno del liceo fossero affrontati anche gli eventi traRestaurazione e Unità fino “alla morte del primo re d’Italia”. Nel1891 i nuovi programmi per le scuole normali, a loro volta, invita-vano a un esame “alquanto più particolareggiato avvicinandosi aifatti nostri”, invito rafforzato nel 1895 (ministro Baccelli) con laraccomandazione di insistere su “le prime manifestazioni, i progres-si, le vittorie del sentimento nazionale” in modo che i maestri nullaignorassero “di quanto giova a far conoscere e amare la Patria”.

Tali scelte corrispondevano, come è stato notato, alle ripetuterichieste provenienti da più parti (ma con un’insistenza prevalen-te dai settori della democrazia risorgimentale) “perché si togliessela scuola dal polveroso limbo in cui era stata relegata” e se nefacesse il principale strumento di formazione della coscienzanazionale secondo “l’alito dei nuovi tempi” così da fornire model-li ed esempi indispensabili “alla morale e civile educazione dellagioventù”.115

Anche l’approccio allo studio della conoscenza dell’Italia e deisuoi rapporti con altri Paesi fu caricato a fine secolo di nuovisignificati. Fin dall’indomani dell’Unità si erano moltiplicati glisforzi per promuovere la conoscenza anche nella scuola del nuovoStato attraverso la diffusione di carte geografiche e il ricorso adapposite letture, in specie poesie facilmente memorizzabili (la piùcelebre delle quali è certamente Lo Stivale del Giusti). La partico-lare riconoscibilità della forma geografica della penisola – per l’ap-

114. S. Soldani, Il Risorgimento a scuola: incertezze dello Stato e lenta formazione di unpubblico di lettori, in E. Dirani (ed.), Alfredo Oriani e la cultura del suo tempo, Ravenna,Longo, 1985, p. 148.

115. Ibidem, pp. 153-154.

118 capitolo secondo

punto la forma “a stivale” – divenne sempre più familiare tra Ottoe Novecento non solo nei libri scolastici, ma anche sulle paginedei giornali e delle riviste illustrate, nelle cartoline, sui manifestipubblicitari.116

Soltanto però con i programmi del 1888 lo studio della geogra-fia nazionale – fino ad allora circoscritto nei libri di lettura – diven-ne una disciplina specifica nella scuola elementare e associatoall’uso didattico della carta geografica. Gli alunni erano invitati allasua costruzione, partendo da semplici esercizi di misurazione delbanco per arrivare alla pianta della classe, della piazza, del quartie-re o del paese. La geografia acquistò maggiori spazi inoltre nellescuole secondarie e nell’Università. In quest’ultimo caso lo scopoera quello di preparare insegnanti in una disciplina ritenuta fonda-mentale per sostenere l’unità e l’identità dello Stato-Nazione.117

Accanto al processo di educazione nazionale attraverso la geo-grafia (che si avvalse anche di opere di larga circolazione popolarecome, per citare due soli fortunati esempi, Il bel Paese dell’abateStoppani e la serie delle Cento città d’Italia), cominciò a manifestar-si una geografia dai toni più o meno accesamente nazionalistici.Essa, d’un lato, rivendicò un ruolo adeguato all’Italia nel noverodelle principali potenze del tempo e dall’altro, si collegò ai proget-ti di espansione economica e coloniale in terre d’Oltremare come,fin dal 1873, aveva auspicato l’ex ministro Cesare Correnti con lateoria della predestinazione geografica italiana per la redenzionedel continente africano.118

Al nome del ministro Baccelli sono riconducibili due altri prov-vedimenti degli anni crispini: i nuovi programmi di ginnastica del1893 e la revisione, l’anno successivo, di quelli per la scuola ele-mentare che pure avevano visto la luce soltanto pochi anni prima.

Alla notevole innovazione sul piano metodologico e dei conte-nuti dell’insegnamento ginnastico che avrebbe dovuto promuovere

116. M.L. Sturani, “I giusti confini dell’Italia”. La rappresentazione cartografica dellaNazione, in “Contemporanea”, 1988, n. 3, p. 430.

117. Ibidem, p. 435. Sul valore politico e pedagogico della carta geografica ved.anche G. Pécout, La carta d’Italia nella pedagogia politica del Risorgimento, A.M. Banti,R. Bizzocchi (edd.), Immagini della Nazione nell’Italia del Risorgimento, Roma, Caroc-ci, 2002, pp. 69-87.

118. L. Gambi, Una geografia per la storia, Torino, Einaudi, 1973, p. 15.

quale educazione per quali italiani? 119

una completa “educazione fisica” (e non solo ginnica) anchemediante i giochi e la pratica igienica giudicati rimedi indispensa-bili contro “la decadenza fisica della Nazione”, corrispose il raffor-zamento della convinzione che l’esercizio fisico scolastico dovessecomunque essere funzionale alla formazione del cittadino-soldato.

Nella relazione della Commissione incaricata di elaborare i pro-grammi per i vari tipi di scuola si potevano infatti leggere – quasi anaturale conclusione e giustificazione dei cambiamenti proposti –queste considerazioni:

“L’educazione fisica potrà accompagnare ogni generazione dall’infan-zia all’età matura; allora si formeranno cittadini sani, forti, coraggiosi,e l’avere i migliori soldati sarà il meno perché si ridurranno ad essertali con poco tempo quanto occorre per imparare il maneggio dellearmi, il tiro a segno e la disciplina militare e la ferma potrà quindi esserridotta al minimo tempo, con massimo vantaggio della produzione edell’erario”119

unite alla raccomandazione di non avvalersi, nella formazione degliinsegnanti, di “sottufficiali deficienti di coltura e stanchi della vitamilitare, ma come in Prussia e in Iscozia, gli ufficiali che sarannopoi i migliori maestri delle palestre nelle caserme”.

Tesi certamente non nuove, ma che nel clima fin de siècle furonoben presto inclinate verso la “disciplina militaristica e nazionalisti-ca del corpo”120 e che sembravano concordare proprio con gliauspici del Turiello. Il ministro Baccelli, per parte sua, vi si rico-nobbe in perfetta linea di continuità con la sua proposta di forma-zione del cittadino-soldato avanzata, come abbiamo visto, qualcheanno prima e rilanciata in una celebre conferenza tenuta nel 1897presso la Società ginnastica di Roma dall’emblematico titolo Edu-cazione nazionale ed esercito.121

Una ginnastica ben più inquietante di quella che – sia detto inci-dentalmente – in quegli stessi anni offriva al De Amicis lo spunto

119. Il testo della relazione finale prodotta dalla Commissione ministeriale presie-duta dal senatore Francesco Todaro in P. Viotto (ed.), Storia antologica dell’educazio-ne fisica in Italia. Testi, leggi, istituzioni, Milano, Vita e pensiero, 1983, pp. 227-235 (ilpasso citato alle pp. 234-235).

120. Bonetta, Corpo e Nazione, op. cit., pp. 167-180. 121. G. Baccelli, Educazione nazionale ed esercito. Conferenza, Roma, Voghera,

1897.

120 capitolo secondo

per il suo garbato e ironico romanzo Amore e ginnastica la cui flori-da protagonista, “larga di spalle e stretta di cintura”, niente affattoincline ai sentimentalismi, si esercitava in acrobazie ed era tuttapresa dalla diffusione tra i ragazzi della ginnastica educativa,“scienza capace di rigenerare il mondo”.

Nel 1894 lo stesso Baccelli provvide alla revisione dei program-mi per la scuola elementare emanati nel 1888 sotto la direzione delGabelli, programmi giudicati troppo ambiziosi, che i maestri sten-tavano a mettere in pratica. Gli studiosi che hanno esplorato leragioni di questa repentina riscrittura dei programmi hanno richia-mato l’attenzione soprattutto sul concetto ispiratore raccolto nellaformula “istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può” esugli accenti nazionalistici assenti nell’impostazione gabelliana.

C’è tuttavia un altro aspetto del provvedimento siglato dal Bac-celli che riflette esemplarmente le preoccupazioni e, al tempo stes-so, i propositi della classe dirigente ed è la nota posta immediata-mente dopo le Istruzioni generali riguardante “l’educazione morale”e la “disciplina”. Si trattava della risposta alle numerose criticheche accompagnavano, anche in ambienti e personalità non sospet-te di conservatorismo, la vita scolastica del tempo alla quale si rim-proverava di non essere abbastanza “educativa”, di troppo coltiva-re le ambizioni di un’istruzione superiore a quella necessaria perl’espletamento delle necessità quotidiane, fino ad addebitare allascuola la responsabilità dell’aumentato numero dei reati.

Il richiamo alla “disciplina” era associato all’autorità incarnata nelmaestro, entrambi presentati come strumenti privilegiati per una vitaordinata, obbligante, rispettosa dei doveri. Non è difficile stabilireun rapporto tra questa concezione pedagogica (l’autorità vista come“pienezza del potere disciplinare”) e la prospettiva di quella societàorganica, forte e ordinata al suo interno, condizione prima per potersvolgere una politica attiva sul piano internazionale.

Un terzo ambito della politica scolastica in linea con l’espansioni-smo crispino fu infine rappresentato dall’organizzazione e diffusio-ne delle scuole italiane all’estero, specie nel bacino mediter raneo.Fin dagli inizi del suo governo Crispi le avocò alla competenzadello Stato, imprimendo loro vigoroso impulso e fondando opotenzian do nuovi istituti dove i nuclei nazionali o gli interessi ita-liani giustificavano o sollecitavano l’opera della scuola. La prima

quale educazione per quali italiani? 121

legge sulle scuole italiane all’estero risale all’8 dicembre 1889, altempo del primo gabinetto Crispi, governo nel quale lo statistasiciliano ricopriva anche l’incarico di ministro degli Affari esteri.

L’apertura delle scuole italiane all’estero risaliva all’indomanidell’Unità; per lo più dislocate nel bacino del Mediterraneo, eranoorganizzate in “scuole governative” e in “scuole sussidiate” e cioèprivate, ma sostenute dal governo, molte delle quali promosse dalmondo missionario cattolico. Mentre le prime erano in generelegate alla presenza di Italiani che operavano in varie regioni delMediterraneo per ragioni economiche e culturali, le seconde simoltiplicarono in relazione ai processi emigratori che interessaro-no soprattutto le Americhe.

L’obiettivo dello statista siciliano era quello di preparare e soste-nere la politica di espansione economica e di penetrazione colonia-le o, più semplicemente, l’influenza italiana con la presenza dellacultura e della lingua nazionale in concorrenza, d’un lato, con l’ef-ficace e raziona le rete scolastica francese ed inglese e, dall’altro,ponendo le condizio ni per l’espansionismo diplomatico e milita-re.122 Le scuole italiane all’estero dovevano perciò essere “focolaridi educazione nazionale e di sentimento patrio”, poste sotto ladirezione e il controllo dello Stato e finalizzate non solo alla sem-plice istruzione degli emigranti e dei loro figli, ma piegate nelsenso di un esplicito significato politico.

Fissato questo quadro, fu quasi fatale il contrasto tra le scuolegovernative, quelle confessionali e quelle di origine filantropica(spesso di ispirazione mazziniana) che perseguivano intenti educa-tivi indipendenti dai progetti politici crispini e che il personalediplomatico, spesso invano, si sforzava di tenere sotto controllo. Lastragrande maggioranza dei finanziamenti si riversò perciò sulleprime mentre alle altre andarono “sempre cifre miserabili rispettoalle loro cospicue esigenze” e all’azione sociale e spesso anche diassistenza che svolgevano nei confronti degli emigranti.123 Non

122. B. Rinaldi, Contro la decadenza delle scuole italiane all’estero, in “Rivista Peda-gogica”, 1912, pp. 435-438. Ved. anche G. Floriani, Scuole italiane all’estero. Centoanni di storia, Roma, Armando, 1974 e, più recentemente, P. Salvetti, Le scuole italia-ne all’estero, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (edd.), Storia dell’emi-grazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, pp. 535-549.

123. P. Salvetti, Le scuole italiane all’estero, cit., p. 538.

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solo, ma l’iniziativa governativa si orientò in prevalenza non versole aree di oggettivo bisogno (e cioè quelle dove si concentrava lamaggior parte degli emigranti, come ad esempio l’America delSud), ma in quelle di più rilevante interesse politico ed espansioni-stico come l’Africa e l’Oriente.

Gli obiettivi delle scuole italiane all’estero furono, a loro volta,sostenute dall’azione collaterale della Società Dante Alighieri, fon-data nel 1889 tra i cui fini statutari rientravano la diffusione dellalingua e della cultura italiana, l’apertura di scuole e biblioteche inaccordo con il ministeri della Pubblica Istruzione e degli Esteri.124

Quando, dopo la scon fitta di Adua, il 1° marzo 1896, tramontòil primo sogno di grandezza dell’Italia coltivato e perseguito neicenacoli nazionalisti, anche l’interesse per le scuole italianeall’estero si affievolì: con il ministero Di Rudinì (1896-1898) siprocedette al loro sfoltimento e al passaggio di numerose scuolegovernative a ordini religiosi. La questione tuttavia non si chiuse,ma fu posta soltanto in parentesi. Allorché, sul finire del primodecennio del nuovo se colo, riprese la politica di espansione colo-niale con il capitolo dell’im presa libica (1911-1912), anche il pro-blema della presenza scolastica all’estero riprese vigore nel quadropiù generale dell’influenza della cul tura italiana nel Mediterraneoe nel Medio Oriente.125

In conclusione possiamo dire che nell’ultimo scorcio dell’Otto-cento l’educazione degli Italiani fu percorsa dal superamento delprincipio etico-volontaristico che l’aveva sostenuta in precedenza econcepita in modo subalterno ai progetti nazionalistici che si mani-festarono con particolare vigore in coincidenza con l’affermarsi delprimo imperialismo italiano.

Il movimento peda gogico e sociale per l’educazione nazionalenon sfuggì, dunque, alle oscillazioni del progetto politico dellasocietà organica che trovò le sue ragioni di coesione ora nella ricer-ca dell’attenuazione dei conflitti (eco nomici e sociali) ora nell’in-

124. B. Pisa, Nazione e politica nella Società Dante Alighieri, Roma, Bonacci, 1995;P. Salvetti, Immagine nazionale ed emigrazione nella Società Dante Alighieri, Roma,Bonacci, 1995.

125. L’intero settore fu poi disciplinato dalla legge 18 dicembre 1910 (cosiddetta“legge Tittoni” dal nome del ministro degli Esteri che la promosse), alla vigilia, dun-que, dell’impresa libica.

quale educazione per quali italiani? 123

tento di risolvere le proprie contraddizioni con una politica autori-taria e conservatrice all’interno e di espansione all’esterno. Si trat-tò di un disegno culturale e politico che, mentre av vertiva l’esigen-za dell’integrazione delle masse popolari nella vita na zionale (supe-rando in tal modo gli orizzonti limitati di metà secolo), si risolsetuttavia, per lo più, in imposizioni di valori, di idee poli tiche, di lin-guaggi, di impostazioni teoriche.

Ai limiti dell’ispirazione educativo-nazionale dell’ultimo Otto-cento non supplì il connubio con la pedagogia positivista che nonfu mai in grado di oltrepassare il principio del puro e sempliceadattamento e dell’utilità sociale, in linea con una concezione chepiù che all’uomo faceva appello alla forza modificatrice delle strut-ture sociali e della scienza. Alla fine del secolo l’acuirsi dei conflit-ti sociali e l’esplodere delle violenze politiche con il regicidio diUmberto I nel 1900 sem brarono documentare la debolezza delprogetto pedagogico nazionale fino a quel punto perseguito.

Il nuovo clima culturale dei primi anni del Novecento e la rein-terpretazione dei valori nazionali in senso volontaristico e ideali-stico che lo accompagnò, innervarono con nuove motivazioni ipropositi di educazione nazionale che vissero un’altra significativaed importante stagione prima e dopo la Grande Guerra.

Capitolo terzo

I cattolici e l’educazione popolare.L’esperienza dei Salesiani

1. “Il pane dell’anima è la verità”

Nel vivo della discussione sull’istruzione elementare obbligato-ria “La Civiltà Cattolica” non faceva mistero della sua contrarietà aquesto provvedimento: “Chi ha detto a cotesti signori, che il panedell’anima sia l’alfabeto? Il pane dell’anima è la verità; e l’alfabetopuò servire la verità e per la bugia”. Il pensiero della rivista si con-cludeva con un interrogativo che non lasciava dubbi sulla risposta:“Or credete che a vivere virtuosamente sia mezzo indispensabile ilsaper leggere?”.

Il periodico dei padri Gesuiti agitava lo spettro del socialismo:quanto più si indeboliva il potere educativo della Chiesa, e cioè deicurati e delle congregazioni insegnanti a vantaggio dei Comuni edello Stato e cioè dei maestri e delle scuole pubbliche, tanto più cre-sceva il rischio dell’infiltrazione dell’idea socialistica tra il popolo:

“Finché il popolo impara dalla Chiesa in nome di Dio, che non è lecitoil fornicare, né l’appropriarsi l’altrui, né il resistere alle legittime autori-tà, il Socialismo non potrà mai fare ampiamente presa sulle moltitudini;delle quali esso ha nondimeno assoluto bisogno, per far prevalere i suoiprincipii, distruggitori del matrimonio, della proprietà, del civile gover-no. Or ecco in buon punto la legge della scuola laica obbligatoria pertutti i figli del popolo venire a rimuovere codesto ostacolo”.1

Sulla medesima lunghezza d’onda si poneva nel 1874 il primocongresso dell’Opera dei Congressi svoltosi a Venezia nel corso delquale gli esponenti dell’intransigentismo dichiaravano di conside-rare i problemi educativi e scolastici di primaria importanza.

1. “La Civiltà Cattolica”, 1872, vol. viii, p. 16.

126 capitolo terzo

A proposito dell’obbligatorietà scolastica il principale animatoredel sodalizio cattolico, il barone Vito d’Ondes Reggio, assumevauna netta posizione contraria, contrapponendovi il principio dellalibertà d’insegnamento. Solo se le famiglie fossero state poste nellacondizione di scegliere la scuola, avrebbero potuto provvedere algrave obbligo di crescere i figli nella verità cristiana. L’“educazionelaica” prospettata dai fautori dell’istruzione obbligatoria altro nonera che il mascheramento del proposito di “scristianeggiare ilmondo e ricacciarlo alla paganica barbarie”.2

La rivista romana rincarava la dose dopo l’approvazione dell’ob-bligo scolastico, nel 1877, lasciando presagire scenari drammaticiquale fatale conseguenza del provvedimento:

“la rivoluzione italiana procede, di vittoria in vittoria, verso quel termi-ne a cui volge la rivoluzione francese, cioè al trionfo temporaneo del-l’empietà massonica e al totale sovvertimento dello stato sociale. A taleintento era d’uopo che anche l’infima plebe fosse in grado d’impararecolla lettura dei pessimi libri e giornali, e coll’udire lezioni di maestrisenza fede e senza religione, i principii rivoluzionari e la loro pratica; efu bandita la necessità dell’istruzione elementare obbligatoria”.3

“La Civiltà Cattolica” non perdeva anche occasione per attacca-re quei cattolici nutriti di neoguelfismo che guardavano al progres-so dell’istruzione come a una grande opportunità per concorrere,Stato e Chiesa insieme, alla creazione della Nazione italiana perce-pita ancora dai contorni incerti e fragili.

Al giornale pedagogico “L’istitutore” di Torino, espressione delmoderatismo liberal-cattolico torinese, ad esempio, l’autorevolevoce ecclesiastica rimproverava una certa tiepidezza nel difenderele ragioni della Chiesa e l’uso improprio del principio del “giustomezzo che insegna a dare la sua porzione di diritto al torto e ditorto al diritto, secondo le circostanze, e in forza di salvar capre ecavoli, si accordano in bella lega tutte le contraddizioni”. Se c’era-no famiglie cattoliche

“alle quali vada a genio questa maniera di instituire i giovani, seguendouna sì fallace moderazione, tal sia di loro. Si ricordino, tuttavia, che loro

2. Primo Congresso cattolico italiano tenutosi in Venezia dal 12 al 16 giugno 1874, Bolo-gna, Tipografia Felsinea, vol. i, p. 113.

3. “La Civiltà Cattolica”, 1877, vol. iii, pp. 485-486.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 127

soltanto sarà la colpa, se più tardi avranno a pentirsi che i loro figliuo-li sieno cresciuti deboli di principii, infermi di coscienza, fiacchi dicarattere; non buoni, non cattivi, né carne in somma, come si suol dire,né pesce”.4

Critiche e obiezioni, per citare un altro esempio, erano rivoltealle iniziative in favore dell’istruzione femminile caldeggiate e per-seguite nel vivace ambiente pedagogico toscano da Luisa AmaliaPaladini sulla scia dell’insegnamento del Lambruschini5 e del Cap-poni. Scopo della Paladini era quello di promuovere una più consa-pevole coscienza nazionale e una più dignitosa condizione femmi-nile. L’una e l’altra prospettiva erano polemicamente giudicate“tutta cosa dell’odierna rivoluzione, tutta servitù e baciamani pelMinistero” e la Paladini era sprezzantemente definita “amazzonein crinolino”.6

Tanto battagliero vigore della “Civiltà Cattolica” era dovuto amolteplici ragioni. Primeggiava, oltre naturalmente alle ancoravivissime ferite legate a Porta Pia, l’orgogliosa difesa del dirittonaturale della famiglia e della Chiesa all’educazione. L’obbligato-rietà dell’istruzione era denunciata come un esproprio della “parteprecipua della patria potestà”. Lo Stato non poteva sostituirsi, masolo coadiuvare l’opera degli educatori naturali e doveva pertantoriconoscere la libertà di insegnamento. Il moltiplicarsi delle attivi-tà educative e d’istruzione popolare avviate da sodalizi di varianatura, molti dei quali con finalità anticlericali, era, a sua volta,percepito come un grande accerchiamento anticonfessionale eanticlericale.

I tentativi di soppressione dell’insegnamento religioso nellescuole elementari, la chiusura delle Facoltà Teologiche e la liquida-

4. Ibidem, 1868, vol. i, p. 216. 5. Anche il Lambruschini si trovò al centro delle critiche della “Civiltà Cattolica”.

Questi nel corso del IV Congresso pedagogico italiano del 1864 aveva lamentato loscarso impegno del clero nel campo dell’istruzione popolare. Nel reagire a queste cri-tiche la rivista dei padri Gesuiti ricordava al pedagogista e sacerdote toscano che se ilclero sembrava scarsamente coinvolto nei processi di alfabetizzazione del popolo que-sto era da ritenere una naturale conseguenza del fatto che ne erano state escluse lafamiglia e la chiesa stessa, riducendo a ben poca cosa l’insegnamento religioso (in “LaCiviltà Cattolica”, 1865, vol. i, pp. 345-351).

6. Ibidem, 1864, vol. ix, p. 78.

128 capitolo terzo

zione dei direttori spirituali in quelle secondarie – iniziative intra-prese in quegli anni – sembravano andare tutte nella direzione diuna laicità anticlericale. Quanto alla maggiore severità nel teneresotto controllo le scuole private, essa era interpretata come un’in-debita intromissione dello Stato.

La posta in gioco era la “conquista del popolo” e non a caso “LaCiviltà Cattolica” denunciava il rapporto tra istruzione popolare elibertà di stampa. L’una e l’altra inducevano il popolo nel rischiocontinuo di “seduzione e di corruttela”:

“Nel concetto liberalesco questa così fatta istruzione popolare dev’esse-re inseparabile dalla libertà della stampa, la quale sarebbe di poco o niunvalore, se dal popolo non fosse nei suoi effetti gustata... Ciò significache nell’atto pratico l’istruzione è intesa qual mezzo di propagare nellaplebe le idee politiche, morali, sociali e religiose del Liberalismo”.7

Nella pubblicistica cattolica del tempo risuonano ricorrenti l’al-larme per la possibile “perdita della fede dell’Italia” e la denunciadell’“azione delle sette” con la conseguente lacerazione tra “l’Ita-lia officiale e la gran parte degli Italiani veramente cattolici”.

Era viva la convinzione, elaborata in età rivoluzionaria e diffusaso prattutto durante la Restaurazione, di una grande cospirazionein atto contro la Chiesa, volta, con le arti più diverse, a toglierleogni influenza sociale, cercando di renderla sospetta e di farla cre-dere nemica di ogni bene. In particolare l’opera della massoneriaera segnalata come particolarmente pericolosa. La sua lotta controla Chiesa veniva denunciata come potenzialmente in grado disconvolgere le fondamenta del vivere civile.8 Nel 1890 lo stessoLeone XIII avrebbe dedicato al rischio della “perdita della fededell’Italia” una lettera enciclica direttamente pubblicata – fattoinconsueto – in italiano.

7. Ibidem, 1876, vol. i, p. 262. Sulla “Civiltà Cattolica” e la politica scolastica postunitaria ved. F. De Vivo, Problemi della scuola italiana nella seconda metà dell’Ottocento e“La Civiltà Cattolica”, in J.M. Prellezo (ed.), L’impegno di educare. Studi in onore diPietro Braido, Roma, las, 1991, pp. 99-112; G. Biancardi, “La Civiltà Cattolica” sullalibertà d’insegnamento dal 1850 al 1877, in “Annali di storia moderna e contempora-nea”, 1998, pp. 121-180.

8. G. Miccoli, Ansie di restaurazione e spinte di rinnovamento: i molteplici volti delpontificato di Leone XIII, in A. Zambarbieri (ed.), I cattolici e lo Stato liberale nell’età diLeone XIII, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2008, pp. 21-24.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 129

Se la diffusione dell’istruzione poteva essere l’arma più infida epericolosa dei movimenti rivoluzionari e anticlericali, la scuolapopolare poteva però anche rappresentare una grande opportunitàper educare e non solo istruire e dunque un’arma che poteva esse-re ritorta contro chi la brandiva con scopi irreligiosi. Chi si ponevain questa prospettiva oltrepassava le polemiche e le posizioni diprincipio e accettava la sfida dei “tempi moderni”.

Quando si passa, dunque, a considerare ciò che nei fatti i diversiambienti cattolici stavano concretamente facendo, non è difficilecogliere una realtà assai più complessa rispetto alle controversiedella “Civiltà Cattolica”. Contro i “nemici della Chiesa” non c’era-no soltanto la pubblica denuncia e la protesta politica, ma c’eraanche l’impegno, come suggeriva Leone XIII, a mostrare la Chie-sa “qual è veramente, la migliore amica e benefattrice dei principi edei popoli”.

La condanna degli “errori” si accompagnò infatti all’azione capil-lare di nuovi Istituti religiosi, di semplici parroci, di congregazionidi dame e di numerosi benefattori impegnati soprattutto nel campodell’educazione e dell’istruzione. Alla diffidenza nutrita verso la gra-duale invadenza dello Stato nel campo scolastico si affiancò unastrategia che don Bosco riassunse nella notissima formula “buonicristiani, onesti cittadini”. Essa si basava su un concetto di cittadi-nanza fondata su princìpi diversi da quelli liberali che perseguiva“un’italianità diversa e orgogliosamente rivendicata”,9 ma nel mede-simo tempo promuoveva sentimenti di lealtà e di coesione.

Il mondo cattolico dimostrò in questa impresa non solo grandevitalità, ma anche notevole capacità di adattamento alle nuove esi-genze poste dalla modernità. Gli studi condotti sulle congregazio-ni religiose dedite all’educazione hanno dimostrato come esseabbiano via via modificato i loro regolamenti e la loro organizza-zione sia in funzione dei processi di modernizzazione delle struttu-re statali sia in relazione alle esigenze di alfabetizzazione e scolariz-zazione di un numero sempre maggiore di Italiani.10

9. G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e Nazione dal Risorgimento alla Repubbli-ca, Bologna, il Mulino, 1998, p. 41.

10. G. Rocca, La formazione delle religiose insegnanti tra Otto e Novecento, in L. Paz-zaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Nove-cento, Brescia, La Scuola, 1999, pp. 419-457.

130 capitolo terzo

In seguito a queste analisi il pregiudizio secondo cui il mondocattolico e la Chiesa sarebbero stati arroccati su posizioni esagera-tamente conservatrici – pregiudizio alla cui costituzione non fucertamente ininfluente la militanza polemica della “Civiltà Cattoli-ca” – è stato da tempo superato in sede storiografica. Risulta ormaiacquisito che il problema dei cattolici (salvo qualche sacca residuadi ultrareazionari) non era quello di condividere o meno la diffu-sione delle scuole quanto di garantire che l’istruzione non si svol-gesse al di fuori di una concezione cristiana dell’esistenza.

Le iniziative dei cattolici dell’ultimo Ottocento concorsero per-ciò anch’esse al transito da una società analfabeta a una società alfa-beta, pur dovendosi confrontare, a differenza di quanto era accadu-to nei decenni precedenti, con una cultura pedagogica tendenzial-mente diffidente, se non addirittura ostile, nei loro confronti.

Infatti proprio nel momento in cui l’Italia cattolica compiva ilmassimo sforzo in ambito educativo e scolastico, la pedagogia delcattolicesimo liberale che aveva nutrito la stagione risorgimentalecon gli Aporti, i Capponi, i Lambruschini, i Tommaseo, i Rosmini,i Rayneri era ormai declinante. Invano alcuni epigoni di quella sta-gione si sforzarono negli anni ’80 di tenerne alte le ragioni comeAntonino Parato con il saggio su La Scuola pedagogica nazionale,11 leriflessioni di Giuseppe Allievo,12 il volume di scritti editi e inediti diRosmini curato da Francesco Paoli13 nel 1883.

La pedagogia italiana aveva ormai come principali protagonistialtri personaggi. Nel comune richiamo ai valori “positivi” e allacelebrazione della scienza e del progresso, essi esprimevano unnuovo atteggiamento rispetto al binomio fede religiosa-educazioneora contrastando decisamente qualsiasi forma di religiosità positiva– come Pietro Siciliani, Edoardo Fusco, Andrea Angiulli, France-sco Saverio De Dominicis – ora dimostrandosi più disponibili ariconoscere un certo valore educativo all’insegnamento religioso(come accadeva in Pasquale Villari e Aristide Gabelli) purché nonimpartito in forme confessionali.

11. A. Parato, La Scuola pedagogica nazionale. Scritti educativi teorici e pratici, Tori-no, Tipografia Eredi Botta, 1885.

12. In particolare, nell’amplissima produzione dell’Allievo degli anni ’80 e ’90, sisegnalano Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino, Tip. Subalpina, 1883 eLa scuola educativa. Princìpi di antropologia e didattica, Torino, Tip. Subalpina, 1893.

13. A. Rosmini, Scritti vari di metodo e di pedagogia, Torino, ute, 1883.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 131

È in questo il contesto che esamineremo l’azione educativa didue significative esperienze del mondo cattolico del secondo Otto-cento e cioè quelle dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.Le iniziative di queste congregazioni ben si prestano a cogliere ilsenso di quell’Italia cattolica antagonista sul piano dei princìpi, maimpegnata a concorrere alla costruzione dell’Italia moderna e alfa-beta, rispondendo dal basso ai bisogni dei ceti popolari e addirittu-ra identificandosi in essi.

2. Don Bosco e i Salesiani nella cultura pedagogicatra i due secoli

Nel quarto di secolo circa ricompreso tra gli ultimi anni di donGiovanni Bosco (morto nel 1888) e la fine del rettorato del suosuccessore don Michele Rua (morto nel 1910) si fece sempre piùnitida la consapevolezza da parte degli eredi più vicini al fondatoredi essere depositari e, al tempo stesso, testimoni di una grandeesperienza educativa, interpretata e vissuta come la rinnovataespressione della tradizione pedagogica cristiana. Essa apparivadotata di tutti gli elementi necessari per sapersi confrontare con leaspettative e le esigenze dei “tempi moderni”.

I Salesiani erano ancora una congregazione giovane in tutti isensi. Giovane perché si occupava dell’educazione di giovani e gio-vane perché di recente formazione. Cresciuta nella Torino di metàOttocento intorno all’esperienza di Valdocco, la Società salesianaera stata fondata da don Bosco nel 1859 e fino agli anni ’80 era pre-sente con le proprie opere in un’area piuttosto circoscritta (pie-montese-ligure), anche se l’attivismo del suo fondatore la stavaespandendo anche in altre regioni italiane e fuori d’Italia, persinoin terre di missione come l’America Latina.

Gli eredi di don Bosco si sentivano impegnati innanzi tutto aconfermarne il modello educativo incentrato su quella che si puòconsiderare l’intuizione fondamentale del sacerdote torinese e cioèla creazione di un luogo educativo pensato appositamente per igiovani: l’oratorio. Esso si configurava come un centro che ogginon esiteremmo a definire polifunzionale in quanto capace dirispondere a molteplici esigenze: la ricreazione e l’impiego educa-

132 capitolo terzo

tivo del tempo libero, la preghiera e il catechismo, la scuola, la for-mazione al lavoro, l’ospitalità ai giovani lontani dalla famiglia. Val-docco era stato e continuava ad essere un insieme di risposte edu-cative articolate secondo differenti bisogni.

Nel medesimo tempo era avvertita l’esigenza (e l’urgenza) di riu-scire a realizzare pienamente il sistema preventivo che lo stesso donBosco in un breve scritto del 1877 aveva indicato come il principioorientativo dell’azione educativa della congregazione. Educazionee istruzione nel sistema preventivo erano strettamente associate:l’educazione non poteva fare a meno, accanto alla formazione delcarattere, dell’istruzione scolastica e della formazione al lavoro e lascuola e l’avviamento al lavoro, a loro volta, non potevano fare ameno dell’educazione che per don Bosco era soprattutto sostanzia-ta di contenuti religiosi.

Don Bosco aveva respirato a pieni polmoni l’aria del rinnova-mento scolastico subalpino tra gli anni ’40 e ’5014 e aveva maturatola piena consapevolezza di dover agire in una società nella qualenon avrebbero più avuto diritto di cittadinanza l’ignoranza e l’anal-fabetismo. Fin dall’inizio, in forma dapprima artigianale e poi inmodo sempre più organico, non solo aveva assistito giovani e aper-to laboratori professionali, ma aveva anche promosso scuole e con-vitti rivolti specialmente ai ceti più modesti, ma desiderosi di farstudiare i figli. Questa eredità fu raccolta e continuata dopo la suamorte.

Un secondo elemento di cui tenere conto per cogliere il valoredella proposta educativa salesiana riguarda la sua lettura all’ester-no della congregazione. Specialmente dopo la morte di don Boscosi manifestò un crescente apprezzamento per la prospettiva peda-gogica che connotava l’azione della Società. Il suo modello forma-tivo cominciò cioè a essere ritenuto idoneo a fornire risposte edu-cative generali e non solo ristrette nei confini della congregazionee della Chiesa.

La prima traccia di un inquadramento pedagogico dell’esperien-za di don Bosco e della sua congregazione si trova già nel 1886

14. G. Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Aristocratici, filantropi e pretidi fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Torino, sei, 2007, pp. 171-212. E inol-tre: F. Desramaut, Don Bosco et son temps, Torino, sei, 1996, pp. 264-296; P. Brai-do, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, Roma, las, 2002, pp. 197-231.

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nella Storia della pedagogia di Giovanni C. Milanese che probabil-mente aveva presente la Storia della pedagogia in Italia del salesianodon Cerruti apparsa tre anni prima. Il Milanese ne parla come diun educatore che si occupa di giovani poveri e abbandonati che“alloggiati, mantenuti, istruiti, cristianamente educati” sono avvia-ti “a studi superiori, o ad arti e mestieri diversi”.15 Don Bosco èaffiancato ad altri benemeriti animatori di iniziative analoghe comeil veronese don Nicola Mazza, il milanese Paolo Marchiondi, ilnapoletano padre Lodovico da Casoria.

Entro questi orizzonti, coerenti con l’immagine che don Boscoaveva voluto dare di sé con l’espressione ricorrente di sacerdoteimpegnato nel provvedere alla “gioventù povera e abbandonata”,troviamo altri analoghi riferimenti. Francesco Saverio De Domini-cis riconduce don Bosco fra gli educatori filantropi, affiancandoloal Cottolengo, a padre Lodovico da Casoria e ad Alfonso dellaValle e compara lo sviluppo dei Salesiani per dimensioni e impor-tanza “quasi alla diffusione che ebbero i Benedettini nel medioevoe i Gesuiti nel secolo xvii”.16

Le due voci dedicate rispettivamente a don Bosco e ai Salesianinel Dizionario illustrato di Pedagogia rimarcano l’importanza delRegolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales: “tuttochédestinato ad una congregazione religiosa” viene giudicato opera“utilissima a tutti gli istitutori e direttori di convitti, a tutti i mae-stri” e “ricca di pratica saggezza educativa”.17 Quanto ai Salesiani sene parla come di una delle “più attive e benemerite congregazionireligiose” capace di far fronte con “opere rispondenti ai bisognimoderni e con sistemi moderni” all’istruzione e all’educazionedella gioventù.18

Più esplicito risulta il riconoscimento del valore della pedagogiaboschiana da parte di Friedrich Wilhelm Förster. Nel 1908 sullepagine del suo volume sull’educazione del carattere il pedagogista

15. G.C. Milanese, Storia della pedagogia, Treviso, Tipografia Editrice dell’Istitu-to Mander, 1886, p. 478.

16. R.S. Di Pol, Don Bosco e il sistema preventivo nella pedagogia italiana, in “Orien-tamenti pedagogici”, 1989, n. 1, p. 182.

17. Voce “Bosco Giovanni” in A. Martinazzoli, L. Credaro (edd.), Dizionarioillustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, s.d., vol. i, p. 194.

18. Voce “Salesiani”, ibidem, vol. iii, p. 439.

134 capitolo terzo

tedesco concorda nel reputare il “sistema preventivo” più efficacedel “sistema repressivo”. Questo secondo può forse “far evitare agi-tazioni e disordini, ma difficilmente giova a emendare i colpevoli”,mentre con il primo “si guadagna il cuore del fanciullo per modoche il linguaggio del cuore può parlargli non soltanto durantel’epoca dell’educazione, ma anche più tardi”.19

Di qui in poi si assiste a un crescendo di attenzione intorno adon Bosco, in termini che oltrepassano il semplice riconosci-mento rivolto a un sacerdote benemerito nell’educazione deigiovani. Nel 1913 uscì in traduzione italiana la Storia della peda-gogia e dell’educazione del gesuita Ramón Ruiz Amado apparsadue anni prima nella versione spagnola. Il padre Ruiz Amadopresentava don Bosco come ultima espressione della pedagogiacattolica che si era opposta al razionalismo illuministico-positivi-stico ed i cui esponenti di maggior spicco erano individuati nelFelbinger, nel padre Girard e in Rosmini, in Lacordaire e mons.Dupanloup.20 Anche Gennaro Pannese associava in un lavoroapparso nello stesso anno l’opera di educatore del sacerdote tori-nese (“con l’aiuto della madre fondò a Torino l’Oratorio”) allasua attività di autore su tematiche scolastiche (il sistema metricodecimale) e pedagogiche (“un lavoretto Sul sistema preventivo ineducazione”).21

Ma è specialmente all’indomani della Grande Guerra che si con-solida l’interesse verso don Bosco e i Salesiani. Lo studioso al qualesi deve una incisiva riflessione sulla pedagogia boschiana e salesianaconcepita come una risposta in grado di superare i limiti del neutra-lismo pedagogico laico e massonico è Giuseppe Lombardo Radice.In un’opera apparsa nel 1920 e connotata da tratti molto polemiciverso la mancanza di una “fede” capace di assicurare un senso edu-

19. F.W. Förster, Scuola e carattere, Torino, Sten, 1911 (3a edizione), pp. 73-74. 20. R. Ruiz Amado, Storia della pedagogia e dell’educazione, versione con aggiunte

per l’Italia del padre Domenico Valle, S.J., Torino, Marietti, 1913, pp. 489-490 (nel-l’edizione originale con il titolo Historia de la educación y de la pedagogía, Barcelona,Gustavo Gili, 1911, pp. 410-411).

21. G. Pannese, Storia della pedagogia italiana, Roma, Casa editrice Italo-irlandese,1913, p. 474. Nel breve cenno contenuto nell’opera del Pannese riecheggia il giudizioespresso dal salesiano F. Cerruti, Storia della pedagogia in Italia dalle origini ai tempinostri, Torino, Libreria Salesiana, 1883.

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cativo alla scuola pubblica, il pedagogista catanese riteneva che pro-prio dal modello salesiano era possibile “imparare qualche cosa perla scuola laica”: soltanto affidandosi a una “fede” era possibile edu-care. Anche per un intellettuale dai sentimenti laici come Lombar-do Radice era meglio una fede religiosa che nessuna fede.

Con queste considerazioni Lombardo Radice introduceva donBosco e i Salesiani in una platea ben più ampia di quella consueta eli inseriva entro un circuito intellettuale dal quale fino a quel mo-mento erano stati esclusi.22 Salito alla direzione della scuola ele-mentare nel 1922 e protagonista della riforma scolastica dell’annosuccessivo, Lombardo Radice diede seguito alla sua ammirazioneper il sacerdote dei Becchi non esitando ad additarlo come “mira-bile modello da imitare”.

Non meno significativo era il riconoscimento riservato nel 1924da Giovanni Vidari. Lo studioso torinese riconosceva a don Bosco ilprincipale merito di essersi schierato dalla parte dei ceti popolari,aprendo scuole e laboratori professionali per migliorare le condi-zioni anche dei più poveri. In tal modo egli aveva concorso insiemeagli uomini del Risorgimento – pur talvolta assumendo posizionicritiche verso lo Stato liberale – a “creare il nuovo popolo d’Italia” efavorito la promozione di una autentica “educazione nazionale”.

Nell’affiancare Cavour, Lanza, Rattazzi, don Bosco e Crispi, ilVidari forse concedeva qualcosa a una visione “nazionale” alquan-to eclettica. Ma bisogna riconoscere la lungimiranza della suainterpretazione dell’unità italiana, concepita come un’esperienzaplurale, con il riconoscimento di meriti anche di chi non si erasubito identificato con il principio liberale. Questa tesi era associa-ta dallo studioso torinese alla convinzione che il futuro dellaNazione dopo il dramma della guerra fosse deposto nelle mani diun popolo maturo, consapevole, lavoratore. Per la realizzazionedi questo progetto c’era spazio per tutti quanti erano sinceramen-te uniti dall’intento di congiungere il “principio della dignitàumana”, il “rispetto della nazionalità” e lo “sviluppo della profes-sionalità”.23

22. G. Lombardo Radice, Clericali e massoni di fronte al problema della scuola, Roma,Edizioni della “Voce”, 1920, pp. 62-64.

23. G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, Torino, Paravia,1924, pp. 107-109.

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Nel 1925 il nome di don Bosco, dietro la spinta della “CiviltàCattolica”, entrava infine a vele spiegate tra gli autori previsti dalprogramma per gli Istituti magistrali, cogliendo di sorpresa glistessi Salesiani. Soltanto due anni più tardi, nel 1927, essi provvide-ro con l’antologia di don Bartolomeo Fascie.

3. La Congregazione dei giovani

Quali sono le ragioni che concorrono a incrementare l’interesseverso don Bosco e i Salesiani non solo sul versante delle loro capa-cità di educatori, ma più ampiamente anche su quello della rifles-sione pedagogica vera e propria?

La risposta a questa domanda è assai complessa e mi limito adaccennare ad alcuni motivi, iniziando da quelli esterni alla congre-gazione.

Con il trascorrere degli anni e il moltiplicarsi delle esperienze iSalesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice cominciarono ad esserepercepiti, non solo negli ambienti cattolici e non solo in riferimen-to alla personalità di don Bosco, come educatori esperti ed innova-tori. Essi si dimostravano capaci di agire positivamente su giovani“diversi” da quelli del passato per varie ragioni: una scolarità piùdistesa, il lavoro industriale, la diffusione di nuovi divertimenti edello sport come pratica e come consumo.

Studiosi attenti, liberi dai pregiudizi anticlericali, venuti a contat-to con i Salesiani ne apprezzarono le abilità educative e se ne fecerotestimoni affidabili, amplificando il valore della loro esperienza.

Nel caso di Lombardo Radice, per esempio, il pedagogista cata-nese ebbe certamente buona conoscenza della casa di Catania ove iSalesiani si erano stabiliti a fine secolo e, forse, delle altre iniziati-ve intraprese nelle zone più povere e disagiate dell’isola. Per nonparlare del Vidari che a Torino era in quotidiano contatto con lerealizzazioni salesiane che spaziavano dal sistema cittadino deglioratori alle scuole, dai laboratori professionali alle iniziative edito-riali della said Buona Stampa, poi sei.

Lo stesso Giovanni Gentile – per quanto critico sull’inserimentodi don Bosco tra gli autori previsti dai programmi dell’Istituto magi-strale in quanto perplesso sulle sue reali qualità di studioso di peda-

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gogia – era tuttavia ben disposto a riconoscerne i meriti sul campo.Persino in ambienti notoriamente a forte connotazione massonica –com’era il caso della Federazione Nazionale degli Insegnanti delleScuole Medie – si prendeva atto della stima che circondava le scuolesalesiane “notissime per la tradizione di dolcezza e di tranquillità dimodi, lasciata da don Bosco e continuata da’ suoi successori”.24

Questa ragione di carattere generale interseca altri motivi cultura-li e sociali. La cultura positivista tardo ottocentesca viene posta indiscussione dalla riflessione degli studiosi di formazione idealista,modernista, neokantiana sensibili alle dimensioni della vita spiritua-le. Vengono riconosciuti spazi più ampi di iniziativa alla libertàe all’originalità personale e a prassi educative capaci di interagireanche con le emozioni, i sentimenti, le esperienze del lavoro, il gioco.

In questo contesto emerge un interesse specifico per l’età cheallora si definiva “giovanile” e che oggi noi preferiamo indicarecome “adolescenziale” e “tardo adolescenziale”. La concezioneeducativa del tempo libero propria dei Salesiani sembrava costitui-re una risposta particolarmente coerente e adatta a incanalare inmodo positivo le energie giovanili. Non è un caso che gli ambientilaici a loro volta tentassero, senza invero grande fortuna, di aprirei “ricreatori” in forma esplicitamente concorrenziale con il model-lo oratoriano dei cattolici.

Il riconoscimento, poi – almeno questo accade nella realtà italia-na –, della fede religiosa come potente e insopprimibile fattoreeducativo in specie a livello dei ceti popolari (secondo quella parti-colare accezione gentiliana della religione come surrogato dellafilosofia) non solo riaprì importanti spazi per l’insegnamento reli-gioso scolastico, ma riconobbe all’opera delle parrocchie, degli isti-tuti religiosi, delle congregazioni una legittimità sociale molto piùampia e significativa di quanto accadesse, ad esempio, a fine secoloquando ogni spazio d’azione andava faticosamente conquistato.

Non sottovaluterei, infine, le caratteristiche quasi imprendito-riali assunte dalle varie iniziative che assicurano ai Salesiani e alleFiglie di Maria Ausiliatrice una patente di crescente credibilità. Inparticolare la capacità di replicare il modello originario – addirittu-

24. Terzo congresso nazionale degli insegnanti delle scuole medie, Roma 28 settembre-1° ottobre 1904, Prato, Nutini, 1905.

138 capitolo terzo

ra sul piano edilizio e dell’organizzazione degli spazi – costituì unfattore di garanzia sul piano dei risultati attesi.

Quando nel 1910 scompare don Rua, i sacerdoti e le suore sale-siane sono presenti in quasi tutte le regioni italiane, operano indiverse parti d’Europa e alle case aperte in Patagonia si sono via viaaggiunti gli oratori e i collegi in vari altri Paesi dell’America Lati-na. Anche ad occhi inesperti si svela l’imponenza di un progettoche ripropone con successo Valdocco in realtà diverse e taloraanche molto diverse.

Con l’avvento del nuovo secolo i Salesiani non sono più, dun-que, soltanto una delle tante congregazioni sorte in Italia perl’e ducazione giovanile, ma sono percepiti sempre più come “la”congregazione dei giovani. Questo spiega l’ininterrotto flusso dibenefattori che, ben oltre la morte del fondatore, continuarono asostenerne le opere. Nel clima poi accesamente nazionalisticod’inizio Novecento ai Salesiani come educatori dei giovani vieneassociata con una punta d’orgoglio patriottico l’efficacia di un’edu-cazione germogliata nel grembo di una italianità fatta di valorisemplici e radicati nella sensibilità popolare.

4. Un rinnovato impegno educativo

Queste ragioni di carattere generale non sono da sole in gradodi spiegare il crescente credito goduto dalle iniziative salesiane.Ci sono anche motivi più interni alla storia e alla vita della con-gregazione, legate alla necessità di tenere viva e aggiornare lamemoria del fondatore nella indiscussa fedeltà all’impostazioneoriginaria. Recenti studi e documentate ricerche hanno dimo-strato come don Michele Rua si sia avvalso durante il suo gover-no della Società salesiana degli apporti di alcune personalità cuiva il merito di aver guidato o sostenuto l’imponente sviluppo diattività educative: Francesco Cerruti, Giulio Barberis, GiuseppeBertello, ma anche Albino Carmagnola, Eugenio Ceria, CarloMaria Baratta, Stefano Trione e, un filo più tardi, VincenzoCimatti.

Questi personaggi svolsero compiti differenti e furono ancheespressione, sia pur di poco, di generazioni diverse.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 139

Francesco Cerruti fu il grande organizzatore delle scuole sale-siane nelle vesti di “consigliere scolastico” per circa un quaranten-nio e a lui, uomo di vasta cultura, classicista convinto, si devonoinoltre i primi tentativi di elaborazione sistematica della pedagogiasalesiana. Giulio Barberis si occupò della formazione dei giovanichierici per i quali compilò una dispensa che, accanto agli scrittidel Cerruti, è considerata come uno dei primi frutti della riflessio-ne pedagogica post boschiana, anche se si tratta di un lavoro nonparticolarmente originale. Quanto a don Giuseppe Bertello, eglioperò nel campo dell’istruzione professionale ove profuse un gran-de sforzo modernizzatore. Questi tre Salesiani ricoprirono a lungoimportanti incarichi ai vertici della congregazione.

Altri membri della congregazione ebbero ruoli meno istituzio-nali e appartengono a una mezza generazione più giovane rispettoa quella dei Cerruti, Barberis, Bertello.

Don Carmagnola fu autore di scritti educativi di buona divulga-zione destinati alle famiglie, agli educatori, ai sacerdoti.25 EugenioCeria unì gli sforzi, a fianco di don Cerruti, in difesa della scuolaclassica; Carlo Maria Baratta fu personaggio di primo piano nelcampo dell’impegno sociale e della divulgazione e dell’istruzioneagraria. Il nome di don Stefano Trione è associato a una intensaattività nel campo oratoriano e don Cimatti alternò interessi musi-cali e studi pedagogici: nel 1911 diede alle stampe un manuale dipedagogia per le scuole normali e nel 1925 pubblicò un saggio piùvolte riedito, Don Bosco educatore.

Pur disposti con incarichi e ruoli diversi all’interno della congre-gazione – e forse anche diversi su piano della sensibilità personale –questi personaggi sono accomunati da numerosi elementi.

Il primo è quello di essere stati diretti testimoni – o testimoniindiretti, ma comunque a stretto contatto con la fonte originaria –di eventi degni di essere tramandati nella loro integrità e purezza.Il sistema preventivo prima di essere uno scritto consegnato allestampe è un’esperienza vissuta direttamente e della cui efficacia e

25. A. Carmagnola, Dell’educazione dei figliuoli. Lezioni pratiche e popolari ai padri ealle madri di famiglia, Torino, Libreria Salesiana, 1892; La buona educazione. Libro perla gioventù e un po’ per tutti, Torino, Libreria Soc. Editrice Buona Stampa, 1910; SanGiuseppe custode della divina famiglia. Lezioni popolari utili specialmente alle famiglie cri-stiane, Torino, Libreria Editrice Internazionale, 1912.

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validità si è stati diretti testimoni. Chi scorre, ad esempio, le Circo-lari di don Rua coglie l’immediatezza dell’insegnamento di donBosco e direi quasi la sua presenza ancora viva mediata attraversochi l’ha personalmente partecipata.

È questo l’argomento, ad esempio, che fa valere don Cerruti,quando ormai anziano, invitava a “tenere lontana come peste” latentazione dei continui cambiamenti per inseguire mode nuove chetemeva potessero snaturare le pratiche educative di don Bosco, inparticolare la convinzione secondo cui “il contatto continuo, costan-te co’ giovani fa perdere l’autorità; che i preti soprattutto dovrebbe-ro per la loro dignità sacerdotale esimersi dall’assistenza. No, cariconfratelli, non è questo il sistema preventivo; non è così che inse-gnò don Bosco”.26 Don Bertello, è ricordato come “l’educatore cheaveva sempre in bocca il metodo e gli esempi di D. Bosco” e che “colsuo esempio e colle sue conferenze rendeva comune e fruttuoso ilSistema Preventivo”.27

Un secondo fattore accomunante è il concorde giudizio negati-vo espresso nei confronti della società del proprio tempo, giudi-zio associato alla certezza di disporre di una bussola infallibile – lafede religiosa non solo come esperienza interiore, ma come fededa trasferire nella militanza delle opere – contro il male prodottodalla irreligiosità.

La pretesa di fare a meno di Dio è giudicata l’inevitabile premes-sa di una catastrofe non solo morale, ma anche sociale. La societàcontemporanea è vista al bivio “tra dissoluzione e ricomposizione.L’immane sforzo di evitare il baratro è destinato al fallimento per-ché compiuto senza riferimento alla Chiesa che sola, invece, puòoffrire i princìpi e i valori indispensabili al risanamento del viverecivile”.28 Ricorrenti sono le denunce delle gravi conseguenze dellacattiva educazione praticata dai “moderni epicurei”:

“Ora al vedere ed al conoscere la strage crudele che tanti lupi menanonel tenero gregge dei fanciulli e dei giovanetti, chi non si sentirà come

26. F. Cerruti, Un ricordino educativo-didattico, Torino, said, 1910, p. 35.27. Cit. in G. Bertello, Scritti e documenti sull’educazione e sulle scuole professionali,

a cura di J.M. Prellezo, Roma, las, 2010, p. 13. 28. G. Biancardi, L’apostolato dei laici tra Otto e Novecento nella chiesa e negli orien-

tamenti diffusi nella famiglia salesiana, in “Ricerche storiche salesiane”, 2004, n. 1,p. 174.

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spronato a impedirla o almeno scemarla! Se il potessimo senza perico-lo della vita, noi correremmo a strappare dalle zanne di un lupo vora-ce un agnellino o una colomba dagli artigli di uno sparviero; e nonfaremo altrettanto per salvare qualche fanciullo dalle violenze, o dalleinsidie di uomini scellerati, empii e corrompitori?”.29

Nella “gran lotta dell’educazione” non c’è spazio per mediazionie sforzi di comprensione per altri modelli educativi: su tutti pri-meggia l’educazione cristiana. Contro l’incredulità e lo scetticismo,contro il materialismo e la “spensierataggine di chi solo attende aigodimenti della terra” don Bertello oppone che

“l’educazione vuol essere tutta d’un pezzo e d’un colore. Uno dev’esse-re l’insegnamento, una l’esortazione e l’esempio. La varietà dei maestrie delle dottrine, massime in un punto tanto capitale, com’è la religione,ottunde le menti, infiacchisce la volontà, perverte i caratteri, ed invecedi cristiani non produce che mostruosi aborti”.30

Di fronte all’immane devastazione dell’irreligiosità sta un altret-tanto immane lavoro di restaurazione dei valori cristiani: ed è pre-cisamente in questo sterminato territorio che i Salesiani sono chia-mati operare per il bene delle persone, della Chiesa e della societàintera.

In coerenza con questa lettura tutta centrata sull’antinomia,senza sfumature, “bene/male”, la cultura pedagogica dei discepolidi don Bosco è funzionale a una tesi prestabilita e semplicementeda confermare.

Vengono a tal fine privilegiati gli autori della classicità antica e iPadri della Chiesa (in particolare Plutarco, Quintiliano, Seneca,Clemente Alessandrino, Basilio, Girolamo, Agostino), gli autoricristiani (Silvio Antoniano, Carlo Borromeo, Filippo Neri, PaoloSegneri) mentre quelli profani sono ricordati – spesso al di fuoridel contesto proprio – soltanto quando sono utili a confermare erafforzare un principio, una evidenza, un insegnamento. A Rous-seau, il grande avversario da contrastare, sono affiancati gli autoriilluministi, quelli materialisti ed evoluzionisti presentati come l’ul-

29. “Bollettino salesiano”, 1896, n. 2, p. 31.30. Bertello, Scritti e documenti sull’educazione e sulle scuole professionali, op. cit.,

p. 49.

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tima manifestazione dell’eresia protestante e semplice variante dellibero esame applicato alle pratiche educative.

Lo sguardo si rivolge preferenzialmente – per citare i nomi piùricorrenti – sulle opere di mons. Félix Dupanloup, sui testi delpadre marista Antoine Monfat e di Antonio Maria Micheletti, suipedagogisti torinesi Giovanni Antonio Rayneri e Giuseppe Allievo.Non si trovano riferimenti – se non sporadici e con preferenza alTommaseo – alla pedagogia spiritualista del primo Ottocento. Unaimpostazione rigorosamente organica a una concezione dell’edu-cazione interamente racchiusa nella sapienza millenaria della Chie-sa, nella riflessione cristiana e nelle esperienze condotte dai grandieducatori cristiani.

L’intransigenza sul piano dei princìpi impediva di cogliere i fer-menti innovatori che, pur tra rigidezze e ideologismi, percorrevanoil mondo dell’educazione nel passaggio tra i due secoli. Sfidati dallamodernità pedagogica i discepoli di don Bosco, almeno alcuni,avvertirono tuttavia l’esigenza di irrobustire una ormai consolidata“esperienza educativa”, anche in prospettiva teorica, senza comun-que mai dimenticare che il sistema preventivo propugnato dal fon-datore non era tanto una teoria o solo una teoria, ma soprattuttoun’esperienza da far rivivere.

Prima di entrare nel merito di quest’ultimo punto, va segnalatoun altro non secondario elemento trasversale al gruppo di cui stia-mo trattando e cioè la comune formazione culturale a base umani-stica. I curricula studiorum di Cerruti, Barberis, Bertello, Baratta,Ceria sono indicativi. Pressati dall’esigenza di possedere i titolilegali per insegnare e dirigere le scuole essi si orientarono versocorsi di studi di tipo letterario-filosofico o teologico. Del resto eraquesta la via maestra per accostarsi alla vita intellettuale del tempoe lo stesso don Bosco aveva fortemente sostenuto il valore formati-vo della cultura umanistica.

Il contesto culturale degli studi – almeno per chi (la maggioran-za) li aveva seguiti nell’Università di Torino – era in genere per-meato di una laicità risorgimentale, con solidi riferimenti alla tradi-zione classica, non ostile (e in qualche caso addirittura esplicita-mente organico) al mondo cattolico. I giovani Salesiani potevanocosì maturare le conoscenze profane senza avvertire grandi contra-sti con i princìpi della fede. Un clima che tuttavia andò rapidamen-

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te declinando con la grande ventata delle scienze positive affianca-ta da una più marcata connotazione anticlericale, che accentuòdagli anni ’80 in poi la diffidenza dei cattolici verso le diverseespressioni della società moderna.

5. Con don Bosco e oltre don Bosco

La fedeltà al sistema preventivo di don Bosco si congiunge allosforzo di assicurargli una fisionomia pedagogica più esplicita, quasia volerne rafforzare la credibilità e affermarne la permanente vali-dità. Sul “Bollettino salesiano” vengono puntualmente registrati gliapprezzamenti che, direttamente o indirettamente, sono espressinei confronti dell’azione educativa salesiana, sottolineati con mag-gior vigore quanto più evidente è la distanza ideologica dell’inter-locutore.

In un importante studio di qualche anno orsono José ManuelPrellezo ha tracciato una esaustiva analisi dell’impegno educativodella Società salesiana nel passaggio tra i due secoli basata sui prin-cipali documenti elaborati a livello ufficiale. Prellezo ha individua-to quattro punti principali dell’impianto pedagogico salesiano, sot-tolineando come esso negli anni di don Rua sia ancora in via didefinizione: la contestuale formazione del cristiano e del cittadino;la centralità della dimensione religiosa; l’approfondimento dellanozione di “prevenzione”; lo stile educativo e la formazione deglieducatori.

Vorrei avanzare qualche ipotesi su come i discepoli di donBosco, facendo leva su questi punti, si sforzano di inserirsi neldibattito scolastico e pedagogico del loro tempo, forti della con-vinzione, come si è detto, di essere i depositari di un modello edu-cativo originale ed efficace. Mi concentrerò su due principali que-stioni: l’interpretazione del binomio boschiano “buoni cristiani eonesti cittadini” e l’approfondimento della nozione di “sistemapreventivo”.

Quanto al primo punto – l’espressione originaria si trova varia-mente modificata sul piano terminologico nei documenti dellacongregazione, ma nella sostanza resta intatta – l’interpretazione

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passa attraverso la concezione di un’idea di uomo nel quale coesi-stono ragione e cuore, intelligenza e volontà, corpo e spirito. Aquesta visione antropologica corrisponde un piano educativo cherichiama i modelli propri della tradizione classica incentrata sul-l’autorità amorevole, rinnovata e reinterpretata alla luce dell’an-nuncio evangelico.

La formazione dell’uomo onesto, laborioso, che prende sul seriola vita, che rispetta le leggi e che fa tutto questo perché è religiosoe cioè possiede una fede che giustifica il suo agire; la necessità diuna formazione che prima di tutto parla al cuore; la tesi che forma-re questi uomini costituisce non un bene di parte (educare “buonicristiani”) ma rappresenta un bene nell’interesse comune (anche“onesti cittadini”) sono altrettanti passaggi che s’inseguono nonsolo nelle riflessioni di don Cerruti e don Bertello, ma anche nellepagine del “Bollettino salesiano”: insisto nelle citazioni di questoorgano di stampa perché è un documento significativo in quantostrumento attraverso cui la Società salesiana veicola l’immagineche intende dare di sé.

