280
COLLANA DI STORIA DELL’ECONOMIA E DEL CREDITO promossa dalla FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA 15.

L'usuraio onorato. Credito e potere a Bologna in età comunale

Embed Size (px)

Citation preview

COLLANA DI STORIA DELL’ECONOMIA E DEL CREDITO

promossa dallaFONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA

15.

Volumi pubblicati:

1. M. Fornasari, Il «Thesoro» della città. Il Monte di Pietà e l’economia bolognese nei secoli XV e XVI

2. M.G. Muzzarelli (a cura di), Banchi ebraici a Bologna nel XV secolo

3. M. Carboni, Il debito della città. Mercato del credito, fisco e società a Bologna fra Cinque e Seicento

4. A. Varni (a cura di), Per diritto di conquista. Napoleone e la spoliazione dei Monti di Pietà di Bologna e Ravenna

5. P. Antonello, Dalla pietà al credito. Il Monte di Pietà di Bologna fra Otto e Novecento

6. I. Chabot - M. Fornasari, L’economia della carità. Le doti del Monte di Pietà di Bologna (secoli XVI-XX)

7. M. Carboni, Le doti della «povertà». Famiglia, risparmio, previdenza: il Monte del Matrimonio di Bologna (1583-1796)

8. M. Martini, Fedeli alla terra. Scelte economiche e attività pubbliche di una famiglia nobile bolognese nell’Ottocento

9. G. Conti - S. La Francesca (a cura di), Banche e reti di banche nell’Italia postunitaria

10. M.G. Muzzarelli, Il denaro e la salvezza. L’invenzione del Monte di Pietà

11. G. Todeschini, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza fra Medioevo ed Età Moderna

12. G. Ceccarelli, Il gioco e il peccato. Economia e rischio nel Tardo Medioevo

13. A. De Benedictis, Una guerra d’Italia, una resistenza di popolo. Bologna 1506

14. G. Conti, Creare il credito e arginare i rischi. Il sistema finanziario tra nobiltà e miserie del capitalismo italiano

15. M. Giansante, L’usuraio onorato. Credito e potere a Bo-logna in età comunale

SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO

L’USURAIO ONORATO

Credito e potere a Bolognain età comunale

MASSIMO GIANSANTE

A Francesca e Luca

«Sisters, brothers, carry each other,carry each other...»

(U2, One)

ISBN 978-88-15-12311-4

Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i di-ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fo tocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

5

INDICE

Introduzione. Credito e usura in età comunale: temi, fonti, problemi

1. «Fino a quattro denari per lira non è peccato...». La liceità dell’usura a Bologna: fra Digesto, statuti e Inquisizione

2. «Chiunque ha denaro da prestare a usura, subito diventa cambiatore...». Usura, prestigio e potere in età comunale. Qualche spunto comparativo

3. I banchieri bolognesi tra affari e politica: fonti e problemi

I. L’età dell’oro. Lo Statuto dei cambiatori del 1245

1. Il Cambio nella società e nell’economia bolognesi del Duecento1.1. Economia, potere e dinamiche istituzionali1.2. L’organizzazione del mercato interno1.3. Commercio tessile, commercio alimentare,

attività editoriali1.4. Vie di comunicazione stradali e fluviali1.5. I mercanti bolognesi e il commercio inter-

nazionale1.6. Moneta, cambio e attività creditizie

2. Lo Statuto dei cambiatori e l’ideologia del comune di popolo2.1. Machina mundi. I notai, il Comune e l’Im-

pero2.2. L’età dell’oro e la società armoniosa2.3. La fine dell’armonia e la critica del potere

politico2.4. Dall’età dell’oro all’età comunale: virtù pro-

fessionali e virtù civili del popolo2.5. Dall’etica sociale all’egemonia politica2.6. In chiave comparativa: altre età dell’oro

9

30

33

p. 9

39

394043

4548

4951

56

5765

68

707377

6

II. Definizione di una categoria professionale. La matricola del 1294

1. La matricola dei cambiatori del 12942. Le famiglie dei cambiatori

2.1. Famiglie dell’aristocrazia consolare2.2. Famiglie dell’aristocrazia postconsolare e

famiglie «di popolo»3. I cambiatori nella vita politica e negli scontri di

fazione (1250-1279)3.1. Ruoli politici3.2. Cultura e stili di vita3.3. Le lotte di fazione

III. I banchieri e la città. Azzonamento terri-toriale e livelli di ricchezza nell’estimo del 1296-97

1. Professioni e territorio urbano a Bologna2. La city bolognese e l’azzonamento dei banchieri3. Ricchezza e classi di ricchezza nell’estimo di

Bologna del 1296-973.1. L’estimo come fonte per la storia economica3.2. Ricchezza della città e ricchezza dei quartieri3.3. Fasce urbane e medie di ricchezza3.4. Classi di ricchezza

4. La ricchezza dei banchieri4.1. I capitali non creditizi

4.1.1. Porta Stiera4.1.2. Porta Piera4.1.3. Porta Procola4.1.4. Porta Ravegnana

4.2. I capitali creditizi4.2.1. Porta Stiera e Porta Piera4.2.2. Porta Procola4.2.3. Porta Ravegnana

IV. Romeo e gli altri. Percorsi di affermazione tra affari e politica

1. Romeo Pepoli: affari e politica dal banco alla signoria1.1. Usuraio o banchiere? Storia di un patrimonio1.2. Patrimonio e potere1.3. Un progetto incompiuto

p. 81

818693

97

104105111122

127

127130

144144147150153159159159162165166167168171172

193196206216

193

7

2. Dagli affari alla politica: i Gozzadini3. Il banchiere aristocratico: gli Artenisi-Beccadelli4. Dalla politica agli affari: i figli di Bianco di

Cosa

Conclusioni

Fonti

Riferimenti bibliografici

Indice dei nomi

255

p. 220228

264

261

265

283

9

INTRODUZIONE

CREDITO E USURA IN ETÀ COMUNALE: TEMI, FONTI, PROBLEMI

1. «Fino a quattro denari per lira non è peccato...». La liceità dell’usura a Bologna: fra «Digesto», statuti e Inquisizione

Davanti al vicario dell’inquisitore per la provincia lom-barda, frate Guido da Parma, insediato presso il convento domenicano bolognese, compaiono il 9 luglio 1304 i fratelli Bono e Bonaccursio, figli di Villano, fiorentini di origine ma da anni residenti a Bologna, dove esercitano entrambi la professione di copista1. Devono rispondere di alcune opinioni eterodosse, incautamente manifestate nel passato di fronte a varie persone, fra cui un frate penitente. Interrogati, dichiarano di non essere mai stati inquisiti e di non avere avuto parenti inquisiti per alcun motivo; negano inoltre di aver mai professato dottrine eretiche o di aver frequentato per alcun motivo eretici, in particolare i seguaci di Gerardo Segarelli. Ammettono entrambi, tuttavia, di non avere grande dimestichezza con le pratiche del culto e di trascurare spesso, pur essendone a conoscenza, anche il precetto domenicale; in proposito si giustificano entrambi con la gravosità degli impegni professionali e con la necessità di rispettare gli strettissimi termini di consegna dei loro lavori di trascrizione: «hoc facit – dichiara Bono – quia promittit scolaribus dare eis tantam scripturam infra certum tempus...». Interrogati infine sulla delicata questione che li ha portati di fronte al giudice, le risposte dei due divergono in modo significativo. Bono ammette di aver dichiarato pubblicamente, in passato, che prestare a usura a un tasso mensile inferiore ai quattro denari per lira, il 20% annuo dunque, non è peccato, secondo quanto aveva letto nel Digesto Vecchio («... dixit quod dare

1 La vicenda processuale è documentata in Acta S. Officii (1982-1984, 458-460).

10

ad usuras a quatuor denariis infra non est peccatum, secun-dum quendam versum quem ipse Bonus invenit in Digesto veteri»). Nel frattempo però le sue opinioni etico-economiche devono essere mutate, perché interrogato su quale sia oggi il suo parere, dichiara che «credit esse peccatum». Bonaccursio invece, che aveva manifestato le stesse convinzioni di Bono sulla liceità di un interesse limitato nei contratti di mutuo, dichiara di continuare a credere che prestare denari con l’intento di ricavarne un utile («ut ille qui mutuat pecuniam precipiat aliquid ex ea») non possa considerarsi peccato. Entrambi, comunque, se la cavano con una semplice am-monizione del vicario e con l’obbligo di assistere in futuro alla messa domenicale e alle altre funzioni festive presso la chiesa di San Domenico. Sembra dunque che le opinioni dei due copisti in materia di usura non suscitino alcuna reazione nell’inquisitore, e in ogni caso i provvedimenti adottati nei loro confronti sono estremamente miti e di natura esclusivamente spirituale. Ascoltare ogni domenica le invettive antiusuraie dei frati predicatori, sembra ritenere il giudice, domenicano anch’egli, sarà sufficiente a correggere le loro erronee opinioni. Questo esito giudiziario non deve risultare troppo sorprendente: fino al 1311 e alla definizione dottrinale voluta da Clemente V al Concilio di Vienne, era assai raro che le questioni della liceità dell’usura venissero affrontate dai tribunali inquisitoriali2. Non che mancassero agli inquisitori argomenti teologici e strumenti giuridici per occuparsi di usura. Gli usurai erano anzi una delle categorie più direttamente interessate da un fenomeno assai rilevante nello sviluppo dell’inquisizione pontificia, da tempo oggetto dell’interesse di eresiologi e storici della chiesa, cioè il dilatarsi progressivo, fra XIII e XIV secolo, dell’area dell’eresia, che giunge infine a comprendere nuove figure di devianti, perseguiti non più per il contenuto dottrinale delle loro opinioni, ma per la pericolosità sociale dei loro comportamenti. Al termine di questo processo, i

2 Sul rapporto fra eresia e usura dal punto di vista dottrinale e sul-l’intervento degli inquisitori in materia di etica economica, cfr. Giansante (1987a, 193-221).

11

mali loquentes de domino papa, così come i sostenitori di comportamenti devianti in campo sessuale, sociale, eco-nomico, diventano a pieno titolo oggetto dell’interesse e delle competenze repressive dei tribunali inquisitoriali3. Nei confronti degli usurai, tuttavia, a parte alcune circoscritte eccezioni locali, gli stessi pontefici consigliarono sempre e talvolta imposero ai loro funzionari atteggiamenti di estrema cautela. Già Alessandro IV, con la bolla Quod super nonnullis del 1258, aveva chiarito in modo inequivocabile come le questioni dell’usura non dovessero occupare gli inquisitori; essi cioè non potevano essere chiamati ad intervenire con-tro gli usurai per imporre loro la restituzione dei guadagni illeciti. All’origine dell’intervento stava probabilmente la necessità di contrastare opposte tendenze da parte di alcuni inquisitori, pericolose perché facile fonte di gravi scandali e polemiche spesso non infondate sulla condotta e sul genuino disinteresse dei giudici nello svolgimento dell’ufficio. Un richiamo, dunque, ai compiti più strettamente istituzionali degli inquisitori, che ben si inquadra nel clima generale di un periodo, i decenni quarto, quinto e sesto del secolo, for-temente caratterizzato nell’Italia padana dalla mobilitazione degli ordini mendicanti intorno ad alcuni punti-chiave della vita sociale e religiosa: composizione degli scontri di fazione e lotta all’eresia e all’usura4. Uno degli obiettivi principa-li, perseguiti dai pontefici attraverso l’opera degli ordini mendicanti, era la riforma degli statuti comunali ed il loro adeguamento, sulla questione ereticale, alla legislazione di Federico II, ma anche l’abolizione delle rubriche statutarie tolleranti in materia di prestito a interesse. Torneremo tra pochissimo su questo tema cruciale; per il momento occorre ricordare come, a questa vivace e capillare mobilitazione dei predicatori domenicani e francescani contro una poli-tica comunale troppo indulgente nei confronti del credito

3 L’ampliamento progressivo dell’area dell’eresia e quindi delle com-petenze inquisitoriali è stato oggetto di messe a punto tematiche già nel convegno The concept of heresy (Lourdaux e Verhelst 1976), e in Paolini (1977, 695-709). La densa problematica è stata poi ripresa in Zanella (1995). Qualche riflessione anche in Giansante (1987a, 196-207). 4 Vauchez (1966, 503-549); Padovani (1985, 345-393).

12

usurario, corrispondesse una diffusa moderazione degli apparati inquisitoriali, consigliata da ragioni di opportunità e raccomandata, oltre che dalle decretali pontificie, da una ricca tradizione trattatistica due-trecentesca5. Proprio a Bologna, d’altra parte, si andava delineando fin dal 1240 circa, un argomento dottrinale nuovo nella lotta all’usura, cioè la definizione della liceità dell’interesse nel mu-tuo come opinione eretica. L’assimilazione tecnico-giuridica fra sostenitori della liceità dell’usura ed eretici, da cui poter derivare tutte le conseguenze in termini di procedura istrut-toria, si sarebbe compiutamente definita, come si accennava, solo nella decretale Ex gravi di Clemente V (1311); e tuttavia le sue premesse teoriche si potrebbero forse rintracciare nel più organico e teologicamente attrezzato testo antiereticale duecentesco, l’Adversus catharos di Moneta da Cremona, redatto appunto nell’ambiente domenicano bolognese poco dopo il 12406. I catari, argomenta l’autore, sostengono che prestare a usura non sia peccato, oltre che per la loro na-turale inclinazione a distorcere il dettato evangelico, anche in base ad una indebita equiparazione fra la locazione e il mutuo. Come è lecito ricavare un profitto dalla locazione, essi dicono, altrettanto lecito è ricavare un interesse da un prestito, che non sarebbe altro che una locazione di denaro. Coerentemente alla tradizione teologica e canonistica, l’autore confuta l’argomentazione eretica sostenendo che, mentre nella locazione il dominium, e quindi il rischio di perdita del bene, rimane del locatore, che ha per questo diritto di attendersi un profitto, nel mutuo invece il dominium passa al mutuatario e il concedente non deve, quindi, attendersi altro che la semplice restituzione del capitale. Un argomento tipicissimo, dunque, di tutta la riflessione scolastica sul tema dell’usura. Eppure, per quanto siano evidenti gli intenti polemici e la natura militante dell’opera di Moneta, l’accusa da lui rivolta ai catari di sostenere la liceità dell’usura non

5 Riassunta in Giansante (1987a, 200-203). 6 Moneta Cremonensis (1964). Su Moneta e la sua opera: Quetif e Echard (1719-21, I, 122-123); Sarti e Fattorini (1888-96, I, 588-591); Manselli (1963, 254-256); Rottenwöhrer (1982, I/2, 134-188).

13

può essere liquidata troppo rapidamente. È noto infatti come l’etica economica catara, più precisamente la neutralità morale del lavoro nell’ideologia catara, finisse per suscitare negli adepti un atteggiamento di tolleranza, se non di aperto favore, verso le attività commerciali e creditizie in genere e l’usura in particolare, rispetto ad altre professioni che po-tevano richiedere un più diretto contatto col mondo della materia e della vita animale, regno incontrastato del maligno. A questo aspetto del catarismo Moneta da Cremona e gli altri eresiologi duecenteschi, Raniero Sacconi ad esempio7, dedicano un’attenzione considerevole sul piano dottrinale ed un’argomentata confutazione teologica, e su queste basi teoriche potevano poggiare i loro sporadici interventi in ma-teria di usura gli inquisitori duecenteschi, individuando una convergenza occasionale e strumentale, tuttavia sufficiente ai fini procedurali, fra eretici e sostenitori della liceità dell’in-teresse nel mutuo. Nei primi anni del Trecento, si diceva, la legislazione pontificia interviene con decisione nella materia, spostando sul piano giuridico la questione e semplificandone notevolmente la soluzione teorica. Il primo obiettivo della decretale di Clemente V era la normativa statutaria di nume-rose città, che nonostante lo zelo dei predicatori mendicanti ancora tutelavano il credito usurario. Per combattere questa situazione, il Concilio di Vienne dichiara scomunicati gli uffi-ciali comunali che non avranno provveduto entro tre mesi ad eliminare dagli statuti gli articoli in questione. Per prevenire poi possibili opposizioni da parte delle autorità comunali, l’ultima parte della decretale dichiara colpevole di eresia chiunque osi sostenere la liceità dell’usura, e affida le relative procedure di accertamento e condanna alle autorità ecclesia-stiche competenti: l’ordinario e gli inquisitori territorialmente responsabili. Da quel momento dunque, la formulazione di un parere giuridico favorevole o comunque indulgente verso le attività feneratizie avrebbe potuto comportare l’accusa di eresia. Sebbene finalizzata a confermare un principio dottri-nale antichissimo nella tradizione teologica e nel magistero della chiesa, la decretale di Clemente V sembra costituire

7 Raynerius Sacconi (1974, 45).

14

la prima definizione normativa della liceità dell’usura come dottrina eretica. Né il Decretum infatti, né le Decretales, né il Sextus, pure ampiamente e minuziosamente articolati sui due versanti, eresia e usura, prevedono questa assimilazione, resa invece esplicita dalla Ex gravi, fra sostenitori teorici della liceità del prestito feneratizio ed eretici. Impressione che trae conferma da un esame, sia pur rapido e sommario, delle opere dei maggiori canonisti duecenteschi8. Certamente i due copisti fiorentini non dovevano avere consapevolezza di essere entrati, con le loro incaute affer-mazioni, in un terreno così periglioso: la tesi della liceità viene sostenuta dal più ferrato dei due con una citazione del Digesto, piuttosto vaga nella forma e neppure troppo precisa nel merito, e dall’altro con una semplice argomen-tazione di buon senso, il che contribuisce forse al felice esito della loro vicenda giudiziaria. E del resto nel 1304 la soluzione dottrinale definitiva non era ancora stata formu-lata e il dibattito in materia poteva dirsi ancora aperto. Era cioè teoricamente ancora possibile sostenere l’attualità degli argomenti romanistici in favore della liceità di un’usura con-tenuta. Fondamento comune e base teorica della riflessione dei giuristi e dell’attività dei legislatori comunali era dunque il Digesto, e più in generale il Corpus giustinianeo. Da quella fonte provenivano non solo, e non tanto forse, i riferimenti dottrinali sui limiti massimi del tasso di interesse lecito nel mutuo, pure numerosi e generalmente ispirati all’usura cente-sima, cioè all’1% mensile del capitale (12% annuo), quanto soprattutto l’attitudine a considerare il termine e il concetto giuridico di usura in un’accezione puramente tecnica, mo-ralmente neutra, pienamente giustificata dall’esistenza di un contratto, più o meno formalizzato, di stipulatio, il pactum usurarum appunto9. Tutto ciò valeva, specie in una città

8 Hostiensis (1505, ff. 319-321); Hostiensis (1965, ff. 34-40, 55-60); Innocentius IV (1968, ff. 506-507, 516-518); Ioannes Andree (1963a, ff. 46-52, 72-78); Ioannes Andree (1963b, 245-258, 262-268). 9 Per una rapida ma esauriente sintesi, si può ricorrere a Brasiello, Benedetto e Caron (1975). Un ampio approfondimento tematico in Nardi (1979).

15

come Bologna, per antica vocazione sensibilissima a quella pervasiva tradizione culturale, a dare piena cittadinanza nella riflessione scientifica e nella prassi legislativa al concetto di usura legitima, che, codificato negli statuti comunali, filtrava da questi ambiti a quelli della società urbana e veniva recepito dal senso comune dei ceti commerciali e creditizi. Non solo a Bologna, naturalmente. Quasi tutti gli statuti dei comuni lombardi, redatti nei primi decenni del Duecento, quando quelle città vivevano la fase di massima espansione dei traffici commerciali e dell’economia monetaria, codificano limiti massimi di interesse lecito oscillanti fra il 10 e il 20% annuo, molto inferiori, fra l’altro, a quelli tollerati ancora nel XIV secolo a Zurigo ed Anversa, ad esempio, o nelle città fiamminghe10. Contro questa situazione si mobilita, a partire dagli anni Venti del Duecento, la predicazione degli ordini mendicanti, affiancandosi all’azione politica dei vescovi nel chiedere la riforma degli statuti e l’eliminazione delle rubri-che sull’usura legittima. Il successo dell’azione ecclesiastica non fu uniforme: alcuni statuti vennero riformati già negli anni Trenta, ma altri, come quelli di Brescia e di Como, conservavano nella seconda metà, e ancora negli ultimi decenni del secolo, rubriche sui tassi di interesse legittimo. Solo dall’inizio del Trecento si può dire che le legislazioni comunali recepiscano in modo omogeneo le direttive spiri-tuali di vescovi e predicatori, rinunciando a regolamentare i tassi di interesse e lasciando quindi libero il campo alle condanne ecclesiastiche dell’usura11. Ciò accade anche a Bologna, nel passaggio dagli statuti della metà del secolo, che stabiliscono un limite massimo del 20% annuo («Quod nullus ultra quatuor denarios usuras accipiat»), a quelli del 1288, che tacciono in materia di usura12.

10 Castellani (1998, 161-168); Mainoni (2005, 129-158). Assai vicini ai tassi praticati a Bologna in questi anni, sono quelli documentati a Modena, su cui cfr. Greco (1997, 30-33). 11 Mainoni (2005, 155-157). 12 Statuti del comune (1869-1877, II, 202, Libro VIII, rubrica 14); Statuti di Bologna (1937-1939). Sugli statuti bolognesi del XIII e XIV secolo, cfr. Repertorio degli statuti (1997-1999, I, 35-88).

16

Gli statuti comunali recepivano, con ritmi propri det-tati dalle diverse realtà economiche e sociali cittadine, gli andamenti di un dibattito dottrinale estremamente vivace, un po’ appiattito forse nella storiografia del Novecento dall’autorevolezza indiscussa di alcune sintesi di prevalente impianto teologico13. In effetti la subordinazione assoluta del diritto civile al canonico in materia di usura, la negazione di ogni spazio al concetto di usura legittima, è un processo che nella giurisprudenza, se non nella coscienza dei giuristi, può dirsi definitivamente compiuto solo agli inizi del Trecento, come sembra ben rappresentare, per fare solo un esempio, il diverso atteggiamento tenuto nei confronti del tema da Cino da Pistoia e dal suo grande allievo Bartolo: di fronte ad un evidente e incomponibile contrasto fra il Corpus giustinianeo e i canoni, sulla liceità dell’interesse nel mutuo, il primo opta per la sospensione del giudizio, mentre il secondo riconosce senza obiezioni che «in hoc canonistis standum est»14. E il parere dei canonisti era da sempre inequivocabile, con pochissime ed esili sfumature. Proprio a Bologna, negli ambienti dei commentatori del Decretum, si erano elaborati nei decenni finali del XII secolo, deducendoli in parte dalla tradizione patristica, i fondamenti della condanna dell’usura e della confutazione degli argo-menti civilistici in favore della sua liceità. Nel trentennio che va dall’opera di Rufino (1158 circa) a quella di Uguccione da Pisa (1188 circa), la scienza canonistica bolognese aveva analizzato, classificato e sottoposto a giudizio di legittimità etica tutta la varia casistica contrattuale consegnata al me-dioevo dalla tradizione giuridica romana, ed anche le nuove fattispecie commerciali e creditizie emerse dalle fervide realtà urbane dei secoli XI e XII15. Le soluzioni elaborate, aperte talvolta all’accoglimento di operazioni creditizie configurabili

13 Mi riferisco in particolare alla densissima sintesi di Le Bras (1950) e alla sostanziale passività con cui le sue conclusioni vengono recepite, ad esempio, nella citata voce romanistica del Novissimo digesto italiano (v. nota 9); un po’ più sfumata, ma comunque sensibile, l’ombra del Le Bras sull’opera di Nardi (1979). 14 Quaglioni (2005, 247-264). 15 Nardi (1979, 240-260).

17

come locazioni o commodati, che non trasferivano la pro-prietà ma solo l’uso del denaro, o come società commerciali, che implicassero per il finanziatore un rischio reale di perdita del capitale, furono invece monolitiche nella condanna di ogni profitto, di ogni eccedenza, sia pur minima, rispetto al capitale nei contratti di mutuo. L’ovvia eccezione costi-tuita dalla penale, prevista per il ritardato pagamento, che apriva la strada alla legittimazione di usure dissimulate, fu oggetto di specifici approfondimenti dottrinali, fra la fine del XII secolo e l’inizio del Duecento, tutti concordi nello smascheramento e nella condanna di contratti comunque illeciti: se il ritardato pagamento e la relativa penale erano previsti e regolati al momento del prestito, o comunque se era intenzione del prestatore conseguire un guadagno dal mutuo, il contratto si configurava come usurario e quindi peccaminoso16. La canonistica del Duecento non attenua la condanna. La linea interpretativa tradizionale viene anzi progressivamente adeguata alle nuove realtà che si affacciano sulla scena sociale, e rafforzata per far fronte ad argomentate obiezioni teoriche. Sempre più spesso, ad essere oggetto dell’attenzione e della condanna di decretisti e decretalisti non è più l’attività di pre-statori su pegno e usurai manifesti, ma quella di cambiatori, banchieri, mercanti prestigiosi, che esercitano il credito in tutte le forme contrattuali possibili, depositi, cambi, mutui, agendo in piena luce e riconosciuta onorabilità sociale, al riparo del diritto giustinianeo, della normativa statutaria e di una prassi commerciale ormai consolidata17. A Bologna in particolare, i banchieri della società del cambio trovano, come vedremo, un mercato dalle straordinarie possibilità nel mondo dei commerci e soprattutto negli ambienti studenteschi, ma anche nei ceti sociali più modesti, costretti a ricorrere spesso al credito di consumo. Alle diverse esigenze di contadini, studenti, artigiani, società commerciali, si propongono so-luzioni contrattuali assai articolate ed elastiche, in grado di garantire profitti sicuri ai creditori, ma non necessariamente

16 Ibid., pp. 255-258. 17 Ibid., pp. 259-264.

18

giugulatorie per i debitori; una realtà finanziaria, comunque, assai dinamica, caratterizzata da tassi d’interesse quasi mai superiori al limite statutario del 20% annuo. Nondimeno, una realtà peccaminosa sul piano dell’etica cristiana, così come era socialmente onorevole ed economicamente redditizia per i suoi protagonisti. L’argomento è costante nei secoli: il mutuo trasferisce al mutuatario la proprietà del capitale ed il rischio della sua perdita, il mutuante non può quindi legittimamente attendersi altro che la nuda restituzione della somma prestata; ogni ulteriore profitto è usurario, anche se mascherato da penale. Già dalla fine del secolo XII, i teologi parigini concordano nell’analisi con i canonisti bolognesi: peccano come usurai tutti quei mercanti e cambiatori che prestano denaro fissando una penale per il ritardato paga-mento, consapevoli che i loro clienti non saranno in grado di saldare il debito nel tempo fissato e dovranno, quindi, pagare cifre eccedenti il capitale, cifre che «sophistice vocant poenam cum saepius est usura»18. In realtà, come si accennava e come vedremo meglio, quantomeno a Bologna mercanti e cambiatori continueranno per tutto il Duecento a chiamarle tranquillamente usure, come fanno gli statuti comunali, con proprietà di lessico giuridico e in apparente assenza di sensi di colpa, registrandole puntualmente a fini contabili e fiscali nei documenti pubblici e privati, senza per questo rischiare di essere in alcun modo accostati, nella pubblica fama, alla riprovevole categoria degli usurai manifesti. La condanna canonistica intanto si rafforzava alla luce della ricerca teologica, ed entrambe davano corpo e vigore ad un’azione pastorale e ad una predicazione via via più aggressive. Il fondamento teologico delle condanne eccle-siastiche e l’ispirazione etica della predicazione antiusuraria due-trecentesca sono stati oggetto negli ultimi decenni di analisi ampie, approfondite, fortemente innovative rispetto ad una tradizione storiografica, peraltro, già ricchissima ed attrezzata19. Il quadro generale che emerge dagli studi più

18 La citazione è tratta dal De usura di Roberto di Courçon, su cui cfr. Baldwin (1970); Nardi (1979, 259). 19 Per un quadro delle attuali posizioni storiografiche e per tutti i

19

recenti è quello di un’etica economica condizionata in modo decisivo dall’ideale cristiano della povertà volontaria, elabora-to in ambienti francescani e domenicani, disposto quindi ad accogliere al proprio interno una valutazione positiva della ricchezza solo in funzione del suo valore civico, della sua destinazione distributiva, sociale, istituzionale. Nell’ideologia mendicante, ma già prima nella riflessione ecclesiologica di epoca gregoriana, che permeano entrambe profondamente le dottrine etico-economiche dei secoli XIII e XIV, la ricchez-za, la disponibilità abbondante di denaro e beni materiali è cristiana, compatibile cioè con il dettato evangelico, solo in quanto ricchezza collettiva della comunità ecclesiale, che coincide con la realtà politica e istituzionale della civitas20. La ricchezza e il profitto dei singoli saranno dunque legittimi solo alla luce dell’analisi dei bisogni collettivi, e cioè nel qua-dro della dottrina generale del bene comune. Per i cristiani, l’unico atteggiamento etico nei confronti del denaro e del suo uso sarà allora quello distributivo, il reinvestimento della ricchezza in forme di pubblica utilità. L’opposta attitudine accumulativa, tipica dell’usuraio, espressione di avidità perso-nale, non potrà in nessun caso rientrare nel quadro dell’etica cristiana, essendo portata a tesaurizzare la ricchezza per fini individuali, sottraendola alla sua destinazione produttiva, alle sue finalità sociali, al suo circolo virtuoso21. E così, mentre l’analisi economica elaborata a Parigi, a Bologna, nelle scuole degli ordini mendicanti, apriva, anche grazie al contributo della recuperata tradizione aristotelica, spazi teorici nuovi, ad accogliere il ruolo sociale della mercatura; mentre l’evi-dente utilità pubblica del commercio, l’importanza di una capillare distribuzione dei beni, accentuata dal vorticoso sviluppo delle città, garantiva ai mercanti il diritto ad un interesse legittimo, giusta retribuzione del pericolo, della

necessari riferimenti alla tradizione precedente, si può ricorrere ad alcune recenti raccolte di saggi: Etica e politica (1999); Greci, Pinto e Todeschini (2005). Inoltre, dalla ricchissima produzione tematica di Giacomo Tode-schini, cfr. almeno Todeschini (1994; 1998; 2002). 20 Todeschini (1994, 187-211; 2000, 50-55; 2002, 133-185; 2005, 151-228); Ceccarelli (2005). 21 Todeschini (2005, 151-160); Ceccarelli (2005, 20-23).

20

fatica, delle capacità tecniche richieste da quelle attività, il mondo del credito invece continuava ad essere guardato con sospetto22. L’inseparabilità, ossessivamente ribadita in tutte le opere economiche dei maestri francescani e domenicani, della proprietà del denaro dal suo uso, chiudeva irrimedia-bilmente ogni spazio alla possibile legittimazione del prestito a interesse. Le rapide fortune di singoli prestatori e società creditizie, che fiorivano numerose intorno ai mercati di città grandi e piccole, continuarono ad essere condannate senza eccezioni come usurarie, e quindi peccaminose, perché co-struite ai danni dell’utilità sociale, usurpando a fini di lucro personale beni e denari destinati a soddisfare i bisogni col-lettivi, vendendo ciò che in nessun caso può essere venduto, cioè l’uso del denaro separato dal suo dominium. L’unica via per il recupero di quei turpi lucri ad un uso legittimo, per il loro reinserimento nella naturale e benefica circolazione del denaro, era la restituzione testamentaria dei male ablata, delle cifre indebitamente acquisite, che ricon-segnava le ricchezze alle dinamiche fruttuose e socialmente utili cui le aveva sottratte l’avidità personale dell’usuraio23. Sostenuta da una capillare azione pastorale e da una rete di predicazione efficacissima nel richiamare gli operatori del credito al pentimento liminare per i loro illeciti guadagni, la prassi delle restituzioni testamentarie attivava un importante processo di ridistribuzione della ricchezza. Il suo scopo era ristabilire l’ordine sociale turbato dal comportamento usu-rario, ricreare l’armonia spezzata da quella violazione, ma nel caso dei professionisti del credito l’operazione poteva rivelarsi tecnicamente assai complessa. Essendo quasi sempre impossibile individuare a distanza di decenni le vittime dirette delle estorsioni usurarie, cui in teoria andavano indirizzate le restituzioni per rendere efficace il pentimento, si poneva l’intricatissima questione di come procedere, chi, quanto e come indennizzare. Alla direzione teorica e pratica di questo processo, che affiancava la direzione spirituale dell’usuraio-testatore durante gli ultimi momenti della sua esistenza

22 Kaye (2005); Todeschini (2005, 207-210). 23 Todeschini (2002, 133-185).

21

terrena, doveva necessariamente porsi una figura virtuosa e competente, dotata di discernimento etico, giuridico, eco-nomico e di esperienza in materie complesse come il giusto indennizzo e l’uso virtuoso delle ricchezze: un ecclesiastico, dunque, quasi sempre un frate mendicante24. In mancanza dei legittimi destinatari delle restituzioni e dei loro eredi, la cifra corrispondente, dedotta preliminar-mente dal patrimonio ereditario, andava destinata ad opere assistenziali, pie, di pubblica utilità, onde ristabilire l’equili-brio, la corretta dialettica economica, collettiva, istituzionale, incrinata dall’avidità personale dell’usuraio. Nell’individuazio-ne dei giusti destinatari delle restituzioni, ed eventualmente degli esecutori testamentari più adatti, in questa fase delicata e drammatica dell’esistenza, il testatore era appunto affiancato dalla figura del consigliere spirituale. Questa collaborazione poteva produrre talvolta esiti clamorosi sul piano sociale o artistico25, più spesso ne scaturiva un flusso di finanziamenti minuti ma preziosi per la collettività e per i suoi equilibri. Ma soprattutto, attraverso quel processo, guidato di norma da esponenti degli ordini mendicanti, ogni ricchezza, anche la più turpe, anche quella prodotta dai comportamenti etici più devianti, poteva essere recuperata ad un uso legittimo, poteva essere reinvestita in opere di pubblica utilità, diven-tando così per gli stessi peccatori una via per la salvezza. Tutto ciò facilitava l’instaurarsi di una sorta di complice solidarietà fra peccatori e redentori, una prassi di feconda collaborazione spirituale ed economica fra il ceto di coloro che operavano professionalmente in un’economia di peccato e il gruppo che si candidava al loro estremo recupero, alla salvezza delle loro anime e al reinvestimento virtuoso dei loro capitali: una collaborazione fra usurai e frati, che è appunto quella testimoniata da tanti cartulari conventuali26.

24 Ibid., pp. 135-140. 25 Fra tutti, il caso degli Scrovegni studiato da Todeschini (ibid., 174-185). 26 Per limitarci al ricchissimo panorama francescano bolognese, si potrebbero vedere i cosiddetti «Campioni rossi» dell’archivio conventuale di S. Francesco, in ASBo, Corporazioni religiose soppresse, S. Francesco, bb. 335/5078-357/5100. Per un quadro complessivo della documentazione francescana, cfr. Plessi (1989).

22

Confrontare questo quadro generale con la specificità del caso bolognese, verificare la prassi delle restituzioni testa-mentarie degli usurai nella concretezza della documentazione notarile dei secoli XIII e XIV, consegnataci con abbondanza scoraggiante da quella tradizione archivistica, è un obiettivo che esula totalmente dai limiti di questa ricerca. Non vi è dubbio, e qualche sporadicissimo sondaggio lo conferma, che anche i prestatori bolognesi destinassero nei loro testamenti cifre consistenti pro remedio anime27. Ma l’entità, la frequenza, l’ispirazione del fenomeno, i suoi esiti economici e sociali, il ruolo avuto in queste dinamiche dai precocissimi insediamenti bolognesi di francescani e domenicani, sono realtà ancora in gran parte inesplorate per la storiografia bolognese. E tuttavia, a parte ciò che non sappiamo sul comportamento testamentario degli operatori del credito a Bologna, alcune occasionali e interessanti testimonianze ci si offrono sui loro atteggiamenti professionali, sulla loro mentalità, sui loro rapporti con i frati mendicanti, tutori dell’ortodossia etico-economica e, si diceva, censori implacabili del profitto creditizio. La breve vicenda processuale dei due copisti fiorentini ha aperto per un attimo il sipario su di una scena che, ai primi del Trecento, doveva essere ancora assai vivace ed animata. Su quella scena, sulla questione della liceità teori-ca dell’usura, sarebbe calata di lì a poco anche a Bologna un’azione normalizzatrice che avrebbe adeguato la legisla-zione comunale alle disposizioni dei canoni. Ma nei decenni finali del Duecento, la prassi e l’opinione comune dei ceti commerciali e creditizi, che coincidono in gran parte con i gruppi dirigenti comunali, sono ancora saldamente orientate in senso diverso. Il cosiddetto «uso senese», il principio della liceità di interessi creditizi contenuti entro il 20% annuo,

27 Si vedano ad esempio le ricerche di Bertram (1989; 1990; 1991). Un cenno fugace alla prassi delle restituzioni testamentarie dei professionisti del credito si legge in Maragi (1981, 226). L’interessante testamento di un banchiere bolognese, Zerra del fu Romeo Pepoli, datato 1251, che dispone restituzioni pro anima è stato recentemente pubblicato da Diana Tura nel catalogo della mostra Rolandino (Tamba 2000b, 126).

23

che le grandi compagnie toscane esportavano sulle piazze commerciali italiane e transalpine, veniva recepito a Bologna alla luce dei concetti di lucro cessante, danno emergente, retribuzione del rischio e delle spese di gestione, e così accolto nelle strutture del diritto comune28. Un’operazione, quest’ultima, che si realizzava con il contributo decisivo, e forse non sempre disinteressato, di esponenti della scuola giuridica che, come ampiamente noto, erano anch’essi spesso attivissimi prestatori29. Inserito poi, ad opera di una classe di governo egemonizzata allora da mercanti e cambiatori, negli statuti cittadini del 1250, quel principio, per il quale solo oltre certi limiti l’usura poteva considerarsi riprovevole, doveva ispirare la mentalità dei ceti medi bolognesi, e costi-tuire soprattutto per l’aristocrazia del Cambio un termine di riferimento etico-economico di qualche rilevanza, come sembrano testimoniare i documenti privati e le dichiarazioni d’estimo dei cambiatori, su cui ci soffermeremo tra poco. In ogni caso, l’altissimo livello di autocoscienza che il ceto dei cambiatori e mercanti bolognesi aveva raggiunto intorno alla metà del Duecento, all’apice della sua parabola politica, e che vedremo ben espresso nello statuto dei cambiatori del 1245, aveva reso incolmabile il solco che già il senso comune delineava fra la figura del cambiatore e quella del pubblico usuraio, distinte non tanto dalle attività esercitate, che in ef-fetti coincidevano in buona parte, quanto dal prestigio sociale universalmente riconosciuto alla prima e negato alla seconda. Come osservava di recente Renato Bordone a proposito dei prestatori lombardi, su cui sarà necessario tornare, anche per i cambiatori bolognesi era la qualità delle persone e la loro onorabilità sociale a rendere lecita la professione esercitata, e non viceversa. Il credito usurario, in altre parole, era attività pienamente lecita ed anzi onorevole, ancorché pericolosa per la salvezza dell’anima, se veniva svolta, nei limiti statutari, da cambiatori, mercanti e, in alcuni contesti urbani, dai pre-

28 Maragi (1981, 226-228). L’uso senese era praticato negli stessi decenni anche sulla piazza modenese: Greco (1997, 32). 29 Pini (1988, 102); sull’attività creditizia di Francesco d’Accursio, cfr. Maragi (1981, 143-144).

24

statori su pegno autorizzati; quella stessa attività era invece oggetto di concorde riprovazione quando ad esercitarla era la figura socialmente e culturalmente marginale dell’usuraio manifesto30. È assai comprensibile che questa mentalità e questi comportamenti, ampiamente diffusi nella società comunale, dovessero suscitare la condanna dei predicatori e fossero destinati ad entrare in conflitto con la loro azione pastorale. Ancora una volta, gli atti dell’inquisizione domenicana ci forniscono in proposito qualche elemento di suggestione. Come i due copisti fiorentini, pur senza addurre quegli argo-menti giuridici, alcuni usurai o banchieri bolognesi entrano a vario titolo in contatto con il tribunale inquisitoriale per aver manifestato pubblicamente, e spesso in aperta polemica con i confratelli domenicani dell’inquisitore, comportamenti economici devianti ed opinioni eterodosse in materia di usura, opinioni che, è bene ricordarlo, in quella fase cronologica ancora potevano essere espresse senza incorrere in gravi sanzioni. Esaminiamo rapidamente tre vicende processuali, diverse per origine e imputazione ma accomunate dall’esito favorevole per l’inquisito; la prima riguarda un prestatore su pegno, Graziadio di Ripa, mantovano da tempo immigrato a Castel San Pietro, le altre coinvolgono due figure di grande rilievo pubblico, Paolo Trintinelli e Uguccione Tettalasini, entrambi attivissimi prestatori ed esponenti delle società popolari di Bologna, che incontreremo di nuovo nel corso della nostra ricerca, il secondo, Uguccione, anche nel ruolo di uomo politico di primissimo piano. Graziadio di Ripa viene denunciato all’inquisitore il 22 maggio 1299 come homo male fidei et opinionis31. Pesano forse a suo carico anche alcuni precedenti di lieve entità: nel 1291 era stato coinvolto in un’ampia indagine sul catarismo bolognese, originata dalla denuncia di un pentito suo con-terraneo, Onebene di Mantova, ma era uscito dalla vicenda senza gravi conseguenze, ed anzi senza essere direttamente

30 Bordone (2004). 31 Acta S. Officii (1982-84, I, 1-5, 64-65); Giansante (1987a, 210-212).

25

convocato dal tribunale. La seconda denuncia lo porta invece a dover rispondere al giudice della pessima fama che gli viene attribuita, in particolare di un atteggiamento di indifferenza e di esplicito rifiuto delle pratiche di devozione. Ma la sua devianza sembra estendersi dall’ambito religioso a quello delle relazioni sociali; la denuncia lo dipinge infatti come peren-nemente isolato in un atteggiamento di radicale misantropia, che si estende al rigetto dei rapporti familiari e cui fa da corollario una morbosa avidità di denaro, quotidianamente e ferocemente espressa nella sua attività di prestatore: l’ar-chetipo medievale di Scrooge va delineandosi dunque nella descrizione quasi caricaturale dell’usuraio mantovano. Altri elementi della denuncia aggiungono poi particolari suggestivi a questa fisionomia, familiare alla letteratura ottocentesca e, prima ancora, alla predicazione mendicante: il cinismo sprezzante manifestato ripetutamente negli affari, anche nei confronti di parenti stretti, e l’assenza dichiarata di qualunque rimorso. Graziadio non si premura neppure di annotare le usure lucrate, in modo da provvedere almeno in punto di morte alle restituzioni, ed anzi, continua la denuncia, non prevede per sé alcun pentimento e va dicendo che volentieri si porterebbe nella tomba tutti i propri illeciti guadagni. Interrogato dall’inquisitore, Graziadio nega qualunque rap-porto con esponenti del catarismo mantovano o bolognese, ma conferma e rivendica con un certo orgoglio la propria attività professionale e tutte le opinioni e i comportamenti che in proposito gli vengono attribuiti; per il resto dichiara un’adesione generica ai dogmi cattolici. Una cauzione ingente, a garanzia della sottomissione all’autorità dell’inquisitore, è l’unica conseguenza giudiziaria subita da Graziadio ed è motivata nella sentenza dal precedente coinvolgimento e dai dubbi di qualche pregressa frequentazione ereticale; l’attività e i comportamenti professionali dell’usuraio, così come le sue opinioni etico-economiche non suscitano la minima reazione nell’inquisitore32.

32 Acta S. Officii (1982-84, I, 218-219).

26

Diversa la vicenda di Paolo Trintinelli, ma analogo l’esito giudiziario33. Paolo è un immigrato di seconda generazione: il padre Trintinello faceva parte di un cospicuo gruppo di operatori tessili veronesi, che negli anni Trenta si era trasferito a Bologna, attirato dalle autorità comunali con agevolazioni economiche e fiscali, allo scopo di avviare anche nella città emiliana la produzione laniera, come richiedeva un mercato in costante espansione. A differenza del padre però, Paolo aveva fatto una discreta fortuna nel settore calzaturiero, investendo poi i suoi capitali prevalentemente in attività creditizie; come vedremo meglio nel terzo capitolo, verso la fine del Duecento era infatti fra i più facoltosi contribuenti bolognesi, ed il più ricco forse fra i prestatori esterni alla Società del Cambio. Il suo coinvolgimento nelle indagini coordinate dall’inquisitore domenicano Guido da Vicenza riguarda la partecipazione ad un tumulto di piazza, scatenato nel maggio del 1299 dalla condanna e dall’esecuzione sul rogo dell’eretico Bompietro34. Pur senza avere alcun legame personale con il catarismo, ed essendo anzi un cattolico praticante, Paolo aveva manifestato insieme ad una folla numerosa contro quella sentenza, e più in generale all’in-dirizzo dell’attività repressiva del tribunale inquisitoriale. Il suo dissenso, come quello degli altri tumultuanti, riguardava in primo luogo i domenicani e le loro sopraffazioni, ma nel caso di Paolo si estendeva agli ordini mendicanti in genere ed in particolare ai carmelitani del convento bolognese di S. Martino: contro la genuinità della loro vocazione, che avrebbe a suo dire mascherato una sordida avidità, aveva inveito durante la messa domenicale nella chiesa dei car-melitani, sua parrocchia di residenza. La vivacità e la ricca argomentazione delle sue invettive, ma soprattutto il luogo pubblico e la grande risonanza delle manifestazioni di Paolo, personaggio assai conosciuto e rispettato in città, avevano fatto scattare quasi immediatamente il meccanismo delle denunce indirizzate all’inquisitore, numerose ed autorevoli. Due di queste provenivano proprio da frati di S. Martino,

33 Ibid., pp. 56-58. 34 Paolini (1975, 56-61); Giansante (1987b, 226-227).

27

che lo definiscono magnus fenerator et publicus usurarius. Anche in questo caso, tuttavia, la questione professionale non interessa affatto all’inquisitore, che non la citerà nep-pure nella sentenza35. Paolo viene riconosciuto colpevole di «complicità morale» con l’eresia, per aver pubblicamente contestato l’inquisitore, e viene scomunicato e condannato a pene spirituali e sanzioni monetarie. A distanza di pochi giorni però, preso atto del pubblico pentimento manifestato e del pagamento di un’ingente cauzione, viene assolto dalla scomunica e dalle altre pene36. L’attività feneratizia e le opinioni economiche dell’inquisito, dunque, continuano a non interessare l’inquisitore: specie in presenza di accusati in grado di fornire cauzioni elevate, i suoi margini di tolle-ranza in proposito sono estremamente elastici. Ma ciò che soprattutto ci interessa è annotare un altro caso di attivissimo prestatore animato da sentimenti di aperta polemica con gli ordini mendicanti. Ancora più interessante in proposito è il caso di Uguc-cione Tettalasini, che arricchisce la polemica di maggiori contenuti culturali e più accentuata asprezza. Sul personaggio e sulla sua brillante e drammatica carriera politica, tornere-mo nei prossimi capitoli, così come sul ruolo della famiglia Tettalasini nella vita economica bolognese e negli scontri fra le fazioni cittadine. Soffermiamoci subito invece sulla vicenda processuale di Uguccione e sul contributo che essa sembra offrire al tema, centrale ma sfuggente, che riguarda la mentalità dei ceti creditizi37. Denunciato all’inquisitore nel giugno 1299 dal collega e rivale in affari Giovanni Zovenzoni, Uguccione Tettalasini rappresenta un bell’esempio di spirito forte, quello che potremmo definire un materialista radicale. L’oggetto principale della denuncia, ampia e particolareggiata, è infatti il suo male loqui de fide catholica, che però neppure dal denunciante viene in alcun modo accostato ad opinioni ereticali, e che in realtà non sembra dar luogo ad alcun pro-cedimento. Non compaiono infatti fra gli atti del tribunale

35 Acta S. Officii (1982-84, I, 312-314). 36 Ibid., II, pp. 326-329. 37 Ibid., I, pp. 87-88; Giansante (1987a, 213-215).

28

presieduto da Guido da Vicenza verbali di testimonianze, né interrogatori, né sentenze a carico di Uguccione; non ci è dato sapere, certo, se l’inquisitore sia stato indotto dal prestigio sociale del personaggio a procedere con cautela nell’istruttoria, o se invece la denuncia si rivelasse subito ai suoi occhi manifestamente frutto di animosi risentimenti personali. Comunque sia, gli elementi dell’accusa, che dove-vano apparire quantomeno credibili, per essere proposti ed accettati nella forma solenne di un atto giurato, delineano della personalità di Uguccione un quadro di estremo interesse: per noi, a quanto pare, più che per l’inquisitore, che come si accennava rimane ancora una volta del tutto indifferente a questo genere di denunce. Innanzi tutto, agli occhi del denunciante, il Tettalasini è uomo «male fidei et male op-pinionis et vile quia dictus Ugutio est usurarius publicus et fuit iam sunt multi anni». L’esercizio regolare e prolungato del credito usurario è, dunque, il primo elemento della cat-tiva fama del denunciato, il primo argomento dell’accusa, che gli viene rivolta, ricordiamolo, da un collega, attivo nello stesso settore e come lui immatricolato da anni alla Società del Cambio. Ma l’oggetto principale della denuncia è l’indifferenza ripetutamente manifestata rispetto alla fede cristiana e agli elementi del culto. Più volte egli avrebbe pubblicamente dichiarato la propria incredulità, negando l’ispirazione divina degli evangeli e deridendo come stulti et fatui quanti vi prestavano fede. Analogo atteggiamento avrebbe poi dimostrato verso l’eucaristia e verso quanti si recavano ad adorare il corpo di Cristo nella chiesa di S. Agata, sua contrada di residenza, o la reliquia della croce esposta nella chiesa di S. Domenico. A questo proposito, anzi, Uguccione polemizza apertamente con i frati predi-catori, accusandoli di spacciare per reliquia autentica una comune scheggia di legno, prelevata probabilmente da una panca della chiesa, per gabellare gli stolti fedeli ed estorcere loro il denaro delle offerte. Ma l’apice del suo materialismo, il cambiatore bolognese lo esprime manifestando una sorta di repulsione verso la mendicità e i poveri, dei quali non sopporta la vista, e dichiarando con sprezzante sicurezza di riporre nel benessere materiale il vero scopo della propria

29

esistenza. Tutte queste argomentazioni erano state sostenute da Uguccione in una serie di pubblici dibattiti, ambientati nel trivio dei Tettalasini, nella piazzetta, dunque, prospiciente le case di famiglia, situata nel territorio della cappella di S. Agata; a quegli incontri erano soliti partecipare esponenti di alcune delle famiglie più in vista nella società bolognese – Tettalasini, Zovenzoni, Pepoli –, residenti nella stessa cap-pella e legati ad Uguccione da vincoli di vicinato e d’affari, in qualche caso anche di parentela. Un pubblico ristretto, ma attento e fedele, a giudicare dal ricorrere a distanza di anni degli stessi nomi nei vari episodi citati, un pubblico che assi-steva con interesse alle esibizioni dialettiche del cambiatore, e di cui faceva parte certamente lo stesso denunciante, che per questo può arricchire il suo racconto con particolari di grande vivacità narrativa, fino a quando motivi di coscienza o risentimenti personali non lo portarono a denunciare a frate Guido il collega concionatore. Denuncia archiviata senza esito, si diceva, che viene a confermarci tuttavia come fossero all’epoca non infrequenti nel ceto dei cambiatori bolognesi, dei professionisti del prestito a interesse, atteggiamenti ed opinioni in cui interagivano: esercizio assiduo e disinvolto dell’usura, sia pure frenata dai limiti fissati dalla legge sta-tutaria e dalla prassi locale; rivendicazione orgogliosa del prestigio sociale derivante dalla ricchezza accumulata col prestito; insofferenza, se non aperta polemica nei confronti della predicazione mendicante e del modello cristiano della povertà volontaria. Posizioni evidentemente, e da secoli, eterodosse rispetto al diritto canonico e all’etica cristiana potevano dunque essere impunemente manifestate in quegli anni a Bologna, venivano accolte nella legislazione cittadina e divenivano anzi, almeno presso certi gruppi professionali, elementi di senso comune. Si dovrà ora tentare di mettere in luce i legami fra questo clima culturale e il ruolo ricoperto, nella società bolognese, dal gruppo professionale dei cambia-tori, con i mercanti e i notai elemento essenzialissimo della struttura politica e amministrativa, ma soprattutto, e questo lo vedremo tra poco, vera anima finanziaria del comune.

