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1 Nessuno al Mondo (In the Country of Men) di Hisham Matar Traduzione dall’inglese di Andrea Sirotti, edizioni Einaudi 2008 pp 238 Premessa Questa opera prima di un esule libico è stata pubblicata nel 2006 e successivamente tradotta in 22 lingue in tutto il mondo. Ha vinto una serie di premi internazionali e rappresenta una delle voci letterarie più importanti di lingua inglese nel Nord Africa. Il racconto, come in Allah non è obbligato, arriva attraverso un bambino che si fa testimone della repressione sanguinosa del regime di Gheddafi degli studenti e dei loro accoliti, tra cui c’è il padre e il padre del suo migliore amico nel 1979. Il racconto è una denuncia realistica della vita vissuta dai libici non conformi all’ortodossia rivoluzionaria di Gheddafi che dovrebbe far riflettere a lungo sulle troppe voci di dissenso nei confronti della rivoluzione del 2011, sostenuta dalla forza aerea a comando NATO con il placet dell’ONU, che rovesciò il regime fino all’esecuzione dello stesso Gheddafi. Distinguere l’appoggio alla lotta armata della componente maggioritaria di un popolo contro un feroce dittatore dotato di uno dei più potenti eserciti arabi dall’intervento neocoloniale per interessi geo-politico economici è basico per capire cosa sta accadendo in Libia ed evitare un ulteriore atto della politica interventista velleitaria 1 , caratterizzante la politica estera europea e, in particolare, statunitense dalla caduta del muro di Berlino in poi, che ha prodotto questa sorta di guerra civile (cambiamenti di regimi nazionali provocati dall’esterno) mondiale permanente che stiamo vivendo da un quarto di secolo. L’autore Hisham Matar nasce a New York City nell’autunno 1970. Trascorre la prima infanzia negli Usa con i genitori libici poiché il padre, Jaballa Matar, lavorava per la delegazione libica alle Nazioni Unite. Quando aveva 3 anni, la sua famiglia tornò a Tripoli, dove trascorse la sua prima infanzia. A causa della persecuzione politica del regime di Gheddafi, nel 1979 il padre fu accusato di essere un sovverviso reazionario al regime rivoluzionario libico e costretto a fuggire dalla Libia, prima in kenia e successivamente in Egitto. Visse con il fratello al Cairo in esilio completando gli studi in una classe con 70 scolari. Nel 1986 Matar si sposto a Londa dove completò gli studi superiori laureandosi in architettura e successivamente conseguendo un master in Design Futures all’università di Londra, Goldsmiths. Nel 1990 il padre fu arrestato dalla polizia segreta egiziana. Hisham e la famiglia ebbe notizia del padre solo nel 1996 attraverso due lettere autografe scritte un anno prima e una registrazione, ove il padre accusava i servizi segreti egiziani di averlo consegnato alle autorità libiche e di essere imprigionato nella famigerata prigione di Abu-Salim a Tripoli. In 2008 Matar divenne Mary Amelia Cummins Harvey Visiting Fellow Commoner al Girton College dell’Università di Cambridge. In 2010 Hisham Matar ricevette notizie che il padre era stato visto vivo e che era sopravvissuto al massacro nel carcere del 1996 quando 1200 prigionieri politici furono trucidati dalle autorità libiche. Nel 2012 compì un viaggio in Libia con la moglie, la madre e la sorella alla ricerca del padre, dove riabbraccio lo zio. Il racconto del viaggio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista The New Yorker con il titolo The return. In 2014 diventava Weiss International Fellow in Letteratura e Arte e Professore associato aggiunto al Dipartimento d’inglese alla Barnard University di New York City. 1 Velleitario è rispetto agli obiettivi, non certo rispetto alla strategia di dominio o ai molteplici interessi economico-politici e militari che hanno dal 1990 mosso le decisioni di tutte le amministrazioni statunitensi nel nuovo ruolo assunto dagli USA di promotore,regolatore ed arbitro del Nuovo Ordine Mondiale generato dal crollo dell’Impero Sovietico.

Nessuno al Mondo (In the Country of Men) di Hisham Matar

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Nessuno al Mondo (In the Country of Men) di Hisham Matar Traduzione dall’inglese di Andrea Sirotti, edizioni Einaudi 2008 pp 238

Premessa Questa opera prima di un esule libico è stata pubblicata nel 2006 e successivamente tradotta in 22 lingue in tutto il

mondo. Ha vinto una serie di premi internazionali e rappresenta una delle voci letterarie più

importanti di lingua inglese nel Nord Africa. Il racconto, come in Allah non è obbligato,

arriva attraverso un bambino che si fa testimone della repressione sanguinosa del regime di

Gheddafi degli studenti e dei loro accoliti, tra cui c’è il padre e il padre del suo migliore amico

nel 1979. Il racconto è una denuncia realistica della vita vissuta dai libici non conformi

all’ortodossia rivoluzionaria di Gheddafi che dovrebbe far riflettere a lungo sulle troppe voci

di dissenso nei confronti della rivoluzione del 2011, sostenuta dalla forza aerea a comando

NATO con il placet dell’ONU, che rovesciò il regime fino all’esecuzione dello stesso

Gheddafi. Distinguere l’appoggio alla lotta armata della componente maggioritaria di un

popolo contro un feroce dittatore dotato di uno dei più potenti eserciti arabi dall’intervento

neocoloniale per interessi geo-politico economici è basico per capire cosa sta accadendo in Libia

ed evitare un ulteriore atto della politica interventista velleitaria1, caratterizzante la politica

estera europea e, in particolare, statunitense dalla caduta del muro di Berlino in poi, che ha prodotto questa sorta di

guerra civile (cambiamenti di regimi nazionali provocati dall’esterno) mondiale permanente che stiamo vivendo da un

quarto di secolo.

L’autore Hisham Matar nasce a New York City nell’autunno 1970. Trascorre la prima infanzia negli Usa con i

genitori libici poiché il padre, Jaballa Matar, lavorava per la

delegazione libica alle Nazioni Unite. Quando aveva 3 anni, la sua

famiglia tornò a Tripoli, dove trascorse la sua prima infanzia. A

causa della persecuzione politica del regime di Gheddafi, nel 1979

il padre fu accusato di essere un sovverviso reazionario al regime

rivoluzionario libico e costretto a fuggire dalla Libia, prima in

kenia e successivamente in Egitto. Visse con il fratello al Cairo in

esilio completando gli studi in una classe con 70 scolari. Nel 1986

Matar si sposto a Londa dove completò gli studi superiori laureandosi in architettura e successivamente

conseguendo un master in Design Futures all’università di Londra, Goldsmiths. Nel 1990 il padre fu

arrestato dalla polizia segreta egiziana. Hisham e la famiglia ebbe notizia del padre solo nel 1996

attraverso due lettere autografe scritte un anno prima e una registrazione, ove il padre accusava i servizi

segreti egiziani di averlo consegnato alle autorità libiche e di essere imprigionato nella famigerata

prigione di Abu-Salim a Tripoli. In 2008 Matar divenne Mary Amelia Cummins Harvey Visiting Fellow

Commoner al Girton College dell’Università di Cambridge. In 2010 Hisham Matar ricevette notizie che

il padre era stato visto vivo e che era sopravvissuto al massacro nel carcere del 1996 quando 1200

prigionieri politici furono trucidati dalle autorità libiche. Nel 2012 compì un viaggio in Libia con la

moglie, la madre e la sorella alla ricerca del padre, dove riabbraccio lo zio. Il racconto del viaggio è stato

pubblicato sulla prestigiosa rivista The New Yorker con il titolo The return. In 2014 diventava Weiss

International Fellow in Letteratura e Arte e Professore associato aggiunto al Dipartimento d’inglese alla

Barnard University di New York City.

1 Velleitario è rispetto agli obiettivi, non certo rispetto alla strategia di dominio o ai molteplici interessi economico-politici e militari che hanno dal 1990 mosso le decisioni di tutte le amministrazioni statunitensi nel nuovo ruolo assunto dagli USA di promotore,regolatore ed arbitro del Nuovo Ordine Mondiale generato dal crollo dell’Impero Sovietico.

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Premi ricevuti

2013Blue Metropolis Al Majidi Ibn Dhaher Arab Literary Prize

2013Fellow of the Royal Society of Literature

2007Commonwealth Writers' Prize

2007Royal Society of Literature Ondaatje Prize

2007Premio Gregor von Rezzori Prize

2007Premio Internazionale Flaiano

2007Arab American Book Award

Libri e saggi

In the Country of Men, Viking-Penguin, 2006, ISBN 0-670-91639-0

Anatomy of a Disappearance, Viking-Penguin, 2011, ISBN 0-670-91651-X

Matar, Hisham (April 8, 2013). "The return : a father's disappearance, a journey home". Letter from Libya. The New Yorker 89 (8): 46–59.

Il romanzo

Nessuno al mondo fu pubblicato nel 2006 da Viking, una collana dei Penguin Books. Fu proclamato «the

2006 Man Booker Prize» e «the Guardian First Book Award». In seguito il libro vinse «the 2007

Commonwealth First Book Award for Europe and South Asia», «the 2007 Royal Society of Literature

Ondaatje Prize», il Premio Vallombrosa Gregor von Rezzori, il Premio Internazionale Flaiano (Sezione

Letteratura), la prima edizione «Arab American National Museum Book Award» e «the 2007 Royal

Society of Literature Ondaatje Prize».

Il libro è il resoconto autobiografico della vita quotidiana2 di Suleiman, un bambino di nove anni ragazzo che vive a Tripoli in Libia nel 1979, figlio di un uomo d’affari, coinvolto in prima persona nell’attività anti-Gheddafi, e di una giovane madre vulnerabile che s’affida alla grappa per seppellire la sua ansia e la sua rabbia per essere stata costretta a sposarsi per una semplice uscita con il futuro marito insieme ad amici spiata dal fratello maggiore, celebre poeta e drammaturgo di

apparente visione liberale. Le uniche persone a cui Suleyman si rivolge sono il suo migliore amico Kareem, figlio dell’amico del padre arrestato torturato ed impiccato in una esecuzione pubblica, e il migliore amico di suo padre Moosa, figlio di un giurista egiziano di idee liberal-democratiche. Suleiman sarà costretto ad emigrare in Egitto per evitare di diventare bersaglio del comitato rivoluzionario del regime, dopo la dura repressione degli oppositori. Suleiman diventerà farmacista e riabbraccerà la madre solo dopo la prematura morte del padre per infarto dopo aver vissuto l’umiliazione della politica di rieducazione rivoluzionaria (macchinista in un pastificio).

I principali personaggi sono:

• Suleiman el Dewani detto Sluma - il narratore

• Faraj el Dewani “Baba” – il padre di Suleiman

• Najwa “Mama” – la mamma Suleiman

• Mussa – il migliore amico di Baba

2 Nella figura è raffigurato un esempio di jalabiya (jallabia) جالبية (jillābiyya) f, جالليب (jlālīb) pl, l’abbigliamento comune maschile, consistente in un lungo abito che

copre il corpo dalle spalle ai piedi. Ha generalmente una tasca in alto a sinistra ed è cucita in modo da far circolare agevolmente l’aria, così da rinfrescare il corpo. Generalmente di cotone bianco (soprattutto d’estate e nei luoghi particolarmente caldi), in inverno, è indossato anche in varianti colorate, per lo più in tonalità più scura e può essere fatto anche con lana o altre fibre più calde

Jallabia: fronte e retro

3

• Kareem – il vicino di casa di Suleiman e migliore amico

• Ustath Rashid – il padre di Kareem, professore di storia dell’arte all’Università Al-Fateh e cospiratore insieme a Baba; già arrestato quando inizia il racconto

• Sharief - un membro del Comitato Rivoluzionario che da la caccia a Faraj el Dewani

• Bahlul - un mendicante che possedeva una barca

• Ustath Jafer – vicino di casa ed importante membro del Mukhabarat3 el-Jamahiriya (servizio segreto libico)

Alcune riflessioni Matar in una intervista rilasciata a l’Orient Letteraire a Lucie Geoffry pubblicata nel luglio 20124 dichiarò [mia traduzione]:

«E’ la poesia che mi ha portato alla narrativa. Creo che tutti i romanzi pongono lo stesso quesito: come vivere? E l’impegno più diretto per porre questa domanda e rispondervi è la poesia. Quando ero giovane non leggevo che dei poemi. La biblioteca dei miei genitori era piena di opere di opere di poeti arabi, francesi, italiani, greci. Amo molto anche i poeti arabi classici: al-Mutanabbi5 e Ibn Arabî6. Altrettanto amo molto poeti più recenti Badr Shakir al-Sayyab7 e Adonis8. Quando ero piccolo, i miei genitori leggevano le poesie ad alta voce in serata con i loro amici. Ero molto giovane e non comprendevo, ma trovavo tutto molto eccitante. In poesia come nei romanzi, io amo i silenzi. Ci sono libri che si aprono l'immaginazione, altri che la chiudono. Si parla spesso della voce nei libri. Sono

molto toccato dal silenzio. Dei Fratelli Karamazov, in particolare mi ricordo silenzi.9».