L’idea dell’“onesto cittadino” è un rassicurante motivo speso infunzione della rappresentazione della Società salesiana non soltan-to come non ostile alla società liberale, ma soprattutto e principal-mente come utile alla solidità sociale. Non c’è antagonismo tral’educazione ispirata a valori religiosi e la varietà della vita sociale,anzi quest’ultima ha tutto da guadagnare se essi sono vissuti nellaloro pienezza. Tanto più meritoria era l’azione educativa se essa erarivolta al “così detto basso popolo, anzi a quella parte più povera eabbandonata” e cioè a quegli strati sociali che più erano espostiall’ignoranza, vivevano nel disordine morale ed erano preda dellapropaganda rivoluzionaria.

Nella rinnovata proposta del binomio “buoni cristiani e onesticittadini” il metodo educativo salesiano era dunque inquadratoentro una cornice che oltrepassava la pur legittima aspirazione aeducare le nuove generazioni di credenti. Esso ambiva a rivolgersia tutti, credenti e non, nella certezza di disporre di un metodo col-laudato perché capace di parlare prima di tutto all’uomo.

In questa lettura s’incrociavano un motivo apologetico (la vali-dità di un metodo misurata sulla sua corrispondenza ad una tradi-

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zione) e uno promozionale (un’educazione che nella rigorosafedeltà al fundamentum cristiano è tuttavia utile all’intera società).È anche in questa capacità di inserirsi negli interstizi aperti da pra-tiche educative pregiudizialmente areligiose o irreligiose – chesuscitano diffidenze negli stessi ambienti laici – che i Salesiani rie-scono a guadagnarsi la fiducia delle famiglie e di molti ammini-stratori pubblici.

In coerenza con questa strategia, i Superiori avvertirono l’esi-genza di definire in modo più puntuale il significato del sistemapreventivo, non tanto sul piano delle enunciazioni di principioin quanto già chiaramente esposte nell’opuscolo del 1877, bensìnelle loro implicazioni pratiche. Fin dal 1885, e dunque ancorvivo don Bosco, don Giuseppe Vespignani – allora impegnato atrapiantare in terra argentina il sistema preventivo – nel lamen-tare l’imperizia educativa dei chierici, si chiedeva “quando avre-mo una specie di ratio studiorum, una vera e propria pedagogiasalesiana”.31

La questione della retta interpretazione e attuazione del sistemapreventivo assorbì molte energie e si dilungò per molti anni. Sitrattava, d’un lato, di correggere le prassi là dove se ne prescindevaper ignoranza o lo si applicava in modo improprio per una cono-scenza distorta32 e, dall’altro, si avvertiva l’esigenza di valorizzarlocome un tesoro prezioso. Non è questa la sede per una puntualericostruzione – in parte peraltro già effettuata – delle moltepliciiniziative e delle numerose raccomandazioni con cui i Superioriprocedettero, tra difficoltà notevoli (tenuto conto dell’espansionedelle iniziative e della scarsità di personale), a perseguire l’obietti-vo della pratica educativa preventiva. Mi limiterò a poche ed essen-ziali indicazioni.

31. Cit. in J.M. Prellezo, Il sistema preventivo riletto dai primi Salesiani, in “Orien-tamenti pedagogici”, 1989, n. 1, p. 44.

32. Così don Cerruti lamentava nel 1913 che “il Sistema preventivo di don Bosconon è dappertutto, né come si deve, applicato, peccando gli uni per soverchia indul-genza, altri per rigorismo, che è ben altra cosa da una giusta severità. Non saprebbe[lo scrivente] qual altro miglior mezzo suggerire all’uopo se non quello d’invitare aleggere e rileggere attentamente, sul cominciar dell’anno scolastico il testo originaledel nostro buon Padre e il Ricordino educativo-didattico che lo commenta” (Cerruti,Lettere circolari e Programmi d’insegnamento, op. cit., 375).

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Poco aiuto viene da quello che rappresenta il primo tentativo di“pedagogia salesiana”, e cioè gli Appunti di pedagogia compilati dadon Giulio Barberis in forma di dispensa per i giovani salesiani (aiquali forniva nozioni di pedagogia durante gli studi) e poi apparsiin forma litografata a fine secolo e riediti qualche anno più tardi.33

L’obiettivo degli Appunti doveva essere proprio quello di spiegare ilmetodo educativo di don Bosco, ma salvo la trascrizione dei testisalesiani (lo scritto di don Bosco sul sistema preventivo e i diversiregolamenti in uso nelle case salesiane), il saggio del Barberis siconfigurò semplicemente come la collazione di testi di altri autori.La ragione è spiegata dallo stesso autore:

“Dichiaro che D. Bosco faceva poca teoria: egli veniva subito alla pra-tica; perciò se la parte pratica è tutta per quanto mi fu possibile fonda-ta su D. Bosco, la parte teoretica l’ho tolta specialmente sul prof. Giu-seppe Allievo prof. di antropologia e pedagogia all’Università di Tori-no e dal Rayneri suo antecessore nella medesima cattedra, non che dalTommaseo e da pochi altri”.34

Con ben maggiore consistenza la questione fu affrontata piùvolte dallo stesso don Rua, da don Bertello e soprattutto da donCerruti con scopi convergenti, ma anche con approcci diversi cheriflettono esigenze diverse e forse anche differenti intenzioni.

Don Rua rappresenta la memoria viva di chi ha sperimentato,nella diretta e immediata consuetudine con don Bosco, come siapossibile praticare il sistema preventivo nelle singole situazioniconcrete: l’oratorio, il collegio, la gestione dei premi e dei castighi,ecc. Il Rettor maggiore si affida non alla teoria, ma alla esemplari-tà dell’agire educativo di don Bosco: ogni suggerimento, incorag-giamento, proposta è sempre sostenuto dall’annotazione “cosìvoleva don Bosco”.35 Attraverso la narrazione di fatti ed episodi, il

33. G. Barberis, Appunti di pedagogia sacra, Torino, Litografia salesiana, 1897 (altraedizione 1903).

34. Sui limiti della trattazione del Barberis ved. Prellezo, Il sistema preventivo rilettodai primi Salesiani, cit., 50-53. Quanto all’accenno finale riguardante “pochi altri” Prel-lezo precisa che i più ricorrenti sono Antoine Monfat e Antonio Maria Micheletti.

35. A titolo d’esempio si può vedere la circolare inviata nel 1895 alle Figlie diMaria Ausiliatrice dedicata al funzionamento degli oratori femminili e alla lorogestione educativa, in M. Rua, Lettere e Circolari alle Figlie di Maria Ausiliatrice (1889-1910), a cura di Piera Cavaglià e Anna Costa, Roma, las, 2010, pp. 405-412.

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sistema preventivo viene perciò presentato come un evento che siripete. È come se la paternità educativa del fondatore perpetuassela sua efficacia nella misura in cui i suoi discepoli sapevano farnerivivere le parole, gli atteggiamenti, la capacità di parlare al cuoredei giovani.

Don Bertello è pragmaticamente impegnato a plasmare i labora-tori e le scuole professionali secondo lo “spirito di don Bosco”.Dalle testimonianze che ci sono giunte non sempre questo accade-va e poteva verificarsi che le preoccupazioni relative all’apprendi-mento di un mestiere prevalessero rispetto alla cura del contestoeducativo. La sua interpretazione del sistema preventivo come ci èconsegnata dal breve, ma succoso, testo Alcuni avvertimenti di peda-gogia per uso dei maestri d’arte è funzionale all’intento di assicurareun ambiente educativo anche nei laboratori e nelle scuole profes-sionali. Esso si configura come un dettagliato vademecum cheregola l’attività dei maestri d’arte articolato su tre punti principali:“quello che deve sapere e insegnare il maestro d’arte”, il “metodonell’insegnare”, la “disciplina”.36 Il richiamo al sistema preventivosi trova soltanto nell’ultima parte del testo, indicato come lo sfon-do in grado di assicurare efficacia educativa alle analitiche racco-mandazioni presentate nei punti precedenti.

Certamente più ampia e complessa risulta la riflessione di donCerruti che non si stanca di richiamare l’importanza della formazio-ne degli educatori (in specie chierici e assistenti) e di ricordare comeil concetto di “prevenire” implichi “vigilanza attiva” sempre “pater-na, schietta, confortatrice”, ispirata a una carità “paziente e benigna”.Anche il Cerruti rievoca e ripropone l’agire pratico di don Boscocontrapponendolo alla “teoria di taluni” secondo cui il “contattocontinuo, costante co’ giovani” farebbe perdere in autorità:

“Beati quei tempi, in cui preti e chierici nessuno eccettuato, con donBosco alla testa, erano l’anima, la vita della ricreazione, magari chiasso-sa; di una ricreazione che, occupando e preoccupando, come vertigino-samente, rafforzava il corpo, sollevava lo spirito e rendeva moralmen-te inpossibile il peccato”,37

36. Bertello, Scritti e documenti sull’educazione e sulle scuole professionali, op. cit.,pp. 190-195.

37. Cerruti, Lettere circolari e Programmi d’insegnamento, op. cit., p. 331.

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ma la riflessione dello stretto collaboratore di don Rua si svolge piùampiamente e non solo in funzione della soluzione di questionipratiche.

Don Cerruti si impegna infatti a dimostrare che il sistema pre-ventivo costituisce la più attuale espressione di una tradizionepedagogica che, sorta nell’antichità classica, si svolge nella culturaumanistica e si perpetua in don Bosco. In una personalità culturalesegnata dai forti tratti della classicità com’è il caso del Cerruti, nonpoteva esserci migliore legittimazione dell’educazione proposta dadon Bosco che l’accostamento a due indiscussi auctores del passato.

Le annotazioni di don Cerruti – già evidenti nella struttura dellasua Storia della pedagogia vengono ribadite con maggiori dettaglinel saggio Una trilogia pedagogica, ossia Quintiliano, Vittorino da Fel-tre e D. Bosco38 – tendono a dimostrare che “fra questi grandi geniiche ci offre la storia della pedagogia, antica medioevale e moderna,corrono tali punti di contatto, di rassomiglianza, direi quasi dimedesimezza d’intendimenti e di metodo” da poterli considerare“contemporanei o per lo meno plasmati sullo stesso stampo, in ciòche riguarda i principii fondamentali della pedagogia e il metododa osservare nella educazione fisica, intellettuale e morale dellagioventù”.39

Tratti distintivi di tutti e tre sono individuati nella prudente con-ciliazione tra disciplina e “assistenza dolce e severa ad un tempo”,nella vigilanza continua, nell’importanza attribuita all’educazionemorale, nel rifiuto delle punizioni corporali, nella figura autorevo-le dell’educatore e alle sue qualità personali, nella pietà cristiana“come mezzo, come fattore massimo di educazione, punto a cuinon poteva arrivare il senno pedagogico di Quintiliano, non illumi-nato dal raggio della fede”.40

38. F. Cerruti, Una trilogia pedagogica, ossia Quintiliano, Vittorino da Feltre eD. Bosco, Roma, Scuola Tipografica Salesiana, 1908, poi anche in appendice a J. Gui-bert, L’educatore apostolo, Roma, Tipografia Salesiana, 1925 (2a edizione). Un anticipodella tesi poi ampiamente esposta nello scritto del 1908 si trova in un discor-so tenuto dal Cerruti nel 1897 e riportato in “Bollettino salesiano”, 1897, n. 10,pp. 249-253.

39. Cerruti, Una trilogia pedagogica, ossia Quintiliano, Vittorino da Feltre e D. Bosco,in cit., p. 280.

40. Ibidem, pp. 287-288.

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Il sistema preventivo era in tal modo sottratto alla paternità di ungeniale educatore e collocato dentro una tradizione in pieno svolgi-mento. Contro la residualità o l’ostilità preconcetta con cui la cultu-ra della modernità laica osservava quello che era spesso descrittocome il definitivo declino dell’educazione cristiana, il Cerruti oppo-neva una interpretazione del tutto diversa, saldo nella convinzionedi avere a disposizione non solo una teoria elaborata a tavolino, ma lasolidità (e il successo) delle concrete esperienze educative salesiane.

6. La popolarità, baricentro dell’educazione salesiana

Nell’ampio dibattito che si svolge nel transito tra i due secoli trapositivisti, tardo positivisti, herbartiani, modernisti, neo idealisti,futuristi e – se spostiamo lo sguardo verso l’Europa – tra gli anima-tori delle prime esperienze di Scuole nuove e i loro critici, la vocedel Cerruti è certamente molto debole e quasi impercettibile e,come abbiamo prima accennato, occorre attendere le riflessioni piùautorevoli dei Lombardo Radice e dei Vidari per il pieno riconosci-mento anche pedagogico dell’esperienza salesiana.

Le analisi di don Cerruti suggeriscono tuttavia un primo appor-to dei Salesiani all’educazione tra Otto e Novecento. Don Cerrutiè consapevole della debolezza, per non dire della vera e propriaassenza dei cattolici nella pedagogia italiana di quegli anni. Biso-gnava guardare alla Francia e al Belgio per trovare maggiore vitali-tà grazie alle riflessioni di Lucien Laberthonnière, le esperienze diEdmond Demolins, le ricerche di Raymond La Vaissière, le inizia-tive di Désiré Mercier.

A questo vuoto il sacerdote salesiano risponde con la tesi secon-do cui l’educazione salesiana, in quanto piena espressione della tra-dizione cristiana, può colmare questa lacuna:

“La pedagogia di don Bosco è tutta e interamente cristiano-cattolica; perlui scuola e chiesa sono due idee che si compiono a vicenda; il maestrodeve coadiuvare il sacerdote ed essere alla sua volta sostenuto, guidato. Nelpensiero di don Bosco fra chiesa e scuola corre la relazione che è fra la fe-de e la ragione, fra il dogma e la scienza... La Pedagogia dunque, la Pe-dagogia cristiana, informa tutta quanta la vita e le opere di don Bosco”.41

41. Cerruti, Lettere circolari e Programmi d’insegnamento, op. cit., p. 385.

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Si tratta di un approccio che risentiva naturalmente di un certospirito di parte, di qualche entusiasmo apologetico ed era inoltrecondizionato dalla tendenza a guardare più al passato che alle novi-tà contemporanee. Ma bisogna anche riconoscere che se l’indivi-duazione dell’esperienza salesiana come vera pedagogia cristiananon poteva risolvere da sola il problema dell’assenza o del ritardodi una presenza pedagogica dei cattolici, almeno poneva la questio-ne. Pochi anni più tardi il tema sarebbe stato affrontato in altrasede da padre Gemelli e da mons. Olgiati e sempre più vivamenteavvertito anche in casa salesiana.

Per quanto la lungimiranza di don Cerruti costituisca – specie aguardarla con il senno di poi – un motivo interessante, ben altrequestioni erano al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni deiSuperiori negli anni post boschiani. Morand Wirth ha individuato,a tal riguardo, sei principali linee di azione dei Salesiani e delleFiglie di Maria Ausiliatrice: istruire e educare attraverso la scuola;prevenzione nei quartieri popolari delle città mediante l’oratorio ele parrocchie; dare un “buon indirizzo” alla classe operaia; azioni afavore degli emigranti; interventi missionari per la diffusione della“civiltà”; stampa e cultura popolare.42

Tanti impegni e molteplici fronti aperti erano unificati tuttaviadal motivo portante della sollecitudine per l’educazione e l’istru-zione dei “figli del popolo”. Alla consapevolezza di essere deposita-ri di una specifica originalità educativa corrispose la scelta, quelladella gioventù “povera e abbandonata”, espressione associata prefe-renzialmente ai soggetti deboli, ma via via estesa a tutti i giovanibisognosi di istruzione e di educazione. Sull’esempio “del nostroindimenticabile Padre” occorreva:

“prendersi cura speciale della gioventù e del popolo, col diffondere trail popolo e la gioventù centinaia di scritti destinati a illuminare il loroanimo, a preservarli dall’errore, richiamarli dal medesimo, se già vi fos-sero incappati... col porre a base della loro cultura ed educazione lareligione santissima di Gesù Cristo, coll’inculcar loro coll’esempio econ le parole il rispetto e l’obbedienza alle autorità”.43

42. M. Wirth, Orientamenti e strategie di impegno sociale dei Salesiani di don Bosco, inF. Motto, L’Opera Salesiana dal 1880 al 1922, Roma, las, 2001, pp. 87-99.

43. “Bollettino salesiano”, 1903, n. 5, p. 133.

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Il motivo dell’educazione popolare costituì, non a caso, una delletravature (forse la più rilevante assieme al forte e duraturo sostegnodell’azione missionaria) dei numerosi congressi dei cooperatorisalesiani che si svolsero nel primo quindicennio del secolo, da quel-lo di Torino del 1903 a quelli di Lima e Milano del 1906, da quel-lo di Santiago del Cile del 1909 a quello di San Paolo del Brasiledel 1914. L’identità stessa della presenza e della cooperazione sale-siana era ricondotta nei termini propri di una militanza capace dimoltiplicare le opportunità di educazione e di istruzione a favoredei giovani del popolo.

In questa scelta preferenziale agivano a fine secolo le stessemotivazioni che avevano spinto don Bosco ad aprire l’Oratorio:contrastare la diffusione dell’irreligiosità negli strati sociali infe-riori, animare in modo cristiano l’educazione dei giovani, soddi-sfare obiettivi bisogni sociali, rispondere alle aspettative dellefamiglie di modeste condizioni (piccoli proprietari agricoli, arti-giani, lavoratori delle manifatture rurali, piccoli borghesi dellecittà) che ambivano per i figli un ambiente scolastico ed educati-vo adeguato alle loro modeste condizioni economiche. E se labattaglia in nome dei valori cristiani di don Bosco aveva avuto adavversari materialisti increduli, liberali impenitenti, protestanti ei “nemici della Chiesa”, il confronto di fine secolo vedeva i Sale-siani misurarsi con socialisti, evoluzionisti e “adoratori dellascienza” (come li definiva il “Bollettino salesiano”) impegnati adiffondere un nuovo verbo – quello della scienza – che avrebbedovuto liquidare la fede religiosa concepita alla stregua di unasemplice superstizione.

L’idea di popolo/popolarità che anima i Salesiani è situata nelladecisiva lotta – così era percepita – per la salvaguardia dell’identitàcristiana, elaborata non tanto sul piano della storia e della cultura,ma di volta in volta interpretata e definita in termini di concretez-za quotidiana.

Nei testi salesiani si trova, in primo luogo, l’idea di un popolonaturalmente religioso. Solido nella fede tramandata dai padri, apartire dalla modernità esso è tuttavia esposto a un’opera diabolicache, tra lusinghe e allettamenti di ogni genere (letture, divertimen-ti, stili di vita) lo induce a fare a meno di Dio. Si tratta di un temaricorrente nel mondo cattolico ottocentesco. Il rischio della “per-dita della fede” dell’Italia era ascritto alla “propaganda delle sette”,

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espressione nella quale erano riassunte le attività della massoneria,dell’anticlericalismo irreligioso, del socialismo.

In una seconda accezione vengono richiamati i valori potenzialied intrinseci del popolo che ne assicurano il bene: la sobrietà dellostile di vita, il senso della famiglia, la laboriosità, la gioia della festa,la santificazione delle grandi ricorrenze della vita, tutti valori cheritroviamo riproposti nell’esperienza boschiana e salesiana. Alcuniaspetti della vita oratoriana, ad esempio, sono particolarmenteadatti a identificarsi nei sentimenti popolari: la banda musicale, lerappresentazioni teatrali, i giochi e la pratica sportiva. Sono perl’appunto queste esperienze – oltre a quelle proprie del culto edelle devozioni – a testimoniare la capacità salesiana di intercetta-re e interpretare le espressioni più autentiche dei ceti popolari.

Una terza lettura della nozione di popolarità va associata al sod-disfacimento di specifici bisogni sociali ed educativi. A mano amano che i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice escono dalPiemonte e cominciano ad aprire opere in altre regioni, in speciequelle del sud, entrano a contatto – più di quanto non accadesse inprecedenza – con la drammatica condizione di vita del basso popo-lo. Lo stesso don Rua aveva maturato diretta esperienza di questesituazioni durante i suoi faticosi viaggi attraverso il Mezzogiorno.Si estende la consapevolezza dello stretto rapporto tra povertà,miseria morale e ignoranza religiosa, consapevolezza che si tradu-ce nei documenti nell’efficace paragone tra la realtà di alcuneregioni d’Italia e quella della Patagonia argentina.

È proprio all’intersezione di queste diverse nozioni di popo-lo/popolarità che si svolgono, come se fosse un unico progetto, leiniziative dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice: diffusio-ne degli oratori festivi, potenziamento delle scuole professionali,presenza nel campo dell’infanzia e dell’educazione femminile, cre-scente impegno nei collegi e nelle scuole in specie secondarie, dire-zione di alcuni seminari.

Le ricerche condotte sulla distribuzione delle opere salesianedocumentano il radicamento soprattutto nei contesti sociali me-dio-bassi della società del tempo. Quando, per esempio, nel 1901 ilCapitolo Superiore di trovò di fronte all’esigenza di far fronte auna certa diminuzione di vocazione e alla necessità di rassodare leopere già esistenti, don Rua manifestò chiaramente la sua intenzio-ne di escludere il Mezzogiorno dalla battuta d’arresto. Accanto

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all’invito a “procedere con maggiore lentezza nell’accettare nuovefondazioni” il Rettore maggiore precisava che occorreva “daresempre la preferenza all’Italia meridionale dove avvi maggiorebisogno”, posizioni ribadite negli anni successivi.44

Gli insediamenti delle Figlie di Maria Ausiliatrice optarono, aloro volta, “più volentieri” per asili e giardini d’infanzia, scuole ele-mentari, convitti per operaie, orfanatrofi e pensionati per studenti,iniziative congiunte in genere al funzionamento dell’oratorio spes-so associato a un laboratorio di lavori femminili. Insomma tutteopere principalmente rivolte all’educazione delle bambine e delleragazze appartenenti ai ceti più umili.45

Le stesse scuole secondarie e gli educandati – opere in genereassunte per corrispondere a sollecitazioni specifiche di amministra-tori locali e autorità religiose o di benefattori generosi oppure percontrastare o prevenire analoghe iniziative di parte avversa – furo-no segnate, come vedremo meglio più avanti, dall’intento dirispondere a specifici bisogni d’istruzione emergenti in quei cetiinferiori che “bisognosi” propriamente non erano, ma neppure sipotevano far rientrare nel ceto borghese. Genitori spesso appenaalfabeti o poco più che tuttavia cominciavano a stimare utile per ifigli una scolarizzazione più ampia di quella obbligatoria.

7. La questione dei giovani tra Otto e Novecento

Nel parlare dell’oratorio festivo non si può fare a meno di collo-carlo all’interno di quella particolare attenzione per i giovani chesegnò l’inizio del secolo scorso. Alcuni cambiamenti della realtàgiovanile erano intrinseci ai processi di modernizzazione comel’incremento del lavoro industriale (anche femminile), il moltipli-carsi dei fenomeni di urbanizzazione, gli allettamenti di nuovidivertimenti come il cinema e gli spettacoli sportivi, la stampaperiodica popolare attraverso la quale erano veicolati nuovi model-li etici ed estetici.

44. F. Casella, Il Mezzogiorno d’Italia e le istituzioni educative salesiane. Richieste efondazioni (1879-1922). Fonti per lo studio, Roma, las, 2000, pp. 776-777.

45. G. Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922).Percorsi e problemi di ricerca, Roma, las, 2002, p. 64.

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Le trasformazioni della vita quotidiana dei giovani s’intrecciaro-no, sul piano dell’elaborazione culturale, con nuove teorie sullagiovinezza, descritta come una particolare e felice condizione fattadi esaltazione della ribellione e dell’immaturità. I giovani, insom-ma, come “nuovi barbari” ricolmi di energia vitalistica, venuti aredimere un mondo putrescente e conformista. “Con quali tradito-ri pretesti vi permettete di scemare il loro piacere e la loro libertànell’età più bella della vita e di compromettere per sempre la fre-schezza e la sanità della loro intelligenza?”, si chiedeva nel 1914Giovanni Papini nel lanciare i suoi infuocati strali contro la scuola,le consuetudini sociali, il bon ton borghese.

Non a caso proprio in quegli anni si manifestò un diffuso inte-resse anche psicologico e pedagogico per l’età giovanile con lericerche compiute negli Stati Uniti da Stanley Hall sull’adole-scenza; l’avvio delle esperienze di Robert e Agnese Baden Po -well, animatori del movimento scoutistico; la diffusione in Ger-mania del movimento dei Wandervögel e in Inghilterra dei gio-vani neo pagani sulla base di un “manifesto” di Robert Brooke; ilproliferare delle società sportive e di quelle ginniche in particola-re, un fenomeno particolarmente diffuso in Italia. Esperienzemotivate da ragioni diverse, ma convergenti nel porre in primopiano una nuova attenzione del mondo adulto verso la condizio-ne giovanile.46

Il giovanilismo tardo ottocentesco/primo novecentesco – con ilcorredo di spontaneismo libertario, naturalismo, culto del corpo –sfidava apertamente il modello educativo cattolico. Molte iniziati-ve furono perciò predisposte per contrastarlo, da sodalizi già con-solidati come la Società della Gioventù Cattolica Italiana e le Con-gregazioni Mariane e altri di più recente costituzione come la Fuci,la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane, iprimi gruppi dello scoutismo cattolico.47 In questa complessivatemperie un ruolo di tutto rilievo svolse il movimento oratoriano e,all’interno di questo, l’impegno salesiano.

46. P. Dogliani, Storia dei giovani, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 1-64;J. Savage, L’invenzione dei giovani, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 91-142.

47. Rinvio per la dettagliata analisi di queste iniziative nel contesto del movimen-to cattolico di quegli anni a L. Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi sugli oratori e asso-ciazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia, La Scuola, 2006.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 155

Tra la fine del secolo e la Grande Guerra si svolsero vari con-gressi volti, d’un lato, a potenziare l’esperienza degli oratori e, dal-l’altro, a riflettere sulla loro natura e identità religiosa ed educativa.Abbiamo già ricordato la particolare attenzione di don Rua versol’oratorio. Questa scelta preferenziale si tradusse in una convintaadesione al progetto di creare – sulla base delle diverse esperienzegià in atto, gli oratori filippini, quelli ambrosiani, i patronati vene-ti oltre che gli oratori di don Bosco – un forte movimento naziona-le. In questo campo il Rettor maggiore si avvalse della competenzae della passione educativa di don Stefano Trione.

Inviato da don Rua a rappresentare gli oratori salesiani alla primaassise oratoriana convocata a Brescia nel 1895 dai padri filippini,don Trione divenne ben presto l’animatore di un apposito Comita-to permanente dei congressi oratoriani, assumendo in breve unruolo di rilievo, grazie anche alle sue ottime doti di organizzatore edi comunicatore. Al Comitato si devono altri convegni analoghi aquello bresciano (a Torino nel 1902, a Faenza nel 1907, a Milanonel 1909 e nuovamente a Torino nel 1911) attraverso cui è possibi-le cogliere l’ampiezza dei dibattiti sulla natura dell’oratorio e le suefinalità religiose, ricreative e formative.

Nel 1908 Don Rua si rallegrava del ruolo crescente assunto dalmovimento oratoriano, vedendo riconosciuta “da tante illustri per-sone non solo l’opportunità ma la necessità degli Oratori Festivi”,ma anche “l’udire proporci come mezzi efficacissimi per attirare igiovani ‘la ginnastica, lo sport, la drammatica e la musica’ che giàfin dai primi anni D. Bosco aveva introdotto nei suoi Oratori”.48

Esigenza condivisa dai vari protagonisti di questi dibattiti era quel-la di “modernizzare” l’oratorio ottocentesco, senza tuttavia smarrirnel’originaria identità, ma come farlo? La questione fu più volte affron-tata nel Capitolo Generale e nelle Lettere circolari di don Rua. Qualefosse l’orientamento dei Superiori si può ricavare da una serie di arti-coli siglati con lo pseudonimo “don Simplicio” apparsi sul “Bolletti-no salesiano” in un lungo arco di tempo (tra il 1903 e il 1910).

Gli scritti di don Simplicio meritano attenzione perché rivestonouna certa patente di ufficiosità. Simplicio – probabilmente parte

48. Il Sac. Michele Rua ai Cooperatori ed alle Cooperatrici Salesiane, in “Bollettino sale-siano”, 1908, n. 2.

156 capitolo terzo

dell’entourage di Valdocco – per sua precisa ammissione infatti scri-ve “in ossequio ai venerati desideri di don Rua” e la lettura sinotti-ca tra le riflessioni e proposte dell’anonimo autore e i riferimentiall’oratorio contenuti nelle lettere del Rettor maggiore dimostranopiù di un punto di tangenza.49

Don Simplicio è ricco di suggestioni e aperto alle innovazioni. Lasua rappresentazione dell’oratorio lo configura come un luogo per-manente di accoglienza dei ragazzi e dei giovani e di formazioneintegrale, “religiosa e civile”, si direbbe una specie di vera e propria“casa dei giovani”. Accanto alla preparazione ai sacramenti, all’eser-cizio della preghiera, alle Scuole di religione per i giovani che con-cludevano il ciclo catechistico, le attività oratoriane dovevano preve-dere corsi scolastici per analfabeti e lavoratori, l’apertura di “circoligiovanili” per preparare “le reclute per Comitati parrocchiali, peiCircoli cattolici”50 (questione assai delicata perché in controtenden-za rispetto alla tradizionale presa di distanza dei Salesiani dalla poli-tica), l’arricchimento delle iniziative ricreative fino a includere la gin-nastica e altri sport. Si trattava, in sostanza, di rinnovare il modelloereditato da don Bosco.

Un così ambizioso progetto poneva ovviamente non pochi pro-blemi come una adeguata preparazione del personale e sufficientirisorse economiche per sostenere strutture che, a differenza peresempio dei collegi, non disponevano di altri introiti se non diquelli provenienti dai cooperatori e benefattori. La questione deisacerdoti e dei laici dediti all’oratorio merita una sottolineaturaspeciale. Quanto più la vita dell’oratorio diventava varia e articola-ta tanto maggiore si svelava il bisogno di personale competente sulpiano educativo. Cominciò insomma, seppur in forme caute, amanifestarsi il bisogno di sacerdoti, catechisti e animatori non solosufficienti come numero, generosi ed entusiasti, ma altresì prepara-ti ad affrontare il ruolo di educatori. Era anche questo il segnale diuna sempre più matura consapevolezza pedagogica all’interno dellaSocietà salesiana che dagli esponenti di vertice cominciava a discen-dere alla base.

49. P. Braido, L’Oratorio salesiano in Italia, “luogo” propizio alla catechesi nella stagio-ne dei Congressi (1888-1915), in “Ricerche storiche salesiane”, 2005, n. 1, pp. 46-49,saggio nel quale si trovano anche alcune ipotesi sull’identità dell’autore, p. 39.

50. “Bollettino salesiano”, 1904, n. 10, p. 300.

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Dopo aver delineato la possibile fisionomia di un oratorio all’al-tezza dei tempi, in una seconda serie di articoli (1907-1908), donSimplicio si ritagliò uno spazio più da cronista che da teorico. Intale veste rese conto delle attività (specie di quelle contraddistinteda significative innovazioni) realizzate in varie parti d’Italia. Inquesto modo Simplicio si proponeva di dimostrare come le propo-ste avanzate sul piano generale erano realmente praticabili e nonsolo frutto di un’astratta teorizzazione.

Problemi di adeguamento a nuove esigenze presentava anche unaltro qualificante tassello dell’organizzazione educativa salesiana ecioè l’ambito dei laboratori professionali affidato nel 1898 allaresponsabilità di don Bertello. Mentre la “modernizzazione” del-l’oratorio incontrò un terreno piuttosto favorevole e disponibile, ilpassaggio dalla concezione laboratoriale a quella più complessadelle scuole professionali accusò maggiori resistenze. Le difficoltàdegli ambienti salesiani a riconoscere lo status di scuola alla forma-zione degli allievi artigiani s’incrociarono con i profondi cambia-menti che tra il 1902 e il 1912 percorsero sul piano normativo ilsettore dell’istruzione professionale.

Grazie alla duttilità dei programmi e al carattere essenzialmentepratico, le scuole professionali, più di quelle tecniche, si adattavanoalle esigenze di personale qualificato del mondo della produzioneed erano inoltre molto gradite dalle famiglie di modeste condizio-ni che desideravano avviare i figli al lavoro senza tuttavia precoce-mente introdurli nella vita della fabbrica. Per rispondere a questoinsieme di aspettative fu messo a punto all’interno del Ministerodell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio un sistema scola-stico parallelo a quello gestito dal Ministero della Pubblica Istru-zione. Il modello al quale si guardava era quello tedesco, giudicatoesemplare sia per l’ampia articolazione ed estensione di proposteformative sia per il contributo che notoriamente aveva dato e davaal prodigioso sviluppo dell’industria e dell’economia nella Germa-nia del xix secolo.51

51. Su questi temi, oltre ai lavori ormai classici di Castelli (1915) e di Tonelli(1964) ved. R.S. Di Pol, Scuola e sviluppo economico nell’Italia giolittiana 1900-1915,Torino, Sintagma, 1990; F. Hazon, Storia della formazione tecnica e professionale in Ita-lia, Roma, Armando, 1991.

158 capitolo terzo

In via di principio i Salesiani avevano intuito la necessità di unasvolta. Con una serie di documenti predisposti quando ancora donBosco era vivo e ribaditi negli anni seguenti (1887, 1895, 1898)era stato prescritto di assicurare agli allievi artigiani “una adegua-ta istruzione che non sia privilegio di pochi, ma diventi beneficiocomune a tutti” allo scopo preciso di “formare operai intelligenti,abili e laboriosi”.52 Ma questa indicazione era rimasta per lo piùdisattesa: l’impianto dei laboratori restò a lungo quello incentratosull’esercizio del lavoro pratico svolto sotto la guida di un istrutto-re,53 più officina, si potrebbe dire, che scuola.

I laboratori seguivano inoltre la prassi di lavorare per conto terzie anche se nel Capitolo del 1904 si decise di rettificare questaimpostazione (“i laboratori non abbiano scopo di lucro, ma sianovere scuole di arti e mestieri”), continuò ad essere per lo meno tol-lerata la possibilità di lavorare non solo per scopi didattici (“tutta-via si faccia in modo che lavorino e producano per quanto è com-patibile con le condizioni di scuola”).54 La persistenza di alcuneconsuetudini proprie del mondo artigiano come ad esempio quelladelle “mance settimanali” conteggiate secondo elaborati prontuariconfermano che gli allievi erano visti anche come apprendisti “cot-timisti” e non solo come ragazzi da premiare in base al merito e alprofitto.55

52. Bertello, Scritti e documenti sull’educazione e sulle scuole professionali, op. cit.,pp. 17-18.

53. Per una sintesi sull’esperienza delle scuole professionali salesiane si rinvia aL. Panfilo, Dalla Scuola di arti e mestieri di don Bosco all’attività di formazione professio-nale (1860-1915). Il ruolo dei salesiani, Milano, Libreria editrice salesiana, 1976; L. vanLooy, G. Malizia (edd.), Formazione professionale salesiana: memoria e attualità per unconfronto, Roma, las, 1997. Su specifiche esperienze: G. Rossi, L’istruzione professio-nale in Roma capitale. Le scuole professionali dei salesiani al Castro Pretorio (1883-1930),Roma, las, 1996; Id., Istituzioni educative e istruzione professionale a Roma tra Otto eNovecento: salesiani e laici a confronto in F. Motto (ed.), L’Opera Salesiana dal 1880 al1922, op. cit., vol. ii, pp. 105-129; G. Barzaghi, Cultura salesiana e socialista nellaMilano del cardinale Ferrari (1894-1921), Milano, Nuove Edizioni Duomo, 2000. Oraved. J.M. Prellezo, Scuole professionali salesiane. Momenti della loro storia (1853-1953),Roma, cnos fap, 2010.

54. Cit. in Panfilo, Dalla Scuola di arti e mestieri di don Bosco all’attività di formazio-ne professionale, op. cit., p. 85.

55. Ibidem, p. 89.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 159

Se si tiene poi conto dell’insistenza con cui i Superiori sollecita-vano ad ogni piè sospinto l’adozione del sistema preventivo anchenell’educazione degli “artigiani”, è possibile ipotizzare che certilimiti “lavoristici” fossero intrinsecamente connessi alla prassi con-sueta nelle case salesiane. Consapevole dei mutamenti in atto donBertello non si stancò nelle sue periodiche circolari di richiamarel’importanza anche della formazione generale e di promuovere ilProgramma scolastico per le scuole di artigiani definito nel 1903:“Fuori si lavora febbrilmente a dare agli operai una istruzione largae appropriata e non bisogna che i nostri allievi debbano sfigurare alloro confronto”.56

Un buon esempio in tal senso veniva dalle esperienze realizzatein Belgio presso l’istituto di Liegi presentate in occasione del terzoCongresso internazionale dei Cooperatori.57

Le risposte a queste sollecitazioni restarono piuttosto tiepide eaddirittura non mancarono, all’interno stesso della Società salesia-na, esplicite riserve sul rischio di un eventuale eccesso di cultura ditipo scolastico. Ad esempio secondo il periodico “L’arte nelle scuo-le professionali”, rivista con scopi didattici e pratici pubblicata nellacasa di S. Benigno Canavese, un eccesso di fatica intellettualerischiava di privare “i giovani dell’elasticità materiale necessaria”con la conseguenza di “una mollezza pregiudizievole a chi devededicarsi ad una professione qualsiasi nella quale più che lo studionecessita il lavoro materiale”.58

Furono due eventi, entrambi del 1907 ad accelerare il riordinodelle scuole professionali salesiane. Gli ispettori del Ministero del-l’Agricoltura, dell’Industria e Commercio eccepirono che i labora-

56. Ibidem, p. 85. 57. Negli Atti del III Congresso internazionale dei Cooperatori salesiani, per cura di

Felice Cane, Torino, Tip. Salesiana, 1903, p. 230, si presentava il programma di Liegi(che prevedeva nozioni di cultura generale, letteraria e sociale) come “veramente pra-tico, sanamente moderno ed in perfetta armonia colle aspirazioni delle enciclichepapali sulla questione operaia”, programma tenuto presente in sede di compilazionedel sopracitato Programma scolastico.

58. “L’arte nelle scuole professionali” fu pubblicata per iniziativa di don Savarè,direttore della scuola professionale di S. Benigno Canavese, per tre anni, dal 1905 atutto il 1907, con scopi pratici e didattici, presentando molteplici esercizi e lavori neisettori del ferro, del libro, del legno e della sartoria.

160 capitolo terzo

tori di Valdocco fossero “scuole professionali”, giudicando che inrealtà funzionassero piuttosto come “opifici industriali” e, in quan-to tali, violassero una legge del 1902 contro lo sfruttamento delledonne e dei fanciulli sul lavoro. I Salesiani furono accusati daisocialisti “di sfruttare la manodopera di tanti poveri diavoli, facen-doli lavorare senza compenso” e di condurre “una sleale concor-renza all’industria”.59

Per rimediare alle osservazioni del Ministero i Superiori furonoperciò costretti a provvedere in tutta fretta a modificare l’organiz-zazione didattica e le esercitazioni dei laboratori di Valdocco,estendendo in seguito a tutte le case gli orientamenti avviati informa sperimentale a Torino.60 Ma nemmeno dopo questa vera epropria drastica imposizione la situazione fece registrare un effetti-vo cambiamento, almeno sul breve periodo, come documentano lerelazioni delle visite straordinarie compiute in tutte le case dellacongregazione nel biennio 1908-1909. La sezione “artigiani” erapresente in oltre una sessantina di istituti salesiani su 314 opere,ma soltanto in pochissimi casi (tra cui Valdocco) i laboratori tradi-zionali avevano lasciato il posto a quello che i visitatori definivanosinteticamente il “metodo di don Bertello”.61

Soltanto in anni successivi sotto la guida di don Pietro Ricaldo-ne, successore di don Bertello dopo la precoce morte di questi(1910), si sarebbero effettivamente e gradualmente costituite lescuole professionali al posto dei laboratori artigiani.

59. Su queste vicende un’ampia sintesi in due articoli del quotidiano cattolico tori-nese “Il momento”: Una ventata anticlericale al Consiglio comunale di Torino. Brillantedifesa degli istituti, 16 novembre 1907, p. 3 e Le accuse dei socialisti e le opere dei Salesia-ni, 17 novembre 1907, p. 3. Il rilievo della “concorrenza sleale” non era peraltroinconsueto nel mondo imprenditoriale, specie nel settore tipografico come svelanoricorrenti polemiche contro le stamperie gestite dai religiosi, non solo quelle dei Sale-siani, ma anche quella dei Giuseppini del Murialdo.

60. Circolare di don Giuseppe Bertello del 1° ottobre 1907 nella quale si richiama-va la necessità di “dare nel programma una più larga parte all’istruzione teorica e allacultura generale” in linea con le richieste ministeriali che richiedevano che “la scuoladebba avere, nell’orario giornaliero, almeno una parte eguale a quella del lavoro”. Lalettera circolare era ricca di consigli pratici e di suggerimenti organizzativi e segnala-va inoltre “il bisogno di concentrare nelle città principali le nostre Case d’arti emestieri, eliminando quelle che, per condizioni tipografiche e finanziarie, non sonosuscettibili di un considerevole sviluppo”.

61. Bertello, Scritti e documenti sull’educazione e sulle scuole professionali, op. cit., p. 24.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 161

8. L’apporto delle Figlie di Maria Ausiliatrice

Se l’oratorio e le scuole professionali appartengono al patrimo-nio salesiano fin dalle origini, la presenza nel campo dell’educazio-ne femminile e dell’infanzia entra nella tradizione educativa deglieredi di don Bosco negli ultimi decenni dell’Ottocento in relazioneal costituirsi e al consolidarsi delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Come si è già in precedenza accennato, pur tra limiti e persi-stenti pregiudizi si andò rafforzando la convinzione che fossesconveniente anche per le bambine e le ragazze non saper leggeree scrivere. A fianco dell’evoluzione del costume scolastico occorreinoltre considerare altri fattori che contribuirono a disegnare unafigura femminile in parte nuova rispetto al modello della donna“moglie/madre”.

Sul piano culturale si affacciano i primi segni dell’emancipazio-nismo femminile sostenuti inizialmente da un drappello di beneagguerrite donne di formazione mazziniana e poi ampiamente fattoproprio dal socialismo di fine secolo. Il loro modello femminileprospetta una donna dalle caratteristiche meno casalinghe, piùlibera e istruita, senza sentimenti di subalternità verso il mondomaschile. Questi piccoli gruppi, elitari, ma assai attivi a livello diopinione pubblica, suscitarono profonda impressione tra le file cat-toliche.

Un secondo fenomeno riguardò il crescente impiego anche delledonne, almeno in alcune zone dell’Italia, al lavoro negli uffici esoprattutto nelle fabbriche. L’impiego extradomestico comportavail venire meno della tutela diretta della famiglia, spesso associatoallo spostamento delle ragazze dalla campagna alla città. Moltiromanzi di appendice rappresentano precisamente questa nuovarealtà con i molteplici rischi, in specie morali, ad essa associati.

Le iniziative delle Figlie di Maria Ausiliatrice tra i due secolivanno collocate in questo scenario e possono essere ricondotte aun fondamentale interrogativo: come promuovere l’educazionedella fanciulle in una realtà assai più dinamica del passato e forieradi prospettive per molti aspetti inedite? Intorno a tale questionedisponiamo di numerosi studi e ricerche condotte da alcune stu-diose salesiane sui primi decenni dell’Istituto delle Figlie di Maria

162 capitolo terzo

Ausiliatrice.62 In riferimento a questi esaminerò il piano educativodelle Figlie di Maria Ausiliatrice, articolandolo in una premessa etre punti.

La premessa è questa: l’Istituto femminile condivide le finalitàintorno a cui don Bosco diede vita alla Società salesiana e cioè dioperare a favore della gioventù povera e abbandonata e di pratica-re, a tal fine, il sistema educativo preventivo. Molte osservazioni dicarattere generale già svolte esplicitamente o date per implicitenelle pagine precedenti valgono, dunque, anche per le Figlie diMaria Ausiliatrice. Le suore risultano non soltanto largamentedebitrici, ma addirittura intenzionalmente dipendenti dalle sceltecompiute dai Superiori maschili almeno fino alla separazione delledue congregazioni nel 1906.

Il primo punto riguarda il modello di donna che emerge daidocumenti e dalle esperienze delle Figlie di Maria Ausiliatrice.Esso non differisce dalle tendenze prevalenti del mondo cattolicodel tempo e testimonia la graduale, per quanto lenta e assai pru-dente, evoluzione dal modello tradizionale tutto centrato sullafamiglia e sugli obblighi familiari a un modello più ampio, non piùesclusivamente ripiegato sulla tutela e protezione dell’uomo. L’im-magine della donna, nutrita di una pietà solida, apostola della cari-tà, tutrice dell’integrità della famiglia comincia a essere considera-ta in funzione della sua capacità di vivere nel mondo e di realizzar-si anche al di fuori dell’orizzonte domestico.

Si tratta di un passaggio complesso, a volte contraddittorio, incui si intrecciano preoccupazioni, speranze e aspettative verso ciòche emerge di nuovo. Si affacciano esigenze educative in partediverse dal passato: accanto al persistere della difesa e del sostegnodel ruolo tradizionale della donna in famiglia, si manifesta la presadi coscienza del mutamento in corso e cioè di una promozionefemminile non solo circoscritta al ruolo di “moglie/madre”, maanche di persona impegnata nel lavoro, in specie in quello educati-vo. La scelta di preparare maestre rientrava in questa strategia e

62. P. Cavaglià, Educazione e cultura per la donna. La scuola “Nostra Signora delleGrazie” di Nizza Monferrato dalle origini alla riforma Gentile (1878-1923), Roma, las,1990; Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922). Percor-si e problemi di ricerca, op. cit.; P. Ruffinatto, M. Séïde (edd.), L’arte di educare nellostile del sistema preventivo. Approfondimenti e prospettive, Roma, las, 2008.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 163

rifletteva una più ampia tendenza della società del tempo nellaquale l’attività magistrale sembrava la professione più coerente conla condizione femminile.

Alla duplice esigenza di difesa dei valori consolidati e di apertu-ra al nuovo corrispose una doppia istanza pedagogica: un compitodi protezione e un compito di responsabilizzazione.

Non è certamente un caso – questo il secondo punto da conside-rare – se una significativa parte delle iniziative intraprese dalleFiglie di Maria Ausiliatrice si orientò verso la categoria delle operedi “preservazione morale” (oratori, convitti, case-famiglia, pensio-nati) affiancate dalle “opere di penetrazione” (catechismi, iniziativea favore delle operaie sul lavoro, esercizi spirituali, attività in favo-re degli emigranti).63 L’attenzione delle religiose si rivolse soprat-tutto, d’un lato, a operaie, sartine, domestiche e, dall’altro, alle stu-dentesse dei ceti medio-bassi. Le une e le altre erano considerate legiovani a maggiori rischio, per ragioni morali legate agli ambientidi lavoro o per la trasmissione di una cultura areligiosa o comun-que diversa da quella degli ambienti di appartenenza.

Le religiose agiscono negli interstizi non solo materiali ma anchepsicologici lasciati liberi dal lavoro o dalla scuola in vario modo:assicurare protezione e aiuto a chi è lontano dalle famiglie, contene-re la propaganda socialista che specie negli ambienti di lavoro ope-raio diffonde un’immagine di donna e di famiglia alternativa aquella cristiana, correggere quando necessario le idee divulgateattraverso lo studio scolastico e ritenute perniciose per future inse-gnanti e madri di famiglia, animare sensi di pietà cristiana e intro-durre a nuove forme di devozioni.

Il venire meno o l’attenuarsi della tutela paterna e soprattutto lesuggestioni più ampie della società moderna – letture, nuovi stili divita e divertimenti – spingono verso la revisione delle prassi educa-tive tradizionali. Si dà più importanza alla interiorizzazione deivalori in modo da renderli personali in luogo della sola disciplinaesteriore, del controllo, della moralità etero-diretta. Le prassi edu-cative tendono, in altre parole, a suscitare dal basso le risorse per-sonali, favorendo in tal modo la migliore espressione delle attitudi-

63. Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922),op. cit., pp. 485-615 e 617-711.

164 capitolo terzo

ni personali. È precisamente questo il terzo punto, quello che risul-ta più strettamente associato alla lettura pedagogica, su cui va infi-ne richiamata l’attenzione.

La capacità di leggere e interpretare la realtà giovanile femminile,il clima familiare nel quale in specie l’oratorio è realizzato, lo stileeducativo improntato a confidenza e affettività sembrano essere leprincipali ragioni della credibilità educativa che anche le Figlie diMaria Ausiliatrice, al pari dei Salesiani, conquistano agli occhi del-l’opinione pubblica. È questa attitudine alla relazione interpersona-le che colpisce, ad esempio, gli ispettori ministeriali che visitano lescuole e gli istituti delle suore salesiane.

È arduo stabilire se questa esigenza sia stata soddisfatta in seguito auna specifica e originale interpretazione e attuazione “al femminile”del sistema preventivo e visto per lo più nell’ottica della vigilanza,espressione di cui si trova peraltro modesta traccia anche nei docu-menti ufficiali e spesso impiegata come sinonimo di “spirito di donBosco”. Oppure se l’efficacia educativa delle religiose sia piuttostol’esito di una semplice quanto abile empiria educativa ispirata all’edu-cazione del cuore così insistentemente raccomandata da don Rua eperseguita tenacemente dalle figure più autorevoli tra le Superiore.64

Accanto all’impegno profuso nell’educazione femminile, leFiglie di Maria Ausiliatrice furono molto attive anche nel campodell’educazione infantile. Nel 1900 gli asili tenuti dalle suore sale-siane assommavano a 51, nel 1908 erano saliti a 94 e nel 1914 sicontavano 119 scuole infantili su un totale di 209 case.65 Già nel1885 era stato predisposto un apposito Regolamento che ne orien-tasse il funzionamento, poi rivisto e aggiornato nel 1912. Tantaattenzione non costituiva un fenomeno isolato, ma rientrava nelpiù ampio fenomeno delle iniziative promosse, in specie dopo il1870-1880, in molte parti d’Italia e da vari soggetti in favore del-l’educazione della prima infanzia.

Anche questo inedito ambito di azione – inedito per lo menorispetto all’eredità boschiana – si svolge in linea con le scelte pre-

64. Ad esempio la lettera circolare inviata alle direttrici il 6 gennaio 1890, in Rua,Lettere e Circolari alle Figlie di Maria Ausiliatrice (1889-1910), op. cit., pp. 370-373.

65. Loparco, Le Figlie di Maria Ausiliatrice nella società italiana (1900-1922),op. cit., p. 423.

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ferenziali dell’azione salesiana: gli asili rispondono a bisogni socia-li propri dei ceti popolari; sono dislocati solitamente in areesegnate da particolare indigenza oppure insidiate dalla propagan-da protestante o socialista oppure ancora rispondono all’esigenzadi provvedere alla cura di bambini le cui madri sono impegnate allavoro; consentono di provvedere precocemente all’istruzionereligiosa; rappresentano un ottimo tramite per ampliare il raggiod’azione sia verso le famiglie sia verso le fanciulle. A fianco del-l’asilo si trovano infatti quasi sempre l’oratorio festivo e le attivitàad esso connesse come scuole serali, festive, corsi di cucito e lavo-ri domestici, ecc.

L’obbligo di corrispondere alla normativa che regolava il fun-zionamento di queste istituzioni educative spinse molte suore – inanalogia con quanto accadeva per le religiose impegnate nellescuole elementari – al conseguimento delle regolari patenti. Nel1900 fu annesso alla scuola normale di Nizza Monferrato il corsofröbeliano per la formazione delle maestre giardiniere che nel1906 venne pareggiato ai corsi statali. Si creò in tal modo unnucleo di maestre e direttrici con un’infarinatura pedagogica,anche se è legittimo dubitare che oltre alla metodologia indicatadal Fröbel sapessero davvero orientarsi nella sua non facile siste-mazione teorica.66

I Regolamenti stabiliti per il funzionamento degli asili denotanouna buona conoscenza della cultura pedagogica infantile coeva, conuna propensione verso quella aportiana nel documento del 1885 eun apprezzamento più spiccato per quella fröbeliana trent’anni piùtardi. È questa, del resto, la curva seguita dalla pedagogia infantileitaliana tra i due secoli. In entrambi i documenti si coglie lo sforzodi adeguare il principio pedagogico preventivo alla prima infanzia,puntando “sugli elementi classici dell’amore e della ragione decli-nati al femminile attraverso un approccio ‘materno’” e cioè teso ariprodurre nella scuola infantile “il clima familiare e domesticodella casa”.67

66. Ibidem, p. 426. 67. P. Ruffinatto, L’educazione dell’infanzia nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausilia-

trice tra il 1885 e il 1922. Orientamenti generali a partire dai regolamenti (1885-1912), inacssa, L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze, attuazioni in diversi contesti,Roma, las, vol. i, pp. 135-160.

166 capitolo terzo

I due testi denotano equilibrio e senso pratico e rifuggono daletture pregiudizialmente ideologiche, come invece spesso acca-deva nel mondo cattolico di fine Ottocento.68 Per ragioni diversetanto Aporti quanto Fröbel erano visti con qualche sospetto, comedimostravano i taglienti giudizi espressi su entrambi sulle paginedella “Civiltà Cattolica”. I metodi dell’educazione infantile eranoviziati, a giudizio della rivista dei padri gesuiti, dalla loro origineprotestante e dall’ampio spazio riconosciuto alla libertà del bam-bino. Più in generale si può ricordare che il mondo cattolico entròa fatica nell’idea che la scuola infantile potesse costituire un’espe-rienza destinata non solo ai bambini abbandonati o segnati dall’in-digenza delle famiglie e rivestire invece una funzione educativa esociale più ampia.69

Nonostante queste riserve di principio, don Cerruti – al quale sideve se non proprio la stesura per lo meno la revisione del Regola-mento del 1885 – riconosceva serenamente al Fröbel, pur distanzian-dosene nettamente sul piano dei princìpi filosofici, alcuni meriticome lo studio attento della natura infantile, la rilevanza assegnataall’educazione fisica e il valore didattico del “metodo oggettivo chegiudiziosamente adoperato” poteva riuscire “di larga efficacia”.70 Ilconsigliere scolastico dimostrava, in questo caso, di saper evitare unalettura preconcetta e distinguere gli sfondi culturali complessividalle pratiche metodologiche. È possibile ritenere che, mancando inquesto ambito un esplicito e diretto insegnamento di don Bosco,don Cerruti si sentisse legittimato a una maggior libertà di giudizio.

Il superamento di certi steccati ideologicamente rigidi, ma gesti-ti in modo pragmatico e con il dovuto riconoscimento del valorepedagogico del sistema preventivo, era documentato in modoancor più incisivo dal Regolamento del 1912 che si muoveva entroun orizzonte abbastanza marcatamente fröbeliano (con la sparizio-

68. R.S. Di Pol, Fröbel e il fröbelismo in Italia, in “Annali di storia dell’educazione edelle istituzioni educative”, 1999, n. 6, pp. 201-205.

69. L. Pazzaglia, Asili, Chiesa e mondo cattolico nell’Italia dell’800, in L. Pazzaglia,R. Sani (edd.), Scuola e società nell’Italia unita. Dalla Legge Casati al Centro-sinistra, Bre-scia, La Scuola, 2001, pp. 83-84.

70. Regolamento-Programma per gli Asili d’Infanzia delle Figlie di Maria Ausiliatricepreceduto da un cenno storico sull’origine e sulla istituzione degli Asili in Italia, San BenignoCan., Tipografia e Libreria Salesiana, 1885, p. 10.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 167

ne delle anticipazioni relative alla lettura, scrittura e calcolo pro-prie della impostazione aportiana), anche se cominciavano a mani-festarsi alcune perplessità legate alla curvatura laicista con cui lepratiche fröbeliane erano spesso attuate.

Questo fenomeno non passò invano sulle Figlie di Maria Ausilia-trice che, da una parte erano tenute a restare fedeli agli orienta-menti ministeriali e dall’altra erano consapevoli di non poter tradi-re una loro specificità pedagogica. I rapporti intrattenuti negli anni’10 e poi anche in seguito con mons. Angelo Zammarchi, animato-re della casa editrice La Scuola di Brescia per la creazione di unperiodico destinato alle maestre d’asilo (progetto poi realizzato apartire dal 1913 con la rivista “Pro Infantia”) in grado di contrasta-re la stampa magistrale laica e massone dimostrano l’emergere diuna consapevolezza critica forse non ancora così netta negli anniprecedenti.71

La successiva larga affermazione della pedagogia infantile ani-mata dalle sorelle Rosa e Carolina Agazzi – che rappresentava l’og-gettivo superamento di alcuni limiti dell’impianto fröbeliano conuna forte impulso alla dimensione “materna”–, immediatamentefatta propria dalle religiose, avrebbe negli anni successivi costituitoil successivo tornante, più vicino alla sensibilità dei cattolici, dellevicende delle scuole infantili salesiane.

9. I Salesiani e la scuola

Come la storiografia salesiana ha più volte sottolineato il temadella scuola e del connesso impianto collegiale costituisce, fin dalleprime esperienze di don Bosco, un aspetto privilegiato dell’impe-gno educativo della Società salesiana.

L’esperienza maturata a Valdocco rappresentò, anche in questocaso, un irrinunciabile punto di riferimento: la scuola sarebbe statapiù efficace se inserita entro un contesto educativo ad internato ecioè “totale” in modo da favorire la concentrazione intellettuale el’educazione dell’allievo nella sua globalità. Si trattava di una scel-

71. Cavaglià, Educazione e cultura per la donna. La scuola “Nostra Signora delleGrazie” di Nizza Monferrato dalle origini alla riforma Gentile (1878-1923), op. cit.,pp. 265-270.

168 capitolo terzo

ta coerente con l’orientamento prevalente nell’Ottocento. Taletendenza rispondeva all’accresciuto bisogno di scuola che si verifi-cava anche nei ceti della piccola e media borghesia dell’epoca (nonsoddisfatto dal sistema scolastico del tempo non così capillarmentedistribuito come accade oggi) e si basava sulla convinzione che glieffetti educativi sarebbero stati più efficaci nella misura in cui lostudente cresceva entro un ambiente separato rispetto al resto dellavita sociale.

La specificità della scuola salesiana non riguarda, dunque, ilmodello istituzionale, quanto la modalità di impostazione pedago-gica del collegio e della scuola. Le prassi educative in uso in specienegli internati, solitamente segnate da una rigorosa disciplina (e inqualche caso da consuetudini addirittura di estrazione militare)andavano integrate e plasmate da criteri che facessero leva anchesulla suasione e sulla comprensione (l’“amorevolezza” boschiana).

Questa almeno l’indicazione che ricorre nei documenti e nelleraccomandazioni dei Superiori anche se poi la realtà – per quantopossiamo arguire dalle testimonianze sulla vita reale – si presenta-va in modo assai vario e non sempre del tutto coerente con le affer-mazioni di principio. Una realtà che svelava la difficoltà di tradurrein pratica proprio il principale caposaldo pedagogico lasciato dadon Bosco: la pratica preventiva e se questa, in particolare, dovesseridursi soltanto a un’accorta vigilanza oppure se comportasseun’azione più ampia, in che misura e con quali modalità si dovessegarantire la disciplina ecc.

Limito la mia analisi su altri punti, in particolare al ruolo svoltodelle scuole salesiane tra i due secoli rispetto alla dislocazione sulterritorio delle scuole secondarie, alla scelta preferenziale verso lascuola classica e alla produzione di un’apposita editoria funzionaleal piano educativo previsto.

Per capire le ragioni del moltiplicarsi dei collegi e delle scuolesecondarie e delle numerose richieste avanzate in tal senso ai Sale-siani – come del resto accadeva per altre Congregazioni maschili efemminili – bisogna tenere presente la situazione scolastica dell’ul-tima parte dell’Ottocento quando si verificò il graduale aumentodi iscritti. Un numero crescente di famiglie, in specie della piccolae media borghesia, ambiva assicurare ai figli una formazione piùsolida e completa di quella elementare.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 169

La scelta cadeva preferibilmente sui corsi ginnasiali e, per chipoteva, liceali, e cioè i tipi di scuola che mantenevano inalterato ilfascino della cultura per eccellenza e garantivano l’accesso a varieoccupazioni private e a numerose carriere pubbliche. I circa 23mila studenti dei ginnasi e i quasi 5 mila iscritti ai licei della finedegli anni ’60, trent’anni più tardi erano saliti rispettivamente aquota 60 mila i primi e a 16 mila i secondi. Negli anni ’80 solo unaminima parte dei ginnasi erano governativi (114 su 728),72 mentregli altri erano privati, confessionali o comunali. Non era raro cheoltre all’iniziativa delle singole congregazioni, anche le Ammini-strazioni locali si rivolgessero a religiosi e religiose per soddisfare leaspettative delle famiglie.

Le ragioni erano diverse: ragioni ideali per contrastare l’insegna-mento laico; ragioni economiche perché gli Istituti religiosi spun-tavano in genere costi inferiori, ragioni connesse alla qualità del-l’educazione impartita. Le scuole pubbliche non godevano nel-l’opinione pubblica di molto credito, soprattutto a causa di unacerta improvvisazione nella scelta dei docenti. In quelle tenute dareligiosi e religiose – che vantavano antiche tradizioni – sembrava-no più rispettati il senso della disciplina, la formazione religiosa, laqualità degli studi anche se, in non pochi casi, si sa che un certonumero di famiglie preferiva le scuole confessionali per altri menonobili motivi, come il desiderio di prestigio sociale e la speranza inuna maggiore indulgenza sul piano del profitto.