30

2. «Chiunque ha denaro da prestare a usura, subito diventa cambiatore...». Usura, prestigio e potere in età comunale. Qualche spunto comparativo

La centralità dei professionisti del cambio monetario e del credito nella vita politica comunale non è una peculiarità bolognese. Certo, la felice posizione geografica della città, situata all’incrocio fra importanti direttrici commerciali, e lo slancio garantito all’economia cittadina dalla presenza studentesca favorirono il successo e la precoce affermazione di quelle attività. Tanto che, secondo una nota sentenza di Roffredo Beneventano, a Bologna chiunque avesse denaro sufficiente da prestare a interesse, subito diventava cambiatore («quicumque habet pecuniam ut possit fenus committere, incontinenter efficitur campsor»)38. Si noterà per inciso come quella frase, spesso citata, come vedremo, a testimoniare le inesauribili opportunità offerte ai cambiatori dal mercato studentesco39, risulti altrettanto interessante, e più ancora nel nostro caso, per l’identificazione assoluta che in essa un osservatore forestiero e di cultura giuridica, presente a Bolo-gna nei primi anni del Duecento, compie fra il prestatore su pegno e l’autorevole banchiere del Cambium, individuando senza incertezze nel fenus la più tipica attività del campsor, un’osservazione, varrà la pena di sottolinearlo ancora, emi-nentemente tecnica e priva di valutazioni etiche. I percorsi di affermazione e gli elementi costitutivi del prestigio e del potere dei cambiatori bolognesi sono l’og-getto specifico delle pagine che seguono, ma una situazione di egemonia dei professionisti del credito, si diceva, non è peculiarità di Bologna. Fra i casi cittadini meglio illuminati da ricerche recenti, emerge in assoluta evidenza quello di Asti, che potrebbe per questo rappresentare un interessante termine di confronto della nostra ricerca40. Più ancora forse di quanto avviene a Bologna, infatti, il gruppo dirigente del comune astigiano è costituito pressoché integralmente

38 Citata in Tamassia (1894, 127). 39 Ad es. in Pini (1988, 102). 40 Bordone (1994); Castellani (1998); Bordone (2004).

31

da mercanti e banchieri, un ceto che deve in gran parte la sua affermazione politica proprio all’esercizio strenuo del prestito usurario e che, cionondimeno, riesce a marcare con estrema nettezza le linee del proprio prestigio e della propria onorabilità sociale. A quell’attività del resto si dedicavano, nella città piemontese, sia le famiglie appartenenti alla più antica aristocrazia consolare, sia quelle provenienti dalla nobiltà rurale, legate al vescovo da rapporti vassallatici, sia infine le famiglie cittadine, affermatesi in genere grazie alle professioni giuridiche41. Ed anzi, per tutte le componenti sociali che partecipano attivamente alla vita politica comu-nale, sia prima che dopo l’allargamento dei consigli cittadini che si registra negli anni Venti del Duecento, l’esercizio fortunato del credito era stato il principale strumento di affermazione pubblica. Diversi nel tracciato, ma convergenti nelle tappe principali, i percorsi recentemente ricostruiti da Luisa Castellani vedono impegnati fianco a fianco, in rapporti concorrenziali e imitativi, casati di antica tradi-zione cittadina ed altri di recente inurbamento: se i primi esercitavano per originaria vocazione familiare i commerci e il credito fra Genova e le fiere di Champagne, i secondi avevano rafforzato con gli strumenti finanziari i loro legami clientelari fra città e contado e stabilito nuovi collegamenti economici con le realtà nordeuropee42. Ma soprattutto, per gli uni e per gli altri il credito era stato non solo fonte di prodigioso arricchimento, ma spesso percorso privilegiato verso la conquista dell’egemonia politica comunale. Un percorso schematizzabile con buona approssimazione in tre tappe fondamentali: a) costruzione di solide basi economi-che attraverso l’attività creditizia esercitata prevalentemente nei banchi delle città fiamminghe o francesi; b) conquista di posizioni di prestigio in patria, all’interno dei consigli e nelle magistrature cittadine; c) acquisizione di beni e diritti signorili nel contado. Non solo la prima fase del processo, ma anche le altre si sviluppavano grazie all’impiego degli strumenti finanziari: i momenti più direttamente politici di

41 Castellani (1998, 15-42). 42 Ibid., pp. 157-160.

32

quell’affermazione passavano anche attraverso i rapporti d’affari. Come mostrano con evidenza i casi analizzati a fondo da Luisa Castellani, relativi alle famiglie Isnardi, Guttuari, Da Solaro, le posizioni conquistate all’interno del consiglio di credenza, i ruoli prestigiosi ricoperti nelle magistrature comunali, nelle ambascerie, nei collegi dei sa-pienti, avevano anch’essi le loro premesse dirette nei crediti concessi al vescovo, al comune, alle grandi famiglie, crediti ripetutamente rinnovati che diventavano così irresistibili mezzi di pressione43. Non solo: la fase finale del processo, che si realizza per gli Isnardi verso gli anni Ottanta del Duecento, per Guttuari e da Solaro qualche decennio pri-ma, e che vede quei gruppi proiettati decisamente verso la conquista di grandi patrimoni fondiari e di diritti signorili nel contado, prende forma anch’essa grazie agli strumenti della speculazione finanziaria; beni e diritti, infatti, passa-no di mano assai spesso in pagamento di debiti insoluti, o comunque vengono acquistati grazie ai proventi dell’attività feneratizia. Al termine del processo, sviluppato attraverso un coerente uso politico degli strumenti creditizi, si delineava dunque la creazione di isole di giurisdizione signorile, che interrompevano la continuità del distretto comunale44. Con-tro queste ambizioni dell’aristocrazia astigiana, si mobilita a partire dagli anni Settanta una reazione delle istituzioni comunali, ispirata politicamente dalle società popolari; la struttura organizzativa del popolo astigiano, tuttavia, era allora troppo recente, le sue basi ideologiche ancora troppo incerte per opporre una resistenza efficace all’espansione magnatizia nel contado, irresistibilmente avviata verso la formazione di enclaves signorili nel territorio comunale. La fragilità denunciata in quella situazione dalla poli-tica antimagnatizia del comune astigiano era motivata in gran parte da un rapporto fin troppo stretto di sudditanza economica nei confronti delle famiglie dei banchieri, molte delle quali, impegnate, si diceva, nella precoce conquista di un dominatus loci, offrivano alle istituzioni repubblicane un

43 Ibid., pp. 54-70. 44 Ibid., pp. 64-65.

33

sostegno totalmente inaffidabile45. Proprio su questo tema vedremo delinearsi, nello scenario bolognese, alcune sugge-stive affinità ma anche numerose e significative differenze rispetto alla vicenda dei banchieri astigiani. A Bologna infatti, sebbene provenissero anch’esse in gran parte dall’antica aristocrazia consolare, e pur utilizzando nei loro percorsi di affermazione più o meno gli stessi strumenti finanziari dei colleghi piemontesi, le famiglie dei cambiatori-banchieri sono fin dal 1228 saldamente schierate sul versante popolare; guidano poi, in stabile alleanza con i mercanti, le società del popolo alle grandi conquiste istituzionali della metà del secolo; orientano, infine, negli anni Settanta le linee della politica e della legislazione antimagnatizia comunale. Le sug-gestioni aristocratiche e le tentazioni signorili che vedremo affiorare qua e là anche fra i banchieri bolognesi, e su cui ci soffermeremo volta per volta, non sembrano mutare un quadro generale, che vede per tutto il Duecento il ceto dei banchieri e dei mercanti, insieme con il gruppo intellettuale dei notai, impegnati costantemente nella difesa e nella guida delle istituzioni comunali.

3. I banchieri bolognesi tra affari e politica: fonti e problemi

La storia del cambio e delle attività creditizie a Bologna, e soprattutto la storia dei rapporti fra credito e potere politico in età comunale, conosce da tempo alcune contraddizioni. La prima e maggiore, cui queste pagine cercheranno in parte di rimediare, vede da un lato una grande abbondanza, varietà e completezza di fonti per la storia economica, in particolare duecentesca, cui corrispondono però rare ricerche specifiche e l’assenza pressoché totale di quadri d’insieme46. Asimmetrie

45 Ibid., pp. 79-91. 46 Per un panorama esauriente delle fonti documentarie del periodo comunale, si deve ricorrere a Guida generale (1981, 567-584). La biblio-grafia più completa sulla storia economica di Bologna medievale è quella proposta nei lavori di A.I. Pini raccolti nei due volumi: Pini (1986) e Pini (1996). Fra le rare sintesi recenti, oltre a queste di A.I. Pini, si possono vedere Giansante (1985-86); Dondarini (2000, 193-224).

34

storiografiche secondarie discendono da questa, primaria, per cui, ad esempio, anche i territori meglio illuminati della storia politica comunale denunciano ampie zone d’ombra, in corrispondenza del versante economico dei rapporti di potere; e d’altra parte, i rari tentativi di sintesi del panorama economico e sociale rinunciano sistematicamente ad appro-fondire le relazioni dinamiche fra il mondo degli affari e la politica47. Limiti comprensibili per una tradizione storiogra-fica antica ed autorevole, e spesso originale, ma condizionata dal rapporto con un patrimonio documentario fin troppo ricco e non facile da padroneggiare. Tentiamone un rapido censimento. Tra le fonti pubbliche utili per la storia economica del Duecento bolognese, gli statuti godono da tempo di meritata fortuna: statuti comunali e statuti corporativi, ma conservati nella camera degli atti del comune; editi integralmente i primi, sia pure non senza gravi problemi redazionali e quindi di consultazione, editi in gran parte i secondi48. E tuttavia la serie degli statuti societari, già oggetto di una delle prime ricerche di Gina Fasoli, e valorizzata negli ultimi cinquant’anni da numerosi lavori di storia economica e sociale, di storia politica ed anche di storia dell’arte, sta per ricevere una nuova e più soddisfacente sistemazione archivistica, che forse nel caso degli statuti dei cambiatori non arricchirà di molto i dati già noti, ma certo contribuirà ad inquadrarli più organicamente nel patrimonio documentario complessivo49. Più articolata la situazione delle matricole societarie, tipologia documentaria cui vanno ricondotte sia le matricole vere e proprie, che le

47 Fra le opere più stimolanti e innovative sul piano della storia politica, si dovrà certamente ricordare Milani (2003). 48 Per la bibliografia sugli statuti comunali bolognesi, si può ora ricorrere al Repertorio degli statuti, citato alla nota 12. Gli statuti delle società popolari sono stati editi a cura di A. Gaudenzi: Statuti delle Società (1888-96). 49 Fasoli (1931). La bibliografia sugli statuti societari bolognesi, dal punto di vista della storia sociale ed economica è citata in Pini (1986, 221-258); dal punto di vista della storia dell’arte, con riferimento alle miniature dei codici statutari, in Medica (1999). Il riordinamento della serie Società d’arti e d’armi è attualmente in corso presso l’Archivio di Stato di Bologna a cura di Rossella Rinaldi.

35

organizzazioni popolari erano tenute a consegnare in copia alla camera degli atti, sia le loro trascrizioni in grossi Libri matricularum realizzate dai notai comunali50. A queste due serie di registri, utili entrambe per conoscere la consistenza numerica e la composizione analitica delle varie società in momenti particolari della storia cittadina, se ne è aggiunta ora un’altra, emersa dal recente riordinamento dell’archivio della Camera actorum: le Denunce delle aggregazioni alle società d’armi e d’arti, meno completa probabilmente rispet-to ai registri ma dotata di uno spessore cronologico che i registri non possono vantare51. Completano il quadro delle fonti comunali utili per la storia economica, ed in particolare per la storia del credito, le tre serie degli Estimi di città e contado, la seconda soprattutto, che raccoglie le Denunce dei cittadini per gli anni 1296-1329. A differenza di statuti e matricole, si tratta in questo caso di fonti valorizzate solo di recente e in modo parziale dalla storiografia bolognese, soprattutto a causa della impegnativa consistenza della do-cumentazione, più di 50.000 le sole denunce dei cittadini, e di alcuni complessi problemi di interpretazione e di me-todo, temi su cui torneremo diffusamente nella terza parte di questa ricerca. Fra le fonti comunali vanno considerati anche i Libri memoriali, che tramandano a partire dal 1265 una mole di atti notarili della cui reale consistenza si fanno a tutt’oggi solo ipotesi approssimative, tale comunque da scoraggiare qualunque ipotesi di approccio seriale, anche se la completezza pressoché assoluta della serie consentirebbe teoricamente una conoscenza analitica di tutti i movimenti patrimoniali, per un valore superiore alle venti lire, in atto sulla piazza bolognese52. Di straordinario interesse anche il panorama degli atti notarili conservati negli archivi privati, che infatti hanno soccorso generosamente questa ricerca, sia quelli appartenenti alle famiglie senatorie bolognesi e ora depositati

50 La bibliografia specifica sulle matricole e i Libri matricularum si citerà nelle prime note del secondo capitolo. 51 Giansante (2006). 52 La bibliografia sui Memoriali del comune è in Tamba (1998, 199-257).

36

presso l’Archivio di Stato, sia quelli che accompagnavano le vicende patrimoniali di conventi e monasteri cittadini e che, dagli archivi ecclesiastici, erano confluiti al momento delle soppressioni napoleoniche nell’archivio Demaniale e da qui, anch’essi, nell’Archivio di Stato di Bologna53.

Condotta quasi integralmente presso l’istituto archivi-stico bolognese, questa ricerca vorrebbe essere anche un piccolo atto di omaggio verso quella ininterrotta e nobile tradizione, che dalla Camera degli atti del comune medievale, all’Archivio pubblico dell’età moderna, all’Archivio di Stato del periodo postunitario, ci ha consegnato un patrimonio documentario, che, per l’epoca comunale, ha pochi riscon-tri nella realtà italiana ed europea54. Anche per questo le prime tre parti del lavoro sono organizzate in modo quasi monografico intorno ad una fonte archivistica. Il primo capitolo, riprendendo alcuni precedenti lavori sulla cultura notarile bolognese, trae spunto dal proemio dello Statuto dei cambiatori del 1245, per illustrare i contenuti ideologici dell’egemonia che, in quei decenni, la Società del Cambio esercitava all’interno delle istituzioni comunali; il commento di quel testo di inusitata ampiezza ed elaborazione retorica, opera del giovane Rolandino Passaggeri, varrà a rendere ra-gione di un’operazione piuttosto raffinata che, mobilitando figure tipiche della teologia politica, mirava a innalzare quel gruppo professionale ed il suo ruolo di rappresentanza della comunità cittadina al di sopra delle dinamiche sociali e dei rapporti di potere. Il secondo capitolo si articola intorno alla Matricola dei cambiatori del 1294 e tenta, a partire da quella fonte, di definire la composizione della categoria professio-nale: i gruppi familiari di appartenenza degli immatricolati al Cambio, la loro provenienza sociale, il loro ruolo nella vita

53 Sugli archivi familiari mancano opere e bibliografie sintetiche; si veda l’elenco di quelli conservati presso l’Archivio di Stato di Bologna in Guida generale (1981, 637-641). Per un sintetico panorama degli archivi conventuali, cfr. Giansante (1995). 54 Sulla storia dell’istituto archivistico bolognese dalle origini al XVIII secolo, cfr. Tura (2006); sulle vicende successive all’istituzione dell’Archivio di Stato di Bologna, cfr. Zanni Rosiello (1995a).

37

politica comunale. È questa la parte in cui si è rivelato più prezioso il contributo di una tradizione storiografica antica e ricchissima, anche se di assai ineguale affidabilità. Il terzo capitolo, partendo da una prima valorizzazione sistematica degli estimi dei banchieri, o meglio delle famiglie di imma-tricolati al Cambio, propone un quadro consapevolmente provvisorio della situazione economica complessiva della categoria: livelli e medie di ricchezza dei diversi nuclei familiari in relazione all’azzonamento territoriale, tradizioni patrimoniali dinastiche, rapporto fra ricchezza mobile e beni fondiari. Il quarto ed ultimo capitolo tenta di applicare ad alcuni percorsi familiari lo studio delle fonti presentate nei primi tre. La scelta dei quattro casi – Pepoli, Gozzadini, Artenisi, Bianchi – vorrebbe risultare il più possibile rappre-sentativa di percorsi di affermazione diversi per provenienza sociale (aristocratica o popolare) e geografica (cittadina o forestiera), nell’ipotesi, da verificare, che le differenti origini indirizzino scelte e finalità nell’agire pubblico delle famiglie dei banchieri. Di fatto la scelta privilegia anche situazioni molto diverse fra loro sul piano della tradizione storiografica e dell’apparato di fonti: dal caso dei Pepoli, documentato da un patrimonio archivistico ricchissimo e ben organizzato, che consente, fra atti pubblici e privati, di seguire analiticamente l’affermazione economica e politica della famiglia, e che infatti è già stato oggetto di ampie ricerche monografiche, a quello dei Gozzadini, che pur vivendo una situazione archivistica più dispersa, possono vantare un cospicuo apparato di fonti e qualche ricerca anche recente; dal caso degli Artenisi-Bec-cadelli, nucleo familiare abbastanza noto nella storiografia bolognese, che pure non ha ricevuto nell’ultimo secolo attenzioni che valorizzassero, ad esempio, gli interessanti estimi di famiglia, a quello, infine, dei Bianchi di Cosa: non del tutto ignoti ai genealogisti secenteschi e al Savioli, i figli di Bianco fanno però, a quanto credo, in queste pagine il loro esordio nella storiografia recente.

39

CAPITOLO PRIMO

L’ETÀ DELL’ORO. LO STATUTO DEI CAMBIATORI DEL 1245

1. Il Cambio nella società e nell’economia bolognesi del Duecento

Iniziare il nostro percorso dallo Statuto dei cambiatori del 1245 sembra a prima vista assai naturale, un punto di partenza quasi obbligato: fra quelli superstiti è non solo il più antico statuto della Società del Cambio, ma uno dei più anti-chi testi statutari bolognesi1. Ed è anche un testo di notevole ricchezza e complessità di contenuti, che viene a coronare un’epoca di grandi conquiste per i banchieri bolognesi, sia sul piano economico che su quello politico. L’immagine che ne emerge è quella di una struttura professionale e organizzativa piuttosto evoluta, perfettamente inserita nella società urbana e al centro di una rete di rapporti economici che la collegano ai principali mercati toscani e romagnoli, alle città venete e lombarde, all’Aquitania, alla Francia e all’Europa centrale, alle città inglesi e agli altri centri da cui giungono numerosi a Bologna gli studenti attratti dal prestigio dell’Università cittadina2. Ma soprattutto ne emerge con forza l’immagine di un gruppo dirigente dalla spiccatissima autocoscienza, che consapevolmente si propone come guida politica per l’intera comunità bolognese. Quel punto di partenza, dunque, è almeno altrettanto ragionevolmente il punto di arrivo di un

1 Sugli statuti comunali bolognesi cfr. il Repertorio degli statuti (1997-99, I, 35-88); per quelli delle società popolari, cfr. Statuti delle società (1888-96, I-II). Oggetto di recenti edizioni sono stati gli statuti dei muratori (Tamba 1981), dei drappieri (Casini 2004-05) e dei falegnami (Erioli 2003-04). Ancora utile il panorama di Fasoli (1931). 2 L’edizione dello statuto dei cambiatori bolognesi del 1245 (d’ora in poi semplicemente Statuto cambiatori) è in Statuti delle Società (1888-96, II, 57-103). Lo studio più approfondito dei suoi contenuti è quello proposto da Pini (1962, 47-65).

40

lungo processo. La ricca tradizione storiografica novecente-sca ha illustrato in modo esauriente le posizioni di forza da cui, verso la metà del XIII secolo, la Società del Cambio di Bologna, grazie al talento retorico del suo giovane segretario, poteva dettare alla città le linee di una complessa e originale ideologia del comune di popolo.

1.1. Economia, potere e dinamiche istituzionali

La preminenza politica di mercanti e cambiatori bolognesi si manifesta con una certa evidenza sul piano istituzionale, nelle dinamiche quotidiane e nei meccanismi della vita consiliare cittadina3. Eppure, finché durò la loro egemonia, diciamo fino agli anni Cinquanta del XIII secolo, questi gruppi professionali si mantennero ben distinti dal resto della Società del Popolo, di cui probabilmente si sentivano guida ma non parte integrante, almeno a giudicare dai for-mulari degli atti consiliari, in cui i magistrati di Mercanzia e Cambio (consules) si affiancano a quelli delle società delle arti e delle armi (ançiani), senza mai mescolarsi ad essi, di-stinguendosi anzi con orgoglio, già a partire dal nome, che consapevolmente recupera la denominazione dei magistrati comunali del periodo aristocratico, a sua volta modellata su quella delle antiche magistrature romane. Distinzione e supremazia universalmente riconosciute, dato che nel Con-siglio degli Anziani e Consoli, vero perno della vita politica bolognese, le percentuali di rappresentanza prevedevano 8 consoli di mercanti e cambiatori e 12 fra anziani delle arti e delle armi4. La procedura legislativa che richiedeva una maggioranza qualificata dei 2/3 all’interno del consiglio finiva per riconoscere ai rappresentanti di mercatura e cambio, in

3 Sulla storia istituzionale del comune bolognese, il punto di riferimento è ancora Hessel (1975). Per la fine del Duecento e l’inizio del Trecento si può ricorrere a Vitale (1901); Palmieri (1933); Fasoli (1933). Fra le opere più recenti, cfr. Pini (1986) e Milani (2003). Utili e sintetici quadri d’insieme vengono proposti da Tamba (1978) e Dondarini (2000). Sui meccanismi della vita consiliare, Tamba (1995; 1996). 4 Fasoli (1935, 276).

41

forza della loro solidarietà interna, una funzione di sostanziale leadership. Questa situazione, che caratterizza le istituzioni comu-nali nella prima metà del secolo XIII, affonda le sue radici nella vita economica cittadina, allora in una fase di notevole espansione. Essendo i più direttamente interessati dalle vicende dell’economia di scambio, mercanti e cambiatori furono quelli che prima degli altri risentirono positivamente dello sviluppo che le attività commerciali ebbero a Bologna, come del resto in tutti i centri situati presso grandi vie di comunicazione, fra XI e XII secolo. Le loro organizzazioni infatti sono fra le prime ad apparire costituite nel corso del XII secolo, e questa precocità consentì loro una certa supre-mazia sulle altre associazioni professionali che andavano via via sorgendo5. A queste considerazioni di carattere generale se ne possono aggiungere alcune di ambito più specificamente locale. A rafforzare l’autorità di mercanti e cambiatori bolo-gnesi venne infatti, alla fine del XII secolo, l’attribuzione del delicatissimo incarico di gestire la zecca comunale, situazione che distingue il caso di Bologna da quello di altri centri italiani, in cui il rapporto fra zecca e Società del Cambio era stato invece di derivazione di questa da quella6. E del resto, la stessa esistenza di una organizzazione degli addetti alle operazioni bancarie, distinta da quella dei mercanti, rappresenta un fenomeno non universalmente diffuso, anche se non rarissimo, nelle città italiane del periodo comunale. Se i banchieri bolognesi potevano vantare, come quelli fio-rentini ma a differenza di quanto accade in altri importanti centri urbani, un’autonoma organizzazione professionale, ciò è da porsi in relazione con il ruolo che, a Bologna come a Firenze, le operazioni di cambio e prestito ricoprivano nella vita cittadina. Mentre però a Firenze l’importanza del Cambio derivava dall’essere la città un fiorentissimo centro di commercio a grande raggio, la situazione bolognese era fortemente caratterizzata dalla presenza dello Studio e quindi di un nutrito nucleo di studenti stranieri. Sulla centralità di

5 Hessel (1975, 148-149); Pini (1962, 30 ss.). 6 Lopez (1949); Pini (1962, 33-34).

42

questo elemento nella vita economica bolognese, sulle sue potenzialità propulsive nei confronti delle attività artigianali, commerciali e creditizie, occorrerà tornare per qualche breve approfondimento. Osserviamo intanto che questa centralità sembra progressivamente attenuarsi nel corso del Duecento, in conseguenza dei duri colpi che le lotte civili e le crisi politi-che ricorrenti, ma anche il sorgere di altri importanti centri di studio superiore, avevano inferto alle fortune dell’Università bolognese. Le attività più direttamente interessate alla pre-senza studentesca ne subirono le inevitabili conseguenze. Il livellamento fra le arti, che fu il risultato della decadenza di mercanti e cambiatori e della contemporanea ascesa di altre società, ebbe ancora una volta evidenti riflessi istituzionali. Mentre infatti fino alla metà del secolo, come si diceva, non poteva verificarsi nel Consiglio degli anziani e consoli una prevalenza dei 12 anziani sugli 8 consoli, essendo richiesta una maggioranza dei 2/3, una riforma del 1256, che portava a 17 il numero degli anziani mantenendo a 8 quello dei consoli, veniva proprio a garantire alle arti minori la necessaria mag-gioranza7. Cresceva intanto in prestigio e potere, all’interno della Società del Popolo, un’altra organizzazione, quella dei notai, che avrebbe realizzato nel ventennio successivo (1260-1280) un nuovo tipo di supremazia, basata sulla centralità politica, amministrativa e culturale di questa categoria nel corpo delle istituzioni comunali. Un ruolo decisivo in questo importante passaggio della storia bolognese venne inter-pretato da Rolandino Passaggeri, che prima di conquistare, come primicerius, posizioni di capo assoluto della Società dei notai e, più occultamente, di guida carismatica in quella «repubblica di notai» che era diventato in quei decenni il comune bolognese, era stato appunto segretario della Società del Cambio e aveva offerto, come vedremo nell’analisi dello statuto, adeguata forma retorica alle ambizioni egemoniche di quel gruppo professionale. Ma prima di entrare nel testo, occorrerà almeno delineare, in brevi ed essenzialissimi tratti, il quadro più propriamente economico in cui si collocava l’attività dei banchieri bolognesi del Duecento.

7 Hessel (1975, 177-180); Fasoli (1935, 277 ss.); Tamba (1978, 12-13).

43

1.2. L’organizzazione del mercato interno

Il mercato bolognese, che nelle sue articolazioni non si distaccava dai modelli contemporanei – fiere periodiche, mercato settimanale, mercato giornaliero –, ebbe però fra XII e XIII secolo uno sviluppo tutto particolare che lo distinse non solo rispetto a quelli delle città emiliane e romagnole, ma anche rispetto a quelli dei grandi centri urbani dell’epoca: Genova, Milano, Venezia, Firenze. I fattori che determina-rono questa peculiarità e che costituirono allo stesso tempo la forza e i limiti del mercato bolognese sono ben noti8. In primo luogo la posizione geografica, caratterizzata fin dal-l’epoca romana dall’incrocio fra vie terrestri e fluviali che univano la Romagna alla Lombardia e la Toscana al Veneto, quindi la presenza dello Studio, che fin dall’inizio del XII secolo ebbe un notevole rilievo demografico ed economico, soprattutto in relazione all’elevata estrazione sociale degli studenti, che da ogni parte d’Europa venivano in città con la loro servitù al seguito. Non si possono dimenticare infi-ne le varie vicende politiche e diplomatiche del Duecento, che videro Bologna coinvolta da protagonista, prima, in un progetto di espansione egemonica verso la Romagna e, assai direttamente, nello scontro fra impero e alleanza guelfa, poi nella complessa questione del recupero delle terre esarcali al dominio della Santa Sede, vicende che ebbero nel bene e nel male ripercussioni decisive sulla vita economica cittadina9. Fra gli elementi propulsivi dello sviluppo economico bolognese, la presenza dello Studio è certamente quello su cui si è maggiormente insistito negli ultimi cinquant’anni da parte degli studiosi10. L’insistenza è ampiamente giustificata, e tuttavia lo sarebbe altrettanto osservare come la presenza dello Studio, fattore trainante per le attività commerciali e creditizie, abbia provocato a Bologna lo sviluppo di un’eco-nomia gonfiata, in cui l’elevata ricettività del mercato stu-dentesco favoriva sì rapide fortune di mercanti e soprattutto

8 Pini (1976, 553-558). 9 Hessel (1975, 81-139); Vasina (1965, 33-119). 10 Tematiche riassunte e sviluppate da Pini (1988).

44

banchieri, ma lo stesso fattore demografico, legato com’era ad elementi per natura instabili, come le vicende politiche ed accademiche, finiva per rappresentare un limite invali-cabile, oltre che una pesante ipoteca, per una vera crescita economica della città. L’organizzazione del commercio a Bologna si può assimi-lare, si diceva, a quella diffusa un po’ dovunque in Europa ed articolata in mercato giornaliero, mercato settimanale, fiere periodiche. Il mercato quotidiano, che aveva luogo nei pressi della via detta appunto Mercato di Mezzo, attuale via Rizzoli, era la sede principale del commercio alimentare11. Vi si trovavano in vendita le derrate provenienti dal contado, nonché alcuni prodotti dell’artigianato cittadino12. Al mercato settimanale, che si teneva il sabato ed era, come fino a non molti anni fa, meta degli abitanti del contado, erano posti in vendita attrezzi agricoli, animali vivi, sementi, ma anche articoli di abbigliamento e calzature. Molto frequentate al-l’inizio del secolo XIII, specie da mercanti fiorentini, erano le due fiere annuali che si tenevano a Bologna: la prima si svolgeva all’inizio di maggio presso la chiesa di San Proco-lo; la seconda, fiera del Reno, si teneva nella seconda metà d’agosto nei pressi dell’antico porto sul Reno, dove il fiume incrociava la via Emilia. La costruzione del Naviglio, nei primi anni del XIII secolo, ed il conseguente spostamento del porto principale di Bologna poco a nord della città, rese però inattuali le due dislocazioni. Verso il 1220 entrambe le fiere, insieme con il mercato settimanale, vennero quindi spostate nella nuova piazza del mercato, che nel frattempo il comune andava allestendo fra il borgo di Galliera ed il corso dell’Aposa, corrispondente all’attuale piazza dell’Otto Agosto13.

11 L’aspetto attuale di questa zona del centro storico di Bologna è, come noto, il risultato di alcuni interventi di ristrutturazione selvaggia, compiuti fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo; sull’originaria struttura urbana della zona, cfr. Bergonzoni (1980, 113 ss.); Ricci (1980, 137 ss.); Fanti (2000, pp. 607-609). 12 Dal Pane (1957, 149). 13 Pini (1976, 536).

45

1.3. Commercio tessile, commercio alimentare, attività edi-toriali

In questo scenario composito si svolgevano attività commerciali dai caratteri assai diversi. Il commercio tessile bolognese, ad esempio, fu essenzialmente «di transito» per quasi tutto il Duecento. Qui convergevano manufatti pro-venienti da Firenze e da Milano, ma anche dalla Francia e dall’Inghilterra, e di qui venivano ridistribuiti verso l’Emilia settentrionale, Venezia, la Marca Anconetana e, soprattutto, la Romagna14. L’industria tessile bolognese era, all’epoca, di impianto recente, non in grado comunque di soddisfare le richieste del mercato locale, soprattutto in termini di qua-lità dei prodotti. La felice posizione geografica però faceva della città un ideale centro di smistamento, di cui si avvan-taggiavano i mercanti bolognesi, che ben presto intuirono l’importanza di gestire direttamente il transito delle merci e rivendicarono alla propria organizzazione il ruolo della distribuzione dei manufatti. Vennero quindi proibite a Bo-logna le contrattazioni dirette fra i mercanti forestieri che in gran numero confluivano in città. Di conseguenza i mercanti toscani, fiorentini e pistoiesi in primo luogo, che venivano a vendere grosse partite di panni e possedevano a Bologna fondaci e botteghe, e quelli romagnoli, forlivesi e imolesi soprattutto, che venivano ad acquistarli, furono costretti a servirsi di intermediari bolognesi. Questi ultimi, monopoliz-zando il transito dei prodotti tessili, realizzarono cospicue fortune con un impegno relativamente modesto, che ben si conciliava con attività secondarie, in primo luogo il prestito a interesse. Il caso del gruppo commerciale e creditizio dei Bianchi di Cosa, che esaminerò nell’ultima parte del lavoro, costituisce un esempio interessante di queste dinamiche. Una delle caratteristiche principali del mercato bolo-gnese era l’estrema varietà e ricchezza dei generi in vendita, riflesso naturale dell’elevata estrazione sociale e della varietà della clientela studentesca, che proveniva da diverse regioni europee e portava con sé le più varie abitudini ed esigenze

14 Dal Pane (1957, 126 ss.); Cuomo (1977, 341-342).

46

di vita. Nel campo alimentare, non meno che in quello dell’abbigliamento, che vedeva giungere per la clientela studentesca preziose stoffe dall’Inghilterra e dalla Francia, questi bisogni erano estremamente raffinati e dispendiosi e contribuivano a diffondere a Bologna quella consuetudine all’opulenza gastronomica, divenuta poi elemento costituti-vo dell’immagine della città. Non solo l’opulenza, peraltro, ma anche una vocazione originaria felicemente cosmopolita ed aperta alle contaminazioni culturali, come ricordava di recente Massimo Montanari, caratterizza da quest’epoca e per queste ragioni la tradizione più nobile della gastrono-mia bolognese15. Punti di forza di questa tradizione erano insaccati e selvaggina, imbandita sulle mense di lusso con un’abbondanza tale da richiedere interventi legislativi mode-ratori16; diverse, naturalmente, le abitudini alimentari della maggioranza della popolazione, in cui dominavano cereali, legumi e pesci delle valli. Dall’importanza del pesce nel com-mercio alimentare bolognese dell’epoca derivava il ruolo di grande privilegio di cui godevano i piscatores (pescivendoli), che, come i beccai e i salaroli (venditori di insaccati e carni salate), si distinguevano dagli altri artigiani e commercianti del settore per il fatto di essere riuniti in società d’arti, facoltà interdetta, questa di organizzarsi autonomamente, a fornai, mugnai, erbivendoli, vinai e trasportatori di vino e a tutti gli altri operatori alimentari, sui quali invece le autorità comunali esercitavano un controllo diretto17. Rigidamente controllate, ma dai rettori degli scolari, erano anche tutte le attività connesse al ciclo produttivo dei codici universitari18. Appannaggio quasi esclusivo degli scriptoria monastici fino al XII secolo, la produzione di codici ebbe un rapido sviluppo in seguito ai successi dello Studio bolo-gnese, subendo parallelamente una progressiva laicizzazione, cosicché nel XIII secolo gli scriptores attivi a Bologna erano

15 Montanari (2004a, 9-11). 16 Campanini (2003; 2006). 17 Pini (1976, 275 ss.). 18 Sul sistema di produzione dei codici universitari, cfr. Destrez (1935); Battelli (1953); Fink Errera (1983).

47

in massima parte laici alle dipendenze dei rettori delle uni-versitates. Il sistema di copiatura si basava infatti sul noleggio di copie ufficiali dei libri di testo, controllate direttamente dai rettori, così come le fasi successive del processo, allo scopo di garantire la qualità dei manoscritti prodotti e la loro fedeltà al testo originale. Presso gli stationarii librorum, che detenevano nelle loro botteghe una o più copie dei testi adottati dai maestri dello Studio e per ognuna pagavano ai rettori una cauzione, gli studenti potevano noleggiare il te-sto che intendevano procurarsi, procedendo personalmente alla copiatura. Più spesso però affidavano l’operazione ad uno stationarius peciarum, che provvedeva a distribuire le peciae, unità di copiatura rappresentate da fascicoli, fra i vari copisti, che le trascrivevano materialmente. Lo stesso stationarius peciarum ritirava quindi i fascicoli, retribuendo a cottimo i copisti: da due a quattro denari per un foglio, che, scritto in recto e verso nel formato standard previsto, poteva richiedere uno o due giorni di lavoro. In un tempo relativamente breve, dunque, riunite le peciae, la nuova co-pia era pronta per lo studente, che provvedeva a restituire l’originale allo stazionario dal quale l’aveva noleggiato. Con questa organizzazione del lavoro vennero prodotti a Bolo-gna codici prevalentemente giuridici non sempre di elevata qualità, ma in numero tale da rappresentare in paleografia un tipo grafico, la littera Bononiensis appunto, esemplari del quale si trovano in quasi tutte le maggiori biblioteche europee19. I libri di studio infatti accompagnavano spesso il nuovo dottore nel suo ritorno ai luoghi di origine, anche se il trasporto materiale di una merce così preziosa, e in genere ingombrante, veniva effettuato per lo più dalle compagnie commerciali attive a Bologna e ramificate nelle principali città europee, per le quali proprio questo era uno dei servizi accessori svolti più frequentemente20.

19 Pagnin (1934); Orlandelli (1956-57); Orlandelli (1959, 33-34). 20 Se ne trovano infatti numerosissime testimonianze nei Memoriali del Comune, su cui, a puro titolo di esempio, cfr. Chartularium (1987).

48

1.4. Vie di comunicazione stradali e fluviali

Fra XII e XIII secolo il comune bolognese svolse, o meglio fece svolgere dai comitatini, un’intensa attività di manutenzione e miglioramento di quella rete viaria che aveva rappresentato, fin dall’epoca romana, uno degli elementi principali dello sviluppo della città. E fin dall’epoca romana gli assi di questa rete erano gli stessi21. In primo luogo la via Emilia e la San Vitale22, che collegavano Bologna alla Roma-gna; quindi le strade verso la Toscana: quella che risalendo la valle del Reno puntava su Pistoia, quella che attraverso la valle del Savena e toccando Pianoro, Loiano, Scaricalasino, raggiungeva il valico e scendeva poi verso Firenze, ed un altro percorso, che fin da epoche remotissime si diramava dalla valle del Reno e, risalita quella del Setta, puntava su Prato; infine le strade verso Ferrara: quella che toccava Corticella, Galliera, Poggio Renatico, e quella per S. Giovanni e Cre-valcore. Per garantire una buona viabilità a queste arterie era indispensabile per il comune disporre del controllo dei ponti, in particolare quelli sull’Idice e sul Reno. Alla metà del XIII secolo, infatti, le autorità comunali si impegnano nella conquista di questi diritti di transito, essenziali per le comunicazioni verso la Romagna e verso Modena, che per antiche consuetudini e regalie appartenevano ad enti eccle-siastici. Ma più importanti ancora delle strade erano, per il traf-fico delle merci, le vie d’acqua23. Fin dall’antichità Bologna aveva avuto una via di comunicazione verso l’Adriatico nel canale che, dal porto di Galliera, conduceva al Po di Prima-ro; il libero transito su quest’ultimo, tuttavia, fu oggetto di durissime contese, prima con Ferrara poi con Venezia. Già dall’alto Medioevo aveva acquistato importanza il porto sul Reno, situato al punto di incontro fra il fiume e la via Emilia, che dall’inizio del X secolo apparteneva al vescovo e presso

21 Palmieri (1918); Greci (1982). 22 Sulla via S. Vitale, alcune considerazioni in Pini (1999a, 91-93). 23 Frescura Nepoti (1975, 167-171); Rosa (1974-75); Ferrari (1983); Pini (1993, 24-30); un recente quadro d’insieme in Zanotti (2000, 19-82).

49

il quale si svolse fino al 1219 la fiera d’agosto. Entrambe le vie fluviali, quella del Reno e quella del Po, furono oggetto fra XII e XIII secolo di una intensa attività di perfeziona-mento da parte delle autorità comunali: verso la fine del XII secolo, con la costruzione di una chiusa a Casalecchio e lo scavo di un canale, le acque del Reno vennero condotte fino in città e incanalate nel vecchio alveo dell’Aposa, con un corso, a quanto pare, lievemente diverso da quello attuale. Le incerte condizioni idriche del Reno consigliarono, di lì a poco, il potenziamento delle comunicazioni con il Po. Nel 1208 venne avviato, e in pochi anni condotto a termine, lo scavo del Navile, che conduceva le acque del canale di Reno a Maccagnano, poco fuori porta Lame, e di qui raggiungeva Corticella; quindi utilizzando un preesistente canale e toc-cando Altedo e Pegola sfociava nelle valli. Il nuovo canale, che nel suo ultimo tratto scorreva in territorio ferrarese, favorì un intenso traffico commercia-le fra Bologna e Ferrara, che infatti nel 1269 provvidero a stabilire congiuntamente tariffe doganali e tributi per il trasporto fluviale di merci e persone. Intanto il nuovo porto di Maccagnano andava sostituendosi per importanza al vecchio e più lontano scalo di Galliera, avviato ormai a perdere il proprio ruolo economico e strategico. Lavori per migliorare la navigabilità del Navile vennero condotti per tutto il Duecento, finché l’allargamento del canale permise, nella seconda metà del secolo, di portare la navigazione fin dentro l’ultima cerchia delle mura cittadine24.

1.5. I mercanti bolognesi e il commercio internazionale

Questo intenso fervore di iniziative era ispirato in gran parte dalla potente Società dei mercanti. Oltre alle opere pub-bliche appena descritte, un grande impegno veniva profuso dalle autorità comunali nel campo politico e diplomatico: il risultato fu la conclusione di numerosi trattati commerciali con Venezia, Ferrara, Firenze, i cui punti centrali erano i

24 Frescura Nepoti (1975, 168-169).

50

dazi e la regolamentazione delle rappresaglie25. La grandis-sima diffusione del diritto per i creditori di rifarsi di un debito insoluto sui concittadini del debitore, rappresentava infatti un grave ostacolo alla prosperità dei commerci. Per risolvere questo problema e sotto l’influsso della scuola giu-ridica bolognese, si impose il principio del «a cui dato, da colui richiesto», sancito da numerosi trattati bilaterali. Ove tuttavia non fosse esistito un patto fra due città, a vietarle reciprocamente, le rappresaglie si mantenevano valide come principio generale. Quanto ai dazi, si intervenne regolamen-tando con Ferrara la questione del traffico commerciale sul Po, fino all’eliminazione nel 1240, dopo lunghissimi conflitti, del passagium. Analoghi trattati per eliminare dazi stradali, Bologna concluse in quei decenni con Firenze e Pistoia e, sulla via Emilia, con Modena e Reggio. Da questi interventi traeva i maggiori profitti la Società dei mercanti, che fra XII e XIII secolo viveva la sua stagione migliore: mercanti bolognesi sono impegnati in questo periodo nella riscossione delle decime papali, ed è testimoniata la loro attiva presen-za alle fiere di Champagne, oltre che nelle principali fiere dell’Italia centrale e meridionale26. Parallelamente però alla crescita del mercato interno, dovuta all’aumento della presenza studentesca, i mercanti bolognesi sembrano restringere progressivamente il proprio raggio d’azione, tanto che nel Duecento inoltrato risultano frequentare solo le fiere di Ferrara, Mantova, Ravenna, Rimini e, per l’approvvigionamento del grano, quelle della Marca Anconetana e della Puglia. Questa trasformazione strutturale condizionò pesantemente l’economia bolognese, dato che le posizioni perdute sui mercati stranieri a vantaggio di mercanti toscani e lombardi non vennero più recuperate, dopo il raffreddamento del mercato interno. Abbandonato il grande commercio, l’unica attività che i mercanti bolognesi

25 Sui trattati commerciali con Venezia, cfr. Franchini (1931); su quelli con Firenze, Arias (1901, 147-151). Sulla politica del comune bolognese in materia di dazi e di imposte sul commercio interno, Frescura Nepoti (1980-81); Greci (1978). 26 Dal Pane (1957, 115-117).

51

affiancarono al commercio locale fu il prestito a interesse, che, come vedremo, ebbe per la sua capillare diffusione un rilievo sociale notevolissimo.

1.6. Moneta, cambio e attività creditizie

Fino alla coniazione della moneta locale, il bolognino, avvenuta per privilegio di Enrico VI nel 1191, ma in parte anche dopo, ebbero corso a Bologna monete veneziane, ve-ronesi, lucchesi, oltre che imperiali provenienti dalla zecca pavese27. Al predominio della moneta veneziana, durato fino a tutto il secolo XI, subentrò quello della zecca veronese, ed infine, verso la metà del XII secolo, si impose sul mercato bolognese il denaro di Lucca. Situazione sancita anche da un trattato commerciale fra i due comuni, in base al quale dal 1180 i bolognesi si impegnavano ad usare solo moneta lucchese. In realtà i termini di questa convenzione non tro-varono rigorosa applicazione, dato che anche dopo la conia-zione del bolognino si trovano testimoniate in circolazione a Bologna monete veronesi e imperiali. E del resto monete che da tanto tempo circolavano con successo sul mercato non potevano essere d’un tratto scalzate dal nuovo denaro bolognese, che pure si andava affermando rapidamente sull’onda delle fortune politiche ed economiche della città. Per lungo tempo le diverse monete convissero sul mercato, rappresentando uno dei motivi non ultimi delle fortune dei cambiatori bolognesi. Il bolognino (bononinus), coniato per la prima volta nel maggio 1191, era una moneta di lega d’argento del peso di g 0,56 e del valore pari a 1/3 dell’imperiale. A questo sistema monetario aderì nel 1206 anche Ferrara e successivamente Parma (1209), Reggio (1233) e Modena (1242). Per la bontà del suo titolo, sostenuta anche dai successi politici della città,

27 Pini (1962, 24-25). Sulla coniazione e la circolazione monetaria e sulle attività creditizie a Bologna nel medioevo: Salvioni (1894; 1961); Malaguzzi Valeri (1979); Borlandi (1970); Maragi (1981); Bellocchi (1987, 9-22).