Nella stessa intervista spiegò la ragione per cui scriveva in lingua inglese [mia traduzione]

«Amo scrivere semplicemente. Trovo che scrivere con la maggior chiarezza possibile è un esercizio molto interessante per uno scrittore. Quando ci si esprime in una lingua diversa dalla propria lingua madre, ci si deve confrontare ancor di più con questa necessità. Samuel Beckett iniziò a scrivere in francese perché si sentiva come una situazione di emergenza. Aveva bisogno dell'astrazione propria di scrivere in una lingua diversa dalla propria. Padroneggio l'inglese perfettamente: ho fatto i miei studi a Londra, li ho lavorato e ho vissuto. Ma questa lingua mi mette in una posizione un poco distaccata, che mi permette di avvicinarmi cose più semplicemente. Parole o espressioni della nostra lingua madre contengono scorciatoie. In qualche modo, l'inglese mi protegge da scrivere strutture e luoghi comuni. Per quanto riguarda l'atto di scrivere in arabo, in realtà non lo so. Ho una visione limitata sul mio prossimo libro. Non dico mai: "Un giorno scriverò un libro in arabo". Faccio le cose d'istinto. Mi piace

3 Nella traduzione si usa Mokhabarat senza spiegare il significato. Il termine corretto è Mukhābarāt (in arabo: مخابرات‎‎, che nella translitterazione può essere scritto

muḫābarāt / muḵābarāt); esso è una forma di verbo reso sostantivo masdar di terzo tipo, ossia usa la forma femminile del participio passato, la cui radice Kh-B-R, significa "rapporto, notizia"). 4 http://www.lorientlitteraire.com/article_details.php?cid=6&nid=3878 5 Abū l-Ṭayyib Aḥmad ibn al-Ḥusayn, detto al-Mutanabbī (in arabo: المتنبّي الحسين بن احمد الطيب أبو ‎; Kufa, 915 – 965), è stato un poeta arabo dell'era abbaside.

E’ considerato forse il più grande poeta classico arabo per la capacità linguistica e comunicativa e l'uso immaginifico della metafora quale figura retorica per eccellenza. 6 Ibn `Arabi (Abu Bakr Muhammad ibn al-`Arabi al-Hatimi al-Ta'i) (1165-1240), insignito dei titoli onorifici di al-Shaikh al-akbar ("Il più grande maestro ") e di Muhyi al-Din ("Colui che fa rivivere la religione ") è stato un filosofo, mistico e poeta arabo. La sua opera ha influenzato molti intellettuali e mistici sia orientali sia occidentali. Al centro del suo pensiero vi era in concetto del Logos, un termine greco da lui preso nel doppio significato di "eterna saggezza" e di "parola". E’ considerato uno dei teorici del Sufismo. 7 Badr Shākir al-Sayyāb (in arabo: السياب شاكر بدر ‎; Jaykur, 24 dicembre 1926 – Madinat al-Kuwait, 1964) è stato un poeta iracheno. Fu membro del partito

comunista iracheno ed considerato uno dei maggiori esponenti della poesia araba contemporanea anche per la sua innovatrice opera nella cosiddetta "poesia a versi liberi" che ruppe col passato tradizionale della poesia araba classica, strettamente legata alla metrica araba e ai suoi piedi. 8 Adonis o Adunis (in arabo: أدونيس‎), pseudonimo di Alī Ahmad Sa'īd Isbir (in in arabo: إسبر سعيد أحمد علي ‎; traslitterato in Alî Ahmadi Sa'îdi Asbar o Ali Ahmad

Sa'id; Qassabīn, 1º gennaio 1930) è un poeta e saggista siriano. Tra i fondatori del gruppo Tammuzi (antica dea babilonese) per il rinnovamento poetico arabo, è considerato tra i maggiori poeti viventi. Ultimamente ha espresso posizioni molto nette sull’Islam arrivando ad affermare che con la nascita del Daesh l’Islam non ha più vitalità intellettuale. http://www.lematindz.net/news/20118-adonis-sur-le-plan-intellectuel-lislam-na-plus-rien-a-dire.html 9 « C’est la poésie qui m’a amené à la fiction. Je crois que tous les romans posent la même question : comment vivre? Et l’engagement le plus direct pour poser cette

question et y répondre, c’est la poésie. Quand j’étais jeune, je ne lisais que des poèmes. La bibliothèque de mes parents était remplie des œuvres de poètes arabes, français, italiens, grecs. J’aime aussi beaucoup les poètes arabes classiques : al-Mutanabbi et Ibn Arabî. J’aime aussi beaucoup d’autres poètes plus récents: Badr Shakir al-Sayyab et Adonis. Quand j’étais petit, mes parents lisaient des poèmes tout haut le soir, avec leurs amis. J’étais très jeune et je ne comprenais pas, mais je trouvais cela très excitant. Dans la poésie comme dans les romans, j’aime les silences. Il y a des livres qui ouvrent l’imagination, d’autres qui la ferment. On parle

souvent de la voix dans les livres. Moi je suis très touché par les silences. Des Frères Karamazov, je me souviens surtout des silences.»

4

lasciare l'ispirazione pervadermi e maturare gradualmente. E soprattutto, odio l'idea di essere uno

scrittore professionista.»10

In precedenza11 in occasione dell’uscita del romanzo ebbe modo di dichiararsi come un esteta ed un edonista12 e che il suo interesse per la politica era in realtà legato unicamente al fatto che la costruzione dei personaggi senza di essa non avrebbe avuto sostanza.

Se quindi ci si attiene a quanto afferma lo scrittore le interpretazioni fornite del testo dovrebbero essere effettuate attraverso la diade della letteratura e dell’estetica e non tramite categorie derivanti dalla forma della testimonianza politica della sofferenza vissuta in uno delle tante forme di dittatura di cui la vicenda storica umana è affollata dalla nascita della forma statuale. In questa cornice esistono due possibili interpretazioni del testo.

La prima è lo studio di ElBowety13 che analizza l’opera di Matar e il romanzo Summertime di J. M. Coetzee, premio nobel sudafricano, anch’esso scritto sotto forma di autobiografia secondo la categoria

del «Kunstlerroman», una tipologia di racconto che esplora la crescita di un individuo che diventa un

artista, sottogenere del «Bildungsroman14». Kunstlerroman agevola la comprensione delle diverse sfaccettature di un’autobiografia fittizia qual è il romanzo di Matar, che unisce appunto la biografia scritta da se medesimo con i canoni propri della narrativa.

La disamina fatta da ElBowety è attenta e scrupolosa: l’aspetto più interessante è l’uso della voce del bambino Suleiman incorporata con la voce di un adulto per rivisitare la propria infanzia dentro un contesto di finzione. Questo accorgimento permette a Matar di parlare dell’infanzia testimone di barbarie e violenza senza dover costruire un impianto ideologico o una narrazione puntualmente costellata di dettagli emotivo-sentimentali. La brutalità è nuda in termini postmoderni, perché contiene almeno quattro verità: la vittima, il carnefice, lo spettatore e il narratore. E la finzione autobiografica postmoderna rende possibile rappresentare facilmente l’ambiguità di Suleyman che passa sul piano del tradimento e dell’essere tradito nello stesso contesto, coscientemente fa delazione a Sharief perché lo tratta da adulto e non bambino che puzza d’orina. Giustamente la studiosa sottolinea come l’autobiografia risulti finzione in sé, perché la realtà non può mai essere autobiografica, tuttavia la vera chiave interpretativa per ElBowety diventa quella di Derrida del saggio “The Law of Genre15”

attraverso la formulazione di «a principle of contamination, a law of impurity» (p. 206), una legge di impurità secondo la quale ogni testo appartiene a un gruppo di generi senza possedere una quantità tale da appartenerci interamente16. Una conclusione condivisibile, ma che mette in luce un’ulteriore volta quale sia la difficoltà della critica letteraria contemporanea nel trattare la letteratura secondo categorie ottocentesche; una difficoltà che rischia di esaurirsi in una tassonomia pedante quanto sterile ed autoreferenziale, incapace di fornire elementi utili a catturare le molteplici dimensioni dell’attuale scrittura letteraria e a decifrarne i codici comunicativi impliciti ed espliciti.

Diversamente intrigante ed interessante risulta la lettura fornita da Lorenzo Mari17: Partendo dall’analisi letteraria post-coloniale colloca il romanzo di Matar nella letteratura post-coloniale italiana e cerca di decomporre gli elementi costitutivi del racconto letterario dello scrittore libico a partire dallo studio

10 « J’aime écrire simplement. Je trouve qu’écrire avec le plus de clarté possible est un exercice très intéressant pour un écrivain. Quand on s’exprime à travers une

autre langue que sa langue maternelle, on est d’autant plus confronté à cette exigence. Samuel Beckett a commencé à écrire en français parce qu’il ressentait cela comme une urgence. Il avait besoin de cette abstraction propre au fait d’écrire dans une autre langue que la sienne. Je maîtrise parfaitement l’anglais : j’ai fait mes études à Londres, j’y ai travaillé et j’y vis. Mais cette langue me place dans une position un peu décalée, ce qui me permet d’aborder les choses plus simplement. Les mots ou les expressions de notre langue maternelle contiennent des raccourcis. D’une certaine manière, l’anglais me prémunit des facilités d’écriture et des clichés. Quant au fait d’écrire en arabe, à vrai dire je ne sais pas. J’ai une vue limitée sur mon prochain livre. Je ne me dis pas : « Un jour j’écrirai un livre en arabe. » Je fais

les choses instinctivement. J’aime laisser l’inspiration m’habiter et mûrir petit à petit. Et surtout, je hais l’idée d’être un écrivain professionnel.» 11 https://www.theguardian.com/books/2006/sep/17/bookerprize2006.thebookerprize 12 "I think ultimately I am a sensualist and an aesthete… I'm not really interested in politics, but politics was part of the canvas. I had to say something about it, otherwise all the different forces that are shaping these characters would be abstract.” 13 Rana Mounir ElBowety Reinventing the Artistic Self: Coetzee’s Summertime and Matar’s In the Country of Men A Thesis Submitted to The Department of English and Comparative Literature, The American University in Cairo, febbraio 2015 14 Il cosiddetto romanzo di formazione racconta l'evoluzione del protagonista verso la maturazione e l'età adulta, nonché la sua origine storica. L’origine può essere ricondotta all’opera di W. Goethe Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (titolo originale Wilhelm Meisters Lehrjahre) pubblicato per la prima volta fra il 1795 e il 1796 15 Derrida, Jacques. “The Law of Genre”. Glyph 7 (1980): 202-29. 16 ElBowety op. cit. pag 64 17 Lorenzo Mari ‘In the Country of Absences’ Ancient Roman and Italian Colonial Heritage in Hisham Matar’s In the Country of Men (2006) Incontri. Rivista europea di Studi Italiani Anno 28, 2013 / Fascicolo 1

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fatto da Annie Gagiano18 che parla di Suleyman come di un “tradito nel tradimento ‘betrayed intobetrayal’ evocando come causa il rapporto edipico19 con il padre. Su tale analisi Mari utilizza il lavoro di Frederic Jameson20 sulle allegorie nazionali intese come storie di destini privati che sono allegorie del conflitto tra culture del terzo-mondo e società21. Al di là della condivisione o meno della tesi di Jameson, Mari cattura la visione non-nazionalista di Matar a partire dall’affermazione contenuta

nel libro quando Suleyman è costretto ad emigrare in Egitto: «Il nazionalismo è come un filo sottile:

sarà per questo che molti sono convinti di doverlo difendere strenuamente. »(pag 218)22. Su questa visione s’innesta la quasi assenza di elementi narrativi riferiti al periodo coloniale italiano (uno di questo però è determinante nell’economia del racconto: la grappa ch’è la causa dello stato alterato della madre, ma Mari non ci si sofferma ed invece sarebbe facile intuire l’allegoria). Vi è piuttosto la celebrazione attraverso gli occhi del bambino delle radici romane della Libia con la visita a Leptis Magna e della maestosità della statua di Settimio Severo23. Mari fa una lettura politica di questa affermazioni del patrimonio storico libico, descritto con entusiasmo dal professore d’arte, compare del padre di Suleyman che verrà brutalmente impiccato: la delegittimazione del discorso ideologico di Gheddafi e del suo essere campione del nazionalismo libico. Tuttavia questa lettura politica contrasta con quanto ha ripetuto in diverse occasioni Matar stesso. Mari prende atto di ciò e ne conclude che la chiave di lettura deve quindi essere un'altra: la Braudeliana longue durée24. Secondo Mari queste è un’interpretazione in linea con le tendenze della letteratura mondiale, che vedono nell’utilizzo di una lingua quale l’inglese l’obiettivo di costruire una cornice transnazionale alla lettura postcoloniale.