La soppressione dei direttori spirituali decretata nel 1872 – perquanto la loro funzione fosse ormai più simbolica che reale – segnòle scuole pubbliche di un marchio laicista che finì per accreditare laconvinzione che esse fossero un focolaio di incredulità e di propa-ganda ideologica.

È precisamente in questo quadro che don Bosco aprì i primi col-legi all’indomani dell’Unità a Mirabello, Lanzo, Cherasco, BorgoS. Martino, Alassio, Varazze. Nell’espandere l’azione dei Salesianiverso le scuole ginnasiali, come ha fatto notare Pietro Stella, donBosco perseguiva molteplici obiettivi: inserirsi con proprie scuole

72. Questi e altri dati in G. Bonetta, G. Fioravanti (edd.), L’istruzione classica(1860-1910), Roma, Ministero per i Beni culturali - Ufficio centrale per i Beni archi-vistici, 1995, pp. 54-63.

170 capitolo terzo

nella vita scolastica del tempo, fruire dei vantaggi finanziari chepotevano derivare dagli accordi con le amministrazioni locali, for-nire di scuole località periferiche o relativamente periferiche, rivol-gersi a quei ceti – agricoltori benestanti, artigiani, piccola e mediaborghesia di provincia – che desideravano far proseguire gli studi aifigli senza tuttavia avere le possibilità economiche di allocarli pres-so i collegi più prestigiosi.73

Don Rua proseguì e ampliò la via tracciata da don Bosco con laprudenza di chi, come spesso ebbe modo di sottolineare, era benconsapevole della necessità di consolidare le opere già avviate e sol-tanto in seguito di avviarne delle nuove. Particolarmente difficileera la situazione degli insegnanti che non sempre erano in posses-so di regolari titoli abilitanti. La sorveglianza delle autorità scola-stiche si fece al riguardo sempre più stringente, come lo stesso donBosco sperimentò nel 1879 quando il ginnasio di Valdocco rischiòdi chiudere.

Nel 1904, stando agli elenchi pubblicati sul “Bollettino salesia-no”, dei 26 collegi con annessi corsi ginnasiali soltanto quelli torine-si (Valdocco e San Giovanni Evangelista) e quelli di Parma, Ferrarae Caserta erano attivi in capoluoghi di provincia. Tutti gli altrierano dislocati in zone più o meno periferiche dell’Italia, comun-que lontane dai centri maggiori. Analoga strategia connotava lo svi-luppo degli educandati tenuti dalle Figlie di Maria Ausiliatrice: deisette istituti che offrivano possibilità di istruzione oltre quella ele-mentare (scuola complementare e scuola normale) solo quello diNovara era disposto in una città già ben fornita di istituti scolastici.74

Anche in questo caso la strategia salesiana si svolgeva in funzio-ne di un ceto medio-basso, “popolare” in senso lato. Fin dalleprime iniziative degli anni ’60 don Bosco si era precisamentemosso in tal senso:75 la scelta di privilegiare gli studi classici era

73. P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), Roma, las,1980, pp. 125-126.

74. “Bollettino salesiano”, 1904, n. 8, p. 210. Un altro quadro sostanzialmente ana-logo ibidem, 1905, n. 8, pp. 249-250.

75. G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino (1850-1900),in F. Traniello, Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, sei, 1987,pp. 146-147. Ved. anche Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870),op. cit., pp. 123-157.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 171

infatti contemperata da una distribuzione territoriale non concor-renziale con le scuole pubbliche, in genere dislocate nei centri piùimportanti.

La preferenza per la scuola ginnasiale aveva antiche origini, lega-te alle intime convinzioni di don Bosco circa la forza educativadella cultura umanistica. Soltanto chi da giovane si era esercitatocon il latino e i testi dei “classici” era nelle condizioni di dominarepiù agevolmente non solo i saperi letterari e filosofici, ma anchequelli scientifici e tecnici. La classicità era poi concepita tanto piùeducativa quando più vivificata da un umanesimo non solo profa-no, ma sostenuto dalla concezione religiosa propria della culturacristiana.76 È ben noto l’impegno di don Bosco per l’integrazionedei programmi con gli autori latini cristiani e la sua preoccupazio-ne di provvedere le scuole di apposite edizioni dei “classici” adatta-te ai giovani.

L’obiettivo della “scuola cattolica” fu tenacemente perseguito daiSalesiani come parte di quel progetto più ampio di educazione cri-stiana che doveva essere ben riconoscibile, organizzato a dovere erealizzato senza compromessi.77 Se ne trova ampia documentazionenelle Lettere circolari e nei Programmi d’insegnamento predisposti dadon Cerruti con indicazioni e prescrizioni anche minute sul conte-sto educativo, sull’organizzazione degli spazi, sull’adeguamento deiprogrammi ministeriali alle esigenze proprie della visione cattolicadel sapere, sulla formazione dei docenti, il tutto nel quadro di unadecisa rivendicazione della libertà della scuola di fronte al crescen-te peso dello Stato.

Questa linea d’azione trovò un significativo rinforzo agli inizi delsecolo quando don Eugenio Ceria, un altro salesiano colto inter-prete dell’umanesimo cristiano, diede vita alla rivista “Gymna-sium”.78 Il periodico, pubblicato dal 1902 al 1913, associò a inte-ressi didattici volti a “facilitare il compito dei Signori Insegnanti”(comprese “accurate traduzioni” di brani tratti dai classici) la

76. B. Bellerate, Don Bosco e la scuola umanistica, in M. Midali (ed.), Don Bosconella storia, Roma, las, 1990, pp. 315-329.

77. P. Braido, Il progetto operativo di don Bosco e l’utopia della società cristiana, “Qua-derni di Salesianum”, 1982, n. 6.

78. Una breve nota sulla rivista in G. Chiosso, La stampa pedagogica e scolastica inItalia (1820-1943), Brescia, La Scuola, 1997, pp. 349-350.

172 capitolo terzo

discussione di questioni letterarie viste in una prospettiva cattolica(con significativi apporti, tra gli altri, su Pascoli e D’Annunzio) e lacoltivazione di tematiche classiciste.

Le indicazioni di carattere generale trovavano puntuale attuazio-ne sul piano culturale e didattico anche in un altro campo a cui inquesta sede posso fare soltanto un fuggevole richiamo e cioè quel-lo dell’editoria per le scuole. Non si poteva invocare una “scuolacattolica” se poi erano carenti gli strumenti necessari per attuarla.Lo stesso don Bosco si era cimentato in questo campo.

Non è un caso che il “Bollettino salesiano” sia prodigo di paginepubblicitarie relative non solo a testi devozionali, apologetici e teo-logici, ma anche all’ampia produzione scolastica della Tipografia eLibreria Salesiana, erede della Tipografia dell’Oratorio e antefattodell’attuale casa editrice sei, sorta nel 1908 per volere di don Ruacon il marchio said Buona Stampa. Già alla fine degli anni Set-tanta e con maggior vigore nei decenni successivi il catalogo del-l’editrice salesiana s’impose per un’offerta di testi scolastici ingrado di stare alla pari per numero di volumi e organizzazionedelle collane con le maggiori imprese editoriali del tempo comeParavia, Le Monnier, Barbèra, Sandron, Zanichelli.

Gli incerti inizi condizionati da un generoso e frenetico attivi-smo erano ormai un semplice ricordo. La collaborazione di insi-gni personalità non salesiane (Tommaso Vallauri, Marco Peche-nino, Giuseppe Allievo) nonché una nuova generazione di stu-diosi salesiani (Giovanni Garino, Giovanni Tamietti e poi PaoloUbaldi e Sisto Colombo) innalzarono la qualità dei prodotti edi-toriali.

Con gli anni ’80-’90 l’iniziativa maturò una fisionomia nuova,non più funzionale – come inizialmente aveva progettato donBosco – soltanto agli istituti salesiani, anche se ovviamente questioffrivano una base sicura di adozioni. L’obiettivo della Tipografia eLibreria Salesiana era quello di costituire un sicuro punto di riferi-mento per il circuito delle scuole confessionali e dei seminari italia-ni e per gli insegnanti cattolici delle scuole pubbliche. Un modellodestinato a essere ripreso nei primi decenni del nuovo secolo daaltre case editrici cattoliche come la bresciana La Scuola, le varietipografie intitolate agli Artigianelli, la libreria editrice Gregorianadi Padova e altre ancora.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 173

La fortuna di molti volumi, di pluriediti dizionari e di numerosecollane documenta la rilevanza del modello editoriale salesiano.Credo che, a questo riguardo, si possa sottoscrivere il giudizio diFrancesco Traniello secondo cui il successo dell’editoria salesiana“incomparabilmente superiore a quella collegata al movimento cat-tolico intransigente” sarebbe da individuare nella “capacità di atti-vare e perseguire in campo educativo un modello propositivo e nonsolo contrappositivo, sfumando alquanto gli aspetti più radicalidella polemica intransigente”.79

Nel tornare ora a don Cerruti e don Ceria occorre aggiungereche il loro ruolo non si limitò al sostegno interno alle scuole sale-siane nell’orizzonte della classicità. Entrambi ebbero anche partenelle vicende politico-scolastiche di fine secolo e dei primi anni delNovecento.

In occasione di alcuni tentativi (dapprima per iniziativa delministro Boselli tra il 1888 e il 1889 e poi con i lavori della cosid-detta Commissione Reale tra il 1905 e il 1908) per riformare lescuole secondarie inferiori a favore di una scuola secondaria unicanella quale era ridimensionato in modo drastico il ruolo dell’inse-gnamento delle discipline umanistiche, entrambi opposero unnetto rifiuto.

Altrettanto netta fu la difesa della libertà di insegnamento com-battuta a fianco della “Civiltà Cattolica” e delle forze organizzatedel movimento cattolico, in particolare il sodalizio torinese UnionePro Schola Libera, presieduto da Giuseppe Allievo e animato dadon Giuseppe Piovano. Significativi interventi di don Cerruti (chefu in buone relazioni con il ministro Boselli con il quale carteggiò invarie circostanze)80 in tema di libertà scolastica si ebbero infine inoccasione dell’approvazione della legge Daneo-Credaro nel 1911che avocò allo Stato le scuole comunali dei piccoli e medi centripresso le quali insegnavano maestri e maestre salesiani.

79. F. Traniello, L’editoria cattolica tra libri e riviste, in G. Turi (ed.), Storia dell’edi-toria nell’Italia contemporanea, Firenze, Giunti, 1997, 307. Sulla produzione scolasticadella casa editrice salesiana ved. anche F. Targhetta, La capitale dell’impero di car-ta. Editori per la scuola a Torino nella prima metà del Novecento, Torino, sei, 2007,pp. 91-176.

80. J.M. Prellezo, Paolo Boselli e Francesco Cerruti. Carteggio inedito (1888-1912), in“Ricerche storiche salesiane”, 2000, n. 1, pp. 87-123.

174 capitolo terzo

I Salesiani – almeno in questo periodo – intrapresero soltantosporadicamente la via dell’istruzione tecnica. Si registrano due solicasi, a Fossano e a Biella, di scuole salesiane con l’opzione del-l’istruzione tecnica. Con maggior convinzione i Salesiani condivi-sero, invece, con le preoccupazioni del movimento cattolico deltempo l’impegno a favore delle scuole e della divulgazione agraria.È forse questo uno dei pochi casi in cui don Rua si discosta dallestrategie delineate da don Bosco, che aveva a lungo diffidato dellescuole e colonie agricole e che, solo dopo molte insistenze e ripen-samenti, aveva infine accettato nel 1878 di acquisire la colonia agri-cola di La Navarre in Francia.

Nel riconsiderare il rapporto tra i Salesiani e il mondo rurale,don Rua rifletteva la rinnovata sensibilità – rivitalizzata dalla RerumNovarum – degli ambienti cattolici verso il mondo contadino. Nonsi poteva restare insensibile di fronte a una situazione di malesseree crisi nella quale s’intrecciavano svariati fattori come il rigido con-cetto individualistico della proprietà rurale, una serie di sistemicontrattuali basati su intermediazioni speculative e la sottovaluta-zione dell’impoverimento della terra che, se continuamente sfrut-tata e non adeguatamente rinvigorita, diminuiva di produttività. Il“ritorno alla terra” fu perciò concepito come un necessario soste-gno alle plebi rurali sia per migliorarne le condizioni di vita e cal-mierare i processi migratori verso le città sia per trattenerle nellafede dei padri.

Nella consueta lettera d’inizio anno pubblicata sul primo fasci-colo dell’annata 1902 il Rettor Maggiore richiamava la necessità diuna maggiore attenzione verso le scuole e le colonie agricole81 conespressioni che non lasciavano dubbi sul fatto che il mondo dellaruralità entrava a far parte della missione salesiana:

“L’impedire lo spopolamento delle campagne ed il relativo agglomera-mento delle città, con grande pericolo della fede e dei buoni costumidei nostri campagnoli, e il richiamare le popolazioni alla fonte vera delloro benessere economico, saranno i primi vantaggi di questo ritorno aicampi”.

81. “Bollettino salesiano”, 1902, n. 1.

i cattolici e l’educazione popolare. l’esperienza dei salesiani 175

Iniziative in tal senso erano già state avviate a Parma82 e a Cori-gliano d’Otranto83 e, due anni più tardi, una scuola agraria fu aper-ta a Ivrea.

Promotore di primo piano tra i Salesiani della sensibilità verso lepopolazioni rurali fu Carlo Maria Baratta. Figura di spicco in que-sto campo, pur nella brevità della sua vita, questo sacerdote pie-montese d’origine, ma parmense d’adozione, fu personalità daimolteplici interessi che spaziarono dagli studi classici (tema sulquale lasciò anche un interessante scritto) alla musica e all’arte ingenere. Direttore dell’istituto di Parma e animatore del locale ora-torio, legò tuttavia il suo nome soprattutto alle varie iniziativeintraprese nel campo della divulgazione di nuovi metodi di coltura(in particolare il cosiddetto “metodo Solari”) e della formazione digiovani agricoltori esperti, capaci di rinnovare i tradizionali meto-di di conduzione delle campagne.

Nella categoria della “gioventù povera e abbandonata” con ilnuovo secolo rientrarono, dunque, anche quei ragazzi destinati arestare nei campi: occorreva aiutarli per migliorare le condizionidella vita rurale, a misurarsi con le nuove e spesso severe regole dimercato e a superare la semplice economia di sussistenza. Si tratta-va di promuovere intelligenze capaci di contrastare gli eccessi deiproprietari (ma capaci anche di resistere alle lusinghe del sociali-smo), di resistere contro l’eccessivo fiscalismo e contenere il feno-meno della “fuga dalle campagne”.

Tematiche più tecniche, quelle agronomiche, si congiungevano amotivi sociali, politici e religiosi (la terra come dono di Dio e noncome fonte di speculazione). Fu proprio intorno all’intersezione diquesti motivi che si svolse la breve, ma intensa e appassionata, azio-ne di don Baratta.84

82. L. Trezzi, Don Carlo Maria Baratta e la neo-fisiocrazia a Parma, in F. Motto(ed.), Parma e don Carlo Maria Baratta, salesiano, Roma, las, 2000, pp. 231-254.

83. Casella, Il Mezzogiorno d’Italia e le istituzioni educative salesiane. Richieste e fon-dazioni (1879-1922). Fonti per lo studio, op. cit., pp. 590-612.

84. Ved. gli ampi e documentati saggi dedicati alla poliedrica personalità di donBaratta in Motto, Parma e don Carlo Maria Baratta, salesiano, op. cit.

Capitolo quarto

Diventare maestri.La conquista della professione magistrale

1. Un mestiere dai contorni incerti

A fianco e in stretta relazione con la lotta contro l’ignoranza sicostituì la moderna professione del maestro elementare. Il suo deli-nearsi s’intrecciò con le caratteristiche proprie dell’insegnamentoprimario che nel secondo Ottocento si configurava ancora comeun’attività alquanto varia sul piano istituzionale, poco omogeneanella realtà quotidiana e fortemente soggetta alle tradizioni locali. Imaestri erano lo specchio di questa situazione: la categoria si pre-sentava infatti in modo disomogeneo e con pratiche localistiche,fenomeni destinati a venire meno soltanto con il nuovo secolo.

Tra l’Unità e fine secolo persistono ancora nette distinzioni di trat-tamento economico e, per riflesso, di considerazione sociale tra i mae-stri (meglio retribuiti e in genere destinati alle scuole di città) e lemaestre preferite nei piccoli centri perché costavano di meno; traquelli che insegnavano nelle classi elementari superiori (quarta e quin-ta) e quelli assegnati alle classi inferiori (prima, seconda e terza), tra imaestri e le maestre dei centri maggiori (le scuole urbane erano a lorovolta distribuite in diverse classi stipendiali) e quanti erano inveceoccupati nelle scuole rurali. A fianco dei maestri principali era inoltrepossibile incontrare la figura dei “sotto-maestri”, retribuiti a metà sti-pendio, ma talora impiegati con i compiti di un maestro titolare.C’erano infine scuole che “in difetto di candidati muniti di paten-te regolare” potevano essere affidate a persone senza specifici titoli.1

1. A. Santoni Rugiu, Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementari,Roma, Carocci, 2006, pp. 45-78. Ved. anche E. De Fort, La scuola elementare dal-l’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 58-111; R.S. Di Pol,Cultura pedagogica e professionalità nella formazione del maestro italiano. Dal Risorgimen-to ai giorni nostri, Torino, Sintagma, 1998, pp. 44-84.

178 capitolo quarto

Questa complessa articolazione dell’attività magistrale previstadalla legge Casati del 1859 era ulteriormente complicata dallenumerose modalità con cui gli insegnanti elementari potevanoentrare in servizio. Di norma i maestri dovevano essere in possessodella patente magistrale da conseguire mediante la frequenza dellescuole normali di durata triennale. Ma la stessa legge prevedevache per l’insegnamento nelle classi elementari inferiori fosse suffi-ciente la frequenza del primo biennio. Accanto, poi, alle sanatoriepredisposte negli anni immediatamente post unitari per assicurareun minimo di omogeneità al personale docente, furono di volta involta previste apposite sessioni di esami per quanti, pur senza averfrequentato la scuola normale, ambivano ad ottenere (e già spessoinsegnavano) la regolare patente magistrale.

Per rimediare alla carenza di insegnanti, nel 1877 – con il mede-simo provvedimento che sanciva l’istruzione obbligatoria – fu pre-disposta un’ulteriore modalità per accedere all’insegnamento.Furono infatti istituite apposite scuole magistrali rurali di duratabiennale, con programmi molto più semplici rispetto a quelli dellascuola normale regolare e un numero ridotto di professori. Loscopo era quello di reclutare in breve tempo i maestri e soprattut-to le maestre destinati alle scuole dei piccoli comuni e delle borga-te di campagna. La soluzione si rivelò tuttavia poco efficace: unarelazione ministeriale di fine secolo li descriveva “pressoché inettiall’insegnamento, capaci soltanto di leggere, scrivere e conteggiarecon metodo empirico”.

Il fondo dell’universo magistrale, tollerato per necessità, era tut-tavia prerogativa dei maestri sprovvisti di qualsiasi titolo. Si tratta-va di persone dalle più svariate provenienze: ex militari che aveva-no frequentato la scuola del reggimento, ex alunni delle scuole tec-niche e normali che non avevano concluso gli studi e altri spostatiche per poche decine di lire a stagione tenevano aperta la scuola inpiccoli centri rurali e montani, talvolta lontani uno o due giorni dicammino dai capoluoghi di circondario o di provincia. Localitàsperdute e inospitali dove era difficile reclutare un maestro paten-tato che bisognava per di più pagare secondo quando stabilivano iminimi di legge.

Bastano queste poche note per comprendere le difficoltà di in-quadrare in modo abbastanza unitario la professione magistrale. Lo

diventare maestri. la conquista della professione magistrale 179

scenario non migliora se dagli aspetti normativi e istituzionali pas-siamo a considerare altre fonti, come quelle letterarie, giornalisti-che o memorialistiche che forniscono indicazioni contraddittorie:da una parte la retorica del maestro portatore del progresso, dal-l’altra la denuncia delle miserevoli condizioni in cui molti inse-gnanti erano costretti a vivere.

C’è per esempio un’apprezzabile letteratura – e De Amicis costi-tuisce un punto di riferimento ineludibile – che attribuisce al mae-stro di scuola una crescente importanza fino a innalzarlo alla ribaltadell’opinione pubblica. I maestri deamicisiani – da quello di Enricoal protagonista del Romanzo di un maestro, dalla maestrina dallapenna rossa all’insegnante di ginnastica di Amore e ginnastica – sonol’espressione della visione positiva con cui la società borghese guar-da all’opera dei maestri. Se essi si dibattono in qualche difficoltà e sefaticano talvolta a far quadrare i bilanci familiari, sono tuttavia com-pensati dalla grande stima sociale che li circonda, percepiti come gliinsostituibili “educatori delle plebi”, promotori della coesionesociale, interpreti dei sentimenti patriottici più genuini.

A questa visione decisamente ottimistica, fa da contraltare lacondizione magistrale che emerge dai giornali scolastici e da alcu-ne inchieste condotte negli anni ’80 da importanti quotidianicome, per esempio, il “Corriere della sera” e il “Corriere di Ro-ma”.2 Da queste fonti emerge l’altra faccia del mondo scolastico deltempo: Comuni che non ottemperano alle disposizioni normative,assunzioni truccate, prevaricazioni e umiliazioni di ogni sorta (chespingono qualche maestra addirittura al suicidio), una endemicacondizione di povertà vissuta a fianco di quelle popolazioni da inci-vilire, morti precoci per malattie e stenti.

“Eccovi il ritratto dell’educatore italiano. Corporatura gracile, visoscarno, colore terreo, occhi affossati, andatura che rivela un fisico insfacelo, abbattuto ed avvilito”:3

in questa descrizione del maestro pubblicata sulle pagine del“Risveglio educativo”, una delle riviste magistrali più note e diffu-

2. E. Catarsi, Il suicidio della maestra Italia Donati, in “Studi di storia dell’educazio-ne”, 1981, n. 3, pp. 42-47.

3. Cit. in G. Bini, Romanzi e realtà di maestri e maestre, C. Vivanti (ed.), Storiad’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1197-1198.

180 capitolo quarto

se sulla quale scrivono personalità importanti del tempo come Ari-stide Gabelli, Matilde Serao, Pietro Pasquali, c’è forse un po’ dicompiacimento letterario. Ma essa rende in modo efficace il qua-dro di indigenza nel quale vivevano molti insegnanti e soprattuttomolte maestre che, più dei colleghi maschi, erano disposte adaccettare incarichi in località isolate e sperdute.

Stando a numerose, ripetute e convergenti testimonianze i mae-stri erano addirittura in difficoltà a farsi retribuire in modo regola-re. C’erano Comuni che non volevano spendere ed altri che eranodavvero in difficoltà economiche: è stato stimato che tra il 1860 e il1880 il numero degli insegnanti che percepiva stipendi inferiori alminimo legale era molto elevato, anche in regioni dove meno sisospetterebbe.4

Dalla memorialistica del tempo – di cui sono autori scrittori,uomini politici, artisti, ma anche semplici professionisti con ilgusto della penna – emerge poi un quadro desolante circa le capa-cità didattiche degli insegnanti: maestri “avanzi delle campagnenapoleoniche”, “somari che mettono insieme un ammasso di spro-positi”, maestre così inadeguate da “ritenere una fortuna per larazza che fossero anche nubili e attempate”, maestri che lasciano ilsegno per la loro violenza punitiva e, quando va bene, maestre cosìgiovani da non avere alcuna autorevolezza educativa di fronte abambini scaltriti che una ne fanno e cento ne pensano.5

In questa grande varietà di situazioni è comunque possibile trova-re almeno un motivo che impercettibilmente, ma sostanzialmente,comincia a unire i diversi tasselli di un mosaico a prima vista quasiimpossibile da far quadrare: il graduale costituirsi dell’insegnamen-to elementare entro i confini di una professione ben delineata.

Si tratta di un processo che, nei suoi termini generali, attraversaalmeno due secoli, i cui tratti caratteristici iniziali affondano nelprimo Settecento con le esperienze dei Fratelli delle Scuole Cristia-

4. G. Vigo, Il maestro elementare nell’Ottocento, in “Nuova rivista storica”, 1977,n. 1-2, p. 48.

5. G. Genovesi, La scuola del ricordo: l’immagine di scuola nella memorialistica italia-na (1755-1905), in G. Genovesi (ed.), Formazione nell’Italia unita: strumenti, propa-ganda e miti, Milano, Angeli, 2003, pp. 13-34. Altri spunti in G. Genovesi, A. Grami-gna, La scuola come romanzo. Immagini e ideali di scuola e di insegnanti nella memorialisti-ca e in De Amicis, in Annali dell’Università di Ferrara, 1995, n. 42.

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ne e le iniziative del pietismo in terra di Prussia. Da noi questo pro-cesso si svolge molto lentamente: a metà dell’Ottocento quello delmaestro in Italia è ancora un mestiere dai contorni incerti, spessoprecario e intrecciato con altre attività e soltanto a fine secolo essorientra nei canoni di una moderna professione. Non più un “mestie-re” che si trasmetteva e si svolgeva con prassi e consuetudini più vici-ne alle pratiche artigiane, bensì una professione preparata e sostenu-ta da un’attività intellettuale regolata su specifiche competenze.

Per evitare il verificarsi di situazioni spiacevoli o imbarazzanti,non era inconsueto che le autorità d’inizio Ottocento richiedesse-ro esplicitamente al maestro di non associare all’insegnamento l’at-tività in “mestieri vili”, riconoscendo con questa limitazione che ilmaestro avrebbe potuto svolgere, accanto all’insegnamento, anchealtre attività.

In un certo senso era il “bisogno di scuola” a regolare la vita delmaestro in situazioni spesso non molto diverse da quelle dell’AncienRégime: già abbastanza strutturata, in genere, nelle realtà urbane e informe molto più provvisorie e occasionali in altri contesti. “Fare ilmaestro”, in specie nei piccoli centri rurali, rappresentava solita-mente una seconda occupazione oppure una soluzione di ripiegoper rimediare onestamente il pane quotidiano e sfuggire all’indigen-za, come dimostrano le centinaia e centinaia di petizioni conservatenegli archivi rivolte da maestri abusivi alle autorità.

Le abilità richieste al maestro per il rilascio della patente, quan-do questo era previsto, erano piuttosto semplici. Nel caso del Pie-monte preunitario, per esempio, all’aspirante maestro si chiedevadi dimostrare di conoscere semplicemente ciò che avrebbe dovutoinsegnare. In Toscana “ogni toscano che sia cattolico” poteva apri-re una scuola senza che fosse richiesta “matricola o diploma d’ido-neità”, purché fosse “di buona condotta religiosa, morale e poli -tica”. In molte altre parti d’Italia, in specie nel Sud, l’abito sacer -dotale fungeva spesso da attestato di idoneità per i maestri el’appartenenza al ceto civile per le donne, se non suore, e la loroabilità a cucire e ricamare erano requisiti sufficienti per esserenominate maestre.6 Lo “stato bassissimo”, come lo definiva il De

6. S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi (edd.), Faregli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, vol. i, 1993,pp. 112-113.

182 capitolo quarto

Sanctis, della condizione magistrale faceva sì che essa fosse appan-naggio di “persone ignoranti e rozze” che non davano alcunagaranzia di preparazione né culturale né tanto meno didattica.7

Il caso del Lombardo Veneto, dove fin dal 1818 era stata appli-cata la legge austriaca che prevedeva l’obbligo per gli aspirantimaestri di seguire corsi di metodica e apposite attività di tirocinio,rappresentava un’eccezione. Soltanto a ridosso dell’Unità maturògradualmente una maggiore consapevolezza sulla necessità di pre-parare in modo specifico i maestri ad avvalersi del “metodo”.

2. Un maestro esemplare

A fine secolo la realtà appare alquanto diversa. L’attività magi-strale si configura ormai con caratteristiche sue proprie anche se,come presto vedremo, la complessa realtà dei maestri e dellemaestre non si lascia domare facilmente. Ma, pur tra ombre echiaroscuri, la fisionomia dell’insegnante elementare risulta abba-stanza strutturata. Salvo qualche nicchia residuale, non c’è piùtraccia del maestro di fortuna e quel poco che resta sarà ulterior-mente ridimensionato con la legge del 1911.

Si tratta di un evento/cambiamento coerente con il compitoche la classe dirigente affida al maestro e alla maestra: quello dirappresentare l’anello di congiunzione tra i nuovi valori liberali ele masse analfabete e ignoranti attraverso un modello incarnatodal maestro stesso come “cittadino ideale”, operoso, leale, disci-plinato, promotore di una nuova morale civile fatta di fede nellaPatria e di vivo senso del dovere.

L’attività magistrale non appare più un “mestiere” dai molti trat-ti provvisori, ma si presenta ormai con i caratteri di una vera e pro-pria professione posta tra l’impiegatizio e il vocazionale, per quan-to lontana, anzi molto lontana, non solo dalle più nobili e redditi-zie “libere professioni”, ma anche da quella del docente di scuolasecondaria. Con il linguaggio militare si potrebbe dire più una“professione di complemento” che di “carriera”.

7. F. De Sanctis, Scritti pedagogici, Roma, Armando, 1959, p. 59.

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Lo status della professione magistrale risulta, insomma, ormaiben definito sotto numerosi aspetti: un preciso percorso di forma-zione, alcune tutele e provvidenze, un certo prestigio sul piano delriconoscimento sociale, un senso di appartenenza professionale chesi manifesta mediante forme mutualistiche e associative, una stru-mentazione culturale specifica messa a punto dalle stesse élites pro-fessionali. Naturalmente la generalizzazione di queste caratteristi-che richiederà tempi più lunghi.

La letteratura ci offre un bell’esempio di come matura lenta-mente la professione magistrale. Lo dobbiamo ancora alla pennadi Edmondo De Amicis che, come è ben noto, per la stesura deisuoi romanzi si documentò a lungo sulla condizione dei maestridel tempo, in particolare ricorrendo alla lettura dei giornali cheerano ad essi destinati.8 La vicenda del protagonista del Romanzodi un maestro, il maestro Emilio Ratti, restituisce in modo appro-priato la transizione compiuta dalla generazione di insegnanti cheintraprende il “mestiere” di maestro a ridosso dell’Unità e va inpensione come esponente di una “professione” ormai abbastanzaconsolidata.

La carriera magistrale del maestro Ratti si può considerareemblematica per tante ragioni. In primo luogo per la casualitàche spesso contrassegnava la scelta dell’insegnamento elementa-re. Come numerosi suoi colleghi, si era infatti avvicinato allascuola in modo imprevisto, “spinto da una sventura domestica”(l’improvvisa morte del padre) e dalla conseguente necessità diprovvedere alla famiglia. La descrizione della sgangherata scuolanormale ospitata nel convitto di un antico convento che avevafrequentato rende, poi, immediatamente conto dell’eterogeneitàdel mondo magistrale, in specie maschile, degli anni a ridossodell’Unità:

“composta di giovani di diciassette anni e d’uomini di trenta, di chieri-ci e ex militari, di figliuoli di contadini, d’operai, di bottegai, d’impie-gati, diversissimi fra loro di grado di cultura alcuni dei quali erano staticacciati in quella carriera dall’ambizione di innalzarsi sopra la loro clas-se sociale, altri dalla ripugnanza per il lavoro meccanico, o dall’esperi-

8. Ved. il saggio introduttivo di R. Sani alla riedizione del romanzo deamicisiano dicui alla successiva nota, Accanto ai maestri. Edmondo De Amicis, l’istruzione primaria e laquestione magistrale, pp. 6-7.

184 capitolo quarto

mento fallito di mestieri diversi, vari da una disgrazia che aveva preci-pitato la loro famiglia nella povertà, pochi dalla cosiddetta vocazioneprofessionale”.9

Nonostante un inizio così occasionale e approssimativo, il coscien-zioso personaggio deamicisiano si rende conto sulla propria pelle didoversi dotare di “ferri del mestiere” ben più appropriati ed efficacidi quelli fornitigli dagli studi in modo da “entrare in certe teste sboz-zate con l’accetta, coi capelli setolosi e d’un biondo sporco, faccecotte dal sole, color di patata o di pattona andata a male”. Le scuolenon erano più frequentate soltanto dai figli delle famiglie che giàapprezzavano il valore della scuola, ma anche da bambini iscritti perobbligo, la cui frequenza era spesso saltuaria e legata ai tempi dellavita contadina, bambini senza altro libro che quello scolastico.

Il maestro Ratti fu presto costretto a rimediare all’“ammassoconfuso di pedagogia inutile che colà aveva ingoiato”.

Andò così mettendo a punto piano piano un insieme di pratichedidattiche utili non solo per soddisfare le attese dei parenti, lerichieste dell’ispettore, le prescrizioni dei programmi, ma anche esoprattutto per sentirsi un “buon maestro”. Il De Amicis ce lodescrive intento a sfogliare “al lume di una minuscola fiammella dipetrolio” raccolte di giornali scolastici allo scopo di trovarvi eserci-zi per i suoi allievi, oltre che per tenersi aggiornato sulla sua attivi-tà di insegnante. Non solo le riviste magistrali, ma anche le confe-renze pedagogiche, le visite ispettive costituiscono alcuni deglistrumenti cui il personaggio deamicisiano fa ricorso per sviluppareil proprio personale itinerario verso la padronanza di una specificacompetenza professionale.

La biografia magistrale del protagonista del Romanzo di un mae-stro riflette in modo appropriato la transizione che si compie nellaseconda metà del xix secolo nella vita dei maestri con il manife-starsi nella quotidianità di un più solido e soprattutto duraturomodello di professione magistrale. Nelle pagine che seguono cer-cheremo di documentare i principali dispositivi attraverso cui essasi compì.

9. Per la consultazione del Romanzo di un maestro mi sono avvalso della recente ebella edizione curata e introdotta da A. Ascenzi, P. Boero e R. Sani, Genova, DeFerrari, 2007. La citazione è a p. 37.

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3. Alle origini della professione magistrale:la scuola normale

La fotografia dello stato della scuola elementare nell’anno scola-stico 1895-1896 consegnata nella relazione stesa da Francesco Tor-raca, allora direttore dell’istruzione primaria,10 e pubblicata nel1897, e quella di poco successiva presentata da Vittore Ravà,11

denunciano una situazione ancora per molti aspetti insoddisfacen-te sul piano della preparazione dei maestri che sembrerebbe con-traddire quanto abbiamo appena detto. Ma un conto è il costituir-si di un nuovo modello professionale e un conto la sua generalizza-zione. Sarebbe toccato alla generazione successiva a quella delmaestro Ratti – quella che entrò in servizio intorno agli anni ’80 efu attiva nella scuola fino agli anni della riforma scolastica del 1923– sperimentare il definitivo assestarsi della professione.

La relazione Torraca12 si basava sul contributo di circa 200 ispetto-ri che avevano presentato al Ministero la situazione scolastica dellazona di loro competenza. Dopo aver rassicurato il ministro che i circa50 mila maestri in servizio, ormai in prevalenza donne (61,1% controil 38,9% di uomini), erano di “condotta morale e civile generalmen-te buona”, di “contegno dignitoso”, di “coscienziosità nell’adempi-mento del proprio dovere”, di “amore alla scuola e agli alunni”13

(annotazione non rituale che il Torraca di proposito rimarcava con

10. Sull’importanza della relazione del Torraca ho richiamato l’attenzione nel sag-gio ospitato in L. Pazzaglia, M. Cattaneo (edd.), Maestri, educazione popolare e socie-tà in “Scuola Italiana Moderna”, Brescia, La Scuola, 1997, pp. 25-52. Francesco Torra-ca (1853-1938), discepolo del Settembrini e del De Sanctis, fu professore di lettere,storico della letteratura (il suo Manuale della letteratura italiana ebbe per svariatidecenni larga fortuna nelle scuole secondarie) e dantista, provveditore agli studi diForlì, alto funzionario della Pubblica Istruzione ove ricoprì diversi incarichi nell’ulti-mo scorcio dell’Ottocento. Passò quindi all’insegnamento universitario presso l’Uni-versità di Napoli.

11. L’istruzione elementare nell’anno scolastico 1897-98. Relazione a S. E. il Ministro, in“Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica”, 1900, 2, suppl. al n. 42.

12. Relazione a S. E. il Ministro dell’Istruzione Pubblica sull’Istruzione elementare nel-l’anno scolastico 1895-1896, in “Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubbli-ca”, 1897, 2, suppl. al n. 47.

13. Ibidem, p. 23.

186 capitolo quarto

forza quasi a voler rassicurare il Ministro che i fermenti socialisti e,più in generale, le simpatie per i partiti della cosiddetta “estrema” cheagitavano le élites magistrali del tempo, non scalfivano la loro lealtà dimaestri e di educatori), l’alto funzionario ministeriale non taceva ilimiti culturali e le insufficienze didattiche dei maestri del tempo.

Soltanto poco più di 18 mila si potevano ritenere “valenti” (parial 37,4%). Altri 31 mila e rotti erano in parte ritenuti “mediocri”(23 995, pari al 47,9%, e cioè di “limitata cultura e poca pratica nel-l’uso dei buoni metodi”) ed i rimanenti 7280 (pari al 14,7%) addi-rittura “meno che mediocri”.14 In sostanza soltanto un maestro sutre offriva garanzie di un buon insegnamento.

Tra i “mediocri” e i “meno che mediocri” erano diverse le tipolo-gie magistrali che davano da pensare. Oltre ai maestri più anziani checontinuavano a fare scuola per maturare una pensione “meno risica-ta”, c’erano i cosiddetti “maestri privatisti” entrati in servizio attra-verso i più disparati canali, i maestri sprovvisti di patente che non sisapeva con chi sostituirli e, infine, i maestri rurali e delle scuoleinvernali che andavano dove nessuno voleva trasferirsi. Tutti eranoaccomunati dalla diffusa ignoranza, “poveri diavoli che si affannanoad insegnare quello che spesso essi medesimi non sanno”.15

Pur in quadro non ancora soddisfacente qualche apprezzabilecambiamento era intervenuto. Era aumentato, per esempio, il nume-ro dei maestri che avevano deciso – difficile dire se per convinzio-ne o per necessità – di intraprendere la professione docente, senzacombinarla con altre occupazioni, anche se spesso i maestri e lemaestre per campare dovevano insegnare in due o tre scuole. Lapercentuale dei maestri senza patente si era ridotta al 5% contro laquota di oltre il 40% che si registrava a metà degli anni ’60, feno-meno che si era intrecciato con un sostanzioso processo di laicizza-zione della categoria. In un trentennio, sempre meno sacerdoti esempre più padri di famiglia e soprattutto donne si erano dedicatialla professione magistrale.16

14. Ibidem, p. 25. 15. Ibidem, p. 26.16. Nell’anno scolastico 1863-1864 gli insegnanti appartenenti al clero (sacerdoti

e suore) rappresentavano quasi un terzo dei maestri in servizio (10 888 su 34 263, parial 31,7%, cit. in E. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, Milano, Feltrinel-li, 1979, p. 192) mentre a fine secolo appaiono una netta minoranza.

diventare maestri. la conquista della professione magistrale 187

Intorno al 1875 le maestre avevano superato i maestri: i Comu-ni le preferivano perché, come si è già accennato, venivano pagatedi meno, erano meno esposte alla propaganda politica, anche i par-roci le guardavano con minore diffidenza. Alquanto critiche appa-rivano invece le valutazioni ministeriali nei confronti della femmi-nilizzazione della categoria magistrale, come si poteva leggere nellepagine della relazione Ravà. La diminuzione dei maestri sembravamettere a rischio quell’“educazione virile” che sul finire del secoloera in cima ai pensieri della borghesia nazionalistica.

Anche la scuola normale a lungo considerata una scuola di scar-so pregio e incomparabile non soltanto con il prestigio del liceo,ma anche dell’istituto tecnico, aveva cominciato ad acquisire mag-giore dignità grazie agli interventi migliorativi dei ministri De San-ctis e Baccelli. Certo, i suoi programmi erano restati confinatientro contenuti culturali alquanti limitati e finalizzati a trasmette-re semplici pratiche didattiche più che una reale cultura pedagogi-ca. La sua attrazione sociale era tuttavia gradualmente cresciuta,come dimostrava l’andamento delle iscrizioni (in netta prevalenzafemminili) che in 15 anni si erano triplicate, passando dalle 8865dell’anno scolastico 1881-1882 alle 24 152 del 1895-1896.17

Nonostante le tante critiche rivolte alla scuola normale, essa rap-presenta – insieme all’inquadramento giuridico della professionemagistrale – uno dei passaggi obbligati per cogliere la transizioneverso la moderna professione magistrale. Molti documenti coevisono zeppi di lagnanze, denunce, proteste che attestano una diffu-sa insoddisfazione per il modello normalistico. Per di più la suaincidenza nel provvedere al fabbisogno di maestri restò assai limi-tata per molto tempo e a lungo, come si è già detto, perdurò unadiffusa eterogeneità di percorsi formativi. Ma se non si considera-no prioritariamente le regole dettate per la formazione dei maestrie il loro status giuridico, entrambi regolati dalla legge Casati e daiprovvedimenti che la estesero gradualmente a tutto il territorionazionale, si rischia di non sgomitolare il problema di cui ci occu-piamo con il dovuto ordine.

17. Sulle vicende normative e pedagogiche della scuola normale rinvio all’analisi diDi Pol, Cultura pedagogica e professionalità nella formazione del maestro italiano. DalRisorgimento ai giorni nostri, op. cit., pp. 44-84 (i dati relativi alle iscrizioni alla p. 71).

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La classe dirigente, fin dall’indomani dell’Unità, inquadrò i mae-stri entro schemi normativi piuttosto rigidi e uniformi come sugge-riva il Regolamento del 1861 nel quale si tracciava per la primavolta il profilo di maestro sostanziato di “zelo del proprio ufficio,amore allo studio e alla fatica”, “esemplarità di contegno, religione,probità, amore di Patria”, “ossequio alle leggi, rispetto all’autori-tà”. Emblematici si possono considerare gli sforzi avviati già daigoverni provvisori di aprire scuole normali per la formazione deimaestri, prendendo a modello la recente legislazione casatiana,anche a costo di muoversi in netta controtendenza con le tradizio-ni e le consuetudini locali.18

La continuità con il modello scolastico piemontese era assicuratadalla ridesignazione di Angelo Fava a ispettore generale delle scuoleprimarie, uno dei maggiori protagonisti delle riforme scolastiche inPiemonte nel decennio precedente.19 Non a caso il Fava diventò benpresto il bersaglio delle critiche contro il ministerialismo piemonte-se, puntiglioso e occhiuto, accentratore e omologatore che calò indi-stintamente sulle diverse tradizioni e consuetudini, provocandomolte resistenze e, in un certo senso, piegando in senso autoritarioquel principio di libertà in nome del quale sorgeva il nuovo Stato.

Considerato dal punto di vista della costruzione della professio-nalità magistrale il centralismo ministeriale rappresentò un poten-te fattore promozionale, rilanciando a un livello generale i dibatti-ti e le riflessioni svolti in Piemonte sull’argomento tra gli anni ’40e ’50. La scuola normale piemontese era certamente debitrice delleesperienze lombarde (la presenza dell’Aporti negli anni ’50 al ver-tice del Ministero dell’Istruzione aveva esercitato in tal senso un

18. M.C. Morandini, Scuola e Nazione. Maestri e istruzione popolare nella costruzio-ne dello Stato unitario (1848-1861), Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 373-385. Sullevarie e complesse vicende che accompagnarono l’estensione della legge Casati allevarie regioni via via assorbite all’interno del futuro regno resta un importante puntodi riferimento il volume di G. Talamo, La scuola. Dalla legge Casati alla Inchiesta del1864, Milano, Giuffré, 1960.

19. Angelo Fava (1808-1881), di origini venete, medico, patriota, partecipò attiva-mente alle Cinque giornale di Milano e, in seguito al rientro degli Austriaci, si rifugiòin Piemonte. Occupò svariati e importanti incarichi ai vertici del Ministero della Pub-blica Istruzione subalpina. Per il suo ruolo nelle vicende scolastiche dopo il 1849 rin-vio alle molte indicazioni contenute in Morandini, Scuola e Nazione, cit. Un ampio edettagliato profilo biografico a firma di N. Raponi in Dizionario biografico degli Italia-ni, vol. xlv (1995), pp. 403-408.

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peso non secondario), ma risentiva anche della cultura magistralefranco-elvetica che arrivava in Piemonte attraverso personalitàcome il Bon Compagni, il Berti e, in specie, il Rayneri che, a suavolta, aveva rivolto lo sguardo anche ad alcune iniziative inglesi.20

La moltiplicazione del modello delle scuole normali piemontesiebbe una ricaduta di gran lunga più significativa rispetto a quello chedi solito si pensa. Certamente la normale restò a lungo una scuola“debole” dovuta al duplice fatto di essere concepita più come unaspecie di corso post elementare che un istituto secondario e di nonessere provvista – almeno fino all’istituzione dei primi corsi comple-mentari negli anni ’80 – del ciclo inferiore. Essa finiva per esserespesso ricettacolo di alunni che abbandonavano gli studi in altri tipidi scuole e vi si rifugiavano come soluzione di ripiego.21

Non bisogna tuttavia sottovalutare almeno tre elementi che,proprio attraverso la mediazione dello schema normalistico, incise-ro in modo apprezzabile sulla storia della professione magistrale.

Dalle scuole normali uscirono le prime generazioni di maestri emaestre patentati in modo regolare che andarono a costituire le élitesmagistrali intorno a cui si andò gradualmente definendo il profilodell’insegnante elementare. A fianco delle scuole normali si raccolse,secondariamente, un gruppo di direttori e di docenti di pedagogia

20. G. Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Aristocratici, filantropi epreti di fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Torino, sei, 2007, pp. 280-296.Sull’importante ruolo svolto dall’Aporti nella politica scolastica in Piemonte neldecennio cavouriano ved. C. Sideri, Ferrante Aporti. Sacerdote, italiano, educatore,Milano, Angeli, 1999, pp. 371-388.

21. Richiamo i lavori di maggior rilievo apparsi sulla scuola normale negli ultimianni a partire da C. Covato, A.M. Sorge (edd.), L’istruzione normale dalla legge Casa-ti all’età giolittiana, Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali, 1994, cui hannofatto seguito T. Bertilotti, Tra offerta istituzionale e domanda sociale: le Scuole Norma-li dall’Unità alla “crisi magistrale”, in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzio-ni scolastiche”, 1995, 2, pp. 379-393 e “Cenno storico sulla malavventurata pratica deilibri scolastici”. Libri di testo per le Scuole Normali, politica scolastica e mercato editoriale, ivi,1997, n. 4, pp. 231-250 (ora della medesima autrice ved. anche Maestre a Lucca. Comu-ni e scuola pubblica nell’Italia liberale, Brescia, La Scuola, 2006); S. Soldani, S’emparerde l’avenir: les jeunes filles dans les écoles normales et les établissements secondaires de l’Italieunifiée (1861-1911) , in “Paedagogica Historica”, 2004, n. 1-2, pp. 123-142. Dati espunti significativi scaturiscono anche da alcune ricerche locali come, ad esempio,N. Raponi, La Scuola Normale di Camerino e l’istruzione primaria nei Comuni dell’Altomaceratese. 1861-1885, in Scuola e Insegnamento. Atti del 35° convegno di studi macerate-si, Macerata, Centro di Studi storici maceratesi, 2001, pp. 425-476.

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che, come vedremo tra breve, svolsero un ruolo tanto discreto quan-to decisivo in termini di elaborazione del modello magistrale. Lapedagogia e le pratiche didattiche esercitate nelle scuole normalicostituirono, infine, il principale punto di riferimento per dare unminimo d’ordine, se non proprio per regolare, le svariate iniziativemesse in campo per far fronte alla carenza di maestri, dai semplicicorsi trimestrali alle conferenze magistrali di varia durata, dalle ses-sioni straordinarie di esame per l’acquisizione della patente da partedei cosiddetti “privatisti” all’apertura delle scuole magistrali rurali.

Ce lo ricordano i gustosi ricordi di Sante Giuffrida che ripercor-re nelle sue memorie l’esperienza di aspirante maestro vissuta inuna delle tante conferenze magistrali precipitosamente organizza-te subito dopo l’Unità anche in Sicilia per “patentare” i vecchimaestri, “tutti preti, tranne pochissimi”, dove i professori che tene-vano i corsi sapevano “a memoria tutta la Metodica del Rayneri,senza più”. Questo testo, dal titolo Primi principii di metodica, erastato scritto apposta per la formazione dei maestri piemontesi e dal1858 era entrato a vele spiegate nei programmi delle scuole norma-li piemontesi istituite proprio in quell’anno22 e a lungo la sua cono-scenza costituì un lasciapassare per l’acquisizione della patente.23

Accanto alla forza cogente della norma giuridica originaria (purcon tutte le mediazioni e i compromessi con cui inevitabilmenteessa si attuò sul piano pratico, comprese le promozioni generalizza-te di cui il Giuffrida ci dà ancora personale testimonianza: “Si fece-ro gli esami e non vi fu asino che non ottenesse l’idoneità”)24 agiro-

22. Di Pol, Cultura pedagogica e professionalità, cit., p. 42. 23. C. Betti, Arte educativa e scienza pedagogica nella manualistica magistrale, in

G. Chiosso (ed.), Teseo. Tipografi e Editori Scolastico-Educativi dell’Ottocento, Milano,Editrice Bibliografica, 2003, pp. cxxxii-cxxxiv.

24. S. Giuffrida, Memorie di un educatore, Catania, Giannotta, 1885, pp. 23-25. SanteGiuffrida (classe 1842) fu uno dei principali protagonisti della vita scolastica in Sicilia nelsecondo Ottocento. Ispettore scolastico, direttore delle scuole della città di Catania, gior-nalista e divulgatore pedagogico, il suo positivismo fu temperato da una viva sensibilitàper la vita del popolo e dal riconoscimento dell’importanza del valore educativo dellagioiosa spontaneità degli allievi. Nelle sue pagine troviamo espressioni come “cura dianime”, l’affermazione che la “fanciullezza vive di poesia”, il riconoscimento che il “mae-stro ha da essere un poco artista” che diventeranno familiari poi nella circolazione dellacultura magistrale posteriore animata, in un contesto culturale del tutto diverso, da unaltro illustre studioso catanese, Giuseppe Lombardo Radice. Sul Giuffrida notizie spar-se in S.A. Costa, La scuola e la grande scala, Palermo, Sellerio, 1990.

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no, poi, altri provvedimenti che nel tempo assicurarono ai maestrimaggiore stabilità sul posto di lavoro e miglioramenti nel tratta-mento economico e previdenziale.25 Naturalmente queste iniziati-ve contribuirono a rendere meno precaria e, quindi, più appetibilela condizione dell’insegnante elementare.

Se la dimensione giuridico-normativa fornì alcuni essenziali pre-supposti per la definizione della condizione magistrale bisognaperò rivolgersi anche ad altri dispositivi ministeriali che agironocontestualmente su altri piani, in specie su quello culturale. Miriferisco, nella fattispecie, all’articolato sistema di “conferenzepedagogiche” messo in campo a partire fin dagli anni ’60 e allacapillare attività degli ispettori scolastici.

Le conferenze pedagogiche (talora anche denominate “confe-renze magistrali” o “conferenze scolastiche”) furono organizzateper la prima volta in forma estesa nel 1866 in varie parti d’Italia periniziativa del ministro dell’Istruzione Domenico Berti.26 Ma il pro-getto risaliva molto più indietro nel tempo. Già nel 1847 VincenzoGarelli aveva proposto che “per mantenere lo zelo dei maestri” siprovvedesse all’“organizzazione di conferenze mensuali” (esperien-za già praticata, ricordava, in Germania, in Francia, in Scozia) inmodo che “il maestro, dopo aver ottenuto il suo certificato di ido-

25. Tre furono principalmente le leggi che tra gli anni ’70 e ’80 provvidero amigliorare la condizione professionale dei maestri e a renderne più stabile l’attività.Con la legge 9 luglio 1876 fu deliberato l’aumento di un decimo dei minimi di stipen-dio e un ulteriore aumento fu deciso con il provvedimento dell’11 aprile 1886. Men-tre la legge del 1876 sbloccava una situazione immutata da anni e ormai quasi insoste-nibile, quella di dieci anni più tardi riduceva le differenze di stipendio tra le varie cate-gorie di maestri e maestre. La legge del 1° marzo 1885 regolò invece il rapportod’impiego dei maestri, obbligando i Comuni a nominarli a vita dopo un congruoperiodo di prova (otto anni). Questa legge fu spesso osteggiata dalle amministrazionicomunali di medie e piccole dimensioni che ricorsero a svariati espedienti per elude-re la norma, originando un vasto e articolato contenzioso.

26. Le conferenze furono disciplinate con il D.M. 29 novembre 1866 (“Decreto eRegolamento per le conferenze degli istitutori primari”) e con la circolare n. 196 inpari data (“Istituzione di conferenze pedagogiche e biblioteche magistrali”). Furonoindividuate 20 sedi in altrettante località abbastanza periferiche rispetto ai centri mag-giori, tutte dislocate, ad eccezione di Voghera e Lecco, nelle regioni del centro e delsud dell’Italia (Macerata, Pesaro, Gaeta, Vasto, Caltagirone, Girgenti, Nicosia,Castelvetrano, Caltanissetta, Cosenza, Potenza, Reggio Calabria, Salerno, Bari) e inSardegna (Cagliari, Sassari, Tempio, Nuoro).

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neità, non smettesse affatto da ogni studio”. Se non si provvedeva ascongiurare questa eventualità i maestri “non solamente rischiereb-bero di obbliare il poco che poterono imparare, ma ancora non tar-derebbero ad abbandonarsi ad una cieca pratica e a non vedere nelloro stato che un triste mestiero, un giornaliero lavoro che gli èimposto dalla necessità”.27

Nelle conferenze dei maestri essi si “intertengono insieme percomunicarsi a vicenda i loro lumi”. In questo modo “imparanocosì a dividere le gioie come i dolori di questa vita di sacrifizio esi porgono un vicendevole aiuto come fratelli di armi nella santacrociata”. Ma il fine delle conferenze non doveva essere soloquello del reciproco aiuto, ma soprattutto quello dello scambiodi esperienze.

“La diversità stessa del carattere e dell’ingegno vien messa a pro fitto.Colui ad esempio che fosse troppo impetuoso e severo sarà incessan-temente temperato dalla dolcezza degli altri, il soverchio di indulgen-za o la mollezza sarà corretto dalla energia e dalla viva cità de’ suoicolleghi. Le quali conseguenze se sono utili moral mente a tutti, losono poi in singolar modo a quelli che ottennero a stento la patentedi idoneità ed a coloro il cui zelo abbia bisogno di essere sovente rin-novellato e riacceso. In una parola la riunione de’ maestri in regolariconferenze vi accrescerà i mezzi di cui cia scuno può disporre, peroc-ché voi ai vostri mezzi aggiungerete quelli di tutti i vostri colleghi equegli sforzi che, isolati erano impotenti, riuniti diventeranno sicura-mente efficaci”.28

Erano concetti che il Berti riprese pari pari nel dar vita all’inizia-tiva. Nel decreto istitutivo si affermava che attraverso la praticadelle conferenze i “maestri potevano mettere in comune le idee e leosservazioni suggerite dalla propria esperienza” e “stringere ami-chevoli legami tra di loro”. Nel luogo di ciascuna conferenzaComuni e Province avrebbero dovuto aprire una “biblioteca ad usodei maestri”. Gli ispettori, incaricati di presiedere e dirigere i lavo-ri, erano invitati a fornire “appositi ragguagli” sul modo con cuierano stati accolti i provvedimenti e sulle risorse che i Comunidestinavano all’iniziativa.

27. V. Garelli, Utilità delle conferenze magistrali, in “L’educatore”, 1847, pp. 137-138.28. Ibidem, pp. 138-139.

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Quale fosse il senso di queste iniziative era stato ulteriormentechiarito dal Lambruschini in occasione dell’apertura delle conferen-ze magistrali svoltesi due anni prima a Firenze e che, sotto moltiaspetti, avevano fatto da battistrada all’iniziativa del ministro Berti.

“Noi vi abbiamo invitati a conferenze; perciò non ad ascoltare lunghidiscorsi accademici; ma a colloqui ne’ quali noi c’informeremo di quelloche voi fate e delle ragioni del fare così e voi sentirete quel che a noi pajapiù agevole e più efficace a farsi, e lo vedrete posto in atto. Paragoneretee giudicherete voi stessi; darete dei lumi e ne riceverete; sarà una comu-nicazione di fatti, un ricambio d’idee [...] Certamente noi dobbiamo pen-sare che, abilitati al magistero e già addestrati a esercitarlo, conosciateabbastanza quello che v’abbiate a fare e le difficoltà che nell’insegnares’incontrano. Ma per questo appunto che dopo aver imparato speculati-vamente le regole da seguire, vi sarete abbattuti nel porle in pratica inostacoli non preveduti; perciò stesso, io diceva, voi avrete naturalmente ildesiderio di trovare i più valevoli e più spediti modi di superarli; vorreteconoscere se le difficoltà medesime siano state vinte da altri; se v’è mododi prevenirle; se oltre i metodi e i libri da voi conosciuti, v’ha de’ librinon venuti a vostra notizia e de’ metodi che ancora non conoscete”.29

4. Le conferenze magistrali degli anni ’80

Trent’anni più tardi quasi gli stessi intenti e concetti, a confermadi come l’esperienza si fosse ormai consolidata nella mentalitàmagistrale, erano espressi da Pasquale Fornari nella voce “confe-renza” del Dizionario illustrato di Pedagogia.

Lo studioso milanese, noto soprattutto per il suo impegno nelcampo dell’educazione dei sordomuti, parlava delle conferenzepedagogiche come di uno strumento di formazione professionaleben più efficace dei “chiassosi e spesso vanitosi Congressi”, auspi-candone l’organizzazione periodica in “ogni Comune ove ci sonopiù scuole” e a livelli territoriali concentrici fino alla Provincia.Esse avrebbero dovuto esaminare “senza discorsi accademici, néaltro fumo più o meno oratorio” i problemi concreti della vita sco-

29. Per l’apertura delle Conferenze magistrali in Firenze, in R. Lambruschini, Scrit-ti politici e di istruzione pubblica, a cura di A. Gambaro, Firenze, La Nuova Italia, 1937,p. 698.

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lastica come il “modo di mantenere la disciplina, i risultati avutidalle prove fatte in questo o quel caso, lo svolgimento dei pro-grammi, l’igiene, la pulizia della scuola e degli scolari”.

In tal modo si sarebbe potuto “togliere l’Insegnante dal suo isolamento, sì che spesso opera incon-sultamente perché non ha con chi consigliarsi, fuorché con la freddalegge, la quale in certe cose è migliore quando non dice niente. L’acco-munarsi poi degli Insegnanti nel Circolo mandamentale per lo scambiodi pensieri, studi, prove e risultati non può non essere di grande van-taggio per l’incremento dell’istruzione in quei luoghi, perocché sonotutti lavoratori, se m’è lecito dire, di uno stesso terreno, di cui cono-scono, per esperienza fatta, le qualità e i bisogni [...] Insomma le Con-ferenze sono o piuttosto dovrebbero essere la continuata scuola mutuadegli Insegnanti e possono essere la vera panacea della educazione eistruzione popolare”.30

Non erano mancati nei tre decenni ricompresi tra la riflessio-ne del Lambruschini e l’analisi del Fornari ricorrenti tentativiper fare delle conferenze pedagogiche il volano, se non propriodel rinnovamento, almeno di un certo miglioramento delle prati-che scolastiche. Dal Coppino al De Sanctis fino al Baccelli,31

diversi ministri si affidarono infatti alle conferenze via via orga-nizzate in modo capillare per coinvolgere il maggior numero diinsegnanti. Lo scopo era quello non solo di incrementare le com-petenze professionali mediante scambi di esperienze, ma anchedi spingere i maestri verso gli orientamenti educativi e pedagogi-ci più coerenti con le innovazioni pedagogiche tracciate dallacultura positivistica.

Sulle conferenze pedagogiche è disponibile un’ampia documen-tazione, sia depositata negli archivi sia pubblicata nella forma degliatti, finora esplorata soltanto in minima parte e non esente da unacerta ripetitività.32

30. Voce “Conferenza”, in A. Martinazzoli, L. Credaro (edd.), Dizionario illu-strato di Pedagogia, Milano, F. Vallardi, s.d., vol. i, pp. 352-353.

31. Sulle iniziative volute dal Ministro Baccelli e compiute tra il 1881 e il 1885 cfr.L. Rosati, Le conferenze pedagogiche. Una esperienza di aggiornamento degli insegnanti,Arezzo, Quaderni dell’Istituto di Pedagogia, 1975.

32. A titolo introduttivo sulle conferenze pedagogiche oltre al già citato saggio diL. Rosati, ved. anche E. Catarsi, Le conferenze pedagogiche, in G. Genovesi, P. Russo

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Si tratta di materiali molto interessanti perché al pari della pub-blicistica scolastica (di cui diremo tra breve) riflettono, per cosìdire, “la scuola dal basso”, nelle sue forme più immediate e abba-stanza spontanee. I verbali delle conferenze, in genere stesi daminuziosi e zelanti segretari con modalità quasi stenografiche, ren-dicontano non solo i testi dei relatori ufficiali, ma anche i dibattitisvolti intorno ai quesiti in esame. Da questi testi emergono fre-quentemente valutazioni e tesi contrastanti sulle tematiche inesame, sostenute con tale forza da far registrare, per citare solo unpaio di esempi, al segretario della conferenza bresciana del 1882una discussione “assai lunga, vivissima ed anche pericolosa per ilbuon ordine, essendo sospinti maestri e maestre da idee d’interes-se opposto e di amor proprio”33 e a quello di Caltanissetta (1881)una puntigliosa schermaglia sulla scottante questione dell’insegna-mento religioso.