52

la moneta bolognese si impose sui mercati romagnoli e fu oggetto di imitazione da parte di zecche lombarde, piemontesi e marchigiane, nonché di ripetuti tentativi di contraffazio-ne. Una nuova coniazione del bolognino avvenne nel 1216, mentre nel 1236 fu coniato anche il soldo, pari a 12 denari (bolognini). Un fallimento si rivelò invece la lira, pari a 20 soldi, coniata nel 1264 per contrastare il passo al fiorino; subito ritirata dalla circolazione, la lira rimase unicamente come moneta di conto, pari a 20 soldi e quindi a 240 denari. Varie vicende aveva intanto attraversato la zecca bolognese, che, affidata fin dalla prima coniazione del bolognino alla gestione di mercanti e cambiatori, fu rivendicata nel 1260, in seguito a ripetuti episodi di falsificazione, al controllo diretto del podestà, per essere poi restituita nel 1289 all’autorità di Mercanzia e Cambio. La presenza di mercanti di varia provenienza e quindi di monete diverse per conio, lega e peso rendeva indispen-sabile nelle fiere l’attività del cambio manuale, anche se, allora come oggi, la maggior parte delle contrattazioni non prevedeva circolazione di denaro liquido ma complesse operazioni creditizie e compensazioni fra debiti e crediti, contratti anche su piazze diverse. All’una e all’altra attività, quella del cambio spicciolo e quella bancaria, provvedevano i campsores, il cui sviluppo era quindi legato all’andamento e alle fortune delle fiere periodiche. In quei grandi centri che, come Firenze, Genova, Venezia e, in certa misura, an-che Bologna, divennero una sorta di mercato permanente, l’attività dei cambiatori acquistò una maggiore qualificazione professionale ed una certa stabilità organizzativa. Questo non significa che in tutti i centri di maggior sviluppo commerciale i cambiatori riuscissero ad organizzarsi autonomamente. Al contrario: l’importanza stessa delle loro prestazioni profes-sionali, e soprattutto il rilievo che ebbe l’attività bancaria esercitata come seconda professione dai mercanti, fecero sì che in quasi tutte le maggiori città i campsores si trovassero iscritti all’arte dei mercanti, o comunque sottoposti alla sua autorità28. A Bologna invece, e così anche a Firenze, Perugia

28 Pini (1962, 43-44).

53

e Prato, i cambiatori hanno, almeno dalla fine del XII secolo in poi, una loro società, che è probabilmente il risultato di un distacco dall’arte dei mercanti, cui peraltro la Società del Cambio rimarrà sempre legata da rapporti professionali e da vincoli di solidarietà sociale e politica. A Bologna, come si accennava, l’importanza del ruolo svolto dai cambiatori nella vita economica cittadina traeva origine dalla presenza della popolazione studentesca. La coesistenza in città di circa duemila persone provenienti da paesi diversi comportava infatti, da un lato, la presenza sul mercato di varie monete, e quindi l’incremento dell’attività del cambio, dall’altro, e soprattutto, lo sviluppo di tutte le operazioni connesse alla trasmissione del denaro e al pre-stito a interesse. Mantenere un giovane agli studi a Bologna richiedeva, fra vitto, alloggio, libri e tasse, una cifra, si è calcolato, non molto lontana dalle 150 lire di bolognini per ognuno dei cinque, sei o più anni richiesti per raggiungere la laurea29. La maggior parte del denaro necessario ad af-frontare queste spese veniva appunto trasmesso dai banchieri attivi sulla piazza bolognese, tramite le loro filiali all’estero30. Inoltre, come ci documenta una ricca tradizione dettatoria, gli studenti, che spesso esaurivano in breve tempo le loro risorse, erano soliti ricorrere al prestito a interesse, esercitato sia dai cambiatori, sia dagli stessi maestri dello Studio, sia da una affollata costellazione di usurai non professionali31. Questo mercato finanziario riguardava perlopiù cifre non ingentissime, generalmente ottenute su pegno di manoscritti e a scadenze medio-brevi, da uno a sei mesi. Tuttavia la note-vole diffusione del fenomeno rendeva il mercato studentesco oggetto di serrata concorrenza fra i banchieri locali e quelli che in gran numero erano giunti ad aprire filiali sulla piazza di Bologna, da Firenze, Pistoia ed altre città toscane32.

29 Dal Pane (1957, 103-104). 30 Il problema è stato studiato a fondo solo per quanto riguarda gli studenti svizzeri, su cui cfr. Stelling-Michaud (1955). 31 Sulle lettere degli studenti per chiedere alle famiglie invii di denaro, un vero e proprio «genere epistolare» dell’epoca, cfr. Boncompagno da Signa (1968). 32 Sui pistoiesi in particolare, cfr. Zaccagnini (1920).

54

Un ruolo non disinteressato in questa concorrenza fra banchieri locali e stranieri fu quello giocato dal comune bolognese. Come le altre società di mestiere anche quella del cambio tentò a Bologna la conquista del monopolio nel proprio settore. Le tappe di questo tentativo sono per i cambiatori le stesse che per le altre società: ad una prima fase in cui l’arte ha tutti i caratteri dell’unione volontaria per fini professionali e assistenziali, segue un momento in cui l’iscrizione alla società da parte degli addetti al settore viene incoraggiata in due modi: rendendo gratuita ed ob-bligatoria l’iscrizione dei figli dei soci, che verosimilmente avrebbero un giorno esercitato la stessa professione pater-na, e scoraggiando i rapporti professionali fra cambiatori associati e cambiatori indipendenti, col risultato di isolare questi ultimi; terza ed ultima fase del processo è quella che vede il tentativo, da parte del Cambio, di imporre sul piano legislativo il principio che riserva l’esercizio delle attività bancarie ai cambiatori associati. Comune, si diceva, a tutte le società artigiane pienamente riconosciute, questo tentativo si scontrò nel campo creditizio con altri, maggiori interessi: quello della popolazione studentesca, con i suoi riflessi sulla vita economica cittadina; quello del potere politico comunale, con le sue continue necessità di finanziamento. L’importanza del mercato bolognese, infatti, di quello studen-tesco in particolare, attirava irresistibilmente l’attenzione di numerose compagnie toscane in espansione: fra i fiorentini avevano filiali a Bologna i Bardi, gli Alberti del Giudice e i Cerchi; fra i pistoiesi i Chiarenti e gli Ammannati33. Contro la loro intraprendenza i banchieri locali associati tentarono invano di attuare misure protezionistiche, come il divieto per i cambiatori forestieri di trattare direttamente fra loro e quello di esercitare il prestito nell’ambito dei banchi del Cambio, situati nei pressi di Porta Ravegnana. In realtà, nel corso del Duecento le compagnie toscane vanno sempre più imponendosi sulla piazza bolognese, offrendo agli studenti mutui più vantaggiosi rispetto ai banchieri locali. Esse ot-tengono inoltre, contro la volontà del Cambio, importanti

33 Sapori (1955, 717, 731-736); Zaccagnini (1920, 10).

55

privilegi dalle autorità comunali, cui non potevano sfuggire i vantaggi che il mercato cittadino, e le finanze pubbliche in particolare, potevano trarre dalla concorrenza fra aziende creditizie locali e forestiere. Questa tendenza assumeva un significato particolare nei periodi di guerra, quando le uscite finanziarie per spese belliche e annonarie aumentavano in modo vertiginoso. In occasione, ad esempio, della guerra con Ferrara degli anni 1296-1299, il comune di Bologna impose un prestito di 1.000 lire di bolognini a tutti i banchieri forestieri attivi in città; d’altra parte, per evitare l’abbandono della piazza da parte delle compagnie colpite dal provvedimento, fece loro speciali concessioni, a danno dei banchieri locali, condizionate unicamente alla loro provata fedeltà alla parte guelfa34. L’importanza del credito nella vita cittadina favorì anche rilevanti innovazioni nel campo del diritto e dell’etica eco-nomica. Sotto l’influsso dello Studio giuridico, e di fronte ad una prassi dilagante e inarrestabile, si svilupparono quei principi di antica tradizione civilistica che prevedevano una legittima remunerazione per il lucro cessante, il danno emergente, il rischio di perdita del capitale e le spese di gestione connesse alle operazioni di mutuo35. Il divieto di applicare un interesse ai prestiti in denaro subì quindi, in campo civile, progressive attenuazioni, tanto che, come si è accennato, gli statuti comunali bolognesi della metà del Duecento riconobbero apertamente come legittimo un inte-resse annuo del 20%36. Peraltro interessi anche notevolmente superiori, del 30 e del 40% annuo, sono, come vedremo, testimoniati nella documentazione dell’epoca, e non sembrano inconciliabili con l’onore e la buona reputazione pubblica di chi li praticava. In quegli stessi anni tuttavia, la legislazione ecclesiastica confermava, anche a livello locale, la condanna dell’usura, ed anzi inaspriva le relative sanzioni, disciplinan-do scrupolosamente, attraverso i sinodi diocesani, la prassi delle restituzioni dei guadagni illeciti. Per quelle colpe, se

34 Dal Pane (1957, 110); Micheletti (1979-80, 47 ss.). 35 Alcune osservazioni interessanti in Maragi (1981, 226-228). 36 Statuti del comune (1869-77, anno 1250, II, 202).

56

non provvedevano ad espiarle in vita, o almeno a destinare post mortem congrue cifre in favore dei poveri, prestigiosi maestri dello Studio potevano ancora vedersi negata la se-poltura cristiana37.

2. Lo Statuto dei cambiatori e l’ideologia del comune di popolo

Dalle posizioni di forza economica e prestigio sociale costruite nel XII e nei primi decenni del XIII secolo, mer-canti e cambiatori si candidavano autorevolmente alla guida del Popolo bolognese e degli organi di rappresentanza che si andavano allora costituendo. Ed anzi, abbandonando, alla fine degli anni Venti del Duecento, l’antica alleanza col ceto aristocratico ed entrando a pieno titolo, sia pure con i tratti distintivi cui si accennava, nella Societas Populi, Mercanzia e Cambio aprivano una fase nuova della storia bolognese, avviavano un movimento politico e istituzionale che avrebbe condotto anche a Bologna dal comune podestarile al comune popolare, culminando, sotto la guida dei notai, nella legisla-zione antimagnatizia del 1282-1284. Ma alle soglie della metà del secolo, i centri di potere più influenti e autorevoli nella vita politica bolognese erano saldamente controllati dalle élites economiche e finanziarie del Popolo. Per affrontare questi ruoli di ampia egemonia, l’Arte del Cambio aveva deciso di dotarsi di adeguati strumenti giuridici, attraverso una nuova, organica legislazione interna, che veniva a riordinare completamente, nel 1245, una materia normativa continua-mente aggiornata, con interventi recentissimi, gli ultimi del 1240, ma inevitabilmente disorganici. Una commissione di quattro autorevoli cambiatori, eletti dal corporale dell’arte, si sarebbe fatta garante della congruità dei nuovi statuti, della loro rispondenza a tutte le numerose e rinnovate esigenze dell’arte, della loro chiarezza e coerenza espositiva. Compon-gono la commissione Petrizolo Bonaguida, Guido Zamboni,

37 Maragi (1981, 229).

57

Lambertino di Baldovino e Giovanni Pepoli. Al notaio della società, Rolandino di Rodolfino Passaggeri, incombeva in-vece il compito di dare dignità espressiva alla legislazione, premettendovi in un prologo, secondo la consuetudine che si andava allora imponendo, un breve inquadramento giuridico e filosofico38. La profondità dell’autocoscienza professionale e sociale raggiunta in quegli anni dai cambiatori bolognesi, unita alla creatività politica e ideologica del loro giovane notaio-segretario, proiettò quel proemio, come vedremo subito, ampiamente al di là dei limiti consueti per questo genere di testi.

2.1. «Machina mundi». I notai, il Comune e l’Impero

Potrebbe apparire sorprendente, ad esempio, trovare impegnato in un ruolo così delicato, nel cuore della più potente fra le società popolari, un notaio piuttosto giovane come Rolandino, all’epoca forse trentenne, figlio per giunta di un modesto doganiere; inoltre, per chi non abbia dimesti-chezza con i documenti del comune bolognese, potrebbero risultare a prima vista sproporzionate alla destinazione te-stuale, il proemio di uno statuto corporativo, le enunciazioni ideologiche che leggeremo tra breve; ed infine, questione che riassume le precedenti, ci si potrebbe stupire che nella culla del pensiero giuridico medievale, una riflessione che si dimostrerà così profonda, sulle origini e le finalità del potere politico, sia affidata alla penna di un notaio e non a quella di un dottore dello Studio39. Partiamo dall’ultimo tema: giuristi e notai di fronte alle istituzioni comunali. La contiguità cronologica fra l’evo-luzione del movimento comunale bolognese e l’affermarsi della nuova scuola giuridica, più precisamente fra la fase del consolidamento dell’istituto podestarile e delle prime legislazioni comunali e il manifestarsi di una articolata e

38 Statuto cambiatori, p. 59. 39 Tutte queste tematiche sono riassunte in Giansante (1998, 1-49). Su Rolandino cfr. ora anche Tamba (2002b).

58

sistematica riflessione dottrinale sui testi giustinianei, ha portato gli storici del diritto più sensibili a queste temati-che a ricercare, appunto, fra le pieghe delle glosse al corpus iuris civilis l’esprimersi di un processo di consolidamento ideologico delle istituzioni comunali. I risultati deludenti di questa ricerca, condotta peraltro con strumenti esegetici raffinatissimi, testimoniano la sostanziale indifferenza della cultura giuridica bolognese alle istanze più profonde del movimento comunale, o forse, meglio, una strutturale alterità fra due sfere culturali contigue40. Certo è possibile graduare nei giuristi, come fece Pietro Costa attraverso una silloge che va da Pillio ad Odofredo, un’evoluzione di atteggiamenti, dall’originaria ripugnanza verso istituti qualificati semplice-mente come abusivi, in quanto estranei alla gerarchia del potere imperiale, al loro finale accoglimento nelle strutture della validità, lungo un percorso che sconta alcuni inevita-bili e goffi anacronismi41. Un’evoluzione che sfocerà nella significativa presenza di esponenti della scuola giuridica nelle commissioni statutarie comunali della seconda metà del Duecento. Ma quegli stessi anacronismi lessicali, che stabilivano improbabili continuità fra istituti tardo-imperiali e organi della costituzione comunale, finivano per dimostra-re limpidamente come, nel suo percorso di avvicinamento alla nuova realtà politica, la cultura giuridica fosse perlopiù incapace di rinunciare ai propri schemi simbolici: leggendo attraverso le lenti della validità, cioè quelle del corpus iuris civilis, il processo di potere comunale, osservava Costa, l’intellettuale giurista si condannava ad ignorare totalmente la novità e l’autonomia di quel fenomeno. Il ruolo di laboratorio ideologico del comune nel corso del Duecento, cui la scuola giuridica era inadeguata per voca-zione, fu quindi svolto quasi integralmente dal ceto notarile. La centralità politica e culturale dei notai nella vita pubblica delle città comunali, e di Bologna in particolare, è un tema di ampio respiro, che esula totalmente dai limiti di questa

40 Giansante (1998, 5-6), con i necessari riferimenti alla bibliografia precedente. 41 Costa (1969, 211 ss.).

59

ricerca42. Per i nostri scopi basterà accennare brevemente alle fonti, cioè al repertorio simbolico cui i notai attingevano, e agli spazi testuali in cui dispiegavano il loro talento ideologico. Nel periodo in cui Rolandino Passaggeri e, dopo di lui, alcuni suoi allievi e colleghi di genio, avviavano l’elaborazione di un’ideologia comunale, escogitando meccanismi di connes-sione fra le strutture del potere effettivo ed un sistema di simboli autoritativi, Bologna era militarmente impegnata con le altre città della seconda lega lombarda contro i tentativi egemonici di Federico II e dei suoi eredi. Questo clima po-litico indirizzava gli ideologi del comune verso un repertorio di simboli alternativo rispetto al corpus iuris, sistema su cui posava in gran parte la validità del potere imperiale43. Dei due versanti, retorico-grammaticale e giuridico, in cui si ar-ticolava la loro formazione culturale e professionale, i notai erano così portati a valorizzare, in quella specifica attività, soprattutto il primo, attingendo alla grande tradizione della scuola dettatoria bolognese44. Gli apparati proemiali messi in campo ad inquadrare retoricamente statuti ed atti legislativi, e a definirne l’interpretazione ideologica da divulgare, sono intessuti quindi di frequentissime citazioni bibliche e di fonti patristiche, con significative, anche se piuttosto rare, presenze di poeti della tradizione classica: Ovidio, Orazio, Virgilio. Fra le eredità filosofiche, è di grande interesse l’incidenza di miti cosmogonici di derivazione platonica, proprio nel testo che esamineremo tra poco, ed in altri la presenza di dottrine angelologiche neoplatoniche. Assenze di rilievo sono rappresentate dalla Politica di Aristotele e dalle opere di Cicerone: se la prima conferma in pratica le attuali conoscenze sulla cronologia della divulgazione dell’Aristotele politico, la seconda genera una certa sorpresa, considerando i contemporanei sviluppi delle opere retoriche di Brunetto Latini e, soprattutto, il ruolo della tradizione ciceroniana nei trattati di Guido Fava, che certamente non potevano

42 Basterà rinviare in proposito ai contributi di Tamba (1998). 43 L’evoluzione dei rapporti fra cultura giuridica e istituzioni comunali bolognesi viene efficacemente delineata in Pini (1990). 44 Giansante (1998, 11-15).

60

mancare nella biblioteca di Rolandino e degli altri più accorti notai bolognesi. Del tutto ovvia invece, ed ideologicamente significativa per gli accennati motivi, l’assenza quasi totale in quei proemi delle fonti civilistiche. Si tratta per l’appunto di proemi, spazi vestibolari in cui prendono corpo enunciazioni di ampio respiro retorico e ideologico, che segnano forse la massima espressione del-l’autonomia politica cittadina, perché intendono collegare direttamente, senza mediazioni, le strutture del potere co-munale, in particolare del comune di popolo, alla divinità, fonte unica di ogni potere legittimo45. In effetti, la rivolu-zione scrittoria prodottasi nel mondo comunale nel corso del Duecento, soprattutto nei decenni centrali del secolo e soprattutto là dove più forte era in corso l’affermazione politica delle società popolari, con una diffusione capillare della prassi documentaria e un uso del registro esteso a tutti i campi dell’amministrazione, metteva a disposizione dei notai comunali una grande abbondanza di spazi grafici. Codici sta-tutari, libri iurium, registri giudiziari, fiscali, militari offrivano un eccellente campo d’espressione all’attitudine scrittoria delle élites notarili, mercantili e creditizie che guidavano la Societas Populi e che, non solo a Bologna, trovavano nella scrittura uno strumento efficacissimo di lotta politica, oltre che un elemento di razionalizzazione amministrativa46. Solo pochi di quei notai, tuttavia, coglievano pienamente quelle occasioni per trasformarsi in ideologi, destinavano cioè quegli spazi introduttivi ad inquadramenti filosofici e teologici degli istituti comunali, a riflessioni sull’origine e le finalità del potere politico. Fra questi, certamente, il giovane Rolandino dello Statuto dei cambiatori. E veniamo, ultima riflessione preliminare, al tema della giovinezza e della conseguente relativa inesperienza del re-dattore dello statuto. Né questo, né la modesta estrazione sociale di Rolandino costituirono un ostacolo alla prima,

45 Ibid., pp. 14-20. 46 Cammarosano (1991, 125-203); Maire Vigueur (1995); Bartoli Langeli (1985; 1988); Milani (1996; 2003, 451-458).

61

importante affermazione del suo talento. La professione paterna potrebbe, al contrario, essere stata un elemento a suo favore, dato che i servizi daziari in cui pare che fosse impegnato Rodolfino, passagerius appunto, erano controllati proprio dalla Società del Cambio. Si tratterebbe dunque di un tipicissimo caso di promozione sociale in un passaggio di generazione, ma all’interno dello stesso ambiente professio-nale47. Quanto poi all’età di Rolandino, un rapido esame dei principali testi statutari bolognesi del Duecento mostrerebbe diversi casi in cui la giovinezza del notaio sembra costituire un titolo preferenziale nel conferimento dell’incarico48. Quasi che gli amministratori comunali e popolari cercassero, per questi ruoli che richiedevano una particolare sensibilità re-torica, non figure di maestri già affermati, ma giovani notai, freschi di studi letterari e di entusiasmo espressivo. E del resto negli ambienti propri della riflessione filosofica, quelli della facoltà delle arti di Bologna, contigui a quelli notarili, avveniva proprio negli stessi anni un’aperta esaltazione della giovinezza, come stagione predisposta ad accogliere i valori e la sottigliezza dei tempi nuovi49. Comunque sia, della loro scelta i cambiatori bolognesi non ebbero a pentirsi, dato che l’ampio proemio allestito da Rolandino per i loro nuovi statuti costituisce non solo, come già osservava Giorgio Cencetti, un vero capolavoro di ars dictandi, ma anche uno splendido esempio di rifles-sione politica militante al servizio dell’ideologia popolare50. E tale si dimostra fin dalle primissime righe, che mettono in campo un repertorio di fonti e un’ampiezza di respiro retorico totalmente inediti fino ad allora, non solo nei testi statutari bolognesi, ma più in generale nella produzione cancelleresca dei comuni italiani; fonti e livello retorico che accostano invece il nostro testo ad un autorevole precedente, il proemio del Liber Augustalis di Federico II (1231), opera

47 Pini (1999b, 32). 48 Giansante (1998, 118-119). 49 Bruni (1991, 107). 50 Cencetti (1961, 437).

62

celebratissima di Pier delle Vigne che certamente Rolandino non poteva ignorare51. Con essa, anzi, il notaio bolognese sembra ripetutamente cercare un confronto diretto, il che ci conforta sull’opportunità di una lettura parallela dei due proemi, almeno per quanto riguarda i rispettivi esordi:

Statuto dei cambiatori Liber Augustalis

Summus machine condictor mundialis post singula genus humanum, ut legitur, procreavit. Illi equidem primi generis eiusdem, per quos ipsum terrarum orbem disposuit deitas gubernandum, et a quibus nos sumus licet miserabi-liter derivati, totis viribus dilectionem servabant, loquebantur pacem, fidem et veritatem omnibus immittari cordium intentionibus conabantur; et sic tunc in summo gradu dilectio, pax, fides et veritas consistebant.

Post mundi machinam providentia divi-na firmatam et primordialem materiam nature melioris conditionis officio in rerum effigies distributam, qui facienda providerat facta considerans et consi-derata commendans a globo circuli lunaris inferius hominem, creaturarum dignissimam ad ymaginem propriam effigiemque formatam, quem paulo minus minuerat ab angelis, consilio perpenso disposuit preponere ceteris creaturis...

Si tratta, è evidente, di testi assai diversi quanto a tono retorico; proprio per questo assume maggior rilievo il co-mune riferimento, nelle primissime parole di entrambi i proemi, alla metafora cosmica della «macchina mondiale»52. L’immagine ebbe forse la sua prima formulazione letteraria nel De rerum natura di Lucrezio e direttamente a questa fonte viene attinta dai preumanisti padovani. Tuttavia la sua ampia diffusione fra gli autori medievali va piuttosto attribuita alla traduzione di Calcidio del Timeo platonico e questo tramite spiegherebbe la significativa presenza della metafora in una nutrita costellazione di filosofi del XII se-colo profondamente intrisi di platonismo; fra tutti Alano di Lilla, nelle cui opere si contano almeno dieci ricorrenze di machina mundi, o mundialis, o mundana. Più in generale, il percorso platonico che la macchina del cosmo potrebbe aver seguito per giungere dall’antichità classica a Pier delle

51 Per l’edizione del Liber Augustalis, cfr. Die Konstitutionen (1996); per le fonti del Liber, cfr. Stürner (1983). 52 Sulla storia di questa metafora, cfr. Giansante (1998, 21-49).

63

Vigne andrebbe inquadrato nell’interpretazione complessiva della gerarchia delle fonti dottrinali del proemio federiciano, tema densissimo su cui possiamo serenamente sorvolare rin-viando alle profonde riflessioni di W. Stürner. Anche perché la metafora d’apertura del Liber Augustalis potrebbe essere stata attinta da un diverso repertorio, non necessariamente platonico, o neoplatonico. Occorre in primo luogo conside-rare la possibilità, non troppo remota, di una conoscenza diretta di Stazio da parte di Pier delle Vigne, che dalla lettura della Tebaide potrebbe aver conservato memoria della utrius-que mundi machina; considerazioni analoghe, e a maggior ragione, si potrebbero fare per Boezio, che nella Consolatio offre mundana machina. Ma soprattutto andrà valutata la possibilità di una provenienza meno remota ed aulica della macchina del mondo, di un percorso più familiare, interno al circuito della cultura dettatoria di cui Pier delle Vigne era esponente di primissimo piano. Nei primi decenni del Duecento era in atto nel campo dell’ars dictandi, ed in particolare a Bologna, centro del-l’elaborazione teorica e didattica della disciplina, un movi-mento tendente a costituire il dictamen in sintesi del sapere universale, innalzandolo alla sfera degli studi teologici, e a conferire ai dettatori una fisionomia culturale ed esistenziale quasi esoterica. Questo processo, recentemente illustrato da Enrico Artifoni53, vedeva in prima linea i maestri più prestigiosi, Boncompagno, Guido Fava, Bene da Firenze, e si nutriva fra l’altro, al limite fra esaltazione tecnica della disciplina e millanteria istrionesca, di una serie di iperboli cosmologiche, fra cui appunto la «macchina dell’universo»: al tempo stesso contesto strutturale del dictamen, in quanto disciplina universale e oggetto delle sue illuminanti attenzioni epistemologiche. Alla prima accezione, più referenziale, si può ricondurre l’impiego di machina mundi nell’Amicitia di Boncompagno, composta verso il 120554; alla seconda, più

53 Artifoni (1994; 1997). 54 Artifoni (1997, n. 25). L’edizione più recente dell’opera è Boncom-pagno da Signa (1999).

64

densa di valori transuntivi, fa pensare piuttosto la Summa di Guido Fava (1228), nel cui prologo il maestro bolognese accosta il proprio dictamen alla sapienza di Salomone, in grado di garantire onori e fama ai suoi cultori e di illumi-nare l’intera «macchina mondiale»55. Fra le rotae et rotulae della macchina dell’universo, infine, ancora Boncompagno si innalza in levitazione nella Rhetorica novissima (1235), per descrivere compiutamente il processo transuntivo nelle sue implicazioni retoriche e cosmologiche56. In un contesto disciplinare diverso, ma contiguo a quello del dictamen, si colloca l’Oculus pastoralis (1222 circa), che divulgava anch’es-so fra politici e amministratori comunali la «macchina del mondo»57. Proprio questo potrebbe essere l’ambito culturale di provenienza della metafora scelta da Pier delle Vigne per aprire il proemio del Liber Augustalis. Indipendentemente dalla questione dei suoi studi bolognesi, tradizione peraltro non smentita dalle ricerche più recenti58, l’intensità dei rap-porti culturali fra Bologna e Palermo nei primi decenni del Duecento, e l’ampia diffusione negli ambienti dettatori della Summa di Guido Fava, divulgata negli anni 1228-1229, sono circostanze tali da rendere assai agevole per la macchina del mondo un viaggio da Bologna alla Magna Curia59. Più suggestivo ancora il percorso inverso, che la meta-fora cosmologica sembra aver compiuto, sulla scia del Liber Augustalis, tornando da Palermo a Bologna, per aprire lo Statuto dei cambiatori del 1245. Varie ragioni, in realtà, non consentono di escludere che Rolandino attinga machina mundi, più che alle costituzioni federiciane, alla propria cultura dettatoria o alla trattatistica politica, ma in ogni caso l’impiego di un’espressione così densa di valori simbolici, nella stessa posizione topica all’inizio dell’exordium che occu-pava nell’illustre precedente, sembra un bell’esempio di arte allusiva, destinato ad essere percepito più che dai cambia-

55 Guido Faba (1890, 288). 56 Boncompagno da Signa (1892, 285). 57 Oculus pastoralis (1966, 68); Artifoni (1997, n. 26). 58 Schaller (1989); Roncaglia (1982, 139-140). 59 Varvaro (1987); Bellomo (1994); Antonelli (1994); Verger (1994).

65

tori, diretti committenti del testo, da una diversa, variegata categoria di fruitori, costituita da notai, pubblici funzionari, amministratori delle altre società popolari. Agevolmente affiorerebbero, del resto, ad un confronto approfondito, altre spie a denunciare legami incrociati fra gli ambienti bolognesi del dictamen, il Liber Augustalis e lo Statuto dei cambiatori. Ma un’analisi del genere non sembra necessaria in questo caso, anche perché dopo l’esordio comune i due proemi si allontanano sensibilmente l’uno dall’altro, per il diverso rilievo retorico e narrativo assegnato agli elementi cosmologici e antropologici della creazione. Pur dimostran-do di avere ben presente lo schema espositivo di Pier delle Vigne ed i suoi riferimenti biblici, Rolandino rinuncia a seguirli. Il distacco è assai evidente sul piano delle scelte argomentative: in pochissimi tratti viene liquidata nel testo bolognese la questione cosmogonica e la creazione dell’uomo (post singula, genus humanum... procreavit), il cui apparato autoritativo è riassunto in un genericissimo ut legitur. Pure, in una sintesi così vertiginosa, non può sfuggire, né apparire casuale, lo scarto fra l’homo creatura dignissima, oggetto dell’autocompiacimento del demiurgo nel Liber Augusta-lis, e il genus humanum creato dal summus condictor dello statuto bolognese. Con una maggiore libertà esegetica nei confronti del testo biblico rispetto al proemio federiciano, la scelta del genus humanum come oggetto della creazione, in cui si potrebbe anche percepire un riecheggiamento di dottrine logiche aristoteliche, si sviluppa con naturalezza nelle argomentazioni successive, che abbandonano decisa-mente il tema genetico, per entrare direttamente nel campo dell’antropologia politica.

2.2. L’età dell’oro e la società armoniosa

In quest’area topica del proemio, dal primo scarto homo/genus humanum, Rolandino ne deriva immediatamente un secondo, consequenziale, che rafforza l’impressione della consapevole ricerca da parte sua di un rapporto dialettico col Liber Augustalis: alla creatura perfetta cui il demiurgo

66

federiciano aveva disposto, consilio perpenso, di sottomettere il creato, fanno riscontro infatti nello statuto bolognese i primi esponenti del genere umano, da cui un’astratta dei-tas dispose che la terra fosse governata; continua dunque, dall’antropologia della creazione all’antropologia politica, l’accentuazione dell’elemento collettivo rispetto a quello individuale. Qui l’allontanamento dal contesto biblico, il paradiso terrestre descritto da Pier delle Vigne, si fa eviden-te, dato che l’ambiente prepolitico che accoglie quei mitici progenitori sembra chiaramente riconducibile invece al mito classico dell’età dell’oro, attingibile naturalmente dalle Metamorfosi di Ovidio, che godevano di ampia divulgazione in ambienti notarili duecenteschi, ma anche da Virgilio, Se-neca, Orazio, Giovenale60. Scontate, come vedremo, alcune inevitabili difficoltà di connessione fra questa tradizione mitologica pagana e i necessari riferimenti dottrinari cri-stiani, Rolandino riuscirà attraverso un’originale operazione, senza riscontri nei coevi proemi statutari, a predisporre un complesso meccanismo retorico e autoritativo aperto ad imprevedibili sviluppi di argomentazione. Perfetti nella loro naturale integrità e destinati al dominio del mondo, gli antenati da cui pur indegnamente discendiamo, miserabili-ter derivati è un cursus velox della più limpida tradizione dettatoria, coltivavano in sommo grado amore, pace, fede e verità (dilectio, pax, fides, veritas)61. Questa sequenza di valori etico-politici riconduce momentaneamente il lettore in un ambito dottrinale cristiano: il primo e il terzo elemento della serie, dilectio-fides, rappresentano un nesso frequentissimo nelle lettere di Paolo, che costituivano una delle principali

60 Testimonianze della circolazione di Ovidio in ambienti notarili duecenteschi in Abbondanza (1973, 252-254). Su Virgilio e le sue esegesi medievali di ispirazione platonica, Padoan (1960); sul ruolo di Seneca, e soprattutto delle sue lettere, nel panorama della cultura filosofica ed etico-politica medievale, Luscombe (1982). Su tutte le fonti classiche, che trasmettono al medioevo il mito dell’età dell’oro (Virgilio, Ovidio, Orazio, Seneca, Giovenale), con particolare riferimento alla ricezione dantesca, cfr. Avalle (1975, 77-95). 61 Sul cursus e sul tessuto prosodico del testo, cfr. Giansante (1998, 26-27) ove, alla n. 22, i necessari riferimenti bibliografici.

67

fonti stilistiche e autoritative della scuola retorica bologne-se62. E tuttavia, coerentemente con le premesse mitologiche classiche, la perdita dello stato originario di innocenza e la conseguente corruzione dell’umanità sono ricondotte non alla ribellione e alla caduta bibliche, come nel Liber Augu-stalis, ma ad una progressiva estinzione generazionale delle virtù:

Postmodum vero heredibus et heredum heredibus et sic de ceteris de gradu in gradum ex libero dato arbitrio a summa Provi-dentia universis in exigua et minora boni et equi pravique maiora et ampliorata, peccatis exigentibus descendendo, usque ad haec nostra tempora subrogatis, sic tandem cepit fides, veritas et charitas refrigere, nequitia, dolositas et universi mali cognitio, singulorum cordibus obfuscatis, subiectione diabolica dominari63.

Progressivamente tuttavia le premesse classiche e mito-logiche dell’argomentazione vengono incanalate in un alveo dottrinale cristiano, già pienamente riconoscibile nel richiamo evangelico di cepit fides, veritas et charitas refrigere, in cui la memoria del versetto di Matteo: refrigescet charitas multorum (Mt 24,12), ha evidentemente provocato lo scarto sinonimico dilectio/charitas rispetto alla sequenza fides-veritas-dilectio dei precedenti passaggi64. La necessaria connessione fra le due tradizioni culturali si compie dunque interpretando in chiave scritturale la successione mitologica delle età, e ciò consente di analizzare poi alla luce dell’etica cristiana le conseguenze sociali della subiectio diabolica, cui l’umanità degradata è ormai sottoposta.

62 Sul ruolo delle lettere paoline come modello e fonte per le scuole dettatorie, cfr. Constable (1976, 27 ss.); come riferimento della riflessione politica, Ullmann (1963); Lobrichon (1992); Taubes (1997). 63 Statuto cambiatori, p. 57, rr. 8-15. 64 Come possibile veicolo della citazione evangelica, andrà considerata la bolla Fons sapientiae, divulgata da Gregorio IX nel 1234, in cui fra le numerose immagini bibliche evocate a celebrare il ruolo degli ordini men-dicanti nella repressione dell’eresia, compare anche «charitate plurimum frigescente», a descrivere il momento di crisi morale della cristianità, premessa necessaria dell’azione devastatrice delle vulpeculae ereticali. Cit. in Merlo (1995).

68

2.3. La fine dell’armonia e la critica del potere politico

[...] exceptis bonis religiosis, qui ad perpetue claritatis gloriam intendentes, limitibus iustitie continuis Dominum desudantes et affectibus immittari... in maiori parte homines huius mundi omnes ipsorum actus in malas intentiones convertere dinoscuntur. Ille nempe hodie, cuiuscumque condictionis existat, qui magis fraudes et dolos noverit machinari, quique per fas et nefas divitiis cumulatis poten-tior et sapientior est ad malum, inter omnes optinet principatum, et ceteris omni laude ac gloria dignior cernitur coronandus. Bonus verus pauper spiritus et divitiarum, cuius nil aliud intentio quam veritas est, quo magis fraudum et deceptionum ignarus bonaque simplicitate perfectior, eo plus ab omnibus spernitur, ipsiusque vitam insaniam reputant, et habetur a singulis in derisum65.

L’omaggio alla vita religiosa, con cui si apre questa parte del proemio, è probabilmente un’espressione diretta dei sentimenti di devozione sincera che Rolandino manifesterà poi ripetutamente nei confronti della spiritualità mendicante ed in particolare verso l’ordine domenicano, alla cui ombra si dipanerà costantemente la sua esistenza66. Subito dopo, il nostro testo sviluppa una sorta di breve trattato sull’origine e la natura del potere politico, ed è qui che il notaio bolo-gnese dimostra tutta la sua giovanile audacia intellettuale, non esitando ad affrontare un serrato dialogo a distanza con l’autorevole precedente imperiale, che pure poneva le conseguenze sociali del peccato a fondamento della sovra-nità. Raffreddatesi, come si è detto, le virtù primigenie che animavano l’armoniosa socialità degli antenati, gli uomini dedicarono dunque le proprie energie migliori a fini perlo-più malvagi. Ed ecco apparire il potere politico: non argine alla scelleratezza umana, come argomentava il proemio del Liber Augustalis, ma sua massima espressione. Nel consor-zio dei corrotti, perduta ormai ogni traccia dell’innocenza

65 Statuto cambiatori, p. 57, rr. 15-27. 66 Ed anche il suo destino successivo, come testimonia con grande evidenza architettonica l’arca di Rolandino al centro della piazza bolognese di S. Domenico. Illuminanti riflessioni, suscitate dal restauro dell’arca di Rolandino, in Cencetti (1959). Sui rapporti fra il grande maestro di notariato e l’ordine domenicano, cfr. D’Amato (1988, 137-138).

69

originaria, il «principatus» spetterà infatti a colui che più degli altri avrà saputo «fraudes et dolos machinari», a colui che, forte per le ricchezze accumulate con mezzi leciti e illeciti, saprà essere «più sapiente nella malvagità». Certo potremmo pensare di essere stati semplicemente ricondotti nei territori ampiamente battuti di un generico pessimismo politico di impronta patristica, mediato probabilmente da tramiti canonistici67. Ma il passaggio successivo ci induce piuttosto a credere che quel principatus non indichi una generica supremazia socio-politica, ma configuri invece con precisione lessicale il potere del princeps, la sovranità impe-riale, per caricarla poi dei sinistri bagliori apocalittici che del resto già da anni la polemica pontificia andava evocando contro Federico II. Prosegue infatti amaramente il dettato rolandiniano osservando che, per l’insipienza dei più, questo campione di nequizia viene «incoronato di ogni onore e gloria». Dove sembra di poter leggere un riferimento a quel «diadema di onore e di gloria» che nel proemio di Pier delle Vigne incoronava Adamo e Cristo, prefigurando in realtà il diadema imperiale di Federico, secondo una simbologia del resto già adottata dall’imperatore nella Constitutio in basilica beati Petri del 1220 e certamente nota negli ambienti universitari bolognesi68. Applicare, come fa qui Rolandino, una tessera vetero e neotestamentaria (Ps 8,16; Hebr 2,7) ad un contesto di degrado morale, potrebbe assumere quasi una valenza blasfema, se il processo venisse privato del suo precedente diretto: il potere imperiale che aveva provvedu-to ad applicarla a se stesso. Con quella mediazione invece diviene un’allusione densa di significati polemici, il cui ricercato effetto è capovolgere il processo di sublimazione del potere messo in atto dagli ideologi imperiali, ricondurlo nei limiti assegnatigli dalla primitiva riflessione cristiana – è funzionale a ciò la citazione da s. Girolamo di dolos machinari (Ep. LVIII, 6, 4) –, smascherare insomma di quel potere l’intrinseca, diabolica malvagità. Non si intravedono spazi di

67 Su cui: Landau (1994, 41 ss.); Stürner (1987, 67 ss.); Buc (1994, 120 ss.). 68 Liotta (1993, 80); Quaglioni (1995, 15).

70

speranza in una società politica descritta a tinte così fosche: questa struttura gerarchica, il cui vertice non può che essere l’imperatore, appare irrimediabilmente orientata al male. Predisporre per l’apparato introduttivo di uno statuto d’arte un’argomentazione di questo tono e livello retorico, così intrisa di pessimismo politico e di violenta polemica antimperiale, è un’operazione che va letta evidentemente alla luce dei recenti sviluppi politici che vedevano, negli anni Quaranta del Duecento, l’esercito bolognese impegnato in prima linea contro la lega imperiale e soprattutto la cristianità occidentale scossa dalle scomuniche di Federico ed infine, in quello stesso 1245, dalle convulse vicende del Concilio di Lione69. E tuttavia, quella dedicata al potere sovrano e alle sue abiezioni è solo la pars destruens del testo, nella quale il proemio rolandiniano manifesta finalità polemiche, diciamo, di politica estera. Più interessante per noi è la seconda parte, rivolta al contesto cittadino, e aperta da un improvviso spira-glio di luce, che scende ad illuminare una fascia ristretta del consorzio civile, annunciando un’imprevedibile rivalutazione della dimensione politica dell’uomo, tutta risolta, come ve-dremo, all’interno dell’ideologia comunale e popolare.

2.4. Dall’età dell’oro all’età comunale: virtù professionali e virtù civili del popolo

Verum non sic divine maiestatis pietas eorum quos redimere sanguine pretioso descendit in omnibus est oblita, ut generalli elo-quentia sit dicendum, quod prosus omnes hoc discrimine usque ad imfima permiserit dilabari et quod adhuc ipsius veritatis partem in aliquibus non servaverit digniorem; quia hoc nostro tempore quidam etiam asque ipsis religiosis existunt, licet sint in vite presentis exilio et mundi tenebris constituti, qui asque vero vivere vel conduci non possunt, eo quod artes ipsorum quibus reguntur non valent sine fide ac veritate plenissima exerceri70.

69 Sugli impegni politici e militari di Bologna in questo contesto, Vasina (1996). 70 Statuto cambiatori, p. 58, rr. 27-36.

71

La pietà divina non permise dunque che l’umanità si degradasse al punto da perdere anche l’ultimo barlume di verità. In questo nostro tempo di corruzione vi sono nono-stante tutto alcune categorie che, sebbene vivano nelle tenebre del mondo, non possono allontanarsi dalla verità, dato che le loro arti non si esercitano, appunto, «senza fede e verità». L’intervento divino risulta decisivo nel salvare dalla glacia-zione etica dell’umanità almeno il binomio «verità e fede», affidandone la conservazione ad un ristrettissimo gruppo umano in forza di una speciale vocazione professionale: due dei quattro valori originari (dilectio, pax, fides, veritas), su cui poggiava la società perfetta dei mitici progenitori, sono miracolosamente sopravvissuti in quelle attività che hanno nella pubblica fama di onestà il loro primo requisito. Rolan-dino pone così nella pietà divina il fondamento metafisico delle successive argomentazioni, che sviluppano in termini originalissimi il tema dei rapporti di potere interni alla so-cietà comunale, facendo di quest’ultima nel suo insieme uno spazio di socialità prepolitica immune dalla corruzione del potere politico, grazie ai suoi legami etico-professionali con le virtù civili dell’età dell’oro. Prima fra le categorie custodi di quel patrimonio collettivo non, come sarebbe stato lecito attendersi, l’Arte dei cambiatori, ma quella dei notai:

Ex hiis quosdam a sacris constitutionibus ordinatos tabelliones vel scrinearios appellamus, eo quod sicut inventum thessaurum in scrineo reconditur ut servetur, sic merito debet omnis fides omnisque legalitas et quicquid eis in fide ac legalitate committitur per eos in-violabiliter reservari. Videmus enim quod, nisi ratione prohibetur in contrarium evidenti, omnibus que scripserint fides datur, nec audet quis de levi ausu temerario infringere publice quod scripserint, licet aliqui ex eis aliquando per deviationis semitas gradientes huius tam nobilissime artis fines excedant, et fides obmissa instigante diabolo abvertatur71.

Ciò che rende sorprendente questa apologia rolandiniana, fittamente trapunta di cursus velox e intessuta di citazioni

71 Ibid., rr. 36-45.

72

bibliche e arcaismi dalle etimologie ricercate e fantasiose, non è tanto la celebrazione delle virtù civili del ceto notarile, del suo culto sacrale per la verità, della universale reputazione goduta dalle sue scritture, fenomeno non infrequente nella produzione statutaria due-trecentesca, quanto il trovarla così solennemente incastonata nel corpo dello Statuto dei cambiatori e in una posizione di evidente privilegio rispetto all’elogio di questi ultimi72. Quasi che all’interno stesso dell’Arte del Cambio, Rolandino stesse preparando allora quei nuovi equilibri che, nella seconda metà del Duecento, avrebbero portato la corporazione notarile a subentrare, nella guida della Società del Popolo, a quelle di cambiatori e mercanti, facendo di Bologna, secondo la felice espressione di Gianfranco Orlandelli, «una repubblica di notai»73. Per il momento tuttavia il nostro notaio-ideologo si accontenta di ripartire la custodia preziosa delle virtù civili fra notai e cambiatori/mercanti, e fa seguire – «bontà sua!» osservava Giorgio Cencetti74 – all’esaltazione dei primi quella dei se-condi:

Sunt etiam alii in quibus multum veritatis et fidei quam nunc tenent homines reservatur, scilicet ubicumque in mundi partibus constituti negotiatores auri, argenti, monetarum, lapidum pretioso-rum et per consequens multarum aliarum rerum, qui campsores et mercatores vulgari elloquio nuncupantur. Hos quidem de necesse oportet ut omnem veritatem, fidem et legalitatem artem ipsorum eis exercentibus immittantur, quod solo verbo et nutu promittunt fide adimpleant illibata, et sibi a quolibet in fideli negotio precaveant diligenter; sic enim sunt in legalitate constantes, quod quicquid in eadem arte dicunt vel agunt ab ipsa sola progreditur veritate75.

Una seconda categoria dunque, oltre ai notai, conserva per la società civile un patrimonio prezioso di verità e fede.

72 Si vedano, ad esempio, le apologetiche definizioni del notaio come veritatis et iustitiae filius et zelator negli statuti notarili trevigiani: Betto (1968, 49), cit. da Arnaldi (1976, 364). 73 G. Orlandelli, nella premessa al Liber sive matricula (1980, VIII). 74 Cencetti (1961). 75 Statuto cambiatori, p. 58, rr. 45-55.

73

Con un processo argomentativo ancor più interessante, la definizione di questo gruppo sociale procede anch’essa dalle competenze professionali: il commercio dell’oro, dell’argen-to, delle monete, delle pietre preziose e per estensione di molte altre merci. Una categoria mista dal punto di vista economico, dato che ne fanno parte cambiatori e mercanti, giuridicamente autonomi nelle rispettive società d’arte, ma politicamente legati da un’antica solidarietà di parte e perciò accomunati dall’elogio del notaio dei campsores. L’assunzione di questa categoria professionale a gruppo politico, il suo proporsi come ceto dirigente della società comunale, che è poi l’assunto di fondo di questo testo proemiale, è già con-tenuto in nuce in questa prima definizione, apparentemente tecnica: in mundi partibus constituti negotiatores auri. Con-stituere, infatti, è uno dei termini-chiave del lessico politico giustinianeo e, prima ancora, del lessico giuridico applicato da s. Girolamo alla traduzione latina dei testi sacri76; il suo impiego in questo contesto ha dunque l’effetto di innalzare il discorso sui professionisti del cambio e del commercio di preziosi ad una sfera che trascende quella propria dei rapporti economici, per attingere direttamente quella delle istituzioni politiche e giuridiche, senza limitarne l’ambito di riferimento, ma estendendolo in mundi partibus.

2.5. Dall’etica sociale all’egemonia politica

Stiamo assistendo insomma allo snodarsi di un percorso lucidamente in bilico fra economia e politica, fra egemonia sociale e metafisica del potere. La sola parola, il semplice gesto vengono considerati da quei professionisti un impe-gno assoluto, al cui rispetto saranno costretti dalla loro innata attitudine77. Costanti nella legalità, ogni loro parola

76 Ullmann (1963). 77 Questa attenzione di Rolandino per il binomio parola-gesto (verbum-nutus), e per la densità dei suoi valori simbolici, scaturisce dalla pratica notarile applicata alle transazioni commerciali. Pochi anni prima del resto l’importanza di questo nucleo tematico nel campo della comunicazione

74

o azione procede dalla sola verità. E questo li candida ine-vitabilmente ad un ruolo di prestigio sociale. Fides, veritas, legalitas si inseguono in queste righe e si intrecciano in varie combinazioni, fino a costituire una fitta trama, in cui uno dei tre fili, legalitas, è subentrato, adeguamento storico e giuridico insieme, all’originaria dilectio/charitas del trittico di virtù primordiali. E non si tratta, va sottolineato, delle virtù civili che la cultura politica comunale in Toscana o in Veneto avrebbe distillato, di lì a poco, dalla tradizione aristotelico-ciceroniana e dall’etica cristiana. Quelle dei no-tai e dei cambiatori di Rolandino sono virtù schiettamente professionali, che attraverso un percorso autonomo ed ori-ginale stanno facendosi virtù politiche. Infatti, funzionale al successivo passaggio, che condurrà decisamente il discorso sul piano politico-istituzionale, la tessitura di Rolandino si nutre qui di elementi propri della deontologia mercantile, innalzandoli però al livello dell’etica sociale: garanti della legalità della parola e del gesto nel campo economico, in base al generale riconoscimento, ma in realtà per una natu-rale predisposizione, i cambiatori e i mercanti trasferiranno altrettanto naturalmente questa loro attitudine al campo dei rapporti politico-sociali, nel corpo cioè delle istituzioni comunali:

Eorum itaque nobilis et commendanda generatio in civitate Bononie locum pre ceteris obtinere dignoscitur principalem et in eadem evidenti consortio commendabili prefulgere: sunt namque non pauci numero viri egregii, sapientes, potentes e providi predictis, ut dictum est, virtutibus premuniti qui honorata societate corporalibus iuramentis ceterisque legibus et statutis ad invicem connectuntur, habentes rectores vel consules, sub quorum iuxta ordinationum formam regimine obediunt et reguntur78.

politica, non meno che in quello dei rapporti amorosi, era stata intuita da Boncompagno e sviluppata nella Rhetorica novissima, lib. IV (Boncompagno da Signa 1892), e nella Rota Veneris (Boncompagno da Signa 1996, 80 ss.). Per un inquadramento tematico su parola-gesto, cfr. Miglio (1986); Schmitt (1990). 78 Statuto cambiatori, p. 58, rr. 55-63.