C’è da osservare che entrambe le interpretazioni non leggono il romanzo secondo le direttrici fondamentali dettate dallo stesso autore: estetica ed edonismo. Questo è un errore metodologico perché la lettura di romanzo, di qualsivoglia genere, dovrebbe sempre partire dalla conoscenza della vita e della cultura di chi lo scrive per evitare di far dire al libro ciò che noi vogliamo/desideriamo/percepiamo che comunichi. Non è questa la sede per argomentare tale affermazione, ma seguendo questo l’approccio si può affermare sinteticamente che Hisham Matar è un libico anglofono, arabo-islamico, che afferma con chiarezza di non ritenersi ambasciatore25 tra la sua cultura e quella occidentale rifiutando quindi lo schema postcoloniale ed affermando la sua volontà di scrivere ciò che vuole senza alcun tipo di condizionamento a partire da quello linguistico.

Nei confronti di Gheddafi lo scrittore è chiarissimo [traduzione del sottoscritto]:

« La fine del regno di Gheddafi è stata una grande gioia per me. Ne ho risentito in tutto il mio corpo. Questo è qualcosa che non avrei mai immaginato. La dittatura di Gheddafi ha influenzato la mia vita in modo veramente significativo. Sotto il suo regno, non ho mai smesso di essere preoccupato per la vita dei miei cari. Detto questo, sono rimasto molto scioccato dal modo in cui è stato trattato. E' stato un momento di follia. Quando ho saputo della sua morte, ero a New York, facevo la doccia, ho ascoltato la radio. Ho sentito la notizia, sono uscito dalla doccia e ho guardato le informazioni di continuo. Poi sono tornato sotto la mia doccia. Ho avuto una grande sensazione di fiducia e speranza al mondo. La

18 ‘Annie Gagiano Ice-Candy-Man and In the Country of Men: The politics of cruelty and the witnessing child, Stellenbosch Papers in Linguistics, 39 (2010), pp. 25-39 19 Il romanzo non presenta nessun cenno esplicito al desiderio sessuale di Suleyman come fantasia sostituente la frequente assenza del padre nel letto familiare, tuttavia l’effetto edipico è sovente dato per scontato nella critica letteraria. 20 Fredric Jameson (Cleveland, 14 aprile 1934) è un critico letterario e teorico politico statunitense. Jameson è conosciuto per le sue analisi sulle correnti culturali dell'età contemporanea: ha descritto il postmoderno come una spazializzazione della cultura sotto la pressione del capitalismo organizzato, al fine di fornire una giustificazione ideologica alla produzione flessibile. Per cui le categorie del moderno non sono superate in sé ma non più funzionali al nuovo corso capitalistico. Lo studioso statunitense attualmente ricopre una cattedra di "Letteratura e lingue romanze" presso la Duke University, in Carolina del Nord. 21 F. Jameson, ‘Third-World Literature in the Era of Multi-National Capitalism’, Social Text, 15 (1986), pp.65-88, 22 «Nationalism is as thin as a thread, perhaps that’s why many feel it must be anxiously guarded» pag 230 della versione originale 23 Lucio Settimio Severo (Leptis Magna, 11 aprile 146 – Eboracum, 4 febbraio 211) fu un imperatore romano dal 193 alla sua morte L'ascesa di Settimio Severo costituisce uno spartiacque nella storia romana; è considerato infatti l'iniziatore della nozione di "dominato" in cui l'imperatore non è più un privato gestore dell'impero per conto del Senato, come durante il principato, ma è unico e vero dominus, che trae forza dall'investitura militare delle legioni (anche se anticipazioni di questa tendenza si erano avute durante la guerra civile seguita alla morte di Nerone e con Traiano). Egli fu inoltre iniziatore di un nuovo culto che si incentrava sulla figura dell'imperatore, ponendo le basi per una sorta di "monarchia sacra" mutuata dall'oriente ellenistico. Adottò infatti il titolo di dominus ac deus che andò a sostituire quello di princeps, che sottintendeva una condivisione del potere con il Senato. (tratto da Wikipedia) 24 Longue durée, in italiano "Lunga durata" è un termine utilizzato dalla scuola francese degli storici delle Annales per designare il loro approccio allo studio della storia, che dà la priorità alle strutture storiche di lunga durata più che agli eventi. Tale approccio introduce il metodo sociale scientifico nella storia. Pionieri di quest'approccio furono Marc Bloch e Lucien Febvre nella prima metà del XX secolo. L'approccio fu portato avanti da Fernand Braudel nella seconda parte del secolo. (tratto da Wikipedia) 25 Si fa sempre riferimento all’intervista della nota 4. Si osservi che l’attributo ambasciatore, affibbiatogli dalla rivista New York Review of books, sembra la versione dolce dell’allegoria nazionale di Jameson.

6

dittatura di Gheddafi era priva di un sistema logico. Ha ucciso a caso, senza alcuna spiegazione, era un mondo folle. Noi tutti volevamo finisse ed è finita in un momento di follia.»26

La posizione di Matar sull’intervento della Nato che decise le sorti della rivolta armata libica è chiarissima nella risposta data su London Review of Books27il 1 dicembre 2011 alle dotte argomentazioni di Hugh Roberts28 pubblicate il 17 novembre contro tale intervento: Shame ossia vergogna perché Roberts non espresse alcuna solidarietà verso chi sta combattendo per l’aspirazione

alla libertà ed alla giustizia29.

Quindi leggere Matar significa comprendere che ci si trova di fronte ad un libico appartenente all’upper class araba, islamico, educato nel mondo anglofono, costretto ad emigrare perché un ufficiale dell’esercito del suo paese ha fatto un colpo di stato, manipolando coscienze religiose ed ideali di indipendenza nazionale. Il progetto di Gheddafi secondo Matar non ha alcun fondamento ideologico (al contrario di quello che pensano la quasi totalità degli osservatori occidentali) e la sua brutalità giustifica a priori la ribellione al tiranno. Tutto questo è consequenziale alla cultura islamica di cui è figlio (il riferimento alla lotta tra Mosé e il Faraone è nozione basica per un

qualsiasi islamico). Tuttavia Matar è anche fortemente critico verso questa cultura, perché consapevole che è responsabile dell’ascesa di Gheddafi e della condizione femminile nel mondo arabo. E la critica passa ad esempio nella valorizzazione della tradizione precedente al Profeta, nella confutazione del ruolo di Sherazade quale esempio di donna che vive secondo i costumi della Sharia; nella citazione di testi di politica propri della cultura non islamica; nella fantasia di Suleyman delle more come frutto del Paradiso lasciato da Allah per gli uomini in contrasto l’insegnamento dell’iman del ponte d’attraversare per arrivare in Paradiso. Matar è islamico nel senso culturale del termine, ma è occidentale nella scelta di società che vuole per sé e per il suo popolo. Per Matar non esistono limiti alla creatività e alla volontà di trovare la risposta alla domanda come vivere. Se esiste oggi una via non confessionale all’Islam, sicuramente Matar la pratica e la vive e attraverso la sua scrittura noi possiamo scoprirla.

1979 Esso fu un anno cruciale della dittatura di Gheddafi: in quell’anno egli rinunciò ad ogni carica politica

ed assunse il titolo di Leader della Rivoluzione e leader del Comitato di Comando Rivoluzionario,

delegando formalmente ogni compito di governo ai suoi fedelissimi tribali e familiari. Questo atto rese

totalmente libero il suo operato dal controllo di qualsivoglia organo statuale. La politica delle royalties e

dei contratti con le compagnie petrolifere portava il reddito pro-capite annuo alla cifra ragguardevole di

10.000$, tale da far divenire la Libia il paese più ricco dell’Africa. In quell’anno, Gheddafi ignorando le

raccomandazioni del suo stato maggiore inviò 3000 soldati con equipaggiamento per aiutare Amin nella

sua invasione della Tanzania. Le truppe libiche sostennero la rimozione del presidente chadiano Mallou,

da parte dell’islamico del nord Goukouni Oueddei. Questo evento scateno la guerra civile condotta

dall’ex primo ministro Hissène Habre, con la sua armata del Nord30. Inoltre la Libia decise di

appoggiare le istanze indipendentiste dei Tuareg nel nord del Mali. Un appoggio che sfociò nella

26 «La fin du règne de Kadhafi fut une grande joie pour moi. Je l’ai ressentie dans tout mon corps. C’est quelque chose que je n’avais jamais imaginé. La dictature de

Kadhafi a affecté ma vie personnelle de manière très importante. Sous son règne, je n’ai cessé d’être inquiet pour la vie des miens. Cela dit, j’ai été très choqué par la manière dont il a été traité. Ce fut un moment de folie. Quand j’ai appris sa mort, j’étais à New York, je me douchais, j’écoutais la radio. J’ai entendu la nouvelle, je suis sorti de la douche et j’ai regardé les informations, en boucle. Puis je suis retourné sous ma douche. J’avais un grand sentiment de confiance et d’espoir envers le monde. La dictature de Kadhafi était un système dénué de logique. Il tuait au hasard, sans explication, c’était un monde fou. Nous voulions tous que cela prenne fin et cela a pris fin dans un moment de folie. La fin du règne de Kadhafi fut une grande joie pour moi. Je l’ai ressentie dans tout mon corps. C’est quelque chose que je n’avais jamais imaginé. La dictature de Kadhafi a affecté ma vie personnelle de manière très importante. Sous son règne, je n’ai cessé d’être inquiet pour la vie des miens. Cela dit, j’ai été très choqué par la manière dont il a été traité. Ce fut un moment de folie. Quand j’ai appris sa mort, j’étais à New York, je me douchais, j’écoutais la radio. J’ai entendu la nouvelle, je suis sorti de la douche et j’ai regardé les informations, en boucle. Puis je suis retourné sous ma douche. J’avais un grand sentiment de confiance et d’espoir envers le monde. La dictature de Kadhafi était un système dénué de logique. Il tuait au hasard, sans explication, c’était un

monde fou. Nous voulions tous que cela prenne fin et cela a pris fin dans un moment de folie.» 27 http://www.lrb.co.uk/v33/n22/hugh-roberts/who-said-gaddafi-had-to-go 28 Hugh Roberts è the Edward Keller Professor of North African and Middle Eastern history all’Università di Tufts USA. I suoi più recenti libri sono The Battlefield: Algeria 1988-2002 e Berber Government: The Kabyle Polity in Pre-Colonial Algeria. 29 « In more than 12,000 words Roberts succeeds in expressing no sympathy for, let alone solidarity with, a people’s legitimate aspiration for justice and freedom.