L’analisi di questi documenti – particolarmente numerosi soprat-tutto negli anni ’80 quando il ministro Baccelli moltiplicò le confe-renze – consente di raccogliere alcuni dati utili per la costruzionedell’identità professionale. Il primo riguarda la forte iniziativaministeriale: la professionalità magistrale risulta non soltantoorientata, ma intenzionalmente diretta dal vertice ministeriale.

Nell’introdurre le conferenze veneziane Pietro Siciliani ne espli-citava lucidamente le ragioni:

“Come ogni altro organismo della natura anche lo Stato è chiamato asaper conservare se stesso e a progredire. Ma come potrebbe progredi-re ove non fosse capace di proporre a sé medesimo un fine e di rag-giungerlo? Lo Stato moderno è a doppia faccia, al pari dell’individuo:è organismo giuridico e organismo etico a un tempo. Or se la supremaautorità scolastica del Regno ha il diritto, in tale ordine di cose, di dare,sto per dire, l’intonazione, a noi toccherà comporre la sinfonia, esaperla comporre a regola di scienza. Al Ministro, insomma, il diritto

(edd.), La formazione del maestro in Italia, Ferrara, Corso editore, 1996, pp. 157-164, lasezione documentaria riportata in Covato, Sorge, L’istruzione normale, op. cit.,pp. 187-243 e, limitatamente alla realtà di Palermo, la documentazione riportata inM. Marino Manno, Echi dall’isola 1880. Ideologie e contestualizzazioni nella formazionedei maestri, Palermo, Editrice Duemila, 1996, pp. 131-265.

33. Atti delle Conferenze pedagogiche che si tennero negli anni 1881, 1882, 1883, Roma,Tip. Ippolito Sciolla, pp. 319-320.

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d’accennare al fine segnalando l’idea fondamentale delle conferenze: anoi quello di ricercarne i mezzi, proporne gli espedienti più acconci alfine, e redigere il programma secondo le norme ed i principii dellapedagogia scientifica”.34

Era infatti il Ministero a indicare in modo analitico le tematicheda trattare: nel 1881 le conferenze s’incentrarono su quale dovesseessere “la natura della scuola elementare tenuto conto delle esigen-ze dei ceti popolari” e su “come riordinare la scuola popolare per-ché sia coerente con la coltura indispensabile ad ogni cittadino col-l’acquisto delle abitudini al lavoro”. In altri e più frequenti casi gliargomenti in discussione erano di natura principalmente didattica:come raccordare gli ultimi anni dell’asilo infantile con la primaclasse elementare, come favorire la frequenza nelle scuole rurali, sefosse opportuno o meno assegnare compiti a casa, quali libri fosse-ro necessari oltre a quello di lettura, come insegnare storia e geo-grafia e altre analoghe questioni di carattere pratico.

L’esame dei problemi sottoposti al vaglio dei partecipanti alleconferenze suggerisce un profilo di maestro ordinato su due piani:per un verso egli è visto come il mediatore capace di convincere iceti popolari, spesso diffidenti e restii a inviare i figli a scuola, del-l’utilità pratica dell’istruzione, per l’altro egli è considerato soprat-tutto come un esperto di pratica didattica. A Forlì si auspica che siadato “il massimo sviluppo alla pedagogia pratica, scientifica, positi-va, con quei criteri che sono imposti dalla scienza moderna” e chenon si elevi troppo il livello culturale della scuola normale che deverestare una “scuola pratica”.35 A Foggia si chiede che “l’insegna-mento della pedagogia nelle Scuole Normali sia fatto, come sicostuma solo in qualche scuola, senza metafisicheria, ma in formaelementarmente scientifica e totalmente pratica”.36

Gli atti delle conferenze scendono spesso sul terreno pratico,abbondano di dettagli concreti, forniscono esempi di “lezionioggettive”, prospettano soluzioni di casi specifici, in specie per l’in-segnamento della lingua italiana. Paolo Vecchia, pedagogista piut-

34. Rendiconto delle Conferenze Pedagogiche tenute in Venezia nell’agosto 1881, Venezia,Stab. Tip. Fontana, 1882, p. 30.

35. Atti delle Conferenze pedagogiche, op. cit., pp. 125-126. 36. Ibidem, p. 97.

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tosto noto, si esibisce a Caltanissetta in una brillante lezione digeografia davanti alla platea di maestri e maestre, simulando che ipresenti siano una classe scolastica.37

Per quanto l’insegnamento elementare vada strutturandosi comeuna professione del sapere, gli orizzonti culturali dei maestri resta-no in genere confinati in un sapere minore, strettamente funziona-le alle necessità di una scuola dalle finalità molto semplici. Questofondamentale dato professionale si associa ad altre due significati-ve caratteristiche.

La prima riguarda la centralità rivendicata all’autorevolezza edu-cativa “maschile”, nonostante il gran numero di maestre. I maestriavversano la presenza femminile, confinando l’azione delle maestrepiù a livello curativo-assistenziale che educativo-scolastico. Le con-ferenze sono a questo riguardo teatro di duri scontri: a Bari gli attidocumentano “una forte ostilità contro le maestre”; a Ferrara ildibattito si conclude, riconoscendo alle maestre il diritto a insegna-re soltanto nella prima classe e nelle scuole rurali: nelle altre situa-zioni “va sempre preposto un maestro perché esso per ragioni dimoralità e di spirito educativo, più facilmente e con maggior sicu-rezza della donna può istruire e educare i ragazzi”; a Brescia ladiscussione è talmente animata che si arriva alla temporanea sospen-sione della seduta.

Se è vero che in queste contese si poteva cogliere il persistere diantichi pregiudizi legati, come è stato annotato, a “ideologismipseudoscientifici” le cui radici risalivano a Rousseau e padreGirard38 e risultavano del tutto inascoltati gli inviti di quanti, comeil Berti, erano dell’avviso che era giunto il momento di smetterla di“fare dell’insegnamento maschile il perno del sistema nostro di pub-bliche scuole”,39 non bisogna sottovalutare anche il peso di contin-genti interessi pratici connessi all’assegnazione dei posti di inse-gnamento e alla conseguente differente retribuzione.

37. Ibidem, p. 59. 38. Soldani, Nascita della maestra elementare, cit., p. 68. Sul complesso fenomeno

della presenza delle maestre nella vita scolastica del secondo Ottocento, in specienelle realtà rurali, si vedano le numerose osservazioni contenute nel saggio sulla mae-stra di campagna in M. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, a cura di S. Solda-ni, Roma, Archivio Guido Izzi, 2005, pp. 29-79.

39. Ibidem, p. 86.

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La seconda caratteristica è legata alla convinzione che il maestro,e ancor più la maestra, debbano essere espressione di quegli stessiceti popolari da cui provengono gli allievi. Maria Cleofe Pellegrini sicompiaceva di annotare come alle scuole normali accedessero “lefiglie dell’impiegato, del piccolo industriale attratte dalla speranza diconquistarsi una borsa di studio; dai villaggi le figliuole dei piccoliproprietari, dei fattori, dei segretari e dalla paterna officina la figliuo-la dell’operaio”.40 Alla maestra, soprattutto, si raccomandavanosobrietà e contegno modesto “per non portare oltraggio alla povertàcontadina”41 e, dunque, ella era concepita come parte integrante,anche se “veniva da fuori”, di quell’ordine tradizionale delle cose chesi ripeteva con cadenza quasi immutabile specie nelle realtà rurali.

È infine una professionalità molto affidata alle abilità personalidel maestro. Se non proprio diffidente in modo aperto verso l’im-piego dei libri di testo e i primi rudimentali sussidi didattici, essaappare tuttavia ancora molto legata all’idea che “il maestro capacenon ha bisogno di libri”.

I maestri di Cosenza concordano, ad esempio, sul fatto che “atutti i libri può sostituirsi interamente l’opera di un abile maestro,tranne il libro di lettura, che il maestro deve verificare e svolgere,senza potervi rinunziare”.42 Nella conferenza di Foggia i presentidopo aver drasticamente convenuto che “nessun testo adottatonella Provincia risponde ai bisogni delle scuole” e che “i libri menocattivi sono il Giannetto del Parravicini, il Giannetto del Fornari, ilibri del Lambruschini” sollecitano libri dai quali “siano sbanditele favole e le allegorie”, scritti “senza eccessi di toscanismo o dilombardismo” e “informati ad argomenti reali”.

Con questa mentalità didattica interagiva inoltre, e non seconda-riamente, anche il fattore economico del costo dei libri. Non è raro,ancora oggi, trovare libri di scuola su cui si ripetono i nomi di piùfratelli che lo hanno usato in tempi diversi così come si possono, aquesto proposito, richiamare anche le numerose polemiche che sirincorsero sui giornali didattici contro un’editoria scolastica accusa-

40. Voce “Maestra”, in Martinazzoli, Credaro, Dizionario illustrato di Pedagogia,cit., vol. ii, p. 590.

41. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, op. cit., p. 35. 42. Atti delle Conferenze pedagogiche, op. cit., p. 342.

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ta di moltiplicare i libri per la scuola elementare per ragioni piùcommerciali che didattiche,43 questione anche questa destinata adurare nel tempo fino ad essere strumentalmente impiegata per giu-stificare durante il fascismo l’introduzione del libro unico di Stato.

5. L’azione degli ispettori scolastici

Tra gli animatori delle conferenze magistrali si ritrovano, oltre aun certo numero di studiosi di pedagogia piuttosto noti comeAndrea Angiulli, Emanuele Celesia, Francesco Saverio De Domi-nicis, Pietro Siciliani, Paolo Vecchia, soprattutto gli ispettori scola-stici, da quelli ministeriali autorevoli come Francesco Veniali adaltri, i più numerosi, di cui restano poche tracce (qualche opuscolo,il fascicolo personale negli archivi), gli uni e gli altri accomunatidal desiderio di fare della scuola uno strumento di civiltà.

È a questi oscuri funzionari dello Stato che bisogna guardare percogliere molti aspetti dello sviluppo scolastico del tempo e proprionella loro azione si può identificare un altro importante apportoalla costruzione della professione magistrale, nonostante la contro-versa valutazione del loro ruolo.

Nella pubblicistica del tempo la funzione e l’operato degli ispet-tori furono infatti spesso al centro di critiche anche severe. Riservedi vario genere: da quelle riguardanti la loro subalternità alle auto-rità politiche locali a quelle più “tecniche” relative alle modalità concui svolgevano la loro azione di sorveglianza e di animazione, giudi-cata sovente un po’ occhiuta ed eccessivamente burocratica oppurenon sempre serenamente al di sopra delle parti, oppure ancoratroppo condizionata da pregiudizi di carattere didattico e pedagogi-co. Il protagonista del Romanzo di un maestro incontra diversi tipi diispettore, figura che ben si presta alla sottile ironia del De Amicis:dall’ispettore fanatico di un metodo precostituito che non accettaaltre pratiche didattiche a quello scettico rispetto a qualsiasi peda-gogia al punto da mettere addirittura in dubbio l’esistenza di una“scienza dell’educazione. Ciascun maestro ripara come può...”.

43. M. Raicich, Di Grammatica in Retorica, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996,pp. 49-58.

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Non mancarono anche riserve di principio come quelle, adesempio, formulate dal Tommaseo, dal Lambruschini e in generedai sostenitori della libertà di insegnamento che intravvedevanonella figura dell’ispettore “il simbolo implacabile e talvolta didubbia moralità dello Stato che vuole soffocare la più articolatasocietà”.44

Eppure se si vuole comprendere nella sua complessità la vita sco-lastica post unitaria è impossibile prescindere dagli ispettori e dallaloro capillare azione. Dalle loro meticolose relazioni, alcune dellequali assurte anche all’onore della pubblicazione, emerge non solouna quantità di dati e di informazioni preziosi per la ricostruzionedella storia scolastica locale, ma soprattutto la convinzione degliautori di partecipare in prima linea alla grande impresa dellacostruzione della nuova Italia. Lo testimoniano le esplicite dichia-razioni in tal senso e il modello di buon funzionamento ammini-strativo perseguito nelle loro relazioni e non di meno lo sconfortodi aver a che fare con una realtà magistrale assai complessa e diffi-cile da gestire.

Documenti che testimoniano il doloroso scarto esistente tra lasmisurata fiducia nei compiti dell’educazione celebrata nei testiufficiali e da tante pagine pedagogiche e i bisogni più minuti dellaperiferia scolastica che fatica a campare, spesso dislocata in locali difortuna, condizionata da una frequenza degli alunni scandita dalcalendario dei lavori rurali, circondata dall’indifferenza, quandonon proprio dall’ostilità, di numerose amministrazioni comunali,specie nelle regioni meridionali.45

L’istituto dell’ispezione periferica si sviluppò nell’amministrazio-ne italiana sulla base del modello piemontese, congiungendo cioèvigilanza e animazione della vita scolastica. In tal senso andavano leistruzioni emanate nel 1862 dal ministro De Sanctis con le quali

44. M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri-Lischi,1981, p. 55. Si può assumere come emblematico il dibattito che sul ruolo dell’ispetto-re scolastico si svolse sui giornali di Bergamo nel 1890 (e che vide contrapposti i fogliliberali e quelli cattolici) di cui rende conto A. Luppi nel saggio raccolto in L. Bella-talla (ed.), Maestri, didattica e dirigenza nell’Italia dell’Ottocento, Ferrara, Tecompro-ject, 2000, p. 167.

45. A. Semeraro, Cattedra, foro, altare. Educare e istruire nella società di Terra d’Otran-to tra Otto e Novecento, Lecce, Milella, 1984, pp. 127-133.

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erano affidati all’ispettorato provinciale e di circondario sia il com-pito di “promuovere l’opportuna applicazione de’ migliori metodidi insegnamento e d’educazione” sia di “invigilare a ciò che leleggi, i regolamenti e le prescrizioni delle autorità scolastiche” fos-sero “debitamente eseguiti in tutti gli stabilimenti sottoposti al-l’ispezione”.46

Negli anni ’80 gli ispettori scolastici di circondario, le cui fun-zioni furono riordinate dal Regolamento del 3 novembre 1877,fecero registrare un notevole incremento, passando dai 147 del1881 ai 237 del 1886, numero che restò sostanzialmente stabilenegli anni successivi. Aurelio Stoppoloni, uno dei principali prota-gonisti della vita magistrale di fine Ottocento, ne parlava comedella “vertebra della scuola”, individuandoli come i principali pro-tagonisti del “progresso scolastico” anche se il cumulo di incom-benze amministrative e burocratiche rischiava di far loro sfuggire“l’andamento delle scuole: salubrità di locali, convenienza di arre-di, metodi, scelta di libri di testo, valore degl’insegnanti, disciplinadegli alunni, regolarità della frequenza, profitto” (è interessantenotare l’ordine con cui erano individuate le questioni da seguire),insomma “tutto ciò che attiene all’indirizzo dell’istruzione e nerivela il frutto”.47

L’opera silenziosa e discreta degli ispettori centrali e perifericiconcorse in vario modo alla definizione e al rafforzamento dellaprecaria professionalità magistrale, assemblando alcuni importantitasselli della costruzione di una visione nazionale della scuola e delmaestro. Mentre visitava le scuole e s’intratteneva con i maestri,l’ispettore indicava loro nuove prassi didattiche, consigliava letture,promuoveva nei maestri valori di lealtà, rendendoli partecipi delprogetto di costruzione dell’identità nazionale. L’ispettore diven-

46. G. Decollanz, La funzione ispettiva dalla legge Casati ad oggi, Roma, Armando,1984, p. 31.

47. Voce “Ispettore scolastico circondariale”, in Martinazzoli, Credaro, Dizio-nario illustrato di Pedagogia, cit., vol. ii, p. 284. Alcuni spunti anche in D. Ragazzini,Per una storia del direttore didattico, in Bellatalla, Maestri, didattica e dirigenza, op.cit., pp. 135-164. Sul corpo degli ispettori scolastici italiani disponiamo di poche eframmentarie notizie, nulla che si possa comparare con la sistematica rassegna curataper la Francia da G. Clapat, Les inspecteurs généraux de l’instruction publique. Diction-naire biographique. 1802-1914, Paris, Inrp/Cnrs, 1986.

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tava così l’artefice di un’opera di unificazione culturale e pedagogi-ca che si sforzava di superare i ristretti orizzonti localistici nei qualispesso i maestri vivevano.

E se nelle conferenze magistrali “molti insegnanti e specialmen-te le signore maestre” non avevano “il coraggio di esporre le loroidee, sebbene siasi dato a queste riunioni il carattere di famigliareconversazione”,48 a diretto contatto con gli ispettori i maestri pote-vano esprimere con maggiore libertà i loro problemi, le difficoltàdel loro lavoro spesso dovute all’isolamento in cui essi operavano esoprattutto ricevere il sostegno di uno Stato che mentre li volevaattivi protagonisti della costruzione della Terza Italia, era piuttostorestìo a migliorarne le condizioni normative ed economiche.

Non meno indicative sono, infine, le istruzioni protocollari pre-viste per la visita ispettiva nelle scuole. Essa andava effettuata senzaavviso preventivo in modo di trovare le scuole nelle condizioni difunzionamento ordinario e doveva avere come principale obiettivol’azione didattica del maestro, fatta in sostanza coincidere con losvolgimento della lezione. Per tale motivo l’accertamento dellacapacità di visitare le classi era ritenuta una prova qualificante delconcorso per l’esercizio della funzione ispettiva. Era previsto, inparticolare, che i candidati visitassero una classe “per una duratanon inferiore a un’ora e mezzo” e che stendessero subito dopo una“dettagliata relazione”.

In un successivo regolamento concorsuale la prova fu integratadall’“esperimento pratico di una lezione in una scuola elementare”.La visita ispettiva nelle classi sarebbe stata più efficace se l’ispetto-re, oltre ad assistere alla lezione del maestro per valutarne il meto-do di insegnamento e rivolgere opportune domande agli allievi pergiudicarne il profitto, avesse fatto “egli stesso lezione... per dimo-strare a fronte del docente modelli e procedure di miglioramentoprofessionale”.49

All’opera molecolare degli ispettori si affiancò con il tempo, spe-cie dopo il 1880 (quando una nuova generazione sostituì quellaprecedente), anche l’animazione dei professori di pedagogia delle

48. C. Zucchi, Le conferenze pedagogiche provinciali di Modena, Modena, Tip. Lega-le, 1883, p. 95.

49. Ved. il già citato saggio di A. Luppi in Bellatalla, Maestri, didattica e dirigen-za, op. cit., pp. 173-174.

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scuole normali a cui spesso il Ministero affidava di tanto in tantoincarichi ispettivi. Agli uni e agli altri si devono, inoltre, altreimprese dal carattere meno istituzionale, che si tradussero tuttaviain congegni non meno significativi per la definizione del profilo delmodello magistrale. Fu questo il caso della pubblicistica magistra-le e della divulgazione pedagogica.

6. La divulgazione pedagogica tra giornali e Società magistrali

Gli anni compresi tra l’Unità e il primo decennio del Novecen-to furono segnati da una vera e propria esplosione di giornali sco-lastici.50

Non diversamente da quanto era accaduto in altri Paesi europei,anche da noi all’aumento del numero degli insegnanti corrispose ilproliferare di pubblicazioni periodiche. L’esame di questa stermi-nata produzione dimostra che il giornalismo scolastico fu un feno-meno che coinvolse trasversalmente tutte le tipologie di insegnan-ti e di scuole: docenti dell’istruzione secondaria, maestri di ginna-stica, professori delle scuole tecniche, maestre degli asili perl’infanzia. La maggior parte delle pubblicazioni di questo genereebbe tuttavia una destinazione magistrale. Il loro scopo era quellodi aiutare i maestri nello svolgimento dell’attività didattica quoti-diana mediante la presentazione di modelli di lezione scanditi set-timanalmente.

Si trattava in genere di modesti fogli a circolazione locale e spes-so con vita effimera, salvo pochi casi di riviste a diffusione piùampia. Tra queste le più note erano le torinesi “La guida del mae-stro elementare italiano”, “L’istitutore” e “L’unione dei maestri ele-mentari d’Italia”, “L’educatore” di Firenze e “L’amico delle scuolepopolari” di Napoli cui si affiancarono, dopo il 1880, altre notevo-li voci come “Il risveglio scolastico” di Milano, “L’avvenire educa-

50. G. Chiosso (ed.), I periodici scolastici nell’Italia del secondo Ottocento, Brescia, LaScuola, 1992; Id., Scuola e stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazionedall’Unità a fine secolo, Brescia, La Scuola, 1993; Id., La stampa pedagogica e scolastica inItalia (1820-1943), op. cit.

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tivo” di Palermo, “La scuola nazionale” di Torino e, a fine secolo, il“Corriere delle maestre” e “I diritti della scuola”.51

La lettura di questi fogli fornisce interessanti indicazioni. Laprima riguarda la qualità della proposta didattica offerta in speciedai giornaletti editi localmente da qualche maestro di buona volon-tà o da qualche intraprendente ispettore: semplice, schematica,fatta di esercizi grammaticali e aritmetici che prevedevano non dirado anche la risposta, poche letture di storia e geografia patria,qualche essenziale nozione di igiene e di scienze naturali. Chi èabituato a ragionare per grandi schemi culturali (spiritualismo,positivismo, laicismo) fatica a ritrovare nelle pagine di questi fogli(ridotti all’osso anche dal punto di vista tipografico) pratiche scola-stiche esplicitamente connotate in un senso o nell’altro.

Soltanto con il trascorrere degli anni e il maturare di una mag-giore consapevolezza culturale e politica diviene possibile colloca-re entro categorie più precise la pubblicistica magistrale. Alcunescelte compiute a metà degli anni ’70 (obbligatorietà dell’istruzio-ne, facoltatività dell’insegnamento religioso) con gli accesi dibatti-ti che ne seguirono, innescarono una maggiore sensibilità ideologi-ca che si accompagnò alle prime, peraltro molto controverse, pro-poste di avocazione dell’istruzione primaria allo Stato.

Furono questi i primi segnali di una professione non più vissutaindividualmente, ma che cominciava ad essere concepita anchecome un’esperienza socializzata. È proprio in questo reticolo del-l’Italia magistrale minore, periferica, di provincia che si può coglie-re l’efficacia, anche al di fuori dei loro compiti istituzionali, del-l’azione degli ispettori scolastici e dei professori di pedagogia.

Oggi i nomi di Ildebrando Bencivenni, Ettore Berni, AlbertoCavezzali, Gabriele Gabrielli, Andrea Gelmini, Guido AntonioMarcati, Antonino Parato, Pietro Pasquali, Bartolomeo Rinaldi,Francesco Paolo Scaglione, Carlo Tegon, Paolo Vecchia, MarcelloZaglia e quelli di intraprendenti maestre come Anna Bencivenni,Elvira Calvi Corsini, Ermelinda Fornari, Linda Malnati, EmiliaMariani, Francesca Zambusi Dal Lago (per citarne soltanto alcuni)

51. Sulla stampa per i maestri del secondo ’800 rinvio oltre che al saggio introdut-tivo al repertorio I periodici scolastici nell’Italia del secondo Ottocento, op. cit., pp. 7-53anche a G. Chiosso, Tra artigianato e imprenditorialità. L’editoria per la scuola nel secon-do Ottocento, in “Contemporanea”, 2000, n. 2, pp. 333-355.

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suonano ignoti o al massimo vengono orecchiati dagli studiosi che sisono avventurati nella cultura educativa tardo ottocentesca.52 Imbe-vuti di ideali patriottici e nutriti spesso di una fede nella scienza enel progresso da sfiorare l’ingenuità, questi dimenticati protagonistidella vita scolastica furono al centro di mille vicende: compilaronogiornali, promossero il sorgere di Società magistrali, si fecero divul-gatori pedagogici, scrissero libri di testo e per l’infanzia.

I più intraprendenti promossero la creazione di veri e propri cir-cuiti editoriali che si svilupparono intorno ai giornali magistrali piùimportanti e alla prima stagione dell’editoria specializzata in camposcolastico, pedagogico e per l’infanzia intrapresa sia da case editri-ci di primo piano (Paravia a Torino, Trevisini e Vallardi a Milano,Paggi-Bemporad a Firenze, Sandron a Palermo) sia a circolazionepiù ristretta i cui autori erano spesso gli insegnanti locali.

Furono queste le avanguardie – che di solito avevano sperimen-tato le difficoltà del lavoro del maestro prima di approdare all’inca-rico ispettivo o di passare all’insegnamento della pedagogia nellescuole normali – intorno alle quali si raccolsero le élites che anima-rono la vita magistrale. Si creò un fitto reticolo di maestri e mae-stre, autori di opuscoli e piccoli fascicoli legati a circostanze parti-colari (premiazioni, celebrazioni di anniversari, orazioni di variotipo, ecc.), brevi saggi su esperienze di insegnamento, rendicontidi attività didattiche, varie iniziative connesse per esempio alle let-ture per bambini, all’uso di materiale didattico (alfabetieri, cartel-loni, carte geografiche), allo svolgimento dei programmi nelle varieclassi, agli esercizi di ginnastica.

Dagli scritti dei maestri (talora venati da una più che umana ten-tazione narcisistica), destinati ad una circolazione locale spesso

52. Negli ultimi anni alcune di queste figure sono state finalmente sottratte all’in-giusto oblìo cui sono state a lungo condannate. In precedenza soltanto sul Pasqualic’erano stati appropriati studi, anche in relazione ai suoi rapporti con le esperienzedelle scuole infantili di Rosa e Carolina Agazzi: R. Mazzetti, Pietro Pasquali, le sorel-le Agazzi e la riforma del fröbelismo in Italia, Roma, Armando, 1962; S.S. Macchietti,Pietro Pasquali tra scuola e società dall’ultimo Ottocento al primo Novecento, Brescia, Istitu-to di Mompiano Pasquali-Agazzi, 1984. Su altri protagonisti si possono ora ved. T.Grandi, Emilia Mariani. Una delle prime femministe italiane, in “Studi piemontesi”,1973, n. 2, pp. 141-144; C. Callegari, Alberto Cavezzali, un dirigente scolastico nellaTreviso di fine Ottocento, Parma, Ricerche Pedagogiche, 1998; M. Monaco (ed.), GuidoAntonio Marcati. Una vita per la scuola e per i maestri, Roma, Aracne, 2003.

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legata all’attività delle Società degli Insegnanti, è possibile coglierein presa diretta sentimenti, mentalità, prassi didattiche, insomma ilmanifestarsi della vita scolastica e della coscienza professionale intermini reali e non solo affidata alla prosa aulica dei testi ministe-riali e della pedagogia “colta”. Nel momento in cui il maestroavvertiva l’esigenza di comunicare mediante lo scritto ad altri lapropria esperienza, egli esprimeva un livello di autoconsapevolezzaprofessionale che superava la dimensione individualistica del suolavoro di insegnante.

L’impetuoso sviluppo delle Società degli Insegnanti che si verifi-cò a partire dagli anni ’60 fu, a sua volta, espressione del rafforza-mento della coscienza di categoria e, al tempo stesso, occasione dipromozione di forme professionali meno semplicistiche di quelletramandate dalle consuetudini primo ottocentesche.

Per restare nell’ambito magistrale si ha notizia, tra il 1861 e lafine del secolo, dell’attività di ben 127 sodalizi (ma il numero è cer-tamente impreciso per difetto).53 Accanto alle questioni retributivee previdenziali legate ai rapporti con i Comuni, le Società spaziaro-no in varie direzioni: iniziative di aggiornamento didattico median-te l’apertura di biblioteche specializzate, conferenze, incontri tramaestri e reti di mutuo aiuto specie in quelle realtà dove le scuoleerano disperse su un territorio molto vasto e spesso impervio. Igiornali scolastici locali diedero, a loro volta, spesso voce alle Socie-tà e fornirono in gran copia notizie e informazioni sui sodalizi deimaestri.

53. Attraverso lo sfoglio dei giornali scolastici è stato possibile delineare un primo,approssimativo, quadro dell’associazionismo dei docenti nel secondo Ottocento. Nelcomplesso sono stati individuati 176 sodalizi così distribuiti: 127 associazioni magi-strali (72,1%), 16 società e federazioni ginnastiche (9%), 10 organizzazioni di profes-sori delle scuole secondarie (5,6%) e infine 23 di varia tipologia (13,3%, società peda-gogiche, associazioni per l’incremento delle scuole popolari, a sostegno dei giardinid’infanzia, ecc.). L’elenco completo in Chiosso, I periodici scolastici nell’Italia del secon-do Ottocento, op. cit., pp. 512-522. Alcuni sondaggi sulla realtà associativa magistralenei saggi di L. Gorgoni Lanzetta e L. e R. Bonan sui bollettini magistrali espressionedi alcune Società degli Insegnanti del secondo Ottocento in Chiosso, Scuola e stampanell’Italia liberale, op. cit., pp. 289-328 e in alcune storie scolastiche locali come, adesempio, M. D’Ascenzo, La scuola elementare nell’età liberale. Il caso Bologna (1859-1911), Bologna, Clueb, 1997; F. Pruneri, Oltre l’alfabeto. L’istruzione popolare dall’Uni-tà d’Italia all’età giolittiana: il caso di Brescia, Milano, Vita e pensiero, 2006.

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L’incremento dell’attività associativa era legata a diverse ragio-ni: la coscienza di svolgere una funzione sociale significativa, lanecessità non solo di constatare le inadempienze dei Comuni, maanche di sollecitare un più incisivo intervento dello Stato, la con-sapevolezza di poter esercitare un peso politico più forte. Nel1882 i maestri hanno infatti accesso al voto. La categoria magi-strale diventa una gruppo di pressione politica e cerca, attraverso ilvoto, di richiamare l’attenzione sui tanti problemi aperti. Non èun caso che, proprio a partire da questo momento, si manifestaro-no i primi tentativi per oltrepassare le soglie dell’associazionismolocalistico.

Nel 1881 per iniziativa di un gruppo di maestri romani si tentòper la prima volta di organizzare una associazione di maestri d’Ita-lia con ramificazioni in varie parti del Paese. Ma i tempi non eranoancora maturi per raggiungere questo obiettivo che fu perseguitocon maggiore determinazione una decina di anni più tardi. Nel set-tembre del 1892 si svolse a Genova un congresso nazionale alloscopo di dare vita a una Federazione magistrale italiana che, a suavolta, doveva fare riferimento a una serie di Federazioni magistraliprovinciali. Fu fissata la data del 1895 per il congresso costitutivoche avrebbe dovuto aver luogo a Roma in coincidenza con le mani-festazioni dell’Esposizione Nazionale. Divergenze di varia natura,politiche e organizzative, vanificarono tuttavia il progetto chesarebbe poi stato ripreso di lì a pochi anni con maggior successo.54

Anche se i tempi non si rivelarono idonei per questo passo, lerivendicazioni e i dibattiti che accompagnarono il progetto consen-tirono a una larga parte di maestri e maestre italiani di prenderecoscienza della loro professione e di una realtà che superava i con-fini comunali o provinciali. Le dinamiche professionali comincia-rono ad essere socializzate e ad essere percepite come un patrimo-nio non solo individuale.

Era in sostanza pensando alle élites che si sforzavano di animarela categoria magistrale, concentrate soprattutto nelle scuole urba-ne, che nel 1888 una Commissione ministeriale presieduta dal Vil-lari approvò un documento steso da Aristide Gabelli che si prefig-

54. Cattaneo, Pazzaglia, Maestri, educazione popolare e società in “Scuola ItalianaModerna”, op. cit., p. 51.

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geva di realizzare una scuola elementare dai confini assai più estesidi quelli allora correnti.

Il Gabelli lamentava come da noi – a differenza di quanto acca-deva nelle nazioni più progredite in campo scolastico – la scuolanon teneva “le sue radici nell’indefettibile bisogno umano di crede-re e di sperare... non è figlia delle tradizioni, dei costumi, della vita,né con questa intrecciandosi in virtù di usanze più che di leggi, leporge, nello stesso tempo che ne riceve larga copia di nutrimento”.Di conseguenza la scuola portava “i segni di una duplice debolezza,dell’età sua giovanile e d’una specie di costringimento con cuivenne al mondo” a cui si dovevano aggiungere

“le trascuranze inconsce o subdole dei governi di prima, i bisogni ster-minati che ne ereditammo in cose riputate più urgenti, quindi lesopravvenute strettezze finanziarie, la necessità di improvvisare conpoca spesa locali, arredi, maestri, ogni cosa, l’impazienza dell’attende-re, i facili disinganni seguaci delle speranze esagerate, donde poi i con-tinui pentimenti, i ritorni, i fa e disfa non mai terminati con perdita diautorità per il governo e disgusto e stanchezza delle popolazioni”.55

Si trattava perciò di oltrepassare i limiti della scuola circoscrittaalla semplice padronanza del leggere, scrivere e far di conto perdiventare “lo stromento assimilatore d’una democrazia, che eccita-ta da molte cause si solleva di giorno in giorno più numerosa cer-cando irrequieta di farsi posto e di riuscire”. L’idea di scuola allaquale pensava il pedagogista veneto era quella nella quale si impar-tiva un’istruzione “tale a formar la testa” e “farsi sangue che si tra-sfonda nella vita del Paese”. Su questa base, come è noto, furonopredisposti i Programmi per la scuola elementare del 1888 chemolto ampliavano i contenuti indispensabili per la formazione delpiccolo italiano56 che avrebbero dovuto essere sostenuti – questol’auspicio della Commissione – dal prolungamento dell’obbligoscolastico per l’intero quinquennio elementare e dal potenziamen-to della scuola normale.

55. Sul riordinamento dell’istruzione elementare. Relazione a S.E. il Ministro dell’Istru-zione, in “Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Istruzione pubblica”, febbraio 1888,p. 103. La relazione fu pubblicata anche in un’edizione a parte con il titolo, Riordina-mento dell’istruzione elementare, Padova, Drucker e Sinigaglia, 1888

56. Istruzioni e programmi per le scuole elementari del Regno, R.D. 25 settembre 1888,in “Gazzetta Ufficiale” del 24 ottobre 1888, n. 251.

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Tanta ambiziosa e legittima estensione del concetto di scuola (egiocoforza di professionalità magistrale) si scontrava però controuna dura realtà. La forza delle élites magistrali su cui contavano Vil-lari e Gabelli non era ancora sufficiente per riuscire a trainare ilresto della categoria su posizioni più avanzate. Pochi anni dopo(già nel 1894) si dovettero di conseguenza semplificare i Program-mi e renderli più adatti a quelle che erano le modeste capacità deimaestri del tempo. Dell’estensione dell’obbligo si sarebbe parlatosoltanto a inizio secolo, mentre per quanto riguarda la scuola nor-male essa fu oggetto di un intervento organico nel 1896 che ne eli-minò le storture più gravi.

7. La professione magistrale nella manualistica pedagogica

Se attraverso la vita delle Società è possibile cogliere la realtàquotidiana dei maestri, conoscerne i problemi e le aspettative eapprezzarne gli sforzi per qualificare la professione, le analisi matu-rate in seno ai Congressi Pedagogici Nazionali (svoltisi regolar-mente tra il 1861 e il 1880 per iniziativa della Società PedagogicaItaliana e ripresi, in seguito, in tre altre circostanze, dal 1898 al1911, per impulso dell’Associazione Pedagogica tra gli insegnantidelle Scuole Normali), spostano l’attenzione piuttosto sul versantedella elaborazione pedagogica della professione magistrale e del-l’identità politica del maestro.

Com’è facilmente comprensibile il tema della professione magi-strale fu spesso occasione di osservazioni e proposte in stretta rela-zione con le discussioni che animarono i periodici congressi inmateria d’istruzione primaria. Gli atti dei Congressi (in modo par-ticolare il quinto, svoltosi a Genova nel 1868)57 restituiscono il côté,per così dire, “impegnato” del dibattito sulla fisionomia e il ruolodel maestro – il “dover essere”, per così dire – che fatalmente scon-tava un certo scarto tra la realtà quotidiana e la retorica sulla mis-sione civilizzatrice della scuola oppure, in altri casi, si avviluppavaentro solenni richiami rivendicativi.

57. Atti del quinto Congresso pedagogico italiano tenuto in Genova nel settembre del 1868,Milano, Zanetti, 1868.

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Alla dottrina esibita durante i Congressi è comunque preferibile,ai nostri fini, la documentazione rappresentata dai testi di pedago-gia destinati agli allievi delle scuole normali. Essi costituisconoinfatti un buon punto di mediazione tra l’approccio pedagogico“alto” e il proposito di introdurli nell’esperienza ordinaria.

Dal Rayneri, certamente l’autore più duraturo nella tradizionemagistrale italiana ottocentesca, in poi furono numerosi i pedago-gisti universitari che ci cimentarono con la manualistica per lascuola normale. Basta ricordare Pier Antonio Corte, GiuseppeAllievo, Francesco Saverio De Dominicis.58 Ma non furono dameno anche studiosi non togati, ma ricchi di esperienza e beneintrodotti nella vita delle scuole del tempo. Appare difficile, peresempio, prescindere dagli apporti di Ildebrando Bencivenni,59

Paolo Vecchia,60 Francesco Paolo Scaglione,61 Sante Giuffrida62 oMarcello Zaglia,63 divulgatori informati ed efficaci interpreti dellacultura e della mentalità magistrale del tempo. I loro testi ebberoampia circolazione nelle scuole normali e tra i maestri, in molti

58. Sulla manualistica pedagogica post unitaria ved. il già citato saggio di Bettiin Chiosso, Teseo. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, op. cit.;C. Sagliocco, Manuali scolastici di pedagogia nel secondo Ottocento: Corte, Uttini, Vec-chia, in “Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche”, 2002,n. 9, pp. 257-283.

59. I. Bencivenni, Manuale completo del maestro elementare italiano, Torino, Tarizzo,1880; Id., Ad un giovane normalista. Norme e consigli pratici di un vecchio maestro, Tori-no, Tarizzo, 1882; Id., Lezioni di pedagogia storica, teoretica, applicata e pratica conformeai principii della scienza moderna, Palermo, Amenta, 1886 (con qualche modifica e iltitolo Appunti di pedagogia e didattica l’opera ebbe circolazione fino agli anni della rifor-ma Gentile, nelle edizioni di Raffaele Giusti di Livorno).

60. P. Vecchia, Pedagogia pei maestri di grado inferiore, Torino, Paravia, 1869 (primaedizione 1863); Pedagogia educativa pei maestri di grado superiore, Torino, Paravia, 1865;La nuova scienza dell’educazione applicata all’insegnamento primario, Torino, Paravia,1886; Elementi di pedagogia e brevi cenni storici sui principali sistemi di educazione, Torino,Paravia, 1894 (1915, settima edizione).

61. F.P. Scaglione, Elementi di psicologia e pedagogia per le Scuole Normali e per i mae-stri, Torino, Paravia, 1904 (1916, terza edizione).

62. S. Giuffrida, Nuovo Corso di pedagogia elementare ad uso delle Scuole Normali,Torino, Grato Scioldo, 1900-1901 (prima edizione 1894 con il titolo Pedagogia ele-mentare, settima edizione nel 1921 presso Giannotta, Catania).

63. M. Zaglia, Nozioni di pedagogia teoretica e pratica, Milano, Trevisini, 1891 esoprattutto Antologia pedagogica ad uso delle Scuole Normali, dei maestri e delle famiglie,Milano, Trevisini, 1894 e successive ristampe.

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casi superiore alla fortuna arrisa ai manuali dei docenti universita-ri, con la sola eccezione del De Dominicis.

È proprio a questi protagonisti attivi sul campo della vita scola-stica che occorre rivolgersi per cogliere la messa a punto tardoottocentesca della professionalità magistrale: fu infatti soprattuttoattraverso l’azione di questi studiosi e uomini di scuola che si con-solidò il profilo del maestro elementare anche in termini di inqua-dramento pedagogico.

Dall’Unità in poi il tema della fisionomia professional-pedagogi-ca del maestro si svolge in modo graduale e con attenzione cre-scente, in linea con i già più volte richiamati sforzi compiuti dalceto dirigente per inquadrare entro uno schema unitario (“nazio-nale” nel linguaggio del tempo) gli insegnanti elementari. Cerche-remo di documentarlo attraverso i lavori di tre autori principali,Rayneri, Vecchia e Giuffrida i cui testi per diffusione e durata edi-toriale appaiono particolarmente significativi.

Il concetto di professionalità magistrale non compare o comparein modo tangenziale nella manualistica pedagogica immediatamentepost unitaria, per tanti versi erede della cultura piemontese. Nel piùcelebre e corrente manuale, i ben noti e già ricordati Primi principii dimetodica del Rayneri (1849, nona edizione già nel 1872 e ulterioriedizioni negli anni successivi), non si trova traccia di un esplicitoprofilo professionale del maestro e così pure in un altro, quasi coevo,testo, i Sunti di Pedagogia di Francesco Ferrero (1857, quinta edizio-ne 1868) che per la sua semplicità rispose in specie alle esigenze dellescuole magistrali, ampiamente impiegato inoltre nelle iniziative pre-disposte per il rilascio della patente ai maestri già in servizio.

Tutto il manuale del Rayneri è impostato intorno alla centralità delmetodo e alla sua organizzazione: “del metodo di insegnare in gene-rale”, “del metodo considerato rispetto alla scienza”, “del metodoconsiderato rispetto all’allievo”, “del metodo considerato rispettoall’ordinamento della scuola”. Naturalmente il pedagogista torinesenon prescinde dalle qualità personali del maestro. Nelle sue paginescorrono infatti vari aspetti costitutivi della competenza magistrale:l’esigenza che il maestro padroneggi gli argomenti che deve insegna-re e che li sappia comunicare agli allievi, la necessità di una conoscen-za approfondita degli alunni che gli sono affidati, in che modo eglidebba esercitare l’autorità e, infine, quali relazioni debba intrattene-re sul piano sociale con la famiglia, il Comune, lo Stato e la Chiesa.

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Ma il Rayneri non delinea un vero e proprio modello professio-nale, difficile dire se dandolo per implicitamente ricompreso nelmetodo oppure se – come più probabile – appagandosi di pensare almaestro nei termini di un’antica tradizione, continuamente ribaditain specie nella cultura educativa cristiana, che lo voleva zelante nel-l’esercizio didattico, amorevole nel rapporto con l’allievo, esempla-re sul piano dei comportamenti religiosi ed etici. In questo sensofaceva testo la sezione aggiuntiva della Conduite des écoles chrétiennesnella quale era tratteggiata la formazione dei giovani maestri64 e che,con abbondanza di dettagli ed esempi, puntava a coniugare l’idonei-tà didattica dei maestri con la loro santificazione personale, in coe-renza con la spiritualità magistrale di Jean Baptiste de La Salle.65

È abbastanza sorprendente che il Rayneri trascuri un tema cosìstrettamente legato al rinnovamento scolastico,66 specie se si tieneconto che non mancavano già riflessioni piuttosto avanzate sullaprofessione magistrale. Per esempio nel manuale del Peitl (in usofin dagli anni ’20 nelle scuole normali austriache, comprese quel-le italiane),67 un intero capitolo era dedicato alle “doti che aver

64. Conduite des formateurs des jeunes maîtres et inspecteurs des écoles, in Conduite desécoles chrétiennes, Paris, chez Moronval, 1828, pp. 243-292.

65. A questo proposito si possono vedere oltre ad alcune opere del La Salle, in par-ticolare le Méditations pour le temps de la retraite (1730, tradotto con il titolo Il Manua-le religioso del maestro. Meditazioni e pensieri per i maestri di S. Giovanni Battista de LaSalle, con introduzione di D. Bassi, Roma, Tipografia Editrice Laziale, 1937) e Ledodici virtù di un buon maestro accennate dall’abate De La Salle, istitutore dei Fratelli delleScuole Cristiane, spiegate dal Padre fratel Agatone, Torino, Marietti, 1835, un testo clas-sico della tradizione pedagogica lasalliana.

66. Questa lacuna può in parte essere spiegata con l’origine dell’opera del Rayne-ri, destinata in un primo tempo ai capitani di fanteria per l’istruzione militare e inseguito frettolosamente modificata per l’impiego nelle scuole magistrali piemontesiche erano state avviate sul finire degli anni Quaranta. L’estraneità del Rayneri al temadella professionalità magistrale trova un significativo riscontro nelle avvertenze ante-poste alla terza (1851) e soprattutto alla quarta edizione (1854) nelle quali il pedago-gista subalpino rendeva conto delle varianti introdotte rispetto alla primitiva stesura.La sua analisi pedagogica (sostenuta dal richiamo ad alcuni autorevoli autori comeMilde, Niemeyer e Diesterweg) continua a svolgersi essenzialmente sul versante del-l’organizzazione e della trasmissione del metodo.

67. S. Polenghi, La formazione dei maestri nel Lombardo-Veneto. Le traduzioni diF. Cherubini dei testi di J. Peitl (1820-1821), in Le carte e gli uomini. Storia della culturae delle istituzioni (secoli XVIII-XX). Studi in onore di Nicola Raponi, Milano, Vita e pensie-ro, 2004, pp. 153-173.

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debbe un maestro” su cui merita richiamare l’attenzione. Il peda-gogista austriaco partiva dal presupposto che “chi si dedica a unimpiego qualunque aver debbe certo ingegno e possedere certecognizioni che lo rendono abile a ben sostenere quel dato impie-go” e, quindi, anche in quanti si dedicavano alla carriera dell’inse-gnante si dovevano esigere “esistenti certe cognizioni e certe pre-rogative, alcune delle quali fisiche, altre intellettuali ed altri dipen-denti dalla volontà”.68

Il Peitl individuava infatti tre categorie di “doti” necessarie almaestro. In primo luogo egli poneva le “doti fisiche”: “il maestro discuola pubblica debb’essere sano di sensi, aver buona pronunzia ebuona salute e non avere alcun difetto notabile nel corpo”. Il Peitlsi dilungava sulla “salute ferma e durevole” perché

“senza di essa non si può bene e ordinatamente disimpegnare alcunaffare d’importanza, e molto meno poi l’impiego sì difficile e faticoso dimaestro. Egli non deve né può cercare di adagiarsi e stare in quiete, tro-vandosi sì gran numero di fanciulli vivaci e pronti ogni momento a farchiasso: non deve né può sparagnar fiato, ma sibbene parlar forte e conanima. L’uomo debole e malaticcio sente il proprio spirito soccomberesotto il peso della macchina corporea disordinata, riesce melanconico ebisbetico, e quindi incapace di dare un’istruzione veramente utile”

e sulla necessità che nel maestro non vi fossero “difetti notabili dicorpo”

“giacché se vediamo anche gli adulti deridere bene spesso imprudente-mente così fatte persone, tanto più è da temersi che i fanciulli, leggieriper natura e non ancora moralmente educati, possano a cagione disimili difetti fisici non rendere la debita giustizia alle prerogative intel-lettuali onde fosse fornito un maestro”.69

Alle qualità fisiche il Peitl faceva seguire quelle intellettuali. Ilmaestro

“debb’essere sano d’intelletto, avere facilità di comprensione e possederel’arte di conoscere i varj caratteri de’ suoi scolari e di giudicarli secondo ilbisogno; debb’essere in caso non solo di procacciarsi quelle tante cogni-

68. J. Peitl, Metodica ovvero precetti intorno al modo di ben insegnare le materie propriedelle scuole elementari maggiori e minori, Milano, Imperiale Regia Stamperia, 1826(terza edizione), p. 265.

69. Ibidem, pp. 265-266.

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zioni e abilità che siano indispensabili nella sua posizione individuale, maanche di così ben conoscere il metodo con cui insegnarle e comunicarle,che venga pienamente conseguito lo scopo dell’istruzione”.70

Queste indicazioni di carattere generale erano accompagnatedalla descrizione delle competenze specifiche per i diversi livellimagistrali: quelle necessarie al maestro elementare minore, quelleproprie del maestro elementare maggiore nonché quelle di caratte-re trasversale richieste, in modo distinto, ai maestri elementari dicittà e di campagna.

Infine il Peitl rivolgeva la propria attenzione alle “qualità dipen-denti dalla volontà”: “l’essere timorato, di buona coscienza, aman-te del proprio impiego e de’ fanciulli, paziente, dolce, diligente,zelante, frugale, decente, gioviale, discreto e prudente”. Guidatodalla coscienza delle proprie responsabilità il maestro doveva met-tere “spesse volte alla prova sé medesimo per vedere se e come gli[i doveri del proprio stato] eseguisca” e “riterrà come perduto quelgiorno in cui non possa dire a se stesso d’aver fatto qualche cosa diutile pei propri scolari”.

L’insieme delle caratteristiche prese in esame dal Peitl si svolge-va, in sostanza, già intorno all’idea di una professione fornita di unapropria specifica fisionomia. L’attività del maestro era posta anchedal pedagogista austriaco entro una robusta cornice etico-religiosa,ma non era tutta esaurita entro questo piano come dimostraval’identificazione di alcuni essenziali fattori tipicamente e laicamen-te professionali, ad esempio la robustezza fisica, le capacità didatti-che, la cultura personale.

Quando a metà degli anni ’60 Paolo Vecchia affidò a Paravia duetesti di pedagogia rispettivamente destinati alla formazione dei“maestri di grado inferiore” e dei “maestri di grado superiore”71 –due manuali riproposti quasi immutati fin quasi al termine delsecolo – non rinunciò, a differenza del Rayneri e del Ferrero, acimentarsi con le qualità professionali richieste ai maestri, madistinguendo due distinti livelli di professionalità.

70. Ibidem, p. 266. 71. Vecchia, Pedagogia pei maestri di grado inferiore, op. cit. e Pedagogia educativa pei

maestri di grado superiore, op. cit. Il primo manuale fu continuamente ristampato finoagli anni ’90 (l’ultima edizione ritrovata risale al 1893, tredicesima edizione); il secon-do raggiunse la dodicesima edizione nel 1888.

diventare maestri. la conquista della professione magistrale 215

Nel caso dei maestri destinati alle classi inferiori, il Vecchia iden-tificava le competenze professionali principalmente nei “doverimorali del maestro” (verso se stesso, verso gli allievi e i loro paren-ti e verso le autorità municipali e scolastiche) e nell’adempimentodelle incombenze legate alla semplice stesura del programma dellaclasse regolata molto schematicamente dalla necessità della padro-nanza delle principali regole del metodo.

Ben più ampio e articolato risultava, invece, il quadro disegnatoper i maestri del grado superiore. Essi dovevano possedere unampio spettro di doti: intellettuali, morali, religiose, integrate dalle“doti speciali dell’educatore come maestro pubblico”. Tra le pri-me erano segnalate la “scienza” e la “preparazione” (e cioè una pas-sabile cultura personale e la padronanza della pratica didattica),quanto alle seconde lungo era l’elenco dei doveri richiesti: zelo delproprio ufficio, amore allo studio e alla fatica, esemplarità di conte-gno, probità, amor di patria, ossequio alle leggi e rispetto all’auto-rità. Il Vecchia vi aggiungeva le qualità “necessarie al maestro pub-blico” che doveva

“riunire in se medesimo tutte le doti che si esigono sia al buon gover-no di una classe elementare sia al soddisfacimento dei doveri, i qualinascono dalle relazioni che egli ha colle autorità scolastiche e munici-pali, coi parenti degli alunni, coi propri colleghi”,72

integrando il discorso anche con qualche raccomandazione per lagestione, per così dire, sociale della professione:

“Per urbanità e giustizia dovranno i maestri trattarsi con rispetto ebenevolenza, evitare le discordie, non censurare l’ingegno, il metodo ela condotta dei colleghi; ma anzi sostenersi a vicenda e così acquistarcredito alla propria condizione, alleggerirne i pesi e alle scuole mede-sime recar vantaggio e lustro”.73

In sostanza il Vecchia distingueva tra un modello professionalemolto semplice nel quale prevalevano più che le competenze pro-fessionali i doveri propri del buon maestro e un altro invece piùarticolato e impegnativo dove, accanto alle doti etiche, erano postealtre qualità come una certa cultura personale, la preparazione

72. Vecchia, Pedagogia pei maestri di grado superiore, op. cit., pp. 224-225. 73. Ibidem, p. 231.

216 capitolo quarto

pedagogica, la conoscenza degli allievi, i rapporti con i colleghi. Ledue diverse prospettive con cui il collaboratore di Paravia guarda-va al lavoro dei maestri rifletteva la realtà magistrale nel quale agi-vano varie categorie di insegnanti elementari.

Un ulteriore perfezionamento del tema della professione magi-strale si verificò nella manualistica dell’ultimo scorcio del secolo.Nel suo Nuovo corso di Pedagogia elementare, uscito nel 1894 conl’editore torinese Grato Scioldo,74 Sante Giuffrida, allora direttoredelle scuole elementari di Catania, dedicava, ad esempio, unacospicua sezione della parte didattica alla figura del maestro, dimo-strando come la questione andasse affrontata ben oltre non solo isilenzi del Rayneri e Ferrero, ma anche le distinzioni operate dalVecchia.

Il discorso del Giuffrida si articolava intorno a quattro punti. Inprimo luogo il pedagogista siciliano richiamava l’importanza del-l’ufficio del maestro, sottolineandone la specificità educativa:

“Se il maestro elementare si dovesse limitare ad insegnar leggere, scri-vere e far di conto, od anche dare un’istruzione più elevata e più larga,il suo ufficio sarebbe dei più umili, e si ridurrebbe forse ad uno deimestieri più meccanici e incresciosi. Ben altro è il suo mandato: egli èl’educatore del popolo... Non è, come l’antico pedagogo, il semplicecustode dei fanciulli, ma la loro guida più sicura, l’ispiratore della lorovita. Quindi egli ha un alto incarico, anzi una vera missione da compie-re, perché come il sacerdote, ha cura di anime. A lui è affidato quanto lafamiglia, la società e la Patria hanno di più caro e di più sacro; nellesue mani sta in gran parte l’avvenire delle nazioni”.75

Il Giuffrida prospettava, poi, le qualità richieste al buon maestroe le individuava in doti fisiche, intellettuali, pedagogiche e moralicon alcuni tratti adiacenti all’impostazione del Peitl di quasi unsecolo prima. Anche per il Giuffrida il maestro doveva essere forni-to di una “costituzione sana e robusta” e “non deturpato da difettinotevoli”. Se il professore delle scuole medie poteva esercitare il suo

74. S. Giuffrida, Nuovo corso di Pedagogia elementare, Torino, Grato Scioldo, 1894.Il manuale ebbe diverse edizioni dapprima con l’editore torinese e dopo la chiusuradell’attività dello Scioldo, i diritti furono acquisiti dal catanese Giannotta con il qualeil testo del Giuffrida fu pubblicato almeno fino al 1921 (settima edizione).

75. Ibidem, p. 387.

diventare maestri. la conquista della professione magistrale 217

ufficio “anche con una salute alquanto cagionevole”, questa ipotesiera del tutto impensabile per il maestro, in quanto sottoposto “a benaltre fatiche, dovendo lavorare a scuola e a casa per lunghe ore dellagiornata” e “obbligato a continua vociferazione e a stare sempre inmovimento”.76

Per quanto riguardava le qualità intellettuali il Giuffrida richia-mava soprattutto l’importanza della “dirittura della mente”: “le testefalse o sofistiche, strambe o balzane, ancorché non ottuse, non pos-sono stare alla direzione di una classe di bambini”. Il “buon senso”e il sano “discernimento” andavano integrati da uno “spirito desto,pronto e attivo, una moderata fantasia, un gusto corretto e delica-to”. Lungo era, quindi, l’elenco delle qualità pedagogiche richieste,tutte accomunate dall’esigenza del “tatto pedagogico segno mani-festo di attitudine educativa o di vocazione al magistero”. Questaera giudicata la “dote fondamentale del maestro di scuola”.77

Naturalmente anche il Giuffrida rivolgeva la debita attenzione agliaspetti etici della professione, associando comportamenti privati epubblici: nei primi rientravano l’amorevolezza educativa, la pazienza,la fortezza di volontà, la bontà del carattere mentre i secondi eranofatti coincidere soprattutto con la probità e l’integrità della vita:

“Qui non si ammettono eccezioni o restrizioni: in tutto il resto possiamoaccontentarci di un’aurea mediocrità, ma in questo si ha il diritto di esi-gere la maggiore eccellenza. Il maestro, come la moglie di Cesare, deveessere superiore ad ogni sospetto: nessuna ombra deve offuscare la famaintemerata. Non può entrare, senza profanarlo, nel santuario della scuo-la, chi non ha un’anima incontaminata e costumi purissimi. Nella mae-stra tali qualità devono raggiungere un grado eminente. Non un neo hada deturpare la sua illibata onestà, e da ogni suo atto e da ogni suo cennodeve trasparire la più esemplare specchiatezza di condotta e di vita”.78

Infine il pedagogista siciliano rivolgeva la propria attenzione alle“cognizioni” indispensabili al maestro. Pur riconoscendo la neces-sità e l’importanza di una “cultura generale da acquisire nei tre annidella scuola complementare e da raffermare nella Scuola Normale”e diffidando dai “maestri improvvisati che non possono essere che

76. Ibidem, p. 389.77. Ibidem, p. 391.78. Ibidem, p. 393.

218 capitolo quarto

dei guastamestieri”, l’attenzione del Giuffrida si rivolgeva soprat-tutto alla “necessità dello studio della pedagogia” e all’importanzadell’esercizio del tirocinio, condizione reputata indispensabile peracquisire “quell’abilità didattica, condizione indispensabile a beneducare e a ben istruire la fanciullezza”.79

Si potrebbero passare in rassegna anche altri autori e altri testicoevi, in specie quelli assai fortunati del De Dominicis, ma il qua-dro resterebbe nella sostanza quello descritto dal Giuffrida. A finesecolo il tema della professionalità magistrale (le “doti” e le “quali-tà”) è ormai parte della riflessione pedagogica. Essa si configuraunitaria senza distinzioni tra le diverse tipologie di maestri (perquanto queste siano ancora previste dalla legislazione), non si affi-da più alla sola esemplarità etica del maestro, è fortemente finaliz-zata al “sapere didattico” e, per il momento, molto meno al saperein quanto cultura personale.

8. Verso il nuovo secolo

Credo di aver portato tangibili prove a sostegno della tesi che afine Ottocento la professione magistrale si presenta ormai con unapropria specifica fisionomia. Ma sono anche convinto che questaacquisizione abbia necessità di essere accompagnata da qualcheulteriore precisazione.

Bisogna sicuramente considerare, innanzi tutto che, pur nellasituazione magistrale assai differenziata documentata dalle indagi-ni ministeriali, a partire dagli anni ’70 e con maggior forza nei duedecenni successivi i maestri e le maestre si autorappresentano (peresempio nella produzione pubblicistica di categoria) e vengonorappresentati (come nel caso di tutta la produzione letteraria che liprende a protagonisti) come una categoria socialmente riconosciu-ta, fornita di un preciso ruolo e di una propria identità e non piùcome semplice occupazione mista ad altre, anche se non mancanoancora lagnanze a tal riguardo nelle relazioni degli ispettori. Lapratica delle lezioni private, assai diffusa e talora quasi generalizza-ta, se per un verso rivela una certa debolezza economica, d’altra

79. Ibidem, pp. 399-402.

diventare maestri. la conquista della professione magistrale 219

parte svela anche la preferenza per un’attività coerente con la pro-fessione magistrale.

Un secondo elemento riguarda il fatto che le élites magistraliurbane di fine secolo dispongono in genere di una precisa strumen-tazione didattica e pedagogica. Molto più incerta e precaria conti-nua ad apparire invece la condizione di lavoro degli insegnantirurali. La funzione di traino delle élites esercita una forte azionepedagogica in termini di identità professionale e un notevole pote-re di aggregazione per quanto riguarda la socializzazione della pro-fessionalità. I due fenomeni innescarono circuiti virtuosi chepotrebbero essere confermati dall’esplorazione dell’immenso terri-torio, tuttora vergine, delle già più volte richiamate Società magi-strali nel secondo Ottocento. Eventuali ricerche sulle loro attivitàin generale e, nello specifico, sulla costruzione cooperativa dellaprofessione e sulle mutualità attivate a sostegno dei segmenti piùdeboli del mondo magistrale, fornirebbero sicuramente elementimolto interessanti in varie direzioni.

Se la nostra indagine proseguisse, poi, almeno fino agli annidella Grande Guerra si potrebbe verificare come nel nuovo secolodiventò sempre più significativa la condivisione della professioneattraverso la partecipazione di massa (credo che in questo caso laparola non sia fuori luogo) alle grandi forme associative degli inse-gnanti elementari che, come è ben noto, sorsero proprio all’iniziocon il nuovo secolo.

Alla graduale espansione della scolarizzazione nella società italia-na corrispose la graduale presa di coscienza di una specificità dellaprofessione magistrale anche sul piano della riflessione pedagogica,passando – come si è visto – da un modello di maestro ancoraricompreso all’interno di schemi concettuali tradizionali con echidi origine religiosa ai successivi tentativi di fissarne la fisionomia ele caratteristiche proprie in un quadro del tutto laico. La dimensio-ne etica ed etico-religiosa continuò a rappresentare certamente unodegli assi portanti o forse addirittura il principale asse portante del-l’agire magistrale, ma sempre più essa venne associata alle compe-tenze specifiche dell’insegnamento e al ruolo del maestro qualestrumento decisivo nella costruzione dell’Italia nata dai moti risor-gimentali.

La scuola normale costituisce un canale introduttivo alla profes-sione da tenere nel giusto conto, ma non va sopravalutata. Nono-

220 capitolo quarto

stante ogni sforzo e anche dopo il notevole incremento di iscrittiche si verificò dopo il 1880, essa non riuscì infatti a soddisfare ilfabbisogno di maestri. In numerose scuole italiane continuarono aoperare sia insegnanti sprovvisti di patenti sia insegnanti formatiattraverso brevi corsi sia maestri assunti in seguito a sanatorie divario tipo. Di fronte a una realtà vistosamente eterogenea non sipuò pretendere di trovare una professionalità omogenea.