75

Apparentemente neutro nella sua consequenzialità («eo-rum itaque...»), questo passaggio collega in modo ardito le premesse etico-professionali al nucleo politico del testo, annunciato da un altro segno lessicale non trascurabile: la scelta di generatio per definire nel nuovo contesto referen-ziale la Società del Cambio. Adottare un termine dalle chiare ascendenze bibliche, come generatio (Mc 8,12; 13,30; Mt 1,17 ecc.), da riferire ad una persona giuridica in luogo del più tecnico ed ovvio universitas, non è solo un artificio retorico alquanto inusitato, e soprattutto non è un espediente esorna-tivo, ma l’elemento necessario di un complesso meccanismo, che ha progressivamente innalzato il livello del discorso e grazie al quale ormai non abbiamo più davanti a noi un gruppo professionale che gode di universale reputazione, ma una «nobile stirpe» che nella città di Bologna occupa oggi una «posizione preminente» per comune riconoscimen-to e in forza del fulgido esempio di virtù offerto all’intera cittadinanza. Ecco come le virtù etiche e professionali dei cambiatori possono farsi virtù civiche valide per tutto il consorzio urbano e come l’Arte del Cambio, costituita da un numero non esiguo di uomini egregii, sapientes, potentes et providi, è in grado di proporsi a modello per l’intera società cittadina. Dalla comunità perfetta dell’età dell’oro, in cui i rapporti erano naturalmente ispirati a charitas-fides-veritas, attraverso la fase prepolitica di un consorzio economico e sociale orientato da fides-veritas, affiancate dalla loro sorella giuridica legalitas, siamo stati introdotti quasi inavvertitamen-te nel cuore della società comunale e dei suoi vertici istitu-zionali. La sequenza di aggettivi che gratifica i cambiatori, «nobili-sapienti-potenti-provvidi», è infatti la perfetta sintesi delle virtù politiche comunali nella loro vulgata bolognese: il primo e il terzo elemento della sequenza (egregius-potens) sono gli attributi più comuni della figura del podestà, che nei documenti ufficiali è costantemente definito egregius et potens vir, o nobilis et potens vir. Il secondo ed il quarto elemento (sapiens-providus) sono invece gli aggettivi che accompagnano di norma la figura del giudice e quella del-l’ambasciatore, sapiens et providus vir, o talvolta sapiens et discretus vir.

76

Nobiltà-forza-sapienza-discrezione: senza gli approfondi-menti dottrinari della successiva teologia politica comunale, la cultura retorica dei dettatori aveva elaborato, soprattutto con Guido Fava, risalendo per varie fonti al giacimento classico, un repertorio canonico di virtù cui ispirare, nell’at-tività di cancelleria, l’aggettivazione adeguata al prestigio dei moderni governanti; quelle stesse virtù divengono ora, ad opera di Rolandino, gli attributi qualificanti dei cambiatori bolognesi79. L’ambiguità semantica ricercata dal notaio, il cortocircuito fra valori etico-professionali e valori politici, infine, ma non ultimo, il sovrapporsi politico e istituzionale delle organizzazioni popolari al potere comunale, sono solo l’ultimo passaggio di un processo deduttivo avviato nel mito dell’età dell’oro e approdato alla storia contemporanea. Al termine dell’imprevedibile percorso ci attende dunque, quasi ineluttabile, l’egemonia sociale e politica dei cambiatori, il locus principalis che essi oggi legittimamente occupano, e che non potrà certo circoscriversi alla Società del Popolo, ma dovrà estendersi all’intera civitas. Così come la nuova legislazione interna dell’arte, che corregge le antiche dispo-sizioni e le armonizza con le nuove, viene proposta nel finale del prologo come modello legislativo per l’intero consorzio civile: grazie all’opera preziosa di quegli statutieri «nedum ipsi societatis predicte, verum etiam ceteri hominum servan-de veritatis, legalitatis et fidei plenissimam cognitionem et scientiam nanciscentur»80. Non solo dunque i professionisti del cambio e del credito, ma tutti gli uomini interessati a raggiungere completa cognizione e consapevolezza in meri-to alla tutela di verità, legalità e fede potranno con fiducia ricorrere allo Statuto dei cambiatori bolognesi. Il senso e gli obiettivi dell’argomentare non potrebbero essere più chia-ri, e rendono perfettamente ragione di un testo proemiale unico per ampiezza e livello retorico: essendo i cambiatori

79 Sulla teologia politica comunale, cfr. De Matteis (1977); Capitani (1960; 1965); Panella (1985); Davis (1988). Per un quadro dell’aristotelismo politico fra XIII e XIV secolo, Black (1992, 23 ss.). Sulle virtù politiche nella tradizione dettatoria bolognese, Guido Faba (1890, 312-313). 80 Statuto cambiatori, p. 59, rr. 90-92.

77

naturalmente portati a conservare fede-verità-legalità in ogni genere di rapporto interpersonale, e proponendosi quindi come esempio di virtù civili valido per l’intera società, la loro legislazione interna potrà legittimamente essere assunta come modello atto a regolare i rapporti fra tutti i cittadini. Sempre più nette vediamo delinearsi proprio qui le pre-messe ideologiche della legislazione che la Societas Populi, guidata dai notai di Rolandino, riuscirà ad imporre, negli anni Ottanta, alle istituzioni comunali, ed in cui non solo le virtù civiche dei populares, ma le loro stesse pregiudiziali antimagnatizie, saranno assunte come garanzia della legalità nei rapporti sociali e nella vita politica. In queste affermazioni teoriche solenni, inusitate in uno statuto d’arte, il Popolo si avvia a rappresentare tutta la città; le sue istituzioni e la sua legislazione si propongono come guida e norma di tutti i cittadini. E come nel Liber Augustalis e nel suo progetto ideologico la premessa e garanzia della legislazione era, platonicamente, l’insita forma boni, l’idea innata di bene che l’imperatore custodisce nel cuore, l’intima familiarità che egli nutre con la giustizia, sua madre e figlia, così, si parva licet, la premessa teorica della normativa statutaria dei cambiatori bolognesi proposta da Rolandino alla città come modello legislativo, sta nella loro naturale propensione professionale e quindi politica, verso fede-verità-legalità. Un senso delle virtù civili, connaturato alla loro attività, ne fa gli ideali eredi dei mitici progenitori.

2.6. In chiave comparativa: altre età dell’oro

Come le auctoritates «dal naso di cera» di Alano da Lilla, i miti valgono a sostenere, presso gli autori medievali, le tesi più diverse, talvolta divergenti. Non fa eccezione l’età dell’oro: lo dimostrava anni fa un breve e denso contributo di Renato Bordone, che illustrava un fenomeno assai fre-quente nel mondo cittadino italiano di età precomunale e comunale, percettibile sia nell’ambito del sentire collettivo della cittadinanza, che in quello della riflessione politica

78

all’interno dei gruppi dirigenti81. Si tratta di un processo culturale e ideologico che coinvolge, in una sorta di rappor-to bidirezionale, passato storico della città e tempo mitico. Un rapporto per il quale, mentre le epoche di un passato cittadino relativamente recente tendono a farsi riferimento mitico, modello irraggiungibile per le generazioni presenti, il tempo mitico delle origini, l’età dell’oro in senso proprio, cioè antropologico, si propone come precedente storico, atto a determinare caratteri e destini della città e dei suoi abitanti. All’interno di questo schema, e attraverso una notevole varietà di meccanismi argomentativi, gli esiti ideo-logici dell’operazione possono essere, osservava Bordone, assai diversi, anche se generalmente riconducibili ad una ispirazione conservatrice. Nel caso più noto, quello del Trecento fiorentino di Dan-te e Giovanni Villani, l’attenzione degli autori si rivolge al recente passato storico, assunto a specchio di un presente di crisi politica e istituzionale, ed assume volta a volta il tono di rimpianto nostalgico e di polemica moralistica o di invettiva profetica. Con sfumature diverse, il topos trova applicazione in altri contesti comunali, come quello bergamasco del Liber Pergaminus, in cui l’epoca eroica della città corrisponde alla fase aristocratica del governo comunale, o quello padovano di Rolandino, che contrappone l’età crudele di Ezzelino al precedente «secolo aureo», il buon tempo antico dei valori cavallereschi, di una vita cortese e gioconda. Ma anche il contesto precomunale, e Bordone analizza i casi di Milano e Lucca, conosce elaborate applicazioni storiche del mito archetipico, che mirano comunque ad opporre un presente di corruzione e decadenza ad un passato di perfezione mo-rale e civile. La cronologia di queste diverse età dell’oro, del tempo mitico applicato al mondo cittadino italiano, è dunque assai variabile, essendo strettamente connessa all’ideologia dei diversi autori; assai costanti invece, dall’XI secolo in poi, appaiono gli elementi costitutivi del mito, i valori dell’età dell’oro, e parallelamente i disvalori del tempo presente. Un

81 Bordone (1991).

79

primo nucleo di valori, costanti nei mitici progenitori, sono quelli riconducibili all’etica economica e alla vita privata: sobrietà e austerità nello stile di vita, onestà e lealtà nei rap-porti personali, fedeltà coniugale; i corrispondenti disvalori, di cui abbondano i contemporanei – smodata ostentazione della ricchezza, corruzione e slealtà personale, disordini sessuali –, alimentano avarizia, avidità, invidia, sentimenti sconosciuti ai progenitori, e provocano violenze, rapine, lotte fratricide: una generale disarmonia sociale che sfocia nella definitiva perdita della pace interna, fondamento della civile convivenza. Altri valori tipici dell’età dell’oro sono quelli della sfera più propriamente politica e militare: coraggio, forza fisica e abilità nell’uso delle armi, costumi cavallere-schi, patriottismo, lealtà e fedeltà alle istituzioni cittadine. Costanti nell’immaginario collettivo urbano, prima e dopo il movimento comunale, questi atteggiamenti assumono il passato storico come tempo mitico da contrapporre al pre-sente, oppure propongono un ritorno al tempo mitico delle origini come rimedio alla crisi e alla decadenza dei tempi moderni. In entrambi i casi il processo è espressione di una polemica aspramente conservatrice contro i mutamenti in atto nella società, interpretati come corruzione di valori originali. Talvolta la critica del presente si basa su considerazioni di ordine religioso e morale, ma più spesso, ed è il caso della Lucca precomunale di Rogerio o della Firenze di Dante e Villani, la perdita della condizione edenica della città, con la sua progressiva decadenza, è attribuita a cause di ordine sociale, come l’inurbamento dal contado ed il conseguente sviluppo demografico ed economico della città, condizioni che avrebbero provocato la crisi dei valori cavallereschi e l’affermazione di nuovi ceti e nuovi stili di vita, accomunati da un nuovo concetto di potenza e supremazia, basato non più sulla tradizione militare ma sul possesso e sull’uso del denaro. Assumono ancora maggior rilievo, in questo quadro generale, le scelte argomentative di Rolandino Passaggeri per lo Statuto dei cambiatori bolognesi, che impiegano il mito dell’età dell’oro in un senso tutt’altro che conserva-tore, ed anzi potentemente rivoluzionario. In quel breve

80

testo infatti possiamo rintracciare le linee essenzialissime di una teoria politica comunale: nonostante la corruzione e le sopraffazioni del potere politico, rappresentato ai suoi vertici dalla sovranità imperiale ma identificabile in tutti gli esponenti dell’aristocrazia militare, il patrimonio di virtù che garantiva l’armoniosa e pacifica socialità dei progenitori si è miracolosamente conservato attraverso i secoli, ed anzi nel passaggio dal tempo mitico al tempo storico, ed ora continua a garantire la civile convivenza nella nuova società comu-nale bolognese, in cui si riattualizza l’età edenica. I meriti storici di quell’operazione sono esclusivamente del popolo, ed in particolare delle categorie professionali che hanno ininterrottamente coltivato quelle virtù, altrimenti disperse, ed ora generosamente le trasmettono a tutta la cittadinanza bolognese. Al fianco dei notai e dei mercanti, dunque, i cambiatori. Cerchiamo allora di vedere un po’ più da vicino questo grup-po professionale, che con tanta determinazione ed enfasi si proponeva alla metà del Duecento come guida del comune e della città.

81

CAPITOLO SECONDO

DEFINIZIONE DI UNA CATEGORIA PROFESSIONALE. LA MATRICOLA DEL 1294

1. La matricola dei cambiatori del 1294

Al tentativo di definire un quadro socio-professionale degli operatori del credito attivi a Bologna alla fine del Due-cento è necessario premettere alcune avvertenze, motivate dai caratteri e dall’ispirazione di una fonte molto diversa da quella da cui abbiamo preso le mosse. Non solo perché la matricola dei cambiatori del 1294, intorno alla quale si svilupperanno ora le nostre riflessioni, sposta bruscamente in avanti di un cinquantennio i termini cronologici del discorso, ma soprattutto perché le finalità politiche e amministrative del documento sono, rispetto a quelle dello statuto del 1245, radicalmente mutate. Già quella normativa, infatti, manifestava in modo chiaro le aspirazioni dei ceti dirigenti del popolo bolognese a valorizzare per finalità ideologiche il patrimonio culturale e deontologico di alcuni gruppi pro-fessionali; ma questa preminenza dei valori extra-economici si fa assoluta nei documenti prodotti dalle società popolari dopo la nuova ondata legislativa degli anni Ottanta. È questo appunto, ed emblematicamente, il caso delle matricole redatte e presentate al Capitano del Popolo nel 1294, testimoni di un’epoca in cui si è ormai definitivamente perfezionata la trasformazione delle arti: da volontarie associazioni profes-sionali in strutture monopolistiche e centri di potere1. La fase dello spontaneismo associativo, cui per qualche verso è ancora accostabile lo Statuto dei cambiatori del 1245, è dunque alla fine del secolo definitivamente tramontata, per lasciare il campo ad una rigida struttura organizzativa, che obbligava chiunque volesse esercitare una certa attività a

1 Per un ampio quadro d’insieme, e per tutti i necessari riferimenti bibliografici, rinvio a Pini (1986, 243-258).

82

sottomettersi ai magistrati dell’arte competente. E d’altra parte le conquiste istituzionali del popolo bolognese ed il ruolo sempre più centrale acquisito nella seconda metà del Duecento dal suo sistema associativo, articolato su arti e armi, rendevano quelle organizzazioni luoghi di convergenza e di coordinamento fra persone e gruppi non sempre direttamente coinvolti nelle attività artigianali. La situazione provocava una serie di importanti conseguenze: per i vertici istituzionali del popolo, la necessità di controllare più rigorosamente gli accessi alle società, per garantirle da possibili infiltrazioni magnatizie; per le organizzazioni popolari, l’elaborazione di una tipologia professionale attendibile del «vero artefice», che consentisse di distinguere, all’interno del proprio cor-porale, quanti erano espressione di una genuina tradizione e vocazione artigianale da quanti invece ricorrevano all’im-matricolazione come semplice strumento di prestigio sociale e di affermazione politica, riservando generalmente solo ai primi l’accesso alle cariche sociali2. Progetto ambizioso e, alla lunga, destinato ad un sostanziale fallimento, ma di grande interesse sul piano della storia della mentalità e dell’ideo-logia popolari. In questo quadro dunque vanno collocati i Libri matricularum, che a partire dal 1272 il Capitano del Popolo faceva redigere, trascrivendo le matricole presenta-te per l’approvazione dalle singole società, per conservarli poi nell’armarium populi: eccellente strumento di controllo politico, ed oggi fonte preziosissima per la storia sociale e demografica, ma certo specchio non troppo fedele della si-tuazione economica cittadina3. Come osservava anni fa A.I. Pini, questo corpus, pressoché unico, di matricole professio-nali consente sì di seguire i flussi di iscrizione alle arti, per il lunghissimo periodo che va dagli anni Settanta del Duecento fino all’età napoleonica e alla definitiva soppressione delle società, ma sarebbe poi assai imprudente interpretare quei

2 Principio definito con precisione da una rubrica degli Statuti del Popolo del 1282: «Quod nullus de societatibus artium possit habere offitium pro aliqua societate artium, nisi suis manibus exercuit artem...»: Statuti del Popolo (1888, 37). 3 Sui libri matricularum, cfr. Pini (1967; 1996, 151-178).

83

flussi come segno diretto degli andamenti di un mercato o della floridezza di un settore dell’economia cittadina, senza considerare l’incidenza di altri fattori di ordine politico, demografico, amministrativo e così via4. Le matricole insomma, soprattutto quelle duecentesche, non sono una vera anagrafe professionale dei cittadini bo-lognesi, piuttosto un’anagrafe politica degli appartenenti al popolo, ceto sociale detentore di una serie di privilegi: primo fra tutti quello di esprimere la classe dirigente comunale. Cer-chiamo ora di dare qualche concretezza a queste riflessioni, e nello stesso tempo di entrare direttamente nella fonte del 1294. Non possiamo certo immaginare effettivamente ope-rativi nelle botteghe bolognesi di quell’anno i 752 macellai registrati dal Liber matricularum, o i 754 sarti; né possiamo pensare che il mercato cittadino, pur fiorente e vivacemente animato dalla richiesta studentesca, come lo stesso Pini amava ricordarci, assorbisse la produzione di 1.700 calzolai-cordo-vanieri, per non dire degli uffici pubblici e delle stationes in cui si sarebbero affollati più di 1.300 notai5. Si tratta eviden-temente di numeri e di strutture associative da interpretare in modo più sfumato, immaginando aggregati, intorno ad un nucleo originario di veri operatori economici, gruppi più o meno ampi di persone appartenenti allo stesso ceto e collegate ai primi da vincoli familiari e d’amicizia, che dall’iscrizione all’arte si attendevano vantaggi in termini di riconoscimento sociale e di affermazione politica. Anche quei numeri tuttavia, pur non rappresentando direttamente il ruolo economico di una corporazione, costituiscono l’espressione efficace di una presenza e di un prestigio sociale; è indubbio infatti che la grande consistenza numerica di alcune arti, e quindi il loro peso politico nei consigli cittadini, contribuisse a definire la forza dei gruppi di potere in cui si stavano evolvendo nel corso del Duecento le associazioni professionali.

4 Ibid., pp. 159-162. Qualche riflessione metodologica sul tema anche in Giansante (2006). 5 Tutti questi dati quantitativi da Pini (1996, 172-175, tav. 1). Sui notai in particolare, e sul rapporto fra il numero degli immatricolati e quello dei professionisti attivi, cfr. Tamba (1998, 312-324).

84

Da questo punto di vista, l’epoca d’oro dei cambiatori bolognesi era, alla fine del Duecento, non più che un ricor-do: lo stesso Rolandino, che ai suoi esordi, come abbiamo visto, ne aveva immortalato l’apogeo con lo statuto del 1245, aveva poi guidato negli anni Settanta i notai alla conquista dell’egemonia politica, relegando mercanti e cambiatori su posizioni più decentrate6. E tuttavia la Società del Cambio di Bologna è ancora in grado di esibire nel 1294 un numero assai rispettabile di immatricolati, 615, preceduta nella consistenza solo dalle citate corporazioni di cordovanieri (1.700), notai (1.308), sarti (754), beccai (752); seguita invece da società di grande rilievo nella vita economica bolognese, come mer-canti (523), drappieri (567), fabbri (550), falegnami (550), lanaioli (508) e, a grande distanza, pescatori (267), salaroli (281) e orefici (242). Non si tratta ovviamente, si diceva, di immaginare 615 cambiatori contemporaneamente attivi sulla piazza bolognese. Di quel gruppo facevano parte infatti, oltre a tutti coloro che professionalmente esercitavano il cambio e le attività creditizie, un numero difficile da valutare di cittadini appartenenti alle stesse famiglie, o comunque, e a qualunque titolo (di parentela, d’amicizia, d’affari), legati ai veri cambiatori e alla loro organizzazione. La difficoltà di distinguere le due categorie potrà essere superata solo in certi casi, su cui ci soffermeremo più avanti, ricorrendo alla fonte fiscale, gli estimi che, come vedremo, ci consentiranno di entrare nei patrimoni delle famiglie comunque collegate all’arte del cambio, e di riconoscere quindi quelle la cui ricchezza proviene effettivamente dalle attività bancarie. Dunque, 615 «cambiatori» immatricolati a Bologna nel 1294: il 5,7% dei 10.684 nomi che nell’insieme costituiscono i membri delle società d’arte, cui vanno aggiunti, per com-pletare il quadro della popolazione attiva bolognese, i non pochi lavoratori agricoli residenti nel territorio urbano, i fornai e gli altri addetti al vettovagliamento, gli operatori del settore editoriale, categorie, tutte, escluse per motivi diversi dal diritto di riunirsi in associazioni professionali. La quasi totalità dei cambiatori, 578 su 615, pari al 94%, appartiene

6 Giansante (2002, 67-74).

85

a 90 nuclei familiari, ma il dato forse più significativo è che ben più della metà degli immatricolati, 335 su 615, proviene da 23 sole famiglie, ognuna delle quali annovera più di sei iscritti alla società7. Una situazione dunque di notevole con-centrazione all’interno del gruppo professionale e quindi nel corporale dell’arte, che doveva tradursi per quelle famiglie nella capacità di condizionare in modo significativo le scelte assembleari e l’elezione dei consoli e delle altre cariche so-ciali. Non solo i numeri, ovviamente, e il conseguente peso elettorale, rappresentavano elementi di forza e prestigio per i nuclei familiari; la potenza economica costituiva certamente, in particolare fra i cambiatori, un argomento non secondario da far valere nelle dinamiche societarie e più in generale nella vita politica comunale. Per una coincidenza non casuale, vedremo i due elementi, consistenza numerica e livello di ricchezza dei nuclei familiari di cambiatori, andare spesso alla pari. Un gruppo ristrettis-simo di famiglie, una dozzina in tutto, immatricolano più di 10 cambiatori. Pepoli, Rossi, Cacitti, Poeti, Rodaldi, Sabadini e Soldaderi elencano da 12 a 19 nomi ciascuna; Artenisi, Beccadelli e Tettalasini si attestano fra i 20 e i 25 iscritti e due sole famiglie, Gozzadini e Zovenzoni, superano la soglia delle 30 immatricolazioni. Da queste 12 famiglie proviene complessivamente il 40% circa del totale dei cambiatori bolognesi (241 su 615). Con alcune eccezioni di rilievo, su cui ci soffermeremo tra breve, sarà interessante trovare all’interno di questo gruppo ristretto anche la maggior parte dei patrimoni più ingenti, fra quelli dichiarati dai cittadini bolognesi all’estimo del 1296. Una situazione che ci consente di definire queste dodici famiglie, insieme con pochissime altre, anch’esse legate, quasi tutte, alla Società del Cambio, l’élite economica bolognese di età tardo-comunale.

7 I dati sulla matricola dei cambiatori sono il risultato della schedatura del Liber matricularum del 1294: ASBo, Comune, Capitano del Popolo, Libri matricularum delle società d’arti e d’armi, II, cc. 1-22 (Società del Cambio).

86

2. Le famiglie dei cambiatori

Commentando i numerosi ed importanti eventi bolognesi dell’anno 1200, momento di particolare fervore urbanistico ed istituzionale per la città, Ludovico Savioli si soffermava su alcune iniziative qualificanti e di grande impegno per gli organi di governo, e certo di portata epocale, come l’amplia-mento della piazza e la costruzione di una nuova ed adeguata sede per il podestà, ma un’attenzione non minore dedicava all’assegnazione della zecca cittadina alla cura dei consoli di Mercanzia e Cambio8. Un incarico di prestigio, quest’ul-timo, che forse mercanti e cambiatori avevano già dal 1191, dal momento cioè della prima coniazione del bolognino, e che lo storico settecentesco interpreta come segno della particolare benemerenza di quelle categorie professionali e della fama di onestà e correttezza, la «pubblica fede», di cui godevano presso l’opinione pubblica. E il Cambio più ancora della Mercatura, giacché, continua Savioli facendo propri gli enunciati dello Statuto dei cambiatori del 1245, quell’arte era in realtà una nobilis generatio, costituita «per la massima parte da gentiluomini». L’onorabilità sociale, dunque, e la specchiata onestà e correttezza amministrati-va, indispensabili per la gestione della zecca e delle attività bancarie e creditizie, sono, nell’ideologia dello storico bolo-gnese, un corollario naturale della nobiltà. Non c’è dunque da stupirsi, conclude Savioli, che si dedicassero al cambio ed alle altre attività connesse alla circolazione del denaro, «i Garisendi, gli Orsi, i Pascipoveri, i Bianchetti, i Tettalasini, ed altri di chiara stirpe», che anzi proprio attraverso quelle attività accrescevano non solo il patrimonio, ma il prestigio pubblico e la propria capacità di intervento nella vita politica: «che tanto più poterono in breve, poiché fu introdotto nella Repubblica un nuovo metodo d’amministrare»9. Le riforme istituzionali del Duecento bolognese e l’evoluzione popolare degli organi di governo non avrebbero, in sintesi, ostacolato

8 Savioli (1784-91, II/1, 241, 244-245). 9 Ibid., p. 245.

87

le ambizioni politiche delle nobili famiglie bolognesi, o al-meno di un certo numero di loro, che al contrario potevano trovare nella società dei mercanti e soprattutto in quella dei cambiatori un ambiente professionale assai congeniale, per propensione «naturale» di quelle stirpi, oltre che un formidabile strumento di affermazione sociale. Osservazio-ni interessanti, come spesso accade di incontrarne fra gli Annali del Savioli, alla luce dei dibattiti, recenti ma non solo, sulla cultura dei ceti di tradizione cavalleresca e sulla specificità delle aristocrazie comunali italiane, ma per noi in particolare interessanti per le questioni che riguardano l’origine e l’estrazione sociale delle famiglie dei cambiatori bolognesi. Per una ricerca del genere, ovviamente, la matricola del 1294 è una fonte totalmente inutilizzabile, dato che per sua stessa natura, e per la fase storica in cui si colloca, succes-siva alla legislazione antimagnatizia degli anni Ottanta, essa documenta un’appartenenza politica alla Societas Populi, che poco ha a che vedere con le origini dei diversi nuclei familiari. E del resto, la presenza di casati di nobili origini all’interno delle società popolari era un fenomeno ben noto allo stesso Savioli, che nel suo catalogo socio-politico delle famiglie bo-lognesi lo descrive come una «discesa dalla classe de’ nobili all’altra del Popolo», cui gli aristocratici si prestavano per poter essere «partecipi degli uffizj, e onor popolari»10, un processo, potremmo dire, di ignobilitazione, che coinvolse non poche «chiare stirpi»: Baciacomari, Boattieri, Clarissimi, Figliocari, Garisendi, Orsi, Pascipoveri ed altre, tutte, non a caso, ben rappresentate nella nostra matricola dei cambiatori, accanto a famiglie, invece, di schietta origine popolare, come Gozzadini, Ottovrini, Pepoli, Pizzigotti e così via. Ma anche fonti che si collocano a monte della legislazione antimagnatizia del 1282-1285, come le liste del 1271-1272, recentemente studiate da Giuliano Milani, che, parallelamente a quanto avveniva per il Popolo con le matricole societarie, definivano con estrema chiarezza classificatoria la categoria

10 Savioli (1784-91, III/1, 62).

88

sociale dei magnati, risultano, e per considerazioni analoghe a quelle proposte per la matricola del 1294, quasi del tutto inutili ai nostri scopi11. Quelle 42 famiglie, riconosciute al-l’epoca come magnatizie e quindi socialmente pericolose e da sottoporre ad un particolare controllo, sono un gruppo assai poco omogeneo dal punto di vista sociale e politico. Ne fanno parte, infatti, lignaggi di antica tradizione feudo-vassallatica e di nobiltà rurale, ed altri di più recente nobiltà cittadina; e fra questi ultimi, famiglie appartenenti all’aristocrazia consolare ed altre di origine mercantile impostesi sulla scena politica solo col regime podestarile, o addirittura dopo le riforme popolari del 1228. Tutte accomunate però da un’attitudine militare, un’irrefrenabile propensione allo scontro fisico, uno stile di vita aggressivo, accertato per pubblica fama e individuato come grave problema di ordine pubblico, da affrontare con strategie politiche e legislative complesse, ma in primo luogo con una contabilità precisa, analitica, quasi maniacale dei soggetti da controllare. Il fenomeno è oggi lumeggiato con grande ricchezza di particolari dalle ricerche di Milani, che consentono di riconoscere in questo ceto magnatizio, giuridicamente definito solo negli anni Settanta del Duecento, e socialmente così composito, tre successivi nuclei di aggregazione originaria, corrispondenti alle tre fasi di affermazione politica delle diverse famiglie12. Il primo gruppo comprende una ventina di famiglie della più antica aristocrazia consolare bolognese – Asinelli, Caccianemici, Galluzzi, Carbonesi, Lambertini, Torelli e così via –, pro-venienti dalla nobiltà rurale di tradizione feudo-vassallatica, oppure affermatesi solo nel XII secolo e direttamente nello scenario urbano; tutte accomunate, anche se le seconde, di aristocrazia cittadina, in maniera più accentuata rispetto a quelle di provenienza rurale, dalla capacità di imporre ripetutamente loro rappresentanti al consolato negli anni 1160-1194, e di mantenere anche nella prima età podestarile (1194-1228) ruoli politici di grande rilevanza, all’interno dei

11 Milani (2001, 149-154; 2003, 212-221). 12 Milani (2001, 133-145).

89

consigli cittadini e della curia comunale. Un secondo nucleo dei magnati bolognesi del 1271-1272, composto da tredici famiglie, fra cui Maccagnani, Orsi, Principi, Samaritani, Storlitti, si era imposto sulla scena politica bolognese solo nel periodo del comune podestarile. Anch’essa di compo-sizione sociale eterogenea, dato che ne fanno parte lignaggi di antica nobiltà legati da rapporti vassallatici ai Canossa, come i Maccagnani, e famiglie di estrazione mercantile, come i Principi, questa aristocrazia postconsolare aveva occupato stabilmente i ruoli di maggior rilievo nella vita politica, nelle attività diplomatiche, nell’amministrazione della giustizia, durante i decenni di passaggio fra XII e XIII secolo. Il terzo ed ultimo gruppo di magnati è quello rappresentato da otto famiglie – fra cui i Beccadini, i Curioni, i Liazari, i Mezacolora – impostesi nelle istituzioni comunali e nei consigli cittadini solo dopo la rivoluzione del 1228. Si tratta di famiglie di estrazione popolare, ben rappresentate nelle società professionali alla metà del Duecento, ma, al momento della definizione giuridica del 1271-1272, assimilate per stile di vita e pericolosità sociale al ceto magnatizio, e quindi sottoposte al controllo e all’esclusione politica degli altri magnati. È di grande interesse osservare la distribuzione sul territorio urbano dei primi due nuclei magnatizi. Quasi tutte le famiglie dell’aristocrazia consolare, 18 su 21, risie-dono all’interno della prima cerchia urbana, in cappelle di cui spesso – è il caso di Albari, Accarisi, Osellitti, Guarini, Galluzzi e altri – detengono il patronato ecclesiastico e in cui l’emergenza delle loro torri e case-torri domina sulle altre abitazioni. Direttamente sulla piazza hanno le loro case le famiglie della nobiltà feudale – Torelli, Lambertini, Lambertazzi, Boccacci –; nelle immediate vicinanze della piazza altre famiglie di primissimo piano come Galluzzi, Prendiparte, Osellitti, Guarini; a ridosso della prima cer-chia, infine, Asinelli e Carbonesi. Le famiglie della seconda aristocrazia comunale, con la sola eccezione dei Principi, insediatisi all’interno della cerchia di selenite, hanno in-vece la loro residenza nel territorio compreso fra le prime e le seconde mura urbane, in particolare nelle cappelle di

90

S. Donato, S. Marco, S. Fabiano, S. Simone, SS. Pietro e Marcellino13. Questo panorama del ceto magnatizio bolognese, rias-sunto qui in termini sin troppo sintetici dalle ricerche ben altrimenti approfondite di Milani, è di grande interesse per tentare una prima definizione sociale dei professionisti del credito attivi a Bologna nel Duecento. Non certo perché si presti a qualche riscontro prosopografico: assai prevedibil-mente, e con la sola eccezione degli Orsi, su cui dovremo tornare, è del tutto inutile cercare le grandi famiglie di cambiatori negli elenchi del 1271-1272, che sono elenchi di magnati, personaggi socialmente pericolosi e sottoposti per questo alla misura preventiva del confino; si tratta in sostanza di emarginati politici, mentre la matricola da cui deduciamo i nomi dei cambiatori fa parte, si diceva, di una sorta di anagrafe professionale dei gruppi dominanti. Al momento della redazione delle liste, quindi, della definizione giuridica del ceto magnatizio, che veniva a sovrapporsi a quella antica e non più attuale della cavalleria, invertendone però il significato di privilegio politico, le grandi famiglie di banchieri erano già da decenni saldamente arroccate all’interno della società del cambio, e da lì contribuivano ad orchestrare quelle strategie. Tuttavia, come vedremo, quelle stesse famiglie non erano, per origini sociali e per-corso politico, molto diverse dalle loro vittime, i magnati, riconosciuti ed elencati come tali, ed anzi: le stesse catego-rie socio-politiche elaborate da Milani per classificare gli sconfitti, i magnati del 1271-72, potrebbero forse essere adottate anche per un gruppo importante dei vincitori, come appunto i grandi banchieri.

Svilupperemo queste riflessioni intorno ad un gruppo non amplissimo ma rappresentativo di famiglie di cambia-tori. Alle dodici elencate all’inizio del capitolo, quelle che iscrivono ciascuna 12 o più soci alla matricola del 1294 e costituiscono anche per questo l’élite del Cambio, aggiunge-remo cinque famiglie meno presenti in quell’elenco, da uno

13 Ibid., pp. 140-142.

91

a 10 immatricolati ciascuna, ma di grande tradizione politica: Baciacomari, Garisendi, Orsi, Pascipoveri, Pegolotti. Come osservava lo stesso Milani, sulla scorta dei censi-menti di Nikolai Wandruszka14, solo un terzo delle famiglie appartenenti all’antica aristocrazia consolare bolognese era caduto nella rete della legislazione antimagnatizia, era stato cioè individuato ed inserito dal legislatore del comune popo-lare nell’elenco dei casati più potenti ed aggressivi, e quindi socialmente pericolosi: si tratta appunto del primo nucleo, 21 famiglie, degli elenchi degli anni Settanta del Duecento. Ma i due terzi delle famiglie che nei decenni fra XII e XIII secolo avevano espresso i consoli, i giudici, gli ambasciatori e le altre figure di rilievo dell’amministrazione comunale, che avevano stabilmente occupato i consigli cittadini, e che in parte continuavano ad occuparli nella seconda metà del Duecento, erano evidentemente riusciti a sfuggire, anche per quest’ultima ragione di forza, alla definizione giuridica di magnati. Il prezzo era la «discesa dalla Nobiltà al Popolo» di cui parlava Savioli, una sorta di mimetismo sociale che portava quei nobili lignaggi all’interno delle società delle arti e delle armi, a mescolarsi alle famiglie genuinamente di popolo, contendendo poi ai veri popolani la direzione di quei fondamentali centri di potere. Un mimetismo, si diceva, più che una vera mutazione genetica, che non im-plicava ad esempio la perdita definitiva della memoria delle proprie origini, piuttosto una sua temporanea velatura. Già le cronache tre-quattrocentesche, infatti, immuni ormai da pregiudiziali antimagnatizie, ed anzi alla ricerca delle più nobilitanti origini per le famiglie cittadine, si proporranno di distinguere, fra i grandi casati bolognesi, quelli dell’origina-ria aristocrazia consolare da quelle impostesi sullo scenario cittadino in epoche successive. Interpolando surrettiziamente il racconto della crociata del 1188 proposto dalla cronaca Villola, il cronista Pietro Ramponi manifesta apertamente, alla fine del Trecento, l’intento di distinguere, con precisione e coerenza, nella folla dei 2.000 crociati bolognesi, i nomi dei cavalieri, come Caccianemici, Galluzzi, Garisendi, Ramponi,

14 Wandruszka (1993, 269-279); Milani (2001, 133-135).

92

Maccagnani, Prendiparte, Torelli e così via, da quelli degli altri cittadini, notabiles anch’essi, ma privi della dignità cavalleresca15. Venuto meno, si diceva, il criterio discrimina-torio magnati/popolani, la tradizione storica locale recupera così il principio di distinzione sociale della militia, del ceto cavalleresco, cui appartengono per vocazione originaria le famiglie della più antica nobiltà comunale, ed elabora poi per la «seconda nobiltà», i Gozzadini ad esempio, e i Rodal-di, gli Artenisi, i Baciacomari ed altri, momenti costitutivi adeguati per prestigio e circostanze, ma storicamente defi-niti e quindi sottratti al mito: un passaggio di re Edoardo I d’Inghilterra, o, secondo un’altra tradizione di re Filippo il Bello di Francia, il quale nel 1273, di ritorno dalla Terra Santa, avrebbe ordinato cavalieri nei dintorni di Forlì molti cittadini bolognesi, appartenenti appunto a quelle famiglie ed impegnati nell’assedio della città romagnola. Non ci inte-ressa ora lo spessore storico o leggendario di quell’episodio, che viene sì citato dall’anonima cronaca bolognese tardo duecentesca, tramandata con il Chronicon del Cantinelli e dalla cronaca Villola, ma senza i nomi dei nuovi cavalieri, su cui invece si soffermano con voluttà i cronisti quattrocen-teschi e gli storici di età moderna16. Ci interessa piuttosto il senso di un’operazione culturale che tende a recuperare e valorizzare fisionomie sociali dissimulate durante i decenni dell’egemonia popolare, quando l’appartenenza al popolo era di per sé ragione di privilegio politico e, specularmente, l’iscrizione nelle liste magnatizie elemento di emarginazione, fisionomie rimaste però come latenti nella memoria storica di quei ceti. In quei decenni appunto, fra gli anni Settanta e i No-vanta del Duecento, la semplificazione giuridica e politica del discrimine tracciato per legge fra magnati e popolani, elencati nelle rispettive liste di appartenenza, provocava, o meglio provoca in noi lettori delle fonti, un appiattimento della stratificazione sociale nei due schieramenti. Non irrime-

15 Antonelli e Pedrini in Pietro Ramponi (2003, XXVI-XXXI). 16 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 11); Corpus chronicorum (1910-40, II, 186-187); Ghirardacci (1605-57, I, 100).

93

diabile tuttavia, come dimostrano i cronisti quattrocenteschi, che recuperano le origini cavalleresche, antiche o recenti, di alcune grandi famiglie bolognesi, e come dimostra più analiticamente lo studio di Giuliano Milani sulle famiglie dei magnati. Qualcosa del genere si può ora tentare anche per le famiglie eminenti nell’Arte del Cambio, società di popolo fra le più potenti, ma anche fra le più stratificate dal punto di vista sociale.

2.1. Famiglie dell’aristocrazia consolare

Numerosi casati della nobiltà consolare avevano evitato i rigori della legislazione antimagnatizia grazie alle loro posizioni di forza all’interno della Societas Populi, ed in particolare proprio nell’Arte del Cambio, fra le più con-geniali, osservava Savioli, allo stile di vita aristocratico. E, parallelamente, fra i gruppi familiari più attivi nel settore creditizio, solo i Mezacolora e gli Orsi, a quanto pare, era-no finiti nelle liste del 1271-127217. Sebbene di estrazione popolare e di affermazione politica relativamente recente, i Mezacolora erano stati assimilati ai più pericolosi lignaggi magnatizi e sottoposti a speciale controllo, condizione da cui non si risollevarono, almeno a giudicare dalla matricola del 1294, in cui sono totalmente assenti, a differenza degli Orsi, che sia pure con poche unità vi compaiono. Famiglie certamente ascrivibili all’aristocrazia consolare, si diceva, risultano ottimamente rappresentate nella matricola del Cambio del 1294. Ed anzi: delle diciassette famiglie di cambiatori prese in esame, almeno sette – Artenisi, Becca-delli, Garisendi, Orsi, Pegolotti, Rodaldi e Sabadini – sono a qualche titolo riconducibili a quel ceto, avendo espresso nel XII secolo e nei primissimi anni del XIII, consoli cittadini, ambasciatori, giudici e personale di curia18. Si tratta, in alcuni casi, di gruppi familiari di forte presenza nella matricola: Artenisi, Beccadelli, Rodaldi, Sabadini e Pegolotti iscrivono

17 Milani (2001, 142-145). 18 Wandruszka (1993, 309-371, 425).

94

da 10 a 25 cambiatori; le altre due famiglie registrano invece presenze numericamente meno significative: 2 immatricolati gli Orsi, uno solo i Garisendi. È di un qualche interesse, forse, mettere a confronto le ragioni dell’antico prestigio familiare, i ruoli politici ricoperti nel comune consolare, e quelle della forza rappresentata da gruppi numerosi ed influenti nel corporale dell’arte di fine Duecento. Partiamo dai casi di continuità. Gli Artenisi, che alla matricola dei cambiatori del 1294 iscrivono ben 25 soci, e i loro discendenti Beccadelli, che ne iscrivono 21, avevano ricoperto nel XII secolo ruoli politici di primissimo piano, così come i Sabadini, presenti nella matricola con 12 iscritti. Artenisi e Beccadelli si erano ripetutamente affiancati nel consolato cittadino, fra il 1165 e il 1193, ad altri grandi casati bolognesi, Accarisi, Carbonesi, Prendiparte, rico-nosciuti in seguito come magnatizi19. Nel 1193 poi, anno drammatico per la città e le sue istituzioni, celebrato dalla tradizione storica di ispirazione repubblicana, Tommaso Beccadelli e Nicolò Sabadini ed altri due esponenti di fa-miglie di cambiatori, Garisendi e Orsi, facevano parte del collegio dei consoli che si era vittoriosamente opposto alle ambizioni tiranniche del vescovo-podestà Gerardo Gisla, il che contribuiva probabilmente ad enfatizzare agli occhi della storiografia bolognese i meriti di quel gruppo professionale20. Consoli avevano espresso sulla soglia del XIII secolo anche i Rodaldi, che hanno 19 cambiatori nella matricola, mentre i Pegolotti, 10 cambiatori nel 1294, si erano qualificati in età consolare per la cultura giuridica, che consentiva loro di ricoprire ruoli significativi nella curia comunale. Per Ar-tenisi e Rodaldi, le cronache tre-quattrocentesche elaborano anche, diffondendolo poi in tutta la storiografia successiva, il nobilitante episodio della partecipazione alla crociata del 1188, al seguito del Barbarossa, sia pure nella categoria dei notabiles cives e non in quella dei milites, riservata invece ai

19 Corpus chronicorum (1910-40, II, 37); Ghirardacci (1605-57, I, 102); Savioli (1784-91, I/1, 354); Wandruszka (1993, tav. 32). 20 Ghirardacci (1605-57, I, 102); Savioli (1784-91, II/1, 186); Wandru-szka (1993, 274).

95

loro colleghi Garisendi21. Anche nei primi decenni del Due-cento, nel nuovo sistema di governo podestarile, esponenti di queste famiglie occupano posizioni di rilievo, in particolare nelle attività diplomatiche. Così Rolandino Artenisi, che a Reggio accoglie, nel 1219, la rinnovata promessa di alleanza dei reggiani; così soprattutto i Rodaldi, che esprimono con Ubertino un autorevole ambasciatore, impegnato in ripe-tute missioni fra il 1211 e il 1213, con Matteo un giudice comunale attivo nel 1219, e con Zaccaria un procuratore del comune. I Pegolotti, intanto, nello stesso 1219, continuano con Buongiacomo la loro tradizione di giudici e consulenti delle istituzioni di governo22. E passiamo, con i Garisendi, cui possiamo affiancare gli Orsi, ai casi di discontinuità; alle famiglie, cioè, di primo piano nell’aristocrazia consolare, meno presenti invece alla fine del Duecento nella matricola del Cambio. Occorre peraltro ricordare che i Garisendi, il cui ruolo nella vita politica bolognese di età comunale è stato recentemente oggetto di ricerche approfondite e documentate, erano at-tivamente presenti negli stessi anni della nostra matricola in altre società d’arte, come quella dei Mercanti e dei Bisilieri, mentre gli Orsi risentivano ancora, probabilmente, nel 1294, dell’inserimento nelle liste magnatizie di vent’anni prima23. In proficuo rapporto di collaborazione con il monastero di S. Stefano, ed in rapporto dialettico e talvolta conflittuale con i vescovi cittadini, i Garisendi si affacciano sulla scena pubblica già verso la metà del XII secolo, con Pietro e con il nipote Orso, occupando poi ripetutamente il consolato, con Orso stesso e con il figlio Pietro, fra il 1157 e gli anni Settanta del secolo, e segnalandosi per le loro scelte politiche coerentemente antimperiali. Nei decenni successivi alla pace di Costanza e nel periodo di passaggio dal sistema consolare a quello podestarile, i Garisendi continuano ad essere attivi nella vita delle istituzioni comunali, con Tibertino, miles

21 Corpus chronicorum (1910-40, II, 51); Ghirardacci (1605-57, I, 100). 22 Savioli (1784-91, II/1, 19, 317, 319, 386, 389). 23 Sui Garisendi si può vedere ora Antonelli e Pedrini (2000, 23-55).

96

iustitiae, e con Isnardo, Riccardino ed Enrichetto, che rap-presentano frequentemente la città in importanti accordi e trattative diplomatiche. Si affiancano spesso ai Garisendi, e possiamo a pieno titolo considerarli esponenti della stessa aristocrazia consolare, gli Orsi, a lungo identificati erro-neamente con i «de Urso», errore peraltro già segnalato dal Savioli, ma perpetuato ancora dell’editore del Corpus chronicorum Bononiensium24. A portare la famiglia alla ribal-ta della scena politica è Guidotto di Gerardo, console nel 1180 in un collegio che annovera esponenti delle famiglie Carbonesi, Guarini, Lambertini, ma soprattutto protagonista del conflitto politico-istituzionale e militare che contrappo-se, nel 1193, il collegio dei dodici consoli, di cui Guidotto faceva parte, alle forze che sostenevano il vescovo-podestà Gerardo, fra cui appunto Giacomo di Alberto «de Urso». Lo stesso Guidotto poi, sedate le ambizioni del vescovo, partecipa l’anno successivo alle trattative con Ferrara, che risolvono annose questioni commerciali25. Nei primi anni del nuovo secolo, la famiglia Orsi mantiene posizioni di rilievo soprattutto grazie ad una forte presenza nelle attività diplomatiche del comune: Angelello e Orsolino conducono, nel 1211, delicate missioni a Pistoia e Modena, risolvendo, con esiti interlocutori in verità, problemi di confine e di controllo territoriale dell’alto Appennino; nel 1214 Misotto Orsi riceve a Reggio, per conto del comune bolognese, la promessa di fedeltà del podestà reggiano Isacco da Dovara. Ancora negli anni Venti, Angelello e Orsolino ricoprono in-carichi politici e diplomatici rilevanti, il secondo soprattutto, che fra il 1222 e il 1227 è giudice comunale e podestà della montagna, e nel 1227 accompagna il podestà bolognese all’incontro di Verona, cui convengono tutti i podestà della lega antifedericiana26.

24 Savioli (1784-91, II/1, 193); Corpus chronicorum (1910-40, II, 755). 25 Savioli (1784-91, II/1, 198). 26 Ibid., pp. 318-319, 342, 364, 398.