Shame.» [trad. In più di 12000 parole Roberts riesce nell’esprimere alcuna simpatia, finanche solidarietà, alla legittima aspirazione di un popolo alla giustizia ed alla

libertà. Vergogna] 30 Nel 1982 Habre trionfò su Oueddei e i suoi mercenari libici, dando vita ad un regime dittatoriale tra i più terribili tanto da meritarsi il nomignolo di Pinochet africano.

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costituzione del Fronte Popolare per la liberazione del Sahara centrale arabo (FPLACS). Per contrastare

il dominio del Rais nasceva la Fratellanza musulmana e, come il resto del gruppo islamico nel mondo

arabo, assunse come principio fondante quello dello «Stato e della religione islamica». Nell'ottobre 1979

durante una parata militare, un pilota dell'aviazione libica si diresse con il proprio velivolo sulle tribune

su cui si trovava Gheddafi: fu abbattuto all'ultimo istante. A dicembre, dopo l’incendio della sede

dell’ambasciata, gli Stati Uniti inserirono la Libia nella loro lista degli stati sponsor del terrorismo e

cominciò il regime delle sanzioni. Alla fine dell’anno i libici fuggiti dalla Libia per ragioni politiche erano

100000 pari al 3,4% della popolazione (all’epoca la popolazione libica era di 2.957.000)31.

DOSSIER LIBIA (a cura di Nessuno tocchi Caino) 17 settembre 2008 Questo dossier, integralmente riportato, è molto efficace nello spiegare cosa era la Libia a meno di due anni e mezzo prima dello scoppio della rivolta.

Il dossier è curato dall’associazione radicale transnazionale Nessuno tocchi Caino (http://www.nessunotocchicaino.it/)

I DIRITTI UMANI SECONDO GHEDDAFI

Con chi l’Italia ha stretto un Trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione»

Il sistema politico libico è di tipo autoritario. Sebbene il nome della forma di governo sia Jamahiriya, che letteralmente vuol dire “Stato delle masse”, il popolo non governa attraverso i consigli locali; questi ultimi sono manipolati in modo tale da lasciare intatto lo strapotere del Colonnello Muammar Gheddafi, esercitato di fatto e ininterrottamente dal 1969.

In questi quarant’anni, il regime libico si è caratterizzato per la persecuzione di ogni forma di dissenso politico, per la repressione sistematica delle libere opinioni individuali e delle associazioni non riconosciute dal regime, per l’assenza assoluta di organi di stampa indipendenti, per l’incarcerazione o la sparizione degli oppositori politici, per il ricorso a tribunali segreti e la tenuta di processi a porte chiuse, per la pratica della tortura e della pena di morte.

L’assenza di tutela dei diritti umani fondamentali fa si che la Libia sia classificata come “paese non libero”, secondo i criteri analitici usati in Libertà nel mondo 2008, il Rapporto annuale di Freedom House sulla situazione dei diritti politici e delle libertà civili paese per paese (www.freedomhouse.org). La classificazione di Freedom House assegna, infatti, alla Libia un voto pari a 7, il peggiore possibile nella scala di valori utilizzata per valutare il grado di libertà esistente in un Paese.

La corruzione è molto diffusa sia nel settore pubblico che in quello privato; la Libia, infatti, si colloca al centotrentunesimo posto tra i centottanta Paesi analizzati, nell’indice di trasparenza internazionale elaborato nell’anno 2007.

Con questo Paese, il 30 agosto scorso, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha firmato a Bengasi un Trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione». Ad oggi, 16 settembre, al Parlamento oltre che all’opinione pubblica non è dato conoscere le linee generali e tantomeno i termini precisi di detto trattato né meglio comprendere quali saranno i tempi e i passaggi istituzionali per la necessaria ratifica del documento da parte dei due rami del Parlamento, l’intera vicenda restando avvolta da un incomprensibile alone di mistero. Su questa vicenda, i parlamentari radicali eletti nelle liste del PD hanno presentato sia alla Camera che al Senato una interpellanza urgente al Governo.

IL TRATTATO “FANTASMA” ITALIA-LIBIA

E’ nota la consuetudine del regime di Gheddafi a intavolare “trattative” ricattatorie nei confronti di altri Stati, la più recente e nota delle quali è sicuramente quella che ha coinvolto le cinque infermiere bulgare e il medico palestinese condannati a morte in Libia con la falsa accusa di aver infettato col virus HIV 426 bambini del Centro ospedaliero di Bengasi (vedi sotto), vicenda che si è risolta positivamente solo

31 Per dare un termine di paragone della potenza repressiva del regime di Gheddafi si consideri che al 1 gennaio 1953 nel Gulag sovietico erano presenti 2.468.524 abitanti per una popolazione di 189.707.000, ossia pari all’1,3%. La cifra era precisa perché la macchina repressiva sovietica non era certo inferiore a quella nazista dal profilo dell’efficienza. Fu Nikita Khruščёv che con lo scopo di ingigantire il suo ruolo di liberatore della repressione staliniana deliberatamente dichiarò una cifra 4 volte più grande durante il celeberrimo XX congresso del PCUS (si veda Sergej Kropačev, Evgenij Кrinkо Il calo della popolazione in URSS dal 1937 al 1945: entità, forme, storiografia Traduzione di Francesca Volpi, eBook, goWare; 1 edizione 17 maggio 2016)

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dopo un lungo contenzioso che ha visto tra l’altro la Commissione UE stanziare due milioni di euro per un piano di assistenza al Centro ospedaliero di Bengasi e altri “donatori” pagare un indennizzo pari a circa un milione di dollari per vittima.

La tecnica minatoria del creare emergenze per poi chiedere soldi per risolverle, è stata utilizzata spesso dal regime libico caratterizzatosi tra l’altro per l’uso cinico, e destabilizzante il nostro Paese, del dramma dei clandestini che partono dalle coste libiche, oltre che per attacchi diretti alle nostre rappresentanze diplomatiche il Libia come quelli avvenuti in occasione dell’iniziativa dell’allora ministro Calderoli in sostegno della libertà di critica della religione musulmana.

Secondo quanto sottolineato dallo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ai microfoni del Tg3, grazie all’accordo del 30 agosto scorso, tra le altre cose in Italia «avremo meno clandestini e maggiori quantità di gas e petrolio libico, che è della migliore qualità». Avremo anche capitali libici per l’azionariato Telecom, affare di cui anche si sarebbe discusso nell’importante viaggio di “pacificazione” che il Presidente del Consiglio ha fatto in Libia il 30 agosto scorso.

L’Italia chiede scusa alla Libia… e paga

Secondo quanto riportato da varie agenzie di stampa e dal sito www.governo.it, al centro del Trattato Italia-Libia firmato il 30 agosto scorso vi dovrebbero essere la corresponsione, sotto forma di investimenti in progetti infrastrutturali in Libia, di una cifra di 5 (cinque) miliardi di dollari, per un periodo di 25 (venticinque) o 20 (venti) anni come compensazione per i «danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo coloniale» per i quali, ha anche detto il Presidente del Consiglio, «A nome del popolo italiano, come capo del governo, mi sento in dovere di porgere le scuse».

La rilevanza economica di tale indennizzo, che impegnerebbe non solo l’attuale Governo ma anche quelli a venire, ed il “precedente” che ciò costituisce rispetto a situazioni analoghe della storia coloniale che coinvolge paesi della Unione Europea, rendono ancora più incomprensibile la mancata informazione al Parlamento e all’opinione pubblica dei termini del trattato.

In una interpellanza urgente al Governo i parlamentari radicali eletti nelle liste del PD hanno chiesto al Presidente del Consiglio e al Ministro degli Esteri di rendere con la massima urgenza al Parlamento e all’opinione pubblica informazione piena ed esaustiva dei termini del Trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia che riguarda interessi e impegni, anche futuri, così rilevanti per il nostro Paese, al fine anche di poterlo confrontare con una serie di informazioni acquisite relativamente alla situazione politica generale e, in particolare, dei diritti umani del regime libico eletto interlocutore politico ed economico del Governo italiano.”

Agli italiani espulsi da Gheddafi, invece, niente

Esiste un noto e annoso contenzioso nei confronti della Libia relativo tanto alle famiglie degli esuli cacciati a seguito della “rivoluzione” di Gheddafi - celebrata a Bengasi con la firma del Trattato - quanto a centinaia di imprese che negli anni Ottanta sono state espulse nottetempo da quel paese, contenzioso che, sempre stando a quanto riferito da fonti stampa, non rientra nel documento firmato a Bengasi il 30 agosto scorso.

Nella suddetta interpellanza, i parlamentari hanno chiesto al Governo “cosa intende fare nei confronti degli eredi della ex collettività italiana di Tripoli che si battono da 38 anni per ottenere una legge, sempre rinviata «per mancanza di fondi», che chiuda il contenzioso per i beni confiscati da Gheddafi agli italiani, oltre che nei confronti delle imprese italiane in Libia che negli anni Ottanta sono state improvvisamente espulse da Gheddafi.”

Nessuno tocchi Gheddafi

A seguito di dichiarazioni rilasciate a due giorni dalla firma del Trattato dal Colonnello Gheddafi, riportate dall’agenzia di stampa libica Jana, relative a un articolo dello stesso che prevedrebbe che «l’Italia non userà né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia», il Governo italiano in una nota diffusa da Palazzo Chigi ha precisato che «l’accordo fa, come è ovvio,

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salvi tutti gli impegni assunti precedentemente dal nostro Paese, secondo i principi della legalità internazionale», mentre il Ministro degli Esteri Franco Frattini, da un lato, ha confermato che l’accordo con la Libia «prevede un reciproco impegno a non esercitare azioni di aggressione, cosa che l’Italia esclude categoricamente di poter fare» e, dall’altro, ha affermato che «Questo è un trattato bilaterale e… Non si può rimettere in discussione tutti i trattati internazionali degli ultimi vent’anni» e che l’Italia ha «specificato con grande chiarezza che ci sono trattati internazionali che sono multilaterali, che restano ovviamente».

Dal canto suo, l’ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur ha detto che «nessuno ha mai voluto cancellare i trattati internazionali» antecedenti l’accordo tra Italia e Libia, ma che Tripoli vuole «la garanzia» che non si ripeta quanto «successo in precedenza, quando è stata usata una base militare americana nel territorio italiano nell’aggressione del 1986». «Volevamo stare tranquilli che l’Italia non permetterà l’uso di queste basi», ha aggiunto l’ambasciatore.

I parlamentari radicali hanno chiesto quindi al Governo italiano “se i partner dell’Unione europea e i paesi alleati nel patto atlantico siano stati informati dell’iniziativa bilaterale e degli effettivi contenuti dell’accordo, in particolare degli impegni circa le basi Nato, che non poche implicazioni avrebbero nel sistema di alleanze e vincoli internazionali del nostro Paese.”

Il precedente del 2004

Un incontro analogo a quello avvenuto il 30 agosto scorso in Libia, con relativo accordo, ha avuto luogo lo stesso mese di quattro anni fa. Per la precisione, il 12 agosto del 2004, quando l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si recò a Tripoli per firmare un accordo.

Di tale incontro non risulta traccia negli atti parlamentari; ci affidiamo quindi all’articolo a cura di Paola Di Caro del Corriere della Sera del 26 agosto, rintracciabile negli archivi on line.

“L’ accordo tra Italia e Libia firmato a Tripoli il 12 agosto prevede pattuglie miste, composte da agenti italiani e libici, che vigileranno sulle coste da cui oggi partono le navi dei clandestini. Funzionari italiani addestreranno la polizia locale e il Viminale metterà a disposizione mezzi per i controlli. E’ prevista la costruzione di centri di permanenza in Libia entro due mesi. Il progetto inizierà con una serie di strutture «mobili»: tende e attrezzature da campo. Per costruirne di più simili a quelli italiani occorre però un provvedimento normativo ad hoc. L’ Italia sfrutterà i patti bilaterali che ha siglato con alcuni Paesi di provenienza dei clandestini (come l’Egitto) per permettere alla Libia di rimpatriare gli immigrati”.