Un certo miglioramento si compì al termine del secolo con l’im-portante riforma della scuola normale del 1896 legata al nome delministro Granturco, ma gli effetti del provvedimento si sarebberoavvertiti soltanto nel nuovo secolo inoltrato quando cominciò amanifestarsi l’intenzione di riconsiderare nel suo insieme la questio-ne magistrale. Essa, come è risaputo, fu innescata e condizionata altempo stesso dalla preoccupazione legata alla carenza di maestri emaestre.

Per quanto riguarda la scuola normale il dibattito era destinato asvolgersi intorno ad un fondamentale interrogativo. Quella delmaestro era una professione che andava affidata soprattutto alleabilità didattiche nella versione consolidata dai rigidi protocolli deltardo positivismo rivisti e riaggiornati dall’emergente herbartismo?Oppure essa andava posta all’interno di sfondi culturali non soltan-to operativi fino a fare della cultura personale, per così dire, “disin-teressata”, il serbatoio cui attingere per un agire scolastico nonripetitivo, non più legato al concetto di metodo e consegnatosoprattutto alla intelligenza critica del maestro?80

Intorno a questo interrogativo – che prevedeva modelli tra loroalternativi di magistralità – si sarebbero confrontati e scontratisenza esclusione di colpi i principali esponenti della cultura peda-gogica primonovecentesca. Da una parte gli studiosi e gli uomini discuola raccolti intorno alla “Rivista pedagogica” di Luigi Credaro,alle principali riviste magistrali, in specie i “Diritti della scuola”,alle attivissime associazioni di categorie, dall’altra le combattivepattuglie magistrali idealiste guidate da Giuseppe Lombardo Radi-ce, Ernesto Codignola e Francesco Paolo Japichino e sostenute daGiovanni Gentile, Giuseppe Prezzolini e Gaetano Salvemini.

80. Chiosso, La formazione dei maestri in alcune riviste scolastiche e pedagogiche delprimo Novecento, in Genovesi, Russo, La formazione del maestro, op. cit., pp. 69-90.

Capitolo quinto

Maestri privati, suore, medici e altro.Antichi e nuovi protagonisti dell’educazione

1. Il tramonto del precettore

I cambiamenti che percorsero l’Italia alfabeta e scolastica traprimo e secondo Ottocento furono segnati anche da importantitrasformazioni riguardanti le figure educative impegnate nelcampo dell’istruzione. Alcune uscirono di scena, altre fecero la lorocomparsa, altre ancora si modificarono e assunsero nuova veste.Non furono, dunque, soltanto i maestri a essere interessati dasignificativi mutamenti della loro professione.

Si verificò, in primo luogo, l’inarrestabile declino della figura delprecettore. Con il trascorrere dei decenni si diradarono i precettoriprivati a cui erano affidati i rampolli delle famiglie aristocratiche espesso anche quelli delle élites borghesi che ambivano distinguersi edesideravano evitare ai figli la frequenza della scuola. Ancora abba-stanza numerosi nella prima parte del secolo, già verso la metà del-l’Ottocento i precettori costituiscono un fenomeno secondario. NelDizionario illustrato di pedagogia apparso negli anni di giuntura tra idue secoli non compare – e possiamo ritenere non si tratti di unasemplice dimenticanza – la voce “precettore”.

Poco più di cent’anni prima la realtà era molto diversa. Un’am-pia precettistica pedagogica, dagli autorevoli testi di Locke e Rous-seau alle numerose opere minori nelle quali si riflettevano gli idea-li educativi della Chiesa e della nobiltà, documentava l’importanzadi questa figura educativa. Le autobiografie e i romanzi del tempoerano affollati di precettori: giovani chierici in attesa di una sinecu-ra più vantaggiosa, aspiranti letterati, avventurieri in cerca di fortu-na, per metà domestici, per metà intellettuali che speravano dibeneficiare per il futuro delle relazioni sociali intrecciate durante illoro servizio.

222 capitolo quinto

Unanime era il giudizio sull’importanza del precettore, anche sespesso accompagnata da preoccupazioni di varia natura: i trattatiraccomandavano che i precettori fossero scelti con estrema cura,sollecitavano le famiglie a non cambiarli troppo spesso, ne sottoli-neavano la delicatezza del ruolo, sia sul piano della moralità sia inriferimento alle loro qualità intellettuali, condannavano l’impiegodel precettore come una forma di ostentazione e di prestigio.Anche quando le famiglie optavano per il collegio, in molti casicontinuavano ad avvalersi dell’opera del precettore incaricato diseguire i figli negli studi e di vegliare sulla loro condotta.

A mano a mano che ci si inoltra nel xviii secolo si manifestanotendenze sempre più favorevoli alle scuole pubbliche, nonostantel’opinione contraria espressa da Rousseau nelle pagine dell’Emilio.La frequenza dei collegi è insistentemente caldeggiata per ragionipiù morali che pedagogiche: il collegio offre maggiori garanzie sulpiano della vigilanza dei costumi, risolve il problema di trovare unbuon precettore, evita l’influenza negativa di domestici rozzi o per-vertiti e contribuisce, inoltre, alla socializzazione del fanciullo inun clima di emulazione. Il collegio si avvale di educatori scelti, pro-vati e responsabili e appare dunque più idoneo all’educazione delfocolare domestico.

Con il rafforzamento dell’istruzione pubblica in età napoleonicala figura del precettore subì un ulteriore indebolimento: il collegiocostituisce ormai la via principale degli studi e il ruolo del precetto-re si confonde con quello dell’assistente agli studi congiunto, nelcaso di ecclesiastici, al compito di educatore alle pratiche cristiane.1

Il tramonto dell’educazione domestica che si verifica nei primidecenni dell’Ottocento non è altro, dunque, se non il compiersi di

1. È questo il caso del precettore di casa D’Azeglio, don Andreis, ricordato daMassimo: “anima più candida, più virtuosa che si potesse desiderare, ma altrettantocorto... In fatto di educazione, di tatto, d’opportunità, di maniera di prendermi, ecc.non ne indovinava una”, prete dalla mentalità “gesuitica”, che s’ingegnava a moltipli-care le pratiche di pietà nella convinzione attraverso questa via di “fare di me un buoncristiano” (M. D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze, Barbèra, 1908, p. 76). Sul ruolo delprecettore e il suo declino soprattutto in riferimento alla realtà della Francia ved.D. Roche, La cultura dei Lumi. Letterati, libri, biblioteche nel XVIII secolo, Bologna, IlMulino, 1988, pp. 421-446; D. Julia, L’infanzia tra assolutismo e secolo dei Lumi, inE. Becchi, D. Julia (edd.), Storia dell’infanzia. Dal Settecento a oggi, Roma-Bari, Later-za, 1996, pp. 78-85.

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una parabola di lunga durata. Un conservatore a tutto tondo comeLorenzo Martini, un medico piemontese dai non inusuali interessipedagogici, in uno scritto del 1834 lamentava gli inconvenientidell’“educazione solitaria” dove “i parenti e gli istitutori dirigonotutte le loro cure verso uno solo”: educazione giudicata sterile per-ché “vi manca lo stimolo dell’emulazione” e “l’opportunità di fareconfronti”.2 Una posizione in netta antitesi con quella espressaqualche decennio avanti da autori di analoghi sentimenti politici esociali, come Francesco Alberti di Villanova e Benvenuto Robbiodi San Raffaele.3

Al declino del precettore corrispose il moltiplicarsi dei maestri pri-vati, anch’essi sulla scena educativa per antica tradizione. L’espres-sione “maestro privato” merita qualche puntualizzazione perchéall’interno di questa categoria si mescolano figure e funzioni moltodiverse e addirittura poste ai due estremi della scala scolastica.

Ai livelli più alti della professione privata c’erano, per esempio, imaestri che affiancavano l’opera dei precettori o che integravano ilpiano educativo dei collegi: maestri di spada, di maneggio, maanche di lingue straniere e di musica e, per le fanciulle, maestre diricamo, di danza, di buone maniere. Maestri potremmo dire di altorango che assicuravano una formazione adeguata a chi era destina-to a diventare un “gentiluomo” o una dama tenuta a muoversi condisinvoltura nella buona società.

Nei principali centri urbani fin dagli ultimi decenni del Sette-cento si era poi andata costituendo un’offerta scolastica assai arti-colata con maestri privati laici ed ecclesiastici che provvedevanoall’istruzione dei figli di quelle famiglie che non potevano permet-tersi il precettore a tempo pieno. Ma neppure intendevano inviarei figli in classi sovraffollate e miste dal punto di vista dell’apparte-nenza sociale dove, vuoi “per distrazione” vuoi “per impossibilità”,i maestri non riuscivano a seguire individualmente ora uno ora l’al-tro allievo. In queste condizioni “coloro che vengono di rado inter-rogati, o sono pigri e impoltriscono di più; o sono cupidi di saperee credendosi dimenticati si avviliscono”.4

2. L. Martini, Riforma della prima educazione, Torino, Marietti, 1834, pp. 9-10. 3. P. Bianchini, Educare all’obbedienza. Pedagogia e politica in Piemonte tra Antico

Regime e Restaurazione, Torino, sei, 2008, pp. 19-27. 4. Martini, Riforma della prima educazione, op. cit., p. 10.

224 capitolo quinto

Era questa la principale difficoltà che, ad esempio, opponevanole famiglie alla diffusione del metodo di insegnamento simultaneonelle scuole pubbliche negli anni ’40 in Piemonte:

“V’è la maestra convinta dell’esperienza che l’insegnamento individua-le è faticosissimo, lento e di poco frutto, vorrebbe alternarlo o megliocongiungerlo col simultaneo e così far godere a maggior numero dialunni e per più lunga tratta di tempo la sua istruzione... Ma v’ha chi silagna e chiede... che la signora maestra si degni di chiamare ella stessaogni giorno a sé la mia bambina e la faccia leggere sull’abbici sotto isuoi occhi e la faccia compitare”,5

richieste che i maestri e le maestre privati erano invece ben dispo-sti a soddisfare. Altre particolari esigenze erano poi legate a speci-fiche attività pratiche come l’esercizio della calligrafia, la tenuta deilibri contabili, la corrispondenza mercantile: anche in questo casoera inevitabile il ricorso a insegnanti specializzati disponibili sol-tanto nell’ambito privato.

Una copiosa memorialistica fornisce numerosi riscontri sull’atti-vità dei maestri e maestre privati, religiosi e laici. Ferdinando Mar-tini, futuro ministro dell’Istruzione, fu cresciuto e istruito, dai treai sette anni (tra il 1844 e il 1848), dalle sorelle Gaetana e RosaMarchionni di cui ci ha lasciato un ricordo segnato soprattutto dal-l’inflessibile severità delle due sorelle:

“l’ufficio della signora Gaetana era quello dell’aguzzino: appena lasignora Rosa faceva con uno di noi la voce grossa, la signora Gaetana,alta secca allampanata, compariva sull’uscio e preso per un orecchio ilpiccolo reo, secondo il misfatto, o gli amministrava con la mano stec-chita ripetuti colpi sulla parte più rotonda e carnosa del corpo (quanteparole per evitarne una!) o lo metteva nel ‘cantuccio’ dopo averglicoperto il capo con un berrettone conico di cartone turchino, sul qualeera disegnata da mano inesperta una testa di somaro. La signora Rosapiccola, grassotta, era la vera maestra; e un po’ per volta con pazientepazienza ci insegnò tutto quanto sapeva: leggere, scrivere, la tavolapitagorica, le prime operazioni dell’aritmetica, la dottrina cristiana epoco più”.6

5. V. Troya, L’educazione intellettuale e la morale dell’infanzia e per incidenza ancoradell’istruzione femminile, in “L’educatore”, 1847, pp. 80-81.

6. F. Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), in C. Cappuccio (ed.),Memorialisti dell’Ottocento, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1958, p. 1009.

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Quasi negli stessi anni Ida Baccini nella sua autobiografia ricor-da che

“bambinuccia di cinqu’anni appena, fui messa a scuola da certe sorelleGozzini, tre vecchie zitellone che erano coadiuvate nel non arduo loroministero dal fratello Gesuino e da un certo sor Romolo, un pretinoarzillo, di cui non m’è riuscito di ritenere il casato. In questa scuoladove ogni bambina portava la sua seggiolina con una specie di trespo-lo per il lavoro, s’insegnava a leggere, scrivere e far di conto: i lavorimuliebri nei quali veniva impiegato quasi tutto il giorno, consistevanoper le più piccine in legacci da calza fatti a maglia, in solette, in calze:e, per le più grandicelle, in cucito”.7

Il biografo di Michele Rua, il successore di don Bosco nellaguida della Società salesiana, così riferisce dei suoi primi studi gin-nasiali trascorsi nella scuola di Giuseppe Carlo Bonzanino:

“Tutte le mattine sotto il portico della sua abitazione si riversavanogruppi di ragazzi, soprattutto delle classi più altolocate, che si suddivi-devano in tre corsi di latino e greco. Li teneva tutti e tre insieme. Gliuni studiavano mentre gli altri seguivano la lezione e viceversa... Nes-suna parete né fisica né morale separava le classi. Il professore preten-deva solo due cose: l’attenzione e i compiti ben fatti e le lezioni impa-rate a dovere. Per il resto piena libertà. Il metodo era vantaggioso pergli allievi capaci. Quelli che avevano delle lacune nella loro istruzione,le colmavano facilmente, seguendo in aggiunta il corso inferiore. Colo-ro che erano audaci nello spirito e avevano solide facoltà intellettuali,potevano passare al corso superiore. Bonzanino ebbe allievi che entra-vano in quinta in ottobre, passavano in quarta a Pasqua e terminavanol’anno in terza”.8

Il fenomeno dei maestri e delle maestre privati, pur ampiamentediffuso, ebbe tuttavia dimensioni più ampie là dove l’offerta scola-stica pubblica era più povera e i collegi lasciavano a desiderare.

In questi casi, più frequenti nelle regioni meridionali, gli inse-gnanti privati rappresentavano spesso il nucleo principale del siste-ma d’istruzione: raccoglievano piccoli gruppi di allievi, li ospitava-

7. I. Baccini, La mia vita, introduzione e cura di L. Cantatore, Milano, Unicopli,2004, p. 42.

8. F. Desramaut, Vita di don Michele Rua, primo successore di don Bosco, Roma, las,2009, p. 27.

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no in casa propria, li accompagnavano dai primi rudimenti delsapere fino alle conoscenze preuniversitarie. Mentre nei gradi sco-lastici inferiori il maestro agiva in genere da solo o al più avvalen-dosi dell’aiuto di un sottomaestro, ai livelli corrispondenti allescuole liceali i maestri principali si facevano affiancare da altri inse-gnanti in modo da provvedere all’intero spettro delle disciplinepreviste nel cursus studiorum. Al vertice di questo sistema scolasticostavano infine le scuole di livello universitario.9

La fortuna delle iniziative private era solitamente legata allanotorietà e al prestigio del maestro che le guidava e con il quale gliallievi stabilivano un rapporto di stretto discepolato: insomma “veriscolari e veri maestri”. I primi “perché dovevano vivere per piùanni col proprio insegnante” ed i secondi “perché dovevano anda-re innanzi nella coltura per mantener viva l’attenzione e l’interessedel discente”.10

Si trattava di esperienze educative e culturali molto particolari,non condizionate dal riconoscimento dei titoli acquisiti, che nondiscriminavano rispetto al profitto, che dimostravano tolleranza erispetto per il censo degli alunni e disposte, in ultima istanza, “adoffrire soltanto ed esclusivamente quello che ad esse veniva richie-sto”.11

Quale fosse l’organizzazione dei maestri privati in particolare aNapoli – ove il fenomeno si manifestò nelle sue forme più signifi-cative – ci è descritto nell’autobiografia del giovane Francesco DeSanctis. Il futuro ministro dell’Istruzione compì infatti i suoi studifrequentando svariati insegnanti privati, dai corsi inferiori tenutidalla zio Carlo nella bella casa di via Formale alla scuola superioredell’abate Fazzini, prima, e a quella di diritto, poi, dell’abate Garzia(definito un “avanzo dimenticato della scolastica”), fino all’incon-tro con Basilio Puoti con il quale, come è noto, il De Sanctis perfe-

9. Per le caratteristiche e l’ampiezza del fenomeno dell’insegnamento privato aNapoli nel primo Ottocento ved. A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel Napoleta-no (1767-1860), Città di Castello, Il Solco, 1926, pp. 229-242.

10. S.A. Costa, La scuola e la grande scala. Vita e costume nella scuola siciliana dal 1860agli inizi del Novecento, Palermo, Sellerio, 1990, p. 679.

11. A. Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), Firenze,La Nuova Italia, 1968, p. 154 (e più ampiamente sul fenomeno dell’istruzione priva-ta pp. 149-155).

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zionò la propria formazione letteraria e sul cui esempio egli stessoaprì la scuola di vico Bisi.12

Accanto agli insegnanti impegnati con gli alunni di famiglieagiate, c’erano un po’ dovunque anche altri maestri privati, concaratteristiche del tutto diverse. In questo caso si trattava di “figu-re irregolari e improvvisate”, che trovavano un loro spazio, adispetto dei controlli superiori, “nelle nicchie di una domanda invia di espansione, ma dai confini ancora fluttuanti e dalle modesteesigenze”.13

Insegnanti, insomma, che agivano negli interstizi del sistemascolastico pubblico in forme talvolta un po’ clandestine o soddisfa-cevano esigenze scolastiche là dove la scuola pubblica proprio nonc’era (ad esempio nelle zone rurali), che per lo più si limitavano aimpartire poche nozioni, che quasi sempre associavano all’inse-gnamento anche altre attività; maestri – in altri casi – che s’inge-gnavano ad aprire scuole serali per gli adulti desiderosi di impara-re a leggere e a scrivere. Fu questo, per esempio, il caso di donBosco che, per attrarre a sé i giovani, ancor prima di aprire l’ora-torio di Valdocco, organizzò per l’appunto apposite lezioni seraligratuite.14

Nel caso delle maestre l’attività si rivolgeva in genere ai bambi-ni più piccoli, spesso connotata da caratteristiche a mezzo tra lacura e l’insegnamento dei primi rudimenti e affiancata – nel casodelle scuole femminili – dall’introduzione a saperi pratici comecucire, filare, rammendare.

A questi livelli bassi di istruzione le competenze dei maestrisi riducevano al minimo indispensabile: una buona memoria,la conoscenza delle principali preghiere, un corredo didatticoalquanto semplice che spesso si riduceva agli elementi essenzialidella lingua e del calcolo. Si trattava in genere di figure giudicate

12. F. De Sanctis, La giovinezza. Frammento autobiografico, Bologna, Zanichelli,1935, pp. 16-68.

13. M. Roggero, L’alfabeto conquistato. Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette eOttocento, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 238.

14. G. Bosco, Scritti sul sistema preventivo nell’educazione della gioventù, a cura diP. Braido, Brescia, La Scuola, 1965, p. 100. Ved. anche Memorie biografiche di don Gio-vanni Bosco, a cura di G.B. Lemoyne, S. Benigno Canavese, Tipografia Salesiana,1901, vol. ii, p. 373.

228 capitolo quinto

dalle autorità d’inizio Ottocento “di nessun conto”, “non merite-voli di attenzione”, “maestri volgari e rusticani”, “donne imperite”che ignoravano le norme e le prescrizioni previste per l’eserciziodell’insegnamento. La durata dell’impegno del maestro o dellamaestra e il tempo dedicato giornalmente all’assistenza e allo stu-dio erano concordati con le famiglie, senza regole precise e in fun-zione delle reciproche esigenze.15 Questi maestri privati offrivanoinsomma un servizio semplice, senza pretese, flessibile, alla porta-ta di tutte le borse.

2. Maestri e scuole private dopo l’Unità

Questo quadro che in via generale possiamo riferire ai decenniprecedenti l’Unità subì significativi contraccolpi con l’estensione atutto il regno del sistema scolastico piemontese. La normativa chene accompagnò l’attuazione, pur riconoscendo il principio dellalibertà di insegnamento, erose gradualmente gli spazi che in prece-denza erano propri dei maestri e delle scuole private, anche se latransizione non fu né breve né semplice e neppure totale.

Ce ne dà testimonianza, letteraria ma non di meno credibile, ilDe Amicis nel suo Romanzo di un maestro (la narrazione si riferi-sce agli anni ’60 e a una realtà – quella del Piemonte – dove lascuola funzionava regolarmente) con la denuncia, affidata a unamaestra comunale, di una situazione ormai percepita come deltutto irregolare:

“Una maestra che non ha mai visto il colore d’una patente, e che tienetanto di scuola privata, dove dice d’insegnare a leggere e scrivere etrova le contadine bestie che ci mandan le bimbe, e le danno una lira emezzo al mese. Io non lo dico perché mi rubi quei pochi soldi delleripetizioni estive, ma perché è una scuola di contrabbando, che portavia le alunne alla scuola pubblica, e non c’imparano un bel nulla. Bastidire che non ci hanno nemmeno banchi. E la maestra tiene il libro frale gambe, e fa leggere le bimbe in ginocchio... L’ispettore ha ordinatodi chiudere la scuola. Ma che pro? Voltate che ebbe le spalle, la scuolaè stata riaperta, come fanno da per tutto”.16

15. Roggero, L’alfabeto conquistato, op. cit., pp. 241-242. 16. E. De Amicis, Il Romanzo di un maestro, Genova, De Ferrari, 2007, p. 49.

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All’inizio del Novecento la realtà dell’insegnamento privatorisulta ormai molto diversa; i maestri singoli costituiscono un feno-meno molto circoscritto, a meno di non volerne vedere la conti-nuità nella pratica delle lezioni private e nei docenti impegnatinella preparazione ai concorsi pubblici. Ma in questi casi si trattadi figure piuttosto lontane, se non proprio estranee, rispetto almodello originario.

Alla diversa fisionomia dei maestri privati della prima parte delsecolo corrisposero nel momento del declino anche destini abba-stanza diversi.

Sul versante “alto” del sistema scolastico i maestri privati furo-no spinti a passare dall’iniziativa personale a quella collettiva, rac-cogliendosi negli istituti gestiti privatamente di cui l’Italia scola-stica post unitaria fu straordinariamente ricca e di cui molto pocoancora sappiamo, specie per quanto riguarda le scuole laiche.Quando si ricordano le battaglie in favore della libertà di inse-gnamento si fa di solito riferimento alle scuole confessionali. Madalla parte della libertà scolastica si schierò anche il variegatomondo delle scuole private laiche per ragioni non sempre ideali espesso molto pratiche, legate ai profitti derivanti dal fiorentemercato degli studi.

L’espansione della scolarizzazione congiunta alle diffidenzenutrite dalle famiglie verso le scuole pubbliche, in specie seconda-rie, agì come effetto moltiplicatore delle iniziative private. Accantoalla nobile preoccupazione di assicurare ai figli la scuola migliore epiù qualificata possibile, anche altri motivi concorsero al pullularedelle scuole private come il desiderio, per esempio, di un ambientesociale d’élite dove fosse possibile intrecciare relazioni e amicizie daspendere più tardi, in età adulta, oppure la ricerca di una scuolanon troppo impegnativa oppure ancora l’aspettativa di poter accor-ciare il corso degli studi, aspettativa tutt’altro che inconsueta se perscoraggiare il fenomeno del cosiddetto “salto degli anni” fu neces-sario adottare un apposito provvedimento.17

17. Con il R.D. 3 maggio 1872 che regolava gli esami di licenza liceale, fu postol’obbligo di un intervallo di almeno tre anni tra il conseguimento della licenza ginna-siale e l’esame conclusivo del liceo. Il provvedimento fu assai vivacemente osteggiatodalle scuole private e fu probabilmente alla base del successivo incremento di studen-ti nei licei governativi.

230 capitolo quinto

Napoli continuò a rappresentare la città ove, più che altrove,l’iniziativa scolastica privata prosperò in diretta continuità con leesperienze precedenti. Ma sarebbe fuorviante ritenere la realtànapoletana come un caso del tutto specifico: la diffusione e il gradi-mento da parte delle famiglie del libero insegnamento interessaro-no infatti in egual misura l’intera penisola. Bastano a dimostrarlopochi esempi.

Nel 1865 a Torino – uno dei punti di eccellenza per antica storiadel sistema dell’istruzione pubblica – a fronte di due licei e tre gin-nasi governativi funzionavano cinque licei e nove ginnasi privati18 emolte altre scuole di livello inferiore. A Firenze il prestigio del-l’Istituto Fiorentino controllato dagli Scolopi ombreggiò a lungogli istituti pubblici, segnatamente il liceo “Dante”, e soltanto unpesante intervento politico del ministro De Sanctis volto a secola-rizzare le scuole dell’ex capitale riuscì a riequilibrare, ma solo inparte, la situazione.19 A Palermo il numero degli istituti gestiti daprivati dopo l’Unità andò continuamente crescendo fino agli anni’80-’90 con un concomitante incremento di iscritti.20 In alcuni casi,come quello dell’Istituto “Randazzo”, l’insegnamento libero rap-presentò un caso significativo anche sul piano della riflessione edu-cativa e pedagogica del tempo come dimostra, tra l’altro, la buonaqualità dei contributi che apparvero sulla longeva pubblicazionedell’istituto.21

L’organizzazione delle scuole private si sovrappose irreversibil-mente a quella dei maestri singoli: il modello scolastico pubblicopianificato secondo le pratiche didattiche dell’insegnamentosimultaneo, i programmi predisposti centralmente e rispetto a cuierano predisposte le prove d’esame, la concorrenza con le scuolegovernative e comunali contribuirono di fatto a svuotare il model-lo pedagogico centrato sul rapporto diretto tra insegnante e alun-no e scandito su tempi di apprendimento non formalizzati. Invanoquesta antica tradizione fu difesa fino agli anni ’80, come docu-

18. P. Baricco, L’istruzione popolare in Torino, Torino, Eredi Botta, 1865, pp. 120-128. 19. A. Gaudio, Educazione e scuola nella Toscana dell’Ottocento. Dalla Restaurazione

alla caduta della Destra, Brescia, La Scuola, 2001, pp. 281-286. 20. Costa, La scuola e la grande scala, op. cit., pp. 687-688. 21. Ibidem, pp. 380-381; G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Ita-

lia (1820-1943), Brescia, La Scuola, 1997, pp. 610-611.

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mentano le testimonianze dell’associazionismo dei maestri privatinapoletani e del periodico che lo rappresentò negli anni ’80, “Lascuola italiana”.22

Per quanto riguarda, invece, la realtà dei maestri privati del-l’istruzione primaria essa fu duramente provata dalla generalizza-zione della scuola elementare. Questo fenomeno va esaminatosotto un duplice profilo. All’indomani dell’Unità ci fu una vastacampagna di reclutamento di maestri. A tal fine furono apertiappositi corsi che in pochi mesi consentivano di acquisire l’idonei-tà all’insegnamento. Sperimentati per la prima volta in Emilia,Marche e Umbria, i corsi furono estesi, già nell’estate del 1861, alleprovince meridionali in attesa che sorgessero le scuole normali. DaNapoli a Palermo, da Lecce a Girgenti e Catania23 un certo nume-ro di maestri approfittò dell’occasione. Il conseguimento del titolocomportò spesso il passaggio dall’insegnamento privato ad unposto nelle scuole comunali.

Ma occorre considerare anche un secondo aspetto: la generaliz-zazione della scuola determinò anche un mutamento di percezionedel suo significato sociale. La “scuola” per definizione cominciò aessere identificata non più in quella impartita dal maestro privato,ma in quella comunale. Un’ampia produzione letteraria e memo-rialistica – che non è qui il caso di richiamare tanto essa è nota – lodocumenta in modo incontrovertibile.

I maestri privati, quasi sempre sprovvisti della patente magistra-le, furono fatalmente confinati negli spazi trascurati dall’istruzionepubblica, proprio come quel maestro “ambulante” ritratto nellanovella del Verga, Il maestro dei ragazzi, le cui vicende riflettono inmodo realistico i ristretti spazi d’azione di questa categoria magi-strale negli ultimi decenni del secolo: un servizio scolastico adatta-to alle ridotte esigenze degli ambienti rurali, svolto in zone perife-riche e lontane dalle scuole comunali e integrato con lezioni priva-te per arrotondare il magro salario.

Erano questi maestri “particolari”, che vivevano ai margini del-l’organizzazione del sistema ufficiale d’istruzione e che non poche

22. Ibidem, p. 618. 23. Costa, La scuola e la grande scala, op. cit., pp. 243-248; A. Semeraro, Cattedra,

altare, foro. Educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Otto e Novecento, Lecce,Milella, 1984, pp. 143-146.

232 capitolo quinto

preoccupazioni davano alle autorità – come denunciava la relazio-ne Torraca di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente – ma cheriuscivano comunque ad assicurare almeno un minimo di alfabetoanche là dove non riusciva ad arrivare la scuola pubblica o non erain grado di soddisfare particolari esigenze.

3. Preti maestri e preti educatori del popolo

All’indomani dell’Unità dei 34 mila maestri in servizio circa unosu tre era un ecclesiastico. La presenza di molti preti maestri era ladiretta conseguenza della prassi abbastanza normale negli statipreunitari secondo cui molti sacerdoti associavano la cura delleanime con l’insegnamento elementare. La preferenza accordata alclero nelle scuole rispondeva ad alcune convenienze pratiche: i pretigarantivano il possesso di un minimo di cultura, erano affidabili sulpiano morale e graditi alle famiglie e si accontentavano di modestepretese economiche. Non di rado la scuola era inoltre un’attivitàpropria della parrocchia “per obbligo annesso al beneficio”.24

L’impegno nelle scuole era coerente con il modello del pretebuon pastore che si afferma nel primo Ottocento come reazionealla scristianizzazione e all’abbandono della pratica religiosa dellastagione rivoluzionaria: un prete “che si fa guida solerte del pro-prio gregge”, che associava alla predicazione e all’istruzione cate-chistica anche la cura dei beni materiali fin quasi a identificarsi conle sorti della gente che gli era affidata.25

La presenza dei preti nella vita scolastica non si limitava alla nor-male attività dell’insegnamento. Molti di essi ricoprirono impor-tanti incarichi a livello pubblico. Rivestivano l’abito sacerdotaleinsigni studiosi di pedagogia (Ferrante Aporti, Antonio Rosmini,Raffaello Lambruschini, Giovanni Antonio Rayneri, Carlo Uttini),

24. M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza,1997, p. 109.

25. P. Stella, Il clero e la sua cultura nell’Ottocento, in G. De Rosa, T. Gregory, A.Vauchez (edd.), Storia dell’Italia religiosa. L’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza,1995, pp. 89-91. Ved. anche G. Miccoli, “Vescovo e re del suo popolo”. La figura del pretecurato tra modello tridentino e risposta contro rivoluzionaria, in G. Chittolini, G. Mic-coli (edd.), Storia d’Italia. Annali 9, Torino, Einaudi, 1986, pp. 906-924.

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alti funzionari ministeriali e amministratori comunali (lo stessoLambruschini, Giovanni Scavia, Pietro Baricco), promotori di ini-ziative benefiche, di scuole per sordomuti e di asili infantili (Otta-vio Assarotti, Severino Fabriani, Tommaso Pendola, AntonioLombardo), abili uomini di scuola, autori di libri di testo e compi-latori di guide didattiche e giornali magistrali nei quali consegnava-no la loro esperienza a beneficio dei maestri meno esperti (Giovan-ni Parato, Cipriano Mottura, Giulio Tarra).

In genere – e specialmente per quanti occupavano posizioniimportanti – l’impegno nella scuola era concepito come una formadi presenza cristiana che aveva lo scopo di iniettare nella societàliberale valori positivi in grado di contrastare i rischi del laicismoanticlericale. Si trattava, in altre parole, di una visione positiva eaperta ai cambiamenti in corso dopo il 1830-1840. L’istruzionepopolare, se animata di sentimenti cristiani, era vista come un effi-cace antidoto contro l’ignoranza, la superstizione, la povertà, ilmalessere sociale, insomma come uno strumento idoneo a miglio-rare le condizioni di vita dei ceti popolari e, al tempo stesso, effica-ce rispetto alla modernizzazione della società.

I valori cristiani erano interpretati inoltre come una specie diimprinting della Nazione italiana che, in quanto base ideale e spiri-tuale di una storia comune, chiedevano di essere rispettati e valo-rizzati. Alla cultura guelfa furono debitori anche molti dei protago-nisti delle vicende scolastiche pre e post unitarie, impegnati a ope-rare attivamente perché il rapporto genetico tra religione cattolicae Nazione italiana si irradiasse “in dichiarata alternativa all’idea diincivilimento di matrice illuministica”, privilegiando una idea diciviltà cristiana “pensata in continuo divenire” e cioè come “pene-trazione progressiva – ancorché soggetta a momenti di caduta e dicrisi – nei costumi e negli istituti della vita associata”.26

Quarant’anni più tardi dei preti maestri restava ben poca traccianei 50 mila insegnanti elementari italiani in servizio, anche se inalcune parti d’Italia restò a lungo la nostalgia per questa figura dieducatore27 giudicato più adatto delle maestre. La stessa rigogliosa

26. F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondodopoguerra, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 18-19.

27. M. Rosa, Sull’istruzione primaria nelle provincie di Udine e Belluno nell’anno scola-stico 1868-1869, Udine, Tip. Seitz, 1870.

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stagione della pedagogia cattolica di metà secolo a fine secolo eraormai poco più di un ricordo. Sulle cattedre universitarie trionfa-vano gli esponenti del positivismo più o meno anticlericale e l’uni-ca, flebile, voce di Giuseppe Allievo appariva più una testimonian-za del passato che espressione di un progetto per il futuro.

I preti maestri e le suore maestre a fine secolo erano una realtà inprevalenza circoscritta all’interno delle iniziative scolastiche pro-mosse dalle congregazioni religiose anche se, come vedremo, nelcaso delle suore la loro presenza fu significativa anche nelle scuolepubbliche. L’affievolirsi della presenza del prete maestro di scuolasi verificò all’intersezione di eventi molto complessi che dobbiamorichiamare almeno per sommi capi.

Il primo elemento da considerare riguarda la diminuzione delnumero dei preti che si verifica dopo l’Unità sia per un minornumero di vocazioni sia per gli abbandoni del ministero, fenomenoche si rivela più sensibile se rapportato all’aumento della popola-zione. Secondo i dati del censimento del 1881 c’erano circa 29preti diocesani ogni 10 mila abitanti. Vent’anni più tardi, nel 1901,il censimento faceva registrare una flessione di quasi un terzo consoli 21 preti per 10 mila abitanti. Ciò significava un minor numerodi sacerdoti in cerca di un impiego e, nel medesimo tempo, un loromaggior coinvolgimento – anche per le ragioni che diremo trapoco – nell’attività pastorale, per quanto non mancassero le lagnan-ze contro i preti che associavano al ministero l’esercizio delle pro-fessioni più diverse.28

Occorre poi tenere conto della netta scelta in favore della laiciz-zazione del personale docente operata prima nel Piemonte pre uni-tario e poi, dopo il 1861, estesa in vario modo al resto dell’Italia.Essa fu perseguita mediante numerose iniziative incentrate sul pos-sesso dei titoli previsti per l’insegnamento. Mentre i provvedimentiin sanatoria interessarono un gran numero di preti che già insegna-vano, in seguito la professione magistrale cominciò ad essere ambì-ta da un maggior numero di pretendenti e, in specie, dalle donne.

Rara l’eventualità di giovani preti che desiderassero, se noncome ripiego, impiegarsi come maestri. Più frequente (ma neppu-re frequentissimo) era il caso di ex seminaristi o di preti che lascia-

28. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento a oggi, op. cit., pp. 103-104.

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vano la tonaca e che mettevano a frutto gli studi per conseguire lapatente magistrale e trovare così un’occupazione stabile. La stessapreparazione del prete, sempre più ricondotta entro il modello delseminario concepito come luogo formativo autosufficiente e sem-pre più distante dalla preparazione culturale del mondo laico, finìper costituire un obiettivo ostacolo all’ingresso nella professionedocente, non solo in quella magistrale.

Più che ai seminaristi era ai giovani preti che i vescovi consenti-vano l’iscrizione all’università, quando cioè “le giovani reclutedavano ormai la garanzia di saper tenere testa all’anticlericalismoscetticheggiante e irridente, a quell’epoca molto diffuso nelle auleuniversitarie”.29

L’uscita dalla scuola del prete maestro si combinò inoltre conuna profonda ridefinizione del ruolo del prete nella società italiana.La figura del prete tradizionale esperto nella predicazione, nel-l’istruzione religiosa e nella cura del suo gregge non sembrò piùsufficiente a incidere su una realtà diversa rispetto a qualche decen-nio precedente, connotata da nuovi fenomeni di portata immensa.Basta pensare all’esodo dalle campagne, all’urbanizzazione e allaformazione del primo proletariato di fabbrica, all’incremento deiprocessi di alfabetizzazione, il tutto entro una società nutrita di cul-tura laica e percepita come estranea, se non proprio ostile, alladimensione religiosa.

Neppure bastavano analisi e rimedi che provenivano dalla tradi-zionale pratica devozionale. Si trattava di riconquistare “dal basso”gli spazi perduti, percorrendo nuove vie. Scartata la militanza poli-tica diretta, fu privilegiata la messa in campo di un “mondo catto-lico” costituito da una rete associativa a molte dimensioni “dispostaad alone intorno a una Chiesa fortemente strutturata in senso pon-tificio, connotata al suo interno da una divisione di compiti e difunzioni nei limiti consentiti dalla gerarchia”.30

È precisamente in questo gigantesco sforzo di riallineamento delmondo cattolico rispetto alle categorie culturali e sociali dellamodernità che s’inquadra la fisionomia del prete sociale che escedalla sacrestia e s’immerge nella società e si propone come educa-

29. Stella, Il clero e la sua cultura nell’Ottocento, cit., p. 105. 30. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, op. cit., p. 21.

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tore del popolo a 360 gradi. Non soltanto più, dunque, un buonpastore, ma l’animatore di una molteplicità di iniziative educative,sociali, assistenziali, previdenziali. “Da una strategia pastorale basa-ta sul controllo, sulla correzione e sui moniti di danni sociali oltreche spirituali, il clero deve passare a una strategia basata sull’istru-zione e sulla suasione”.31

Sentimenti antichi convivono con una visione attiva della pre-senza cristiana: la ferma convinzione che non ci sia ordine socialesenza senso religioso si congiunge alla identificazione tra il “paesereale” e l’Italia cattolica tradizionale e profonda;32 la mai sopita ten-tazione di addossare a logiche complottarde l’ostilità verso la Chie-sa e la religione si unisce ad analisi culturalmente più elaborate emeno prigioniere di luoghi comuni.

Questa nuova fisionomia del prete zelante e operoso a fiancopopolo affonda le radici molto lontano. Bisogna infatti risalire allaspiritualità intrisa di forti preoccupazioni pastorali della prima partedell’Ottocento e, in particolare, alla diffusa convinzione che occor-resse “ricristianizzare” quel popolo che, lasciato a se stesso, potevanuovamente ricadere negli eccessi della rivoluzione. Il modello dibuon cristiano diventa semplice, accessibile a tutti, animato più dalprincipio dell’assolvimento dei doveri dello stato che dai toni cupi eda un’idea di perfezione riservata a pochi.

Per il conseguimento di questo obiettivo occorreva reorientareil clero verso il servizio pastorale, allontanandolo dalla mentalità(secondo molti osservatori del tempo purtroppo prevalente) checoncepiva lo stato ecclesiastico come una condizione di privilegiotesa ad accaparrarsi benefici e rendite. Nonostante il richiamo divari Sinodi alle norme tridentine, non tutti i preti venivano infat-ti ordinati per la cura pastorale e anzi un buon numero continua-va ad avere un compito solo cultuale: era cioè ordinato per cele-brare le messe.

In talune importanti realtà – come ad esempio nel caso di Tori-no – furono avviate apposite iniziative proprio allo scopo di for-mare in modo adeguato i giovani preti all’azione pastorale. Non èun caso che il Convitto ecclesiastico promosso del teologo Guala

31. Stella, Il clero e la sua cultura nell’Ottocento, cit., p. 98.32. G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e Nazione dal Risorgimento alla Repubbli-

ca, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 40.

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e poi a lungo animato da don Cafasso sia stato un semenzaio dipreti animati da una particolare sensibilità verso i ceti popolari ele loro condizioni di vita ed espressione di una concezione piùampia e “sociale” della loro azione pastorale rispetto al tradizio-nale antidoto al pauperismo rappresentato dall’elemosina verso ilsingolo povero.

Questo modello di prete incentrato sul tema teologico del miste-ro di Cristo Salvatore e Redentore attraverso cui “si continua nellastoria la carità che Cristo aveva esercitato nel mondo e si testimo-nia l’amore con cui Dio Padre in Cristo ha amato e ama tutti gliuomini” o, detto in altre parole, “non si può amare Dio senzaamare il prossimo, vale a dire l’amore di Dio e l’amore del prossi-mo sono indissolubilmente intrecciati”,33 trova la sua attuazionepiù intensa in molte esperienze sacerdotali da cui rampollanonuove Congregazioni religiose.

Lo dimostrano le vicende di molti protagonisti della vita eccle-siale italiana tra Otto e Novecento come Giovanni Bosco e Leo-nardo Murialdo a Torino, Ludovico Pavoni e Giovanni Piamarta aBrescia, Nicola Mazza a Verona, e un poco più tardi, Luigi Gua-nella a Como e Luigi Orione a Tortona, ma anche altri sacerdotimeno noti che in ambiti territoriali più circoscritti seppero inter-pretare le sfide del loro tempo nella prospettiva di un popolo daeducare e conservare fedele al Vangelo e alla Chiesa.

Ciò che li tiene insieme – pur nella relativa diversità degli stilid’azione – è la loro capacità di risposta attiva alle nuove sfide dellasocietà “moderna” basata sulla convinzione che fosse nelle possibi-lità degli uomini trovare le vie ed i mezzi per farvi fronte. In questipreti educatori e animatori di opere sociali prevale insomma, purnella comune condivisione della cultura intransigente, l’urgenza dirispondere ai bisogni dei ceti popolari e il proposito di dimostrarel’intatta capacità dell’annuncio evangelico di tradursi in buoneazioni. Alla condanna degli errori si accompagnò conseguentemen-te la ricerca delle soluzioni più idonee per risolvere i gravi proble-mi del presente.

33. M. Marcocchi, Indirizzi di spiritualità ed esigenze educative, in L. Pazzaglia(ed.), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, Brescia, LaScuola, 1994, p. 93.

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L’uscita del prete dalla scuola pubblica (già all’inizio degli anni’80 i preti maestri erano ridotti a una sparuta minoranza, pocomeno di 3 mila su oltre 40 mila insegnanti e per lo più confinatinei paesi più piccoli e disagiati) non coincise, dunque, con l’ab-bandono dell’impegno educativo e per l’istruzione. Si verificòpiuttosto una ridefinizione delle strategie d’azione: molti preti (esuore, come vedremo tra breve) orientarono in modo diverso iloro sforzi, affiancando e sostenendo i ceti popolari nel loro lentocammino verso migliori condizioni di vita mediante una pluralitàdi iniziative.

4. Le maestre “sacerdotesse del bene”

Dobbiamo ora rivolgere una doverosa attenzione verso un altrotratto caratteristico del secondo Ottocento: l’identificazione socia-le e professionale più precisa della maestra. Più di un cenno al cre-scente peso delle maestre abbiamo già fatto nel precedente capito-lo, ma la rilevanza del fenomeno richiede qualche integrazione eulteriori approfondimenti.

La letteratura tardo ottocentesca offre un’ampia documentazionedi come le maestre sono percepite quali protagoniste della vita sco-lastica del tempo.34 Si tratta dell’evidente segno di un apprezzamen-to sconosciuto in precedenza. Nelle novelle e romanzi si incontranomolteplici e diverse figure di maestre: maestre generose, maestrepovere e malate, maestre isolate in sperduti paesi, maestre insidiate,ma anche intemerate insegnanti di ginnastica e intraprendenti ani-matrici del mondo magistrale. Tutte accomunate e nobilitate con ilriferimento a “una missione sociale da assolvere nel segno di quellevirtù di dedizione-disponibilità, umiltà-sottomissione, abnegazione-sacrificio” cui in genere si faceva riferimento quando si trattava dellapresenza della donna nella vita sociale.35

34. G. Bini, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, in S. Soldani (ed.),L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, Mila-no, Angeli, 1989, pp. 331-362.

35. S. Soldani, Nascita della maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi (edd.),Fare gli Italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, vol. i,1993, p. 84.

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A fine secolo Maria Cleofe Pellegrini parla della maestra discuola come di una

“donna, da cui l’ufficio e il carattere, famiglia e società aspettano nonpoco... La maestra è ormai dappertutto, figura severa e gentile, umile ecoraggiosa, sacerdotessa del bene”, professione a cui i padri di famigliaguardano per trovare “alla propria figliuola una occupazione sicura edecorosa”.36

Siamo ormai molto distanti non solo dalla maestra dei “bassi”napoletani descritta da Guglielmo Pepe in polemica contro lescuole infantili dell’Aporti (una “vecchierella circuita di bambinel-li e bambinelle” intenta a “erudirli negli elementi del catechismo,[abituarli] all’ordine e alla disciplina, intrattenendoli con novellet-te di fate o d’altre leggende”),37 ma anche da non poche maestreche negli anni immediatamente post unitari sono alla ricerca affan-nosa di una patente che regolarizzi la loro posizione.38 Figure spes-so incerte nella lettura e nella scrittura e molto più a loro agio nel-l’insegnamento del cucito, del ricamo e delle principali preghierecosì descritte dalla Pellegrini:

“La maestre delle nostre mamme sono state o monache, o signorecadute in istrettezze, ridotte a trar pane dalla poca istruzione ricevutain convento o povere donnette che, per raggruzzolare poche lire almese, si tiravano intorno una nidiata di ragazzette dai due ai dodicianni, e tra una carezza e uno scappellotto, imbeccavano loro l’alfabetoe la dottrinetta, insegnavano il misterioso intrecciarsi della maglia diuna calza, e perfino... qualche volta! le regole di buona creanza e lacompilazione di una lettera”.39

A una figura ancora dai contorni molto incerti, fa seguito dopo il1880 una legione di maestre inquadrate dai regi ispettori, in pos-sesso di qualche nozione didattica e pedagogica, che invade le

36. Voce “Maestra”, in A. Martinazzoli, L. Credaro (edd.), Dizionario illustratodi Pedagogia, Milano, F. Vallardi, s.d., vol. ii, p. 589.

37. Cit. in Broccoli, Educazione e politica nel Mezzogiorno d’Italia (1767-1860), op.cit., p. 142.

38. T. Bertilotti, Normalizzare il reclutamento: lo Stato e le “maestre dei tempinuovi”, in S. Bartoloni (ed.), Per le strade del mondo. Laiche e religiose fra Otto e Nove-cento, Bologna, Il Mulino, pp. 129-151.

39. Voce “Maestra”, cit., p. 589.

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scuole, sorpassa come numero i maestri fino a diventare – in specienelle zone rurali e più periferiche – la colonna vertebrale del siste-ma scolastico nazionale. La crescita delle insegnanti donne (mentreil numero degli uomini resta pressoché stabile) si svolge tra l’Uni-tà e l’inizio del nuovo secolo con una progressione che non lasciadubbi sulla entità del fenomeno: nell’anno scolastico 1863-1864 imaestri in servizio erano 18 443 e le maestre 15 820; nel 1875-1876si verifica il sorpasso delle maestre nei confronti dei colleghi uomi-ni (23 818 contro 23 267); nel 1901 i maestri sono appena 21 178contro 44 561 maestre.

Il processo di femminilizzazione dell’istruzione primaria è lega-to a molteplici ragioni. Dalla “Civiltà Cattolica” ai testi di medici-na, dalle indagini di antropologia criminale ai documenti ministe-riali è unanime il riferimento alla “missione educativa e consolatri-ce” della donna che si doveva esplicare soprattutto “nella casa enella scuola”. Le prospettive entro cui si colloca questo unanimericonoscimento sono naturalmente contrastanti: se da un lato, adesempio, Paolo Mantegazza assegnava alla donna il “compito disostituire l’antico sacerdote in una religione sociale che verrà dopoquella rivelata”, nel mondo cattolico l’esaltazione della “sposa cri-stiana” congiunta a quella del culto mariano era posta a tutela dellafede e dei buoni costumi. Alla donna era affidata la missione diriportare a Cristo e alla Chiesa una società che se ne stava semprepiù allontanando.

L’enfatizzazione del suo ruolo materno trascende il privato e sicongiunge a una esplicita missione sociale che agisce sia in ter-mini generali sia, nel caso specifico della scuola, nella preferenzaaccordata alle maestre. La metafora della maestra “madre educa-trice” ricorre a tutto tondo, tanto sul piano degli apprendimentielementari (in quanto ritenuta particolarmente idonea a trasmet-tere i saperi più semplici per la sua naturale disposizione al rap-porto con il bambino) sia sotto il profilo dell’educazione affettivaed etica vista come estensione della cura materna verso i figli.40

40. Per la rappresentazione di questo principio a livello di pubblicistica magistralerinvio a R.S. Di Pol, La stampa per le maestre, in G. Chiosso (ed.), Scuola e stampanell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, Brescia, LaScuola, 1993, pp. 191-221.

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Questo vero e proprio topos della cultura educativa ottocentescanon riesce tuttavia a spiegare da solo la fortuna della maestra. Pertutto il secondo Ottocento la scolarità elementare è per lo più limi-tata ai primi tre anni di scuola ed è proprio in questo spazio che lamaestra appare più adatta dell’uomo, anche se qualche allievo plu-riripetente o in ritardo rispetto alla frequenza ordinaria potevacreare qualche problema. Soltanto una minoranza di alunni prose-guiva nel successivo biennio superiore (quarta e quinta), classi chedi solito erano prerogativa dei maestri.

La maestra, inoltre, più dei colleghi maschi era disposta a tra-sferirsi in ambienti rurali. Molti uomini di scuola e pedagogistierano anzi convinti che la maestra doveva essere essa stessaespressione dei contesti sociali ai quali era destinata.41 Nellastampa magistrale del tempo non è infrequente trovare annota-zioni e riflessioni sulle difficoltà incontrate dalle maestre “cittadi-ne” che mal si adattavano alla vita di paese e, di rovescio, eranoviste con diffidenza negli ambienti rurali.

Le donne si avvantaggiarono, poi, del fatto che la professionemagistrale si rivelò sempre meno attraente per gli uomini: l’espan-sione dell’attività industriale (almeno in alcune regioni), l’attratti-va delle professioni contabili e commerciali, la disponibilità di altriimpieghi pubblici, gli stipendi poco allettanti erano altrettanteragioni che rendevano più difficile il reclutamento maschile. Giànegli anni ’60 a fronte della crisi di studenti nella scuola normalemaschile di Firenze così il direttore la spiegava in una relazione alMinistero:

“Nelle nostre Province i giovani di 16 anni che già posseggono l’istru-zione richiesta per essere ammessi alla Normale, non si curano di con-sumare altri tre anni per divenire maestri di scuola con una provvigio-ne di sette-ottocento lire all’anno. Preferiscono piuttosto darsi albanco, alla milizia o agli impieghi civili, perché in essi trovano una piùsollecita e lucrosa professione sociale”.42

La scuola normale era intrapresa sul versante maschile spessocome una soluzione di ripiego. Non è infrequente trovare nella let-

41. M. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, Roma, Archivio Guido Izzi,2005, pp. 50-56; Soldani, Nascita della maestra elementare, cit., pp. 107-112.

42. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, op. cit., p. 36.

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teratura scolastica del tempo il richiamo agli “spostati” che, dopoaver fallito nelle scuole tecniche o in quelle liceali, si adattavano aconseguire la patente magistrale.

Diverso era invece il caso delle ragazze che attraverso la scuolanormale – sempre più percepita come una “scuola adatta alledonne”43 – si vedevano spalancare, stando alla sopra citata relazio-ne, le “porte delle scuole popolari” e “un’era di risorgimento” cosìda affollare gli istituti nella speranza che “le prime venute sarannole meglio collocate”.

La popolazione delle scuole normali era invero quanto mai varie-gata: figlie della media borghesia o del piccolo notabilato rurale chepuntavano a un titolo di studio che desse accesso a una professionerispettata e che garantisse una sicura (anche se modesta) forma direddito; figlie dei ceti popolari che, sfidando sacrifici economici nonindifferenti, desideravano salire nella scala sociale per sottrarsi alavori più faticosi e soprattutto più umili, ma anche ragazze dibuona famiglia non destinate a fare le maestre, che tuttavia sceglie-vano questo tipo di scuola in quanto l’unica scuola pubblica cheassicurava una formazione superiore a quella elementare.

Il modello della maestra ideale che ci è consegnato dalla lettera-tura e dalle cronache del tempo ce la presenta come

“una donna esperta nella conduzione domestica, ma normalmenteesentata dai compiti più gravosi o più umili che essa comporta (le puli-zie e il bucato, la spesa e la cucina quotidiana), vestita in modo decoro-so e consapevole del ruolo sociale ricoperto, anche se lontano daicapricci della moda”. Il modello si smorzava “ma non veniva del tuttomeno neppure nel caso delle maestre rurali, come dimostra l’affollarsi,nei racconti e nelle immagini di quegli anni, di cappellini, ombrelli edonne di fatica al servizio della maestra”.44

43. La prevalenza femminile tra gli iscritti alle scuole normali fu marcata fin daiprimi anni di attuazione della legge Casati: già nel 1875-1876 si contavano rispettiva-mente 5227 femmine a fronte di 1248 maschi, nel 1881-1882 il rapporto era ulterior-mente sbilanciato a favore delle femmine (7482 contro 1383), fino all’ultimo anno delsecolo quanto la quota percentuale delle ragazze raggiunse il 94% del totale (datiriportati in Storia della scuola e storia d’Italia, Bari, De Donato, 1982, p. 15). Per l’argo-mentazione dell’espressione “scuola adatta alle donne” ved. C. Covato, La scuola nor-male: itinerari storiografici, in C. Covato, A.M. Sorge (edd.), L’istruzione normale dallalegge Casati all’età giolittiana, Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali - Uffi-cio centrale per i beni archivistici, 1994, pp. 33-40.

44. Soldani, Nascita della maestra elementare, cit., p. 101.

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Preferenzialmente una donna nubile, nonostante l’enfasi postasulla maestra “madre educatrice”,45 estranea alla politica, una donnalontana (come del resto in generale i maestri) dal ceto intellettualeespresso dal mondo dei professori e dei professionisti, ma che nep-pure è interamente assorbita negli stili di vita popolari con i qualiera a stretto contatto. Una figura, in buona sostanza, “di cerniera”,del tutto organica e funzionale al progetto di assimilazione dei cetipopolari all’interno dei valori espressi dalla borghesia liberale.

5. La suora maestra

Una maestra dai tratti particolari è la suora maestra, figura nellaquale s’intrecciano la scelta religiosa e l’esercizio dell’attività ma-gistrale.

Non mancano fin dai tempi dell’Ancien Régime numerosi casi disodalizi di donne consacrate che rivolsero preferenzialmente il loroimpegno verso l’istruzione e l’educazione delle bambine del popo-lo (emblematici sono i casi delle Orsoline e delle Maestre PieVenerini) anche al di fuori dei tradizionali canali dell’educazionefemminile del tempo. È tuttavia soltanto nell’Ottocento che matu-ra la moderna fisionomia della suora maestra.

Essa fiorisce sulla base di una nuova concezione della vita reli-giosa che tende a superare l’otium spirituale monastico e lo scopo diuna perfezione soggettiva e si manifesta piuttosto attraverso l’ope-rosità e l’utilità sociale. Nella biografia di Francesca Saverio Cabri-ni – religiosa il cui nome è associato soprattutto all’intensa attivitàsvolta nell’ultimo Ottocento in favore degli emigranti – si narrache intorno ai trent’anni imparò a tenere bene aperti gli occhi,anziché bassi com’era nel costume femminile e religioso del tempo.Questa immagine rende in modo efficace la novità rappresentatadall’inserimento attivo delle religiose nella società rispetto all’idea-le anteriore della separazione.

La brusca interruzione della continuità secolare della vita deimonasteri dovuta alla stagione rivoluzionaria e la conseguente per-

45. C. Covato, Maestre e professoresse fra ’800 e ’900: emancipazione femminile e ste-reotipi di genere, in S. Ulivieri (ed.), Essere donne insegnanti. Storia, professionalità e cul-tura di genere, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 30-31.

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cezione della necessità di una capillare rievangelizzazione dei cetipopolari favorirono infatti il sorgere di nuove fondazioni religiosedalle caratteristiche diverse dal passato: fine della clausura, tempo-raneità dei voti, attività di apostolato sociale, soppressione dell’ob-bligo della dote e quindi delle gerarchie interne, fra coriste (condote) e converse (senza dote).46

L’ideale di “vita attiva” risponde a molte esigenze apostoliche epastorali, tra cui emerge in primo piano la risposta cristiana allacrescente diffusione dell’educazione delle bambine e delle ragazzedel popolo. Il perseguimento della perfezione cristiana viene cosìsituato nella dedizione di sé agli altri mediante l’insegnamento el’educazione. La scuola diventa una opportunità di “missione”47 edi “santificazione” al tempo stesso. È indicativo che dei 120 Istitu-ti religiosi femminili di nuova concezione sorti in Italia tra il 1800e il 1860, in netta prevalenza nelle regioni del nord e del centro, inparte preponderante (per circa i 2/3) abbiano avuto come principa-le interesse il tema dell’educazione e dell’istruzione48.

Le suore dedite all’educazione – lo diciamo incidentalmente per-ché in questa sede intendiamo occuparci soprattutto della suora mae-stra di scuola – non esaurirono il loro impegno nella scuola elementa-re e negli asili: le suore furono attive anche nelle scuole serali e festi-ve nelle quali si insegnavano i lavori più confacenti alla condizionefemminile; in collegi e orfanatrofi dove spesso associarono insegna-mento e attività assistenziali; nelle parrocchie e negli oratori con l’im-pegno catechistico e l’intrattenimento in attività ricreative. Il ruolosvolto dalle congregazioni femminili nella società italiana tra Otto eNovecento risulta sotto molti aspetti sinergico con quello del preteeducatore del popolo che abbiamo considerato nelle pagine prece-denti.

Una statistica ministeriale relativa all’anno scolastico 1863-1864stilata a margine del dibattito allora in corso circa la soppressione

46. L. Scaraffia, G. Zarri (edd.), Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia,Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 456-467.

47. F. Cerruti, Lettere circolari e Programmi di insegnamento (1885-1917), a cura diJosé Manuel Prellezo, Roma, las, 2006, p. 52.

48 G. Rocca, Aspetti istituzionali e linee operative nell’attività dei nuovi Istituti religio-si, in L. Pazzaglia (ed.), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Uni-ficazione, Brescia, La Scuola, 1994, p. 173.

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degli ordini religiosi, indica la presenza di circa 8 mila religioseimpegnate in attività di insegnamento, quasi tutte nelle scuole ele-mentari e negli asili infantili. Se si tiene conto che le maestre ele-mentari erano in tutto 15 820, risulta evidente l’incidenza dellesuore. Se poi questi dati sono comparati con quelli relativi alle scuo-le religiose, si scopre che queste ultime rappresentavano una piccolaminoranza. La maggioranza le religiose agiva, dunque, all’internodelle scuole pubbliche.

Molti comuni, in specie quelli di piccole dimensioni, preferivanoricorrere ai servizi delle suore piuttosto che assumere maestre lai-che. Questa scelta era dettata talora da ragioni economiche (l’ac-cordo con un Istituto religioso era solitamente vantaggioso rispet-to all’erogazione degli stipendi previsti dalle tabelle ministeriali),ma spesso era anche dovuta alle richieste delle famiglie. Le religio-se erano apprezzate per la loro affidabilità morale e religiosa e giu-dicate più esperte nei lavori femminili che spesso costituivanobuona parte dell’insegnamento scolastico del tempo.

Sollecitazioni ad avvalersi delle suore giungevano da varie partidel mondo cattolico associate a pregiudizi o a cattivi giudizi sullemaestre laiche. Nella risposta scritta ai quesiti posti nell’ambitodell’inchiesta Scialoja (1873) la “Civiltà Cattolica” esprimeva, adesempio, la convinzione che

“è pubblica fama che [le maestre] sieno molto più nocive che utili, stan-do esse regolate come sono al presente... L’essere sbalestrate così giova-ni, senza famiglia, con pochi quattrini, da Susa a Spartivento (comeavviene) è un semenzaio di guai. Come hanno da reggere queste fragilicreature, trovandosi così deserte d’ogni soccorso? Alla mercé d’ispetto-ri vagabondi? Costrette di tenere una apparenza di civile condizione?Bisognose di favore dal sindaco, dal segretario del comune? ecc. ecc.”49,

non esitando a raccomandare il ricorso alla soeur come accadeva per“buoni e cattivi” in Francia e in Belgio.

Si trattava di opinioni condivise anche da personalità non sospettedi simpatie clericali come Luigi Settembrini e Vittorio Imbriani50

49. L. Montevecchi, M. Raicich (edd.), L’inchiesta Scialoja sulla istruzione seconda-ria maschile e femminile (1872-1875), Roma, Ministero per i Beni culturali e ambien-tali - Ufficio centrale per i beni archivistici, 1995, p. 473.

50. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, op. cit., p. 49.

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che elevavano severe critiche alla mediocre cultura delle “maestri-ne” e manifestavano inoltre dubbi sulla loro fragile moralità.

L’idealizzazione della religiosa dedita all’educazione rappresentòun potente argomento deontologico per la stessa maestra laica: comele “suore che parlano della fede tra i selvaggi” così alle maestre eraaffidata la nobile missione umana e civile di dirozzare le plebi51. Lamaestra doveva vivere “per la scuola come la madre vive per i figlisuoi” e sopportare sacrifici e disagi “pel bene di quelle fanciulle chela patria ti affida”52. La descrizione del comportamento delle mae-stre che ricorre nella pubblicistica magistrale riflette molti tratti delladisciplina religiosa. Il modello ideale non faceva leva solo sul valoredel nubilato (e della verginità) e sulla rinunzia delle lusinghe monda-ne, ma anche sulle virtù della modestia, della dedizione, della parte-cipazione delle sorti dell’ambiente nel quale la maestra operava.