97

2.2. Famiglie dell’aristocrazia postconsolare e famiglie «di popolo»

Nel periodo del comune podestarile, e ancor più dopo la rivoluzione del 1228, nel sistema del comune di popolo che si consolida dalla metà del secolo in nuovi organi istituzionali – Capitano del Popolo, Consiglio del Popolo, Consiglio degli Anziani e Consoli –, queste sette famiglie (Artenisi, Becca-delli, Garisendi, Orsi, Pegolotti, Rodaldi, Sabadini), di antica tradizione aristocratica ma ormai saldamente radicate nelle strutture associative popolari, mantengono le loro posizioni, reggono la concorrenza professionale e politica con le famiglie del nuovo patriziato urbano, di cui parleremo tra poco, e riescono anche ad evitare, tutte tranne gli Orsi, la definizione di magnati che colpiva, con gravi conseguenze giuridiche e politiche, famiglie, si diceva, ad esse perfettamente assimila-bili sul piano sociale. E tutto questo senza rinunciare, come del resto nemmeno facevano alcune famiglie di più recente prestigio, alle manifestazioni più tipiche della cultura e del-la mentalità aristocratiche, si trattasse, come vedremo, di innocue esibizioni di abilità cavalleresche o dell’espressione violenta di una insopprimibile faziosità. E tuttavia da quegli importanti rivolgimenti politici e isti-tuzionali, i gruppi dirigenti bolognesi escono profondamente modificati: alle famiglie dell’aristocrazia consolare se ne af-fiancano molte altre, del tutto assenti, fino agli anni Venti del Duecento, dalla scena politica ed emergenti dal mondo della produzione e dei commerci, ma soprattutto dagli ambienti del credito. Tutte le famiglie più rappresentate nella Matricola del Cambio del 1294 occupano, già cinquanta o sessant’anni prima di quella data, ruoli significativi nella vita politica e nelle istituzioni bolognesi, ma un buon numero di loro esce allo scoperto proprio fra terzo e quarto decennio del secolo, affiancandosi a quelle sette famiglie di cambiatori, che, con qualche libertà, abbiamo attribuito alla nobiltà consolare. Si tratta di una decina di famiglie che, continuando ad utilizzare le categorie adottate da Milani per classificare i magnati, potremmo definire di aristocrazia postconsolare, in alcuni casi, ed in altri di vera e propria aristocrazia «popolare». Al

98

primo gruppo attribuiremo, ovviamente, i gruppi familiari già presenti, in qualche modo, sulla scena pubblica, prima del 1228, ma comunque dopo la fine dell’età consolare, al secondo quelli che sembrano affermarsi solo dopo quella data e nel nuovo clima politico «popolare». Si tratta, gioverà ricor-darlo, di un esercizio classificatorio, che può avere qualche utilità per interpretare le dinamiche dell’entrata in scena dei nostri interpreti, i banchieri bolognesi, e per dare qualche contributo al tema complesso della loro provenienza sociale, ma in effetti è una prospettiva, questa, che abbandoneremo subito, dato che le diverse origini familiari e le esperienze più o meno remote che gli uni e gli altri potevano vantare, non sembrano influire granché, come vedremo presto, sulle scelte strategiche in campo professionale e politico dei nostri cambiatori. Comunque sia, possiamo attribuire all’aristocrazia postconsolare famiglie come i Baciacomari, gli Zovenzoni, i Pascipoveri, attive, soprattutto quest’ultima, nella vita delle istituzioni e titolari di incarichi pubblici di prestigio nel primo ventennio del Duecento. Sono invece a pieno titolo famiglie «di popolo» le altre sette – Cacitti (o Cazzetti), Gozzadini, Pepoli, Poeti, Rossi, Soldaderi e Tettalasini –, che fanno irruzione nel ceto dirigente del comune bolognese solo dopo il 1228, ma rapidamente conquistano, come vedremo, posizioni di grande rilevanza politica. I Baciacomari, che alla matricola del 1294 iscrivono 2 soli cambiatori, avevano forse ricoperto qualche ruolo nella curia già in età consolare, partecipando ad esempio nel 1179 agli acquisti per l’ampliamento della sede comunale, ma le fonti sono in proposito piuttosto incerte27. Compaiono con frequenza invece, con attitudini aggressive tipiche del ceto magnatizio, nelle turbolenze e negli scontri di fazione degli anni Venti e Trenta, e prevalentemente con questi connotati li descrive la tradizione storica locale, anche se non mancano episodi che testimoniano ruoli di un certo rilievo ricoperti, ad esempio nel 1248 da Zaccaria Baciacomari, nelle attività diplomatiche del comune28.

27 Ibid., p. 93. 28 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 6); Corpus chronicorum (1910-40, II, 90, 164); Savioli (1784-91, III/1, 30, 107, 213, 218, 249).

99

Di tutt’altro tenore è la tradizione familiare dei Pascipove-ri, presenti con 4 cambiatori nella matricola del 1294. Il loro esordio nella vita pubblica viene preceduto nelle cronache bolognesi, a mo’ di proemio, dalla descrizione delle virtù e della reputazione dell’eponimo Pascipovero, la cui morte nel 1198 provocava lutto e costernazione in città29. L’esempio virtuoso dell’avo si imprime, nella storiografia cittadina, sull’agire pubblico dei suoi discendenti, presenti ai massimi livelli nelle attività giudiziarie e diplomatiche dal 1203, inin-terrottamente, fino alla metà del secolo ed oltre30. Un secondo Pascipovero è ripetutamente giudice comunale dal 1203 al 1214; Federigo Pascipoveri conduce trattative complesse e delicatissime in Romagna nel 1214 e nel 1222, rappresenta la città alle riunioni della lega lombarda nel 1226, coordina le trattative con i modenesi sulla questione del Frignano nel 1249, e soprattutto, dopo essere stato giudice e consulente del podestà di Bergamo Raimondo dei Capitani di Sclave nel 1212, è chiamato alla podesteria di quella città nel 1230 e ancora nel 1233, e a quella di Osimo nel 123231. Ma il prestigio più limpido della famiglia proviene probabilmente dai suoi rapporti con lo Studio bolognese, non solo per la fama di grande cultura giuridica di cui godevano, verso la metà del secolo, Federigo e Pascipovero, ma per i meriti che Federigo stesso aveva acquisito agli occhi di tutto il mondo universitario, difendendo con successo, in un’ambasceria condotta nel 1220 con Ugolino Presbiteri alla corte di papa Onorio III, i diritti e le immunità dello Studio, minacciati allora dalle ambizioni di controllo del comune. L’ultima famiglia di cambiatori dell’aristocrazia po-stconsolare, gli Zovenzoni, presenta esordi meno brillanti, che non limitano però la sua crescita, almeno nell’ambito professionale, dato che alla matricola del 1294 gli Zovenzoni costituiscono, con 33 iscritti, uno dei gruppi più numerosi.

29 Corpus chronicorum (1910-40, II, 60); Ghirardacci (1605-57, I, 106). 30 Savioli (1784-91, II/1, 342, 345, 365, 396; III/1, 11, 37, 88, 96, 100, 261, 455). 31 Sulla carriera di Federico, oltre alle notizie riportate dal Savioli, si può vedere ora Maire Vigueur (2000, I, 119, 124).

100

Il primo personaggio di rilievo è probabilmente Balduino Zovenzoni, che nel 1222 conduce le trattative con i ribelli imolesi, elaborando, con esponenti delle famiglie Pascipo-veri e Carbonesi, le condizioni di resa da imporre loro32. Particolarmente abile, forse, in questo genere di missioni diplomatiche, Balduino è chiamato ancora, nel 1241, a sovrintendere allo scambio di prigionieri fra bolognesi e modenesi, al termine dello scontro militare avvenuto presso Bazzano. Parrebbe questa una vera vocazione di famiglia, dato che nei decenni successivi Giunta Zovenzoni, all’interno del Consiglio degli Anziani e Consoli, continuerà ad occuparsi dei problemi connessi all’amministrazione carceraria33. Dopo il 1228, nuove famiglie, si diceva, irrompono sulla scena: il ceto dirigente del comune bolognese assume in quegli anni una fisionomia che si manterrà poi relativamente stabile per tutto il Duecento, arricchendosi del contributo di gruppi provenienti direttamente dal popolo delle arti, nel nostro caso dal Cambio, e fino ad allora estranei alle dina-miche della politica e agli ambienti di governo. Seguiamo gli esordi e i primi passi di queste famiglie nella vita pubblica, diciamo fino alla metà del Duecento, dato che nei decenni seguenti cambiatori provenienti dall’antica aristocrazia con-solare e cambiatori di schietta origine popolare si affiancano e si scontrano negli uffici comunali, si azzuffano talvolta nelle strade cittadine, senza alcun riguardo alle rispettive ori gini. Le famiglie di quest’ultimo gruppo, l’aristocrazia popolare del Cambio, costituita da Cacitti, Gozzadini, Pepoli, Poeti, Rossi, Soldaderi e Tettalasini, fanno quasi contemporanea-mente la loro prima comparsa sulla scena pubblica intorno al 1245 e verso il 1260 sono tutte saldamente inserite nel ceto dirigente del comune, affiancandosi alle famiglie di più antico prestigio e dando corpo a quella che per alcuni decenni sarà una vera egemonia mercantile e creditizia all’interno delle istituzioni. Quegli esordi sono preceduti in realtà, nella

32 Savioli (1784-91, III/1, 11, 170). 33 Ghirardacci (1605-57, I, 218).

101

prima metà del Duecento, da alcuni episodi significativi, ma troppo isolati per esprimere una tendenza, oppure talmente esemplari da mascherare probabili elaborazioni letterarie di tradizioni familiari. Nel primo caso rientra il contributo di Tommasino Rossi alla missione diplomatica condotta nel 1211 da Orsino Orsi a Modena, Reggio e Parma, per ottenere aiuti contro i ribelli della montagna34. Un legittimo sospetto di manipolazione encomiastica suscitano invece numerosi episodi nobilitanti, tramandati dalla tradizione storica cittadina a proposito dei Gozzadini, le cui precoci ambizioni cavalleresche, coronate nelle cronache dal citato passaggio di re Edoardo I nel 1273, o di Filippo il Bello nel 1271, sono testimoniate con grande evidenza già dalle scelte onomastiche. Così Prencivalle Gozzadini, che avrebbe parte-cipato, con esponenti delle maggiori famiglie aristocratiche bolognesi, alla crociata del 1217; così Lanzalotto Gozzadini, caduto eroicamente alla battaglia di Cortenuova nel 1237; per non dire dell’avo Testa Gozzadini, ricordato già dalle cronache tre-quattrocentesche fra i crociati del 118835. A parte queste premesse più o meno leggendarie, i Gozzadini, che nella Matricola del Cambio del 1294 sono il gruppo familiare più numeroso, con 35 iscritti, compaiono con una certa frequenza e in ruoli di rilievo nella vita pub-blica a partire dal 1245, quando Amadore è capitano della montagna36. Negli anni seguenti Amadore stesso e Giuliano Gozzadini portano a termine con successo importanti am-bascerie a Modena, nel 1250, e ad Imola, nel 1254, dove Amadore ottiene il rientro degli estrinseci Mendoli. Sempre nel 1254 Amadore rappresenta autorevolmente la città al parlamento di Ravenna, affiancando nella missione esponenti dell’antica nobiltà bolognese, come Carbonesi e Prendiparte37. Nel 1252, intanto, un altro membro della famiglia, destina-to ad una brillante carriera diplomatica, Napoleone, aveva

34 Savioli (1784-91, II, 318-319). 35 Corpus chronicorum (1910-40, II, 51); Ghirardacci (1605-57, II, 100, 121, 159). 36 Savioli (1784-91, III/1, 193). 37 Ibid., pp. 275, 282.

102

ottenuto l’appalto dei dazi del contado imolese, e, a tutela degli interessi economici derivanti da quell’incarico, e da altri dello stesso genere ricoperti negli anni seguenti da Amadore e Napoleone, ma anche a dimostrazione dell’autorevolezza ormai acquisita dalla famiglia, intervengono gli Statuti co-munali del 1252 e quelli del 125938. Carriera brillantissima, ma tragicamente interrotta, ebbe anche Benno Gozzadini: prima giudice nella curia del podestà Alberto Caccianemici, poi, nel 1257, podestà egli stesso di Milano, Benno provocò, con una gravosa riforma fiscale, l’ostilità dei milanesi che lo sottoposero ad un severo sindacato, condannandolo poi ad una sanzione pecuniaria gravosissima, alla cui insolvenza seguì l’esecuzione sommaria dell’incauto amministratore39. Ne derivarono gravi conseguenze diplomatiche, con reciproche rappresaglie fra le due città, risolte solo nel 1298 da un lodo del podestà bolognese Ottolino da Mandello. Dai primi anni Sessanta si intensificano ulteriormente le testimonianze sui ruoli politici dei Gozzadini, a partire dall’ambasceria condotta da Napoleone a Roma, per ottenere dal pontefice, nel 1260, la liberazione degli ostaggi bolognesi, imprigionati in seguito alla sommossa contro il senatore Castellano Andalò, e dalla podesteria di Bagnacavallo, felicemente portata a termine da Doncevalle nel 1261, con la pacificazione delle fazioni in lotta40. Ma agli scontri di fazione, come vedremo, i Gozzadini stessi, come tutte le principali famiglie bolognesi, pagavano in quegli anni prezzi assai elevati. Vicende fra loro parallele vivono, per alcuni decenni, Pepoli e Tettalasini: famiglie ben rappresentate, entrambe, nella matricola del 1294 – 13 cambiatori i Pepoli, ben 23 i Tettalasini – avevano attraversato tutto il Duecento su opposti schieramenti, ed erano state spesso in conflitto fra loro. La storiografia bolognese tendeva anzi ad arretrare al 1202 l’origine di quella inimicizia, attribuendola all’omicidio

38 Statuti del comune (1869-77, I, 516; II, 120). 39 Savioli (1784-91, III/1, 316); Gozzadini (1980, 309); si veda anche la voce biografica di Tamba (2002a, 188-189). 40 Ghirardacci (1605-57, I, 201); Savioli (1784-91, III/1, 341, 349).

103

di Guido Pepoli da parte di Giovanni Tettalasini41. Il che offriva un congruo spessore cronologico a quello scontro, allineandolo a quelli interni all’antica aristocrazia bolognese – Torelli-Andalò, Galluzzi-Carbonesi, Lambertini-Scannabec-chi... – ed offrendo così anche questa patente di nobiltà alle due famiglie, che come le altre si sarebbero pacificate solo nel 1244, concludendo matrimoni fra di loro, grazie all’ef-ficace predicazione del domenicano Giovanni da Vicenza42. Vedremo tra poco come tutte queste tradizioni storiografiche siano in realtà frutto di fantasia, talvolta strumentali elabo-razioni mitopoietiche. È invece ampiamente documentata, dalla metà del secolo, la comune e intensa partecipazione di Pepoli e Tettalasini alle attività di governo; talvolta, anzi, essi collaborano negli stessi uffici, commissioni, ambascerie. Nel 1249 Bartolomeo Tettalasini si trova al fianco dei Pepoli e di altre famiglie di banchieri, Lamandini e Rodaldi ad esempio, ma anche di altre di più antica nobiltà, Caccianemici, Asi-nelli, Galluzzi e così via, nella rappresentanza bolognese che stipula con i rappresentanti di Modena un trattato di pace che pone provvisoriamente fine ai conflitti per il controllo del Frignano43. Nella seconda metà degli anni Cinquanta poi, Azzolino Tettalasini è ripetutamente fra gli statutieri del comune e membro del Consiglio degli Anziani e Consoli; ma soprattutto collabora con Ugolino Pepoli e altri esponenti di famiglie creditizie nella commissione di 24 sapienti che nel 1257, nominata dal Consiglio del Popolo, riforma gli statuti cittadini in materia di ordine pubblico44. All’apice della sua carriera, eletto console del Cambio nel 1258, Azzolino col-labora poi attivamente a far approvare dal consiglio quella nuova normativa. Negli stessi anni, Ugolino ed altri membri della famiglia Pepoli – Filippo, Zoene, Zerra – occupano in-carichi analoghi. Ugolino in particolare, dopo aver fatto parte

41 Corpus chronicorum (1910-40, II, 117); Ghirardacci (1605-57, I, 108). 42 Ibid., p. 165. 43 Ibid., p. 178. 44 Statuti del comune (1869-77, I, 477; III, 224); Ghirardacci (1605-57, I, 194).

104

della commissione dei «24 savi» del 1257, è anch’egli eletto al consolato del Cambio nel 1259, e in quel ruolo coordina una commissione, in cui compare anche Zerra Pepoli, che indaga sulle illegalità commesse negli anni precedenti nel settore annonario45. Di un’altra commissione, detta dei «34 savi» e dotata di poteri straordinari in materia di ordine pubblico, fa parte invece nel 1256 Zoene Pepoli, designato a quell’incarico dalle Società di Mercanzia e Cambio46. Nettamente più decentrate, a queste date, le posizioni delle altre quattro famiglie del gruppo: Cacitti, Poeti, Rossi, Soldaderi, tutte ben rappresentate, da 13 a 17 iscritti, nella Matricola del 1294, ma di cui quasi nulla affiora nelle fonti della prima metà del secolo. Dopo l’importante incarico diplomatico, già ricordato, portato a termine nel 1211 da Tommasino Rossi, un altro esponente della famiglia, Petrizolo, si affianca a Ugolino e Zerra Pepoli, a Domenico Poeti e ad altri cambiatori – Lamandini, Angelelli ed altri –, nella citata commissione d’inchiesta del 1259. Nessuna testimonianza invece sui Soldaderi, ed una sola, ma interessante, sulla famiglia Cacitti nella prima metà del Duecento. La notizia riguarda l’intervento di Lorenzo Cacitti a sostegno degli Aigoni di Modena, per i quali nel 1248 il banchiere bolo-gnese paga la cauzione necessaria per conservare il controllo del castello di Savignano, il che pare inserire precocemente questa famiglia, che negli anni Sessanta occuperà posizioni di rilievo fra gli Anziani e Consoli, nelle complesse dinamiche di politica estera che avranno un ruolo decisivo nella fase più aspra delle lotte di fazione47.

3. I cambiatori nella vita politica e negli scontri di fazione (1250-1279)

Le differenti origini all’interno del gruppo di famiglie che stiamo seguendo, i diversi spessori cronologici delle loro

45 Statuti del comune (1869-77, III, 224, 464). 46 Ibid., p. 224; Savioli (1784-91, III/1, 304). 47 Savioli (1784-91, III/1, 218).

105

rispettive esperienze di governo, ma anche alcuni aspetti delle loro differenti culture, mentalità, fisionomie sociali, sfuma-no progressivamente e rapidamente nella seconda metà del Duecento, lasciando ai nostri occhi l’immagine di un gruppo sociale e professionale, l’élite del cambio, economicamente forte e politicamente agguerrito; un gruppo tutt’altro che unito al suo interno, attraversato al contrario da feroci e interminabili inimicizie, ma piuttosto omogeneo nella capa-cità di mescolare una cultura professionale e una mentalità economica, se non all’avanguardia certo ben strutturate, con uno stile di vita che pare talvolta ispirato a modelli aristocratici. Dopo le riforme istituzionali di metà secolo, nei nuovi centri di potere del comune di popolo, famiglie di antica nobiltà e famiglie di recente affermazione agisco-no fianco a fianco: Artenisi e Beccadelli, Sabadini e Orsi, Rodaldi e Garisendi collaborano con Gozzadini e Pepoli, con Tettalasini e Zovenzoni, con Poeti e Cacitti, all’interno degli organi direttivi del Cambio, nel Consiglio degli Anziani e Consoli, nelle varie e potentissime balìe di sapienti volta a volta istituite. Ben presto sarà difficile distinguere gli uni dagli altri, sia nell’agire politico e professionale, sia per lo stile di vita e l’immagine pubblica. Qualche esempio basterà in proposito, tratto da una tradizione storiografica che si fa sempre più ricca e documentata, man mano che si avanza verso la fine del secolo.

3.1. Ruoli politici

Alcune delle nostre famiglie sembrano specializzarsi in questi anni in settori particolari della vita politica. Così i Gozzadini che alle podesterie in città romagnole di Bran-deligi e Doncevalle, tenute fra il 1261 e il 1272, affiancano prevalentemente attività diplomatiche, anche di notevole impegno e delicatezza, come quelle già citate di Amadore del 1254 e Napoleone (1260), e mettono in campo talvolta queste capacità di mediazione anche nella turbolenza delle lotte di fazione, come sembra fare Testa Gozzadini nel

106

127448. Quasi esclusivamente in ambascerie e missioni di-plomatiche troviamo impegnati anche i Garisendi, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo, e i Pascipoveri, che con Federico e Pascipovero sono protagonisti, prima, negli anni 1249-1250, delle trattative con i modenesi in merito alla delicatissima questione del Frignano, poi, negli anni Settanta, nei complessi equilibri dei rapporti fra Estensi e corte papale49. Alle capacità militari invece devono preva-lentemente il loro prestigio Artenisi, Beccadelli e Baciaco-mari. I primi avevano riportato brillanti successi sul campo, grazie ad Albertino Artenisi che, nel 1254, aveva felicemen-te guidato l’esercito bolognese nella spedizione contro Cervia, ma dimostravano anche capacità organizzative, nella commissione incaricata di amministrare i fortilizi, di cui faceva parte nel 1273 Giacomo Artenisi50. Da questi punti di forza, e dal consolato del Cambio, ottenuto nel 1259 da Artenisio Artenisi51, traggono slancio le brillanti carriere politiche di Rizzardo, podestà di Bagnacavallo nel 1266 e capitano del popolo di Faenza nel 1274, e di Bec-cadello, podestà di Faenza per la parte geremea nel 1273, affiancato per la parte lambertazza da Misotto Orsi52. Una lunga e vivacissima tradizione di rissosità, tipicamente ari-stocratica, potevano invece vantare Beccadelli e Baciaco-mari, che tuttavia seppero anche mettere questa vocazione al servizio dell’esercito cittadino, guidando ad esempio, con Bonacossa Baciacomari, la cavalleria bolognese nei lunghi combattimenti affrontati nel 1271 sulla riva orientale del Panaro, oppure combattendo valorosamente, come Barto-lomeo Baciacomari e Iacobino Beccadelli, caduti con tanti altri concittadini, nobili e popolani, nel 1275 alla battaglia

48 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 8); Corpus chronicorum (1910-40, II, 187); Ghirardacci (1605-57, I, 217, 225); Savioli (1784-91, III/1, 358, 367, 394, 449, 462). 49 Ghirardacci (1605-57, I, 177-178); Savioli (1784-91, III/1, 261, 265, 278, 341, 455). 50 Ghirardacci (1605-57, I, 221); Savioli (1784-91, III/1, 276-277). 51 Statuti del comune (1869-77, III, 495). 52 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 15); Savioli (1784-91, III/1, 398, 472, 479).

107

di S. Procolo, presso Faenza53. Al prestigio militare, i Ba-ciacomari potevano affiancare quello derivante dagli inca-richi politici ricoperti dallo stesso Bartolomeo, podestà di Ravenna nel 1258, e da Iacopo, console di giustizia nel 126054, ma soprattutto dalla carriera universitaria di Bacia-comare, di cui parleremo tra poco. Un interesse più distribuito fra i diversi settori della vita pubblica – missioni diplomatiche, attività militari, incarichi politico-amministrativi –, dimostrano le altre famiglie (Pe-golotti, Pepoli, Orsi, Rodaldi, Sabadini, Tettalasini, Zoven-zoni), tutte accomunate da una presenza costante ai vertici della Società del Cambio, il consolato, in cui si alternano i Pegolotti, con Rolandino, nel 1248, i Sabadini nel 1256, i Pepoli nel 1259 e 1265, i Tettalasini nel 1258 e 1265 e così via55. Famiglie, queste, che, oltre a controllare direttamente la potente società dei cambiatori, riescono ad inserire propri esponenti in diversi uffici e magistrature, sia a Bologna che in città alleate. Più o meno negli stessi anni in cui sono consoli del Cambio, Ugolino e Filippo Pepoli compiono anche im-portanti ambascerie a Ravenna e Ferrara56, mentre lo stesso Ugolino e Zoene Pepoli fanno parte fra il 1256 e il 1257 delle commissioni dei 24 e dei 34 «savi», dotate di poteri straordinari e incaricate di redigere i nuovi statuti in materia di ordine pubblico, e Zoene, ancora nel 1272, coordina come «soprastante alle biade» le attività di approvvigionamento annonario57. Un ruolo del tutto straordinario poi, sul quale dovremo tornare più approfonditamente perché centrale in questa ricerca, è quello che i Pepoli stessi si attribuiscono, insieme con Artenisi e Zovenzoni, finanziando direttamente nel 1270 la sfortunata spedizione militare contro Venezia, durante la guerra per il controllo del Po di Primaro58. Una

53 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 12); Ghirardacci (1605-57, I, 228); Savioli (1784-91, III/1, 446). 54 Savioli (1784-91, III/1, 323, 346). 55 Statuti del comune (1869-77, III, 224, 352, 454, 464, 484, 635). 56 Savioli (1784-91, III/1, 277, 282, 442). 57 Statuti del comune (1869-77, III, 224, 464); Savioli (1784-91, III/1, 462). 58 Savioli (1784-91, III/1, 432).

108

vicenda per certi versi, e fino ad un certo momento, parallela è quella dei Tettalasini, che come vedremo finiranno poi per essere stritolati nella morsa creditizia dei Pepoli. Dall’arte dei mercanti, di cui occupavano con Bongiovanni il consolato nel 121859, i Tettalasini passano a quella del Cambio, conqui-stando anche qui ben presto posizioni di prestigio, fino ad esserne consoli nel 1258 con Azzolino e con Uguccione nel 126560. Come i colleghi Pepoli, Azzolino Tettalasini è pre-sente ripetutamente negli anni 1256-1259 nelle commissioni statutarie che riformano la normativa cittadina61, e nel 1257 è anche fra gli Anziani e Consoli62, mentre Uguccione dalla nomina ai vertici del Cambio del 1265 trae slancio per una brillante carriera politico-militare, bruscamente interrotta, come quelle di tanti lambertazzi, con l’esilio del 1279: capi-tano del popolo di Orvieto nel 1272 e podestà di Faenza nel 1274, Uguccione era stato anche uno dei «savi» della balìa di guerra che nel 1272 aveva imposto al podestà bolognese l’allestimento dell’esercito per la spedizione contro Modena, poi non portata a termine e all’origine delle lotte civili del 127463. Ruoli di rilievo aveva ricoperto nella famiglia anche un secondo Bongiovanni, podestà di Bagnacavallo nel 1262 e, dieci anni dopo, eletto dagli Anziani e Consoli fra i sei sapienti incaricati della tutela dell’ordine pubblico per il quartiere di Porta Procola64. Tradizioni politico-militari significative, ma declinanti nella seconda metà del secolo caratterizzano i Rodaldi, che pure manterranno posizioni forti nella matricola del 1294, iscrivendovi 19 cambiatori. Certo, i ruoli di primissimo piano ricoperti nell’esercito bolognese e nelle attività diplomatiche, gli incarichi giudiziari e le podesterie occupate da esponenti di questa famiglia negli anni Trenta e Quaranta, sono poco

59 Ibid., II/1, p. 376. 60 Statuti del comune (1869-77, III, 454, 635). 61 Ibid., I, p. 477; III, pp. 224, 454. 62 Ghirardacci (1605-57, I, 194). 63 Statuti del comune (1869-77, III, 454, 635); Petri Cantinelli Chroni-con (1902, 16, 32, 39); Savioli (1784-91, III/1, 334, 352, 456, 461, 479, 481). 64 Savioli (1784-91, III/1, 364); Ghirardacci (1605-57, I, 221).

109

più che titoli di prestigio nei decenni successivi; e tuttavia consentono ai Rodaldi di mantenere una presenza di qual-che peso nella legislazione statutaria degli anni Cinquanta65. Ruoli più marginali, più in ombra rispetto a quelli di Pepoli e Tettalasini e, come vedremo tra breve, Orsi, ricoprono anche Pegolotti, Zovenzoni e Sabadini. Questi ultimi tuttavia possono vantare un titolo di alto prestigio politico, collegato ad uno dei momenti di più intenso significato ideologico nella storia del comune bolognese: la liberazione dei servi del 1256-1257 e, nel 1257, la redazione del Registro Nuovo del comune. In entrambe le operazioni svolge infatti un ruolo significativo Albertuccio Sabadini, che, come console del cambio, partecipa nel giugno-luglio 1256 alla contrattazione sui servi con il consorzio dei proprietari, giungendo infine a stabilire in 10 lire per i maggiori di 14 anni e 8 lire per i minori il loro prezzo concordato: operazione complessa e de-licata, indispensabile nel lungo cammino della manumissione collettiva del 125766. In quello stesso anno poi, Albertuccio è fra i quattro curatori della compilazione del nuovo cartulario comunale, il Registro Nuovo appunto, unico rappresentante di una famiglia bancaria in una commissione che comprende un esponente dell’antica aristocrazia consolare, Lambertino Lambertazzi, e due figure di rilievo della cultura giuridica bolognese, Guizzardino Buvalelli e Giuliano dell’Aposa67. Ancora nel 1273 del resto, sulle soglie della guerra civile, i Sabadini offrono, con Rodolfo, un procuratore all’ammini-strazione finanziaria del comune68. Eredi di una tradizione giuridica e amministrativa rispettabile erano anche i Pego-lotti, che la rinnovano negli anni Cinquanta con Rolandino, già console del Cambio nel 1248, e redattore in quell’anno degli ordinamenti popolari poi accolti negli statuti cittadini del 1250, presente poi nelle già citate commissioni statutarie dei 34 e dei 24 «savi», nominate dal Consiglio del Popolo nel 1256 e nel 125769. A Sabadini e Pegolotti possiamo ac-

65 Statuti del comune (1869-77, II, 514-515, 581). 66 Ibid., III, p. 352. 67 Savioli (1784-91, III/1, 314). 68 Ibid., p. 474. 69 Statuti del comune (1869-77, III, 381, 415).

110

costare, per il peso politico espresso in questi decenni, gli Zovenzoni: una presenza discreta, ma costante, nel Consiglio degli Anziani e Consoli, con Giunta, fra il 1260 e il 127070, e con Geminiano nella commissione di sapienti che nel 1272, l’abbiamo già visto, accoglieva anche Bongiovanni Tettalasi-ni71. Un incarico, quest’ultimo, a tutela dell’ordine pubblico, che avrebbe dovuto accomunare le due famiglie da tempo rivali, ma che non impedì loro di azzuffarsi nuovamente e sanguinosamente, di lì a poco, nelle strade e nelle piazze cittadine72. Anche gli Zovenzoni del resto, ereditavano an-tiche tradizioni militari che connotavano pericolosamente il loro agire pubblico, quando non si indirizzavano alla difesa della città, come nel caso di Cevenino, caduto anch’egli nella rovinosa battaglia di Faenza del 127573. Una presenza di grande intensità nelle istituzioni cit-tadine, paragonabile a quella dei Pepoli e dei Tettalasini, caratterizza la famiglia Orsi, certo la più tenace, fra quelle dei cambiatori dell’antica nobiltà consolare (oltre a loro: Artenisi, Beccadelli, Sabadini, Garisendi, Pegolotti, Rodaldi) e di quella postconsolare (Baciacomari, Zovenzoni, Pascipo-veri), nel conservare ben oltre la metà del secolo posizioni politiche di primo piano; forse anche per questo inserita, unica fra le famiglie rappresentate nell’arte del Cambio, negli elenchi dei magnati del 1271. Dopo aver dato prova, fra il 1211 e il 1250, di grandi capacità di mediazione in tutti i principali scenari diplomatici in cui la città era coinvolta, ed aver ricoperto con Orsolino il ruolo di podestà della montagna negli anni Venti e Trenta74, e potendo vantare anche, con Michele, la gloria della cattura di re Enzo alla battaglia della Fossalta del 124975, gli Orsi rinnovano quelli ed altri ruoli di prestigio nella seconda metà del Duecento: in campo militare, guidando con Benvenuto, sia pure senza

70 Ibid., p. 484; Ghirardacci (1605-57, I, 218). 71 Ghirardacci (1605-57, I, 220). 72 Savioli (1784-91, III/1, 481). 73 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 21). 74 Savioli (1784-91, III/1, 15, 46, 49, 87, 98, 112, 158). 75 Ibid., p. 221.

111

speranze, per la superiorità delle forze veneziane, l’esercito bolognese nella guerra di Primaro del 127076; nella politica estera, ottenendo nel 1260 la podesteria di Bagnacavallo per Apollonio, e nel 1273 quella di Faenza per Misotto, condi-visa in realtà con il podestà geremeo Beccadino Artenisi77; in campo politico e legislativo, infine, partecipando con Bartolomeo alle commissioni statutarie del 1256 e del 1259, e con Apollonio alla speciale balìa «alla guerra» del 127178. I provvedimenti antimagnatizi di quell’anno, come abbiamo visto, e le successive espulsioni dei lambertazzi avrebbero poi duramente colpito la famiglia, riducendo a due soli membri la sua presenza nella matricola del Cambio di fine secolo e costringendo altri suoi esponenti a ruoli sociali in forte contrasto con l’antica nobiltà, come accade a Giovanni di Gerardino, che nel 1296 è costretto a vivere come famulus in casa di un altro cambiatore, Bertolino di Cosa79.

3.2. Cultura e stili di vita

Alcune delle nostre famiglie si qualificano particolarmente per una specifica vocazione culturale, espressa soprattutto nel campo giuridico. Si tratta di Baciacomari, Pascipoveri, Cacitti e Orsi. I Pepoli otterranno piuttosto tardi questo prezioso, e specificamente bolognese, connotato di nobiltà, solo nei primi anni del Trecento, e tuttavia questo sarà un aspetto decisivo, come vedremo, del loro progetto signorile. Più precoci nell’acquisire fama in campo giuridico sono cer-tamente, già nei primi decenni del Duecento, i Pascipoveri, con Pascipovero e soprattutto con Federico, che oltre al prestigio culturale e didattico nel campo del diritto civile e canonico poteva vantare il limpido merito accademico

76 Ibid., p. 441. 77 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 15); Savioli (1784-91, III/1, 346, 472). 78 Savioli (1784-91, III/1, 303, 334, 451). 79 È quanto egli stesso dichiara nella propria denuncia d’estimo: ASBo, Comune, Ufficio dei Riformatori degli estimi, serie II, Denunce dei cittadini (d’ora in poi semplicemente Estimi), b. 29, S. Stefano, num. 80.

112

di aver difeso con temporaneo successo, davanti alla curia pontificia all’epoca di Onorio III (1220), l’autonomia dello Studio dalle ingerenze dell’autorità comunale80. Un ruolo non dissimile avrebbe ricoperto cinquant’anni più tardi Ba-ciacomare Baciacomari, guidando la rivolta dei maestri dello Studio contro le pretese dell’arcidiacono della cattedrale, che intendeva esaminare personalmente i candidati alla laurea, in palese violazione delle tradizionali prerogative dei maestri; contesa risolta dal vescovo, anche in questo caso in senso favorevole agli ambienti universitari81. Negli anni Sessanta e Settanta del Duecento si svolge anche la carriera didattica di Guglielmo Cacitti e di Guglielmo Orsi, titolari entrambi di cattedre giuridiche ed entrambi rimossi dall’insegnamento nel 1274 per la loro appartenenza alla fazione lambertazza82. Un elemento che accomuna tutte le principali famiglie di cambiatori bolognesi, anche se a diversi livelli di intensità, è l’attrazione esercitata su di loro da uno stile di vita aristo-cratico: quell’insieme di strutture materiali, di cultura e di caratteri distintivi, connotati naturali dei ceti nobiliari, che alcune di quelle famiglie possedevano, si diceva, per antica tradizione, e che altre acquisiscono o tentano di acquisire nel corso del Duecento, assimilandosi poi alle prime nel-l’ostentata esibizione del privilegio sociale. Tentiamo dunque di individuare, nella concretezza del caso bolognese e delle famiglie del Cambio, questi elementi distintivi che connota-vano pubblicamente la condizione aristocratica: possesso di torri e case-torri emergenti nel tessuto urbano; possesso del cavalierato e sua pubblica ostentazione in giostre e tornei; appartenenza ad ordini religioso-cavallereschi; ricorso alla giustizia privata; esibita aggressività sociale e partecipazione attiva agli scontri di fazione. Usiamo come punto di partenza un bel racconto di Sabadino degli Arienti, ripreso da Cherubino Ghirardac-ci, certo leggendario nella sua elaborazione letteraria ma intensamente evocativo di quel contesto sociale e delle sue

80 Savioli (1784-91, II/1, 396). 81 Ibid., III/1, p. 433. 82 Ibid., pp. 423, 492.

113

dinamiche83. Nei primi anni del Duecento, Teodora Rodaldi, sposa di Oliviero Garisendi, curava a Bologna gli interessi patrimoniali e le relazioni politiche del marito, che si trovava in esilio in Francia in seguito a gravi fatti di sangue, accaduti fra il Garisendi e il suo acerrimo nemico Tommaso Bulgari. Valente cavaliere, Oliviero militava intanto con successo al seguito del re di Francia Filippo Augusto ed inviava quindi somme considerevoli alla moglie, con l’incarico di far co-struire una torre poderosa, a gloria e difesa della famiglia. Dalla fedele consorte riceveva continue rassicurazioni: al suo ritorno avrebbe trovato la più forte delle torri! Teodora però riteneva che una clientela numerosa fosse, più di una torre, utile al marito e alla famiglia in quelle circostanze, e quindi distribuiva alla plebe quei denari, ottenendone gratitudine e devozione. Alla morte di Tommaso Bulgari, per interces-sione dello stesso re di Francia, il Garisendi venne assolto dal bando e rientrò quindi in patria. Accolto e festeggiato dalla moglie e da una gran moltitudine di amici, chiedeva infine di vedere la sua nuova torre, al che la moglie gli indicava quella folla, forte e sicura più di qualunque torre: obbligati a lui col denaro, quegli uomini lo avrebbero difeso e sostenuto nei conflitti che ancora lo attendevano. Oliviero rimane ammirato dalla sagacia della donna e ne accoglie subito il suggerimento: senza esitazioni, seguito dai suoi fedeli, va all’assalto delle case dei Bulgari, le espugna e le mette a ferro e fuoco, uccidendo il fratello di Tommaso e sterminandone la famiglia. Abbondano, e sono assai evidenti, nel racconto echi della tradizione letteraria classica e cortese, e tuttavia il rilievo em-blematico che vi assumono alcuni elementi di grande valenza simbolica e pratica insieme – la torre, il denaro, il prestigio, la vendetta – ne fanno una sintetica ed efficace introduzione per le nostre riflessioni, tanto più essendo, entrambi i pro-tagonisti, esponenti di famiglie di origini aristocratiche, ma di solido radicamento negli ambienti creditizi. I Rodaldi, in

83 Arienti (1888, 39-51); Ghirardacci (1605-57, I, 112). Sulla raccolta di biografie femminili di Sabadino degli Arienti, si può vedere Fasoli (1993).

114

realtà, più dei Garisendi coinvolti nelle attività bancarie, il che potrebbe anche farci interpretare la narrazione come un’elegante velatura letteraria a dissimulare un fenomeno diffusissimo, ma alquanto inglorioso agli occhi della cultura cavalleresca: la riconversione creditizia dei patrimoni aristo-cratici. Il robusto senso pratico di Teodora, insomma, che procura successo immediato alle sorti familiari, potrebbe farci intravedere gli effetti positivi della nuova mentalità introdotta dalla Rodaldi nella gestione del patrimonio del Garisendi. Se poi interpretassimo, come pare non del tutto infondato, quei doni di denaro alla plebe, come trasfigurazioni letterarie di prestiti e dei legami di dipendenza personale che ne derivano, il quadro ne risulterebbe ancor più suggestivo84; il racconto verrebbe infatti a delineare la felice contaminazione fra la mentalità del profitto, l’investimento creditizio realizzato dalla donna, esponente della famiglia Rodaldi, e la tradizione aristocratica nella sua più emblematica espressione, l’attività militare praticata da Oliviero Garisendi al servizio del re di Francia. Anche a prescindere dalle suggestive e certo liberissime elaborazioni di Sabadino degli Arienti, Garisendi e Rodal-di costituivano a tutti gli effetti modelli di riferimento in questo settore per tutte le famiglie del Cambio. A partire dalle torri, che entrambe la famiglie potevano esibire e che si distinguevano fra le più antiche e possenti della città. Celeberrima quella dei Garisendi, situata al centro del trivio di Porta Ravegnana, luogo di assoluta rilevanza strategica, urbanistica ed economica, in cui confluivano, fra il Mercato di Mezzo, la pescheria pubblica, l’antica schola dei calzolai e i banchi del cambio, le principali direttrici commerciali, che collegavano Bologna a Ravenna e alla Romagna; luogo, anche, di intenso valore simbolico e religioso, a ridosso della prima cerchia muraria, e circondato da edifici di culto: la chiesa di S. Bartolomeo, la Croce degli Apostoli, la chiesa di S. Marco,

84 E del resto recita il racconto di Sabadino: «... a chi cum grande prudentia et discretione prestava, et a chi donava poco o assai, usandoli in augumento del servitio cum astutia et arte...» (Arienti 1888, 43).

115

patronato degli stessi Garisendi85. La torre poi, innalzata nel XII secolo, aveva nel corso del Duecento un valore militare considerevole, tanto da essere affittata per queste ragioni dal comune nel 1278, ed era inoltre sensibilmente più alta di come la si vede oggi, risultato di un troncamento ope-rato a metà del Trecento86. Quella struttura rappresentava dunque, nel XIII secolo, una fonte di sicurezza per le case dei Garisendi che vi si addossavano e, per la famiglia, un elemento di orgoglio e distinzione e uno strumento prezioso di affermazione sociale. Ma non molto inferiore era il ruolo pubblico della torre dei Rodaldi, anch’essa fra le più antiche ed alte torri gentilizie bolognesi, innalzata poco lontano da quella dei Garisendi, all’angolo fra strada S. Stefano e via del Luzzo, possente centro di coesione di un consorzio no-biliare che riuniva, negli anni Sessanta del Duecento, più di venti capifamiglia87. Alla solidità patrimoniale e sociale del consorzio non corrispondeva in questo caso quella statica dell’edificio, dato che la torre crollò rovinosamente per un cedimento strutturale nel 1389, provocando numerose vittime. Ad emulazione di queste due, e delle altre torri più antiche innalzate da famiglie di cambiatori – quella dei Baciacomari in strada Maggiore, all’angolo di via Borgonovo, ad esempio, e quelle degli Orsi, adiacenti alle case dei Garisendi presso Porta Ravegnana e in strada S. Donato, e la torre degli Ar-tenisi, che già alla metà del XII secolo dalla via Strazzerie, oggi Galleria del Leone, si affacciava anch’essa sulla Porta Ravegnana – pressoché tutti i banchieri bolognesi di maggior peso economico e prestigio sociale si dotano, nel corso del Duecento, di torri, o trasformano in case-torri le proprie abitazioni88. I decenni centrali del secolo videro fiorire nel raggio di duecento metri dal carrobbio una piccola selva di nuove torri, che si affiancavano a quelle dell’antica nobiltà, troneggianti già da un secolo o più nel tessuto urbano (Asi-

85 Antonelli e Pedrini (2000, 55-61). 86 Gozzadini (1980, 271-284). 87 Ibid., pp. 453-458. 88 Ibid., pp. 92-95, 125-126, 385-386.

116

nelli, Azzoguidi, Prendiparte, Oselletti, Galluzzi e così via). A questo intenso fervore edilizio le nostre famiglie diedero un contributo decisivo. All’interno della cerchia di selenite, nella via San Matteo a ridosso della pescheria pubblica, innalzano la loro torre gli Zovenzoni, che ne possedevano anche un’altra in strada Maggiore, all’angolo con la strada dei Vitali, oggi via Guido Reni89. Ben dentro la prima cerchia urbana, fra via Marchesana e via dei Toschi, erano anche le case-torri dei Pascipoveri, costruite poco prima del 128090. Qualche decina di metri fuori Porta Ravegnana invece, nel cuneo fra le strade di Castiglione e di Santo Stefano, sorgono a distanza di pochi anni verso il 1260 i cantieri che fortificano con torri le case dei Pepoli e dei Tettalasini, un edificio possente quest’ultimo, che però non resistette alle speculazioni finanziarie di Romeo Pepoli, fu oggetto di esproprio e finì poi inglobato nel grande palazzo di famiglia91. Poco fuori la porta si ergeva già nel 1268 anche la torre dei Poeti, all’angolo fra strada Maggiore e via Caldarese92. Un po’ più decentrate, ma sempre all’interno della cerchia dei torresotti, costruita all’epoca del Barbarossa, e quindi in un territorio percepito come urbano da più di un secolo, sorgono nell’ultimo ventennio del Duecento le torri dei Pegolotti, nell’androne dei Bagnaroli, oggi via Benedetto XIV, e quel-le dei Beccadelli, in strada Santo Stefano, all’altezza di via Borgonovo, e, poco distante, il grosso nucleo fortificato dei Gozzadini, fra strada Maggiore e via Gerusalemme, luogo di aggregazione sociale e di organizzazione militare per un clan che riuniva, verso il 1290, più di venti nuclei familiari e quasi cento uomini adulti93. Alle emergenze architettoniche di torri e fortificazioni, con tutti i loro valori militari, di difesa e dissuasione, e simbolici, di forza e di prestigio sociale, corrispondeva, ma in modo non meccanico, il possesso e l’esibizione della

89 Ibid., pp. 518-520. 90 Ibid., p. 401. 91 Ibid., p. 494. 92 Ibid., p. 425. 93 Ibid., pp. 138, 311, 403.

117

dignità cavalleresca. A differenza del fervore edificatorio che sembra accomunarle in modo omogeneo, non tutte le famiglie di cambiatori si dimostrano ugualmente sensibili ai valori della militia. Le cronache tre-quattrocentesche sono, a questo proposito, scarne di dati concreti e per giunta del tutto inaffidabili sul piano dei riferimenti storici. E tutta-via sono altrettanto chiare nell’enunciare la propria linea interpretativa. Alcuni passaggi della storia cittadina, cui già abbiamo accennato, vengono assunti come momenti emblematici di affermazione di un criterio distintivo appli-cato alla cittadinanza, per isolare all’interno di un ampio e generico ceto di notabili, riconosciuti tali per una tradizione familiare di ricchezza e potenza, un nucleo più ristretto di milites, di cavalieri, il cui prestigio sociale si arricchisce dei connotati culturali e militari specifici di quella categoria umana e di quella condizione esistenziale. Uno di questi momenti forti è, si diceva, la crociata del 1188: «Eo anno duo millia homines de Bononia iverunt ultra mare pro sepulcro recuperando...», amplifica retoricamente la cronaca Villola verso la metà del Trecento, e di questi duemila molti non tornarono94. Come si diceva, la mano di Pietro Ramponi, a fine secolo, inseriva a questo punto nel manoscritto i nomi dei cavalieri – Orso Caccianemici, Fazio Galluzzi, Scappa Garisendi, Guido Ramponi, Pietro Asinelli, Parte Prendi-parte ed altri esponenti della più antica nobiltà –, ed altri nomi di semplici notabiles, fra i quali troviamo membri dello stesso ceto – Brancaleone Carbonesi, Mino Galluzzi, Guglielmo Magarotti – ed anche esponenti delle famiglie di cambiatori, come Artenisio Artenisi, Testa Gozzadini, Alberto Bianchetti, Nicolò Rodaldi, Dionisio Maranesi ed altri95. Sia nel primo che nel secondo gruppo dunque, indif-ferentemente, troviamo famiglie dell’aristocrazia consolare, ma questo criterio di antica eminenza politica non fa schermo agli occhi del Ramponi, che recuperando forse tradizioni radicate nelle memorie familiari, mira direttamente alla più

94 Corpus chronicorum (1910-40, II, 51). 95 Cfr. la nota 15.

118

profonda e personale distinzione data dal possesso del ca-valierato. Questa possibilità, naturalmente, non è preclusa ai notabiles, ed anzi le stesse cronache elaborano in forma quasi leggendaria, l’abbiamo visto, un altro momento forte per la memoria cittadina e per l’autocoscienza dei suoi ceti dirigenti. Recita nel tardo Quattrocento la Cronaca Rampona, elaborando liberamente un sobrio riferimento dell’anonima cronaca bolognese tramandata dal Chronicon Faventinum del Cantinelli: «E quello anno [1273] Bolognisi assediono Forlì appresso San Varano. E misser Odorido [Edoardo] re d’Inghilterra passò per mezo el campo cum la soa gente che tornava d’oltra mare e fè multi cavalieri in el dicto campo, li nomi di quali sono quisti...»96. E questo ideale addobbamento cavalleresco, operato direttamente da una mano regale sul campo di battaglia, premiava, ancora una volta, sia famiglie di antica nobiltà – Galluzzi, Torelli, Lambertini, Ramponi –, sia quelle di più recente affermazione, con esponenti di famiglie del Cambio equamente distribuiti nel primo (Baciacomari, Artenisi) e nel secondo gruppo (Gozzadini, Foscherari). I riferimenti storici di questa tradizione, tutta quattro-centesca o al più tardo trecentesca ed inoltre fortemente inquinata da intenti encomiastici e procedure narrative spesso infide, sono quantomeno di problematica interpretazione. E tuttavia un elemento sembra emergere con una certa chiarezza da questi racconti, e dal prossimo che metteremo in campo, ed è un atteggiamento dei cambiatori rispetto al cavalierato niente affatto omogeneo, ed anzi ricco di sfumature. Aggiungiamo ora al dossier delle fonti in nostro possesso un altro contributo, anch’esso problematico nella valutazione critica quanto suggestivo nei contenuti. Narra il Ghirardacci, sulla base di una pretesa cronaca Geremea, citata peraltro con estrema precisione, come è costume dello storico eremitano, che nel 1270 le nozze fra Tano Galluzzi e la figlia di Guglielmo Guidozagni vennero celebrate con un prestigioso torneo cavalleresco, cui parteciparono le maggiori

96 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 15); Corpus chronicorum (1910-40, II, 187).