Escluse le informazioni su citate, i dettagli dell’accordo bilaterale dell’agosto 2004 sono rimasti ignoti. L’Italia si è rifiutata di renderli pubblici nonostante formali richieste avanzate dal Parlamento Europeo, dal Comitato diritti umani delle Nazioni Unite e da organizzazioni non governative. In una Risoluzione su Lampedusa approvata il 14 aprile del 2005, il Parlamento Europeo ritiene che l’accordo segreto “sembra affidi alle autorità libiche la sorveglianza dei flussi migratori e impegni la Libia a riammettere le persone espulse dall’Italia (sulla gestione libica dei rimpatri, vedi sotto, NdR).”

PROIBITO PENSARE… E COMUNICARE

In Libia si riscontra l’assenza di Organizzazioni Non Governative indipendenti. In base al dispositivo della legge numero 19 “Sulle associazioni”, la costituzione di qualsiasi associazione è sottoposta al vaglio e vincolata all’approvazione da parte di un organo governativo preposto allo scopo. Non è prevista una procedura di appello in caso di valutazione negativa. A testimonianza delle informazioni riportate, è utile citare alcuni casi eclatanti di dissidenti politici, sui quali hanno fatto luce e sono intervenute importanti ONG per i diritti umani, a partire da Human Rights Watch (HRW).

Il caso di Fathi al-Jahmi

Il signor Fathi al-Jahmi, il più noto prigioniero politico libico, oggi sessantaseienne, si trova in stato di reclusione dall’ottobre del 2002 per aver criticato Gheddafi e aver invocato stampa ed elezioni libere. Condannato a cinque anni di carcere, fu rilasciato nel marzo 2004 grazie all’intervento del Senatore

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americano e attuale candidato democratico alla vicepresidenza Joseph Biden. “E’ una passo incoraggiante verso le riforme in Libia… la quale sta cominciando a cambiare il suo atteggiamento su molte cose,” aveva detto il Presidente Gorge Bush.

“Non riconosco Gheddafi come leader della Libia,” aveva dichiarato al-Jahmi appena liberato alla televisione al-Arabiyya. Il giorno dopo, agenti della sicurezza avevano fatto irruzione nella sua casa di Tripoli, arrestando lui, la moglie e il loro figlio maggiore.

Nel maggio 2006, dopo un processo a porte chiuse, al-Jahmi è stato dichiarato incapace di intendere e di volere e, quindi, rinchiuso in un ospedale psichiatrico dove ha passato circa un anno, non avendo contatti con la famiglia né con avvocati.

Attualmente, al-Jahmi è ricoverato sotto stretta sorveglianza presso una struttura medica statale, il Tripoli Medical Center. Nonostante soffra di ipertensione, diabete e disturbi al cuore gli sono state negate le cure adeguate.

Il caso del “Gruppo Idris Boufayed”

Nel febbraio 2007 gli agenti di sicurezza libici hanno arrestato 14 persone in quanto organizzatori di una manifestazione politica, nella quale non si sono verificati atti di violenza. L’evento era infatti volto a commemorare la morte di undici dimostranti che l’anno prima avevano perso la vita durante scontri con la polizia.

Nei mesi a seguire due dei dimostranti sono stati rilasciati, mentre di uno si sono completamente perse le tracce; del primo, Jum’a Boufayed, liberato il maggio scorso, si erano perse le tracce dal momento del suo arresto; il secondo, ‘Adil Humaid, è stato liberato a giugno; il terzo uomo, `Abd al-Rahman al-Qotaiwi, risulta “scomparso” dal momento del suo arresto nel febbraio del 2007.

Il 10 giugno 2008, il tribunale per la sicurezza dello Stato, creato nell’agosto del 2007 allo scopo di indagare esclusivamente su casi di natura politica e allocato nel carcere Abu Salim di Tripoli gestito dal servizio segreto interno libico, ha condannato gli undici rimasti a un periodo di reclusione che va dai 6 ai 25 anni. L’accusa mossa nei loro confronti era quella di pianificare il rovesciamento del regime, un tentativo poco credibile anche perché il gruppo è stato prosciolto dall’accusa di possedere armi.

Come principale responsabile di questa vicenda è stato individuato Idris Boufayed, il quale ha vissuto in Svizzera per 16 anni prima di tornare in Libia nel novembre 2006 ed essere condannato a una pena di 25 anni. Malato di cancro a uno stadio avanzato, Boufayed è tuttora in prigione nonostante un “collegio medico” d’ufficio ne avesse sollecitato il rilascio.

Il tribunale speciale ha condannato un altro membro del gruppo, Jamal al-Haji, a 12 anni. Le autorità libiche hanno rifiutato di riconoscere la cittadinanza danese o di rispondere al governo danese che ha chiesto di incontrarlo, ponendosi in violazione delle obbligazioni libiche secondo la Convenzione di Vienna sulle Relazioni Consolari. Pochi giorni prima di essere arrestato, Al-Haji aveva pubblicato un articolo invocando “libertà, democrazia e stato di diritto in Libia”.

Censura e hackers di regime

Non esiste in Libia una stampa indipendente dal momento che i media, per lo più statali, si limitano a dare notizie ed esprimere opinioni esclusivamente filo-governative. D’altra parte è comprensibile la reticenza dei giornalisti che vivono in un regime di censura. In base all’articolo 178 del Codice Penale è previsto l’ergastolo per la diffusione di informazioni che possano ledere l’immagine pubblica del governo libico e la sua credibilità internazionale. Ne è concesso in nessun modo di avanzare critiche alla figura del Colonnello Gheddafi.

Le uniche fonti non censurate sono relegate alla rete web e a canali satellitari; il diffondersi degli internet café ha permesso l’accesso alla rete anche a coloro i quali si trovano nei villaggi più remoti del paese, così come l’uso dei canali satellitari e la connessione alla rete tramite satellite permettono di eludere server statali e la censura; non è raro però che anche i siti internet vengano bloccati dalle autorità governative.

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Il principale e più importante giornale libico online è www.akhbar-libya.com che ha base a Londra. Per coloro i quali decidono di firmare i propri articoli rinunciando a celare la loro identità, i rischi sono tangibili. E’ il caso di Abd Al Razeq Al Mansuri che qualche anno fa fu stato arrestato con l’accusa di propaganda contro il governo e condannato a 18 mesi in carcere. Fu rilasciato dopo 14 mesi ma il caso destò nell’editore di Akhbar Libya, Ashur Shamis, la considerazione di usare più cautela per evitare il ripetersi di fatti analoghi. Shamis lasciò il suo paese nel 1969 anno in cui il colonnello prese il potere. Ha fatto ritorno in Libia soltanto una volta nel 1972 e da allora vive in esilio; sostiene con certezza che il colonnello legga il suo giornale, dichiara di essere certo che, nelle eventualità di argomenti troppo scomodi, numerosi hackers vengono mobilitati per cercare di bloccare l’accesso alle informazioni.

Nonostante la censura, molti libici riescono ad accedervi ugualmente utilizzando degli escamotage. La schermata nera che compare digitando il link di Akhbar Libya può essere evitata collegandosi attraverso server proxy o utilizzando connessioni satellitari.

Negli ultimi anni molteplici forme di protesta e di dissenso trovano spazio in una nuova forma di comunicazione on line, ovvero i blog indipendenti, ma i blogger utilizzano pseudonimi per esprimere le proprie opinioni, in modo da rendere più difficile la loro identificazione.

LA TORTURA LIBICA

Scariche elettriche, cavatappi e succo di limone

L’ordinamento giuridico libico vieta qualsiasi pratica di tortura; il governo si impegna a perseguire coloro che si macchiano di questo reato. Nonostante le disposizioni legislative, i casi di tortura, registrati per lo più nelle carceri libiche, sono numerosi, incluso quello di Mohammed Adel Abu Ali (vedi sotto), morto in carcere.

Nel suo Rapporto 2007 sui diritti umani nei vari Paesi, il Dipartimento di Stato americano, che sicuramente non può essere tacciato di ostilità pregiudiziale nei confronti del regime di Gheddafi dopo lo “sdoganamento” internazionale deciso nel 2004, ha così esemplificato i metodi di tortura praticati in Libia: incatenamento a un muro per ore; percosse con bastoni di legno; scariche elettriche; succo di limone nelle ferite aperte; avvitamento di cavatappi alla schiena; fratture delle dita; soffocamento provocato con buste di plastica; privazione del sonno, di cibo e acqua; essere appesi per i polsi o sospesi a un palo inserito tra le ginocchia e i gomiti; bruciature di sigarette; intimidazioni attraverso cani aggressivi. Sono soltanto alcuni esempi delle pratiche utilizzate per estorcere confessioni da utilizzare poi come testimonianze davanti ai tribunali.

Il caso più noto di torture per estrarre confessioni è quello delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese condannati a morte con la falsa accusa di aver infettato col virus HIV 426 bambini (vedi sotto). Dopo aver ammesso la propria colpevolezza, le infermiere e il medico hanno dichiarato a più riprese di essere stati costretti dalla polizia a una falsa confessione, estorta con percosse, scariche elettriche e a seguito anche di violenze sessuali.

Il 10 agosto 2007, in un’intervista su al-Jazeera, Seif al-Islam al-Qadhafi, figlio di Gheddafi, ha ammesso che le infermiere e il medico erano stati “fisicamente maltrattati”. E’ il solo caso noto in cui le autorità libiche hanno aperto un’indagine che si è però conclusa, nel giugno del 2005 e dopo cinque anni di detenzione, con l’assoluzione dei sei funzionari della sicurezza incriminati.

La rivolta del 96’ nel carcere di Abu Sa lim

Un altro caso degno di nota è legato alla rivolta avvenuta nel carcere Abu Salim di Tripoli il 28 giugno 1996. Le forze dell’ordine risposero violentemente, centinaia di persone persero la vita in circostanze sconosciute. Il Colonnello Gheddafi ha ammesso che le forze dell’ordine hanno ucciso alcuni dei prigionieri allo scopo di sedare la rivolta. In realtà, stando alle testimonianze di un ex prigioniero, le forze di sicurezza avrebbero continuato a utilizzare la forza, uccidendo i detenuti ben oltre il momento in cui la rivolta era stata domata.

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Tutt’oggi la Libia non ha fornito alcun dettaglio circa le circostanze né sui nomi e i numeri delle persone che hanno perso la vita nel giugno del 1996. Della commissione ad hoc che il governo avrebbe creato specificatamente per indagare sull’”incidente” si sono perse le tracce.

Nel giugno scorso, in seguito alle iniziative prese dalle famiglie delle vittime, la corte di prima istanza del Nord di Bengasi ha stabilito che lo Stato fosse tenuto a rivelare le identità delle vittime e le modalità del decesso. Secondo le indagini portate avanti da HRW lo stato libico non ha ancora adempiuto a quanto disposto dalla corte. Nel suo discorso del 24 luglio scorso il Colonnello Gheddafi ha dichiarato di aver ricevuto i primi risultati sull’indagine e ha ammesso che c’è stato un uso eccessivo della forza oltre che abuso di potere. Ha promesso un processo pubblico - anche se non è stato ancora stabilito quando - allo scopo di far monitorare la questione dalle organizzazioni dei diritti umani, giornalisti e ambasciatori stranieri.

PENA DI MORTE… E NON SOLO

Segreto di Stato sulla pena di morte

Il “Grande Libro” del 1988 stabilisce che “l’obiettivo della società libica è l’abolizione della pena di morte,” tuttavia il regime di Gheddafi non l’ha ancora fatto, anzi, ha aumentato i reati capitali.