Il presidio della scuola elementare e dell’educazione infantile assi-curato dalle suore rappresentò uno degli ambiti verso cui si orientòpreferenzialmente l’attenzione della Chiesa. Lo scopo era quello diradicare i sentimenti della fede religiosa fin dalla prima infanzia.Questa esigenza agì come potente motivazione per superare le per-plessità espresse da alcuni Istituti religiosi sulla necessità che le suoremaestre fossero provviste della patente che le abilitava all’insegna-mento. Con senso di realismo le autorità ecclesiastiche incoraggiaro-no a regolarizzare la situazione giuridica e professionale delle suore.

Elencare gli Istituti femminili che, premuti dalle contingenze,s’incamminarono sulla strada dell’acquisizione della patente “signifi-cherebbe stendere una lista di centinaia e centinaia di istituti che, inmisura maggiore o minore secondo il loro impegno nella scuola”53,sperimentarono attraverso questo gesto un punto di conciliazione trala vita religiosa e il rispetto delle leggi dello Stato. Diverse furono lemodalità perseguite che denotano il graduale passaggio da situazionidi precarietà o di eccezionalità (con la richiesta del riconoscimento dititoli pregressi di cui esiste abbondante documentazione nelle cartedel Consiglio Superiore della P.I.) a situazioni di maggiore normali-

51. Raicich, Storie di scuola da un’Italia lontana, op. cit., pp. 65-66. 52. Di Pol, La stampa per le maestre, cit., p. 209. 53. G. Rocca, La formazione delle religiose insegnanti tra Otto e Novecento, in L. Paz-

zaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Nove-cento, Brescia, La Scuola, 1999, p. 436.

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tà gestite in prevalenza mediante esami sostenuti come privatiste e,nell’ultimo scorcio del secolo, anche con l’istituzione, da parte dialcune congregazioni, di appositi corsi di scuola normale.

Il problema del possesso dei titoli legali fu solo un aspetto diuna più ampia e complessa questione riguardante la preparazioneprofessionale delle suore maestre e il superamento della preesi-stente convinzione che fosse sufficiente la formazione religiosaper svolgere l’attività di insegnante. In tempi e con sensibilitàdiverse le congregazioni religiose si adeguarono via via alle nuoveesigenze, analogamente a quanto stava accadendo nel mondo degliinsegnanti laici.

L’obbligo dei titoli scolastici agì come un potente fattore sullapreparazione delle suore, costringendole a uscire da conoscenzein genere troppo anguste54. Questa esigenza era stata primaria-mente avvertita nel Lombardo Veneto e in Piemonte dove già igoverni preunitari avevano posto precisi vincoli per l’accessoall’insegnamento.

Le prime esperienze in tal senso furono quella intrapresa aBergamo da Maddalena di Canossa nel 1822 per la preparazionedi maestre di campagna; i corsi predisposti dal Rosmini nel 1839per le sue religiose, le Suore della Provvidenza; la scuola per mae-stre presso il Monastero delle Suore di S. Giuseppe di Torinopromossa nel 1846 da Cesare Alfieri di Sostegno e animata dalpedagogista Giovanni Antonio Rayneri. Qualche anno prima, inun piccolo centro non distante dalla capitale sabauda, RivaroloCanavese, l’apertura del primo asilo aportiano del Piemonte fornìl’occasione per una specifica formazione di un piccolo gruppo disuore sui fondamenti e sulla pratica del metodo del pedagogistalombardo.

In altri casi l’attenzione alla formazione delle maestre dipendevada una tradizione che risaliva alle origini stesse dell’Istituto (Mae-stre Pie Venerini) o era maturata in contesti non italiani (Suore di S.Giuseppe). A fine secolo, in ogni caso, era ormai abbastanza acqui-sita, vuoi per convinzione vuoi per corrispondere agli obblighi dilegge, la necessità di una adeguata preparazione all’insegnamento.

54. G. Loparco, Gli Istituti religiosi femminili e l’educazione delle donne in Italia traOtto e Novecento, in “Seminarium”, 2004, n. 1-2, pp. 209- 258.

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La situazione di Roma può essere ritenuta indicativa. La Ponti-ficia Commissione per le Scuole, istituita nel 1879 allo scopo disostenere le scuole religiose della capitale e di organizzarle sulpiano pedagogico, ebbe la costante preoccupazione che gli inse-gnanti, secolari e religiosi, fossero in regola con il possesso deititoli previsti per le diverse tipologie di istituti. Questa insistenzadella Commissione diede i suoi frutti se nel 1896 non solo le scuo-le delle religiose erano in regola, ma nella maggioranza dei casi lesuore maestre erano anche in possesso della patente di gradosuperiore55.

Nel passaggio tra i due secoli si moltiplicarono inoltre le scuolenormali gestite da Istituti religiosi. Già nel 1881 Eugenia Ravasco,fondatrice delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, si rivol-geva al ministro Baccelli, lamentando il mancato pareggiamentodella sua scuola normale funzionante “con l’aiuto dei migliori pro-fessori di Genova”. Nel 1896 le Figlie di Maria Ausiliatrice inaugu-rarono a Nizza Monferrato una scuola per maestre56 e l’anno suc-cessivo fu la volta delle Canossiane di Treviso e delle Luigine diParma. Anche altri Istituti religiosi (le Marcelline, le Dimesse diUdine) aprirono scuole normali al loro interno destinate non soloa preparare le religiose agli esami per la patente magistrale, maanche a soddisfare, specie in località sprovviste di istituti statali ocomunali, le richieste delle famiglie che ambivano al conseguimen-to del titolo di maestra per le figlie57.

Più complesso risulta stabilire, in mancanza di studi esaurienti, lareale qualità professionale delle suore insegnanti. Sulle scuole nor-mali (e secondarie in genere) delle religiose pesano le riserve talo-ra severe, non esenti peraltro da pregiudizi ideologici, espresse daispettori e funzionari ministeriali come, ad esempio, Carlo Giodache nel 1899 non esitava a parlare di “suore perdenti” e di “istru-zione monca e difettosa” tanto da prospettare l’ipotesi “che anchenegli istituti più reputati l’insegnamento era tutto elementare”58.

55. Rocca, La formazione delle religiose insegnanti tra Otto e Novecento, cit., pp. 432-433. 56. T. da Voltri, Madre Eugenia Ravasco, Genova, La Poligrafica Ligure, 1939, p.

127; P. Cavaglià, Educazione e cultura per la donna. La Nostra Signora delle Grazie diNizza Monferrato dalle origini alla riforma Gentile (1878-1923), Roma, las, 1990.

57. Rocca, La formazione delle religiose insegnanti tra Otto e Novecento, cit., p. 437. 58. Ibidem, p. 455.

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Ricorrente era poi il sospetto, più o meno fondato, che le suoreinculcassero l’antipatriottismo. In altre situazioni il giudizio era piùsfumato: nel caso, per esempio, delle Figlie di Maria Ausiliatricel’impressione delle ispettrici sulle giovani suore “variava da quelladi eccessiva timidezza, sconfinante nell’inettitudine e nell’impre-parazione didattica” fino “all’ammissione delle capacità e all’ammi-razione per le doti educative” apprezzate soprattutto nel “buontratto e nello stile familiare tra religiose e ragazze”59.

Quanto alle maestre degli asili e delle scuole elementari il venta-glio delle situazioni è talmente ampio e complesso – non diversa-mente, del resto, dalla realtà delle maestre laiche – da rendere arri-schiato qualsiasi tentativo di generalizzazione. Il rischio si accrescese si considera la diversità tra la situazione degli anni immediata-mente post unitari e quelli di fine secolo.

Gli Istituti più sensibili anche all’impostazione pedagogicadelle loro scuole, si sforzarono di confrontarsi con le diverse teo-rie pedagogiche del tempo (aportismo, fröbelismo, la positivistica“lezione di cose”) e di mettere a punto un modello educativo sen-tito come “proprio”60. Ma si tratta probabilmente di una mino-ranza di casi.

In genere le suore maestre non uscirono da schemi alquantotradizionali: almeno questo è quanto risulta dalle relazioni ispetti-ve che ci sono note. Se questi documenti non vanno presi per orocolato, bisogna anche dire che erano compilati in modo scrupolo-so, fondati su una attenta disamina delle scuole e accompagnati dagiudizi motivati, tali, dunque, da poter essere ritenuti abbastanzaaffidabili. Dai verbali di ispezione emergono, solitamente, il rico-noscimento della dedizione educativa delle suore, delle difficoltàentro cui operano, dell’amorevolezza con cui esse si occupano

59. G. Loparco, L’apporto educativo delle Figlie di Maria Ausiliatrice negli educandatitra ideali e realizzazioni, in J.G. Gonzáles, G. Loparco, F. Motto, S. Zimniak(edd.), L’educazione salesiana dal 1880 al 1922. Istanze e attuazioni in diversi contesti,Roma, las, 2007, vol. i, p. 186. Più ampiamente della stessa autrice, Le Figlie di MariaAusiliatrice nella società italiana (1900-1922). Percorsi e problemi di ricerca, Roma, las,2000 e L’attività educativa delle Figlie di Maria Ausiliatrice in Italia attraverso le ispezionigovernative (1884-1902), in “Ricerche storiche salesiane”, 2002, n. 1, pp. 49-106.

60. P. Ruffinatto, L’educazione dell’infanzia nell’Istituto delle Figlie di Maria Ausilia-trice tra il 1885 e il 1922, in Gonzáles, Loparco, Motto, Zimniak (edd.), L’educazio-ne salesiana dal 1880 al 1922, op. cit., vol. i, pp. 148-160.

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delle allieve, ma anche la segnalazione del sovrabbondare dellepratiche devozionali e dei confini alquanto ristretti dell’istruzioneintellettuale rispetto alla quale erano spesso privilegiati i lavorifemminili61.

6. Il medico tra cura del corpo e filantropia sociale

Accanto a maestri, preti e suore un’altra figura conquista un pesocrescente sulla scena educativa ottocentesca: quella del medico.

Fin dal secolo precedente era circolata in Europa una rigogliosaletteratura in cui si congiungevano prescrizioni mediche, consiglisull’allevamento e sull’educazione della prole. Erano stati incorag-giati, perché conformi “a natura”, l’allattamento materno, la libera-zione del corpo del bambino dalle costrizioni tradizionalmentepraticate come fasce e corsetti, una alimentazione semplice. Gran-de importanza era stata inoltre assegnata alla inoculazione del vaio-lo. Alcune preoccupazioni morali in materia sessuale avevano, infi-ne, trovato potente giustificazione sul piano di asseriti riscontripatologici.

Le riflessioni e le proposte innovative di medici come SimonAndré Tissot, Jacques Ballexerd, Gerard Van Swieten e, un pocopiù tardi, Jean-Marc Gaspard Itard costituirono punti di riferimen-to per ridefinire le caratteristiche della natura dell’infanzia. Jean-Jacques Rousseau se ne fece il miglior propagatore, inserendo eritraducendo questa letteratura medica entro un sistema pedagogi-co organico che sfidava le prassi educative consolidate.

L’interesse per l’infanzia era soltanto parte di un nuovo rappor-to tra medicina, vita sociale e politica maturato nell’età dei Lumi,cui dobbiamo fare un rapido cenno per cogliere la lunga traiettoriadella genesi della figura del medico educatore popolare.

Il modo di guardare alla salute cominciò a essere segnato dal-l’idea preventiva (una medicina, scriveva Pietro Verri, che “non

61. Un piccolo, ma significativo campione delle relazioni sull’attività scolastica eassistenziale delle suore maestre in S. Franchini, P. Puzzuoli (edd.), Gli istituti fem-minili di educazione e di istruzione (1861-1910), Roma, Ministero per i Beni e le attivi-tà culturali - Dipartimento per i beni archivistici e librari, 2005, pp. 321 e ss.

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aspetta il male per risanarlo, ma invigila e anticipa”62) e adeguata auna dimensione collettiva e non solo individuale. La cultura medi-ca illuministica manifestò infatti un vivo interesse per la buonasalute della popolazione perché – non diversamente da quanto sipensava per la diffusione dell’istruzione – considerata una compo-nente essenziale per la produttività e la ricchezza dello Stato. L’in-dividuo è perciò fatto oggetto di una attenzione medica anche inquanto membro del corpo sociale. La malattia, a sua volta, è conce-pita non soltanto come “un prodotto naturale, cioè un evento pre-destinato dalla stessa natura umana e contro cui l’uomo nulla può;la malattia è invece soprattutto l’effetto di cause seconde quali lamiseria, l’ignoranza, l’ineguaglianza”63.

La medicina iniziò a configurarsi come una scienza in grado diridare la salute a chi l’aveva persa, ma altresì e forse soprattuttocome uno strumento sociale utile per garantire la prosperità di unoStato. I medici furono perciò investiti di nuove responsabilità evisti come gli intermediari tra i bisogni della società e i singoli indi-vidui e gli stessi medici cominciarono ad autorappresentarsi comeportatori non solo di scienza, ma anche di un compito educativomediante la divulgazione di una parte del loro sapere con intentiumanitari.

Ai trattatisti di maggior risonanza i cui testi andavano per lamaggiore nel ceto colto, rinnovando pratiche pediatriche ed educa-tive, congiunti a una serie di raccomandazioni igieniche e profilat-tiche, si affiancarono altri medici impegnati in un’opera di piùumile divulgazione. Il caso del medico cuneese Maurizio Pipino è atal riguardo interessante e tale da poter essere assunto come unaspecie di prototipo di medico educatore.

Sostenuto da forti sentimenti filantropici verso i ceti popolari, ilPipino orientò la sua azione pedagogica in varie direzioni. Oltre apubblicare una grammatica e un dizionario della lingua piemonte-se per facilitare l’apprendimento del latino, dell’italiano e del fran-cese – e dunque l’accesso a una cultura estranea a gran parte del-la popolazione –, nel 1785 diede alle stampe un “Almanacco della

62. Cit. in G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, Roma-Bari,Laterza, 1987, p. 250.

63. Ibidem, p. 253.

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sanità”. Mediante brevi scritti il Pipino ragguagliava i suoi lettori(“parrochi e curati” e “ad altre persone caritatevoli”) intorno adalcune conoscenze igieniche di base e forniva alcuni consigli per“l’alleviamento degli infermi”. Lo scopo non era solo curativo, maanche preventivo “per la conservazione del sì bel tesoro il cuiprezzo per l’ordinario non si conosce, se non allora quando si èperduto”64.

Scritti come quelli del Pipino e altri analoghi che tra Sette eprimo Ottocento si moltiplicarono in varie parti d’Italia65, neces-sitavano di una mediazione che consentisse loro di raggiungere lagran massa degli illetterati, i contadini in special modo. La popo-larizzazione delle più semplici ed essenziali nozioni medichetrovò un efficace canale di diffusione soprattutto nei parroci dicampagna. Ne sono autorevole documento i due opuscoli appar-si nel 1826 a firma di Giacomo Barzellotti, professore nell’Uni-versità di Pisa, intitolati rispettivamente Il parroco istruito nellamedicina per utilità spirituale e temporale dei suoi popolani e Il parro-co illuminato sulla medicina di Le Roy cui fecero seguito numerosesimili iniziative.

Specialmente nelle campagne sprovviste di condotta medica, ilparroco era spesso l’unica persona che poteva assicurare, oltre alconforto spirituale, qualche consiglio pratico in campo sanitario.Ma anche dove c’era il medico – ciascuno nel suo ruolo “quegli perl’anima, questi per il corpo” – era richiesto di agire insieme percercare “impedimento e rimedio” alle malattie66. Li accomunava ilproposito di difendere la salute e il desiderio di prevenire la malat-tia. Preti e medici di campagna in tal modo svolgevano una comu-ne funzione sociale ed educativa.

Era proprio entro questa prospettiva che ne Il medico di campa-gna, un romanzo degli anni ’30, Balzac individuava in “tre vesti

64. Bianchini, Educare all’obbedienza, op. cit., pp. 81-82. 65. Un’ampia documentazione in tal senso in A. Forti Messina, I medici condotti e

la professione del medico dell’Ottocento, in “Società e storia”, 1984, n. 23, pp. 104-122.Qualche altra indicazione in M.L. Betri, Il medico e il paziente: i mutamenti di un rap-porto e le premesse di un’ascesa professionale (1815-1859), in F. Della Peruta (ed.), Sto-ria d’Italia. Annali 7, Torino, Einaudi, 1984, pp. 227-232.

66. C. Ravizza, Un curato di campagna. Schizzi morali, Milano, Tip. BoniardiPogliani, 1851.

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nere” le tre figure centrali nella organizzazione sociale del suotempo:

“Non senza ragione... si usa mettere insieme le tre vesti nere: il prete,l’uomo di legge, il medico. L’uno medica le piaghe dell’anima, l’altroquelle della borsa, l’ultimo quelle del corpo. Esse rappresentano lasocietà nelle sue tre fondamenta: la coscienza, la proprietà, la salute”67.

Questa descrizione riferita alla realtà francese vale anche perl’Italia. Nello scenario dei primi decenni del secolo il maestro nonsi configura ancora come il punto di riferimento per l’educazionedel popolo. Comparirà come protagonista solo più tardi quando ilmedico, anziché cercare l’intesa con il prete, preferirà più laica-mente collaborare con i maestri, le maestre, le levatrici, le personepiù colte delle Società di mutuo soccorso.

A mano a mano che ci si inoltra nella seconda metà dell’Otto-cento, il medico assume infatti una fisionomia in parte diversa dalpassato. Egli tende ad agire sempre più in proprio, senza interme-diazioni, e soprattutto in modo distinto (e spesso addirittura informe antagoniste) rispetto al ruolo del prete.

Nella cultura secondo ottocentesca impregnata di scientismopositivista “i parroci diventano i profani inosservanti e i medici ineo-sacerdoti”. Il medico tende a porsi come “l’anti curato” e afarsi alleato non più delle altre due “vesti nere”, ma “delle due figu-re che rivestono l’abito del naturalista e dell’educatore: il farmaci-sta e il maestro di scuola”. È con quest’ultimo che viene stretto ilnuovo patto: “Due sole professioni non furono e non saranno maipagate abbastanza: quella del maestro e quella del medico”68.All’ossequio alla religione non di rado si sostituirà la simpatia per ilsocialismo.

La consapevolezza che tra l’ambiente naturale e sociale e il mala-to esiste un preciso rapporto di causa/effetto spinge molti medici afarsi portatori di istanze umanitarie. La loro azione, di conseguen-za, si svolge in duplice direzione: come educatori che promuovonostili di vita salubri, combattendo tanto le malattie quanto supersti-zioni e abitudini inveterate, e come attori sociali che agiscono sui

67. Cit. in G. Cosmacini, L’igiene e il medico di famiglia, in P. Melograni (ed.), Lafamiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 611.

68. Ibidem, p. 613.

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pubblici poteri. La figura del medico assume la fisionomia di una“missione” sociale, di apostolato laico, figura simbolica di media-zione tra i ceti dirigenti (a cui egli appartiene) e gli strati popolari(con cui egli è quotidianamente a contatto), missione che si mani-festa nell’azione quotidiana, ma anche attraverso la divulgazione.

All’aumento dei tassi degli alfabetizzati corrispose la maggioreaccessibilità, anche nelle campagne, a quella letteratura medicapopolare volta a diffondere norme igieniche e suggerimenti tera-peutici elementari. Nelle collane editoriali (come, ad esempio, quel-la edita da Treves “La scienza del popolo”) e nelle biblioteche popo-lari si trovano numerosi opuscoli e piccoli testi che spaziano su unavasta gamma di argomenti. In essi venivano date semplici nozioni dianatomia e di fisiologia del corpo umano, di pronto soccorso in casodi incidenti, norme sull’allevamento e la cura dei bambini e degliadulti infermi, informazioni per la profilassi anticolerica e sull’igie-ne sessuale69. Una specie di prontuario “fai da te” che nelle pubbli-cazioni destinate ai ceti più poveri si presentava come una sempliceelencazione di ciò che si doveva o non si doveva fare.

È in questo sforzo di popolarizzazione della cultura medico-igie-nica che s’incrociano i destini dei medici e quelli dei maestri70. Findagli anni ’70 appaiono – e nei decenni successivi si moltiplicano –pubblicazioni d’argomento medico destinate ai maestri e agli allie-vi maestri come, ad esempio, L’igiene nelle scuole per dott. EdoardoBock, 1874; Il maestro in qualità di medico, 1878; Almanacco igienicoper i maestri elementari, 1892 fino al celebre e diffusissimo compen-dio di Raimondo Guaita71, medico pediatra presso l’Ospedaleinfantile di Milano. Il Ministero dell’Istruzione organizza appositeconferenze e i manuali di pedagogia per le scuole normali si occu-pano anche di questo specifico ambito d’azione educativa. L’igienefa infine la sua comparsa ufficiale nella scuola elementare con iProgrammi del 1894.

69. Un elenco di testi in G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-1876.Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari, Laterza, 1981,pp. 135-136.

70. D. De Rosa, M.T. Bassa Poropat, Maestri e medici alla fine dell’Ottocento. Ilruolo dell’igiene nell’educazione scolastica, in “Scuola e città”, 1988, n. 1, pp. 5-13.

71. R. Guaita, Compendio di igiene scolastica per uso delle scuole normali, dei pediatri,dei maestri, direttrici d’asili, ispettori scolatici, ecc., Milano, L. Omodei Zorini Ed., 1894.

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Professori universitari e luminari illustri aprono fronti di impe-gno sociale e civile oltre gli orizzonti della ricerca clinica con ladivulgazione e talora la militanza anche politica. Le scoperte nelcampo microbiologico, dissipando le innumerevoli errate credenzecircolanti sulle cause e i rimedi dei morbi di infezione, ad esempio,delineano ampi spazi di intervento operativo. Gli studi sull’alimen-tazione dei contadini, a loro volta, documentano i rapporti tra ali-mentazione e sviluppo del corpo, fra alimentazione e resistenza allemalattie e dimostrano come sia possibile, senza elevare la spesa,migliorare la nutrizione popolare.

Studiosi come Jakob Moleschott, Cesare Lombroso, PaoloMantegazza, Angelo Mosso, Agostino Bertani, Enrico Morselli,Angelo Celli, Alessandro Lustig – per citare soltanto le personalitàpiù in vista – si muovono in una duplice direzione.

Mentre prospettano nuovi stili di vita, ponendo in primo piano ilmomento della prevenzione rispetto a quella della terapia, questimedici perseguono l’obiettivo di costruire un codice di credenze, divirtù libere dai tabù del passato, di comportamenti, in sostanza un“uomo nuovo”, incentrato sul primario rispetto della sua “necessi-tà biologica”, in quanto parte solo e soltanto della natura stessa. Lavolgarizzazione della scienza medica attraverso la pratica igienicaviene così associata a un nuovo quadro di valori. La virtù è ricon-dotta al rispetto delle norme igieniche che, in quanto finalizzate afrenare la “degenerazione fisica”, sono anche norme etiche. Il tra-sgressore non è colpevole, perciò, solo per sé, ma si rende respon-sabile di una condotta immorale con ricadute collettive e dunquedannosa all’intera compagine sociale.

I percorsi attraverso cui si afferma questa cultura medico-socia-le sono naturalmente variegati per quanto per lo più ascrivibili aduna cultura razionalista, anticlericale, nutrita di sentimenti demo-cratici e talora anche socialisti72.

Con l’inchiesta sulle condizioni igienico-sanitarie dei lavoratoridella terra Agostino Bertani, ad esempio, giungeva alla conclusioneche non fosse possibile scindere la questione economica da quellaigienica tanto erano compenetrate l’una con l’altra nei reciproci

72. T. Detti, Medicina, democrazia e socialismo in Italia tra ’800 e ’900, in “Movi-mento operaio e socialista”, 1979, n. 1, pp. 3-44.

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nessi di causa ed effetto. Agostino Celli, Alessandro Lustig ed altri,a loro volta, scesero direttamente sul campo, conducendo perso-nalmente campagne antimalariche in Lombardia, Lazio, Sardegnacon una vasta opera di diffusione di norme igienico-sanitarie.Paolo Mantegazza fu un protagonista della pubblicistica divulgati-va condotta mediante giornali e riviste, la quarantennale esperien-za dell’“Almanacco igienico popolare” intrapresa dal 1866, la com-pilazione del Dizionario d’igiene per le famiglie più volte riedito.

L’azione di questi studiosi fu importante, infine, per un’altraragione. Dalle tribune parlamentari, dalle cattedre universitarie,attraverso la pubblicistica specializzata essi concorsero a formareuna generazione di “medici dei poveri”. Soprattutto attivi nellecondotte mediche di campagna e quotidianamente a contatto conle inenarrabili sofferenze di cui era intessuta la vita di tanta partedella popolazione, furono proprio queste figure di medici adagire in forme capillari come educatori popolari e, in qualchecaso, anche come animatori della vita politica. La loro azione sirivolse contro le cause di vario genere, spesso sociali (miseriamateriale, scarsa igiene, ambienti di lavoro insalubri) che provo-cavano le malattie, ma si manifestò anche mediante l’impegno acombattere contro i pregiudizi e la diffidenza nei confronti del-l’intervento medico.

Quale fosse lo stato d’animo di questi medici esposti in primalinea sulla frontiera della precarietà della vita, spesso al limitedell’impotenza, era così espresso da un giovane medico al suoprimo impatto con il lavoro tra i contadini di un borgo risicolodel Vercellese:

“Le diagnosi che più frequentemente debbo fare sono quelle di mise-ria e forse ancor più d’ignoranza... Io vedo con gran rammaricoquanto sia difficile essere utile a chi manca di tutto e molte volte misembra persino di essere un volgare impostore quando tento tutti imezzi per riuscire a qualche cosa in condizioni che mi vietano qual-siasi illusione di buon effetto: ciò che mi conforta più di quanto avreipensato è il credere che questi poveri diavoli mi tengano conto dellabenevolenza colla quale li curo. Se così non fosse mancherebbe ognireale soddisfazione”73.

73. Cit. in ibidem, p. 29.

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7. Il divulgatore agrario

Con l’espressione “divulgatore agrario” ci riferiamo ad alcuniattori sociali (possidenti, fittavoli, fattori, agronomi, insegnantidelle scuole agrarie, ma anche maestri, preti e parroci) impegnati invario modo nella promozione e diffusione dell’istruzione agrariadel ceto contadino popolare adulto.

Queste figure “educative” vanno inquadrate in relazione allaspinta che si verificò in Italia dopo gli anni ’30 per ammodernare lavita delle campagne. I progetti sostenuti in tal senso da élites intel-lettuali e sociali furono spesso associati, con alterna fortuna ma inmodo costante, alla necessità di potenziare e migliorare l’istruzioneagraria. Questa prospettiva si svolse, a sua volta, entro un quadroideale segnato dalla stretta integrazione tra idea nazionale, voca-zione “rurale” dell’Italia e ruralità come ordine antico percepito etrasmesso come valore.

Attraverso le gazzette impegnate a far circolare anche in Italia leinnovazioni già attuate fin dal tardo Settecento in altre parti d’Euro-pa e in seguito all’azione di sodalizi culturali e professionali, si diffu-se gradualmente la convinzione che “l’incremento delle campagne”sarebbe stato possibile soltanto se si fosse rotta la crosta delle abitu-dini consolidate e creata una nuova mentalità, di tipo imprenditoria-le. Di qui il proposito di offrire un sostegno allo sviluppo dell’agri-coltura mediante la formazione di personale non solo più espertonelle tecniche di coltivazione e allevamento, ma anche attento alleesigenze di processi produttivi più razionali e capace di riorganiz-zare le aziende. In una parola, personale adatto per un nuovo, oparzialmente nuovo, sistema di agricoltura basato su idee e proget-ti che cercavano di collegare la scienza con la pratica e l’economia.

All’interno di questi dibattiti e in relazione alle realizzazioniavviate in alcune parti dell’Italia (e molte influenzate dalla primatra queste, l’esperienza anche più nota e celebre, e cioè l’Istitutoagrario di Meleto Val d’Elsa aperto nel 1834 da Cosimo Ridolficon la consulenza pedagogica del Lambruschini) si delineò unaduplice linea d’intervento con due distinti livelli di insegnamentoagrario, uno di tipo professionale medio-alto e uno a taglio popo-lare. Questa scelta era coerente con il principio, allora largamente

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prevalente e generalmente condiviso, della “educazione proporzio-nata”, ovvero di un’educazione differenziata secondo il gradosociale dei destinatari.

Il primo era concepito in funzione della formazione di personalecapace di guidare secondo moderni criteri le aziende agrarie ed eraperciò rivolto alle categorie intermedie operanti nell’agricoltura ita-liana: figli dei fattori, degli amministratori, dei fittavoli e cioè a quan-ti era demandato il pratico esercizio della gestione delle aziende. Lascelta di concentrare l’attenzione verso questi destinatari era dovuto auna duplice constatazione: i proprietari terrieri erano in genere“uomini lontani dall’attività agricola e più interessati alla vita urbanache al settore rurale” e desiderosi per i figli dell’istruzione universita-ria; i contadini, a loro volta, erano troppo rozzi e analfabeti per ambi-re a questo genere di istruzione.4

All’esigenza di formazione di questi quadri intermedi si provvidesia con una rete di scuole agrarie d’iniziativa privata sia con l’inter-vento dei pubblici poteri. Attraverso questa filiera si formò unagenerazione di tecnici agronomi, di insegnanti di discipline agrariee scientifiche, di abili amministratori, di fittavoli competenti checostituì, insieme al ceto proprietario più sensibile all’innovazione eall’imprenditorialità, il punto di riferimento per lo sviluppo del-l’agricoltura italiana.

Furono proprio questi protagonisti della vita agraria che sifecero spesso carico in vario modo e mediante l’alleanza con altrefigure educative (maestri e preti) dell’istruzione popolare dei con-tadini attraverso un’azione capillare di stimolo e di orientamentonell’esercizio quotidiano del lavoro. È questo il secondo livellodell’insegnamento agrario e sono questi i principali protagonistidella divulgazione agraria popolare cui ci riferiamo in questepagine.

Nelle campagne bisognava “insegnare con gli occhi più che conla voce” e l’esempio “doveva venire da coloro a cui era affidata lagestione dei fondi”. Mediando tra i precetti della scienza e le ragio-ni della pratica, era possibile creare dal basso un “movimento gene-rale di progredimento”, vincendo le diffidenze verso l’introduzione

74. R. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura. Istruzione, cultura, economia nell’Italia del-l’Ottocento, Milano, Angeli, 2008, p. 43.

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di novità che, in controtendenza con le pratiche trasmesse dallatradizione, erano spesso percepite dai contadini come pericoloseper la loro sussistenza75. La diffusione delle malattie della vite e ledifficoltà della bachicoltura agirono come potenti fattori per vince-re secolari resistenze. Falcidiando i redditi delle famiglie colonicheche videro aggravarsi le loro già precarie condizioni di vita, la crisiincrinò molte delle antiche certezze76. Queste annotazioni riferitealla realtà lombarda possono essere ragionevolmente estese a moltealtre situazioni.

Queste spinte pratiche erano sostenute, a loro volta, dalla con-vinzione che l’Italia fosse chiamata dalla natura e dalla storia a esse-re una “Nazione agricola” e che perciò l’agricoltura fosse parte irri-nunciabile dell’identità stessa della Nazione. Perfino un grandeindustriale moderno come Alessandro Rossi si dichiarava convintoche obiettivo primario per “servire l’Italia” fosse quello di dedicarealla terra “quanti più possibili cittadini” perché “la terra è la basedello Stato, la forza dell’esercito, la garanzia dell’ordine, la fonte piùsacra delle virtù sociali, la migliore scuola di moralità”77. L’impegnoper l’ammodernamento agricolo fu perciò parte della costruzionestessa dell’identità nazionale e gli scienziati agrari assunsero la fisio-nomia di ideologi di una ruralità intrinseca alla storia nazionale.

Quanti più capillarmente entrarono a contatto con il mondo dellecampagne con scopi di divulgazione agraria – impieghiamo questaformula per distinguerla dall’istruzione agraria vera e propria e cioègestita nelle forme specifiche delle scuole agrarie – agirono precisa-mente entro questo quadro, ponendosi all’intersezione tra competen-ze tecniche e inserimento delle masse rurali nella vita nazionale.

La divulgazione agraria si rivolse soprattutto verso gli adulti giàattivi e si avvalse di un insieme quanto mai vario di circuiti chericorsero a diverse pratiche pedagogiche commisurate ai differentilivelli di alfabetizzazione.

75. G. Bigatti, Dalla cattedra alla scuola. L’istruzione agraria in Lombardia (1803-1870), in G. Biagioli, R. Pazzagli (edd.), Agricoltura come manifattura. Istruzioneagraria, professionalizzazione e sviluppo agricolo nell’Ottocento, Firenze, Olschki, 2004, p. 318.

76. Ibidem, p. 339. 77. A.P. Bidolli, S. Soldani (edd.), L’istruzione agraria. 1861-1928, Roma, Mini-

stero per i beni e le attività culturali - Direzione generale per gli archivi, 2001, p. 29.

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Corsi serali e festivi, mostre e cicli di conferenze promossi daicomizi agrari e dalle cattedre ambulanti di agricoltura, visite apoderi-modello e a stazioni sperimentali agrarie furono integratidalla pubblicazione di almanacchi e catechismi agrari (sperimenta-ti modelli di antica origine), opuscoli e libretti di facile lettura,pubblicazioni periodiche, l’apertura di apposite biblioteche. Si trat-tava di una produzione che – fatte salve le debite differenze – risul-tava parallela a quella self helpistica o a quella promotrice dellebuone pratiche igieniche.

Questa pluralità di iniziative era funzionale a più obiettivi prati-ci: contrastare il forte condizionamento della consuetudine e dellatradizione che, per giudizio condiviso, rappresentava il tratto pre-valente dell’attività agricola; affiancare e sostenere i contadini persconfiggere le drammatiche epidemie che colpirono in varie circo-stanze le campagne italiane. Questo capillare sforzo divulgativoispirato ai princìpi del “circuito informale”, secondo alcuni studio-si, sarebbe stato molto più efficace delle stesse scuole agrarie nelsuperamento della routine quotidiana e nella maturazione di unapiù moderna visione dell’attività agraria78.

In questo sforzo non va sottovalutato il proposito di congiunge-re gli aspetti più puntualmente tecnici con l’ampliamento dellanozione di “attività rurale” nel senso di un modello ideale di vitanon solo personale, ma collettivo (non a caso, per esempio, il vil-laggio contadino laborioso è spesso rappresentato nei testi scola-stici per la scuola elementare come un luogo intrinsecamente vir-tuoso) e garantire, attraverso una visione paternalistica dei rappor-ti sociali, ordine e stabilità.

Si trattava, sotto molti aspetti, della ricaduta sociale di quellaconcezione educativa coltivata tra Sette e Ottocento da persona-lità come Pestalozzi, Girard, Fellenberg e mediata in Italia dalcenacolo lambruschiniano nella quale interagivano l’estensionedell’istruzione elementare, il miglioramento delle conoscenzeagrarie e un vero e proprio modello di “pedagogia civile”79 desti-nato a svolgere un ruolo significativo nelle successive vicendenazionali.

78. Ibidem, p. 66. 79. Pazzagli, Il sapere dell’agricoltura. Istruzione, cultura, economia nell’Italia dell’Ot-

tocento, op. cit., pp. 45-91.

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Ai professionisti agrari spesso impegnati nel duplice ruolo di tec-nici esperti e di divulgatori, si affiancarono i maestri elementari. Idocumenti relativi all’importanza strategica attribuita dopo l’Uni-tà ai maestri in ambito agrario abbondano: progetti ministeriali perapposite conferenze per i maestri rurali80; analoghe iniziative intra-prese a livello locale da numerosi comizi agrari; presenza ricorren-te di tematiche legate alla vita del mondo rurale nei congressi peda-gogici e sulle pagine delle riviste magistrali nonché pubblicazionirivolte a rafforzare i rapporti tra scuola e vita dei campi81; un’ampiaproduzione di libri scolastici destinati agli allievi delle scuole rura-li. Con l’istituzione delle scuole magistrali biennali del 1877 (cuiabbiamo già fatto cenno nel precedente capitolo) il Ministero sipropose esplicitamente di disporre di personale docente adatto allerealtà rurali. Dal 1880 nelle scuole normali maschili fu inoltregeneralizzato l’insegnamento dell’agronomia (poi esteso anche allescuole femminili), ma previsto già in precedenza nei piani di studidi numerosi istituti.

Quando a fine secolo fu avanzata la proposta di affiancare a ogniscuola un piccolo terreno per compiere pratiche esercitazioni agra-rie (il “campicello scolastico” auspicato dal ministro Baccelli),molta strada era, dunque, già stata compiuta nella prospettiva di unforte coinvolgimento dei maestri nella divulgazione agraria. E lacosa ha una ben comprensibile giustificazione legata non solo alladiretta partecipazione di molti di loro nella realtà rurale, ma anchee soprattutto alla schiacciante preponderanza dell’agricolturarispetto alle altre attività produttive.

80. Notizie sui vari tentativi compiuti a livello ministeriale per stabilire le auspica-te sinergie tra scuola e mondo rurale nella relazione di Nicola Miraglia, importantefunzionario del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e grande animato-re dell’istruzione agraria, negli Atti dell’XI Congresso pedagogico italiano e della VI Espo-sizione didattica, Roma, Tip. Sinimberghi, 1881.

81. Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del nuovo secolo furono oltre latrentina le pubblicazioni per i maestri che si occuparono in modo regolare di questioniagrarie e dei rapporti tra scuola e vita rurale, ved. Chiosso, La stampa pedagogica e scolasti-ca in Italia (1820-1943), op. cit., p. 867. Per quanto riguarda le testate magistrali esplicita-mente destinate ai temi agrari ved., a titolo d’esempio, “La sentinella dei maestri elemen-tari ed il giovane agricoltore, giornale bimensile di istruzione didattico-agraria” direttodal maestro Carlo Pozzi (Torino, 1892-1895) e “L’ape messapica, bollettino d’istruzione,agricoltura, crittogamia, industria e commercio” diretto dal sacerdote e agronomo Achil-le Montagna (Brindisi, 1902-1905), ibidem, rispettivamente pp. 674-675 e 57.

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Se nelle classi urbane era aperta la discussione circa il modoattraverso cui avviare gli alunni al lavoro, questo problema non siponeva nelle scuole rurali e anzi appariva come lo scontato esitodell’istruzione come da tempo era stato suggerito da più parti:

“Perché l’insegnamento elementare risponder potesse alla civile educa-zione ed ai bisogni più specialmente propri sentiti da un Paese, qual èquesto, eminentemente agricolo... sarebbe mestieri che coi primi rudi-menti... venissero apprese dai giovinetti anche quelle nozioni principalipiù indispensabili e di giornaliero uso ed applicazione i quali si riferisco-no alla natura produttiva dei terreni, alla miglior coltivazione e rotazio-ne agraria, alla coltura e conservazione dei cereali e dei foraggi, alla col-tivazione ed uso delle piante e dei boschi, all’allevamento e cura deglianimali domestici: insomma tutte quelle nozioni pratiche elementari chesono necessarie a chi deve dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia”82.

La scuola elementare risultava insomma il luogo naturale perquell’“apertura mentale” invocata da grandi divulgatori agraricome, per citare solo qualche nome, Giulio Cappi, Sante Cettolini,Felice Garelli, Giuseppe Antonio Ottavi, Carlo Pozzi, impegnati invario modo a formare contadini disposti a superare consuetudinisecolari e pronti ad aprirsi ai cambiamenti, ma al tempo stesso doci-li a riconoscersi nei valori della semplicità, della laboriosità, dellasobrietà, dell’ordine sociale. E il maestro, a sua volta, era visto comela figura più idonea, come aveva già a suo tempo segnalato il Lam-bruschini, a parlare “quella lingua del popolo che è molto differen-te dalla nostra”. A lui era perciò richiesto non solo di tenere contonel suo insegnamento della ruralità nella quale i bambini cresceva-no, ma anche di essere il divulgatore dell’abbecedario agrario tra ipadri e i fratelli più grandi nelle scuole ad essi destinate.

Ugualmente capillare fu la divulgazione agraria promossa da pretie parroci in linea con una consuetudine che risaliva al secolo prece-dente e si era manifestata in specie nelle regioni governate dall’Au-stria e nello Stato Pontificio. Ma anche dopo l’Unità il clero fu par-ticolarmente vicino alla realtà dei contadini e si impegnò in varieattività connesse con la vita delle campagne. Mentre nel campodella malattia si esauriva irreversibilmente l’alleanza tra medici epreti, le vicende nell’ambito agrario si svolsero in modo diverso.

82. Progetti d’istituzioni agricole in Lombardia, in “Annali universali di statistica”,1848, n. 50, p. 291.

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L’attenzione rivolta verso il mondo delle campagne rientrava inquella più ampia disposizione pastorale-educativo-caritativa deipreti impegnati a fianco delle popolazioni affidate alla loro cura dicui si è già detto. Essi non potevano restare insensibili di fronte auna situazione di malessere e crisi nella quale s’intrecciavano svaria-ti fattori come il rigido concetto individualistico della proprietàrurale, una serie di sistemi contrattuali basati su intermediazionispeculative e la sottovalutazione dell’impoverimento della terra che,continuamente sfruttata e non adeguatamente rinvigorita, diminui-va di produttività.

Occorreva perciò stringersi intorno ai contadini per aiutarli al cam-biamento dei tempi propri della vita rurale, a misurarsi con le nuovee spesso severe regole di mercato e a gestire il superamento dell’eco-nomia patriarcale, per difenderne i diritti contro gli eccessi dei pro-prietari (ma anche contro le lusinghe del socialismo), per sostenernela resistenza contro l’eccessivo fiscalismo e contenere il fenomenodella “fuga dalle campagne” soprattutto da parte dei più giovani.

Queste ragioni per così dire “sociali” erano a loro volta inquadra-te e giustificate entro un discorso più complesso elaborato dalla cul-tura dell’intransigentismo cattolico post unitario. Le ragioni dellacrisi agraria erano ricondotte alla rottura, provocata dalla modernità,dell’equilibrio tra uomo e terra e dei nessi tra l’agire economico (lacommercializzazione della terra e il suo divenire merce) e i valorimorali. I mali dell’agricoltura erano cominciati con l’estensione deimodelli giuridici della democrazia industriale alla proprietà fondiariae alla vita civile nelle campagne, rompendo il cardine dell’ordinesociale depositato nella fecondità naturale donata all’uomo da Dio.

La terra insomma non era riconducibile a merce da vendere e dacomprare, senza alterare un ordine naturale su cui si basava anchel’equilibrio sociale. Il rimedio non poteva tuttavia consistere soltan-to nel richiamare i ricchi possidenti a tornare a svolgere un ruolo diguida a sostegno delle classi popolari, ricomponendo un’intesa ope-rosa tra proprietà e lavoro tale da migliorare le condizioni di vitamateriali e frenare l’esodo dalle campagne. Occorreva anche far levasui contadini stessi secondo una logica di autopromozione, puntan-do su di loro come i protagonisti primi della loro rinascita83.

83. A. Cova, I cattolici italiani e la questione agraria (1874-1950), Roma, Studium,1993, pp. 9-26.

264 capitolo quinto

Fu all’interno di questo quadro generale che numerosi preti sifecero anch’essi “divulgatori” e s’immedesimarono in vario modo neiproblemi della vita rurale, congiungendo spesso divulgazione tecni-ca e azione sociale. Fu anche questa una delle declinazioni attraver-so cui si realizzò la presenza del “prete sociale”. In molti seminarivennero introdotte lezioni di agronomia, alcune congregazioni prov-videro all’istruzione agraria dei figli dei contadini (tra queste l’espe-rienza della colonia agricola voluta dal Piamarta a Remedello Sopracostituisce un caso particolarmente significativo84), librerie e tipogra-fie cattoliche aprirono collane e diedero vita a pubblicazioni periodi-che su tematiche agrarie85, in numerose situazioni i preti di campa-gna furono l’unico punto di riferimento per i contadini.

Il sostegno alle teorie neofisiocratiche di Stanislao Solari daparte di preti agronomi come, ad esempio, Giovanni Bonsignori eCarlo Maria Baratta, offrì l’occasione per un’intensa attività didivulgazione. La costituzione di cooperative di credito nella formadella cassa rurale rappresentò, a sua volta, un’altra risposta della“questione agraria” non solo sul piano economico (per contrastare,in specie, il fenomeno dell’usura), ma anche come una significativaesperienza formativa in grado di responsabilizzare i contadinirispetto alle esigenze loro proprie.

Divulgare l’urgenza e l’efficacia di una “nuova agricoltura”appariva in sostanza a questi preti la via maestra per l’elevazionesociale e morale dei lavoratori dei campi e, di conseguenza, dellapiù larga società nella quale essi vivevano. Liberati dalla miseriamortificante e deprimente essi meglio avrebbero potuto meglioaprirsi al messaggio del Vangelo e conquistare la loro dignità dipersone umane.

84. A. Salini, L’opera di padre Giovanni Piamarta e lo sviluppo economico bresciano tra Ottoe Novecento, in M. Taccolini (ed.), A servizio dello sviluppo. L’azione economico-sociale dellecongregazioni religiose in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Vita e pensiero, 2004, pp. 27-45.

85. A titolo d’esempio la Tipografia e libreria del Collegio degli Artigianelli diTorino (G. Chiosso, La tipografia e libreria degli Artigianelli al servizio della “Buonastampa” [1864-1903], in La figura e l’opera di San Leonardo Murialdo nel contesto dellaTorino dell’800, Roma, Libreria editrice Murialdo, 2001, pp. 111-113); la casa editricebresciana Queriniana (Salini, L’opera di Giovanni Piamarta e lo sviluppo economico bre-sciano tra Otto e Novecento, cit., pp. 45-52) e l’attività editoriale collegata alla “Rivista diagricoltura” (in Teseo ’900. Editori scolastico-educativi del primo Novecento, Milano, Edi-trice Bibliografica, 2008, pp. 61-62).

Capitolo sesto

I libri di testo e l’editoria scolastica

1. Un prezioso documento della scuola del passato

Anche nella scuola dei decenni precedenti erano ovviamenteprevisti libri scritti apposta per la scuola, ma la loro fisionomia erappresentazione nel corso del xix secolo mutarono in modosignificativo, dando vita a una rigogliosa editoria specializzata.L’espansione dei processi di scolarizzazione, l’intervento regolato-re dello Stato, la messa a punto di nuove pratiche didattiche sonoalcune delle ragioni di questo cambiamento.

La duplice caratteristica propria del libro in generale – stru-mento per accrescere la conoscenza e testimone della conoscen-za stessa – si arricchì nel libro di scuola ottocentesco di unavalenza pedagogica specifica. Nel momento in cui l’analfabetacominciava a essere percepito – almeno in via di principio –come un corpo estraneo, al libro di scuola venne associato unparticolare significato simbolico in quanto rappresentazionestessa della capacità di lettura. I libri di scuola cominciarono aentrare nelle case delle famiglie incolte, affiancando i manua-li devozionali che non di rado erano conservati anche dagli anal-fabeti.

La necessità di provvedere ad un mercato non solo più esteso,ma anche più articolato e complesso rispetto al passato fece deitesti scolastici un oggetto materiale che richiedeva cure specifi-che. Via via queste diventarono sempre più elaborate fino al sor-gere, intorno alla metà del secolo, di un’apposita editoria.

Più ragioni convergono, dunque, a considerare i libri di scuo-la un prezioso documento per cogliere nelle sue diverse sfumatu-re sia la realtà scolastica sia quella editoriale. Non è un caso chei libri di scuola siano da tempo oggetto di ricerca in varie par-

266 capitolo sesto

ti d’Europa (e non solo) e che anche in Italia negli ultimi decen-ni si siano moltiplicati gli studi in questo specifico ambito diindagine.1

La ricognizione di questo genere editoriale spesso sottovalutatoe giudicato impropriamente “minore” (basta ricordare, a questoproposito, l’imperfetta conservazione dei testi scolastici nellebiblioteche, anche in quelle più importanti) consente infatti diapprofondire numerose questioni.

Si tratta di tematiche legate, in primo luogo, alla storia dellascuola e dell’educazione e ai diversi modelli d’insegnamento. Nonsi possono ricostruire, ad esempio, le pratiche didattiche del passa-to se non si tiene conto degli strumenti di cui disponevano docen-ti e allievi. Analogo discorso vale se si vuole comprendere comecambiano nel tempo le discipline scolastiche e i canoni su cui essesi costituiscono di volta in volta.

I libri di scuola rappresentano inoltre un importante osservato-rio per cogliere gli intrecci tra la cultura accademica e quella scola-stica. Basta a tal riguardo far cenno ad alcuni tra i casi più noti,come le antologie e le storie letterarie curate da Carducci, Pascolie Torraca, le grammatiche latina e greca di Pezzi e Inama, i corsi difilosofia di Augusto Conti, Carlo Cantoni e Francesco Fiorentino equelli di storia di Ercole Ricotti e Francesco Bertolini, per non par-lare della prolungata fortuna dei testi di geometria di FederigoEnriques e Ugo Amaldi.2 Né va dimenticato che anche intellettua-li non accademici e scrittori come Ida Baccini e Luigi Capuanaaccettarono di misurarsi con il libro scolastico.

1. M. Raicich, Di Grammatica in Retorica. Lingua, scuola, editoria nella Terza Italia,Roma, Archivio Guido Izzi, 1996; G. Chiosso (ed.), Il libro di scuola tra Sette e Ottocen-to, Brescia, La Scuola, 2000; C. Betti (ed.), Percorsi del libro per la scuola fra Otto eNovecento. La tradizione toscana e le nuove realtà del primo Novecento in Italia, Firenze,Pagnini - Regione Toscana - Giunta Regionale, 2004; M. Galfré, Il regime degli edi-tori. Libri, scuola e fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2005; S. Oliviero, L’editoria scolasticanel progetto egemonico dei neoidealisti, Pisa, Ets, 2007; C.I. Salviati (ed.), Paggi e Bem-porad. Libri per leggere, scrivere e far di conto, Firenze, Giunti, 2007; F. Targhetta, Lacapitale dell’impero di carta. Editori per la scuola a Torino nella prima metà del Novecento,Torino, sei, 2007.

2. G. Chiosso, Stampatori ed editori per l’Università e la scuola tra Otto e primo Nove-cento, in G.P. Brizzi, M.G. Tavoni (edd.), Dalla pecia all’e-book. Libri per l’Università:stampa, editoria, circolazione e lettura, Bologna, Clueb, 2009, pp. 645-653.

i libri di testo e l’editoria scolastica 267

Occorre, infine, considerare l’incidenza economica del generescolastico rispetto allo sviluppo dell’editoria ottocentesca e, in par-ticolare, il peso della manualistica nelle vicende di importanti caseeditrici, non solo di quelle a prevalente vocazione scolastica comeBemporad, Paravia e Vallardi, ma anche di quelle nei cui cataloghiil genere scolastico era soltanto una parte più o meno ampia, da LeMonnier a Sandron e Zanichelli, da Morano a Barbèra e Sansoni,per restare ai casi più noti. Recenti ricerche hanno appurato chel’incidenza del libro scolastico nei primi 35 anni di attività diArnoldo Mondadori si aggirò intorno al 50% dei titoli pubblicati.3

2. Dal libro d’istruzione al manuale obbligatorio

Prima di inoltrarci nel complesso territorio del libro di scuola edell’editoria scolastica è necessaria qualche precisazione, a dispettodell’apparente semplicità, proprio sull’espressione “libro di scuo-la”. Nel corso del xix secolo essa è infatti segnata, come abbiamogià accennato, da una graduale e, sotto certi aspetti anche sostan-ziale, trasformazione che la rende assai più complessa di quanto sipotrebbe credere ricorrendo ai parametri attuali. Questo fenome-no è particolarmente significativo sul versante dell’istruzione ele-mentare e cioè il tipo di scuola che più d’ogni altra fu percorsa daimportanti cambiamenti.

Ancora nei primi decenni dell’Ottocento sono riconducibiliall’uso scolastico diverse tipologie di libri: testi predisposti con scopid’istruzione come abbecedari, grammatiche, sommari di storia egeografia, corsi ed esercizi di matematica, ma anche libri non speci-ficamente scritti per la scuola, ma normalmente impiegati da inse-gnanti, precettori e anche genitori, come raccolte di letture istrutti-ve (“libri per i fanciulli” e “per la gioventù”), catechismi, storie disanti, pubblicazioni devozionali, compendi di varia natura.4

3. E. Rebellato (ed.), Mondadori. Catalogo storico dei libri per la scuola (1910-1945),Milano, Angeli, 2008, p. 10.

4. Per la distinzione tra libro ad uso scolastico e manuale o libro di testo rinvio alleannotazioni di Ch. Stray, Quia nominor leo. Vers une sociologie historique du manuel, in“Histoire de l’éducation”, 1993, n. 58, pp. 73-77. Utili osservazioni, in riferimento al-la realtà spagnola, nel saggio di A. Escolano Benito, Tipología de libros y géneros tex-

268 capitolo sesto

In questa variegata pluralità di testi si riverberava quella molte-plicità di canali d’istruzione, formali e informali, che aveva segnatola storia dell’alfabetizzazione e della scolarizzazione tra Sei e Sette-cento, muovendosi su piani diversi, tra loro complementari e ricor-rendo a materiali didattici assai disparati.5

Qualche decennio più tardi, intorno agli anni ’80 – quando com-pare con regolarità il supplemento annuale destinato ai libri discuola della “Bibliografia italiana” e poi del “Giornale della libre-ria” – la fisionomia del libro di scuola appare alquanto diversa.

Esso è ormai concepito soprattutto nelle forme proprie del manua-le e cioè come un testo predisposto in modo da assicurare la cono-scenza di un certo ambito del sapere ordinato secondo un canoneprestabilito e predisposto con precisi criteri pedagogici e didattici.

La sezione dei cataloghi editoriali riservata alle letture e ai testisussidiari (tra cui acquisiscono crescente importanza i libri-pre-mio, come vedremo) resta ampia, ma solo in subordine al generemanualistico e per di più accompagnata da esplicite riserve: nel1883 la Commissione ministeriale incaricata di vagliare i testiutili per le adozioni criticava, ad esempio, le opere che largheg-giavano in narrazioni. Di questi scritti si doveva diffidare perchéerano concepiti “in modo così romanzesco, da dar soverchioluogo al dolce, distraendo dall’utile”, opere dunque ritenute ina-datte a promuovere “la tanto invocata formazione del caratterenazionale”.6

Questa transizione è collegata alla sempre più diffusa convin-zione che fosse necessario passare da un’idea alquanto generica

tuales en los manuales de la escuela tradicional, in A. Tiana Ferrer (ed.), El libro escolar,reflejo de intenciones políticas e influencias pedagógicas, Madrid, Universidad Nacional deEducación a Distancia, 2000, pp. 439-449. Più ampiamente la questione è affrontatain A. Choppin, Le manuel scolaire, une fausse évidence historique, in “Histoire de l’édu-cation”, 2008, n. 177, pp. 7-56; ved. anche I. Porciani, Il libro di testo come oggetto diricerca: i manuali scolastici nell’Italia postunitaria, in Storia della scuola e storia d’Italia dal-l’Unità a oggi, Bari, De Donato, 1982, pp. 237-246.

5. Sull’apprendimento, in particolare, della lettura, e cioè la pratica scolastica checoinvolgeva il maggior numero di persone, ved. M. Roggero, L’alfabeto conquistato.Apprendere e insegnare nell’Italia tra Sette e Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 19-53.

6. Ministero della Pubblica Istruzione. Commissione sopra i libri di testo, Relazio-ne generale a S.E. il Ministro, Presidente del Consiglio Superiore della P.I., Roma, Tipogra-fia Sciolla, 1883, p. 11.

i libri di testo e l’editoria scolastica 269

del libro d’istruzione al manuale compilato secondo un pianoprestabilito di apprendimenti e predisposto in modo coerentenon soltanto con i programmi d’insegnamento, ma anche con unpreciso metodo didattico. Questa intuizione che, a partire tra Seie Settecento si era svolta all’insegna del binomio libri miglioriper maestri più preparati (Comenio, La Salle, Francke), nell’ulti-mo scorcio del xviii secolo aveva fatto registrare una significati-va accelerazione. Specie dietro l’impulso della cultura illuministi-ca e delle riforme scolastiche teresiano-giuseppine, vide la luce laproduzione di una nuova generazione di testi scolastici di generemanualistico.

Emblematico si può considerare, ad esempio, il caso degli abbe-cedari che si moltiplicarono nel passaggio tra Sette e Ottocento,adottando nuovi e più efficaci metodi per l’apprendimento dellalettura e soppiantando gli antichi strumenti dei primi elementi delleggere, dalle Santacroci ai vari libretti di antica origine. Proprioalla redazione di alcuni abbecedari si dedicarono non casualmentecolti intellettuali impegnati nelle riforme scolastiche del tempocome Scipione Piattoli e Francesco Soave. La tipologia degli abbe-cedari spaziò da quelli molto semplici e schematici a quelli illustra-ti con gli animali, a quelli mitologici, a quelli di storia sacra, a quel-li favolistici e ad altri ancora, espressione sia di una grande varietàdi soluzioni didattiche sia di molteplici proposte ideali di introdu-zione alla vita adulta.

La nuova concezione del libro scolastico – alla cui definizionecontribuì in modo rilevante la serie dei testi compilati dal Soave7 –rappresentò uno snodo di capitale importanza, anche se non semprei risultati furono all’altezza delle aspettative. Sui limiti più vistosi epurtroppo non inconsueti si sarebbero presto abbattute severe criti-che di vario genere, a partire dai sarcasmi del Tommaseo8 fino – piùtardi – all’aperta e nota diffidenza del Croce per i testi ai quali rim-proverava di essere confezionati con saperi di seconda e terza mano.

7. C. Pancera, Sul rinnovamento dei libri di testo nel secondo Settecento lombardo: Sore-si, Parini e Soave, in G. Genovesi (ed.), Leggere e scrivere tra ’700 e ’800, Parma, I Qua-derni di Ricerche Pedagogiche, 200, pp. 7-22.

8. Nel suo Dizionario sotto la voce “libro” il Tommaseo spiegava che quello “ditesto serve nelle scuole per ajuto o piuttosto per soccorso all’ignoranza e all’imperiziadei maestri; agli scolari prima spesa e poi impaccio”.

270 capitolo sesto

La diversa concezione e produzione del libro per la scuola chematura tra la stagione napoleonica e l’Unità costituisce un tassellodi quel complesso processo di istituzionalizzazione e riorganizza-zione che percorre la scuola italiana (e, sia detto incidentalmente,non soltanto quella italiana) nel corso del xix secolo, dandole quel-la fisionomia destinata a durare anche nel secolo successivo e cheancora oggi ci è familiare. L’inquadramento dei testi scolastici e delloro impiego entro canoni preordinati va di pari passo con altriaspetti della vita scolastica. Alla frequenza scolastica variabile e adorari flessibili si sostituisce un modello uniforme a giornata lunga;l’edificio scolastico assume progressivamente collocazioni e confi-gurazioni pari alla dignità riconosciuta alla funzione scolastica,anche se il superamento dei locali di fortuna, senza spazi idonei emal collocati nel tessuto urbano è lento e prosegue fino al Nove-cento inoltrato.9

Nell’istruzione irrompe l’autorità dello Stato che si pone comemediatore tra la domanda e l’offerta di scuola: il progetto politico-pedagogico della borghesia liberale di integrare i ceti popolari nellavita sociale, l’esigenza di unificare popolazioni dalla storia e dallalingua molto diverse tra loro e l’uso della scienza pedagogica conforti intenti normativi e regolativi sono alcune delle ragioni dellaprogressiva pianificazione della scuola entro regole molto più rigo-rose del passato.

Il libro di scuola assume caratteristiche coerenti a questi cambia-menti ed è perciò sempre più confezionato tenendo conto dellenorme legislative e disposizioni amministrative (leggi, regolamen-ti, programmi scolastici) attraverso cui si manifesta la concezionepolitica, sociale e culturale della scuola. La relativa varietà di situa-zioni preesistenti (scuole pubbliche, istituti privati, insegnamentoprecettorile, apprendimento in forme autodidatte, collegi per inobili e scuole militari) si va esaurendo e viene incanalata entro ibinari di un modello pedagogico che tende con maggior forza allauniformità.

Con un’insistenza quasi ossessiva il Ministero della PubblicaIstruzione dalla legge Casati in poi moltiplica gli sforzi per

9. E. Becchi, D. Julia (ed.), Storia dell’infanzia. 2. Dal Settecento a oggi, Roma-Bari,1996, pp. 167-168.

i libri di testo e l’editoria scolastica 271

inquadrare la produzione di libri scolastici e regolarne la dif-fusione.10

Alla varietà dei libri a uso scolastico si sostituisce – gradualmen-te, ma inflessibilmente – la forza pedagogica dei manuali, capace dimediare la concezione dell’infanzia e della fanciullezza propria delmondo degli adulti, con le esigenze politiche e le regole socialisecondo quanto previsto dai programmi di insegnamento. L’impie-go del libro di testo diventa un pilastro dell’attività didattica. I pro-grammi per la scuola elementare del 1860 e del 1867, ad esempio,riservano alla lettura, alla spiegazione e alla ripetizione del libro lamaggior parte dell’attività scolastica.