119

famiglie cittadine97. Lo stesso racconto compare nel Memo-riale historicum di Matteo Griffoni, con qualche variante e con minor ricchezza di particolari, ma riproducendo quasi identica la sequenza dei cavalieri in lizza98; il che potrebbe deporre a favore dell’esistenza di una fonte – la Geremea, appunto? – comune ai due storici bolognesi, oppure del-l’integrazione del racconto di Griffoni, che comunque non viene citato, con quest’altra fonte, nota al Ghirardacci ma a noi sconosciuta. Comunque sia, e con tutte le cautele criti-che del caso, l’elenco dei giostratori del torneo per le nozze Guidozagni-Galluzzi del 1270 è di grandissimo interesse per le nostre riflessioni. Ne fanno parte, oltre allo sposo e ad altri due esponenti della famiglia Galluzzi, membri di altre famiglie dell’aristocrazia consolare e vescovile, come gli Ariosti e i Torelli, e di famiglie di nobiltà postconsolare, come i Ghisilieri, famiglie di tradizione notarile, Griffoni e Guastavillani, e famiglie di prestigiosa cultura giuridica, Balduini e Liazzari, ed infine esponenti del Cambio, ed è il gruppo più numeroso: Sabadini, Bianchetti, Beccadelli, Garisendi, Gozzadini. A Mino Beccadelli, secondo un’altra versione ad Anselmo Sabadini andarono la gloria ed il ricco premio, una collana d’oro, previsto per il vincitore. Alla riuscita e alla risonanza pubblica dell’evento i cambiatori avevano dato, dunque, un contributo decisivo, ma è in-teressante osservare come delle cinque famiglie citate, tre appartengano alla nobiltà consolare (Garisendi, Sabadini, Beccadelli), i Bianchetti, di origini popolari, siano comun-que fra i banchieri «di chiara stirpe» già citati da Savioli come emblematici della situazione bolognese, e la quinta, i Gozzadini, rappresenti fra le famiglie genuinamente «di popolo» la più sensibile forse alle suggestioni cavalleresche, come già si osservava sulla base delle scelte onomastiche, e come la politica edilizia e gli atteggiamenti militari del gruppo pure sembrano suggerire. L’esibizione del corredo cavalleresco, della ricchezza e del prestigio di cui esso era

97 Ghirardacci (1605-57, I, 217). 98 Griffoni (1902, 19).

120

un segno, delle capacità tecnico-militari connesse a quella condizione, tutto questo trovava pubblica legittimazione ed ampia diffusione nel torneo, che diventava un momento significativo di affermazione del privilegio sociale per alcuni grandi casati bolognesi, fra cui un gruppo di cambiatori abbastanza omogeneo nelle sue origini aristocratiche, con l’eccezione dei Gozzadini che però manifestano un’ambizione evidente ad essere accolti all’interno di quel gruppo. Certo l’unicità della fonte non consente di dedurre dal racconto conclusioni troppo nette: le famiglie non invitate al torneo Galluzzi-Guidozagni non erano necessariamente indifferenti a quelle suggestioni cavalleresche, non tutte per lo meno. Certamente lo erano, tuttavia, i Pepoli ed alcuni degli altri gruppi economicamente più potenti, che negli elenchi degli atti alle armi, più o meno coevi o di poco posteriori, sem-brano evitare risolutamente la qualifica di miles, con tutti gli onori e gli oneri economici e personali che essa implicava99. Il cavalierato, specie nella sua espressione tecnico-militare al servizio dell’esercito cittadino, non costituiva per alcuni protagonisti della vita economica bolognese, i più attivi probabilmente, una prospettiva appetibile di affermazione sociale. Così come non sembra esserlo l’appartenenza agli ordini religioso-cavallereschi. Negli strati superiori della società bolognese reclutava quasi tutti i suoi membri la Milizia di Maria Vergine Gloriosa, detta dei Frati Gaudenti, ordine religioso-cavalleresco sottoposto alla regola agostiniana100. A parte le dichiarate finalità religiose e assistenziali e il fattivo sostegno offerto alle attività inquisitoriali, il vero obiettivo dell’ordine era, soprattutto negli anni Sessanta del Duecento, la ricomposizione della nobiltà lacerata dagli

99 Si possono vedere in proposito le Venticinquine della fine del Due-cento (ASBo, Comune, Capitano del Popolo, Venticinquine, bb. I, IV, VII, X), e le loro trascrizioni in registri (ASBo, Comune, Capitano del Popolo, Libri vigintiquinquenarum, bb. XIV-XVII). Su Romeo Pepoli, cfr. Giansante (1991, 40). Sul cavalierato in età comunale, cfr. Gasparri (1992). 100 Per una breve sintesi e i necessari riferimenti bibliografici, cfr. Giansante (1985-86, 148-150).

121

scontri di fazione. Il suo bacino di reclutamento era quindi di preferenza il ceto magnatizio, e ricchezza e nobiltà erano i requisiti necessari per essere ammessi in uno dei tre ordini della milizia: cavalieri laici, che vivevano presso le proprie case e potevano sposarsi; cavalieri conventuali, che facevano vita comune ed osservavano il celibato; chierici; i non nobili potevano accedervi solo come conversi, adibiti alle più umili mansioni. Gli ordinamenti bolognesi del 1265, ispirati dai frati gaudenti Loderingo e Catalano, miravano appunto a mobilitare la Milizia contro la faziosità magnatizia; l’apparte-nenza all’ordine diventava quindi, per l’aristocrazia bolognese, un mezzo importante di intervento nella vita politica, ma anche, inevitabilmente, un segno di privilegio sociale, cui ricorrono numerosi lignaggi dell’antica nobiltà cittadina: Accarisi, Carbonesi, Guarini, Lambertini, Rustigani e molti altri, appartenenti sia all’aristocrazia consolare, che a quella di età podestarile. La militanza al servizio delle istituzioni non preservò queste famiglie dagli scontri di piazza e dalla relativa repressione, dato che quasi tutte le ritroviamo, di lì a poco, inserite nelle liste dei magnati inviati al confino. Ma nell’ordine dei Frati Gaudenti troviamo anche numerosi esponenti di famiglie del Cambio appartenenti allo stesso ceto, anche se, per i motivi già ricordati, sfuggite poi a quegli elenchi: Artenisi, Beccadelli, Baciacomari, Clarissimi, Piatesi e così via; ed altri che provengono da famiglie di popolo, già avviate tuttavia verso l’assimilazione all’aristocrazia101. Famiglie, che proprio in quell’ammissione individuavano forse un passaggio importante della loro ascesa sociale, così, ancora una volta, i Gozzadini, i Poeti, i Piantavigne, i Mussolini, i Mattuiani ed altri. Molte altre famiglie di cam-biatori, tuttavia, restano immuni anche da questo aspetto, più strutturato e istituzionale, della suggestione cavalleresca e nobiliare. Così come non sembrano partecipare ai tornei, non li troviamo neppure nella Milizia dei Gaudenti: sono i Pepoli e i Tettalasini, gli Zovenzoni e i Raccorgitti, i Pego-lotti ed altri gruppi familiari di primissimo piano nella vita economica bolognese e nelle attività creditizie.

101 Savioli (1784-91, III/1, 357).

122

3.3. Le lotte di fazione

Uno scenario in cui, al contrario, tutte le maggiori famiglie bolognesi sembrano accomunate, senza distinzioni di prove-nienza sociale e ambiti professionali, è quello degli scontri di piazza, di una conflittualità inesausta in cui i costumi e le attitudini dei ceti magnatizi sembrerebbero aver esercitato un’irresistibile attrazione anche sulle famiglie di più genuina estrazione popolare. E tuttavia questa immagine, in cui gli ambienti del Cambio non fanno eccezione al quadro generale, è in gran parte frutto della deformazione ottica provocata da una tradizione storica, in proposito, particolarmente infida. Questo è infatti, come quello delle crociate, un campo d’azio-ne privilegiato per apologisti e storici militanti, impegnati, dal XIV secolo in avanti, ad elaborare per le famiglie bolognesi i più nobilitanti episodi. Nel caso delle lotte di fazione, il progetto si esprime configurando ed arretrando sempre più nel tempo una serie di binomi di ostilità, da accostare a quello Geremei-Lambertazzi, divenuto per antonomasia simbolo dei conflitti interni alla nobiltà bolognese. L’essere contrapposti da tempo immemorabile ad un casato di chiara stirpe, sia pure in vicende sanguinosissime ed attraverso episodi di crudeltà e tradimento, era percepito da quegli autori e dai loro committenti come argomento in sé nobilitante nella costruzione di una memoria familiare. Il fenomeno, su cui si può ricorrere alle recenti ricerche di Armando Antonelli e Riccardo Pedrini102, moltiplica nella storiografia post-tre-centesca episodi come quello citato a proposito di Garisendi e Bulgari, che mirano ad accreditare surrettiziamente, per i conflitti familiari dilaganti nel Tre-Quattrocento bolognese, origini duecentesche. Per limitarci alle famiglie di cambia-tori, vengono arretrate agli anni Quaranta del XIII secolo le prime ostilità fra Artenisi e Castel de’ Britti e addirittura ai primi anni del secolo, l’abbiamo visto, quelle fra Pepoli e Tettalasini; a questi si affiancano nella tradizione i binomi ostili Samaritani-Maccagnani, Tettalasini-Zovenzoni, Baciaco-

102 In particolare cfr. l’introduzione a Pietro Ramponi (2003).

123

mari-Magarotti, Baciacomari-Asinelli e così via103. Tentiamo di aggirare le elaborazioni mitopoietiche rivolgendoci a fonti narrative più antiche, come il Chronicon Faventinum di Pietro Cantinelli e l’adespota cronaca bolognese che lo precede o come il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, testi che sembrano immuni da specifici intenti celebrativi104. Per il periodo che precede la rivoluzione del 1274 e l’espulsione dei lambertazzi, le fonti sono piuttosto avare di notizie, tuttavia almeno un paio di episodi documentano l’attiva partecipazione di famiglie di cambiatori agli scontri violenti che caratterizzano questo passaggio della storia bolognese. Nel 1251 Bartolomeo Baciacomari commissiona l’uccisione dell’anziano del popolo Giacomello Magarotti, suo antico avversario105. Ancora un pubblico funzionario, Uguccione Arienti, giudice del podestà di fede ghibellina, cade vittima, nel 1263, di una vendetta orchestrata da Brandeligi Gozza-dini con la complicità di Maghinardo da Panico106. Negli anni fra la prima e la seconda cacciata dei lambertazzi, lo scenario cittadino non è affatto pacificato; al contrario, la città è sconvolta dagli scontri interni alla fazione geremea, fra cui quello del 1276 che vede Bonfantino Baciacomari, già bandito dal comune, assassinato per ordine di Tommaso Beccadelli107. Famiglie del Cambio, dunque, coinvolte in episodi di sangue, nei ruoli di vittime e di aggressori, su entrambi i fronti ed in posizioni di un qualche rilievo. Sia il Chronicon Faventinum che il Serventese documentano infatti la presenza dei cambiatori nei due schieramenti. Nell’estate del 1279, per volontà del pontefice Nicolò III, intenzionato ad otte-nere rapidamente una pacificazione a Bologna, il rettore ed il legato pontificio convocano ad Imola due delegazioni di cinquanta membri ciascuna, rappresentative delle due parti

103 Corpus chronicorum (1910-40, II, 117, 120); Griffoni (1902, 11); Ghirardacci (1605-57, I, 108, 165); Savioli (1784-91, III/1, 172, 177, 213, 249, 321, 400). 104 Petri Cantinelli Chronicon (1902); Il Serventese (1891-92). 105 Petri Cantinelli Chronicon (1902, 6). 106 Ibid., p. 8. 107 Ibid., p. 12.

124

in lotta. Ne fanno parte, testimonia il Cantinelli, numerosi cambiatori: fra i geremei, Artenisi, Baciacomari, Gozzadini, Pepoli, Rodaldi e Zovenzoni; fra i lambertazzi, Arienti, Ca-citti, Orsi, Pizzigotti, Terrafocoli, Tettalasini108. Il ruolo non del tutto secondario ricoperto da questi ultimi nelle lotte di quegli anni è testimoniato anche dal seguito della trattativa diplomatica, diretta dal rettore, Bertoldo Orsini, che rico-priva in quei mesi anche la carica di podestà bolognese. Al momento di imporre ai geremei, nel settembre di quell’anno, il rientro dei lambertazzi, venne confermato invece l’esilio per 45 di loro, evidentemente considerati irriducibili; fanno parte di questo gruppo cinque cambiatori: Uguccione Tetta-lasini, Matteo Pizzigotti, Rolando Terrafocoli, Benvenuto e Giacomino Orsi109. Anche il Serventese, del resto, annovera Tettalasini e Terrafocoli fra i più potenti e agguerriti casati ghibellini. Grazie al suo ampio e famoso catalogo delle fa-miglie bolognesi, il Serventese ci consente inoltre di avere un quadro organico della partecipazione dei cambiatori allo scontro in atto e del diverso peso avuto da questa categoria professionale nei due schieramenti. Riportando infatti l’allo-cuzione del rettore alle due parti, il testo poetico enumera 77 famiglie geremee e 83 lambertazze110. Fra le prime compaio-no ben 21 famiglie di cambiatori, in ordine di apparizione: Pepoli, Gozzadini, Garisendi, Beccadelli, Baciacomari, Sar-delli, Pegolotti, Rombolini, Lamandini, Mantici, Sabadini, Baragazzi, Mussolini, Pascipoveri, Zovenzoni, Calamattoni, Artenisi, Papazzoni, Foscherari, Biancucci, Mezzovillani. Fra i lambertazzi solo 12 famiglie di cambiatori: Tettalasini, Arienti, Garzoni, Felicini, Cedroplani, Maranesi, Cacitti, Orsi, Buttrigari, Pizzigotti, Salaroli, Terrafocoli. L’incidenza assai diversa di famiglie del Cambio nei due schieramenti: 21 su 77 fra i geremei, pari al 27%; 12 su 83 fra i lambertazzi, pari al 14%, parrebbe confermare senza esitazioni dati già da tempo addotti dagli storici per interpretare la discesa in campo delle società popolari al fianco dei geremei ed il

108 Ibid., p. 32. 109 Ibid., p. 39. 110 Il Serventese (1891-92, 215-223).

125

conseguente successo della fazione guelfa nella fase decisiva dello scontro. Lo studio delle liste di banditi e confinati del periodo 1271-1277, compiuto di recente da Giuliano Milani, consente tuttavia qualche ulteriore e più articolata considerazione sul ruolo dei cambiatori nelle lotte di parte e sulla loro presenza nella fazione sconfitta e bandita. Come si è visto, nelle liste del 1271 e 1272 la presenza di famiglie del Cambio era pres-soché nulla, il che sembra confermare i dati tramandati dalle fonti narrative più attendibili, concordi, nel testimoniare un livello complessivamente piuttosto basso di partecipazione alla conflittualità cittadina da parte di esponenti di quel ceto. Almeno fino all’esplosione della guerra civile nella primavera del 1274. Una lista di confinati del maggio di quell’anno, già pubblicata da Savioli e studiata da Milani, delinea infatti un quadro un po’ diverso111. Nel tentativo di reprimere i tumulti, che di lì a poco avrebbero portato alla cacciata dei Lambertazzi, il podestà Guglielmo Pusterla emanava fra il 7 e il 23 maggio 1274 una serie di provvedimenti di bando e di confino contro numerose persone, accusate di atti di violenza ed appartenenti ad entrambe le fazioni. Compaiono nella lista dei confinati cambiatori geremei: Baciacomari, Raccorgitti; e lambertazzi: Magarotti, Orsi, Arienti, Pizzigotti. Evidentemente il dilagare progressivo degli scontri cittadini finiva per coinvolgere anche queste famiglie, e soprattutto quelle, come i Baciacomari e gli Orsi, di più consolidata tradizione militare e cavalleresca. E tuttavia si tratta di fatto di una presenza piuttosto episodica, certamente enfatizzata per motivi encomiastici dalla storiografia più tarda. Nella maggioranza dei casi il ruolo delle famiglie del Cambio nel conflitto non sembra essere andato al di là di una generica adesione di parte. E la parte verso cui erano prevalentemente attratti era, per motivi economici e politici, quella geremea. È questa, come era del resto prevedibile già dalla lettura delle fonti narrative, la conclusione cui porta lo studio delle liste di banditi e confinati redatte dopo la cacciata del 1274. L’elenco del 1277 in particolare, analiticamente studiato da

111 Savioli (1784-91, III/2, 465-470); Milani (2003, 213-221).

126

Milani, offre un quadro organico, anche da un punto di vista socio-professionale della parte lambertazza112. I quasi 4.000 bolognesi sottoposti in quell’occasione a diverse misure di controllo costituiscono un gruppo estremamente eterogeneo e composito, risultato di un processo aggregativo lungo e complesso, un processo trasversale che coinvolgeva tutti gli strati sociali: dall’aristocrazia consolare del suo primo nucleo consortile (Lambertazzi, Carbonesi, Orsi, Guarini ecc.), ai lignaggi di nobiltà rurale inurbatisi all’inizio del Duecento (da Baisio, da Gesso, Maccagnani), alle famiglie di recente prestigio, di provenienza mercantile o creditizia (Principi, Magarotti, Pizzigotti). Non si può dire che la categoria dei cambiatori costituisca, nella massa dei quasi 4.000 lambertazzi schedati nel 1277, un gruppo di particolare rilievo, né dal punto di vista numerico, né da quello economico. Compaiono in effetti nell’elenco alcuni esponenti di famiglie del Cambio: Magarotti, Tettalasini, Pizzigotti, Terrafocoli ed altre, ma l’entità dei beni, sottoposti a sequestro ed amministrazione controllata, denuncia per loro una situazione economica com-plessivamente modesta. E d’altra parte, come abbiamo visto emergere con evidenza dal Serventese, la grande maggioranza dei cambiatori, e soprattutto i più potenti, Milani ricorda in proposito Pepoli, Zovenzoni e Rodaldi, militavano sul fronte opposto, alleandosi, per ragioni politiche ed economiche, ai magnati geremei e legando i propri destini alle scelte della diplomazia angioina e al sistema dell’alleanza guelfa.

112 Ibid., pp. 221-248.

127

CAPITOLO TERZO

I BANCHIERI E LA CITTÀ.AZZONAMENTO TERRITORIALE E LIVELLI DI RICCHEZZA NELL’ESTIMO DEL 1296-97

1. Professioni e territorio urbano a Bologna

Nel Liber matricularum del 1294, gli artigiani bolognesi sono registrati in gran parte con le rispettive cappelle di resi-denza: per la precisione 8.946 su 10.684, secondo i calcoli di A.I. Pini1. Questo ricchissimo patrimonio documentario viene poi ottimamente integrato da altre fonti pressoché coeve ed anch’esse a base territoriale, come le matricole delle armi, le venticinquine e soprattutto l’estimo del 1296-97, che ci pro-pongono abbondanza di dati su lavoratori non documentati dal Liber, in quanto esclusi dal diritto associativo, come gli addetti al vettovagliamento e al trasporto, gli operatori del settore librario e i numerosissimi lavoratori agricoli residenti in città. Il panorama della topografia del lavoro nella Bologna di fine Duecento ne emerge estremamente particolareggiato2. Con una certa sorpresa, ad esempio, considerando la prevalente vocazione commerciale e manifatturiera che si attribuisce comunemente alla città, si potrebbe osservare l’assoluta preminenza dei lavoratori agricoli, che, nelle zone meridionali dell’abitato, rappresentano il 18% della popolazione attiva del quartiere di Porta Procola (sud-ovest), e addirittura il 24% in quello di Porta Ravegnana (sud-est). Percentuali sensibilmente inferiori di laboratores terre si registrano invece nel quartiere nord-orientale di Porta Piera (9,5%) ed in quello nord-occidentale di porta Stiera (12,6%)3. Questa più accentuata fisionomia agricola

1 Pini (1996, 175). 2 Su queste ed altre fonti per la storia economica e demografica del medioevo bolognese, cfr. Pini (1996, 35-178). 3 I dati sono dedotti da Castagnini (1975-76, tav. III) (P.ta Piera); Micheletti (1981, 300) (P.ta Ravegnana); Giansante (1985, 127-128) (P.ta Procola); Rocca (1984-85, 196-198) (P.ta Stiera).

128

della fascia urbana meridionale si spiega non tanto con la particolare destinazione produttiva delle vaste zone rurali comprese entro la Circla, zone che in effetti avevano una certa rilevanza anche nella parte settentrionale della città, quanto con l’esposizione verso la collina dei quartieri meridionali. Nella fascia collinare a sud della via Emilia si trovavano infatti le zone più adatte alle coltivazioni cerealicole e alla viticoltura, raggiunte quotidianamente dai coltivatori pendo-lari residenti in città; residenti, in particolare, nelle cappelle periferiche, che oltre ad essere le più prossime alle colline, rappresentavano anche gli unici spazi urbani economicamente accessibili per i nuovi immigrati in cerca di alloggio, sia che intendessero affittare una casa, sia, ed è il caso più frequente, che volessero edificarla di persona su di un terreno avuto in locazione ad incasandum da un ente religioso4. Le vaste e popolose cappelle meridionali dell’abitato bolognese (S. Caterina di Saragozza, S. Mamolo, S. Lucia nel quartiere di Porta Procola, S. Giuliano in quello di Porta Ravegnana) sono così occupate in buona parte da contadini di recente immigrazione, che hanno trasferito in città la loro residenza ed hanno acquisito, adempiendo ai doveri fiscali e militari, diritti di cittadinanza, pur continuando ad esercitare preva-lentemente in zona extraurbana le loro attività. Nessuno degli altri settori produttivi, pure in piena fase espansiva in quei decenni, quello calzaturiero, ad esempio, e quello tessile, presenta numeri di addetti così elevati. È interessante tuttavia delineare rapidamente i livelli di azzo-namento dettati per i diversi settori da elementi strutturali e ambientali, o da scelte politico-amministrative. Un elevato grado di concentrazione viene determinato per gli addetti ad alcune attività artigianali dal ruolo attrattivo dei corsi d’acqua, utilizzati sia come forza motrice, sia come abbondante risorsa per le operazioni di lavatura, follatura, tintura dei tessuti, e per le varie fasi della conciatura delle pelli e della lavora-zione dei metalli5. Si addensano così nei pressi del torrente Aposa e del canale di Savena, che attraversano in direzione

4 Sulle lottizzazioni monastiche, cfr. Giansante (1985-86, 205-212). 5 Pini (1996, 166-167).

129

sud-nord la parte orientale della città, numerosi operatori del settore tessile (battitori, tessitori, tintori) e la maggioranza assoluta dei cartolai e dei produttori di pergamena. Questa prevalente composizione sociale hanno le popolazioni delle cappelle di S. Lucia, S. Giovanni in Monte, S. Damiano, S. Biagio, attraversate tutte dal canale di Savena e dal suo ramo secondario, e quelle di S. Procolo, S. Domenico, S. Mamolo, affacciate invece sul torrente Aposa. Anche per i fabbri e gli altri operatori metallurgici, come orefici e spadai, si registra un sensibile azzonamento nei pressi del canale di Savena, sui territori di S. Lucia e S. Biagio, ma numerosi fabbri sono presenti nella zona occidentale dell’abitato, nella cappella di S. Felice, attraversata dal canale di Reno. Più o meno analoga è la distribuzione dei lavoratori del cuoio (calzolai e cordovanieri) che costituiscono uno dei settori nevralgici dell’economia comunale bolognese e sono numerosi nelle cappelle orientali di S. Biagio, S. Leonardo, S. Lucia, S. Maria Maddalena, S. Martino dell’Aposa, ma anche in quelle occidentali di S. Caterina di Saragozza, S. Felice, S. Egidio, S. Isaia6. Livelli più bassi di azzonamento, e cioè una distribuzio-ne equilibrata degli operatori su tutto il territorio urbano, caratterizzano invece altri importanti settori economici, come le attività commerciali in genere e quelle alimentari in particolare. Mercanti, beccai e pescatori occupano in modo omogeneo i quattro quartieri cittadini e tendono piuttosto ad addensarsi, soprattutto i mercanti, a ridosso della seconda cerchia urbana. Con blanda efficacia sembra agire sull’inse-diamento degli operatori del commercio la concentrazione della vendita al minuto: le due beccherie, le due pescherie ed il mercato di mezzo, luoghi distribuiti fra la curia del comune e la piazza di Porta Ravegnana7. A ridosso di questa zona, poco fuori il perimetro della prima cerchia urbana, nel territorio di S. Bartolomeo di Porta Ravegnana, si segnalano

6 Micheletti (1981, 300); Giansante (1985, 128-134); Rocca (1984-85, 189-217). 7 Sui luoghi del commercio a Bologna, cfr. Giansante (1985-86, 171-180).

130

alcuni mercanti e pescatori, ma per la maggior parte dei commercianti bolognesi, ed anche per i beccai, mediamente benestanti, il nucleo di più antico insediamento, la zona più centrale dell’abitato era un’area residenziale inaccessibile8. Luoghi di abitazione e di lavoro non potevano coincidere per queste categorie professionali, se non in casi eccezionali. Diametralmente opposta, come vedremo, la situazione degli operatori del credito e del cambio.

2. La «city» bolognese e l’azzonamento dei banchieri

Il fenomeno della ineguale distribuzione dei cambiatori bolognesi sul territorio urbano, ed anzi del loro fortissimo addensarsi in una ristretta zona cittadina, risente di due decisivi elementi strutturali: urbanistico e sociale il primo, l’antichissimo radicamento di gran parte delle loro famiglie di provenienza nelle zone più centrali dell’abitato; economi-co e amministrativo il secondo, il concentrarsi delle attività connesse alla moneta nell’area circoscritta al carrobbio di Porta Ravegnana. L’insieme di questi due fattori determina per questa categoria professionale uno dei livelli più forti di addensamento abitativo, inferiore, osservava A.I. Pini, solo a quelli dei cartolai e dei conciatori9. Già una semplice osservazione statistica sulla distribuzio-ne fra i quartieri cittadini offre qualche interessante spunto di partenza: più del 60% dei cambiatori immatricolati nel 1294 risiede nel quartiere di Porta Ravegnana, il 21% in quello di Porta Procola, il 17% a Porta Piera, mentre è quasi impercettibile (0,2%) la loro presenza a Porta Stiera, anche se, come vedremo, si tratta invece di una presenza economicamente significativa (tabelle I-IV). L’accentua-tissima concentrazione dei cambiatori nel quartiere sud-orientale della città è la diretta conseguenza dei fattori cui si accennava poco fa, e soprattutto dell’appartenenza alle cappelle del quartiere di Porta Ravegnana di alcuni dei più

8 Pini (1996, 172-175, tav. I). 9 Ibid., pp. 166-167.

131

antichi nuclei abitativi, e dei primi borghi extraurbani, sorti immediatamente a ridosso delle mura orientali della cerchia di selenite, sede di gruppi familiari di consolidato prestigio sociale e di forte presenza nella matricola del cambio. In effetti la quasi totalità dei cambiatori bolognesi risiede in un numero ristretto di cappelle del quartiere sud-orientale: S. Bartolomeo di Porta Ravegnana, S. Maria di Porta Ra-vegnana, S. Michele dei Leprosetti, S. Stefano, S. Tecla, S. Tommaso della Braina; cui si aggiungono unicamente, nel quartiere di Porta Procola, le cappelle di S. Agata, S. Gio-vanni in Monte, S. Maria dei Carrari, ed in quello di Porta Piera, S. Donato, S. Tommaso del Mercato e S. Vitale. In queste dodici cappelle, fra l’altro non le più popolose delle 99 circoscrizioni amministrative in cui è diviso il territorio urbano bolognese, risiedono 505 cambiatori, pari all’88%, dei 575 dei quali si conosce la residenza. Le zone di massima concentrazione sono: la cappella di S. Agata, sede di grandi gruppi familiari, come Zovenzoni, Tettalasini, Pepoli, Du-gliolo e Cacitti, nell’insieme circa 70 cambiatori, e quelle di S. Maria di Porta Ravegnana, dove risiedono un altro nucleo di Zovenzoni ed alcune altre famiglie di cambiatori, per un totale di 53 iscritti; le due cappelle confinanti di S. Stefano e S. Tecla, nell’insieme 99 cambiatori, fra cui Artenisi, Rodaldi e Beccadelli, e soprattutto S. Michele dei Leprosetti, vero centro residenziale della categoria, dove i gruppi numerosi dei Gozzadini, Pegolotti, Poeti e Soldaderi portano a 110 il

Distribuzione dei cambiatori nei quartieri cittadini

Quartiere diPorta Procola

Quartiere diPorta Stiera

Quartiere diPorta Piera

Quartiere diPorta Ravegnana

132

numero dei cambiatori immatricolati, cifra di grandissimo rilievo, considerando che quella cappella elencava nell’estimo del 1296 soltanto 52 nuclei familiari10. È piuttosto interessante osservare la topografia di que-sti nuclei di addensamento rispetto alle tre cerchie urbane bolognesi. Un dato emerge subito in tutta evidenza: in massima parte (503 su 575) i cambiatori hanno la propria abitazione fra la prima e la seconda cerchia urbana, nella fascia cioè esterna alle mura di selenite ma ben all’interno della cerchia dei torresotti. Pochissime le eccezioni, tanto da poter essere rapidamente descritte. All’interno della prima cerchia hanno sede i Papazzoni, nella cappella di S. Nicolò degli Albari del quartiere di Porta Piera, i Datari e i Gardini nel quartiere di Porta Ravegnana, rispettivamente nelle pic-cole cappelle di S. Dalmasio e S. Michele del Mercato; un gruppo invece un po’ più folto, comprendente Foscherari, Pascipoveri e Visconti, abita nella cappella di S. Maria dei Carrari (quartiere di Porta Procola): nell’insieme sono solo 23 i cambiatori residenti all’interno del primo nucleo urbano bolognese; ne fanno parte, val la pena di notarlo, anche gli unici cambiatori del quartiere di Porta Stiera, appartenenti alla famiglia Pavanesi e residenti nella cappella centralissima di S. Martino dei Caccianemici. Pochi di più, una trentina in tutto, quelli che invece hanno sede nella terza fascia urbana, esterna ai torresotti e racchiusa dalla Circla: si concentrano in particolare nella zona orientale dell’abitato, fra strada Maggiore e strada S. Vitale, nelle cappelle di S. Tommaso della Braina e di S. Maria del Torleone, dove risiedono le famiglie Mussolini, Sassolini, Matafelloni, che immatricolano complessivamente una ventina di cambiatori. A parte questi ultimi casi, ed altre presenze ancor più sporadiche nelle cappelle della periferia nord-orientale di S. Maria Maddalena e S. Leonardo, la totalità della categoria è dunque saldamente arroccata dentro i serragli, che dalla metà del XII secolo racchiudevano i più antichi borghi extraurbani bolognesi. Né la cosa può destare alcuna sorpresa, conside-rando come la cerchia dei Torresotti, pur avendo perso fin

10 Estimi, b. 28, S. Michele dei Leprosetti.

133

dal quinto decennio del Duecento, con la costruzione della Circla, ogni funzione militare e amministrativa, continuava a conservare alla fine del secolo un significato di forte de-marcazione del territorio urbano (intra ed extra saralium), ma costituiva anche una linea di confine ben definita fra due insediamenti distinti sul piano sociale ed economico11. Un confine che vedeva risiedere all’interno dei serragli, nel territorio di più antica e compiuta urbanizzazione, tutte le famiglie aristocratiche e gran parte di quelle riconducibili a Mercanzia, Cambio ed alle altre arti di maggior peso eco-nomico e prestigio sociale, e nella vastissima area semirurale compresa fra i torresotti e la terza cerchia l’estendersi di numerosi nuclei di insediamento popolare, sorti prima lun-go le vie radiali che partivano dai due carrobbi, poi negli ampi spazi intermedi, ad ospitare famiglie di più recente immigrazione, che traevano il loro sostentamento, si diceva, dalle attività agricole o dalle varie fasi del ciclo produttivo tessile o conciario. Mentre è del tutto prevedibile, in que-sto quadro generale, trovare quasi tutti i cambiatori fra i residenti intra seralium, qualche osservazione un po’ più sfumata merita forse la loro sparutissima presenza all’interno della prima cerchia urbana. I 23 residenti sul territorio un tempo racchiuso dalle mura di selenite costituiscono infatti solo il 4% dei cambiatori bolognesi e il dato potrebbe a prima vista apparire sorprendente. È vero infatti che il nucleo più centrale dell’abitato era in gran parte occupato da edifici e spazi pubblici e quindi risultava in genere poco adatto all’insediamento dei ceti commerciali e creditizi; ma nonostante questo la percentuale di tutti gli immatricolati alle arti residenti in quel territorio urbano è quasi doppia (7%) rispetto a quella dei soli cambiatori12. Questa catego-ria economicamente privilegiata vive dunque ai margini del centro di più antica urbanizzazione, nonostante provenga in buona parte, come si è detto, dallo stesso ceto aristocratico che di quel nucleo deteneva, quasi assoluto, il monopolio

11 Su questi aspetti del paesaggio urbano bolognese, cfr. Giansante (1985-86, 215-220). 12 Pini (1996, 169).

TAV. 1. Le tre cerchie urbane e i quattro quartieri.

Fonte: Atlante storico delle città italiane. Emilia-Romagna, Bologna, II, Il Duecento, Bologna, Grafis Edizioni, 1995, pp. 12-13.

Città romana (II sec. a.C.)Mura di selenite (V-VII sec. circa)Cerchia dei Torresotti (XII sec.)Circla (XIII sec.)Confine fra i quartieri (XIII sec.)

136

TAV. 2. Chiese (secoli XII-XIV) entro la cerchia di selenite o delle «Quattro Croci».

P = Parrocchie; C = Conventi o monasteri maschili; M = Monasteri femminili.

Fonte: Storia della Chiesa di Bologna, a cura di P. Prodi e L. Paolini, vol. I, Bo-logna, ed. Bolis, 1997, p. 133.

137

1. S. Pietro, cattedrale e P2. S. Ambrogio, P3. S. Apollinare P4. S. Barbara, già SS. Ippolito e Cassiano P5. S. Bartolomeo di Palazzo P6. S. Benedetto «de Paleis» o di Porta Nuova P7. S. Cataldo dei Lambertini P8. S. Cristoforo dei Geremei P9. S. Croce P10. S. Dalmasio degli Scannabecchi P11. S. Eligio (o S. Alò, o S. Maria in Solario) P12. S. Gemignano delle Scuole P13. S. Giovanni Battista dei Celestini C e P14. S. Giusta P15. S. Lorenzo dei Guarini P16. S. Luca di Porta di Castello P17. S. Maria della Baroncella P18. S. Maria dei Bulgari P19. S. Maria dei Carrari, poi dei Foscarari, P20. S. Maria di Porta di Castello P21. S. Maria Rotonda dei Galluzzi P22. S. Maria dei Guidoscalchi P23. S. Maria dei Rustigani P24. S. Maria in Solario P25. S. Maria degli Uccelletti P26. S. Martino dei Caccianemici Piccoli, o di Porta Nuova o delle Bollette P27. S. Matteo degli Accarisi o delle Pescare P28. S. Michele dei Lambertazzi P29. S. Michele del Mercato di Mezzo P30. S. Nicolò degli Albari P31. S. Remigio o Remedio P32. S. Silvestro della Chiavica o in Cantina, già S. Maria della Chiavica P33. Ss. Sinesio e Teopompo P34. S. Tecla dei Lambertazzi P35. S. Tecla di Porta Nuova o dei Guezi, poi SS. Tecla e Silvestro P36. Ss. Vito e Modesto dei Lambertazzi P37. S. Maria della Vita confr. e ospedale38. S. Maria della Morte confr. e ospedale

A. Cappella della Croce dei SS. Apostoli ed Evangelisti detta Croce di Porta Ravegnana

B. Cappella della Croce delle SS. Vergini detta Croce di Strada Castiglione o Croce di S. Damiano o dei Casali

C. Cappella della Croce di Tutti i Santi detta Croce dei Santi o Croce in Bar-beria da S. Paolo

D. Cappella della Croce dei SS. Martiri detta Croce dei SS. Fabiano e Seba-stiano

E. Basilica di S. Petronio (iniziata nel 1390)

138

TAV. 3. Principali chiese (secoli XII-XVII) fra la cerchia delle Quattro Croci e la cerchia penultima.

P = Parrocchie; C = Conventi o monasteri maschili; M = Monasteri femminili.

Fonte: Storia della Chiesa di Bologna, a cura di P. Prodi e L. Paolini, vol. I, Bo-logna, ed. Bolis, 1997, p. 134.

139

1. S. Agata P2. S. Andrea degli Ansaldi P3. S. Andrea dei Piatesi P4. S. Antonino di Porta Nuova o delle Banzole P5. S. Barbaziano C e P6. S. Bartolomeo di Porta Ravennate C e P, poi C7. S. Cecilia P8. S. Colombano C e P, poi confr.9. Ss. Cosma e Damiano C e P10. S. Cristoforo di Saragozza o delle Muratelle P11. S. Donato P12. Ss. Fabiano e Sebastiano P13. Ss. Gervasio e Protasio M e P14. S. Giacomo dei Carbonesi P15. S. Giacomo Maggiore C16. Ss. Giacomo e Filippo dei Piatesi P17. S. Giorgio in Poggiale C e P18. S. Giovanni in Monte C e P19. S. Lucia P, poi C20. S. Marco P. poi confr.21. S. Margherita M e P22. S. Maria del Carrobbio o di Porta Ravennate P23. S. Maria della Ceriola o di Castel de’ Britti P24. S. Maria Maggiore P25. S. Maria delle Muratelle P26. S. Martino di Porta Nuova P27. S. Martino dell’Aposa, poi S. Martino Maggiore C e P28. S. Martino della Croce dei Santi P29. S. Michele dei Leprosetti P30. S. Michele Arcangelo del Ponticello o degli Agresti P31. Nicolò delle Vigne P, poi S. Domenico C32. S. Paolo Maggiore C33. Ss. Pietro e Marcellino P, poi confr.34. S. Procolo C e P35. S. Prospero P, poi confr.36. S. Salvatore C e P37. Ss. Simone e Giuda dei Maccagnani P38. Ss. Simone e Taddeo dei Papazzoni P39. S. Siro P, poi SS. Gregorio e Siro C e P40. S. Stefano C e P41. S. Tecla P42. S. Tommaso del Mercato P43. S. Vitale e Agricola M e P

140

1. S. Agnese M2. S. Ambrogio confr.3. S. Antonio Abate C, poi collegio4. S. Benedetto C e P5. S. Bernardo C6. S. Biagio C e P7. Ss. Carlo e Ambrogio confr.8. S. Caterina di Saragozza P9. S. Chiara, poi S. Filippo e Giacomo M10. S. Cristina della Fondazza M e C11. S. Cristina di Pietralata P12. SS. Crocifisso del Cestello confr.13. SS. Crocifisso del Porto Naviglio confr.14. S. Elena M

TAV. 4. Principali chiese (secoli XIII-XVII) fra la penultima cerchia e l’ultima cerchia.

P = Parrocchie; C = Conventi o monasteri maschili; M = Monasteri femminili.

Fonte: Storia della Chiesa di Bologna, a cura di P. Prodi e L. Paolini, vol. I, Bologna, ed. Bolis, 1997, p. 135.

141

15. S. Francesco C16. Gesù e Maria M17. S. Giacomo confr.18. S. Giacomo e Filippo delle Convertite, poi S. Maria del Buonpastore M19. S. Giovanni Battista M20. S. Giuliano P21. S. Giuseppe P, poi C, poi M22. Ss. Giuseppe e ignazio, conservatorio di ragazze23. S. Guglielmo24. S. Ignazio C25. S. Isaia P26. S. Leonardo P, poi M e P27. Ss. Lodovico e Alessio M28. S. Lorenzo di Porta Stiera29. S. Lorenzo di Strada Castiglione M30. S. Mamolo o S. Mamante P31. S. Maria degli Angeli confr.32. S. Maria degli Angeli M33. S. Maria del Baraccano confr.34. S. Maria delle Carità C e P35. S. Maria delle Febbri confr.36. S. Maria della Grada confr.37. S. Maria delle Grazie C38. S. Maria Incoronata confr.39. S. Maria delle Laudi confr. e Ospedale dei pellegrini detto l’Ospedaletto di

S. Francesco40. S. Maria delle Libertà confr.41. S. Maria della Mascarella C e P, poi P42. S. Maria Nuova M43. S. Maria della Pietà, casa per fanciulli mendicanti44. S. Maria della Pioggia, già S. Bartolomeo di Reno, confr.45. S. Maria del Piombo confr.46. S. Maria del Ponte delle Lame confr.47. S. Maria dei Poveri confr.48. S. Maria delle Rondini confr.49. S. Maria dei Servi C50. S. Maria del Soccorso o del Borgo di S. Pietro confr.51. S. Maria del Tempio detta la Magione P52. S. Maria del Torleone P, poi S. Caterina di Strada Maggiore M e P53. S. Maria Maddalena P54. S. Mattia M55. Ss. Naborre e Felice detta la Badia M e P56. Natività di Maria Vergine confr.57. S. Nicolò di S. Felice P58. S. Onofrio confr. e Ospizio per fanciulli59. S. Pellegrino confr.60. S. Pietro Martire M61. Rocco confr.62. Ss. Sebastiano e Rocco confr.63. S. Sigismondo P64. SS. Trinità confr. e ospedale65. SS. Trinità M66. S. Teresa M67. S. Tommaso della Braina o di Strada Maggiore

142

residenziale. Ai più antichi lignaggi bolognesi appartenevano infatti tutte le strutture abitative, case e torri, che conten-devano quel territorio a chiese e palazzi pubblici, cosicché ad esempio risultano tutte, o quasi tutte residenti dentro le antiche mura le 21 famiglie dell’aristocrazia consolare inserite nel 1271 nelle liste dei magnati13. Questo non vale, si diceva, per le famiglie appartenenti allo stesso ceto ma iscritte all’Arte del Cambio: Artenisi, Beccadelli, Garisendi, Orsi, Pegolotti, Rodaldi e Sabadini, pur essendo esponenti del ceto consolare bolognese, sono però tutti residenti al di fuori delle antiche mura orientali, distribuiti nel raggio di poche decine di metri lungo le strade che si diramano da Porta Ravegnana (S. Donato, S. Vitale, Maggiore), fra le cappelle di S. Donato, S. Michele dei Leprosetti, S. Stefano, S. Tecla. Analoga situazione si riscontra, ovviamente, per le famiglie di cambiatori appartenenti all’aristocrazia podesta-rile e a quella popolare (Baciacomari, Zovenzoni, Pepoli, Tettalasini, Gozzadini e così via), insediate quasi tutte in quelle stesse cappelle o in quella contigua di S. Agata, con l’eccezione dei Pascipoveri, unici fra le più rappresentative famiglie di cambiatori ad aver abitazione dentro la cerchia di selenite, nella cappella di S. Maria dei Carrari. Rispetto all’insediamento degli operatori, il concentrarsi delle attività creditizie e monetarie nei pressi di Porta Ra-vegnana sembra aver esercitato effettivamente un sensibile ruolo di catalizzazione, o piuttosto l’intenso fervore delle operazioni finanziarie che si svolgevano in quell’area, già privilegiata dagli scambi commerciali, potrebbe aver attrat-to verso quel settore economico l’attenzione delle famiglie benestanti da tempo insediate nella zona. Comunque sia, molto più che i mercanti verso il Mercato di Mezzo, o i beccai e i pescatori verso la beccheria e la pescheria magnae, i cambiatori bolognesi si addensano nelle immediate vicinan-ze del Cambio, dove quotidianamente esercitano le proprie funzioni professionali. Quelle attività erano infatti, dallo Statuto dell’arte, rigorosamente circoscritte ad uno spazio urbano ben definito, il Cambium appunto, la city bolognese

13 Milani (2001, 140-141).

143

del Duecento, del quale una rubrica statutaria fornisce confini chiari e inequivocabili, riferiti alla toponomastica dell’epo-ca e alle conoscenze dirette di ogni cambiatore: da quella chiesa a quel cantone, da quel pozzo a quella casa; al di là di quei confini non era lecito esercitare la professione, cioè, in primo luogo, cambiare monete e prestare denaro14. Per quel divieto tuttavia era prevista una sospensione periodica, in coincidenza delle due fiere annuali, quella di maggio e quella di agosto, che si svolgevano la prima presso la chiesa di S. Procolo, la seconda presso l’antico porto bolognese, là dove la via Emilia incontrava il fiume Reno. Dal 1219 però, allestita fra il borgo di Galliera e il corso dell’Aposa la grande piazza del Mercato, oggi piazza dell’Otto Agosto, il comune vi trasferì le due fiere annuali, oltre al mercato settimanale. In questa nuova sede del commercio periodico bolognese, i cambiatori, tutti insieme, si trasferiscono in maggio e in agosto, trasportando banchi e strumenti di lavoro in appositi spazi allestiti dall’Arte sul terreno del mercato15. Normalmente identificato, dunque, con un preciso spazio urbano, il Cambio è però in primo luogo una realtà umana, un gruppo professionale in grado all’occorrenza di trasferirsi collettivamente, per accompagnare il mercato cittadino e le sue complesse esigenze finanziarie, conservando sempre tuttavia la sua compattezza: nei tempi delle fiere, infatti, i banchi dei cambiatori manterranno comunque una stabile topografia, disponendosi l’uno accanto all’altro sulla piazza del mercato secondo un ordine stabilito dall’Arte, separati solo da stuoie e pertiche. Ciò che più conta, ciò che lo Statuto intende soprattutto garantire, nell’uno e nell’altro spazio professionale, è la costante possibilità del reciproco controllo fra i cambiatori, l’ininterrotta sorveglianza dei con-soli dell’arte sui propri colleghi, unica vera garanzia per la tutela della reputazione personale e collettiva degli operatori, che, come si è visto, lo Statuto del 1245 metteva al centro delle proprie attenzioni, individuandovi il requisito essenziale per il buon andamento degli affari, obiettivo evidentemente

14 Pini (1962, 54). 15 Ibid., pp. 54-55; Giansante (1985-86, 171, 186-190).

144

incompatibile con un esercizio troppo individuale e appartato della professione. Normalmente, tuttavia, lo spazio del Cambio è nel cuore della città, dove affianca gli altri centri della vita economica bolognese: il Mercato di Mezzo, corrispondente all’attuale via Rizzoli, la beccheria magna, fra il Mercato di Mezzo e la via Caprarie, la pescheria magna, fra la torre degli Asinelli e la chiesa di S. Bartolomeo, l’antica domus calegariorum; luoghi, tutti, affacciati sulla prima porta orientale di Bologna e sul trivio da cui partivano le principali direttrici commerciali che collegavano la città alla Romagna e alla Toscana. Da quella piazza insomma transitavano quasi tutte le merci in entrata e in uscita dalla città. Su quella piazza brulicante, immortalata da una celeberrima miniatura quattrocentesca, si dipanava giorno per giorno la rete dei commerci, delle trattative, de-gli affari16. Su quella piazza si affacciava anche la chiesa di S. Maria di Porta Ravegnana, o del Carrobbio, prima sede del Cambio, centro della vita societaria, amministrativa e devozionale dei banchieri bolognesi del Duecento.

3. Ricchezza e classi di ricchezza nell’estimo di Bologna del 1296-97

3.1. L’estimo come fonte per la storia economica

Il contributo di una fonte come l’estimo allo studio della storia economica bolognese di fine Duecento è certamente notevole, ma necessita di alcune cautele metodologiche. Argomenti diversi, già segnalati da numerosi studiosi e sui quali quindi non è necessario soffermarsi a lungo, ne fanno una risorsa documentaria ricchissima e infida ad un tempo17.

16 Sull’importanza economica, urbanistica e simbolica della piazza di Porta Ravegnana, si può vedere ora Antonelli e Pedrini (2000, 55-61). 17 Per una bibliografia esauriente sugli estimi bolognesi si può ricorrere a Pini (1995, 345-349). Sul sistema fiscale del comune bolognese, i contributi più importanti rimangono a tutt’oggi Bocchi (1973) e Pini (1977b). Sugli estimi dei cittadini bolognesi è attualmente in corso di realizzazione un importante progetto di ricerca («Fonti medievali in rete»), coordinato da

145

È insito ad esempio in questo genere di accertamenti patri-moniali un limite obiettivo, di staticità dell’immagine che ci viene offerta, trattandosi a tutti gli effetti di un’operazione che immobilizza a scopi fiscali una realtà all’opposto fluida e mobilissima, come era la distribuzione della ricchezza in quella fase dello sviluppo economico. E d’altro canto ragioni altrettanto evidenti, anch’esse più volte sottolineate dagli studiosi, stanno a sostegno dell’incomparabile completezza dell’estimo rispetto ad altre fonti per la storia economica: era assai difficile per i cittadini sottrarsi all’obbligo della dichiarazione patrimoniale, ed era anzi nell’interesse stesso dei denuncianti presentare elenchi il più possibile completi dei propri beni immobili e dei crediti, dato che le denunce venivano poi a costituire nel loro insieme una sorta di atte-stazione di proprietà, cui fare riferimento nei casi frequenti di contestazioni dovute ai ricorrenti episodi di fuoriuscitismo18. Queste circostanze, unitamente ad una initerrotta tradizione di attenta cura archivistica di cui questo patrimonio docu-mentario ha goduto, prima presso la Camera degli atti del comune, poi nell’Archivio Pubblico, infine nell’Archivio di Stato bolognese, fanno sì che la fotografia della ricchezza propostaci dall’estimo del 1296-97 costituisca anche per la nostra ricerca un eccellente punto di partenza. Il pregio di completezza della fonte non si estende, ov-viamente, alla veridicità delle denunce, essendo implicita in questa come in tutte le dichiarazioni fiscali una percentuale di evasione, difficile a valutarsi ma comunque significativa. Le cifre risultanti dagli estimi sono infatti, soprattutto rispet-to alle valutazioni proposte per i beni immobili, del tutto inaffidabili e del resto venivano opportunamente verificate e arrotondate, prima di essere registrate nei ruoli, come capitale imponibile dei cittadini bolognesi19. Va detto tuttavia che questo limite degli estimi, assai sensibile nella descrizione della proprietà immobiliare, costantemente sottovalutata

Francesca Bocchi per il Centro Gina Fasoli per la storia della città. Se ne possono vedere i primi risultati in www.centrofasoli.unibo.it. 18 Pini (1977b, 118-120). 19 Ibid., p. 119.