Sono considerati crimini capitali molti reati, tra cui attività non violente come quelle relative alla libertà di espressione e di associazione e altri reati “politici” ed economici. La pena di morte è obbligatoria per gli appartenenti a gruppi che si oppongono ai principi della rivoluzione del 1969, per tradimento e per sovversione violenta dello Stato. La pena di morte è applicabile anche per chi specula su moneta straniera, cibo, abbigliamento o sull’affitto durante un periodo bellico e per crimini legati alla droga e all’alcol (dal 1996). L’articolo 206 del codice penale prevede la pena di morte per i responsabili di “costituzione di movimenti, organizzazioni e associazioni banditi dalla legge,” oltre che per chi aderisce o sostiene tali organizzazioni. L’articolo 166 del codice penale prevede la pena capitale per chi parla o trama con agenti stranieri per causare o sostenere un’aggressione contro la Libia.

Le informazioni su esecuzioni e condanne a morte sono raramente riportate. Nel 2007, sono state messe a morte almeno 9 persone, tra cui 4 nigeriani. Nei primi due mesi del 2008 erano già state effettuate 6 esecuzioni, di cui cinque di cittadini stranieri.

Il 22 novembre 2007, quattro nigeriani sono stati giustiziati in Libia, secondo quanto testimoniato da un altro nigeriano recentemente estradato nel proprio paese dalle autorità di Tripoli. Non sono tuttavia noti i reati per i quali i quattro erano stati condannati a morte né la data esatta delle esecuzioni. Secondo l’autore della denuncia, che ha preferito restare anonimo, sono circa 50 i nigeriani detenuti nelle carceri libiche, 10 dei quali nel braccio della morte. La testimonianza fornisce i nomi di alcuni dei reclusi in attesa di esecuzione: Malam Abdalla Nuhu, Noel Soba Chucks, Alhaji Musa, Alex Onyekachi Chinweze, Simon Emmanuel Abaka e Jonah Okafor Onyema. Alcuni di loro sarebbero in carcere da quasi 10 anni, senza aver ricevuto accuse e processi regolari.

Il 24 gennaio 2008, le autorità libiche hanno giustiziato Emad Abdul Wahed, cittadino egiziano, insieme a un cittadino libico, per un omicidio del 1995. Wahed era in carcere dal 2005. Secondo il capo del Centro Egiziano per l’Indipendenza Giudiziaria, Aid Nasser Amin, l’avvenuta esecuzione è stata notificata dalle autorità al Consolato egiziano in Libia. Le autorità libiche hanno contattato la famiglia di Emad, attraverso il commissario della stazione di polizia di el-Marg, per chiedere se volevano che il corpo del familiare fosse rimpatriato o sepolto in Libia. Emad aveva avuto il permesso di chiamare la sua famiglia prima di essere giustiziato. Amin aveva chiesto a un uomo d’affari egiziano di intervenire velocemente dicendo di “sperare di poter risolvere la questione degli altri 11 egiziani nel braccio della morte, la cui esecuzione potrebbe essere evitata col pagamento del prezzo del sangue.” Amin aveva spedito una lettera al coordinatore delle relazione tra Egitto e Libia, Ahmed Kazaf el-Dam, pregandolo di fermare l’esecuzione, ma era troppo tardi.

Il 28 gennaio 2008, il Daily Guide ha riportato che la settimana prima due cittadini ghanesi erano stati giustiziati in Libia per omicidio. Si tratta di Charles Ansah e Asare Bediako che insieme ad altri due concittadini si trovavano nel braccio della morte dal 2002, essendo stati tutti e quattro condannati a

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morte per l’omicidio di un cittadino libico. Il Governo ghanese del presidente John Agyekum Kufuor aveva tentato di salvare la vita dei due connazionali, tuttavia – hanno risposto da Tripoli – in base alla legge islamica soltanto i familiari della vittima possono decidere di risparmiare la vita al condannato.

Il 16 febbraio 2008, anche gli altri due ghanesi sono stati fucilati a Bengasi presso il Centro di Riabilitazione di Kofiya, dopo che le domande di grazia e l’intervento in extremis del Presidente del Ghana John Kufuor erano stati respinti. Kojo Blankson e Samuel Ayi Ayitey, che si proclamavano innocenti, erano stati arrestati nel 1998 e condannati a morte per l’uccisione del loro datore di lavoro, un cittadino libico. Secondo il racconto di un funzionario dell’ambasciata ghanese, perfino pochi istanti prima di essere fucilato Blankson avrebbe ribadito di non sapere nulla dell’omicidio. Prima dell’esecuzione, a Blankson è stato consentito di avere un ultimo colloquio con la anziana madre, la sorella e la figlia. Blankson e Ayitey sarebbero stati inoltre implicati in altri due omicidi, rispettivamente di un libico e di un senegalese.

Il 18 dicembre 2007, la Libia ha votato contro la Risoluzione per una moratoria delle esecuzioni capitali approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

La versione libica del “prezzo del sangue”

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto hanno tre possibilità: chiedere l’esecuzione della sentenza, risparmiare la vita dell’assassino con la benedizione di Dio oppure concedergli la grazia in cambio di un compenso in denaro, detto ‘diyah’ (prezzo del sangue).

Nel 2007, la Libia ha risolto alla sua maniera, ricattatoria ed esosa, quello che possiamo definire un caso internazionale di “prezzo del sangue”, che ha coinvolto le cinque infermiere bulgare e il medico palestinese condannati a morte con la falsa accusa di aver infettato col virus HIV 426 bambini, 52 dei quali sono successivamente morti. Le cinque infermiere bulgare – Kristiana Vulcheva, Nasya Nenova, Valentina Siropulo, Valya Chervenyashka e Snezhana Dimitrova – e il medico palestinese, Ashraf al-Haiui, che lavoravano presso l’ospedale “Al-Fatih” di Bengasi, erano stati arrestati nel febbraio del 1999 in quello che si sarebbe rivelato a tutti gli effetti un “sequestro a scopo di estorsione”. Diversi esperti internazionali di lotta all’AIDS hanno affermato che l’epidemia fosse già in atto prima del 1998, anno dell’arrivo in città dei sei operatori sanitari.

Dopo la condanna a morte dei sei, emessa nel maggio 2004 da un tribunale di Bengasi, la Commissione UE, per tentare di risolvere il caso, ha stanziato due milioni di euro per un piano di azione, varato nel novembre 2004, per fornire assistenza al Centro ospedaliero di Bengasi. Ma, agli inizi di dicembre, il governo libico ha alzato la posta dichiarando che le infermiere potevano essere risparmiate se la Bulgaria avesse offerto una compensazione in denaro ai parenti delle “vittime”.

Un anno dopo, il 23 dicembre 2005, la Bulgaria, l’UE e gli Usa hanno siglato un accordo con la Libia per fondi da inviare all’assistenza dei bambini infetti e delle loro famiglie e, due giorni dopo, il 25 dicembre, la Corte Suprema ha annullato le condanne a morte rimettendo il caso davanti al Tribunale di Tripoli. Secondo un funzionario libico, la Bulgaria si è accordata con la Libia per 4,4 miliardi di euro come indennizzo per le famiglie dei bambini infettati con il virus dell’HIV. “Le due parti hanno raggiunto l’accordo di pagare 10 milioni di euro per ogni bambino infettato, e per le 20 madri contaminate dal virus,” ha rivelato Driss Lagha, presidente dell’Associazione per le Famiglie dei Bambini Infettati con l’HIV, il 21 gennaio 2006.

A partire dall’11 maggio 2006, è stato aperto un nuovo processo che però si è concluso, il 19 dicembre 2006, con una nuova condanna a morte da parte del Tribunale di Tripoli. La trattativa libica sul “prezzo del sangue” delle vittime riparte.

L’11 luglio 2007, la condanna a morte delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese è confermata dalla Corte Suprema libica, ma il 17 luglio il Consiglio supremo della magistratura libico, presieduto dal Ministro della Giustizia, ha commutato in ergastolo le condanne a morte. La commutazione è giunta poche ore dopo la decisione delle famiglie delle vittime di ritirare la richiesta di condanna a morte per i sei in cambio di un indennizzo pari a circa un milione di dollari per vittima. La

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“trattativa” è conclusa. La Libia ha ottenuto il massimo e, il 24 luglio, le infermiere e il medico sono stati rilasciati e trasferiti a Sofia su un aereo della presidenza francese.

La liberazione – ha dichiarato Nicolas Sarkozy – è avvenuta sulla base di condizioni politiche e non economiche: né la Francia né l’Unione Europea hanno “versato un solo euro” al regime libico. Ma la Libia fa sapere di aver deciso per l’estradizione degli operatori sanitari perché “sono state soddisfatte le nostre condizioni.” Fonti libiche vicine alle trattative hanno confermato che il rilascio è avvenuto anche grazie al raggiungimento di un accordo con la UE che ha concesso alla Libia aiuti nel settore sanitario. “C’è stato un accordo per equipaggiare l’ospedale di Bengasi e per curare i bambini ... tutte le condizioni politiche sono state soddisfatte,” ha dichiarato la fonte.

LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE: DA VITTIME A CRIMINALI

Non poca preoccupazione desta anche il settore delle tutela dei diritti delle donne.

Nonostante i tentativi, degli ultimi anni, di portare avanti delle riforme in tal senso, il contesto sociale non permette dei miglioramenti sostanziali. La società libica è infatti fondata su una scala gerarchica profondamente patriarcale; le donne vengono spesso trattate e considerate come dei minori: costantemente sotto la tutela del padre o degli altri parenti di sesso maschile. I problemi principali risiedono nell’approccio governativo alla “gender based violence”, la violenza contro le donne conosciuta con la sigla GBV.

“Il problema non esiste”

Nel 1989 la Libia ha ratificato la CEDAW (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women) e il suo Protocollo Opzionale alla CEDAW, che consente al Comitato ONU competente di ricevere e analizzare le doglianze di individui o di gruppi. Nonostante questo, al momento della ratifica, la Libia ha espresso delle riserve sull’articolo 2 (sul diritto di non discriminazione) e sui commi (c) e (d) dell’articolo 16 relativo alla non discriminazione in materia di matrimonio e di relazioni familiari. La motivazione addotta è stata quella che la Convenzione non può non essere conforme ai dettami della Sharia (diritto islamico).

In Libia non si riscontra la presenza di una legislazione che si occupi delle violenze che avvengono entro le mura domestiche; la disciplina che punisce le violenze sessuali è del tutto inadeguata. Le autorità libiche dichiarano che non è necessario prevedere dei programmi che si occupino delle violenze sulle donne dal momento che non si è riscontrata evidenza del fenomeno.

Non è dunque possibile stimare con esattezza l’entità dei casi; le ricerche di HRW hanno scoperto che le denunce di violenze domestiche sono quotidiane, ma il 99 per cento delle vittime le ritira.

Il problema fondamentale sta nel fatto che la violenza domestica non è proibita dalla legge, la polizia non è addestrata a gestire tali situazioni. Soltanto i casi di stupro più eclatanti vengono perseguiti; il giudice cerca di applicare la soluzione che sia più “conveniente” per entrambe le parti; resta comunque al giudice la possibilità di proporre, a titolo di “rimedio”, il matrimonio tra la donna stuprata e lo stupratore.

Se stuprate, vanno “riabilitate”

Human Rights Watch ha inoltre avviato delle ricerche per indagare sulla diffusa pratica che prevede la detenzione delle donne in centri chiamati di “riabilitazione sociale”.

Questi centri sono supervisionati e amministrati dal Segretario Generale per gli Affari Sociali. Sono due gli scopi che dovrebbero perseguire: dare ospitalità e riabilitare le donne che sono soggette a tenere dei comportamenti contrari alla morale pubblica; “proteggere” le donne minacciate dalle loro stesse famiglie (alcune donne dichiarano di temere il comportamento delle famiglie qualora venissero a conoscenza dello stupro). Le donne possono essere trattenute per un periodo non definito; non è previsto un termine oltre il quale il rilascio diventi obbligatorio. Questa pratica è in violazione con uno dei principi fondamentali del diritto umanitario, ovvero il divieto di detenzione arbitraria. Le

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circostanze di detenzione nelle strutture indicate rispondono ai criteri di arbitrarietà indicati dal Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite.