Gradualmente adattati all’intelligenza ed all’età degli alunni, essidovevano somministrare “per via facile e pratica alimento all’intel-letto e al cuore dei giovinetti”, evitando ogni “superflua futilità”.La lettura scolastica guidata dal maestro andava orientata

“a far amare agli alunni la verità e il bene, ad estirpare dalle menti[degli allievi] gli errori popolari, od impedire che vi si insinuino, e por-gere in acconcia materia quante elementari cognizioni sono utili allasanità e agli interessi tutti della vita privata e della civile”. Non manca-vano inoltre alcune puntuali raccomandazioni didattiche: “Il maestrointerroghi gli scolari sulle cose lette per accertarsi che le abbiano inte-se e svegli e rettifichi la coscienza, domandando sui fatti narrati il lorogiudizio”.11

Era, perciò, giudicata “cosa di capitale importanza” l’assicurarsiche gli scolari capissero bene ciò che leggevano. Terminata la lettu-ra di un brano il maestro doveva esigere che gli allievi ne rendesse-ro “conto chiaramente” e, qualora la situazione lo richiedesse, spie-gare loro i termini meno comuni. Infine l’insegnante doveva rileg-gere il testo “accentuandone le proposizioni e il periodo in modoche ne esca lucido il senso”, per poi farlo rileggere un’altra voltaagli alunni.12 Non a caso i manuali di pedagogia sui quali si forma-

10. Rinvio all’imponente documentazione raccolta da A. Barausse in Il libro per lascuola dall’Unità al fascismo. La normativa sui libri di testo dalla legge Casati alla RiformaGentile (1861-1922), Macerata, Alfabeta Edizioni, 2008.

11. E. Catarsi, Storia dei programmi scolastici della scuola elementare (1860-1985),Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 201.

12. Ibidem, pp. 211-212.

272 capitolo sesto

vano i maestri si dilungavano sul “modo di spiegare i libri scolasti-ci” e su come “farli ritenere”.13

Tanta insistenza spinge alla obbligatorietà del testo indicato dalmaestro. Non bastava disporre di un libro qualsiasi su cui esercitar-si, bisognava dotarsi del testo ufficiale: quella che a noi oggi appa-re un’esperienza scontata, fu l’esito di una conquista non semplicesu cui ritorneremo tra breve. Il passaggio dall’uso generico di unlibro al possesso individuale del libro di testo fu l’esito di un doppioprocesso: da una parte il costituirsi di una scuola scandita da pro-grammi di insegnamento ordinati sequenzialmente a cui corrispon-devano testi opportunamente graduati e dall’altra il costituirsi diun nucleo di sapere scolastico stabile e funzionale alla trasmissionedel patrimonio culturale delle nuove élites dirigenti.

3. L’editoria per la scuola e l’educazione

Alla graduale espansione dell’obbligatorietà dei libri di testo cor-rispose lo sviluppo del mercato librario scolastico, alimentato, a suavolta, dall’aumento della domanda d’istruzione dovuta a svariatifattori, compreso l’incremento demografico: un mercato moltoappetibile in quanto basato su libri a sicuro smercio.

I dati raccolti sugli editori che operano nel campo della “scola-stica” nel periodo compreso tra la fine del xviii secolo e il 1943 lodimostrano in modo inequivocabile: tra il 1785 e l’inizio del xxsecolo si assiste al costante incremento di piccoli e grandi stampa-tori, librai e editori che destinano in modo costante una quota piùo meno significativa della loro produzione ai testi scolastici. Sol-tanto a partire dai primi decenni del Novecento si registra la con-trazione delle piccole imprese di provincia in seguito alla conqui-sta di spazi di mercato sempre più ampi da parte degli editori piùimportanti. Alla riduzione quantitativa del numero degli editoricon interessi scolastico-educativi degli anni ’20-’30 non corri-sponde tuttavia la diminuzione dei testi immessi sul mercato,salvo che nel settore della scuola elementare ove l’introduzione

13. Ved. ad esempio P. Vecchia, Pedagogia per i maestri di grado inferiore, Torino,Paravia, 1969, pp. 84-92.

i libri di testo e l’editoria scolastica 273

del libro unico di Stato nel 192914 sconvolse un mercato tradizio-nalmente molto florido.

Se i dati relativi alla crescita di stampatori e editori per la scuolaappaiono del tutto coerenti con la liberalizzazione del mercato sco-lastico che si verifica dopo gli anni ’40-’50 dell’Ottocento, essimeritano qualche chiarimento per l’età della Restaurazione quan-do, come è ben noto, nei vari Stati italiani la manualistica per lascuola era per lo più prerogativa delle varie Stamperie ufficiali cheagivano in regime di monopolio. In realtà questo monopolio, comedimostrano esemplarmente i casi del Lombardo Veneto e del Pie-monte, alla prova dei fatti era assai meno rigoroso di quanto preve-devano le norme.15

L’uniformità dei testi ufficiali era infatti attenuata dalla circola-zione tollerata di libri per le scuole inferiori e di quelli destinati allescuole private o impiegati nell’educazione familiare e dai libri nonmanualistici che tuttavia potevano essere impiegati ad uso scolasti-co (spesso con la dicitura “per la gioventù studiosa”). I libri per leletture dei fanciulli compilati da Cesare Cantù, da Luigi Alessan-dro Parravicini e da Giuseppe Taverna, per esempio, sono diffusinelle scuole di tutta la penisola. Ugualmente indicativo risulta ildestino di alcuni libri, in particolare le “novelle morali” del padreSoave, che per tutta la prima parte del secolo è certamente l’auto-re per la scuola più noto le cui opere sono continuamente ristam-pate e spesso disinvoltamente “piratate”.

Questo insieme di fattori spiega il moltiplicarsi di stampatorinon autorizzati che immettono nel mercato una grande quantitàdi libri.

A partire dal Piemonte degli anni ’40 e ’50 si verifica la liberaliz-zazione del mercato scolastico rispetto alla prassi precedente.Naturalmente bisogna intendersi sul concetto di liberalizzazione.

14. J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943),Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 393-408; G. Chiosso (ed.), Teseo ’900. Editori sco-lastico-educativi del primo Novecento, Milano, Editrice Bibliografica, 2008, pp. cxxix-cxxx; A. Ascenzi, R. Sani (edd.), Il libro per la scuola nel ventennio fascista. La norma-tiva sui libri di testo dalla riforma Gentile alla fine della seconda guerra mondiale (1923-1945), Macerata, Alfabetica, 2009.

15. M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einau-di, 1980, p. 197; L. Firpo, Vita di Giuseppe Pomba, Torino, utet, 1975.

274 capitolo sesto

Personalità in vista del mondo universitario e ministeriale piemon-tese post 1848 certamente non in sospetto di nostalgie conserva-trici come gli storici Ercole Ricotti e Luigi Schiaparelli, interpre-tando sentimenti assai diffusi, auspicavano che

“un solo spirito e metodo reggesse l’istruzione universitaria, allaquale si formano i professori dei collegi, e l’istruzione secondaria, allaquale si forma per mezzo loro la gioventù”. Al manuale si affidava ilcompito “per stabilire una mediocre uniformità o almeno per far sìche si attenuassero le grandi differenze che esistono nei vari collegidello Stato”16

e i governanti liberali piemontesi, in linea con queste preoccupazio-ni, si affrettarono a nominare un’apposita Commissione per stabilire

“quali libri attualmente in uso si possono conservare o nella loro inte-grità o mediante opportune integrazioni... quali debbano essere rifattiin tutto o in parte” e di preparare inoltre “i programmi di quelli chemancano, indicando se alla loro compilazione debba provvedersi conincarichi speciali oppure mediante concorso”.17

Una linea d’azione destinata a essere interamente recepita dallalegge Casati che impose in materia di libri scolastici un doppio estretto vincolo: d’un lato la fedeltà rispetto ai programmi d’insegna-mento, compreso il corredo delle pratiche didattiche appositamen-te previste specie per quanto riguardava l’istruzione elementare, e ilcontrollo sulla coerenza dei testi rispetto ai programmi stessi.18 Una

16. Cit. in Porciani, Il libro di testo come oggetto di ricerca, cit., p. 263.17. Istituzione di una Commissione per i libri di testo, in «Gazzetta Piemontese», 24

aprile 1852, n. 99.18. La legge Casati riservò al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione il com-

pito di esaminare e proporre “all’approvazione del Ministro i libri e i trattati destina-ti alle pubbliche scuole e i programmi d’insegnamento” (art. 10) e il Ministero consuccessive disposizioni regolamentari per i diversi tipi di scuole definì le modalità diimpiego dei libri di testo. Nel Regolamento per l’istruzione elementare (R.D. 15 settem-bre 1860, n. 4336) all’art. 89 era previsto che il maestro “nell’insegnamento dellematerie proprie della sua classe deve adoperare i libri consentiti dall’Autorità scolasti-ca, dichiarandone il testo secondo le norme ricevute nelle Scuole normali o magistra-li, e le istruzioni date dal Ministero”; in quello per le scuole secondarie (R.D. 15 ago-sto 1860, n. 4290) era prescritto che i professori dovessero “attenersi nelle loro lezio-ni ai programmi ed alle istruzioni inviate dal Governo, servirsi dei trattati che ilMinistero consiglia o permette” e il divieto di “chiedere al Ministero l’ammissione opermissione d’altro libro oltre gli accennati” (art. 63).

i libri di testo e l’editoria scolastica 275

liberalizzazione, dunque, riconducibile alla produzione editoriale,ma non in termini di contenuti e di pratiche pedagogiche.

Mentre i programmi erano destinati a rappresentare un vincoloassai cogente che spinse gli autori e gli editori a una vera e propriaautoregolamentazione, l’esplosione della produzione scolasticarese in pratica vano il tentativo ministeriale di vigilare sui libri ditesto, salvo che per alcuni aspetti formali. I ricorrenti tentativi dientrare nel merito fallirono uno dopo l’altro.

Il processo di liberalizzazione, per quanto, dunque, regolato esorvegliato, fu all’origine di un secondo fenomeno e cioè il sorge-re dell’editoria specializzata. Fino agli anni ’50 nessun editoreintraprende in forma esclusiva o privilegiata la via del genere sco-lastico, ad eccezione ovviamente degli stampatori ufficiali. Il libroper le scuole è generalmente considerato un genere minore, difacile smercio e utile per bilanciare le perdite relative ad altri set-tori produttivi.

Le prime iniziative volte a creare cataloghi di netto segno scola-stico, pedagogico e di letture per bambini e ragazzi risalgono noncasualmente a due esperienze piemontesi (Paravia e TipografiaScolastica) che fiancheggiano le riforme scolastiche degli anni diCavour e al libraio fiorentino Paggi19 (poi Bemporad e oggi Giun-ti) che raccoglie l’eredità delle iniziative pedagogiche del pedagogi-sta Raffaello Lambruschini e di quelle narrativo-giovanili del suosodale Pietro Thouar seguito di lì a poco da Gaspero Barbèra che,non a caso, si era formato negli ambienti torinesi.

Le vicende delle Tipografia Scolastica e Paravia e dei loro pro-prietari Sebastiano Franco, Giorgio Paravia e, poi, InnocenzoVigliardi Paravia e Luigi Roux e dei due editori fiorentini sono alleorigini del moderno editore per la scuola.

Il mercato dei testi per la scuola e dei libri per l’infanzia, spessoopera dei medesimi autori specie a livello di istruzione elementare,non viene più considerato soltanto uno dei tanti ambiti di attivitàall’interno di un catalogo eclettico, ma il settore produttivo princi-pale, il vero perno intorno a cui far ruotare l’attività imprenditoria-le. L’espansione della scolarizzazione viene ormai giudicata un

19. A. Cecconi, Prima della Bemporad. La Libreria editrice di Alessandro e FelicePaggi, in Salviati (ed.), Paggi e Bemporad editori per la scuola, op. cit., pp. 73-99.

276 capitolo sesto

buon viatico per immettersi in un mercato che si presenta promet-tente, anche se non particolarmente prestigioso.

In questi personaggi ritroviamo tutte le qualità del futuro edito-re scolastico: essi si affidano a un affiatato gruppo di docenti noti eapprezzati, capaci di tradurre i programmi scolastici in testi allaportata di insegnanti non impeccabili; organizzano i testi in appo-site collane anziché immetterli sul mercato singolarmente; metto-no a punto un catalogo di letture sinergiche con le finalità educati-ve previste dai programmi; stringono alleanze con le Società magi-strali del tempo; stabiliscono buoni rapporti (in qualche caso nonesenti da qualche equivoco) con gli ambienti politici e ministeriali;selezionano gli spazi di mercato più redditizi, investono sull’appa-rato distributivo in modo da assicurare la circolazione capillare deilibri.

Il tipografo-editore torinese Sebastiano Franco – che per unquindicennio, tra il 1850 e il 1865, ombreggia le iniziative di Para-via e di ciò che resta della tradizione scolastica della StamperiaReale ormai ridotto al rango di editore senza privilegi – si muovecon estrema abilità (e qualche intrigo) tra Ministero dell’Istruzio-ne, associazionismo degli insegnanti e una schiera di docenti uni-versitari cui affida la tempestiva compilazione di testi coerenti coni nuovi programmi. In tal modo occupa uno spazio di mercato finoa quel momento del tutto sguarnito.20

La professionalità con cui si muove Gaspero Barbèra è ugual-mente significativa. Al momento di entrare nel mercato dello sco-lastico si consiglia con Giosue Carducci e quando, a ridosso deiprogrammi per le scuole secondarie del 1867, progetta di dar vita auna “collezione scolastica” allo scopo di “dotare le scuole italiane dibuoni testi”, l’editore fiorentino si documenta, sulla produzionedell’Inghilterra e della Francia, e quindi, come ricorda il figlio,anziché rivolgersi

“a quei raffazzonatori di libri scolastici, calati all’uzzolo di guadagnifacili e così grassi come non ne aveva mai potuti offrire la libreria ita-liana a chi si addicesse a lavori letterarii, fece capo a valenti letterati, amaestri provetti, a persone dabbene”,21

20. Chiosso, Il libro per la scuola tra Sette e Ottocento, op. cit., pp. 109-145.21. Annali bibliografici e catalogo ragionato delle edizioni Barbèra, Bianchi e comp. E di

G. Barbèra, Firenze, G. Barbèra, 1904, p. 185.

i libri di testo e l’editoria scolastica 277

tra cui spiccano i nomi di Domenico Carbone e Giovanni Mestica,entrambi letterati di valore, autori di numerosi testi e curatori diapprezzate edizioni di classici.22

Non è da meno l’altra importante impresa editoriale fiorentina, laLe Monnier, che quasi negli stessi anni s’inoltra, dopo approfonditariflessione, nel territorio del genere scolastico con la celebre “Biblio-teca scolastica” sostenuta dalla consulenza di intellettuali del calibrodi Pasquale Villari, Isidoro Del Lungo e Francesco Protonotari.23

Torino e Firenze rappresentano inoltre due interessanti osserva-tori per cogliere la traiettoria dei cambiamenti. Nonostante l’im-ponenza delle sue iniziative in campo tipografico e librario, Milanoinvece patì qualche ritardo perché, a causa della precedente legi-slazione, i testi scolastici erano stati per lungo tempo sottrattiall’iniziativa privata. La forza dell’editoria milanese si palesò inve-ce subito nel campo dei libri di lettura e della narrativa amena,forte della tradizione che si richiamava alle luminose esperienze delGiannetto e del Libro dell’adolescenza del Mauri. La capacità impren-ditoriale del capoluogo lombardo si sarebbe, tuttavia, rapidamentepresa una rivincita, come vedremo, a partire già dagli anni ’80.

A Torino era stata elaborata la legislazione intorno a cui si avviòl’unificazione scolastica ed i dibattiti che l’avevano preceduta ave-vano consentito di mettere a punto un modello culturale e didatti-co poi largamente esportato.

Fin dagli anni ’40 il Paravia24 si era fatto editore di alcune inizia-tive nel campo dell’educazione e della scuola promosse dagli allie-vi piemontesi dell’Aporti come la rivista pedagogica “L’educatoreprimario”, la traduzione delle opere dello svizzero GregorioGirard, i libri sul metodo del Berti e del Rayneri e quello sull’edu-cazione infantile del Bon Compagni. Dopo una fase di transizione

22. M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis e Gentile, Pisa, Nistri-Lischi,1981, pp. 144-145.

23. C. Ceccuti, Le Monnier. Due secoli di storia, Firenze, Le Monnier, 1996, pp.112-113.

24. In mancanza di una ricostruzione meno condizionata da ragioni celebrative sivedano per una sintesi dell’attività paraviana G. Bitelli, Il rinnovamento pedagogico edidattico nel periodo risorgimentale piemontese e l’editore Paravia, Torino, Paravia, s.d. (ma1961); P. Casana Testore, La casa editrice Paravia. Due secoli di attività: 1802-1984,Torino, Paravia, 1984.

278 capitolo sesto

dovuta alla morte del Paravia, dal 1860 l’attività dell’impresa tori-nese prese rinnovato vigore e il catalogo si arricchì non solo sulversante pedagogico, ma anche e soprattutto su quello dei testi sco-lastici (raccolti intorno a due fortunate collane, la “Collezione dilibri d’educazione e d’istruzione” e la “Collezione dei classici latinie greci”) e del materiale didattico, dagli alfabetieri murali alle cartegeografiche e ai globi terrestri.

Negli anni ’70 l’editore torinese aveva ormai assunto una fisio-nomia imprenditoriale con oltre 200 dipendenti, macchine tipo-grafiche modernissime, capacità di produrre libri illustrati di otti-ma qualità a prezzi molto contenuti. La sua fortuna dipese ovvia-mente da vari fattori come l’avanzata tecnologia, il controllodell’intero processo produttivo del libro, avveduti accordi editoria-li,25 l’ingaggio di autori di grido non più solo piemontesi, la varietàdel catalogo e soprattutto strategie diffusionali d’avanguardia voltea trovare, in una realtà così complessa ed eterogenea come quelladell’Italia appena unificata, nuovi canali di presenza commercialeper raggiungere il maggior numero di insegnanti.

Se le vicende della G.B. Paravia e C. ben documentano i passag-gi verso l’organizzazione di un modello imprenditoriale,26 quelle diSebastiano Franco e della sua Tipografia Scolastica costituisconoun osservatorio ideale per cogliere le complesse fasi culturali,didattiche ed editoriali attraverso cui nella scuola piemontese deglianni ’50 si compì la transizione dai testi ufficiali del Ministero aquelli predisposti sulla base dei programmi di insegnamento e rela-tivamente liberalizzati.

25. La Paravia praticò in alcuni casi anche forme di coedizioni, ad esempio, con lautet del Pomba. Va inoltre ricordato che il graduale disimpegno nel settore scolasti-co (specie elementare) da parte dell’utet a partire dagli anni ’60 è da porre in rela-zione ad intese raggiunte con alcuni editori specializzati nel settore, tra cui è presumi-bilmente da annoverare, dati i rapporti instaurati per le coedizioni, la Paravia stessa.Ved. E. Bottasso (ed.), Catalogo storico delle edizioni Pomba e UTET. 1791-1990, Tori-no, utet, p. xxv e p. 82.

26. Sarebbe utile, comunque, distinguere tra opere veramente edite da Paravia etesti semplicemente pubblicati e commercializzati dall’editore torinese, operazionenon semplice in mancanza di dati d’archivio e in presenza dei soli frontespizi. È certo,per esempio, che le opere dei Parato (pur regolarmente presenti nei cataloghi Paravia)restarono a lungo di proprietà degli autori, fatto questo che circoscrive le dimensionidell’egemonia paraviana.

i libri di testo e l’editoria scolastica 279

Per la compilazione dei libri necessari per svolgere i nuovi pro-grammi l’editore torinese si affidò ai suggerimenti di alcuni tra ipiù noti uomini di scuola del tempo ed estese alla produzione dellibro scolastico la regola pedagogica del “metodo”. Distribuì i con-tenuti dei programmi in apposite collane di manuali elaborati inmodo unitario e coerente, ma distinti per classe, per materia eanche per ambiente (per esempio scuole urbane e scuole rurali,classi maschili e femminili, ecc.), un modello editoriale ed educati-vo al tempo stesso, che si dimostrò subito efficace e che fu prestomoltiplicato su scala industriale in tutti i campi disciplinari.27

Firenze vantava, dal canto suo, un’antica e gloriosa tradizione dilibri d’istruzione come dimostravano l’attenzione prestata alla pro-duzione della manualistica straniera (Pietro Fraticelli) e ai testiscientifici (Leonardo Ciardetti, Guglielmo Piatti e Stefano Jou-haud) e la qualità delle edizioni dei classici (la tipografia Aldina diPrato). Attraverso il Vieusseux era transitato gran parte del rinno-vamento educativo legato alle esperienze e alle riflessioni di Lam-bruschini, Thouar, Mayer, Capponi, rinnovamento al quale anchei padri scolopi avevano contribuito per la loro parte.

Nonostante questo buon retroterra, Firenze restò inizialmentespiazzata dall’intraprendenza dell’editoria torinese.28 La vicenda deiPrincipj di grammatica del Lambruschini – pubblicati nel 1861 perinserirsi nel processo costitutivo della scuola nazionale e per combat-tere i “pedanti” piemontesi ed adottati, invece, soltanto nelle scuoleelementari di Firenze – può essere presa ad emblematico documento

27. Autori come Giovanni Scavia (sillabari, libri di lettura e grammatiche), Domeni-co Capellina e Casimiro Danna (letteratura italiana), Marco Pechenino (latino e greco),Luigi Schiaparelli (storia e geografia), Gerolamo Boccardo (diritto ed economia), Giu-seppe Antonio Boidi (disegno) predisposero testi destinati a grande fortuna che oltre-passarono le vicende della Tipografia Scolastica i cui magazzini, dopo la chiusura del-l’attività nel 1866, passarono al librario Vaccarino e, quindi, all’editore Grato Scioldo.

28. Fondamentale appare la raccolta di saggi in I. Porciani (ed.), Editori a Firenzenel secondo Ottocento, op. cit. Altri apporti successivi sono: C. Ceccuti, Le Monnier. Duesecoli di storia, Firenze, Le Monnier, 1996 (riedizione ampliata del volume Le Monnier,dal Risorgimento alla Repubblica del 1987); G. Pedullà, Il mercato delle idee. GiovanniGentile e la Casa Editrice Sansoni, Bologna, Il Mulino, 1986 (che, pur dedicato ad unperiodo preciso della casa editrice fiorentina, ne ripercorre anche alcuni fondamentalisnodi tra Otto e Novecento). Più recentemente il tema è stato ripreso e approfonditoanche con nuovi materiali da C. Betti, L’editoria scolastica a Firenze nel secondo Ottocen-to, in Chiosso, Il libro per la scuola tra Sette e Ottocento, op. cit., pp. 183-224.

280 capitolo sesto

delle difficoltà in cui si dibatterono dopo il 1860 i tipografi e gli auto-ri fiorentini che, invano, lamentavano l’approssimazione linguistica el’improvvisazione dei testi che giungevano da Torino.

Il riscatto dei fiorentini fu comunque molto tempestivo ed effi-cace, partendo dai libri di lettura, ambito nel quale potevanoappoggiarsi a valide esperienze.29 Contavano in questo settorel’eredità del Thouar con i suoi racconti, le scenette teatrali, i dove-ri di civiltà, raccolta e proseguita da Pietro Dazzi, Ida Baccini,Carlo Lorenzini fino al “Giornalino della Domenica” di Vamba eBemporad. Il rilancio dell’editoria scolastica fiorentina fu soprat-tutto legata, oltre agli ovvi vantaggi conseguenti al trasferimentodella capitale, alla fortuna della proposta manzoniana di fare delfiorentino parlato la lingua nazionale e, per quanto riguarda piùspecificamente la scuola elementare, all’ipotesi di concentrare aFirenze la formazione delle maestre che avrebbero poi dovuto dif-fondere in ogni parte d’Italia l’uso corretto della lingua italiana.

Se il Paggi e il primo Sansoni si fecero editori di quello che il Rai-cich ha bonariamente definito un “dimesso sermocinare a ragazzi eragazze”30 (ma non per questo si trattò di banale produzione per lascuola elementare e l’infanzia), altre strade intrapresero il Barbèrapromotore della cultura self helpista,31 Le Monnier e il secondoSansoni che affidarono le loro fortune alla circolazione della cultu-ra classica favoriti dalla presenza a Firenze di personalità comeDomenico Comparetti, Girolamo Vitelli, Isidoro Del Lungo,Guido Biagi, Ferdinando Martini e dalla collaborazione di studio-si come Pietro Fanfani, Giosue Carducci, Raffaello Fornaciari,Giovanni Mestica e Francesco Torraca.

In ogni caso fu fondamentale la presenza di un gruppo di accor-ti imprenditori che, Felice Paggi in testa (con le collane “Bibliote-ca scolastica”, “Biblioteca ricreativa” e “Nuova biblioteca educati-va” e alcuni autori di grande successo come i già citati Dazzi, Bac-cini e Lorenzini), seppero rinnovare i cataloghi, adeguandoli allanuova realtà e trovarono autori competitivi rispetto ai “piemonte-

29. M. Raicich, I libri per le scuole e gli editori fiorentini nel secondo Ottocento, cit., pp.324-328.

30. Ibidem, p. 328. 31. D. Frezza, Paternalismo e self-help in Gaspero Barbera, in Porciani, Editori a

Firenze, op. cit., pp. 107-126.

i libri di testo e l’editoria scolastica 281

si”, affidandosi ad una cultura pedagogica e didattica più varia emeno schematica del metodismo.32

Nel 1876 uscì il primo catalogo collettivo dei libri scolastici periniziativa dell’Associazione Tipografico-Libraria Italiana sorta sol-tanto pochi anni prima a Torino in occasione, circostanza noncasuale, dello svolgimento di uno dei periodici Congressi pedago-gici del tempo.33 La decisione stessa di dar vita a una rassegna dellaproduzione editoriale scolastica documenta l’importanza che adappena quindici anni dall’Unità si cominciava ad assegnare a que-sto comparto produttivo.

Il catalogo annoverava, accanto alle imprese maggiori (torinesi,milanesi, fiorentine), anche piccoli e medi tipografi di provincia eaddirittura alcuni autori che vi parteciparono in forma privata.L’iniziativa raccolse tuttavia soltanto 72 adesioni mentre le attivitàpresenti in campo scolastico tra anni ’70 ed anni ’80 erano alcunecentinaia. Salvo poche voci (Marghieri, Morano, Pedone Lauriel) ilMezzogiorno d’Italia appariva del tutto assente e ovviamente nonerano rappresentate le numerose tipografie a dimensioni locali checampavano su mercati di poche centinaia di copie a circolazionemunicipale o poco più. La consuetudine del maestro o del profes-sore di pubblicare le proprie lezioni in forma di manuale durò alungo e questo fenomeno determinò una notevole moltiplicazionedi libri.

Nel 1871 i testi scolastici a disposizione degli insegnanti eranooltre 2 mila, dieci anni più tardi erano quasi il doppio tanto da farparlare di “tropicale ricchezza della flora libraria”.34 Già nel 1875, il

32. Oltre al più volte citato contributo del Raicich offrono altri significativi appor-ti, nello stesso volume, anche i saggi di Giovanni Landucci (pp. 183-229), Ilaria Por-ciani (pp. 473-491) e Gianfranco Tortorelli (pp. 493-501).

33. Catalogo dei libri scolastici d’educazione e d’istruzione per l’anno scolastico 1876-1877, in “Bibliografia italiana”, 1876, suppl. n. 18.

34. L’espressione si trova in una relazione compilata nel 1883 da Anton Giulio Bar-rili a nome di una delle tante commissioni sopra i libri di testo ed è citata da M. Raicichin Di grammatica in retorica, op. cit., p. 49. I dati relativi al 1871 si ricavano dalla Biblio-grafia scolastica compilata a cura dell’Associazione italiana per l’educazione del popolo, Roma-Torino, Paravia, 1871 e quelli riguardanti il 1881 si trovano nella relazione del prof.Luigi Gabriele Pessina predisposta per la stima delle spese necessarie per i lavori del-l’ennesima commissione ministeriale in materia: presso il Ministero giacevano in atte-sa di essere visionati ben 3922 opere di cui 342 riguardavano i licei, 814 i ginnasi, 1048le scuole tecniche, 415 le scuole normali e 1303 le scuole elementari e popolari.

282 capitolo sesto

ministro Ruggero Bonghi esprimeva la convinzione che all’originedi tante pubblicazioni per la scuola non vi fossero particolari ragio-ni pedagogiche o culturali, ma soprattutto interessi di tipo specula-tivo. A sostegno della propria tesi portava l’esempio delle primeclassi elementari con l’elenco dei testi di cui gli alunni si sarebberodovuti provvedere:

“il sillabario, le prime letture a compimento del sillabario, il primolibro di lettura, il catechismo (il “piccolo” che poi non serve per le altreclassi), i racconti di Storia Sacra, l’abbaco, il compendio di aritmetica,i modelli di calligrafia e poi anche i quaderni di calligrafia”.35

Non tutti testi di qualità eccelsa se il Barrili, incaricato in queglianni dal Ministero dell’Istruzione di esaminare il fenomeno deilibri di scuola ne lamentava l’approssimazione culturale36 e il Villa-ri giudicava i libri di lettura “veramente insopportabili per la formasolenne, didattica che assumono sempre... Predicano quandodovrebbero narrare, ragionano quando dovrebbero descrivere epresentare immagini”.37

Quando nel 1883 l’iniziativa del catalogo scolastico collettivoassunse caratteri di una certa regolarità, essa occupava 153 pagine,che salirono a 197 nel 1888, primo anno in cui l’iniziativa apparvecome supplemento del “Giornale della libreria”, per raggiungerele quasi 300 pagine nel 1889 e ampiamente superarle nel 1890. Sulfinire del secolo un’ennesima commissione nominata dal ministroBaccelli ed incaricata di portare un po’ d’ordine nel mondo del-l’editoria per la scuola si trovò di fronte ad oltre 5 mila volumi inattesa di ottenere il prescritto parere preventivo.

Con gli anni ’80 anche Milano sprigionò tutta la sua potenziali-tà nel campo dell’editoria educativa e scolastica in linea con il ruololeader che stava assumendo nel campo tipografico ed editoriale (nel1873 erano in funzione nel capoluogo lombardo 70 tipografie concirca 1600 addetti). Alle imprese già attive nel settore educativo epedagogico (Agnelli, Carrara, Guigoni, Maisner, Messaggi, Pagno-ni, Valentiner e Mues, Pirola) si aggiunsero altre iniziative più spe-cializzate come la casa editrice del “Risveglio educativo”, Trevisini

35. Circolare 30 gennaio 1875, n. 868.36. Raicich, Di grammatica in retorica, op. cit., p. 51. 37. P. Villari, Nuovi scritti pedagogici, Firenze, Sansoni, 1891, p. 241.

i libri di testo e l’editoria scolastica 283

e Vallardi e un poco più tardi Albrighi e Segati. Attenzione per loscolastico ebbero anche Cogliati, Hoepli, Treves, Sonzogno anchese gli interessi scolastici di questi ultimi furono secondari rispettoalle strategie editoriali complessive.

Bisogna partire dalla rivista per maestri “Il risveglio educativo”promossa nel 1884 da un gruppo di giovani insegnanti raccoltiintorno a Guido Antonio Marcati per cogliere una tendenza che simanifestò in tutta la sua forza a fine secolo. Il periodico non solorappresentò una delle voci scolastiche più autorevoli del tempo, macostituì il perno di un’interessante attività editoriale che presenome dal giornale stesso. La rivista fu infatti affiancata da svariatealtre pubblicazioni tutte destinate al mondo della scuola e da uncatalogo interamente pedagogico e scolastico con libri di testo,manuali per i maestri ed i direttori didattici, volumetti di narrativa,divulgazione, guide per la ginnastica.38 Non si trattava certo delprimo e unico esempio di sinergie tra riviste magistrali e libri ditesto,39 ma l’episodio del “Risveglio” si sviluppò con un’ampiezza diorizzonti fino ad allora sconosciuta.

In quegli stessi anni Vallardi e Trevisini entrarono a pieno titolotra i maggiori editori scolastici italiani, giocando a loro volta la

38. Altri periodici collegati con “Il risveglio educativo” furono il celebre giornalet-to di letture per bambini “Frugolino”, fogli legati agli interessi femminili delle mae-stre (“Vita intima”, “L’emporio della ricamatrice”), “Il lavoro manuale”, rivolto aimaestri per l’esercizio delle attività didattiche pratiche. Nel 1897 le edizioni delRisveglio si aprirono anche ai problemi della scuola secondaria con una rivista diret-ta da Ottone Brentari. Sull’intera vicenda del giornale milanese ved. S. Chillé, Edi-toria e scuola a Milano. Il caso del “Risveglio educativo”, in G. Chiosso (ed.), Scuola estampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, Brescia,La Scuola, 1993, pp. 51-66.

39. Le prime iniziative di sinergia tra libri scolastici e giornali per maestri si veri-ficarono a metà degli anni ’60 in Torino con i fratelli, Antonino, Giovanni e Giusep-pe Parato, fecondi autori di una grande quantità di testi da soli e con altri collabora-tori (celebre fu, in particolare, la serie delle grammatiche di Parato e Mottura) e ani-matori della rivista magistrale “La guida del maestro elementare italiano”. Strategieanaloghe praticò anche un altro maestro torinese, Giovanni Borgogno, anch’eglidirettore di un giornaletto settimanale, “L’osservatore scolastico”, attraverso il qualepresentava esercizi e lezioni coerenti con i suoi manualetti di lingua e di aritmetica.Caratteri di maggiore imprenditorialità manifestò Carlo Pozzi che nel 1870 diede vitaall’“Unione dei maestri elementari d’Italia” e, qualche anno più tardi, fondò intornoal periodico la casa editrice l’Unione dei maestri con un catalogo interamente scola-stico e didattico.

284 capitolo sesto

carta del moderno giornale didattico in stretto rapporto con i libridi testo, le collane di letture ricreative, i manuali di pedagogia edidattica, le carte geografiche ed i cartelloni murali.

Il Vallardi, editore già affermato nel settore dei libri e del mate-riale didattico come dimostrano i sontuosi cataloghi apparsi neglianni precedenti sul “Giornale della libreria”, per rafforzare la suapresenza nel mercato dello scolastico, diede vita al “Corriere dellemaestre”, affidato a Guido Fabiani, che era stato uno dei più stret-ti collaboratori del Marcati. Anziché rivolgersi ad un pubblicogeneralizzato, il Vallardi preferì orientarsi verso il pubblico magi-strale femminile che ormai rappresentava circa i 2/3 degli inse-gnanti elementari italiani. Il sodalizio tra l’editore milanese e ilFabiani durò per circa un quarantennio, con un’intensa e fruttuosacollaborazione che si estese dai libri di testo alle collane di letture edi divulgazione e consentì all’editore milanese di assumere, neidecenni successivi, un ruolo di primaria importanza nel settoredella scuola elementare e della letteratura infantile, settore nelquale lo stesso Fabiani diede prove non mediocri.

Poco dopo, nel 1898, anche il Trevisini aprì una rivista per i mae-stri, “Il pensiero dei maestri” (nel 1902 mutò in titolo in “La scuo-la”), con intenti analoghi a quelli del Vallardi, ma con la conquista diquote di mercato meno significativa. Da tempo attivo nel commer-cio librario, negli anni ’80 il Trevisini era entrato in forze nel mer-cato dello scolastico e delle collane per l’infanzia, dimostrandonotevoli capacità e una certa spregiudicatezza, sottraendo, peresempio, Ida Baccini, già affermata scrittrice, ad altri editori. Il fioreall’occhiello del Trevisini fu la collana “Nuova biblioteca educativae istruttiva per le scuole” che ambiva a pubblicare un volume almese e che ebbe il merito, tra l’altro, di tradurre per la prima voltain italiano alcuni importanti “classici” della pedagogia.

Queste esperienze milanesi segnavano un salto di qualità chenon riguardava soltanto un diverso approccio culturale rispetto aipiù schematici confini del moderatismo spiritualistico piemontesee toscano, ma documentavano una mentalità imprenditorialesegnata da cospicui investimenti di capitale, dal reclutamento degliautori più noti e dalla sinergia giornale didattico, libro scolastico eletture per l’infanzia. Nel rivolgersi al pubblico dei maestri e dellemaestre Vallardi e Trevisini riproducevano la strategia dei sistemi

i libri di testo e l’editoria scolastica 285

integrati di giornali e collane letterarie sperimentato e collaudatoda importanti editori come Sonzogno e Treves.40

La maturazione di un impianto editoriale in grado di risponderead una pluralità di istanze culturali, pedagogiche, didattiche e ingrado di restituire in termini di profitti gli investimenti si manife-stò anche in alcune esperienze nel sud dell’Italia.

È tuttavia necessario richiamare, in via preliminare, le note-voli difficoltà che incontrò lo sviluppo del libro in genere e diquello scolastico in particolare nel Mezzogiorno d’Italia.41 Essoriflesse, innanzi tutto, più lenti processi di alfabetizzazione epratiche didattiche più arretrate che spesso facevano a meno deimanuali. Il radicamento di questa consuetudine era così forteche soltanto nel 1866 il comune di Palermo introdusse l’obbligoper i propri insegnanti elementari dell’uso del libro di testo. Inaltre zone del sud l’impiego dei libri ebbe tempi ancor più dila-tati come si evince dalle ripetute segnalazioni degli ispettori sco-lastici.

In secondo luogo il sud dovette scontare la debolezza dellastruttura distributiva e di vendita. Ancora nel 1894 dei circa 4mila punti vendita esistenti in Italia (librerie, cartolibrerie, carto-lerie, edicole, ecc.) quasi l’80% era dislocato al centro-nord e sol-tanto per il 20,6% nel sud e nelle isole.42

Occorre infine sottolineare la dura concorrenza esercitata daimaggiori editori piemontesi, lombardi e toscani, ripetutamentedenunciata da interventi apparsi sulle pagine della “Bibliografia ita-liana” e del “Giornale della libreria”. Non si contano le proteste edi tentativi compiuti in seno all’Associazione Tipografico LibrariaItaliana per dare regole alla prassi degli sconti, ma con risultatimolto incerti. Il catanese Concetto Battiato nel 1888 lamentava, ad

40. G. Ragone, Un secolo di libri, op. cit., p. 32. Su questo argomento ved. anche ilsaggio di A. Gigli Marchetti in G. Turi (ed.), Storia dell’editoria nell’Italia contempora-nea, Firenze, Giunti, 1997.

41. Ved. per questa parte del lavoro il contributo di R. Sani, L’editoria scolastica nel-l’Italia meridionale dell’Ottocento. Itinerari e proposte in Chiosso, Il libro per la scuola traSette e Ottocento, op. cit., pp. 225-275. Ho tenuto inoltre presente M.I. Palazzolo, I treocchi dell’editore. Saggi di storia dell’editoria, Roma, Archivio Guido Izzi, pp. 179-214.

42. Elenco generale dei tipografi, editori e librai ed affini in Italia, Milano, Tip. dell’As-sociazione Tipografico-Libraria Italiana, 1894, tab. 4.

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esempio, il malcostume di importanti editori43 che condizionavanonegativamente il mercato locale nel quale si introducevano attra-verso il sistema dei depositi e delle librerie affiliate a prezzi sconta-ti. Abbiamo già fatto cenno alla presenza della Paravia in varie partid’Italia (Napoli e Palermo comprese), seguita da tutti gli editori piùimportanti, da Vallardi, Paggi-Bemporad, Le Monnier a Loescher,Trevisini, Zanichelli.

Le proteste contro la spregiudicatezza commerciale degli edito-ri maggiori riflettevano in modo emblematico non solo il disagio diun sistema di piccole e talora piccolissime imprese a carattere arti-gianale, ma anche di quelle di maggior respiro, le une e le altreimpreparate ad affrontare la severa legge del mercato.

Indicativo può essere considerato il caso della Storia della letteratu-ra italiana che il De Sanctis pubblicò con il Morano e che lo stessoautore s’impegnò personalmente a far conoscere, lamentando l’inca-pacità diffusionale dell’editore e affiancando la propria iniziativa conalcuni suggerimenti pratici. Non manca di colpire il contrasto con lasituazione del tutto diversa che accompagnò, quasi negli stessi anni,invece la fortuna delle zanichelliane antologie di Carducci e Brillisostenute da un’abile campagna di recensioni favorevoli.44

Fu proprio nel fare i conti con questa situazione che scaturironole condizioni per un rilancio dell’editoria meridionale che comin-ciò a manifestarsi negli anni ’80-’90 con iniziative che ambirono acontrastare o per lo meno contenere lo strapotere delle grandiimprese del centro-nord: Antonio Morano e i suoi eredi a Napoli(che, tuttavia, sul breve-medio periodo pagarono a caro prezzo losforzo di alzare il livello della concorrenza);45 Rocco Carabba nella

43. Lettera aperta di Concetto Battiato in “Giornale della libreria”, 1888, n. 8, p.79. Sulle tormentate vicende della commercializzazione dei libri scolastici ved. ancheF. Cristiano, “Tropicale ricchezza della flora libraria”: l’editoria scolastica nell’Italia unita,in “Accademie e biblioteche d’Italia”, 1997, n. 3, pp. 23-26.

44. Sulle caratteristiche del genere antologico e, nella fattispecie, sul sodalizio trail Giosue Carducci e Ugo Brilli disponiamo del bel lavoro di L. Cantatore, “Scelta,ordinata e annotata”. L’antologia scolastica nel secondo Ottocento e il laboratorio Carducci-Brilli, Modena, Mucchi, 1999 che fa luce anche sulle strategie diffusionali e di vendi-ta (ad esempio, pp. 414 e ss.).

45. L. Mascilli Migliorini, Una famiglia di editori. I Morano e la cultura napoleta-na tra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 1999. I cataloghi di Morano degli inizi anni’90 documentano una netta prevalenza d’interessi verso il mondo della scuola con

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piccola cittadina di Lanciano, in provincia di Chieti; Nicola Gian-notta e Concetto Battiato a Catania; Giuseppe Principato a Messi-na e Remo Sandron a Palermo, la cui esperienza è stata oggetto dipuntuali ricerche proprio nel campo dell’editoria scolastica e si pre-senta, al momento, meglio documentata rispetto ad altre iniziative.

Gli orizzonti di Remo Sandron assunsero col tempo fisionomiae caratteristiche nazionali fino a percorrere a ritroso la strada ditanti editori del nord, con la creazione di una rete di filiali in tuttele maggiori città italiane (non solo Napoli e Roma, anche Milano,Torino, Genova e Bologna) in grado di assicurare una distribuzio-ne capillare. Alla base del successo che portò il Sandron ad entra-re nel novero delle più importanti case editrici italiane c’erano varifattori: moderni impianti tipografici che, in analogia a Paravia eVallardi, gli consentivano di curare in proprio le varie fasi dellapubblicazione dei suoi volumi, un ricco catalogo in grado dirispondere alle esigenze del mondo della scuola soprattutto ele-mentare e normale e, in secondo tempo, anche secondaria,46 unapubblicità insistente sui giornali magistrali. Si trattava, nellasostanza, di un modello imprenditoriale che a fine secolo, appari-va ormai abbastanza generalizzato almeno a livello delle maggioriimprese.

All’inizio del Novecento, quando Sandron incontrò LombardoRadice e Gentile e ne divenne per un certo periodo di tempo l’edi-tore, passando con pragmatica disinvoltura da alfiere della culturapositivista e tardo-positivista a voce autorevole di quella idealista,costituiva ormai una realtà importante ben oltre i confini dell’Italiameridionale. La pubblicazione della rivista per le scuole medie,“Nuovi doveri” diretta da Giuseppe Lombardo Radice, costituisce

abbondanza di edizioni e di riedizioni o di specifiche segnalazioni di adozioni chetestimoniano un’ampia presenza i cui nomi di maggiore spicco, nel campo della scuo-la elementare, erano quelli di Giuseppe Vago (fecondo autori di sillabari e libri di let-tura, sacerdote, docente nel prestigioso Liceo Vittorio Emanuele, che richiama altrefigure di ecclesiastici impegnati in varie parti d’Italia nel campo della pubblicisticascolastica), Giuseppe De Luca (per la geografia), Luigi Pinto (scienze) e FrancescoBertolini (storia). Nel 1897, tuttavia, l’azienda dovette far fronte a una forte crisi diliquidità e dovette essere riordinata con il ridimensionamento della presenza nelcampo della scuola elementare e della cultura locale (pp. 123-125).

46. Sul Sandron ved. il già citato saggio di R. Sani (ved. nota 41) e M.I. Palazzo-lo, I tre occhi dell’editore, op. cit., pp. 215-259.

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una delle pagine più alte nella storia della cultura scolastica delprimo Novecento.47 Intorno ad essa si coagulò una quota rilevantedi studiosi di questioni pedagogiche ed educative impegnati a rin-novare non solo la scuola, ma la cultura nazionale, molti dei qualimigrarono poi con il Lombardo Radice presso Battiato di Cataniae, quindi, nelle edizioni della prezzoliniana “Voce”.

A fine secolo era ormai consolidata la mappa dell’editoria specia-lizzata per la scuola in Italia i cui capisaldi, per la qualità e quantitàdel loro catalogo scolastico, erano Paravia, Loescher, Petrini, GratoScioldo, Tipografia dell’Oratorio di don Bosco a Torino; Agnelli,Carrara, Hoepli, Trevisini, Vallardi a Milano; Barbèra, Le Monnier,Sansoni, Bemporad a Firenze; Zanichelli a Bologna, Morano aNapoli, Giannotta a Catania, Sandron a Palermo, oltre a qualcheimpresa di provincia capace di competere con le maggiori comeLapi di Città di Castello, Carabba di Lanciano e Giusti di Livorno.

L’aumento del numero dei testi classificati “scolastici” fu propor-zionale alla crescente espansione dell’editoria in genere, occupandouna quota media che, per tutto il secondo Ottocento e fino allariforma del 1923, oscillò tra l’8,5% e il 10% della produzione tota-le. Oltre ai testi manualistici vanno inoltre considerati i libri di let-ture amene, i “libri premio”, i testi di narrativa storica e di divulga-zione scientifica rivolti al pubblico infantile e giovanile che fian-cheggiavano e integravano il genere “scolastico” e spesso venivanoimpiegati anche per uso didattico. La percentuale sale così intornoal 13-15%, quota che dimostra come questo settore fosse vitale perl’editoria.

Tanta abbondanza non era solo il frutto di una spietata concor-renza o, se si preferisce, “una escrescenza mostruosa propria del-l’arretratezza nazionale, di un individualismo retorico e ignorante aun tempo”.48 Essa rifletteva i problemi e i conflitti dell’Italia postunitaria e i tentativi di risolverli per via pedagogica mediante l’inte-riorizzazione del sentimento nazionale, la promozione delle virtùdel buon cittadino, il sostegno all’idea positiva del lavoro, associati

47. Tra le altre iniziative si deve al binomio Sandron-Lombardo Radice la pubbli-cazione di una delle prime collane italiane di classici della pedagogia con introduzio-ni di notevole valore (ved. quanto presentato in G. Cives, G. Genovesi, P. Russo[edd.], I classici della pedagogia, Milano, Angeli, 1999, pp. 40-42).

48. Raicich, Di grammatica in retorica, op. cit., p. 51.

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al contenimento del minaccioso profilarsi del socialismo e al rispet-to del sentimento religioso complicato dai controversi rapporti conla Chiesa e il mondo cattolico e dalla concorrenza ideologica tra lescuole governative e quelle confessionali.

I libri che circolano nelle scuole – non soltanto quelli stretta-mente di testo, ma anche quelli in uso per letture e forme ricrea-tive – sono, perciò, qualcosa di più che un semplice strumentodidattico. Essi rappresentano un documento significativo percogliere come si costruisce il consenso sociale, si trasmettonoideali e si veicolano modelli di vita. Le antologie letterarie, i testidi storia e di filosofia nelle scuole secondarie e i libri di lettura,quelli di geografia e di educazione civica (materia denominata neiprogrammi scolastici del tempo “Diritti e doveri del cittadino”)per le scuole elementari costituiscono, più di altri, a questo riguar-do casi esemplari.

Neppure gli editori possono sfuggire a fornire risposte a questionicosì decisive e, dunque, non è certamente difficile cogliere gli orien-tamenti abbastanza espliciti che ne connotano la linea editoriale.

E – per limitarci a qualche esempio che può tuttavia dare l’ideadegli schieramenti in campo – se il catalogo di Paravia si sforzerà dipresentarsi costantemente con caratteri di ecletticità attestata suuna linea nazional-risorgimentale, altri editori compiono scelte più“schierate” e in qualche caso addirittura militanti.

Alla produzione del fiorentino Barbèra, ad esempio, vanno asso-ciate l’attenzione e la simpatia per cultura del self helpismo che, traFranklin, Smiles e Lessona, ambiva a creare un nuovo stile di vitanutrito di una ottimistica concezione del progresso. Nel torineseScioldo e nel fiorentino Le Monnier si trovano evidenti consensiper il moderatismo innervato di istanze liberal-cattoliche. Nettoappare, invece, in Sandron e Loescher il fiancheggiamento delpositivismo e gli stretti rapporti del cenacolo carducciano e Zani-chelli fanno dell’editore bolognese certamente una delle voci piùsignificative della Terza Italia sia nel campo delle discipline umani-stiche sia in quello delle materie scientifiche. L’editoria salesiana,prima e dopo don Bosco, si presenta infine come un emblematicoesempio di un cattolicesimo vissuto a tutto tondo, punta di un ice-berg che sprofonda nei complessi e spesso irrisolti sentimenti trafede religiosa e coscienza nazionale.

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4. Il mercato del libro scolastico

Nel libro di scuola non si congiungono soltanto finalità pedago-giche e politiche in senso lato e talora anche in senso proprio. Illibro di scuola è soprattutto un prodotto da vendere in un mercatodalle caratteristiche tuttavia particolari perché garantito dalle ado-zioni compiute dagli insegnanti. Quanto oggi, a posteriori, ci appa-re abbastanza lineare non risultava però altrettanto chiaro ai prota-gonisti di quel tempo e, come abbiamo già accennato, l’obbligato-rietà dell’uso del libro di testo fu una conquista alquanto lenta chesi protrasse per molti decenni.

Non era affatto scontato, come abbiamo già accennato nellepagine precedenti, che nelle scuole si usassero i libri di testo nelsenso che oggi attribuiamo a questa espressione. Laddove la scuo-la era più formalizzata (come ad esempio nel caso del Lombardo-Veneto o delle scuole gestite in varie parti d’Italia dai Fratelli delleScuole Cristiane) l’uso del libro di testo era abbastanza codificato,ma in altri casi l’apprendimento della lettura e della scrittura el’esercizio del calcolo avvenivano secondo varie modalità e construmenti spesso occasionali.

Fin dal Piemonte degli anni ’50 l’intermittente impiego deimanuali è ben presente alle autorità scolastiche. Le relazioni com-pilate dagli ispettori scolastici nei primi decenni unitari lamentanoche i maestri non sempre si avvalgono di libri, preferendo pratica-re metodi basati su appunti personali con ampio ricorso all’uso deldialetto specie nelle scuole rurali. A fine Ottocento nelle realtàrurali e di montagna si trovavano ancora scuole senza libri o conlibri eterogenei che gli allievi più piccoli ereditavano dai fratellimaggiori o ceduti da qualche altra famiglia o regalati da qualchebenefattore.

La concezione del libro di scuola, come si è già sopra indicato,resta alquanto flessibile per buona parte del secolo e i maestriricorrevano spesso anche a opere non espressamente compilatecome libri di testo. Il caso del Giannetto con la serie infinita dei suc-cessivi imitatori, delle novelle del Soave, del Taverna e del Cantù,delle Memorie di un pulcino della Baccini, dello stesso Pinocchio, maanche delle vita dei santi – continuamente ristampate dalle tipogra-

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fie cattoliche ad uso non solo devozionale ma anche scolastico – lodocumentano senza ombra di dubbio.

La convinzione di una scuola elementare che può fare a menodei libri di testo restò a lungo abbastanza diffusa, in specie nell’Ita-lia meridionale, e venne superata molto lentamente nonostantel’insistito richiamo dei programmi ministeriali sull’importanza delloro impiego.

Nelle conferenze magistrali promosse dal Ministero verso lametà degli anni ’80 per migliorare la preparazione didattica deimaestri è ricorrente la convinzione che si possa fare scuola senzaaver bisogno di libri, con la sola eccezione di quello di lettura. Sullascorta di antiche consuetudini – e qui emergeva tutta la distanza trala scuola descritta nelle circolari del Ministero e invocata dallapedagogia del tempo e la quotidiana vita scolastica – non era incon-sueto incontrare chi riteneva fosse meglio affidarsi più che ai librialla sola capacità didattica dei maestri:

“Tutte le materie sieno insegnate senza il libro di testo [in nome] delprincipio pedagogico che insegna di procedere dalla pratica alla teoria...L’unico libro utile da porre nelle mani degli allievi è quello di letturache deve comprendere, oltre alle buone letture, diritti e doveri, storiacontemporanea, nozioni di scienze naturali... Tutti i libri che non sianoil libro di lettura possono valere come mezzo di studio fuori dalle ore discuola e come sussidio di ripetizione o di complemento”.49

“Supponendo che il maestro abbia capacità intellettuale e didattica... sipotrebbero abolire tutti i libri di testo, giudicandoli inutili per il mae-stro e poco utili, se non dannosi per gli alunni stessi... Poiché, forse, nontutti i maestri sono adatti a dettare convenientemente i sunti da studia-re a casa” i libri potevano sopperire “alle mancanze del maestro”.50

Ancora agli inizi del Novecento Giuseppe Lombardo Radicelamentava che troppi maestri dettassero le lezioni senza tenereconto del libro adottato.51

L’impiego dei manuali risultava intermittente anche in un altro,e del tutto diverso, contesto: quello delle scuole secondarie, tanto

49. Atti delle Conferenze pedagogiche che si tennero negli anni 1881, 1882, 1883, Roma,Tipografia Sciolla, pp. 500-502.

50. Ibidem, p. 460. 51. G. Lombardo Radice, Lezioni di didattica e ricordi di esperienza magistrale,

Palermo, Sandron, 1913, p. 156.

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classiche quanto tecniche nelle quali molti docenti provvedevanocon appunti e sunti anziché affidarsi al libro di testo. Per contrasta-re questo fenomeno si susseguirono ricorrenti circolari ministerialiche tra gli anni ’60 e ’70 imponevano l’obbligo delle adozioni.

Alla questione si dedicò con particolare costanza il ministroBonghi che, tra le altre varie iniziative intraprese, nel 1875 stabilìche i professori dei ginnasi e dei licei erano tenuti a indicare

“i libri di testo che vogliono adoperare; e quando risolvono che non vene abbia alcuno abbastanza buono, s’accingano a compilarne uno essistessi, assoggettandosi il Ministero alla spesa di farlo autografare”.52

Raccomandazione restata presumibilmente allo stadio dell’au-spicio se, pochi anni più tardi, il ministro De Sanctis era costrettoad emanare una nuova circolare con cui sollecitava le autorità sco-lastiche locali affinché in tutte le scuole secondarie si provvedessead indicare “un appropriato libro di testo” per ciascuna discipli-na.53 Sotto controllo erano tenuti soprattutto i docenti di filosofiaper ragioni fin troppo ovvie, specie se si tiene conto che molte cat-tedre liceali erano occupate da ecclesiastici già docenti nei collegipre unitari.

L’insistenza sull’uso dei libri di testo nelle scuole pubbliche nellaspecifica versione del manuale (in quelle private il Ministero potevaintervenire solo nel caso fossero impiegati “libri nocivi”) era la con-seguenza di una doppia preoccupazione e si legava simbolicamenteall’introduzione dell’obbligatorietà della frequenza scolastica.

La prima era di tipo politico: era più che possibile che gli inse-gnanti da soli, preparati in modo diverso nelle varie realtà locali etalvolta molto raffazzonato, non di rado ostili54 e spesso incolti, nonfossero da soli in grado di rendere un minimo omogenea e leale neiconfronti della nuova situazione la formazione dei giovani italianise non si fossero appoggiati a manuali autorizzati dal Ministero. Intal senso si esprimeva il più volte ministro dell’Istruzione Coppino

52. Circolare 24 febbraio 1875, n. 422.53. Circolare 27 dicembre 1879, n. 597.54. M. Raicich, L’inchiesta Scialoja e la crisi della politica scolastica della Destra, in L.

Montevecchi, M. Raicich (edd.), L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschi-le e femminile (1872-1875), Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali - Ufficiocentrale per i beni archivistici, 1995, pp. 47-51.

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nell’intervenire a una seduta della inchiesta Scialoja nel 1873,sostenendo la necessità dei libri di testo perché “l’insegnamentosecondario non è il terreno della libertà, specialmente per ciò cheriguarda la filosofia e la morale”.55

La seconda era di natura didattica: al metodismo pedagogicopiemontese – la pedagogia ispiratrice della legge Casati e che sistava esportando nel resto dell’Italia, squadrata, un po’ pedante,facile da controllare a livello centrale – era del tutto estraneo ilprincipio della pluralità dei metodi educativi che pur vantavanoindiscussa validità (come nel caso della Toscana) o erano forte-mente radicati nelle tradizioni locali (come nel caso dell’insegna-mento privato in Napoli). C’è a questo proposito una bella paginadi Luigi Settembrini nella quale si ironizza su una presunta Socie-tà dei pallottisti sorta in Piemonte per diffondere l’uso del pallot-toliere e che i piemontesi pretenderebbero, in spregio alle diversesituazioni locali, di esportare in tutto il resto dell’Italia appenaunificata.56

Non fu dunque un episodio estemporaneo se per almeno unquindicennio si discusse se non fosse il caso di pensare, almeno peri primi due-tre anni della scuola elementare (e cioè per il periododell’obbligo scolastico), ad un libro unico predisposto dallo Stato.Ancora nel 1894 la proposta fu rilanciata dal ministro Baccelli, masenza esito perché gli interessi degli editori finirono per prevaleresui propositi ministeriali.57

55. Montevecchi, Raicich, L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile efemminile (1872-1875), op. cit., p. 244. Opinioni analoghe espresse anche PasqualeVillari: “Credo che la libertà vada [rispettata] fino ad un certo limite, fino ai limitidella scienza comune, e quando si va contro non deve più esservi libertà. Una voltac’era la mania di imporre i libri di testo e questo era dannoso; d’altro lato abbandona-re assolutamente senza alcuna sorveglianza non mi pare utile” (ibidem, p. 384).

56. Ved. in G. Talamo, La scuola. Dalla legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano,Giuffré, 1960, pp. 150-153.

57. Si veda la circolare 27 aprile 1894, n. 44 nella quale il Baccelli lamentava perl’ennesima volta i mali di un’editoria scolastica pletorica e il prevalere degli interessieconomici sulla qualità dei testi: “a toglier via questi mali – questa era la conclusionedel ministro – c’è un solo rimedio, quello dei testi governativi, unici in tutte le scuo-le. È mio intendimento adottarlo; ma non si può dall’oggi al domani, perché non siimprovvisano dall’oggi al domani i buoni libri che mancano per le nostre scuole ele-mentari e secondarie”. Contro questi intendimenti del ministro si levò alta la protesta

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La mediazione che nei fatti si realizzò tra le disposizioni ministe-riali e le prassi scolastiche locali fu piuttosto quella della moltiplica-zione dei libri per tutti i tipi di scuola compilati da maestri e pro-fessori locali, stampati dalle piccole tipografie e librerie del posto eadottati in ambito circoscritto.

Singoli insegnanti e Società di insegnanti sfornano testi a circo-lazione al massimo provinciale e spesso li intrecciano con guidedidattiche e giornali magistrali per aiutare i maestri dall’incertaprofessionalità a fare scuola. Si verifica così un fenomeno davveroparadossale: a fronte di una scuola nella quale il manuale non haancora conquistato quella centralità che dovrebbe garantire l’uni-formità del sistema si manifesta una ridondanza di testi ripetuta-mente censurata dal Ministero che invano si sforza di porre unargine a tanta abbondanza.

Nella miriade dei libri compilati ad uso locale non mancaronotuttavia alcuni casi destinati a diventare autentici best sellers scolasti-ci. Gli editori maggiori seguono questa produzione minore allaricerca di nuovi testi in grado di essere lanciati sul mercato nazio-nale. La prima edizione del Disegno storico della letteratura italiana diRaffaello Fornaciari, uno dei testi più fortunati del secondo Otto-cento e riedito fino agli anni ’30 del Novecento, altro non era cheil testo delle sedici lezioni che il Fornaciari dettava ai suoi alunni diLucca.58 Lo Zanichelli, a sua volta, fu lesto a accaparrarsi i volu-metti di geografia per le scuole elementari che Domenico Gianni-trapani aveva inizialmente pubblicato con un piccolo stampatorebolognese.59 E Paravia alla morte di Giuseppe Borgogno, uno degliautori per le classi elementari più adottati nel secondo Ottocentoche fu a lungo editore di se stesso, ne rilevò i diritti, nella speranzadi prolungarne la fortuna.60

degli editori che ebbe il suo momento più significativo nel congresso dell’Associazio-ne Tipografico-Libraria Italiana del settembre 1894 che si espresse unanimementecontro l’introduzione dei libri unici per l’insegnamento nelle scuole elementari, ved.il “Giornale della libreria”, 1894, n. 36-37, p. 351.

58. M. Parenti, G.C. Sansoni editore in Firenze, Firenze, Landi, 1955, p. 42. 59. M. D’Ascenzo, Bologna in età liberale: tipografie vecchie e nuove, in Chiosso, Il

libro per la scuola, op. cit., p. 151. 60. Targhetta, La capitale dell’impero di carta, op. cit., p. 44.

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Intorno alla torta scolastica si affollano, dunque, molti convitati:piccoli stampatori e librai locali sostenuti dagli interessi di inse-gnanti e ispettori che non di rado si avvalevano “dell’autorità del-l’ufficio loro, per aumentare la vendita dei propri libri”,61 editoricon ambizioni di mercato un poco più vaste che riservano unasezione del loro catalogo ai libri di scuola e infine le imprese mag-giori che si attrezzano con cataloghi specializzati e con una presen-za capillare sull’intero territorio nazionale. Le pagine del “Giorna-le della libreria” traboccano di lamentele, proteste, denunce, resti-tuendoci un clima editoriale non proprio idilliaco.