146

dai contribuenti, lo è molto meno per quanto riguarda la denuncia dei crediti, più interessante per il nostro oggetto di ricerca. La registrazione corretta di un credito nell’estimo costituiva infatti una garanzia ulteriore di esigibilità per il creditore20, soprattutto nei casi non infrequenti di prestiti stipulati senza istrumento notarile, e d’altro canto la corri-spondente dichiarazione del debitore, che aveva comunque interesse ad elencare tutte le voci «in detrazione», avrebbe costituito una lampante denuncia dell’eventuale evasione. Il che ci porta a ritenere quasi trascurabili i capitali creditizi sfuggiti all’estimo, mentre le cifre complessive risultanti dalle denunce, risentendo, come si accennava, dell’ampia sottostima degli immobili, vanno considerate con estrema cautela. La maggior parte delle cedole d’estimo riporta, oltre alla somma totale della dichiarazione, di solito introdotta dalla formula summa totius extimi capit et est, la cifra risultante dal-la verifica degli estimatori, stima «tecnica», spesso molto più alta della precedente, e talvolta anche una terza cifra, «stima politica», risultato di valutazioni extraeconomiche, che può tenere conto o meno dei debiti e di altre circostanze addotte dal dichiarante. Di fatto tuttavia, l’unica cifra costantemente presente nelle denunce, o comunque da esse ricavabile, è la somma dichiarata e quindi, nelle considerazioni d’insieme che ora proporremo sulla distribuzione della ricchezza, sarà necessariamente questo il dato cui fare riferimento, anche se le incursioni che effettueremo negli estimi dei banchieri bolognesi ci offriranno gli elementi per valutare volta per volta l’incompletezza delle stime dichiarate.

20 I figli di Bianco di Cosa, cambiatori della cappella di S. Stefano, dichiarano ad esempio nella loro denuncia d’estimo del 1296 di considerare del tutto inesigibili alcuni dei propri crediti, a causa dell’atteggiamento arrogante dei nobili debitori, e tuttavia non rinunciano ad elencarli nel-l’estimo «ne ius repetendi amitterent» (Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56).

147

3.2. Ricchezza della città e ricchezza dei quartieri

I contribuenti bolognesi documentati nel 1296-97 sono complessivamente 9.912; le 9.635 denunce leggibili descrivono nell’insieme un patrimonio di 2.239.236 lire di bolognini; la ricchezza media per fuoco, non considerando le 277 denunce illeggibili, è dunque di poco superiore alle 232 lire di bolognini: all’incirca il valore di dodici coppie di buoi, o di una casa colonica e dieci tornature fra arativo e vigna, o del corredo bibliografico di uno studente agli ultimi anni del corso di studi giuridici; poco più, infine, della spesa semestrale del comune per lo stipendio dei dieci sbirri che costituiscono il corpo di polizia del Capitano del Popolo21. Valori assai ingenti a prima vista, ma nella sua nuda entità matematica questo dato è in realtà assai poco significativo, essendo il risultato di medie estremamente diversificate sul piano sociale, economico, topografico; essendo soprattut-to, come vedremo tra breve, il risultato dell’assommarsi di pochissime denunce di enorme entità e di una grande maggioranza di denunce modeste o modestissime. Già una semplice scomposizione del dato sulla base dei quattro quartieri cittadini sembra offrire qualche spunto interessante di riflessione.

QuartiereNumero

delle denunce leggibili

Ricchezza totale in lire di bolognini

Ricchezza media in lire di bolognini

Numero delle denunce

illeggibili

Porta Piera 2.391 579.052 242 86Porta Ravegnana 1.908 552.435 289 61Porta Procola 2.656 566.060 213 66Porta Stiera 2.680 541.689 202 64Totale 9.635 2.239.236 232 277

21 Salvo diverse indicazioni, le cifre d’estimo elaborate in questo e nei successivi paragrafi sono ricavate dalle appendici documentarie di Castagnini (1974-75); Micheletti (1979-80); Giansante (1982-83); Rocca (1984-85). I dati relativi al quartiere di Porta Ravegnana sono però sen-sibilmente diversi rispetto a quelli proposti da Donatella Micheletti, in seguito all’emergere, in recenti lavori di riordinamento archivistico, di altri estimi appartenenti a quel quartiere, e precisamente alla cappella di

148

La parte orientale dell’abitato, corrispondente ai quartieri di Porta Piera e Porta Ravegnana, si caratterizza dunque per un livello medio di ricchezza sensibilmente superiore rispetto agli altri due. Uno squilibrio economico fra le diverse zone dell’abitato era probabilmente all’origine della sproporzione territoriale e demografica fra le ripartizioni bolognesi, già più volte rilevata da storici e urbanisti, in base alla quale al quartiere di Porta Procola e a quello di Porta Stiera spet-tava un 30% circa del territorio urbano, a quello di Porta Piera il 25% e a Porta Ravegnana solo il 15%22; situazione che si propone pressoché identica a livello demografico nella ripartizione dei fuochi, a riprova di un popolamento piuttosto omogeneo dell’abitato bolognese. In base alle cir-coscrizioni amministrative, infatti, secondo i dati dell’estimo di fine Duecento, il 28% dei cittadini risiede nel quartiere di Porta Procola, la stessa percentuale in Porta Stiera, il 26% in Porta Piera e solo il 18% in Porta Ravegnana23. Sembra dunque probabile che al momento dell’istituzione dei quartieri cittadini e del nuovo sistema fiscale dell’estimo, da collocarsi fra il 1220 e il 1235, la forte concentrazione della ricchezza patrimoniale in una certa zona dell’abitato bolognese abbia giocato un ruolo decisivo nella definizione dei confini fra una circoscrizione e l’altra. Un’approssimativa equivalenza patrimoniale e contributiva, più che territoriale e demografica, sarebbe stata cioè il principale obiettivo della riforma, che assegnava ai quartieri ampi margini di autonomia amministrativa e finanziaria e ne faceva, soprattutto, soggetti distinti di prelievo fiscale; aveva quindi tutti gli interessi a creare circoscrizioni non troppo squilibrate fra loro sul piano patrimoniale24. Obiettivo non facile da realizzare, e soprattutto difficile da mantenere nel tempo, per l’estrema mobilità che carat-terizzava la vita economica bolognese nel Duecento. Gli

S. Tommaso della Braina o di Strada Maggiore (Estimi, b. 31, S. Tommaso della Braina, II). Per lo stipendio degli sbirri del Capitano del Popolo, cfr. Statuti di Bologna (1937-39, II, 188). 22 Pini (1977a, 9). 23 Estimi, bb. 2-48. 24 Pini (1977b, 113-115); Micheletti (1981, 298-299).

149

25 Pini (1977a, 7-18).

Ripartizione del territorio urbano nei quattro quartieri

Quartiere diPorta Procola

Quartiere diPorta Stiera

Quartiere diPorta Piera

Quartiere diPorta Ravegnana

Quartiere diPorta Procola

Quartiere diPorta Stiera

Quartiere diPorta Piera

Quartiere diPorta Ravegnana

Ripartizione della popolazione cittadina nei quattro quartieri (dall’estimo del 1296-97)

amministratori comunali lo perseguirono tuttavia in modo esemplare, disegnando ex novo i confini dei quartieri sul territorio urbano, anche a costo di attraversare, spezzandole, le più antiche unità demografiche e territoriali rappresentate dalle parrocchie cittadine25. Se questo era effettivamente il

150

contesto della riforma amministrativa che istituiva i quartieri cittadini, dobbiamo ipotizzare che, verso il 1220, le autorità comunali, in procinto di riorganizzare completamente le finanze pubbliche sulla base dell’estimo e dei nuovi principi fiscali di prelievo proporzionale, disponessero già di una approfondita conoscenza della distribuzione topografica della ricchezza e di una notevole capacità di previsione. A distanza di una settantina d’anni da quella riforma, infatti, la distribuzione della ricchezza fra i quattro quartieri è an-cora mirabilmente equilibrata: su 2.239.236 lire denunciate complessivamente dai cittadini bolognesi nel 1296, il 25,8% appartiene agli abitanti di Porta Piera, il 24,7% a quelli di Porta Ravegnana, il 25,3% a quelli di Porta Procola e infine il 24,2% a quelli di Porta Stiera. L’orientarsi della maggior parte dei grandi capitali di partenza verso il settore creditizio, fenomeno che caratte-rizza potentemente la storia bolognese di quei decenni, non aveva dunque alterato più di tanto il complesso e artificioso equilibrio economico e fiscale fra le circoscrizioni urbane costruito dalle autorità comunali verso il 1230.

3.3. Fasce urbane e medie di ricchezza

La ricchezza media è invece, come si accennava, piuttosto diversa fra un quartiere e l’altro: 202 e 213 lire nel settore

Distribuzione della ricchezza nei quattro quartieri (dall’estimo del 1296-97)

Quartiere diPorta Procola

Quartiere diPorta StieraQuartiere di

Porta Piera

Quartiere diPorta Ravegnana

151

occidentale (Stiera e Procola), 242 e 289 in quello orientale (Piera e Ravegnana). Ma soprattutto la distribuzione della ricchezza sul territorio riflette in modo diretto la specifica vocazione sociale e residenziale delle diverse zone urbane e la loro prevalente destinazione produttiva o commerciale. Le medie di ricchezza, cioè, cambiano sensibilmente non solo fra un quartiere e l’altro, in ragione, come vedremo, della diversa incidenza dei capitali creditizi, ma anche rispetto alla maggiore o minore distanza dal centro, ed in particolare risentono del forte elemento di demarcazione economica e residenziale rappresentato dalla cerchia dei Torresotti. In tutto il territorio urbano, pur con sensibili differenze fra un quartiere e l’altro, gli indicatori sono costanti nel segnalare un progressivo rarefarsi della ricchezza man mano che si procede dal centro verso la Circla, con un brusco scarto in corrispondenza dei serragli urbani. Confrontiamo ad esempio le due tabelle relative al quartiere più ricco, Porta Ravegnana, e a quello più povero, Porta Stiera (tabelle V-VI), in cui vengono riportate le medie di ricchezza di tutte le cappelle del quartiere, indicando di ognuna l’ubicazione all’interno delle mura di Selenite (S), o nella fascia compresa fra la prima cerchia e quella dei Torresotti (T), o in quella compresa fra i Torresotti e la Circla (C), o infine al di fuori della Circla (EC). Sebbene più accentuato in quello di Porta Ravegnana, il fenomeno è piuttosto evidente in entrambi i quartieri: le grandi cappelle periferiche (S. Benedetto del Borgo di Galliera, S. Cristina di Pietralata, S. Maria della Carità, S. Biagio, S. Giuliano) e quelle extra circlam (S. Alberto, S. Antonio di Savena, S. Omobono), abitate prevalentemente da famiglie di contadini e di operatori del ciclo produttivo tessile, presentano cifre medie modeste, mai superiori alle 100 lire; costantemente superiori alle 200 lire, per Porta Stiera, alle 500 per Porta Ravegnana, sono invece le cifre medie delle cappelle situate fra le mura di selenite e i torresotti; troppo pochi infine, per azzardare analisi statistiche, i fuo-chi all’interno della prima cerchia urbana, e comunque con medie molto elevate, in alcuni casi superiori alle 800 lire. L’andamento delle medie di Porta Piera e Procola è molto

152

simile a quello descritto per gli altri due quartieri, anche se il caso di Porta Procola risente, come vedremo, della fortissima alterazione provocata dagli estimi del tutto fuori scala della cappella di S. Agata (tabelle VII-VIII). Sono assai sporadiche, ma del massimo interesse, le ec-cezioni rispetto al quadro generale. Nel quartiere di Porta Ravegnana, i 253 fuochi della cappella di S. Tommaso della Braina, situata a ridosso delle seconde mura, ma comunque esterna al serraglio di Strada Maggiore, presentano una media di ricchezza insolitamente alta per quella fascia urbana (390 lire), assai vicina invece a quelle delle cappelle interne ai torresotti. Una situazione analoga si manifesta nel quartiere nord-occidentale di Porta Stiera, in cui la cappella di S. Isaia, esterna alla seconda cerchia, distinguendosi da tutte le circoscrizioni di quella fascia urbana, presenta, con 976 lire, la media di ricchezza più alta di tutto il quartiere, superiore anche rispetto a quelle delle centralissime S. Maria di Porta Castello e S. Martino dei Caccianemici, territorio residenziale esclusivo dei ceti aristocratici. Entrambe le eccezioni, così come quella meno eclatante di S. Lorenzo di Porta Stiera, che pure presenta una media di ricchezza (489 lire) superiore a quelle delle altre cappelle esterne ai torresotti, si spiegano con la presenza di un ristretto numero di gruppi familiari i cui successi economici, più o meno recenti, fanno impennare le medie di ricchezza di quelle circoscrizioni. Per la cappella di S. Lorenzo si tratta di alcuni esponenti delle famiglie Buttrigari e Bambaglioli26, che traevano prestigio sociale ed una solida stabilità economica dalla professione notarile, e che di lì a poco avrebbero anche ricoperto un ruolo non secondario nella vita culturale cittadina. Nella contrada di S. Isaia, precisamente in via del Pratello, avevano stabilito da qualche decennio la propria residenza urbana i Guastavillani, che dovevano le loro fortune all’allevamento del bestiame e ad uno sfruttamento spregiudicato dei contratti di soccida e zoatica, grazie ai quali proprio in quegli anni stavano rapidamente accumulando un capitale enorme, in grado di allinearli, unico gruppo estraneo agli ambienti creditizi, alle

26 Estimi, b. 41.

153

più ricche famiglie bolognesi dell’epoca27. S. Tommaso della Braina, infine, era l’unica fra le cappelle esterne ai torresotti a far registrare una significativa presenza di esponenti del Cambio, appartenenti alle famiglie Baciacomari, Lambertini Barattieri, Sassolini e Mussolini, il che l’accostava per media d’estimo alle più ricche cappelle bolognesi, quelle disposte a corona intorno al Carrobbio di Porta Ravegnana28. Non a S. Agata, tuttavia, contrada medio-piccola del quartiere di Porta Procola, in cui risiedono nel 1296 una ventina di famiglie per lo più di cambiatori: 15 contribuenti su 20 dichiarano una ricchezza media di 1.295 lire, ma gli altri 5, esponenti della famiglia Pepoli, fanno impennare all’inarrivabile cifra di 5.605 lire la media generale della cappella29.

3.4. Classi di ricchezza

Il nudo dato matematico delle medie di ricchezza dei quattro quartieri e delle 99 cappelle, se può fornire un’idea immediata della ineguale distribuzione del capitale immo-biliare e creditizio sul territorio urbano, non ci dice nulla dei diversi livelli economici della popolazione bolognese. Qualche elemento di valutazione in proposito potrebbe venire da una semplice ripartizione dei 9.912 contribuenti del 1296 in classi di ricchezza. Utilizzerò a questo scopo una classificazione già sperimentata nelle prime ricerche sugli estimi30, che ripartisce i cittadini, sulla base delle loro dichiarazioni fiscali, in otto classi: dalla prima, quella dei nullatenenti, all’ottava, che riguarda le denunce superiori alle 1.000 lire di bolognini (tabelle IX-XII). La situazione ne emerge assai articolata: l’addensarsi delle denunce nelle diverse classi è estremamente vario, in relazione ai quartieri e alla topografia delle cappelle.

27 Sui Guastavillani e sui loro estimi si può ora vedere Libro di conti (2003, 16-27). 28 Estimi, bb. 30-31. 29 Estimi, b. 12. 30 Si tratta dei lavori citati alla precedente nota 21.

154

Distribuzione dei contribuenti bolognesi nelle otto classi di ricchezza

Quartiere di Porta Piera

Classe I(nullatenenti)

Classe II(1-25 lire)

Classe III(26-50 lire)

Classe IV(51-100 lire)

Classe V(101-200 lire)

Classe VI(201-500 lire)

Classe VII (501-1.000 lire)

Classe VIII (oltre 1.000 lire)

Denunce illeggibili

Quartiere di Porta Ravegnana

Classe I(nullatenenti)

Classe II(1-25 lire)

Classe III(26-50 lire)

Classe IV(51-100 lire)

Classe V(101-200 lire)

Classe VI(201-500 lire)

Classe VII (501-1.000 lire)

Classe VIII (oltre 1.000 lire)

Denunce illeggibili

155

Quartiere di Porta Procola

Classe I(nullatenenti)

Classe II(1-25 lire)

Classe III(26-50 lire)

Classe IV(51-100 lire)

Classe V(101-200 lire)

Classe VI(201-500 lire)

Classe VII (501-1.000 lire)

Classe VIII (oltre 1.000 lire)

Denunce illeggibili

Quartiere di Porta Stiera

Classe I(nullatenenti)

Classe II(1-25 lire)

Classe III(26-50 lire)

Classe IV(51-100 lire)

Classe V(101-200 lire)

Classe VI(201-500 lire)

Classe VII (501-1.000 lire)Classe VIII (oltre 1.000 lire)

Denunce illeggibili

156

Nelle zone periferiche, là dove le medie di ricchezza sono più basse, è, come prevedibile, pressoché nulla l’incidenza dei capitali superiori alle 500 lire (classi VII e VIII), ed è piuttosto alta la percentuale dei nullatenenti: 17% a S. Maria della Mascarella e S. Sigismondo (Porta Piera), 19% a S. Biagio (Ravegnana), 24,5% a S. Antonio (Piera), fino al 57% di S. Egidio (Piera). La tendenza, sensibile, non è tuttavia universale, come mostrano i dati molto interessanti delle popolarissime cappelle di S. Omobono (Ravegnana), S. Cristina di Pietralata e S. Benedetto di Galliera (Stiera), in cui la percentuale dei nullatenenti raggiunge a malapena il 12%, mentre a S. Maria della Carità (Stiera) si attesta intorno all’8%. In questa fascia periferica dell’abitato sono invece decisamente maggioritari i capitali delle classi I (1-25 lire) e II (26-50 lire), che nell’insieme costituiscono percentuali variabili fra il 50 e il 60% in tutti i quartieri della città. Costante è anche la tendenza che vede crescere l’incidenza delle classi VI (201-500), VII (501-1.000) e VIII (oltre 1.000 lire), man mano che ci si avvicina al centro cittadino. Anche

La città nel suo insieme

Classe I(nullatenenti)

Classe II(1-25 lire)

Classe III(26-50 lire)

Classe IV(51-100 lire)

Classe V(101-200 lire)

Classe VI(201-500 lire)

Classe VII (501-1.000 lire)

Classe VIII (oltre 1.000 lire)

Denunce illeggibili

157

a questo proposito tuttavia le sfumature sembrano prevalere sui dati incontrovertibili; cosicché, se nella centrale S. Maria dei Guidoscalchi (Procola) le tre classi superiori accolgono complessivamente il 58% delle denunce e a S. Michele dei Leprosetti (Ravegnana) e S. Maria di Porta Castello (Stiera) raggiungono e superano il 70%, nelle altrettanto centrali S. Maria di Porta Ravegnana (Ravegnana) e S. Giovanni in Monte (Procola) non toccano il 45%, mentre a S. Colombano (Stiera) e S. Cecilia (Piera) superano di poco il 30% e a S. Maria della Baroncella (Procola), centralissima, raggiungono appena il 22,5%. Può anche risultare di qualche interesse accorpare per quartiere i dati delle classi di ricchezza e riflettere sulla si-tuazione complessiva della città (tabella XIII). Il quartiere di Porta Stiera, quello, fra i quattro, con la ricchezza com-plessiva e media più basse, ha tuttavia anche la percentuale più bassa di nullatenenti (10,6%), classe che rappresenta nell’insieme il 13,4% della popolazione bolognese estimata e che tocca il livello più alto nel quartiere sud-occidentale di Porta Procola (16%). All’estremità opposta della scala economica, le classi VI, VII e VIII, e cioè i capitali da 201 ad oltre 1.000 lire di bolognini, raggiungono la maggiore incidenza nel settore orientale dell’abitato, dove costituiscono nell’insieme il 22,2% delle denunce di Porta Piera e il 24,4% di quelle di Porta Ravegnana, mentre sono sensibilmente più basse le percentuali nel settore occidentale: 18,4% a Porta Stiera e solo 15,3% a Porta Procola. Il dato forse più rilevante sul piano economico e sociale emerge con immediatezza da una sia pur rapida riflessione sull’incidenza complessiva delle classi dalla III (26-50 lire) all’VIII (oltre 1.000 lire): più del 61% dei contribuenti bolognesi dichiara di possedere nel 1296 un capitale supe-riore alle 25 lire di bolognini. Senza considerare l’accennata presenza di un’evasione fiscale certamente ingente ma non quantificabile con sicurezza, questo dato indica in quella ri-levantissima percentuale i bolognesi titolari di un patrimonio equivalente almeno al valore, oscillante fra le 20 e le 30 lire circa, di una casa unifamiliare, la cui tipologia prevalente prevedeva un fronte stradale di 10 piedi (3,8 m circa), con

158

locali adibiti a bottega al piano terra ed abitazione al pri-mo piano, uno sviluppo variabile in profondità ed un orto sul retro31. A questa dichiarazione patrimoniale-tipo, che costituisce in effetti il caso statisticamente più frequente, si aggiungono nelle denunce delle classi medie (IV, 51-100 lire, e V, 101-200 lire), beni di genere e valori diversi, come altri immobili (edifici in città e terreni nella guardia), bestiame e soprattutto crediti, la cui presenza capillare sarà oggetto di approfondimento nel prossimo capitolo. Una situazione che potremmo definire di dignitoso benessere era dunque ampiamente diffusa fra i cittadini bolognesi di quei decenni. Anche se il quadro complessivo della distribuzione della ricchezza non può ignorare il dato, altrettanto rilevante, dell’alto livello di concentrazione del capitale nelle mani di una ristretta élite economica:

Ricchezza dichiarata dai contribuenti della classe VIII (oltre 1.000 lire)

Quartiere

Numero dei contribuenti della classe

VIII

% sul totale delle

denunce

Ricchezza dichiarata dai contribuenti della cl. VIII

% sulla ricchezza totale del quartiere

Porta Piera 108 4,3 289.280 49,9Porta Ravegnana 123 6,2 316.633 57,3Porta Procola 94 3,4 331.624 58,5Porta Stiera 95 3,4 257.849 47,6Totale della città 420 4,2 1.195.386 53,3

Una ridottissima percentuale di cittadini bolognesi, 420 sui 9.912 estimati, pari al 4% circa, detiene dunque più del 53% del capitale complessivo, 1.195.386 lire su 2.239.236, e la percentuale si attesta intorno al 58% nella zona me-ridionale dell’abitato (Porta Ravegnana e Porta Procola). Una quota assai considerevole di questi patrimoni dell’VIII classe di ricchezza sono, come vedremo ora, di provenienza creditizia.

31 Giansante (1985, 129-130). Per un più ampio panorama dell’edilizia civile bolognese del Duecento, cfr. Bocchi (1990); sull’edilizia connessa alle lottizzazioni monastiche, Fanti (1963; 1976).

159

4. La ricchezza dei banchieri

Non è impresa semplice quantificare il rapporto fra capi-tali di origine prevalentemente creditizia, appartenenti a fami-glie di cambiatori, e capitali di origine diversa, appartenenti a famiglie estranee al Cambio. Esprimersi con sicurezza in proposito richiederebbe infatti uno studio analitico di tutte le denunce d’estimo, operazione al momento irrealizzabile. È tuttavia verosimile che un 33% circa della ricchezza dichiarata complessivamente dai 420 cittadini bolognesi più facoltosi sia riconducibile, in modo più o meno diretto, alle attività creditizie, dato che ne sono titolari esponenti di famiglie tradizionalmente legate alla Societas campsorum. Anche in questo caso tuttavia le percentuali sono molto diverse nelle varie zone del territorio urbano: l’incidenza dei capitali creditizi sul totale della ricchezza va dal minimo del 10% di Porta Stiera al massimo del 54% di Porta Ravegnana, mentre si attesta su valori intermedi negli altri due quartieri, 25% a Porta Piera, 39% a Porta Procola. Prima però di affrontare direttamente la ricchezza dei banchieri bolognesi, può essere utile descrivere per sommi capi i fenomeni più rilevanti di accumulazione di ricchezza realizzati fuori dall’ambito del Cambio, le famiglie cui appartengono questi capitali, i per-corsi professionali non creditizi che sembrano consentire le più rapide ascese economiche.

4.1. I capitali non creditizi

4.1.1. Porta Stiera. Il quadrante nord-occidentale è dun-que la zona urbana in cui risulta più bassa l’incidenza del credito sui capitali più ingenti. Il che, come si accennava, deve intendersi riferito all’estrazione socio-economica dei dichiaranti, piuttosto che al contenuto specifico delle sin-gole dichiarazioni d’estimo, che, esaminato volta per volta, denuncerebbe anzi anche in questo quartiere, come negli altri, la presenza diffusa e capillare del credito non profes-sionale. Ma si tratta appunto, per Porta Stiera, di capitali e di contribuenti solo in minima parte (10% circa) ricondu-

160

cibili alla Società del Cambio, prevalentemente legati invece ad altre realtà economiche. In primo luogo al mondo delle professioni, quelle giuridiche soprattutto e quella medica, e poi alla proprietà terriera e all’allevamento del bestiame. Un caso fortemente emblematico, per la felice integrazio-ne fra le origini rurali della famiglia e il mondo urbano delle arti, è quello dei Guastavillani, insediati ormai da qualche decennio nel borgo del Pratello, ed estimati quindi nella cappella di S. Isaia32. A membri della famiglia Guastavillani appartiene un capitale ingentissimo, che si aggira nel 1296 intorno alle 60.000 lire di bolognini, ed è il risultato della rapida accumulazione realizzata nel corso di due generazioni dai discendenti di Guastavillano, benestante contadino di Zola Predosa inurbatosi verso il 1230. Due dei quattro figli di Guastavillano, Albertino e Bonincontro, ed il figlio di quest’ultimo, Villano, sono protagonisti nella seconda metà del Duecento di una fortunatissima stagione di acquisti fondiari e di speculazioni spregiudicate, che ne fa verso il 1305 uno dei più potenti gruppi economici bolognesi, secondo probabilmente solo a quello dei Pepoli. Instanca-bili accumulatori di capitali fondiari e grandi allevatori di bestiame – Bonincontro, vero manager dell’azienda, è infatti immatricolato fra i beccai bolognesi – i Guastavillani basano il loro rapido successo in città su di un rapporto ininterrot-to e proficuo con le loro zone di provenienza e con altre fasce del contado, in cui distendono una rete tentacolare di presenze sempre più invasive, alla progressiva conquista di terre ai danni della piccola proprietà contadina. Mobilitano a questo scopo una varia ed efficace tipologia di contratti: locazioni di bestiame, mutui, anticipi di fieno e sementi; contratti sostanzialmente usurarii e teoricamente illeciti, di fatto assai diffusi, giugulatorii per i contadini quanto red-ditizi per i concedenti. Non è certo secondario in questo quadro, che configura un processo di affermazione dei ceti urbani caratteristico di quei decenni, il legame che la famiglia

32 La più recente ricerca sui Guastavillani, sulle origini del loro patrimo-nio e sui loro estimi è quella citata alla precedente nota 27; in quel volume si troveranno anche tutti i necessari rinvii alla precedente bibliografia.

161

Guastavillani aveva sviluppato precocemente con la Società dei Notai, in cui militavano Albertino e i suoi fratelli Gia-como e Martinetto, rapporti grazie ai quali quella conquista poteva disporre del più agguerrito e aggiornato repertorio contrattuale. Anche altri capitali di prima grandezza del quartiere di Porta Stiera sono il frutto di una felice integrazione fra proprietà terriera e professione notarile. Si tratta in alcuni casi di famiglie di antica nobiltà rurale, poi esponenti del-l’aristocrazia consolare, come i da Sala, che già alla metà del Duecento sono però ben rappresentati nella Società dei Notai e professionalmente assai attivi, con Manfredo, ad esempio, e con il figlio Enrichetto33: i loro discendenti sono, nell’estimo del 1296, fra i primi contribuenti della cappella di S. Nicolò del Borgo di S. Felice34. A più recenti affermazioni, già consolidate però su base fondiaria, devono i loro successi economici i Canetoli, fra i più ricchi residenti della cappella di S. Lorenzo35, e i Ghisilieri, che si possono ascrivere all’aristocrazia podestarile, dato che a partire dalla fine del XII secolo li troviamo ripetutamente impegnati in ruoli politici e diplomatici di rilievo, ma anche nelle pro-fessioni giuridiche e in particolare nel notariato36; anche i Ghisilieri sono, grazie a queste attività, titolari di un patri-monio di tutto rilievo, superiore alle 7.000 lire di bolognini, nella parrocchia di S. Gervasio37. Così come i Panzoni, già nel XII secolo affermati giuristi e maestri nello Studio, ma nel XIII attivissimi notai e anche per questo fra i più ricchi contribuenti della cappella di S. Siro38. Al prestigio giuridi-co e accademico devono la loro fortuna anche i Malavolta, che pure, come i Ghisilieri, appartengono all’aristocrazia

33 ASBo, Atti dei notai del distretto di Bologna, Secolo XIII, Sala Manfredo; Sala Enrichetto. 34 Estimi, b. 46; sulla storia della famiglia da Sala e relativa bibliografia, cfr. Tugnoli Aprile (1996). 35 Estimi, b. 41 36 Sui notai della famiglia Ghisilieri si possono vedere le voci biografiche di Tamba (2000a). 37 Estimi, b. 38. 38 Estimi, b. 47.

162

postconsolare: Ubaldino e Gillio, entrambi dottori civilisti, sono fra i primi contribuenti delle centralissime cappelle di S. Bartolomeo del Palazzo e di S. Maria di Porta Castello39, così come il poeta Guido Guinizzelli, residente nella cappella di S. Benedetto di Porta Nuova, che certo poteva vantare un avo, Magnano, già attivo nel 1229 negli uffici comunali, ma si era affermato, come il padre Guinizzello, grazie alle consulenze giuridiche esercitate da entrambi in anni recenti nell’amministrazione giudiziaria40. Gli altri titolari dei capitali maggiori del quartiere sono ascrivibili al mondo delle pro-fessioni, in primo luogo giudici, medici e notai. Non sono rari tuttavia casi che dimostrano ancora vivace, verso la fine del Duecento, il fenomeno dell’inurbamento di contadini benestanti, già ricordato a proposito dei Guastavillani, del quale però si possono citare esempi meno eclatanti, come quelli dei discendenti di contadini provenienti dal territorio di Bertalia e insediatisi nella cappella di S. Colombano o in quella di S. Giorgio in Poggiale41.

4.1.2. Porta Piera. Anche nel quartiere nord-orientale di Porta Piera, i capitali non creditizi sono nettamente preva-lenti su quelli riconducibili in qualche modo alla Società del Cambio e ai suoi esponenti, in un rapporto che si configura all’incirca come di 3 ad 1. Le famiglie di maggior peso eco-nomico del quartiere appartengono con poche eccezioni alla più antica aristocrazia consolare bolognese, ma anche qui le opportunità offerte dal mondo delle attività artigianali, del notariato e dell’insegnamento universitario sembrano aver consentito rapide e brillanti ascese. Solide basi fondiarie nel contado, arricchite da vasti patrimoni immobiliari urbani, hanno nella cappella di S. Lorenzo dei Guarini gli esponenti della famiglia Radici, già annoverati fra i Lambertazzi in esilio e da poco riammessi

39 Estimi, bb. 33, 42. 40 Sui Guinizzelli si possono vedere i recenti contributi di Antonelli (2002; 2004); su Guido in particolare, si veda la voce biografica di Inglese (2003). 41 Estimi, bb. 34, 38.

163

alla cittadinanza42. Sebbene il loro patrimonio abbia ormai perduto le torri di famiglia, una «grande» ed una «piccola», già vendute verso il 1290, gli estimi dei Radici assommano ancora nell’insieme più di 10.000 lire di bolognini43. Molto più ingenti, superiori alle 30.000 lire di bolognini, i capitali, prevalentemente fondiari, denunciati da Brancaleone e Giaco-mo, discendenti di un’altra prestigiosa famiglia della nobiltà rurale, i da Villanova, e primi contribuenti della cappella di S. Leonardo44. Alle più limpide tradizioni dell’aristocrazia consolare, le prime due anzi annoverate fra i magnati più pericolosi già nel 1271, si ricongiungono altre famiglie del quartiere: Caccianemici, Prendiparte, Ramponi e Ariosti; la loro situazione economica però è assai variamente configu-rata. Mentre gli Ariosti della cappella di S. Pietro denun-ciano nell’insieme poco più di 2.000 lire di bolognini, i tre esponenti della famiglia Prendiparte, residenti a S. Sinesio, dichiarano ciascuno somme superiori alle 2.000 lire45; fra loro probabilmente quel Simone del fu Giacomino, che già dal 1293 aveva venduto gli edifici addossati al vescovado e la grande torre «incoronata», che però ancora oggi porta il nome dei Prendiparte, dato che nel corso del Trecento venne recuperata dai discendenti di Simone46. Ingente, superiore alle 4.000 lire, è il capitale di Genovese Caccianemici del-la cappella di S. Michele del Mercato, ma la posizione di maggior rilievo economico in questo gruppo, le famiglie di antica aristocrazia urbana, è certamente quella dei Ramponi, presenti a S. Pietro e a S. Michele del Mercato47. Più che alle tradizioni fondiarie della famiglia, tuttavia, queste ric-chezze vanno attribuite ai recenti successi accademici, come dimostra l’estimo di Lambertino Ramponi, dottore di leggi che dichiara un patrimonio superiore alle 13.000 lire48. Dalla

42 Milani (2003, 279, 285). 43 Estimi, b. 4. 44 Estimi, b. 4. 45 Estimi, bb. 8, 9. 46 Gozzadini (1980, 426-438). 47 Estimi, b. 8. 48 Sull’attività accademica di Lambertino Ramponi, cfr. Sarti e Fattorini (1888-96, I, 233-237). Il suo estimo in Estimi, b. 8 (S. Michele del Mercato).

164

pratica del diritto traggono ricchi proventi i numerosi giudici del quartiere ed i loro facoltosi discendenti: così Giovanni Gatti, giudice di S. Andrea dei Platesi, e Rolando Feliciani a S. Cecilia, così anche, a S. Michele del Mercato, i figli del giudice Nicolò Tencarari, apprezzato consulente del comune negli anni Settanta del Duecento, che ereditano dal padre un patrimonio superiore alle 4.000 lire49. L’accesso all’élite economica cittadina sembra anche in questo quartiere abba-stanza agevole per i notai, fra cui i Cospi della cappella di S. Cecilia, destinati a un futuro prestigioso nella professione e nella nobiltà cittadina50. Ma anche le arti meccaniche ed il commercio, in particolare quello alimentare, sembrano vie percorribili verso la ricchezza: dichiarano patrimoni superiori alle 1.000, talvolta anche alle 2.000 lire, beccai e figli di beccai, come Alberto di Bolognetto a S. Maria degli Uccelletti51, e Francesco di Ottobono a S. Tommaso del Mercato52; pescatori come Pietro di Bonandrea e salaroli, come Branchedino di Zambono, entrambi di S. Vitale53; figli di merciai e di fabbri, ed anche, imprevedibilmente, il figlio di un conciatore, Bitino di Petrizolo, a S. Martino dell’Aposa54. Uno dei patrimoni più ingenti del quartiere, tuttavia, superiore alle 7.200 lire, appartiene ad un immigrato «di seconda generazione», Paolo di Trentinello da Verona, residente anch’egli a S. Martino dell’Aposa. Figlio di uno dei tanti artigiani tessili, attirati a Bologna negli anni Venti dalla politica economica del comune, Paolo sviluppa però la sua fortunata carriera nel settore del cuoio, nel 1294 è immatricolato infatti fra i Cordovanieri, senza disdegnare peraltro le speculazioni creditizie, agevolato in questo da una spregiudicatezza etica di cui siamo insolitamente infor-mati55.

49 Estimi, bb. 2, 3, 8. Sugli incarichi di Nicolò Tencarari, cfr. Gozzadini (1980, 490). 50 Estimi, b. 3. 51 Estimi, b. 5b. 52 Estimi, b. 10. 53 Estimi, b. 11. 54 Estimi, b. 7. 55 Sulla famiglia Trintinelli, cfr. Wandruszka (1993, 411, 429). Sull’at-

165

4.1.3. Porta Procola. I capitali di origine non creditizia prevalgono anche nel quartiere di Porta Procola, ma in per-centuale meno accentuata, 60% rispetto ad un 40% circa di capitali appartenenti alle famiglie del Cambio: è certo sensibile in proposito l’effetto della presenza nel quartiere del più potente gruppo bancario bolognese, quello dei Pepoli. Sembrano contribuire in modo ugualmente significativo, nella costruzione dei capitali maggiori, le tradizioni fondiarie di famiglie della più antica nobiltà, il prestigio dell’insegna-mento giuridico, i successi commerciali di gruppi locali ed anche forestieri di più o meno recente immigrazione. Al primo gruppo sono riconducibili gli ingenti patrimoni dei Baisio, dei Galluzzi e dei Simonpiccioli: residenti a S. Domenico e S. Maria dei Guidoscalchi i Baisio, titolari complessivamente di un patrimonio di circa 4.000 lire; a S. Maria dei Guidoscalchi anche Pellegrino Simonpiccioli, esponente di una famiglia di geremei moderati che subirà l’esilio dopo il 1306, ma a questa data primo contribuente della sua cappella, con più di 4.000 lire di estimo56; saldamente arroccati invece, intor-no alla loro torre e alla cappella di cui hanno il patronato, vivono i Galluzzi, Antonio e Guidocherio e gli altri, con un patrimonio ampiamente superiore alle 18.000 lire57. E del resto raggiunge da solo cifre di questa grandezza, 17.000 lire, l’estimo di Bartolomeo di Francesco d’Accursio della cappella di S. Mamolo58, che, così come la sorella Frua, residente col marito Napoleone Malavolti a S. Maria del Castello59, deve le sue fortune ai successi universitari del nonno e del padre, abili in realtà anche nell’investire i proventi dell’insegnamento in speculazioni finanziarie alquanto spregiudicate. Si affacciano però con successo sulla scena economica del quartiere anche

tività usuraria di Paolo Trintinelli siamo informati, come si accennava nell’introduzione, anche grazie ai verbali di processi dell’inquisizione domenicana (Giansante 1987a, 212-213). L’estimo di Paolo per il 1296 è in Estimi, b. 7. 56 Estimi, bb. 14, 20. Sull’esilio dei Simonpiccioli, cfr. Milani (2003, 386). 57 Estimi, b. 21. 58 Estimi, b. 18. 59 Estimi, b. 42.

166

gruppi economici di provenienza forestiera, come i mercanti fiorentini residenti a S. Giovanni in Monte, che dichiarano quasi 4.000 lire di capitale, e quelli milanesi di S. Maria dei Bulgari, che toccano cifre solo di poco inferiori60.

4.1.4. Porta Ravegnana. Nel quartiere di Porta Ravegnana si inverte decisamente il rapporto fra la ricchezza complessiva dichiarata dai banchieri e quella appartenente ai cittadini facoltosi estranei al Cambio: il rapporto è qui di 56 a 44%, a vantaggio dei primi, come del resto era ampiamente pre-vedibile considerando il forte livello di concentrazione degli operatori creditizi in questa zona dell’abitato. Sono tuttavia di un qualche rilievo anche i capitali di origine fondiaria appartenenti a famiglie della più antica aristocrazia cittadina, e soprattutto vanno segnalati alcuni casi interessanti di professionisti e di commercianti del settore alimentare, che si inseriscono a pieno titolo nella classe dell’élite economica bolognese. Risalgono, a quanto pare, all’età carolingia le origini dei Lambertini, le cui case, nella cappella di S. Giusta, si affacciano direttamente sulla piazza del comune: già dal 1271 individuati come perico-losi magnati, i quattro esponenti della famiglia Lambertini dichiarano nel 1296 un patrimonio di circa 6.000 lire di bolognini61. Cifra complessivamente modesta, considerando quelle contestualmente denunciate da strazzaroli, sarti e beccai del quartiere, spesso superiori alle 2.000 lire e nel caso di Rolandino di Giacomino, beccaio di S. Maria del Torleone, superiore alle 4.200 lire62, mentre raggiunge le 7.300 il capitale degli eredi del cartolaio Sassolino, di S. Tommaso della Braina, ed anche un pellicciaio, Ruggero di S. Maria del Tempio, annovera beni per 3.300 lire63. Estimi superiori alle 1.500 sono poi del tutto normali fra i medici e i numerosi notai del quartiere, fra i quali tuttavia si segnala,

60 Estimi, bb. 15, 19. 61 Sui Lambertini cfr. Milani (2001, 135-141). I loro estimi in Estimi, b. 25 (S. Giusta). 62 Estimi, b. 27. 63 Estimi, b. 27 (S. Maria del Tempio), b. 30 (S. Tommaso della Braina).

167

per un patrimonio superiore alle 6.800 lire, Ansaldino di Alberto Ansaldini, notaio all’ufficio del Disco dell’Orso64. Piuttosto recente doveva essere la scalata economica della famiglia Porpori, che solo negli anni Ottanta e Novanta del Duecento si afferma sulla scena pubblica, grazie alle cariche di anziano e sapiente ricoperte da Bonacosa e Vandolo di Giacomino65; scalata esterna alla Società del Cambio, in cui i Porpori non risultano immatricolati, assai rapida tuttavia a giudicare dall’estimo di 8.797 lire presentato dai due, il più elevato fra i capitali non creditizi del quartiere66. Anche a Porta Ravegnana, infine, gli immigrati toscani hanno rag-giunto, grazie al commercio, posizioni di assoluto prestigio: Graziano di Salomone, di origini fiorentine e insediato a S. Stefano, è, col suo estimo di 7.024 lire, fra i primi contri-buenti del quartiere67.

4.2. I capitali creditizi

A parte i citati casi dei Guastavillani e dei Villano-va, tutti i capitali più elevati, superiori alle 20.000 lire di bolognini, appartengono a famiglie legate alla Società del Cambio: Pepoli, Tettalasini, Beccadelli, Pavanesi, Bianchi di Cosa e gli altri gruppi creditizi di cui ci occuperemo tra breve. Ciò non significa tuttavia che l’immatricolazione al Cambio garantisse a tutti il raggiungimento di simili livelli economici; anche l’appartenenza alla nostra VIII classe di ricchezza, quella dei patrimoni superiori alle 1.000 lire, non sembra così diffusa nella categoria, come dimostra il caso dei Gozzadini, il gruppo familiare più numeroso, con 35 iscritti, fra gli immatricolati al Cambio. A parte i casi di Bernabò e Napoleone Gozzadini, che esamineremo analiticamente nel prossimo capitolo, degli altri 16 estimi dei Gozzadini che si sono conservati solo uno supera, di poco, le 700 lire e ben

64 Estimi, b. 25 (S. Giovanni in Monte). 65 Ghirardacci (1605-57, I, 321, 595). 66 Estimi, b. 23 (S. Bartolomeo). 67 Estimi, b. 29 (S. Stefano).

168

dieci non raggiungono nemmeno le 500 lire68. Ma analiz-ziamo più da vicino la situazione economica dei banchieri bolognesi, partendo dai quartieri in cui la loro presenza è meno significativa.

4.2.1. Porta Stiera e Porta Piera. Nella fascia settentrionale dell’abitato il ruolo della ricchezza di origine creditizia è, come si è visto, minoritario. Si segnala tuttavia, nella centra-lissima cappella di S. Martino dei Caccianemici, appartenente a Porta Stiera, la presenza di uno dei gruppi bancari più ricchi, quello dei Pavanesi, i cui investimenti sono diffusi capillarmente in tutto il quartiere, come dimostra la schiera foltissima dei loro debitori. Quattro membri della famiglia dichiarano un patrimonio complessivo di poco inferiore alle 25.000 lire: alle 13.000 lire del capitale di Bartolomeo e Fran-cesco di Federico, si aggiungono le 4.000 lire di Bertuccio di Giacomo e le 7.000 circa di Uberto; cifre inferiori dichiarano altri esponenti della famiglia, residenti nella stessa cappella69. Un gruppo meno folto e assai meno potente è quello dei Buttrigari, di lì a poco ben rappresentato del resto nell’arte notarile oltre che nel Cambio. Ai tre Buttrigari della cap-pella di S. Isaia appartengono nell’insieme capitali per 6.000 lire, cui però andrebbero aggiunte le 2.500 circa dichiarate contemporaneamente, all’estremità opposta dell’abitato, da altri tre membri della famiglia residenti a S. Tommaso della Braina70. Un altro estimo di un certo peso, 3.500 lire, è quello presentato a S. Giuseppe del Borgo di Galliera da Pietro di Giacomo Bombaroni, appartenente ad una famiglia presente con altri cambiatori anche nella cappella confinante di S. Tommaso del Mercato71. Cifre molto più modeste dichiarano gli altri due esponenti del Cambio residenti nel quartiere, Guiduccio Falacasa di S. Maria Maggiore e Giovanni Lei di S. Nicolò del Borgo di S. Felice72.

68 Estimi, b. 28 (S. Michele dei Leprosetti). 69 Estimi, b. 45 (S. Martino dei Caccianemici). 70 Estimi, b. 30 (S. Tommaso della Braina), b. 40 (S. Isaia). 71 Estimi, b. 10 (S. Tommaso del Mercato), b. 39 (S. Giuseppe del Borgo di Galliera). 72 Estimi, b. 44 (S. Maria Maggiore), b. 46 (S. Nicolò del Borgo di S. Felice).

169

Molto più significativa la presenza economica di famiglie del Cambio nel quartiere di Porta Piera, a partire da quelle che già abbiamo attribuito all’antica aristocrazia consolare e che però non sono, in questi anni, le più facoltose. I Ga-risendi, ad esempio, estimati nella loro cappella gentilizia di S. Marco, addossata alla torre di famiglia, manifestano una situazione assai variegata: mentre i fratelli Paolo, Nicolò e Pietro, figli di Tommasino Garisendi, presentano un estimo di rilievo, di poco inferiore alle 4.000 lire, Nicolò del fu Gerardo dichiara poche decine di lire; nulla possiamo dire dell’estimo, pressoché illeggibile, di Brandeligi e Pinamonte Garisendi73. Sensibilmente migliore, nella media, la situazione economica di un’altra famiglia consolare ben rappresentata nel Cambio, i Sabadini, residenti nella cappella di S. Vitale74. Sono ben dieci i nuclei familiari appartenenti a questo casato estimati nel 1296-97; due di questi in realtà fanno capo non a cambiatori di professione, ma a giudici, Rodolfo e Tancredino Sabadini, entrambi titolari di patrimoni cospicui: 1.300 lire il primo, 2.300 il secondo. Anche gli altri membri del gruppo, immatricolati o no al Cambio, denunciano cifre considerevoli, 1.500 lire Misotto di Alberto, 2.000 lire Pietro di Ugolino e così via, fino alle 3.600 di Munso Sabadini, il che fa lievitare fino a quasi 15.000 lire il capitale complessivo dichiarato da esponenti della famiglia. Molto simile alla situazione dei Garisendi quella degli Orsi, anch’essi esponenti della più antica nobiltà bolognese, ma già colpiti, come si accennava, dai rigori della legislazione antimagnatizia. Insediati, nel quartiere di Porta Piera, a S. Donato, S. Marco, S. Vitale e S. Martino dell’Aposa, gli Orsi presentano con Angelello un estimo di tutto rispetto, che tocca le 8.200 lire, e con Orso di Buvalello un’altra denuncia superiore, sia pur di poco, alle 1.000 lire75; ma gli altri esponenti della famiglia, Giacomo e Pietro di Orsolino76, Morendina vedova di Apollonio e

73 Estimi, b. 4 (S. Marco). 74 Estimi, b. 11. 75 Estimi, b. 4 (S. Donato). 76 Ibid.

170

Agnese vedova di Zampirone Orsi77, presentano tutti estimi assai inferiori alle 500 lire. Il ruolo guida fra i gruppi creditizi del quartiere spetta probabilmente a famiglie di più schietta origine popolare, come i Bianchetti e i Pizzigotti, insediate entrambe nella cap-pella di S. Donato78. Cinque i nuclei familiari dei Pizzigotti, fra i quali spicca quello dei figli di Alberto, che denunciano insieme un patrimonio di 9.300 lire, cui si aggiunge quello dichiarato dal solo Vandino, superiore alle 3.600 lire. Era del resto, quello dei Pizzigotti, uno dei banchi più attivi sul mercato bolognese, ed anche, con quello dei Raccorgitti, uno dei pochi gruppi cittadini in grado di operare, fin dalla prima metà del Duecento, sulle principali piazze europee79. Ancora più ingente, tuttavia, il patrimonio di Pietro Bianchetti, che dichiara da solo un capitale di 14.000 lire, anch’esso costi-tuito in gran parte di crediti. Gli altri gruppi si attestano su cifre medie più modeste, ma nell’insieme interessanti, specie nei casi delle famiglie più numerose. Così è per i Borromei di S. Bartolomeo, sette estimati per complessive 4.000 lire circa80, per i cinque esponenti della famiglia Dugliolo, 3.000 lire complessive dichiarate nella cappella di S. Martino dell’Aposa81, e soprattutto per i 12 nuclei della famiglia Maranesi, anch’essi residenti nella cappella di S. Martino, che denunciano nell’insieme circa 4.000 lire82. Di un qualche interesse anche gli estimi dei Calamattoni, 2.500 lire fra le cappelle di S. Cecilia e S. Donato83, e quelli dei Tarafocoli, cinque denunce nella cappella di S. Vitale, di cui però solo tre leggibili per complessive 2.200 lire84. Si distingue infine, fra questi cambiatori non di primissimo piano, l’estimo di Alberto da Fiesso, che supera la cifra di 3.000 lire85.