Le prime vittime di questa “riabilitazione” sono le donne accusate di aver portato avanti delle relazioni extraconiugali, a prescindere dalla veridicità o meno di tali accuse. Le donne non sono messe nelle condizioni di poter contestare la condanna, né di ricevere assistenza legale. Molte ragazze che “accedono” a queste strutture sono sottoposte, senza consenso, a test volti ad accertarne la verginità. Tale test prevede un’analisi accurata dello status dell’imene; ogni lacerazione riscontrata a prescindere se sia connessa o meno ad un’attività sessuale, è considerata prova della perdita di verginità. Prendere come riferimento lo status dell’imene non ha nessun fondamento né di tipo medico né di tipo legale; gli esperti hanno confermato che lo status dell’imene non è un indicatore credibile per accertare la verginità o meno di un soggetto.

Nell’aprile 2005 HRW ha visitato la Benghazi Home for Juvenile Girls, creata negli anni Ottanta. Nella struttura sono state intervistate cinque ragazzine (tre libiche e due egiziane) di età compresa tra i sedici e i diciassette anni. Tutte e cinque sono state sottoposte, senza il loro consenso, al test sulle malattie trasmissibili e quattro di loro sono state obbligate a sottoporsi al test volto ad accertarne la verginità, effettuato da medici legali di sesso maschile. Tre di loro hanno dichiarato di essere state vittime di stupro. Le donne che si trovano in questa struttura sono trattate alla stregua di criminali e non di vittime di un crimine. Durante il periodo di detenzione non è fornita loro alcun tipo di istruzione eccetto quella religiosa; sono passibili di isolamento che può durare un massimo di sette giorni, alcune ragazze hanno dichiarato di essere state ammanettate durante tutto il periodo di isolamento.

GLI STRANIERI IN LIBIA E I LIBICI ALL’ESTERO

Per la sua posizione geografica di testa di ponte tra il continente africano e quello europeo la Libia è costantemente investita da flussi di migrazione di proporzioni elevate.

Si tratta di persone per lo più provenienti dall’Africa sub-sahariana nel disperato tentativo di raggiungere le coste del “primo mondo” per motivi prettamente economici; non di rado però si riscontrano casi di rifugiati politici che scappano poiché perseguitati dal regime di provenienza (come quelli di Eritrea e Somalia).

La Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, principale strumento di diritto internazionale a tutela dei rifugiati e degli apolidi. L’assenza di vincoli internazionali e di una coerente disciplina d’asilo, oltre che la natura autoritaria del regime, hanno come conseguenza la completa discrezionalità delle autorità libiche nei confronti degli stranieri.

Non è raro che gli stranieri, privi di una valida documentazione, vengano arrestati o fermati, maltrattati e da ultimo rispediti nel paese di origine dove rischiano si essere perseguitati o torturati. In Libia infatti si riscontra l’assenza di una determinazione individuale dello status prima della deportazione degli immigrati clandestini.

Maltrattati e deportati

In questi anni si è avuta notizia di migliaia di casi di respingimento di potenziali richiedenti asilo da parte delle autorità libiche, e sono ormai numerose le testimonianze sulla detenzione amministrativa che viene praticata in Libia senza un effettivo controllo di una autorità giurisdizionale, senza alcuna possibilità di difesa.

Migliaia di persone, tra le quali donne e minori sono trattenuti ancora oggi in condizioni disumane, come si è verificato nel caso degli eritrei e degli altri migranti irregolari detenuti nel carcere di Misurata ed in altri luoghi di detenzione, anche fosse scavate nel deserto.

I migranti irregolari, anche quelli giunti in Libia per lavorare, attratti dagli inviti del colonnello Gheddafi ai tempi dell’embargo, sono stati poi rastrellati e utilizzati come merce di scambio. Chi è riuscito a fuggire ha dovuto pagare somme sempre più elevate alla polizia libica. Le giovani donne rischiano di essere stuprate dai trafficanti o da poliziotti in divisa. Così almeno raccontano la maggior parte delle sopravvissute in fuga dall’inferno libico.

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E Gheddafi si proclama ancora un campione dei diritti umani e in questa veste ottiene riconoscimenti dalla comunità internazionale. Con questo leader politico e con queste forze di polizia adesso l’Italia ha firmato un vero e proprio accordo politico dopo il protocollo tecnico per la “cooperazione contro l’immigrazione clandestina” già sottoscritto alla fine del 2007.

L’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, che vieta trattamenti inumani e degradanti, e l’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 che sancisce il principio di non refoulement; secondo cui le parti contraenti non possono respingere i rifugiati né i richiedenti asilo in un paese dove rischiano persecuzioni, avrebbero dovuto impedire la conclusione degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi.

D’altra parte la Libia manifesta riserve nei confronti delle richieste fatte dall’Unione Europea e, come è suo solito, insiste sul dato che le risorse economiche finora stanziate non sono sufficienti a garantire un aumento dei controlli. Dopo la riabilitazione americana nel 2004 e le generose offerte della diplomazia europea, il Colonnello Gheddafi può permettersi di negoziare da posizioni di forza con qualunque interlocutore malgrado gli allarmanti rapporti delle agenzie umanitarie sul rispetto dei diritti delle persone in quel paese.

I centri di “accoglienza” in Libia finanziati dall’Italia

Nel 2004 veniva promulgata in Italia la legge n. 271, che attribuiva al Ministero dell’Interno la possibilità di finanziare la realizzazione, in paesi terzi, di “strutture utili ai fini del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano”. I finanziamenti elargiti dall’Italia non sono stati mai legati al rispetto dei diritti dei migranti o alla ratifica della Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo, né alla conformità delle strutture di trattenimento agli standard minimi internazionali per la detenzione. Con i fondi stanziati grazie a questa legge, in Libia, negli anni scorsi, erano stati finanziati almeno tre centri di detenzione per migranti, dove le violazioni dei diritti umani sono sistematiche.

A confermare gli abusi non sono state solo le organizzazioni che difendono i diritti umani o i giornalisti che hanno potuto visitare la Libia, ma i vertici dei servizi segreti italiani, come l’ex direttore del SISDE Prefetto Mario Mori che nel 2005, durante una audizione del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, dichiarava come in Libia «i clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi…».

Mori parlava anche del centro di accoglienza finanziato dagli italiani in Libia, nella località di Seba, al confine con il deserto, uno di quei centri di detenzione dove venivano trasferiti anche i clandestini respinti dai centri di permanenza temporanea italiani. «Il centro – dichiarava Mori – prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull’altra senza il rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili». Mori aveva effettuato una visita nel Centro di Seba intorno alla metà di gennaio del 2005, cinque giorni prima dell’incontro del ministro Giuseppe Pisanu con il colonnello Gheddafi.

La legittimazione “globale” del colonnello Gheddafi, quale interlocutore affidabile tanto nella lotta al terrorismo che all’immigrazione clandestina, ha consentito che si intensificassero i rapporti già esistenti di collaborazione con i paesi europei e con l’Italia di Berlusconi in particolare, senza troppo riguardo per quei principi elaborati a livello europeo che dovrebbero imporre in questo ambito standard più elevati per la protezione dei diritti umani.

Le pratiche poliziesche di extraordinary rendition, o di espulsione per motivi di sospetto terrorismo, che l’Italia ha continuato a praticare fino a pochi mesi fa, malgrado le condanne inflitte dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, hanno consentito la esternalizzazione di pratiche che in Europa non sarebbero consentite, trattamenti disumani e degradanti, che vanno dall’arresto arbitrario fino alla tortura nei confronti di migranti ed esuli.

Il caso di Mohammed Adel Abu Ali

Si cita il caso di Mohammed Adel Abu Ali per sottolineare l’incidenza delle politiche di asilo nel contesto delle relazioni euro-libiche non soltanto nei riguardi dei cittadini stranieri che utilizzano la

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Libia come paese di transito, ma anche nei confronti dei cittadini libici che cercano di lasciare il regime cercando asilo altrove.

Il 20 novembre 2003, il cittadino libico Abu Ali ha inoltrato la richiesta d’asilo alle autorità svedesi. In seguito al rifiuto dell’accoglimento della pratica, su consiglio del suo avvocato, Abu Ali si era recato nel Regno Unito (8 settembre 2005).

Le autorità britanniche lo hanno successivamente rimandato in Svezia dove è stato tenuto in custodia fino al 14 gennaio scorso. Il 6 maggio, è stato riportato in Libia e all’arrivo preso in custodia dalle autorità libiche che il 22 maggio hanno poi informato la famiglia del suo decesso. E’ facile ritenere che la sua morte sia stata causata dalle torture messe in atto durante il periodo di detenzione.

Il 4 luglio scorso, lo stesso Swedish Migration Board ha confermato che Abu Ali era morto mentre si trovava in custodia delle autorità libiche, stabilendo che ulteriori rimpatri con destinazione la Libia sarebbero stati sospesi fino al termine delle indagine portate avanti sul caso.

Provenienti da Guantanamo: dalla padella alla brace

Altri casi controversi riguardano i detenuti libici che si trovavano nel carcere americano nella base di Guantanamo. Stando alle informazioni fornite dal governo statunitense le autorità libiche avevano garantito e assicurato che avrebbero trattato “umanamente” i detenuti rimandati a casa.

Nel dicembre del 2006 gli Stati Uniti hanno rimpatriato in Libia il quarantenne Muhammad Abdallah Mansur al-Rimi, recluso nel carcere di Guantanamo per 4 anni.

Gli Stati Uniti avevano individuato in al-Rimi un membro del Libyan Islamic Fighting Group, gruppo armato accusato di voler rovesciare la dittatura di Gheddafi. L’imputato ha sempre negato l’accusa pur riconoscendo di avere “dei problemi con il governo libico”.

Nonostante la promessa fatta dalle autorità libiche di restituire al-Rimi ai suoi familiari, è stato documentato che almeno fino al gennaio 2008 si trovasse ancora nelle carceri libiche. A tutt’oggi non si hanno notizie di un suo rilascio, né del luogo nel quale questi si trovi.

Le uniche informazioni reperibili provengono dal Dipartimento di Stato americano che dichiara di aver avuto occasione di incontrare al-Rimi nell’agosto e nel dicembre 2007. L’uomo avrebbe dichiarato alle autorità libiche di non essere stato maltrattato, ma HRW ammette di non essere in grado di verificare queste informazioni. Quello di cui si è a conoscenza è che l’incontro di dicembre non è avvenuto nel luogo in cui si trovava il detenuto, ma in un ufficio dei servizi di sicurezza alla presenza di alcuni ufficiali libici e di un ufficiale appartenente alla Fondazione Gheddafi per lo Sviluppo. É noto, inoltre, che al-Rimi non sapesse delle accuse a suo carico e che non gli è stato permesso di avvalersi di alcun tipo di assistenza legale.

Il secondo caso è quello che riguarda il quarantanovenne Sofian Ibrahim Hamad Hamoodah, rispedito in Libia dopo aver trascorso circa sei anni nel carcere di Guantanamo. Proprio come nel caso precedente, non ci sono informazioni circa le ragioni per le quali Hamoodah sia stato trattenuto. Per una seconda volta il Dipartimento di Stato ha dichiarato di aver fatto visita al detenuto nel dicembre 2007. E’ noto che nel gennaio 2008 Hamoodah si trovasse ancora in stato di fermo, senza conoscerne le motivazioni e privo di assistenza legale.

Diverso è invece il caso di Abdul Ra’ouf: il suo rimpatrio dal carcere di Guantanamo è stato infatti sospeso a seguito di proteste sia da parte di alcuni membri del Congresso che di gruppi per i diritti umani.

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Le foto della nascita del primo parlamento libico sotto il regno di re Idris (tratta dal profilo Twitter di Matar)

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Il Libro Verde tra finzione e realtà32(tratto dal sito www.limesonline.com)

7/03/2011

Il potere del Colonnello dal 1977 a oggi. Dal Libro Verde e la Jamahiriya, lo Stato delle masse, alla supremazia della

tribù Ghaddafa. Come funzionano i comitati e i congressi popolari in Libia. Le divisioni interne e gli errori del Qaid.