Dagli elenchi dei libri di testo approvati per le scuole elementa-ri nel 1898 pubblicati in varie puntate sul “Bollettino” del Ministe-ro dell’Istruzione Pubblica emerge la mappa della produzione edi-toriale scolastica tra Otto e Novecento nel settore dell’istruzioneprimaria (sillabari, libri di lettura, sussidiari, testi di storia e geo-grafia, ecc. per un totale di 667 titoli).62 Purtroppo non disponia-mo, al momento, dei dati riguardanti le effettive adozioni e non èquindi possibile il confronto tra l’offerta e la domanda. Si tratta inogni caso di indicazioni significative per cogliere i rapporti di forzatra gli editori.

In testa alla graduatoria c’erano ben saldi Paravia di Torino (87titoli oltre a ulteriori 16 in collaborazione con altri editori) e il fio-rentino Bemporad-Paggi (78), seguiti da Sandron di Palermo (63).Più indietro c’erano un altro editore torinese, Grato Scioldo (35), idue milanesi Trevisini (33) e Vallardi (28), la Dante Alighieri diRoma (25), Biondo di Palermo e Agnelli di Milano (23), Carabbadi Lanciano (20) e Battei di Parma (19). Nelle posizioni di rincalzosi trovavano altre tre imprese milanesi, Treves, Messaggi, Dabalà &

61. Così denunciava la circolare 21 luglio 1891, n. 1001 nella quale si lamentavainoltre “la mutabilità continua dei libri di testo soprattutto nelle scuole elementari”nelle quali spesso si imponeva “l’uso di nuove edizioni dello stesso libro che nulla dif-feriscono dalla precedente edizione”. In una successiva circolare (20 agosto 1895, n.59) si affermava la necessità di “dare al maestro la forza di resistere alle sollecitazioni,alle insistenti preghiere ed alle pressioni talvolta anche illecite ed indelicate, cui daogni parte, alla vigilia dell’apertura delle scuole, si trova esposto per opera di chi vor-rebbe indurlo ad adottare libri cattivi”.

62. “Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica”, n. 36 (8 settembre1898), pp. 1605-1653; n. 40 (8 ottobre 1898, pp. 1806-1808); n. 47 (24 novembre1898, pp. 2151-2157).

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Casaccia e la libreria editrice torinese Petrini. A fronte dei 2/3 deitesti stampati tra Torino, Milano, Firenze e Palermo (modesterisultavano le presenze di editori e tipografi di Napoli, Venezia eGenova) stava oltre una sessantina di piccoli e medi editori sparsiin tutta Italia con non più di tre titoli ciascuno: l’elenco comincia-va con il bresciano Apollonio per chiudersi con il livornese Vigo,passando per Conti (Faenza), Gambierasi (Udine), Gazzotti (Ales-sandria), Guerra (Perugia), Muglia (Messina), Natale (Taranto),Riccio (Cosenza) e altri ancora.

Una radiografia non dissimile, anche se con protagonisti in partediversi, scaturiva dagli elenchi dei circa 1600 testi adottati nellescuole secondarie (libri per i diversi tipi di scuola – classica, tecni-ca, normale – e per ogni disciplina) alla vigilia della Grande Guer-ra.63 In questo caso i dati sono più interessanti perché riferiti all’ef-fettiva circolazione dei libri pubblicati.

La fetta più significativa del mercato (intorno, anche in questocaso, ai 2/3 del totale) era appannaggio di poco più di una quindi-cina di grandi editori: Paravia si confermava l’editore più rappre-sentato con ben 198 segnalazioni, seguito, ma a notevole distanza,da Albrighi e Segati di Milano (112), Giusti di Livorno e dal fio-rentino Sansoni (99). Soltanto Sandron (76) e Zanichelli (58) spez-zavano l’egemonia piemontese-lombarda-toscana, ma nelle posi-zioni d’immediato rincalzo si affacciavano altri fiorentini (Barbèra,62, Bemporad, 50 e Le Monnier, 45), milanesi (Francesco Vallardi,52 e Hoepli, 43), torinesi (Petrini, 48 e Loescher, 36). Il primo edi-tore napoletano nell’elenco, Perrella, contava soltanto 24 segnala-zioni e ancor più arretrate risultavano altre imprese partenopeecome Pierro, Morano, Pellerano. Tra gli editori di provincia conun mercato non solo locale, c’erano Cappelli (già proiettato versoun roseo avvenire con il trasferimento da Rocca S. Casciano aBologna), il già ricordato Carabba (Lanciano), Lapi (Città diCastello), Giannotta (Catania) oltre a numerosi piccoli stampatorilocali che affidavano le loro fortune ad un modesto mercato di nic-chia con non più di un paio di testi ciascuno.

63. Gli elenchi dei testi adottati nell’anno scolastico 1914-1915 nelle scuole secon-darie di ogni tipo e grado sono stati pubblicati in varie puntate nel “Bollettino ufficia-le Ministero dell’Istruzione Pubblica” nelle annate 1915, 1916 e 1917.

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Nonostante la permanenza nei circuiti dell’editoria scolasticadi un certo numero di tipografi e librai di provincia, nel passaggiotra i due secoli si manifestò tuttavia il graduale declino dell’edito-ria scolastica locale. La produzione di libri scolastici che per tuttoil secolo si era articolata in una miriade di tipografie e di libreriepresenti ovunque si avviò a essere sempre più dominata da alcunegrandi imprese editoriali in grado di competere sull’intero terri-torio nazionale. Si fece così sempre più netta e incolmabile ladistanza tra i grandi editori ed i piccoli tipografi e librai locali lacui produzione in genere non oltrepassava le dimensioni cittadi-ne o della provincia.

Alle difficoltà di reggere la concorrenza di chi operava con crite-ri imprenditoriali si unì un’altra, più specifica, ragione collegata alrapido mutare dei programmi d’insegnamento che si susseguì dopoil 1880. Mentre per gli editori maggiori i nuovi programmi rappre-sentavano l’occasione per ampliare e rinnovare i cataloghi e raffor-zarsi sul mercato, i piccoli editori, che si affidavano per lo più adocenti interessati a pubblicare i loro libri, avevano invece bisognodi grande stabilità, non trovandosi in condizione di reggere il ritmodei cambiamenti. Fu comune a molte imprese di provincia il tra-monto della loro presenza nello “scolastico” proprio in coinciden-za con l’obsolescenza dei testi e la contestuale incapacità di rinno-vare il catalogo.

5. L’educazione dell’Italiano nei libri di lettura

Questa rapida scorribanda tra gli editori dei libri di scuola e perl’infanzia del xix secolo sarebbe molto lacunosa se non esaminassi-mo anche le caratteristiche intrinseche dei libri e la pedagogia cheli ispira e li orienta, con l’avvertenza che di fronte all’immenso ter-ritorio da esplorare che spazia dall’istruzione elementare a quellatecnica e liceale sarà giocoforza necessario concentrare l’attenzionesoltanto su pochi aspetti della produzione editoriale.

Mancano a tutt’oggi, salvo le poche eccezioni di cui dirò subi-to, studi approfonditi sui libri di testo relativi alle diverse discipli-ne. Non disponiamo neppure di un censimento delle opere scola-stiche e fino alla pubblicazione dei due repertori noti con l’acro-

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nimo di Teseo era persino ignota la mappa dell’editoria per lascuola e l’educazione. Sono anche carenti e in non rari casi deltutto inesistenti, le ricerche sui rapporti tra l’evoluzione scientifi-ca di una certa materia e la sua veicolazione didattica. Soltantomolto recentemente sono state avviate apposite ricerche in talsenso.

Le poche, ma significative, eccezioni cui ho fatto cenno riguar-dano i testi di storia,64 le grammatiche italiane,65 le antologie lette-rarie,66 i libri di geografia e la cartografia geografica,67 la manuali-stica per l’insegnamento del francese,68 qualche sondaggio incampo matematico e scientifico69 e poco altro.

Un discorso in parte diverso riguarda i libri di lettura per l’istru-zione elementare e popolare, un ambito che è stato invece già abba-stanza esplorato e approfondito e su cui è possibile compiere nonsoltanto analisi e confronti a maglia larga, ma entrare con maggiorcognizione di causa nel merito della produzione, dai contenuti deilibri alle pratiche didattiche che li accompagnavano.

64. A. Ascenzi, Tra educazione etico-civile e costruzione dell’identità nazionale. L’inse-gnamento della storia nelle scuole italiane dell’Ottocento, Milano, Vita e pensiero, 2004.

65. M. Catricalà, Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1860 al 1918,Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1991 e L’italiano tra grammaticalità e testua-lizzazione. Il dibattito linguistico-pedagogico del primo sessantennio unitario, Firenze, pres-so l’Accademia della Crusca, 1995.

66. L. Cantatore, “Scelta, ordinata e annotata”. L’antologia scolastica nel secondo Otto-cento e il laboratorio Carducci-Brilli, op. cit.

67. M.L. Sturani, “I giusti confini dell’Italia”. La rappresentazione cartografica dellaNazione, in “Contemporanea”, 1988, n. 3, pp. 427-446; G. Pécout, La carta d’Italianella pedagogia politica del Risorgimento, in A.M Banti, E. Bizzochi (edd.), Immaginidell’Italia nel Risorgimento, Roma, Carocci, 2002, pp. 69-87.

68. N. Minerva, C. Pellandra, Insegnare il francese in Italia. Repertorio di manualipubblicati dal 1625 al 1860, Bologna, Patron, 1991; N. Minerva (ed.), Insegnare il fran-cese in Italia. Repertorio di manuali pubblicati dal 1861 al 1922, Bologna, Clueb, 2003;A.M. Mandich, Insegnare il francese in Italia. Repertorio di manuali pubblicati in epocafascista (1923-1943), Bologna, Clueb, 2002.

69. L. Barile, Editoria di fine secolo. I manuali Hoepli e la divulgazione scientifica, in“Nuova antologia”, 1981, n. 2140, pp. 176-207; R. Tazzioli, M. Becchere, Il concet-to di volume nei libri di testo: una analisi storico-critica nell’ambito dell’evoluzione dei pro-grammi (1867-1986), in “L’educazione matematica”, 2000, n. 2, p. 102-115; L. Gia-cardi, I manuali per l’insegnamento della geometria elementare in Italia fra Otto e Nove-cento, in Teseo. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, Milano, EditriceBibliografica, 2003, pp. xcvii-cxxiii.

i libri di testo e l’editoria scolastica 299

L’interesse per i libri di lettura è spiegato da svariate ragioni: laconsuetudine risalente fin dal Settecento di associare all’abbece-dario semplici letture attraverso cui trasmettere norme morali equalche sobria nozione per la vita quotidiana; l’importanza attri-buita dai programmi scolastici a questo testo;70 l’imponenzaquantitativa del genere editoriale e infine l’intreccio a scopi edu-cativi tra i libri di lettura e la letteratura amena per bambini eragazzi.

Alla conoscenza dei libri di lettura ha infine contribuito la valo-rizzazione che ne hanno fatto gli storici dell’educazione per la loronatura di fonte per cogliere “dal di dentro” la vita della scuola, losvolgersi quotidiano delle prassi educative con i valori di riferimen-to, il sentimento dell’infanzia vissuto non solo da maestri e educa-tori, ma anche dalle comunità piccole e grandi nelle quali la scuolastava assumendo un’importanza crescente.71

Non va infine sottovalutato il fatto che i libri di lettura eranoquelli più diffusi in assoluto, in pratica gli unici impiegati in manie-

70. A titolo d’esempio si riporta quanto raccomandato dalle Istruzioni e Program-mi per l’insegnamento della lingua italiana e dell’aritmetica emanati con R.D. 10 otto-bre 1867 (cosiddetti Programmi Coppino): “Rispetto ai libri [di lettura] non si ècreduto di indicarne il contenuto; però è appena necessario di avvertire, che lamateria di essi, gradualmente adatta all’intelligenza e all’età degli alunni ed alle sin-gole classi deve essere tale che, evitando ogni futilità, somministri per via facile epratica alimento all’intelletto e al cuore di giovinetti. E alla materia del libro di let-tura venir deve in soccorso, ove sia d’uopo, il senso e il sapere del maestro [...] Ilmaestro interroghi gli scolari sulle cose lette per accertarsi che le abbiano intese; esvegli e rettifichi la coscienza, domandando sui fatti loro narrati il loro giudizio”.Avvertenze sostanzialmente analoghe si trovano nei successivi Programmi del 1888e del 1894.

71. E. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, op. cit., pp. 225-238; V.Vergani, M.L. Meacci, 1800-1945. Rilettura storica dei libri di testo della scuola ele-mentare, Pisa, Pacini, 1984; M. Bacigalupi, P. Fossati, Da plebe a popolo. L’educa-zione popolare nei libri di lettura dall’Unità d’Italia alla Repubblica, La Nuova Italia,1986; S.A. Costa, La scuola e la grande scala. Vita e costume nella scuola siciliana dal1860 agli inizi del Novecento, Palermo, Sellerio, 1990, pp. 133-147; M.C. Moran-dini, I libri di lingua italiana prima e dopo l’Unità, in Teseo, Tipografi e editori scolasti-co-educativi dell’Ottocento, op. cit., pp. xlix-lxii. Qualche utile riferimento anche inD. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, pp.474-502 e in G. Verucci, L’Italia laica prima e dopo l’Unità. Anticlericalismo, liberopensiero e ateismo nella società italiana, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 171-178.

300 capitolo sesto

ra generalizzata nelle scuole elementari. La realtà era infatti moltodiversa dalle minute disposizioni che regolavano le adozioni deilibri scolastici all’indomani dell’Unità.72

Nelle cartelle dei piccoli scolari molto spesso c’erano soltanto illibro di lettura, non sempre quello di aritmetica (in qualche caso ilibri di lettura portavano infatti in appendice anche le nozioniessenziali per imparare a contare) e, là dove era previsto l’insegna-mento religioso, il catechismo o la storia sacra.

I libri di lettura erano, dunque, gli incontrastati dominatori dellascena: pubblicazioni di poche decine di pagine, compilate in gene-re da maestri e ispettori scolastici, dalle caratteristiche tipografichemolto sobrie e vendute a prezzi abbordabili per tutte le tasche.

Era solo a partire dalla quarta classe (frequentata tuttavia soltan-to dalla minoranza di allievi che proseguivano gli studi oltre glianni dell’istruzione obbligatoria: nel 1878 le classi superiori e cioèquarta e quinta rappresentavano appena l’11,9% della scolarità ita-liana)73 che comparivano altri testi come quelli di grammatica, sto-ria, geografia, scienze naturali, diritti e doveri. I libri di storia – chehanno attratto per ragioni ovvie molte attenzioni degli studiosi –entrarono nelle classi elementari obbligatorie soltanto alla finedegli anni ’80, quasi trent’anni dopo la proclamazione del Regno.In precedenza essa era affidata alla semplice presentazione di bio-grafie esemplari.

C’è dunque più di una ragione per soffermarsi su questi testi lacui incidenza è indicativa di come si pensasse la formazione del pic-colo Italiano.

Il loro esame non può che iniziare dalla concezione dell’infanziache essi veicolano. Certamente l’attenzione prestata dalla culturaromantica verso l’infanzia, il riconoscimento dell’importanza degliaffetti e in particolare del rapporto madre-figlio per la crescita del

72. Circolare 30 gennaio 1875, n. 868. Per quanto riguarda la ricostruzione deicomplessi passaggi normativi che hanno segnato le vicende scolastiche ed editoriali deilibri di testo è utilissima la documentazione che si trova nel già citato A. Barausse, Illibro per la scuola dall’Unità al fascismo. La normativa sui libri di testo dalla legge Casati allaRiforma Gentile (1861-1922), op. cit.

73. Questo dati e altri relativi alla frequenza scolastica in S. Soldani, La nascitadella maestra elementare, in S. Soldani, G. Turi (edd.), Fare gli Italiani. Scuola e cultu-ra nell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993, vol. i, pp. 89-90.

i libri di testo e l’editoria scolastica 301

bambino, la scoperta del gioco quale opportunità educativa si river-bera anche sull’impianto dei libri che, a partire dal Giannetto del Par-ravicini, assumono, fin dal titolo, a protagonista il bambino stesso.

Dal Giannetto (un vero e proprio prototipo che influenza a lungola produzione dei libri di lettura) in poi si registra una cascata dititoli incentrata su nomi propri infantili (Carletto, Emilia, Ernesti-no, Giannina, Manfredo, Tommaso e altri ancora) fino al monda-doriano Allegretto e Serenella degli anni ’20 del secolo scorso. Attra-verso questi personaggi infantili il piccolo lettore entra in contattocon situazioni e protagonisti che per analogia o per contrasto glisono familiari, meglio educati o più ribelli, più ricchi o più disgra-ziati, a lui vicini o molto distanti, un mondo a sua misura dove eglisi può facilmente ritrovare o a cui può essere avviato attraversovarie tonalità narrative che spaziano dal crudo realismo del male dafuggire ai buoni esempi da perseguire.

La crescente attenzione verso l’infanzia non va tuttavia fraintesa:l’Ottocento non è un secolo rousseauiano. Prevale nettamente latesi secondo cui se il bambino è lasciato a se stesso non crescesecondo la bontà naturale di Emilio: diventa vizioso, acquisisce unospirito rude e insolente, contrae abitudini di indolenza e vagabon-daggio, insomma sviluppa la sua parte peggiore.

Fin dalle pagine del Giannetto – attraverso i racconti che si alter-nano alle lezioni – si delinea un canone pedagogico segnato dalprevalere del principio dell’autorità adulta su quello della libertàinfantile, per quanto accompagnato dalla raccomandazione di unaautorità ragionevole e amorevole. È un modello destinato a segna-re un lungo tratto della narrativa per l’infanzia e della produzioneeditoriale scolastica: la formazione di un allievo consapevole deidoveri, rispettoso e obbediente, amante dello studio, conscio delbene e del male, capace di autocontrollo del corpo, dei gesti, delleparole, decoroso e pulito, desideroso di migliorare se stesso e lapropria condizione di vita.

Questi stessi princìpi educativi si leggono nelle pagine coeve delCantù, nel Thouar e in quelle un poco più tarde della Baccini e diDe Amicis e si ritrovano anche nei libri per la scuola. Un canoneche presenta come corollario indispensabile la centralità della fami-glia; la responsabilità educativa della piccola comunità e l’analogiatra questa e la comunità più grande, la Patria; la forza plasmatrice

302 capitolo sesto

della morale civile; l’importanza del lavoro concepito come la chia-ve d’accesso per “meritarsi la vita” e migliorare le proprie condizio-ni. Temi dietro i quali stanno Pestalozzi e il suo celebre romanzopedagogico, Leonardo e Geltrude, Romagnosi e Sacchi, Aporti eLambruschini, la concretezza della pedagogia piemontese.

La concezione di un’infanzia ormai riconosciuta con la propriaidentità, ma anche sorvegliata e disciplinata, si traduce nei libri sco-lastici attraverso una doppia mediazione. La prima è legata allaconsapevolezza che esistono diverse infanzie da cui scaturisconodifferenti situazioni scolastiche: l’infanzia maschile e quella femmi-nile, quella borghese e quella rurale, quella del piccolo proletaria-to urbano e quella del montanaro, la scuola frequentata in modoregolare o quasi regolare e la scuola destinata a chi non l’ha segui-ta a suo tempo e che vi ritorna avendo già maturato l’esperienzadel lavoro. La seconda è associata al crescente valore sociale attri-buito alla lettura: il bambino bene educato è non solo un bambinoalfabeta, ma un bambino che sa leggere da solo e che continua aleggere anche quando ha terminato la scuola.

I cataloghi editoriali, specie quelli degli editori più importanti,sanno muoversi in modo efficace per rispondere alle diverse esi-genze manifestate dalla scuola del tempo. L’offerta dei libri è ordi-nata in funzione delle classi maschili e di quelle femminili, dellesezioni urbane e di quelle rurali, delle scuole del grado inferiore(livello al quale in genere si arrestava la frequenza dei bambini difamiglia meno agiata) e di quelle per il grado superiore (al qualeambivano, per esempio, i figli degli operai). E ancora: i libri per lescuole serali e festive, per i corsi degli adulti, per i giovani operaidesiderosi di accrescere le proprie conoscenze, i libri premio, ilibretti per le letture ricreative in classe.

Ci sono autori che si specializzano in uno specifico genere: adesempio Giovanni Scavia, prolifico e apprezzato autore di libri sco-lastici di vario genere e uno dei padri del metodismo piemontese, siritaglia una importante quota di mercato nel campo dell’educazio-ne delle fanciulle e delle giovinette;74 il maestro bolognese Primo

74. G. Scavia, Libro per le fanciulle delle scuole rurali, Torino, Vaccarino, 1876; Id.,Libro per le giovinette delle scuole rurali, Torino, Vaccarino, 1876; Id., L’uomo e i suoidoveri. Letture per le giovinette, Torino, Grato Scioldo, 1893 (revisione a cura di B.

i libri di testo e l’editoria scolastica 303

Macchiati acquista larga notorietà con una serie di libri per le scuo-le serali e festive75 mentre Felice Garelli, filantropo e uomo politi-co cuneese, sforna alcuni fortunatissimi testi per le scuole rurali.76

L’insistente campagna in favore dell’impiego del libro di scuolae, in particolare, del libro di lettura è dunque accompagnata da unaproduzione che si sforza di realizzare il libro adatto per risponderealle differenti situazioni scolastiche. Una specie di fordismo scola-stico ante litteram che seziona il sapere e i comportamenti e mettein campo pratiche didattiche commisurate alla varietà delle situa-zioni educative. Impostazione pedagogica destinata a durare neltempo se ancora negli anni ’30 del Novecento il libro unico diStato fu organizzato in varie edizioni corrispondenti alle diverseesigenze didattiche delle scuole di città e di quelle rurali.

Una speciale segnalazione meritano i libri premio per il valoresimbolico che ad essi è attribuito, consegnati agli allievi più bravi inapposite cerimonie, libri dalla veste meno dimessa di quella con-sueta nei cui contenuti si congiungono la forza pedagogica del-l’esemplarità e la traduzione a livello scolastico dei princìpi self hel-pisti,77 i buoni sentimenti e lo zelo laborioso,78 rassegne di consigli

Rinaldi del testo pubblicato per la prima volta nel 1861, Torino, Tip. di SebastianoFranco). Dello Scavia ved. anche il Manuale delle maestre rurali, ossia Norme per educa-re ed istruire le fanciulle nelle scuole di campagna, Torino, Vaccarino, 1871. Sull’impor-tanza della figura della maestra di campagna rinvio a M. Raicich, Storie di scuola daun’Italia lontana, Roma, Archivio Guido Izzi, 2005, pp. 29-79.

75. P. Macchiati, Tutti a scuola. Prime letture a compimento del sillabario proposte aglialunni delle scuole serali e festive, Torino, Paravia, 1877; Id., Operaio educatore e filosofo ogli ammaestramenti di Carletto. Secondo libro di lettura, Torino, Paravia, 1879; Id., Car-letto o Officina e scuola. Libro di lettura proposto agli alunni delle scuole serali e festive, Tori-no, Paravia, s.d.

76. F. Garelli, Il buon coltivatore. Libro per le scuole rurali, Torino, Vaccarino, 1870;Id., La giovinetta campagnola. Prime nozioni di morale, di igiene e di economia domestica, Tori-no, Casanova, 1880; Id., Il giovinetto campagnuolo educato ed istruito, Torino, Paravia, 1892.

77. Le segnalazioni in questa nota e nelle due successive hanno ovviamente uncarattere semplicemente esemplificativo: R. Altavilla, L’emulazione o fanciulli delpopolo diventati uomini illustri. Racconti storici, Milano, Agnelli, 1874; G. De Castro,La morale dell’operaio desunta dalla vita e dai pensieri di Beniamino Franklin, Torino,Paravia, 1874; G.B. Cipani, Stimoli ai giovani per eccitarli a riuscire uomini utili, Torino,Speirani, 1890.

78. A. Pardini, Soffri il male e aspetta il bene. Avventure un orfano, Milano, Trevisini,1885; A. Vertua Gentile, Come dettava il cuore, Milano, Carrara, 1886; C. Orlandi,Sulla via del dovere. Raccolta di racconti morali e ameni, Torino, Tip. Salesiana, 1892.

304 capitolo sesto

utili e pratici.79 Libri simbolici anche per il valore attribuito per illoro tramite al rispetto e all’amore per i libri. Tra i tanti luoghi comu-ni della narrativa ottocentesca ricorre frequentemente quello dell’al-lievo modello che conserva bene i libri di scuola, ama leggere e perciòsi procura altri libri contrapposto all’allievo fannullone che li sgualci-sce o addirittura se ne disfa, fatale preludio ad una vita moralmentedisordinata.

Nelle abitazioni delle famiglie borghesi accanto all’angolo deigiocattoli compare un apposito spazio dedicato alla biblioteca deifigli. Il possesso di libri per i bambini – e non soltanto degli adul-ti – è un altro segnale che documenta non solo una sempre mag-giore attenzione all’infanzia, ma l’importanza sociale attribuitaalla lettura. Diventa una consuetudine apprezzata regalare libriin occasione di scadenze come onomastici, compleanni e parti-colari circostanze come nel caso delle cerimonie religiose infan-tili. Nell’ultimo scorcio del secolo compariranno anche le biblio-techine scolastiche che andranno moltiplicandosi all’inizio delNovecento.

La crescente importanza del libro scolastico è attestata, oltre aquanto abbiamo fin qui detto, anche dal netto miglioramento delprodotto materiale che si compie tra i primi decenni dell’Ottocen-to e la fine del secolo. Sono ancora le relazioni degli ispettori alamentare ben oltre la metà del secolo la sciatteria dei testi per lascuola dai caratteri troppo piccoli, dalla carta di mediocre qualità,senza illustrazioni o con illustrazioni rare e scadenti. I celebri libridi lettura compilati da Vincenzo Troya negli anni ’40 nel clima delrinnovamento pedagogico piemontese e ampiamente adottati neiprimi anni post unitari si presentano grigi e monotoni, se pureimpressi da quella Stamperia Reale di Torino che sapeva anche edi-tare dei buoni libri.

La necessità di contenere i costi e, specie nel caso dei piccolistampatori, la povertà delle attrezzature tipografiche contribuisco-

79. P. De Petri, Manuale popolare d’igiene ad uso de’ contadini contenente le regoleprincipali per conservare la salute dell’uomo, Milano, Trevisini, 1873; G. Banfi, La giovi-netta educata nella morale, istruita nei lavori femminili e nella economia domestica, Milano,Agnelli, 1875; G. Cusmano, L’agricoltura della Sicilia. Istruzioni pratiche, Firenze, Artedella Stampa, 1881.

i libri di testo e l’editoria scolastica 305

no a fare del libro di lettura (e in genere il libro scolastico) un pro-dotto di scarsa qualità. Bisogna attendere gli anni ’80 perché illibro scolastico cominci a essere realizzato in modo meno schema-tico, più vicino alla psicologia infantile e anche più attraente sulpiano grafico. Sul “Bollettino ufficiale Ministero dell’IstruzionePubblica” compaiono precise indicazioni sulla confezione dei libridi testo, dei dizionari e delle carte geografiche mutuate dai risulta-ti di una commissione di lavoro di esperti francesi:

“i libri destinati all’insegnamento dovrebbero essere stampati o sopracarta bianca, o, meglio ancora, sopra una carta di una tinta giallogno-la; inoltre i libri scolastici non devono essere stampati più fini del-l’otto interlineato d’un punto; in altre parole ogni linea, con il suobianco, deve occupare in altezza almeno tre millimetri ed un terzo;sarebbe ugualmente necessario che non vi fossero in media più disette lettere per centimetro corrente di testo; si dovrebbe infinerespingere ogni libro che, illuminato ad un metro di distanza, nonpotesse essere letto da uno che ha una buona vista alla distanza di 80centimetri. Per i dizionari, pur conservando le condizioni di sette let-tere per centimetro, come massima, si metterebbero delle linee diun’altezza totale di tre millimetri ed esclusi i libri di fisica e di mate-matica che esigono l’uso di formule che non si potrebbero senzainconvenienti dividere in due linee, la lunghezza delle linee nondovrebbe superare gli otto centimetri. Rispetto alle carte geografi-che, una carta posta verticalmente ad un metro di distanza da unlume dovrà potersi leggere da un occhio normale alla distanza mini-ma di 40 centimetri; per le carte murali, sembra impossibile scrivervidei nomi leggibili a distanza”.80

Diversi fattori concorrono a determinare il graduale migliora-mento dell’editoria destinata alla scuola. Nella vita scolastica ele-mentare si fa strada il principio didattico della “lezione delle cose”propugnata dalla cultura pedagogica positivista, una pratica pre-scritta ai maestri per assicurare un insegnamento meno nozionisti-co e mnemonico e legato strettamente alle realtà di vita degli allie-vi. Cominciano a entrare nelle aule carte geografiche, cartellonicon scene storiche e illustrazioni scientifiche, animali impagliati,mappamondi e altro materiale ad uso didattico. Nel 1885 il Gabel-

80. In “Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica”, giugno 1882,pp. 566-568.

306 capitolo sesto

li si rallegrava per la presentazione all’Esposizione Generale Italia-na di Torino anche di

“banchi, lavagne, supporti didattici, quadri storici”, per quanto ancorasovrastati dalla “copia sterminata di grammatiche, di libri di lettura, diaritmetiche, di esemplari calligrafici, copia che si riduce a un ingom-bro, non essendovi forza dell’uomo che basti per esaminarli e scevera-re il buono dal cattivo”.81

Alcuni editori – soprattutto Paravia e Vallardi – fiutano le poten-zialità economiche di questo nuovo mercato, dapprima semplice-mente commercializzando prodotti di fattura per lo più tedesca ofrancese e poi organizzandosi per produrlo in proprio.

Matura lentamente e in modo assai differenziato a seconda dellapreparazione dei maestri una concezione dell’insegnamento piùattenta alla mentalità infantile e anche sensibile a pratiche di lettu-ra igienicamente corrette. È in questo contesto, ormai molto lonta-no dal metodismo dei primi decenni del secolo – almeno in via diprincipio, perché la realtà della scuola si presenta molto variegata–, che cominciano a uscire libri di testo più efficaci sul piano didat-tico. Per quanto al nostro gusto appaiano ancora troppo grigi eanonimi, essi si presentano con caratteri più chiari e nitidi, con unlinguaggio più vicino alla sensibilità infantile e soprattutto sonoarricchiti da numerose illustrazioni. Anche i libri scolastici parteci-pano della moltiplicazione dell’uso dell’immagine che nel corso delsecolo si compie a vari livelli con stampe di foggia più o meno arti-stica, volumi di novelle e romanzi arricchiti di tavole che sottoli-neano i passaggi chiave della narrazione, giochi e libri ricreativiillustrati.

L’impiego della iconografia, facilitato dalle innovazioni tipogra-fiche ormai in grado di produrre un gran numero di immagini abasso costo, risulta più evidente in alcuni testi come quelli di lettu-ra, di storia e geografia e di scienze naturali. Gli editori più attrez-zati sono in grado di migliorare la qualità dei libri senza alterarne icosti, spesso ricorrendo all’abile riciclaggio delle illustrazioni. Suquesta strada si mettono Paravia, Bemporad, Agnelli, Trevisini,Vallardi, Barbèra, Sandron intorno agli anni ’80, in alcuni casi

81. In “Bollettino ufficiale Ministero dell’Istruzione Pubblica”, febbraio 1885, pp.206-212.

i libri di testo e l’editoria scolastica 307

(come per Paravia e Vallardi) congiunta a un importante rinnova-mento delle attrezzature produttive.

Gli editori maggiori che ambiscono al mercato nazionale pos-sono così offrire agli insegnanti prodotti scolastici convenientiper qualità e prezzo, congegnati spesso in modo sinergico con ilresto del catalogo, in particolare con le raccolte di letture amene,quasi sempre opera degli stessi autori dei libri scolastici.

In questo contesto muta anche la confezione redazionale dellibro di testo. Esso non è più l’esito del rapporto diretto tra l’auto-re e l’editore, ma intorno al libro cominciano ad essere presentianche altre professionalità come il compositore per la scelta deicaratteri e l’illustratore per la confezione e la scelta delle immagini.In seguito assumerà un ruolo importante la figura del redattoreincaricato di mediare le scelte dell’autore con le soluzioni grafichee editoriali più efficaci e più vantaggiose in termini economici.

Ma è solo nei primi decenni del Novecento che i cambiamentiche abbiamo sommariamente descritto si presentano in modo piùnetto e significativo, coinvolgendo i libri di letture ricreative e lanarrativa per ragazzi, la stampa per i bambini (nel 1906 compare il“Giornalino della Domenica” e due anni più tardi è la volta del“Corriere dei Piccoli”), con un effetto trainante anche sulla produ-zione scolastica per la scuola elementare, su cui pesa tuttavia il nonsecondario vincolo del contenimento del prezzo di copertina chelimita le soluzioni graficamente più avanzate.

Una concezione più accattivante del libro, la ricerca di soluzionianche esteticamente più raffinate, l’impiego del colore almenonella confezione delle copertine sono comunque alcune delle carat-teristiche che all’inizio del Novecento segnano la transizione anchedel libro di lettura scolastico verso forme editoriali dal gusto este-tico più raffinato, grazie anche alla collaborazione di illustratoriimportanti come Duilio Cambellotti, Enrico Novelli, Attilio Mus-sino, Gustavo Rosso.

Indice dei nomi

Abba Giuseppe Cesare, 108Agazzi Carolina, 167, 205Agazzi Rosa, 167, 205Agnelli (editore), 282, 288, 295, 306Agosti Aldo, 33Agostino di Ippona (santo), 141Alberti di Villanova, 223Albrighi e Segati (editore), 283, 296Alfani Augusto, 26-27, 106Alfieri di Sostegno Cesare, 247Allievo Giuseppe, 85, 93, 96-98,

130, 142, 146, 172-173, 210, 234Altavilla Raffaele, 303Amaldi Ugo, 266Amari Michele, 49Angiulli Andrea, 77-79, 81, 130, 199Antoniano Silvio, 141Apollonio (editore), 296Aporti Ferrante, 130, 166, 188, 232,

239, 277, 302Arfé Gaetano, 54Ascenzi Anna, 83, 184, 273, 298Asor Rosa Alberto, 84Assarotti Ottavio, 233

Baccelli Guido, 70, 74-75, 83, 95,106, 117-120, 187, 194-195, 248,261, 293

Baccini Ida, 225, 266, 280, 284, 290,301

Bacigalupi Marcella, 299Baden Powell Agnese, 154Baden Powell Robert, 154Baglioni Guido, 26 Balbo Cesare, 84Ballexerd Jacques, 250Ballini Pier Luigi, 69, 84Balzac (de) Honoré, 251Banfi Giuseppe, 304Banti Alberto Mario, 118, 298Baratta Carlo Maria, 138-139, 142,

175Barausse Alberto, 271, 300Barbèra (editore), 267, 280, 288-

289, 296, 306Barbèra Gaspero, 275-276Barberis Giulio, 138-139, 142, 146Baricco Pietro, 230, 233Barile Laura, 298Barrili Anton Giulio, 281-282Bartoloni Stefania, 239Barzaghi Gioachino, 158Barzellotti Giacomo, 252Basilio (santo), 141Bassa Poropat Maria Teresa, 254Bassi Domenico, 212Battei (editore), 295

310 indice dei nomi

Battiato (editore), 288Battiato Concetto, 285-287Becchere Maria, 298Becchi Egle, 5, 222, 270Bellatalla Luciana, 200-202Bellerate Bruno, 171Bellini Bernardo, 14Bellocchio Maria, 34Bemporad (editore), 267, 275, 280,

286, 288, 295-296, 306Bencivenni Anna, 204Bencivenni Ildebrando, 77-78, 107,

204, 210Berchet Giovanni, 50Berengo Marino, 273Berni Ettore, 204Bertani Agostino, 255Bertelli Luigi (Vamba), 280Bertello Giuseppe, 138-142, 144,

146-147, 157-160Berti Domenico, 22-23, 43, 94, 189,

191-193, 197, 277Bertilotti Teresa, 189, 239Bertolini Francesco, 266, 287Bertoni Jovine Dina, 36, 76, 90, 299Besana Luigi, 83Betri Maria Luisa, 252Betti Carmen, 190, 210, 266, 279Bevilacqua Piero, 103, 121Biagi Guido, 280Biagioli Giuliana, 259 Biancardi Giuseppe, 128, 140Bianchi Angelo, 19Bianchini Paolo, 223, 252Bidolli Anna Pia, 33, 259Bigatti Giorgio, 259Bini Giorgio, 82, 179, 238Biondo (editore), 295Bismarck (von) Otto, 100Bitelli Giovanni, 277

Bizzocchi Roberto, 118, 298Blumenbach Johann Friedrich, 113Boccardo Gerolamo, 50, 83, 279Boero Pino, 184Boidi Antonio, 279Bock Edoardo, 254Bonaccini Marina, 56Bon Compagni Carlo, 94, 189, 277Bonan Lauro, 206Bonan Raffaella, 206Bonetta Gaetano, 74, 119, 169Bonghi Ruggero, 75, 85, 93-96, 99,

282, 292Bonsignori Giovanni, 264Bonzanino Carlo Giuseppe, 225Borghi Lamberto, 63, 67Borgogno Giovanni, 283, 294Borromeo Carlo (santo), 141 Bosco Giovanni, 129, 131-137, 140-

143, 145-149, 151, 155-156, 158,161-162, 164, 166-172, 174, 225,227, 237, 289

Boselli Paolo, 82, 116, 173Bottasso Enzo, 278Bovone Angelo, 24Braida Lodovica, 5Braido Pietro, 132, 156, 171Bravo Gian Mario, 33Brentari Ottone, 283Brilli Ugo, 286Brizzi Gian Paolo, 19, 266Broccoli Angelo, 226, 239Brooke Robert, 154Bruni Antonio, 49

Cabrini Francesca Saverio, 243Caimi Luciano, 154Callegari Carla, 205Calvi Corsini Elvira, 204

indice dei nomi 311

Cambellotti Duilio, 307Candeloro Giorgio, 99Cane Felice, 159Canossa (di) Maddalena, 247Cantatore Lorenzo, 225, 286, 298Cantoni Carlo, 266Cantù Cesare, 8-12, 25, 50, 68, 273,

290, 301Capece Minutolo Antonio, 8Capellina Domenico, 279Cappelli (editore), 296Cappi Giulio, 262Capponi Gino, 127, 130, 279Cappuccio Carmelo, 224Capuana Luigi, 266Capurro Giovanni Francesco, 23-24Carabba Rocco, 286, 288, 295-296Caracciolo Alberto, 115Carbone Domenico, 277Carducci Giosue, 84, 114, 266, 276,

280, 286Carmagnola Albino, 138-139Carpi Leone, 64-66Carrara (editore), 282, 288Carrara Mario, 51Casana Testore Paola, 277Casati Gabrio, 21, 72, 80, 178, 187-

188, 270, 274, 293Casella Francesco, 153, 175 Casero Renza, 56Casoria (da) Lodovico, 133Castellani Arrigo, 17Castelli Giuseppe, 157Castrogiovanni Giovanni, 15Catarsi Enzo, 179, 194, 271Catricalà Maria, 298Cattaneo Carlo, 80Cattaneo Mario, 185, 207Cavaglià Piera, 146, 162, 167, 248Cavezzali Alberto, 204

Cavour Camillo, 135Cavour Gustavo, 93Cecconi Aldo, 275Ceccuti Cosimo, 277, 279Celesia Emanuele, 199Celli Angelo, 255-256Ceria Eugenio, 138-139, 142, 171,

173Cerruti Francesco, 133-134, 138-140,

142, 144-150, 166, 171, 173, 244Cettolini Sante, 262Cesa Claudio, 113Ceva Lucio, 31, 109Chabod Federico, 67, 100-101Charnitzky Jürgen, 273Chemello Adriana, 45Chillé Sergio, 283Chiosso Giorgio, 23-24, 76, 91, 113,

132, 171, 189-190, 203-204, 206,210, 220, 230, 240, 261, 264, 266,273, 276, 279, 283, 285

Chittolini Giorgio, 232Choppin Alain, 268Ciardetti (editore), 279Cimatti Vincenzo, 138-139 Cipani Giovan Battista, 303Cipolla Carlo M., 17, 59Cives Giacomo, 86, 288Clapat Guy, 201Clemente Alessandrino, 141Codignola Ernesto, 90, 220Cogliati (editore), 283Collodi (Carlo Lorenzini), 280Colombo Giuseppe, 83Colombo Sisto, 172Comenio Jan Amos, 269Comparetti Domenico, 280Conti (editore), 296Conti Augusto, 266Conti Fulvio, 36

Coppino Michele, 3, 21, 70-72, 82,95, 194, 292

Correnti Cesare, 71, 118Corte Pier Antonio, 210Cosmacini Giorgio, 251, 253Costa Anna, 146Costa Sarino A., 41, 190, 226, 230-

231, 299Cottolengo Giuseppe Benedetto, 133Cova Alberto, 263Covato Carmela, 42, 189, 195, 242-

243Credaro Luigi, 16, 23, 31, 42, 133,

173, 194, 198, 201, 220, 239Crispi Francesco, 101, 110-111, 114,

116, 120-121, 135Cristiano Flavia, 286Croce Benedetto, 269Cuoco Vincenzo, 64Cusmano Giuseppe, 304

D’Amelia Marina, 41D’Ascenzo Mirella, 206, 294D’Azeglio Massimo, 50, 222D’Ondes Reggio Vito, 126Dabalà & Casaccia (editore), 295Dall’Ongaro Francesco, 50Daneo Edoardo, 31, 173Danna Casimiro, 270Dante Alighieri (editore), 295Dazzi Pietro, 280De Amicis Edmondo, 50, 108, 119,

179, 183-184, 199, 228, 301De Castro Giovanni, 30, 303De Clementi Andreina, 121De Dominicis Francesco Saverio,

77, 79, 112, 130, 133, 199, 210-211, 218

De Fort Ester, 21, 84, 177, 186, 299

De Giorgi Fulvio, 38De Luca Giuseppe, 287De Marchi Emilio, 46De Mauro Tullio, 17, 59De Meis Camillo, 63-66De Petri Pietro, 304De Rosa Diana, 254De Rosa Gabriele, 232De Sanctis Francesco, 63, 67-68, 70,

73-74, 76, 81-82, 84, 87, 94, 106,116, 182, 185, 187, 194, 200, 226-227, 230, 286, 292

De Vivo Francesco, 128Decleva Enrico, 57Decollanz Giuseppe, 201Del Corno Nicola, 8Del Lungo Isidoro, 277, 280Della Peruta Franco, 252Della Valle Alfonso, 133Demolins Edmond, 149Depretis Agostino, 110Desramaut Francis, 132, 225Detti Tommaso, 255Di Bello Giulia, 44Di Pol Redi Sante, 133, 157, 166,

177, 187, 190, 240, 246Di Rudinì Antonio, 122Diesterweg Adolph, 212Dirani Ennio, 118Dogliani Patrizia, 154Duggan Christopher, 63Dupanloup Félix, 134, 142

Enriques Federigo, 266Escolano Benito Augustin, 267

Fabiani Guido, 284Fabriani Severino, 233

312 indice dei nomi

Falletti di Barolo Tancredi, 9-10Fanfani Pietro, 280Farini Luigi Carlo, 50Fascie Bartolomeo, 136Fava Angelo, 188Fazzini Lorenzo, 226Felbinger Ignaz Johann, 134 Fellenberg (von) Philipp Emanuel,

260Ferrari Monica, 5Ferrero Francesco, 211, 214, 216Ferri Franco, 81Fillassier Jean Jacques, 8Fioravanti Gigliola, 169Fiorentino Francesco, 266Firpo Luigi, 273Floriani Giorgio, 121Formigoni Guido, 39, 129, 236Fornaciari Raffaello, 280, 294Fornari Ermelinda, 204Fornari Pasquale, 193-194, 198Fornari Pietro, 15, 42Fornelli Nicola, 77Förster Friedrich Wilhelm, 133-

134Forti Messina Annalucia, 252 Fortunato Giustino, 62Fossati Paolo, 299Franchetti Leopoldo, 87Franchini Silvia, 42, 250Francke August Hermann, 269Franco Sebastiano, 275-276, 278Franklin Beniamino, 49, 289Franzina Emilio, 121Fraticelli (editore), 279Frezza Daria, 280Fröbel Friedrich, 165-166Fucini Renato, 62Fusco Edoardo, 77, 130

Gabelli Aristide, 71, 75-76, 82, 84-86, 89-93, 95, 98, 120, 130, 180,207-209, 306

Gabrielli Gabriele, 204Gaeta Franco, 66, 101Galfré Monica, 266Gambaro Angiolo, 193Gambi Lucio, 118Gambierasi (editore), 296Garelli Felice, 262, 303Garelli Vincenzo, 23-24, 191-192Garibaldi Giuseppe, 49 Gariglio Bartolo, 33Garin Eugenio, 76Garino Giovanni, 172Garzia (abate), 226Gaudio Angelo, 230Gazzotti (editore), 296Gelmini Andrea, 204Genovesi Giovanni, 56, 107, 109,

180, 194, 220, 269, 288Genovesi Piergiovanni, 109Gentile Emilio, 63, 69, 111, 114Gentile Giovanni, 68, 136, 220, 287Gemelli Agostino, 150Gera Bianca, 5Gerini Giovanni Battista, 23Gherardini Giovanni, 14Ghizzoni Carla, 39, 44Giacardi Livia, 298Giannitrapani Domenico, 294Giannotta (editore), 296Giannotta Nicola, 287-288Gigli Marchetti Ada, 44, 285Gioberti Vincenzo, 84Gioda Carlo, 248Girard Grégoire, 134, 197, 260, 277Girolamo (santo), 141Giuffrida Sante, 190, 210-211, 216-218Giunti (editore), 275

indice dei nomi 313

Giusti (editore), 288, 296Gonzáles Jesus Graciliano, 249Gorgoni Lanzetta Lucia, 206Gramigna Anita, 180Gramsci Antonio, 52Grandi Terenzio, 205Granturco Emmanuele, 220Gregory Tullio, 232Grossi Tommaso, 50Guaita Raimondo, 254Guala Luigi, 237Guanella Luigi, 237Guasco Maurilio, 232, 234Guerra (editore), 296Guibert Jean, 148Guicciardini Francesco, 69Guigoni (editore), 282

Hall Granville Stanley, 154Hazon Filippo, 157Heimburg Guglielmina, 46Hoepli (editore), 50, 283, 288, 296Hugo Victor, 50

Imbriani Vittorio, 245Inama Vigilio, 266Infelise Mario, 5Invernizio Carolina, 46Itard Jean-Marc Gaspard, 250

Jacini Stefano, 50, 87Japichino Francesco Paolo, 220Jouhaud (editore), 279Julia Dominique, 222, 270

La Farina Giuseppe, 49La Marmora Alfonso, 29

La Salle (de) Jean-Baptiste, 20, 212,269

La Vaissière Raymond, 149Laberthonnière Lucien, 149Lacaita Carlo G., 56, 83Lacordaire Henri Dominique, 134Lambruschini Raffaello, 49, 80, 127,

130, 193-194, 198, 200, 232-233,257, 262, 275, 279, 302

Lanaro Silvio, 26, 65Landucci Giovanni, 281Lanza Giovanni (ministro), 135Lapi (editore), 288, 296Le Monnier (editore), 267, 277, 280,

286, 288-289, 296Lemoyne Giovanni Battista, 227 Leopardi Monaldo, 8Lessona Carlo, 106Lessona Michele, 13, 25, 28, 50, 289Levra Umberto, 67, 109, 114 Liberatore Raffaele, 14Lisanti Nicola, 33Locke John, 221Loescher (editore), 286, 288-289, 296Lombardo Antonio, 233Lombardo Radice Giuseppe, 134-

136, 149, 190, 220, 287, 291Lombroso Cesare, 62, 255Lombroso Paola, 51Loparco Grazia, 153, 162-164, 247,

249Lorenzini Carlo (Collodi), 280Lozzi Carlo, 26Luppi Angelo, 200, 202Lustig Alessandro, 255-256

Macchi Mauro, 83Macchiati Primo, 15, 24, 303Macchietti Sira Serenella, 205

314 indice dei nomi

Machiavelli Niccolò, 69Macé Jean, 50Magnanini Angela, 107Maisner (editore), 282Malizia Guglielmo, 158Malnati Linda, 204Mandich Anna M., 298Mangoni Luisa, 76 Mantegazza Paolo, 26, 46, 50, 240,

255-256Mantellino Giacomo, 23Manuzzi Giuseppe, 13Manzoni Alessandro, 50, 93Marcati Guido Antonio, 77, 204, 284Marchesini Daniele, 21, 40, 52, 60Marchiondi Paolo, 133Marchionni Gaetana, 224Marchionni Rosa, 224Marcocchi Massimo, 237 Marghieri (editore), 281Mariani Emilia, 204Marino Manno Marisa, 195Marlitt Elisabetta, 46Marselli Niccola, 30, 104-106, 109-110Martinazzoli Antonio, 16, 23, 42,

133, 194, 198, 201, 239Martini Ferdinando, 61, 224, 280Martini Lorenzo, 223Mascilli Migliorini Luigi, 286Massobrio Giulio, 109Mastrangelo Gianfranco, 29, 31Mastriani Francesco, 46Matteucci Carlo, 49Mauri Achille, 277Mayer Enrico, 49, 279Mazza Nicola, 133, 237Mazzetti Roberto, 205Mazzini Giuseppe, 77Meacci Maria Letizia, 299

Melograni Piero, 41Menghi Giuseppe, 24-25Mercier Désiré, 149Messaggi (editore), 282, 295Mestica Giovanni, 277, 280Miccoli Giovanni, 128, 232Micheletti Antonio Maria, 142, 146Micheli Gianni, 83Midali Mario, 171Milanese Giovanni C., 133Milde Vinzenz Eduard, 212Minerva Nadia, 298Miraglia Nicola, 261Mola Aldo A., 72Moleschott Jakob, 255Molinelli Raffaele, 102Moltke (von) Helmuth, 110Monaco Michele, 205Mondadori (editore), 267Monfat Antoine, 142, 146Montagna Achille, 261Montevecchi Luisa, 245, 292-293Morandini Maria Cristina, 188, 299Morano (editore), 267, 281, 286,

288, 296Morano Antonio, 286Moretti Mauro, 26Morgari Oddino, 54Morselli Enrico, 255Mosso Angelo, 255Motto Francesco, 150, 158, 175, 249Mottura Cipriano, 233, 283Muglia (editore), 296Murialdo Leonardo, 237Mussino Attilio, 307

Natale (editore), 296Niemeyer August Hermann, 212Nievo Ippolito, 50

indice dei nomi 315

Neri Filippo (santo), 141Novarino Marco, 37Novelli Enrico, 307

Olgiati Francesco, 150Oliva Gianni, 31, 103Olivieri Sangiacomo Arturo, 108Oliviero Stefano, 266Oriani Alfredo, 114-115Orione Luigi, 237Orlandi Cesare, 303Ottavi Giuseppe Antonio, 262

Paggi (editore), 275, 280, 286, 295Pagnoni (editore), 282Paladini Luisa Amalia, 127Palazzolo Maria Iolanda, 285, 287Pancera Carlo, 269Panfilo Luciano, 158Pannese Gennaro, 134Paoli Francesco, 130Papini Giovanni, 154Parato Antonino, 130, 204, 278, 283Parato Giovanni, 233, 278, 283Parato Giuseppe, 278, 283Paravia (editore), 267, 274, 276, 278,

286-289, 294-296, 306-307Paravia Giorgio, 275, 277-278Pardini Angiolo, 303Parenti Marino, 294Parravicini Luigi Alessandro, 11-12,

198, 273, 301Pascoli Giovanni, 266Pasquali Pietro, 180, 204-205Pavoni Ludovico, 237Pazzagli Rossano, 258-260Pazzaglia Luciano, 21, 61, 100, 129,

166, 185, 207, 237, 244, 246

Pechenino Marco, 172, 279Pécout Gilles, 69, 84, 118, 298Pedone Lauriel (editore), 281Pedullà Gianfranco, 279Peitl Joseph, 212-214, 216Pellandra Carla, 298Pellegrini Maria Cleofe, 198, 239Pellerano (editore), 296Pellico Silvio, 50Pendola Tommaso, 233Pepe Guglielmo, 239Perrella (editore), 296Pessina Luigi Gabriele, 281Pestalozzi Johann Heinrich, 260, 302Petrini (editore), 288, 295-296Petrocchi Policarpo, 14Peyron Amedeo, 23Pezzi Domenico, 266Piamarta Giovanni, 237, 264Piatti (editore), 279Piattoli Scipione, 269Piazza Isotta, 48, 50Pierro (editore), 296Pinto Luigi, 287Piovano Giuseppe, 173Pipino Giuseppe, 23Pipino Maurizio, 251-252Pirola (editore), 282Pisa Beatrice, 122Pivato Stefano, 28, 47, 52Plutarco, 141Polenghi Simonetta, 30, 39, 44, 107,

212 Pomba Giuseppe, 13, 45, 278Porciani Ilaria, 115, 268, 274, 279,

281Pozzi Carlo, 261-262, 283Prellezo José Manuel, 86, 128, 140,

143, 145-146, 158, 173Prezzolini Giuseppe, 220

316 indice dei nomi

Principato Giuseppe, 287Procopio (imperatore), 14Protonotari Francesco, 277Proverbio Germano, 170 Pruneri Fabio, 206Puoti Basilio, 14, 63, 226Puzzuoli Paola, 42, 250

Quintiliano, 141, 148

Ragazzini Dario, 84, 201Ragionieri Ernesto, 114Ragone Giovanni, 45, 47, 285Raicich Marino, 197-200, 241, 245-

246, 277, 280-281, 292-293, 303Rapisardi Mario, 49Raponi Nicola, 188-189Rattazzi Urbano, 135Ravà Vittore, 185Ravasco Eugenia, 248Ravizza Carlo, 252Rayneri Giovanni Antonio, 23, 130,

142, 146, 189-190, 210-212, 214,216, 232, 247, 277

Rebellato Elisa, 267 Ricaldone Pietro, 160Ricardi di Netro Ernesto, 107-108Riccio (editore), 296Ricotti Ercole, 266, 274Ridolfi Cosimo, 257Rinaldi B., 121Rinaldi Bartolomeo, 204, 303Risveglio educativo (editore), 282Robbio di San Raffaele, 223Rocca Giancarlo, 129, 244, 246, 248Rochat Giorgio, 109Roche Daniel, 222Roggero Marina, 7, 227-228, 268

Romagnosi Gian Domenico, 302Romanelli Renato, 110Rosa Michele, 233Rosati Lanfranco, 194Rosmini Antonio, 10, 93, 97, 130,

134, 232, 247Rossi Alessandro, 83, 259Rossi Giorgio, 158Rossi Pietro, 61 Rosso Gustavo, 307Rousseau Jean Jacques, 141, 197,

221-222, 250Roux Luigi, 275Rua Michele, 131, 138, 140, 143,

146, 148, 152, 155-156, 164, 170,172, 174, 225

Ruffinatto Piera, 162, 165, 249Ruiz Amado Ramon, 134Russo Paolo, 194, 220, 288

Sacchi Giuseppe, 302Sagliocco Cristina, 210Salini Andrea, 264Salvemini Gaetano, 220Salvetti Patrizia, 121-122Salviati Carla Ida, 266, 275Sandron (editore), 267, 288-289,

295-296, 306Sandron Remo, 287Sani Roberto, 100, 166, 184, 273,

285, 287Sansoni (editore), 267, 280, 288, 296Santoni Rugiu Antonio, 177Santucci Antonio, 61Sartorio Michele, 9Savage Jon, 154Savarè Bernardo, 159Scaglione Francesco Paolo, 204, 210Scaraffia Lucetta, 244

indice dei nomi 317

Scavia Giovanni, 43, 233, 279, 302Schiaparelli Luigi, 274, 279Scialoja Antonio, 71-72Scioldo Grato (editore), 288-289, 295Scotto di Luzio Adolfo, 84Segneri Paolo, 141Seïde Martha, 162Sella Quintino, 83Semeraro Angelo, 200, 231Seneca, 141Serao Matilde, 180Settembrini Luigi, 80, 185, 245, 293Siciliani Pietro, 130, 195, 199Smiles Samuel, 25, 50, 289Soave Francesco, 269, 273, 290Solari Gabriella, 49Solari Stanislao, 175, 264Soldani Simonetta, 7, 33, 40, 42, 44,

53, 60, 84, 115, 117, 181, 189,197, 230, 241-242, 259, 300

Sonnino Sidney, 87Sonzogno (editore), 46, 283, 285Sorge Anna Maria, 42, 189, 195,

242Spaventa Bertrando, 67-68, 77, 94Stamperia Reale, 276, 304Stella Pietro, 169-170, 232, 235-236Stoppani Antonio, 118Stoppoloni Aurelio, 201Strafforello Gustavo, 16, 25, 50Stray Christopher, 267Sturani Maria Luisa, 118, 298Sue Eugène, 50Susi Francesco, 33

Taccolini Mario, 264Talamo Giuseppe, 69, 100, 188, 293Tamietti Giovanni, 172Tancredi Torelli Maria Pia, 22

Targhetta Fabio, 173, 266, 294Tarra Giulio, 233Taverna Giuseppe, 273, 290Tavoni Maria Gioia, 266Tazzioli Rossana, 298Tegon Carlo, 204Thouar Pietro, 275, 279-280, 301Tiana Ferrer Alejandro, 268Tipografia dell’Oratorio (editore), 288Tipografia Scolastica (editore), 274, 278Tisato Renato, 76-77, 79, 112Tissot Simon André, 250Tittoni Tommaso, 122Tobia Bruno, 116Todaro Francesco, 119Tomasi Tina, 37, 55, 84Tommaseo Niccolò, 14, 49-50, 130,

142, 146, 200, 269Tonelli Aldo, 157Torraca Francesco, 185, 266, 280Tortorelli Gianfranco, 281Toscani Xenio, 21Tramater (editore), 14Traniello Francesco, 61, 170, 173,

233, 235Treves (editore), 283, 285, 295Treves Emilio, 45Trevisini (editore), 282-284, 286,

288, 295, 306Trezzi Luigi, 175Trione Stefano, 138-139, 155Troya Vincenzo, 30, 224, 304Turi Gabriele, 7, 45, 53-54, 84, 115,

181, 238, 285, 300Turiello Pasquale, 87, 101-104, 106,

109-110, 112, 119

Ubaldi Paolo, 172Ulivieri Simonetta, 44, 243

318 indice dei nomi

utet (editore), 278Uttini Carlo, 232

Vago Giuseppe, 287Valentiner e Mues, 282Valerio Lorenzo, 8-9, 12Vallardi Antonio (editore), 267, 283-

284, 287-288, 295, 306-307Vallardi Francesco (editore), 296Vallauri Tommaso, 172Valle Domenico, 134Valletti Felice, 108Vamba (Luigi Bertelli), 280Van Looy Luc, 158Van Swieten Gerard, 250Vauchez André, 232Vecchia Paolo, 77, 196, 199, 204,

210, 214-216, 272Veniali Francesco, 199Verga Giovanni, 46Vergani Viscardo, 299Verri Pietro, 250Vertua Gentile Anna, 303Verucci Guido, 34, 36, 49, 254, 299Vespignani Giuseppe, 145Viassolo Federico, 24 Vico Giambattista, 64Vidari Giovanni, 135-136, 149Vieusseux Giovan Pietro, 279

Vigliardi Paravia Innocenzo, 275Vigo (editore), 296Vigo Giovanni, 7, 21, 40, 51, 180Villari Pasquale, 62, 71, 75, 81, 83-

89, 92, 130, 207, 209, 277, 282,293

Viotto Piero, 119Vitelli Gerolamo, 280Vittorino da Feltre, 148Vivanti Corrado, 82, 179Viviani D., 9Voltri (da) Teodosio, 248

Werner Elisabetta, 46Wirth Morand, 150

Zaglia Marcello, 77, 204, 210Zambarbieri Annibale, 26, 115, 128Zambusi Dal Lago Francesca, 204Zammarchi Angelo, 167Zanichelli (editore), 267, 286, 288-

289, 294, 296Zarri Gabriella, 244Zazo Alfredo, 226Zimniak Stanislaw, 249Zola Émile, 50Zucchi C., 202Zucchini Mario, 32

indice dei nomi 319

Teoria e Storia dell’educazione

Alfieri P., Oltre il “recinto” (l’educazione popolare negli oratori milanesi tra Otto eNovecento)

Bianchini P., Educare all’obbedienza (pedagogia e politica in Piemonte tra AnticoRegime e Restaurazione)

– (a cura di), Le origini delle materie (Discipline, programmi e manuali scolastici inItalia)

Chiosso G., Alfabeti d’Italia (la lotta contro l’ignoranza nell’Italia unita)– Carità educatrice e istruzione in Piemonte (aristocratici, filantropi e preti di fron-

te all’educazione del popolo nel primo ’800)– (ed.), Sperare nell’uomo (Giussani, Morin, McIntyre e la questione educativa)Ghizzoni C.-Polenghi S. (a cura di), L’altra metà della scuola (educazione e lavo-

ro delle donne tra Otto e Novecento)Montino D., Le tre Italie di Giuseppe Fanciulli (educazione e letteratura infantile

nel primo Novecento)Morandini M.C., La conquista della parola (l’educazione dei sordomuti a Torino

tra Otto e Novecento)Sani R., L’educazione dei sordomuti nell’Italia dell’800 (istituzioni, metodi, propo-

ste formative)Stramaglia M., Amore è musica (gli adolescenti e il mondo dello spettacolo)Targhetta F., La capitale dell’impero di carta (editori per la scuola a Torino nella

prima metà del Novecento)