(Carta di Laura Canali tratta da Limes 5/2002 “http://www.limesonline.com/italia-stile-libero “)

di Cristiano Tinazzi

Nel 1975 Gheddafi pubblica il Libro Verde, il suo pensiero politico alternativo tra comunismo e liberalismo contenuto

in quella che è stata definita la "Terza Teoria Universale". La parola magica è democrazia diretta in alternativa a quella

rappresentativa occidentale, accusata di essere finta.

Il 2 marzo 1977 Gheddafi consegna la Libia alle masse attraverso il Libro Verde. La Jamahiriya, lo "Stato delle masse",

sostituisce così la parola repubblica, la Jumhuriya.

Lo scorso 2 marzo 2011, come se fossero passati solo pochi anni da quell’evento, il Colonnello ha letto a Tripoli,

davanti al Congresso generale del popolo riunitosi per il 34° della Jamahiriya, un capitolo della sua opera per poi

lanciarsi in un discorso durato quasi quattro ore.

«Dal 1977 non ho più potere», ha detto. Poi ha preso in mano il Libro Verde e affermato che i congressi popolari sono

l’unico mezzo per mettere in atto la democrazia.

32 * Gheddafi messaggero del deserto, di Mirella Bianco - Mursia, Milano, 1977. Una bibliografia minimale sulla vicenda storica di Gheddafi pre2001 è la seguente: Muammar Gheddafi e la rivoluzione libica, di John K. Cooley - Editoriale Corno, Milano, 1983. Gheddafi. Una sfida dal deserto, di Angelo Del Boca. Laterza, Roma-Bari 1998. Muammar Gheddafi, di Benjamin Kyle. Targa Italiana s.r.l., Milano, 1990. Gheddafi, di Mino Vignolo. Rizzoli Editore, Milano, 1982.

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La struttura politica del paese è basata su una serie di congressi popolari di base. Ognuno di questi sceglie la sua

segreteria e, dall’insieme dei segretari designati, vengono formati i congressi popolari non di base, che a loro volta

scelgono i comitati popolari e amministrativi che sostituiscono l’amministrazione governativa.

I problemi discussi nei comitati e nei congressi popolari di base vengono poi ratificati nel congresso generale del

popolo, il quale si riunisce una volta l’anno, solitamente tra febbraio e marzo.

I ministri non sarebbero altro che "segretari", così come il segretario generale, omologo del nostro premier. In questo

caso però sarebbe solo il vertice esecutivo di una struttura.

Anche in questo ambito, viene elaborato un sistema applicabile al contesto deframmentato e tribale della Libia.

Il progetto era quello di superare concetti quali famiglia, tribù e classe, ma i comitati non sarebbero divenuti altro, in

quest’ottica, che delle riunioni intertribali del quartiere, della città o della regione, all’interno delle quali le specificità di

appartenenza determinano qualcosa di simile all’appartenenza partitica occidentale.

La diversità sta nel fatto che dal consenso deve sempre uscire una scelta condivisa, non il voto della maggioranza sulla

minoranza.

Sulla dottrina Jamahiryana sono stati elaborati svariati contributi dottrinali, come quello del professor Rajab

Budabbus, docente all’università al-Fateh di Tripoli, direttore generale dell’Accademia della Jamahiriya e

dell’Anfiteatro Verde, filosofo e politico marxista, formatosi a Parigi e poi spostatosi sulla linea rivoluzionaria di

Gheddafi negli anni Ottanta.

Nel suo lunghissimo discorso, Gheddafi lo cita come uno di quelli che vogliono una nuova costituzione. Una richiesta

sulla quale «si può discutere», dice il Qaid, davanti a una folla di sostenitori.

Cosa siano diventati i comitati popolari negli anni, è un altro discorso. L’errore che ha commesso il Colonnello è stato

quello di estendere il suo ruolo di Guida, senza effettiva nomina ufficiale (ma con un potere che va oltre i comitati e al

quale è conferita la politica estera del paese), prima alla famiglia, poi alla tribù di appartenenza.

Così nel corso degli anni, il Colonnello ha creato un cortocircuito nel sistema politico dei comitati, rendendoli statici e,

negli ultimi anni, sempre meno frequentati dalla popolazione.

Una sorta di astensionismo che ha reso la tribù dei Ghaddafa e i suoi alterni alleati superiori alle altre.

Oggi i membri dei comitati sono diventati milizia di controllo nelle città: loro i check-point sulle strade, loro il

controllo nei centri abitati, assieme a militari e polizia.

Hanno preso in mano le armi per difendere l’unità della Libia e il sentimento nazionale è stato rinvigorito dall’attacco

portato alla Jamahiriya dai ribelli dell’est ma soprattutto da una prematura presa di posizione dei paesi occidentali e

delle Nazioni Unite, il cui unico risultato è stato quello di rafforzare la posizione di Gheddafi.

Carta di Laura Canali da Limes 3/15 Chi ha paura del Califfo

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Muammar Gheddafi (tratto da Biografieonline.it) Muammar Gheddafi nasce il giorno 7 giugno 1942 a Sirte, città portuale libica, all'epoca parte della provincia italiana di Misurata. Gheddafi è un politico la cui posizione è quella di massima autorità della Libia; non ricopre nessun incarico ufficiale e tuttavia si fregia del titolo onorifico di Guida della Rivoluzione.

In passato Gheddafi fu la guida ideologica del colpo di stato che il giorno 1 settembre 1969 portò alla caduta della monarchia del re Idris. Di fatto nel paese che è andato a guidare negli anni, vige un regime del tutto assimilabile a una dittatura: infatti Gheddafi gode di poteri assoluti e detiene nel mondo il record come capo di Stato in carica da più tempo.

Negli anni della sua nascita l'Africa del nord è a suo malgrado teatro degli eventi bellici mondiali. Figlio di beduini analfabeti, il piccolo Muammar cresce ai bordi del deserto dove pascola ovini e cammelli, alla bisogna raccoglie quei pochi cereali che l'arida terra del deserto riesce a dare.

Come tutti i maschi delle stesse condizioni sociali ha però il diritto di essere iniziato alla dottrina dell'Islam, impara così a leggere e a scrivere con un unico libro di testo: il Corano.

Nella Libia del 1948 il recente passato bellico è ancora vivo. Il piccolo Gheddafi e due cuginetti sono investiti dallo scoppio accidentale di una granata inesplosa mentre giocano tra le dune. L'ordigno, probabilmente un lacerto dell'esercito italiano di stanza nella zona all'epoca del conflitto, uccide i due cugini e ferisce ad un braccio Muammar provocandogli una profonda cicatrice. Fedele alla dottrina impartita, nel 1956 raggiunta l'età di otto anni, si iscrive alla scuola coranica a Sirte e in un secondo momento a quella di Fezzen, che è in pieno deserto. Il piccolo studente fa la spola tra la tenda paterna e la città una volta alla settimana. Frequenta le scuole coraniche fino al 1961.

Si trasferisce a Bengasi, città del golfo della Sirte, dove si iscrive all'Accademia Militare. Provetto cadetto, nel 1968, frequenta un corso di specializzazione a Beaconsfield cittadina inglese a circa quarantacinque chilometri da Londra. Termina l'addestramento militare nel 1969: Gheddafi ha ventisette anni e il grado di capitano.

Durante tutto il periodo della sua formazione sia ideologica sia marziale è influenzato dal pensiero panarabo e dalle idee repubblicane dello statista egiziano Gamal Abd el-Nasser, che sconvolgono il mondo arabo. La Libia è difatti una monarchia corrotta, asservita agli occidentali. Il governo di re Idris I stenta a lasciarsi alle spalle il passato colonialista, fatto di servilismi e disfacimento.

Infervorato dalla realtà di questa situazione, Muammar Gheddafi il giorno martedì 26 agosto 1969, approfitta dell'assenza dei regnanti, impegnati in un viaggio all'estero, e guida, con l'appoggio di parte dell'esercito a lui solidale, un colpo di stato militare volta a ribaltare la situazione governativa. La manovra ha successo, e appena il lunedì della settimana successiva, il primo settembre, la Libia è una "Repubblica Araba Libera e Democratica". Il governo è retto da dodici militari devoti alla causa panaraba di stampo nesseriano, che formano dal Consiglio del Comando della Rivoluzione. A capo del Consiglio c'è Muammar che ha il titolo di Colonnello. Gli stati Arabi riconoscono subito il nuovo Stato libico e anche l'URSS e le potenze occidentali, anche se in un primo momento restie, danno credito a quello che in pratica è un regime dittatoriale instaurato dal Colonnello Gheddafi.

Grazie alle risorse petrolifere del territorio, il nuovo governo crea dapprima le infrastrutture mancanti al paese: scuole e ospedali, vengono anche parificati gli stipendi dei dipendenti "statali" e aperte le partecipazioni aziendali per gli operai. Il neo-governo instaura la legge religiosa. La "Sharia" derivata dai concetti della Sunna e del Corano proibisce l'uso delle bevande alcoliche, che vengono quindi bandite in tutto il territorio, con la conseguente chiusura "forzata" dei locali notturni e delle sale da gioco. La politica nazionalista estirpa poi qualsiasi riferimento straniero dalla vita quotidiana delle persone a partire dalle insegne dei negozi che devono essere tutto in caratteri arabi. L'insegnamento di una lingua straniera è bandita nelle scuole.

Le comunità estere residenti nel paese, tra cui quella italiana che è numerosissima, sono progressivamente espulse; i beni sono confiscati in nome di una rivalsa contro "i popoli oppressori".

Tutti i contratti petroliferi con aziende estere sono stracciati e le aziende statalizzate, salvo poi rivedere alcune posizioni in particolar modo con il governo italiano. Anche le basi militari di USA e Inghilterra sono evacuate e riconvertite dal Governo del Colonnello.

Gheddafi espone i suoi principi politici e filosofici nel famoso "Libro verde" (il cui nome rimanda al "Libro Rosso" di Mao Tse-tung), pubblicato nel 1976. Il titolo prendeva spunto dal colore della bandiera libica, che infatti è completamente verde, e che richiama la religione musulmana, dato che verde era il colore preferito di Maometto ed il colore del suo mantello.

Durante gli anni '90 condanna l'invasione dell'Iraq ai danni del Kuwait (1990) e sostiene le trattative di pace tra Etiopia ed Eritrea. Quando anche Nelson Mandela fece appello alla comunità internazionale, a fronte della disponibilità libica di lasciar sottoporre a giudizio gli imputati libici della strage di Lockerbie e al conseguente pagamento dei danni provocati alle vittime, l'ONU decise di ritirare l'embargo alla Libia (primavera del 1999).

Nei primi anni dopo il 2000, gli sviluppi della politica estera di Gheddafi portano ad un riavvicinamento agli Stati Uniti di George W. Bush e alle democrazie europee, con un parallelo allontanamento dall'integralismo islamico.

Nel febbraio 2011 la rivoluzione araba colpisce la Libia portando a sanguinosi scontri e ad oltre mille morti. Le violenze perpetrate dal raìs contro la popolazione rivoltosa libica impiegano l'utilizzo di forze mercenarie africane provenienti dal

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Niger e altri stati limitrofi. Nel mese di marzo una risoluzione ONU autorizza la comunità europea a intervenire con mezzi militari per garantire l'incolumità dei cittadini libici e di fatto evitare una guerra civile.

Tripoli cade il 21 agosto: i fedeli al vecchio regime di Gheddafi organizzano la loro resistenza in varie aeree del paese, principalmente a Sirte e Bani Walid. Dopo un lunghi mesi di fuga e resistenza, il leader libico viene catturato durante la fuga da Sirte, sua città natale, caduta ad ottobre sotto gli ultimi assalti degli insorti e dopo un lungo assedio. Un doppio raid degli elicotteri della Nato, a supporto dei ribelli libici, avrebbe prima bloccato Gheddafi e poi ferito mortalmente in un secondo tempo. Muammar Gheddafi muore durante il trasporto in ambulanza il 20 ottobre 2011. Aveva 69 anni.

Bibliografia sulla Libia elaborata sulla bibliografia presente in N. Schnelzer, Libya in the Arab Spring, DOI 10.1007/978-3-658-11382-7,© Springer Fachmedien Wiesbaden 201633

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