77 Estimi, b. 11 (S. Vitale), b. 4 (S. Marco). 78 Estimi, b. 4 (S. Donato). 79 Giansante (1991, 28-29). 80 Estimi, b. 2 (S. Bartolomeo di P.ta Ravegnana). 81 Estimi, b. 7 (S. Martino dell’Aposa). 82 Ibid. 83 Estimi, bb. 3 (S. Cecilia), 4 (S. Donato). 84 Estimi, b. 11 (S. Vitale). 85 Estimi, b. 4 (S. Leonardo).

171

4.2.2. Porta Procola. La situazione degli operatori del credito nel quartiere di Porta Procola è condizionata in modo decisivo dal concentrarsi nella cappella di S. Agata di alcuni dei gruppi più potenti: Tettalasini, Zovenzoni, Cacitti e, so-prattutto, Pepoli86. I cambiatori residenti nelle altre cappelle del quartiere sono infatti poco numerosi e presentano capitali piuttosto modesti, con rarissime eccezioni: a S. Ambrogio, Bennato da Varignana dichiara 1.400 lire d’estimo87; i sei esponenti della famiglia Clarissimi, residenti a S. Damiano, hanno un capitale complessivo di circa 10.000 lire88; più alte le cifre dei quattro Tettalasini di S. Giovanni in Monte, che denunciano insieme circa 10.500 lire89; Pietro Beccadelli, in-fine, dichiara nella stessa cappella una ricchezza di 1.370 lire. Nella piccola cappella di S. Agata le cifre assumono, soprattutto nel caso dei Pepoli, ordini di grandezza comple-tamente diversi. Circa 15.000 lire di capitale appartengono ai sei esponenti della famiglia Tettalasini qui residenti, fra cui si distinguono Uguccione di Oderico, con 3.900 lire, e Giovanni di Azzolino, con 5.700; il che, aggiunto ai capitali dei Tettalasini di S. Giovanni in Monte, porta ad una cifra complessiva di circa 25.500 lire e fa di questa famiglia, di antiche tradizioni ghibelline, uno dei gruppi più facoltosi all’interno della Società del Cambio ed in tutta la città. Ma la ricchezza dei Pepoli è all’incirca quattro volte superiore rispetto a quella dei loro vicini e colleghi Tettalasini. Il solo Romeo di Zerra Pepoli, nel cui estimo entreremo in profon-dità nel prossimo capitolo, presenta una denuncia di 60.820 lire di bolognini, anche se questa cifra, riportata in calce all’estimo, è come vedremo ampiamente inferiore a quella che si ricava sommando le singole voci della dichiarazione. Comunque sia, Romeo è di gran lunga il primo contribuente bolognese, e a questo si aggiungono l’estimo di Filippo di Zoene, di circa 21.000 lire, e quello di Zoene di Ugolino, superiore alle 10.000 lire.

86 Estimi, b. 12 (S. Agata). 87 Ibid. (S. Ambrogio). 88 Estimi, b. 14 (S. Damiano). 89 Estimi, b. 15 (S. Giovanni in Monte).

172

Un semplice dato statistico può offrire un’idea del livello di concentrazione della ricchezza in questa ristrettissima zona urbana: con 112.098 lire complessive ed una media per fuoco di 5.605, la cappella di S. Agata, che ospita solo lo 0,7% della popolazione del quartiere, detiene quasi il 20% della sua ricchezza totale.

4.2.3. Porta Ravegnana. Il quartiere, come si è visto, ospita più del 60% dei banchieri bolognesi e circa il 30% dei capitali superiori alle 1.000 lire. Più che nelle altre zone urbane, dunque, la ricchezza dei banchieri gioca qui un ruolo decisivo nell’assetto economico e sociale della popolazione. E si tratta di un tessuto assai composito, a cui contribuiscono numerose famiglie: di estrazione sociale diversa, aristocratica o popolare, di antiche origini cittadine o di recente immi-grazione, in grado di esibire capitali immensi o attestate sul dignitoso livello di un tranquillo benessere. Appartengono alla aristocrazia consolare tre casati, Arte-nisi, Beccadelli, Rodaldi, tutti ben rappresentati nella matrico-la del Cambio; di queste famiglie, cui abbiamo ripetutamente fatto riferimento, l’estimo ci mostra il livello economico. I dati più numerosi, per questo gruppo, sono quelli che riguardano i Rodaldi: ben dodici capifamiglia risultano estimati, fra le cappelle di S. Maria di Porta Ravegnana e S. Stefano90. Solo tre di loro però superano le 1.000 lire d’estimo: Matteo di Testa Rodaldi, con 2.266, suo figlio Manrico con 1.900 e Clarissa di Nicolò con 1.200; tutti gli altri si attestano su cifre comprese fra le 276 di Giacomo di Pietrobono e le 959 di Zannino e Guglielmo di Nicolò. Meno numerosi ma assai più facoltosi gli Artenisi, residenti a S. Stefano e S. Tecla, e i Beccadelli, famiglia leader fra i cambiatori di più aristocrati-che ascendenze, che aveva a S. Tecla il suo nucleo abitativo principale. Di Artenisi e Beccadelli, che sono per ricchezza fra le prime cinque o sei famiglie bolognesi, ci occuperemo nel prossimo capitolo. Alla seconda aristocrazia, quella post consolare, appartengono i Baciacomari e gli Zovenzoni. Gruppi numerosi entrambi, residenti a S. Tommaso della

90 Estimi, b. 26 (S. Maria di P.ta Ravegnana), b. 29 (S. Stefano).

173

Braina i primi, fra S. Agata e S. Maria di Porta Ravegnana i secondi, ed entrambi titolari di patrimoni molto consistenti: è di circa 12.000 lire quello dei dieci nuclei familiari degli Zovenzoni, fra cui spicca Bongiovanni di Lambertino di S. Maria di Porta Ravegnana, con 3.600 lire91; quasi 18.000 lire, invece, il capitale complessivo dei Baciacomari, nove fuochi in tutto, fra cui di primissimo livello l’estimo di Bolognino, superiore alle 8.700 lire e quello di Uguccione che tocca le 4.100, mentre il patrimonio di Baciacomare dei Baciacomari supera di poco le 2.100 lire92. A differenza di quanto abbiamo visto a Porta Procola, dove Pepoli e Tettalasini prevalevano per ricchezza su tutti gli altri gruppi, nel quartiere di Porta Ravegnana le famiglie creditizie di più recente prestigio, appartenenti cioè come Pepoli e Tettalasini all’aristocrazia popolare, non possono vantare posizioni di rilievo economico paragonabili a quelle di cambiatori come Beccadelli, Zovenzoni, Baciacomari, discendenti da famiglie dell’aristocrazia consolare e post-consolare. Così i Gozzadini, che sono numerosissimi a S. Michele dei Leprosetti, ma, a parte i fratelli Bernabò e Napoleone, vengono estimati per poche centinaia di lire: 700 nel caso di Miravalle di Brandeligi, mentre poco più di 500 lire dichiara Lancillotto, 600 lire, insieme, Pino e Brandeligi di Paganino; tutti gli altri dichiarano cifre infe-riori e non mancano neppure, nella famiglia, nullatenenti come Bonifacio93. Non molto migliore la situazione degli Algardi, avversari storici dei Pepoli, residenti a S. Maria di Porta Ravegnana, che elencano cinque fuochi estimati per complessive 3.500 lire94. Anche le altre famiglie di estrazione popolare si attestano su livelli economici non eccelsi: 7.000 lire circa i Raccorgitti, quattro fuochi fra S. Stefano e S. Maria di Porta Ravegnana; 6.500 circa gli Spersonaldi (alias Personaldi) a S. Stefano; poco più di 4.000 lire i Fogacci

91 Estimi, b. 26 (S. Maria di P.ta Ravegnana). 92 Estimi, b. 30 (S. Tommaso della Braina). 93 Estimi, b. 28 (S. Michele dei Leprosetti). Su Bernabò e Napoleone, cfr. il seguente capitolo IV. 94 Estimi, b. 26 (S. Maria di P.ta Ravegnana).

174

a S. Maria di Porta Ravegnana e 2.000 circa i Mezzovillani e i Soldaderi a S. Michele dei Leprosetti e S. Giovanni in Monte. Appartengono allo stesso ceto anche i Gardini, che però avevano acquisito fama negli anni Venti grazie alla cul-tura giuridica di Lambertino e, più recentemente, a quella di Ugolino e Gardino, ed ora presentano due estimi a S. Michele del Mercato, per complessive 5.800 lire95. Nell’am-bito dell’aristocrazia creditizia del popolo possiamo anche ricondurre alcuni patrimoni isolati ma di rilievo, appartenenti ad esponenti di famiglie tradizionalmente legate al Cambio. Così Rosso, Nicolò e Rolando Rossi presentano insieme un estimo di 5.200 lire a S. Tommaso della Braina, cappella in cui risiedono anche Lambertino, Giacomino e Guglielmo di Lambertino Barattieri, estimati per 5.700 lire complessive, e Azzolino e Buonsapere Sassolini, che denunciano 7.344 lire96. Rilevanti in sé anche l’estimo di Benino Sardelli, 6.650 lire, a S. Tecla e quello di Novellone del Migliore, 6.400 lire, a S. Maria di Porta Ravegnana97. Da esaminare un po’ più da vicino, per l’entità eccezionale dell’estimo, è la situazione dei sei eredi di Bianco di Cosa, che rappresentano un caso interessante di immigrazione politica «di ritorno», e su cui ci soffermeremo nel successivo capitolo. Anticipo solo il dato contabile: Brunino con Bartolomeo e Filippo e gli altri fratelli Bonifacio, Francesco e Cosa, sono contitolari di un enorme patrimonio, che nel 1296, quando ormai il padre Bianco risulta defunto, raggiunge quasi le 30.000 lire di bolognini, cui devono aggiungersi le 5.000 dello zio Bartolino. Cifre che inseriscono dunque, a pieno titolo, il gruppo fiorentino-bolognese dei Bianchi nella più ristretta élite economica cittadina, tutta appartenente si diceva, con l’eccezione dei Guastavillani, alla Societas campsorum.

95 Estimi, b. 28 (S. Michele del Mercato). 96 Estimi, b. 30 (S. Tommaso della Braina); l’estimo di Giacomino e Guglielmo di Lambertino in b. 31 (S. Tommaso della Braina, II). 97 Estimi, b. 26 (S. Maria di P.ta Ravegnana), b. 29 (S. Tecla).

175

ISCRITTI ALLA MATRICOLA DEL CAMBIO DEL 1294, DIVISI PER CAPPELLA E FAMIGLIA

TAB. I. Quartiere di Porta Piera

Cappella Famiglia Numero di immatricolati

S. Andrea dei Piatesi Bertolotti 1S. Bartolomeo di P.R. Bonromei 7S. Bartolomeo di P.R. Rombolini 4S. Cecilia Buzanegra 3S. Cecilia Cantoni 1S. Cecilia Dosi 3S. Donato Bianchetti 2S. Donato Caccialuna 1S. Donato Calamattoni 3S. Donato Orsi 2S. Donato Piantavigne 10S. Donato Pizzigotti 6S. Marco Garisendi 1S. Maria Maddalena Alberisi 1S. Martino dell’Aposa Lei 2S. Nicolò degli Albari Papazzoni 3S. Tommaso del Mercato Bombaroni 2S. Tommaso del Mercato Corradini 4S. Tommaso del Mercato Isacchi 3S. Tommaso del Mercato Leonardi 5S. Tommaso del Mercato Maggi 2S. Vitale Culforati 9S. Vitale Onesti 3S. Vitale Sabadini 12S. Vitale Tarafocoli 2

Totale 92*

* 17% del totale degli immatricolati.

176

TAB. II. Quartiere di Porta Ravegnana

Cappella Famiglia Numero di immatricolati

S. Bartolomeo di Porta Rav. Cacitti 9S. Bartolomeo di Porta Rav. Felicini 2S. Bartolomeo di Porta Rav. Mezzovillani 1S. Bartolomeo di Porta Rav. Ottovrini 5S. Bartolomeo di Porta Rav. Stifunti 5S. Biagio Rodaldi 1S. Dalmasio Datari 3S. Giovanni in Monte Artenisi 1S. Giovanni in Monte Cedroplani 1S. Giovanni in Monte Pasini 2S. Leonardo Fiesso 1S. Leonardo Rasuri 2S. Maria di Castel dei Britti Baciacomare 2S. Maria di Castel dei Britti Matafelloni 3S. Maria di Porta Rav. Algardi 5S. Maria di Porta Rav. Bocadiforno 3S. Maria di Porta Rav. Bocafogaza 6S. Maria di Porta Rav. Codichelli 4S. Maria di Porta Rav. Fogacci 6S. Maria di Porta Rav. Migliori 2S. Maria di Porta Rav. Raccorgitti 1S. Maria di Porta Rav. Rossi 2S. Maria di Porta Rav. Rodaldi 1S. Maria di Porta Rav. Savinella 4S. Maria di Porta Rav. Tettalasini 1S. Maria di Porta Rav. Zovenzoni 16S. Maria del Tempio Baragazza 1S. Maria di Torleone Bonzagni 3S. Maria di Torleone Buttrigari 1S. Maria di Torleone Mussolini 1S. Michele dei Leprosetti Arienti 1S. Michele dei Leprosetti Benvignoni 7S. Michele dei Leprosetti Bianchetti 3S. Michele dei Leprosetti Biancucci 5S. Michele dei Leprosetti Bonzagni 1S. Michele dei Leprosetti Falacaza 3S. Michele dei Leprosetti Gandoni 8S. Michele dei Leprosetti Gozzadini 35S. Michele dei Leprosetti Lamandina 2S. Michele dei Leprosetti Malpigli 1S. Michele dei Leprosetti Mantici 5S. Michele dei Leprosetti Matafelloni 2S. Michele dei Leprosetti Paltronieri 1S. Michele dei Leprosetti Pegolotti 10

(segue)

177

S. Michele dei Leprosetti Poeti 16S. Michele dei Leprosetti Soldaderi 14S. Michele del Mercato Gardini 2S. Stefano Artenisi 16S. Stefano Bianchi Cosa 6S. Stefano Bocca 1S. Stefano Munsarelli 4S. Stefano Rodaldi 17S. Stefano Spersonaldi (alias Personaldi) 7S. Stefano Zovenzoni 1S. Tecla Artenisi 8S. Tecla Beccadelli 19S. Tecla Ignano 5S. Tecla Sardelli 5S. Tecla Tettalasini 2S. Tommaso di Str. Maggiore Lambertini Barattieri 2S. Tommaso di Str. Maggiore Mantici 1S. Tommaso di Str. Maggiore Matafelloni 2S. Tommaso di Str. Maggiore Mussolini 4S. Tommaso di Str. Maggiore Rossi 5S. Tommaso di Str. Maggiore Sassolini 5S. Tommaso di Str. Maggiore Stefani 3S. Vitale Azzoni 1S. Vitale Salaroli 1

Totale 326*

* 61% del totale degli immatricolati.

Cappella Famiglia Numero di immatricolati

178

TAB. III. Quartiere di Porta Procola

Cappella Famiglia Numero di immatricolati

S. Agata Cacitti 8S. Agata Dugliolo 9S. Agata Garzoni 11S. Agata Michelini 3S. Agata Pepoli 13S. Agata Rossi 4S. Agata Tettalasini 9S. Agata Zovenzoni 16S. Damiano Clarissimi 5S. Damiano Rossi 2S. Giovanni in Monte Beccadelli 2S. Giovanni in Monte Tettalasini 11S. Lucia Bontalenti 1S. Lucia Guasconi 3S. Maria dei Carrari Foscherari 9S. Maria dei Carrari Pascipoveri 4S. Maria dei Carrari Visconti 1

Totale 111*

* 21% del totale degli immatricolati.

TAB. IV. Quartiere di Porta Stiera

Cappella Famiglia Numero diimmatricolati

S. Martino dei Caccianemici Pavanesi 1*

* 0,2% del totale degli immatricolati.

N.B.: A questi 530 immatricolati vanno aggiunti 85 cambiatori registrati con il solo patronimico e senza la famiglia di appartenenza; la cifra totale degli immatricolati è dunque di 615.

179

MEDIE DI RICCHEZZA DALL’ESTIMO DEL 1296-97

TAB. V. Quartiere di Porta Ravegnana

Cappella

Numero delle

denunce leggibili

Ricchezza totale

(in lire di bolognini)

Ricchezza media

Denunceilleggibili

S. Alberto (EC) 81 7.128 88 3S. Antonio di Savena (EC) 51 2.665 52 1S. Omobono (EC) 241 16.160 67 1S. Maria degli Alemanni (EC) 1 0 0S. Biagio (C) 262 19.340 74 11S. Cristina della Fondazza (C) 94 6.416 68S. Giuliano (C) 84 5.394 64 1S. Leonardo (C) 131 23.723 181 2S. Maria del Tempio (C) 96 21.431 223 4S. Maria di Torleone (C) 102 20.660 202 5S. Tommaso della Braina, o di

Strada Maggiore (C) 253 98.687 390 5S. Bartolomeo di P.ta Rav. (T) 68 24.114 355 6S. Giovanni in Monte (T) 24 19.818 826 1S. Maria di Castel dei Britti (T) 8 3.761 470S. Maria di Porta Rav. (T) 101 57.990 574 2S. Michele dei Leprosetti (T) 48 24.967 520 4S. Stefano (T) 133 88.470 665 8S. Tecla (T) 31 53.285 1.719 4S. Vitale (T) 53 23.189 437 2S. Cataldo (S) 11 8.417 765 1S. Dalmasio (S) 3 3.598 1.199S. Giusta (S) 19 11.525 606S. Maria in Solario (S) 2 2.806 1.403S. Matteo degli Accarisi (S) 1 200 200S. Michele del Mercato di Mez-

zo (S) 3 5.490 1.830S. Remedio (S) 1 10 10S. Vito (S) 6 3.191 532

Totale 1.908 552.435 289 61

Legenda: Ubicazione della cappella: S = dentro la cerchia di Selenite; T = dentro la cerchia dei Torresotti; C = dentro la Circla; EC = fuori dalla Circla.

180

Legenda: Ubicazione della cappella: S = dentro la cerchia di Selenite; T = dentro la cerchia dei Torresotti; C = dentro la Circla; EC = fuori dalla Circla.

TAB. VI. Quartiere di Porta Stiera

Cappella

Numero delle

denunce leggibili

Ricchezza totale

(in lire di bolognini)

Ricchezza media

Denunceilleggibili

S. Benedetto del Borgo di Gal-lie ra (C) 183 13.883 76 1

S. Cristina di Pietralata (C) 185 15.661 85 2S. Felice (C) 512 30.339 59 4S. Giuseppe del Borgo di

Galliera (C) 145 29.693 205 4S. Isaia (C) 75 73.244 976 2S. Lorenzo di Porta Stiera (C) 83 40.581 489 3S. Maria della Carità (C) 131 8.058 61 2S. Nicolò del B.go di S. Feli-

ce (C) 94 41.833 445 9S. Antonino (T) 31 16.370 528 1S. Arcangelo (T) 1 11 11S. Colombano (T) 50 13.357 267 1S. Fabiano (T) 62 16.417 265 8S. Gervasio (T) 53 15.219 287 3S. Giorgio in Poggiale (T) 139 17.777 128 2S. Maria Maggiore (T) 635 80.274 126 13S. Marino di Porta Nuova (T) 27 9.869 365S. Prospero (T) 15 3.367 224S. Salvatore (T) 54 8.159 151 2S. Siro (T) 45 12.806 284 1S. Bartolomeo del Palazzo (S) 9 8.274 919 2S. Benedetto di Porta Nuova

(S) 19 8.949 471 1S. Croce (S) 1 104 104S. Ippolito (S) 20 5.874 294 1S. Maria di Porta Castello (S) 23 22.283 969 1S. Maria dei Rustigani (S) 2 486 243S. Martino dei Caccianemici

(S) 39 32.832 842 1S. Tecla di Porta Nuova (S) 47 15.969 340

Totale 2.680 541.689 202 64

181

Legenda: Ubicazione della cappella: S = dentro la cerchia di Selenite; T = dentro la cerchia dei Torresotti; C = dentro la Circla; EC = fuori dalla Circla.

TAB. VII. Quartiere di Porta Piera

Cappella

Numero delle

denunce leggibili

Ricchezza totale

(in lire di bolognini)

Ricchezza media

Denunceilleggibili

S. Alberto (EC) 87 3.845 44 1S. Antonio di Savena (EC) 53 2.041 38S. Egidio (EC) 7 631 90S. Leonardo (C) 21 36.692 1.747 1S. Maria Maddalena (C) 336 61.054 182 35S. Maria della Mascarella (C) 399 34.491 86 7S. Sigismondo (C) 195 20.021 103 5S. Andrea dei Piatesi (T) 71 19.034 268 3S. Bartolomeo di P.ta Rav. (T) 20 8.006 400 2S. Cecilia (T) 237 62.219 262 3S. Donato (T) 90 50.226 558 4S. Giacomo dei Piatesi (T) 7 913 130 1S. Marco (T) 20 6.144 307 1S. Maria Maggiore (T) 44 7.204 164S. Martino dell’Aposa (T) 297 64.185 216 9SS. Simone e Giuda (T) 1 1.528 1.528S. Tommaso del Mercato (T) 135 48.940 362S. Vitale (T) 175 52.280 299 6S. Lorenzo dei Guarini (S) 32 15.388 481S. Maria degli Uccelletti (S) 20 6.444 322S. Michele del Merc. di Mez-

zo (S) 50 32.122 642 1S. Pietro (S) 18 9.834 546 1S. Sinesio (S) 76 33.419 440 6

Totale 2.391 579.052 242 86

182

Legenda: Ubicazione della cappella: S = dentro la cerchia di Selenite; T = dentro la cerchia dei Torresotti; C = dentro la Circla; EC = fuori dalla Circla.

TAB. VIII. Quartiere di Porta Procola

Cappella

Numero delle

denunce leggibili

Ricchezza totale

(in lire di bolognini)

Ricchezza media

Denunceilleggibili

S. Caterina di Saragozza (C) 365 21.219 58 6S. Isaia (C) 217 31.596 146 9S. Mamolo (C) 206 52.943 257 12S. Agata (T) 20 112.098 5.605S. Andrea degli Ansaldi (T) 17 591 35 1S. Arcangelo (T) 4 958 239S. Barbaziano (T) 150 24.027 160S. Cristoforo di Saragozza (T) 18 712 39S. Damiano (T) 99 40.679 411 3S. Domenico (T) 48 9.243 192 1S. Giacomo dei Carbonesi (T) 48 11.419 238 1S. Giovanni in Monte (T) 111 52.858 476 2S. Lucia (T) 452 31.937 71 5S. Margherita (T) 56 6.252 112 3S. Maria delle Muratelle (T) 160 18.953 118 6S. Martino dei Santi (T) 12 3.050 254SS. Pietro e Marcellino (T) 58 9.377 162S. Procolo (T) 341 23.837 70 5SS. Simone e G. dei Macca-

gnani (T) 31 4.373 141 1S. Ambrogio (S) 21 16.639 792 2S. Cristoforo dei Geremei (S) 10 3.600 360 1S. Croce (S) 3 458 153S. Geminiano (S) 13 467 36 1S. Maria della Baroncella (S) 39 8.154 209 1S. Maria dei Bulgari (S) 11 5.441 495 1S. Maria dei Carrari (S) 15 11.387 759S. Maria della Chiavica (S) 43 14.727 342S. Maria dei Guidoscalchi (S) 44 24.074 547 1S. Maria Rotonda dei Galluzzi

(S) 14 20.221 1.444 2S. Maria dei Rustigani (S) 2 0 0S. Michele dei Lambertazzi (S) 18 2.343 130 2S. Tecla dei Lambertazzi (S) 10 2.427 243

Totale 2.656 566.060 213 66

183

CL

ASS

I D

I R

ICC

HE

ZZ

A D

AL

L’E

STIM

O D

EL

129

6-97

TA

B.

IX.

Qua

rtie

re d

i Po

rta

Pier

a

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

S. A

lber

to7

7,9

3944

,321

23,8

1011

,37

7,9

33,

40

00

01

1,1

88S.

And

rea

d. P

iate

si16

21,6

45,

47

9,4

1216

,28

10,8

1317

,55

6,7

68,

13

4,0

74S.

Ant

onio

di

Sav

ena

1324

,518

33,9

916

,99

16,9

35,

61

1,8

00

00

00

53S.

Bar

tol.

di

P. R

av.

313

,63

13,6

29,

01

4,5

14,

53

13,6

522

,72

9,0

29,

022

S. C

ecili

a29

12,0

4117

,023

9,5

2610

,839

16,2

3916

,225

10,4

156,

23

1,2

240

S. D

onat

o20

21,2

1617

,04

4,2

1212

,716

17,0

77,

49

9,5

66,

34

4,2

94S.

Egi

dio

457

,11

14,2

00

00

114

,21

14,2

00

00

00

7S.

Gia

com

o d.

Pia

tesi

450

,00

02

28,0

00

00

00

112

,50

01

12,5

8S.

Leo

nard

o1

4,5

627

,23

13,6

00

418

,13

13,6

00

418

,11

4,5

22S.

Lor

enzo

d.

Gua

rini

618

,73

9,3

26,

24

12,5

26,

211

34,3

13,

13

9,3

00

32S.

Mar

co3

14,2

314

,23

14,2

628

,41

4,7

14,

72

9,5

14,

71

4,7

21S.

Mar

ia

Mad

dale

na38

10,2

6216

,750

13,4

6216

,755

14,8

4311

,520

5,3

61,

635

9,4

371

S. M

aria

M

aggi

ore

1022

,710

22,7

715

,97

15,9

511

,31

2,2

00

49,

00

044

(seg

ue)

S. M

aria

d.

Mas

care

lla71

17,4

156

38,4

6315

,547

11,5

297,

124

5,9

71,

72

0,4

71,

740

6S.

Mar

ia d

. U

ccel

lett

i3

15,0

630

,02

10,0

210

,03

15,0

210

,00

02

10,0

00

20S.

Mar

tino

de

ll’A

posa

4013

,068

22,2

4213

,730

9,8

3611

,748

15,6

216,

812

3,9

92,

930

6S.

Mic

hele

d.

Mer

cato

917

,611

21,5

11,

94

7,8

47,

88

15,6

713

,76

11,7

11,

951

S. P

ietr

o1

5,2

210

,41

5,2

315

,72

10,4

210

,43

15,7

420

,81

5,2

19S.

Sig

ism

on.

3417

,056

28,0

2311

,528

14,0

3115

,515

7,5

73,

51

0,5

52,

520

0S.

Sin

esio

1113

,49

10,9

67,

312

14,6

1113

,412

14,6

78,

58

9,7

67,

382

SS.

Sim

one

e G

iuda

00

00

00

00

00

00

00

110

00

01

S. T

omm

aso

d. M

erca

to17

12,5

1813

,320

14,8

1611

,815

11,1

2518

,515

11,1

96,

60

013

5S.

Vit

ale

1910

,430

16,5

189,

921

11,6

2312

,734

18,7

147,

716

8,8

63,

318

1

Tota

le35

914

,456

222

,630

912

,431

212

,529

611

,929

611

,914

96,

010

84,

386

3,4

2.47

7

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

TA

B.

IX.

(Seg

ue)

TA

B.

X.

Qua

rtie

re d

i Po

rta

Rav

egna

na

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

S. A

lber

to6

7,1

3744

,010

11,9

1517

,87

8,3

55,

91

1,1

00

33,

584

S. A

nton

io d

i Sa

vena

611

,520

38,4

59,

613

25,0

47,

63

5,7

00

00

11,

952

S. B

arto

l. di

P.

Rav

.16

21,6

1216

,23

4,0

810

,89

12,1

1013

,54

5,4

68,

16

8,1

74S.

Bia

gio

5219

,085

31,1

4115

,037

13,5

196,

921

7,6

62,

11

0,3

114,

027

3S.

Cat

aldo

18,

30

00

01

8,3

00

325

,04

33,3

216

,61

8,3

12S.

Cri

stin

a de

lla F

ond.

1212

,738

40,4

1414

,810

10,6

1111

,79

9,5

00

00

00

94S.

Dal

mas

io0

00

00

00

00

00

01

33,3

266

,60

03

S. G

iova

nni

in M

onte

14,

02

8,0

312

,02

8,0

416

,05

20,0

312

,04

16,0

14,

025

S. G

iulia

no20

23,5

3844

,711

12,9

78,

23

3,5

44,

70

01

1,1

11,

185

S. G

iust

a0

03

15,7

15,

20

03

15,7

631

,51

5,2

526

,30

019

S. L

eona

rdo

1410

,532

24,0

2015

,019

14,2

1914

,218

13,5

32,

26

4,5

21,

513

3S.

Mar

ia d

. A

lem

anni

110

00

00

00

00

00

00

00

00

01

S. M

aria

d.

Cas

t. de

i B

ritt

i2

25,0

112

,51

12,5

00

112

,51

12,5

112

,51

12,5

00

8S.

Mar

ia d

i P.

Rav

egn.

98,

713

12,6

98,

712

11,6

1211

,615

14,5

1211

,619

18,4

21,

910

3S.

Mar

ia i

n So

lari

o0

00

00

00

00

01

50,0

00

150

,00

02

(seg

ue)

TA

B.

X.

(Seg

ue)

S. M

aria

del

Te

mpi

o4

4,0

2424

,019

19,0

1111

,015

15,0

1616

,02

2,0

55,

04

4,0

100

S. M

aria

d.

Torl

eone

1211

,232

29,9

1312

,118

16,8

65,

612

11,2

54,

64

3,7

54,

610

7S.

Mat

teo

d.

Acc

aris

i0

00

00

00

01

100

00

00

00

00

1S.

Mic

hele

d.

Lep

rose

t.2

3,8

35,

72

3,8

00

47,

621

40,3

1019

,26

11,5

47,

652

S. M

iche

le

d. M

erc.

0

00

00

00

01

33,3

00

00

266

,60

03

S. O

mob

ono

2911

,979

32,6

4920

,240

16,5

2610

,717

70

01

0,4

10,

424

2S.

Rem

edio

00

110

00

00

00

00

00

00

00

01

S. S

tefa

no18

12,7

2014

,18

5,6

1712

,014

9,9

2114

,818

12,7

1712

,08

5,6

141

S. T

ecla

25,

73

8,5

38,

52

5,7

25,

73

8,5

411

,412

34,2

411

,435

S. T

omm

. di

Str.

Mag

g.

(d.

Bra

ina)

3112

,033

12,7

4115

,824

9,3

3112

,050

19,3

218,

122

8,5

51,

925

8S.

Vit

ale

59,

02

3,6

23,

66

10,9

1018

,112

21,8

1120

,05

9,0

23,

655

S. V

ito

00

00

116

,63

50,0

00

00

116

,61

16,6

00

6

Tota

le24

312

,347

824

,225

613

,024

512

,420

210

,125

312

,810

85,

412

36,

261

3,0

1.96

9

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

TA

B.

XI.

Qua

rtie

re d

i Po

rta

Proc

ola

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

S. A

gata

210

,00

01

5,0

15,

02

10,0

315

,03

15,0

840

,00

020

S. A

mbr

ogio

28,

61

4,3

28,

63

13,0

28,

64

17,3

28,

65

21,7

28,

623

S. A

ndre

a d.

Ans

aldi

950

,04

22,2

211

,10

00

02

11,1

00

00

15,

518

S. A

rcan

gelo

00

125

,00

01

25,0

00

125

,01

25,0

00

00

4S.

Bar

bazi

ano

2718

,019

12,6

3020

,026

17,3

1510

,016

10,6

149,

33

2,0

00

150

S. C

ater

ina

d.

Sara

gozz

a40

10,7

127

34,2

9325

,054

14,5

379,

911

2,9

20,

51

0,2

61,

637

1S.

Cri

stof

oro

d. G

erem

ei1

9,0

19,

01

9,0

00

19,

02

18,1

436

,30

01

911

S. C

rist

ofor

o d.

Sar

agoz

za9

50,0

422

,22

11,1

15,

51

5,5

15,

50

00

00

018

S. C

roce

00

00

00

133

,32

66,6

00

00

00

00

3S.

Dam

iano

1918

,614

13,7

87,

89

8,8

1413

,717

16,6

43,

914

13,7

32,

910

2S.

Dom

enic

o6

12,2

510

,27

14,2

1326

,58

16,3

510

,22

4,0

24,

01

2,0

49S.

Gem

inia

no4

28,5

428

,52

14,2

17,

12

14,2

00

00

00

17,

114

S. G

iaco

mo

d.

Car

bone

si15

30,6

510

,28

16,3

510

,26

12,2

24,

04

8,1

36,

11

2,0

49S.

Gio

vann

i in

M

onte

119,

711

9,7

108,

810

8,8

2017

,625

22,1

119,

713

11,5

21,

711

3S.

Isa

ia29

12,8

6026

,530

13,2

3615

,928

12,3

198,

412

5,3

31,

39

3,9

226

S. L

ucia

7917

,217

738

,778

17,0

5311

,535

7,6

143,

012

2,6

40,

85

1,1

457

S. M

amol

o43

19,7

6027

,538

17,4

3013

,715

6,8

156,

83

1,3

20,

912

5,5

218

S. M

argh

erit

a11

18,6

1016

,97

11,8

1016

,98

13,5

813

,52

3,3

00

35,

059

S. M

aria

d.

Bar

once

lla10

25,0

922

,54

10,0

25,

05

12,5

37,

53

7,5

37,

51

2,5

40

(seg

ue)

S. M

aria

d.

Bul

gari

00

00

325

,02

16,6

216

,62

16,6

18,

31

8,3

18,

312

S. M

aria

d.

Car

rari

533

,31

6,6

16,

60

01

6,6

213

,32

13,3

320

,00

015

S. M

aria

d.

Chi

avic

a13

30,2

49,

36

13,9

511

,62

4,6

49,

35

11,6

49,

30

043

S. M

aria

d.

Gui

dosc

al.

48,

85

11,1

12,

22

4,4

613

,314

31,1

613

,36

13,3

12,

245

S. M

aria

d.

Mur

atel

le14

8,4

5231

,337

22,2

2213

,212

7,2

1810

,82

1,2

31,

86

3,6

166

S. M

aria

R.

d. G

allu

zzi

318

,70

01

6,2

16,

21

6,2

16,

21

6,2

637

,52

12,5

16S.

Mar

ia d

. R

usti

gani

210

00

00

00

00

00

00

00

00

02

S. M

arti

no d

ei

Sant

i8

66,6

00

18,

30

00

01

8,3

00

216

,60

012

S. M

iche

le d

. L

amb.

zzi

630

,05

25,0

15,

03

15,0

00

210

,00

01

5,0

210

,020

SS.

Pie

tro

e M

arce

llino

712

,013

22,4

610

,312

20,6

58,

69

15,5

58,

61

1,7

00

58S.

Pro

colo

5315

,315

945

,949

14,1

3710

,623

6,6

133,

73

0,8

41,

15

1,4

346

SS.

Sim

one

e G

. de

i M

.9

9,3

1031

,24

14,5

515

,62

6,2

515

,61

3,1

13,

11

3,1

32S.

Tec

la d

e L

amb.

zzi

220

,03

30,0

220

,00

00

02

20,0

00

110

,00

010

Tota

le43

716

,076

428

,043

515

,934

512

,625

59,

322

18,

110

53,

894

3,4

662,

42.

722

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

TA

B.

XI.

(Se

gue)

TA

B.

XII

. Q

uart

iere

di

Port

a St

iera

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

S. A

nton

ino

13,

12

6,2

13,

13

9,3

515

,66

18,7

1031

,23

9,3

13,

132

S. A

rcan

gelo

00

110

00

00

00

00

00

00

00

01

S. B

arto

lom

.d.

Pal

azzo

00

00

00

19

218

,11

9,0

327

,22

18,1

218

,111

S. B

ened

et.

d. B

. di

Ga.

2211

,947

25,5

3820

,638

20,6

2010

,814

7,6

42,

10

01

0,5

184

S.

Ben

ed.

di

Por

ta N

uova

15,

02

10,0

00

210

,03

15,0

630

,02

10,0

315

,01

5,0

20S.

Col

omba

no3

5,8

815

,62

3,9

1223

,59

17,6

1121

,51

1,9

47,

81

1,9

51S.

Cri

stin

a d

i P

ietr

alat

a23

12,2

6032

,038

20,3

3016

,417

9,0

136,

92

1,0

21,

02

1,0

187

S. C

roce

00

00

00

00

110

00

00

00

00

01

S. F

abia

no13

18,5

1014

,21

1,4

68,

59

12,8

1115

,79

12,8

34,

28

11,4

70S.

Fel

ice

6111

,819

137

,010

319

,679

15,3

428,

134

6,5

20,

30

04

0,7

516

S. G

erva

sio

35,

36

10,7

916

,08

14,2

916

,010

17,8

35,

35

8,9

35,

356

S. G

iorg

io d

. P

oggi

ale

139,

231

21,9

3222

,620

14,1

1913

,416

11,3

74,

91

0,7

21,

414

1S.

Giu

sepp

e d.

B

. di

G.

85,

319

12,7

2818

,728

18,7

2818

,721

14,9

96,

04

2,6

42,

614

9S.

Ipp

olit

o2

9,5

29,

53

14,3

29,

52

9,5

523

,83

14,2

14,

71

4,7

21S.

Isa

ia11

14,2

1723

,011

14,2

67,

711

14,2

79,

06

7,7

67,

72

2,5

77S.

Lor

enzo

33,

420

23,2

78,

16

6,9

1922

,011

12,7

89,

39

10,4

33,

486

S. M

aria

de

lla

Car

ità

118,

267

50,3

2216

,59

6,7

1410

,56

4,5

10,

71

0,7

21,

513

3

(seg

ue)

S. M

aria

di P

.ta

Cas

tello

28,

34

16,6

00

00

00

14,

15

20,8

1145

,81

4,1

24S.

Mar

ia M

ag-

gior

e91

14,0

204

31,4

7311

,287

13,4

8913

,756

8,6

203,

015

2,3

132,

064

8S

. M

aria

d

ei

Rus

tiga

ni0

00

00

01

50,0

00

150

,00

00

00

02

S. M

arin

o d

i P

orta

Nuo

va0

03

11,1

27,

45

18,5

518

,57

25,9

27,

43

11,1

00

27S.

Mar

tino

d.

Cac

cian

em.

615

,08

20,0

37,

54

10,0

512

,57

17,5

00

615

,01

2,5

40S

. N

ico

d.

B.g

o di

S.F

.6

5,8

2423

,39

8,7

32,

912

11,6

2120

,310

9,7

98,

79

8,7

103

S. P

rosp

ero

213

,34

26,6

320

,02

13,3

16,

61

6,6

16,

61

6,6

00

15S.

Sal

vato

re4

7,1

1730

,58

14,2

814

,29

16,0

58,

92

3,5

11,

72

3,5

56S.

Sir

o2

4,3

715

,29

19,5

48,

63

6,5

1328

,25

10,8

24,

31

2,1

46S.

Tec

la d

i Por

-ta

Nuo

va4

8,5

817

,07

14,8

48,

55

10,6

817

,08

17,0

36,

30

047

Tota

le29

210

,676

227

,740

914

,936

813

,433

912

,329

210

,612

34,

495

3,4

642,

32.

744

Cap

pella

I cl

.nu

ll.%

II

1-25

%II

I 26

-50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-1.

000

%V

III

oltr

e1.

000

%ill

eg.

%To

t.

TA

B.

XII

. (S

egue

)

TA

B.

XII

I. C

lass

i di

ric

chez

za d

all’e

stim

o de

l 12

96-9

7. T

abel

la r

iass

unti

va

Qua

rtie

reI

cl.

null.

%II

1-

25%

III

26-

50

%IV

51

-10

0

%V 101-

200

%V

I20

1-50

0

%V

II50

1-10

00

%V

III

oltr

e10

00

%ill

eg.

%To

t.

Por

ta P

iera

359

14,4

562

22,6

309

12,4

312

12,5

296

11,9

296

11,9

149

6,0

108

4,3

863,

42.

477

P. R

aveg

nana

243

12,3

478

24,2

256

13,0

245

12,4

202

10,1

253

12,8

108

5,4

123

6,2

613,

01.

969

P. P

roco

la43

716

,076

428

,043

515

,934

512

,625

59,

322

18,

110

53,

894

3,4

662,

42.

722

P. S

tier

a29

210

,676

227

,740

914

,936

813

,433

912

,329

210

,612

34,

495

3,4

642,

32.

744

Tota

le1.

331

13,4

2.56

625

,81.

409

14,2

1.27

012

,81.

092

11,0

1.06

210

,748

54,

842

04,

227

72,

79.

912

193

CAPITOLO QUARTO

ROMEO E GLI ALTRI. PERCORSI DI AFFERMAZIONE TRA AFFARI E POLITICA

1. Romeo Pepoli: affari e politica dal banco alla signoria

Al destino storiografico di Romeo di Zerra Pepoli (1250 c.-1322), sembra far ombra una curiosa damnatio memoriae, conseguenza diretta forse del culto cittadino di cui invece è stato oggetto costante Taddeo, figlio di Romeo e signore di Bologna dal 1337 al 1347, dopo la morte accolto con tutti gli onori nella chiesa cittadina di S. Domenico. Taddeo di-venne, ancora in vita, protagonista di un mito signorile alla cui costruzione finì per essere funzionale l’oblio del padre Romeo, della sua folgorante carriera politica, soprattutto delle sue straordinarie fortune economiche1. Non per nulla quest’oblio inizia nelle opere encomiastiche del Seicento, quelle di Cesare Salvetti, di Giovanni Pietro Crescenzi e di Pompeo Scipione Dolfi, in cui, come accade per altre famiglie cittadine, prendono corpo leggende fan-tasiose sulle origini della famiglia, ma in questo caso anche il mito, non totalmente infondato, della signoria illuminata di Taddeo2. Per far rifulgere maggiormente la sua gloria, gli storici seicenteschi sfumano la figura del padre. Anche perché mettere in connessione le due carriere politiche, fare di Taddeo il continuatore di Romeo, come a noi sembra legit-timo, implicava per quegli autori, alcuni dei quali nella loro condizione di storici «di casa» lavoravano su commissione, il compito di esibire realtà difficili da accettare per i loro committenti, a volte poi sicuramente sgradevoli, in merito alle

1 Per uno studio più analitico della vicenda di Romeo e per un’ampia bibliografia sui Pepoli e sul credito a Bologna in età comunale, mi permetto di rinviare a Giansante (1991). Su Taddeo, si dovrà vedere ora Antonioli (2004). 2 BCA, Ms. B 673 (C. Salvetti, Notizie storiche sulla famiglia Pepoli); Crescenzi (1639); Dolfi (1974).

194

origini delle fortune familiari, di quel patrimonio immenso su cui Taddeo aveva costruito il mito della propria splendida liberalità: che il celebrato signore, gloria culturale e politica cittadina, dovesse gran parte della sua potenza alle specula-zioni creditizie del padre è un’acquisizione storiografica che non si può pretendere da chi all’opposto andava elaborando le ascendenze regali della famiglia; anche se, oggi come al-lora, chi accede all’archivio dei Pepoli è quasi travolto dalle testimonianze sull’attività del grande banchiere. Limitiamoci per il momento agli atti notarili. L’aspetto attuale dell’archivio Pepoli, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, è in gran parte effetto di un riordinamento della fine del Settecento3. Nell’organizzare cronologicamente la serie degli istrumenti, l’archivista dell’epoca ha proceduto anche alla redazione di alcuni preziosissimi sommarii, che offrono regesti dei contratti, alternandoli con notizie stori-che tratte da Libri di memorie della famiglia4. Sull’attività di Romeo i sommari ci tramandano circa 700 atti notarili, distribuiti lungo l’intero arco della sua vita professionale (1270-1321). Estraiamo, da questo patrimonio documentario imponente, una notitia che l’archivista inserisce fra i contratti del 1290 e quelli del 1291, senza apparenti relazioni con i regesti che la precedono e la seguono. Si tratta di un passo delle Cronache di sant’Antonino, vescovo di Firenze, che parlando di Romeo Pepoli lo avrebbe descritto, dice il nostro archivista, come «il più ricco cavaliere d’Italia, che più volte espose le sue sostanze per il Sacro Romano Impero»5. Una citazione del genere, nel corpo di una serie coerente di atti notarili, potrebbe apparire alquanto peregrina, a meno di non interpretarla invece come frutto di una cultura teologica piuttosto raffinata. Sant’Antonino è, infatti, non solo una delle auctoritates principali nel campo dell’etica economica medievale, ma soprattutto uno dei primi teorici della distin-

3 ASBo, Famiglia Pepoli, s. I/A, Istrumenti. Dell’archivio Pepoli è attualmente in corso, presso l’Archivio di Stato di Bologna, un riordina-mento a cura di Lucia Ferranti e Grazia Lucisano. 4 ASBo, Famiglia Pepoli, s. I/A, Istrumenti, 141-142 (Sommario crono-logico), 150-151 (Repertorio alfabetico). 5 Ibid., 141, p. 140.

195

zione etica fra usura e interesse legittimo. Ecco allora che evocare un passaggio della sua opera storiografica, in cui si esprime un lusinghiero giudizio sul banchiere Romeo, inca-stonandolo fra i suoi contratti di credito, poteva avere agli occhi del compilatore o dei suoi committenti un valore di legittimazione di quei contratti, quasi a volerne esorcizzare a posteriori ogni possibile interpretazione usuraria. Se così fosse, si tratterebbe comunque di una clamorosa mistificazione, come dimostra un semplice controllo della fonte. Sant’Antonino parla effettivamente di Romeo nel terzo libro del suo Chronicorum opus, definendolo «ditissimum super omnes italicos cives», ma soggiunge «ipsis tamen divitiis ex fenore acquisitis, adeo ut ultra viginti milia florenorum annuatim in reditibus haberet»6: condanna inappellabile di una ricchezza accumulata con l’usura. Nel tentativo di tute-lare la reputazione storica della famiglia, lo zelante archivista ricorre dunque ad una citazione quanto mai inopportuna. Ma d’altra parte lo scheletro dell’antenato usuraio riaffiorava insistentemente dalle fonti, vanificando queste ed altre mi-stificazioni storiografiche, così come i glissando degli storici secentisti. Le note di sant’Antonino sono infatti poco più che la traduzione latina di un passo della Cronaca di Giovanni Villani, che racconta come nel 1321 «i Bolognesi a romore di popolo col seguito de’ Beccadelli e altri nobili cacciarono di Bologna a furore Romeo de’ Peppoli, grande e possente cittadino e quasi signore della terra, con tutta sua setta, il quale si dicea “il più ricco cittadino d’Italia, acquistato quasi tutto d’usura, che XX mila fiorini e più avea di rendita l’anno” sanza il mobile. Per la sua partita molto sturbò lo stato di parte guelfa di Bologna»7. Alcune immediate considerazioni suscitate da questa fonte: a Firenze, a pochi anni dalla morte di Romeo, si par-lava del suo enorme patrimonio, offrendone anzi una stima approssimativa (e Villani è per vocazione attentissimo alle questioni del mondo mercantile e creditizio); l’origine di questa fortuna economica veniva individuata dal cronista

6 Antonino da Firenze s. (1586, III, 300-301). 7 Villani (1990-91, II, 333).

196

senza esitazioni, con una osservazione tecnica priva di va-lutazioni etiche, nel prestito a interesse; la fonte stabilisce, se non un nesso causale, certo una contiguità interattiva fra il potere extra-istituzionale del personaggio («grande e possente cittadino e quasi signore della terra») e la sua inusuale ricchezza («si dicea il più ricco cittadino d’Italia»). Basterebbe dunque l’apporto di questa fonte narrativa quasi coeva, al di là delle citate e strumentali reticenze storiografi-che successive, a confortarci sull’importanza di conoscere da vicino la vicenda professionale e politica del nostro banchiere e soprattutto le reciproche interferenze fra le due sfere del suo agire pubblico: abbiamo di fronte un grande uomo d’af-fari che si lascia coinvolgere totalmente dalla vita politica, o piuttosto un uomo politico che mobilita nei rapporti di potere la mentalità economica del ceto da cui proviene? Il primo soccorso documentario, si diceva, arriva dall’ar-chivio di famiglia, che ci offre una serie di circa 700 notarili: dai primi contratti degli anni 1269-1270, che permettono di fissare a questo periodo l’inizio della sua vita professionale, datando quindi la nascita verso il 1250 o poco prima, a quelli dell’estate 1321, rogati a qualche giorno dalla cacciata. Un contributo ancora più rilevante proviene dagli estimi, le due denunce patrimoniali presentate da Romeo nel 1296 e nel 13158. Ma sarà proprio l’intreccio fra fonti forse incomplete ma diacroniche, come gli atti notarili, e fonti sincroniche e tendenzialmente complete, come gli estimi, a permetterci in primo luogo di delineare una vicenda professionale di assoluto rilievo per la storia economica, collocandola poi nel contesto che le è proprio, fra le tensioni sociali e gli sviluppi istituzionali che caratterizzano il tramonto del comune bo-lognese.

1.1. Usuraio o banchiere? Storia di un patrimonio

La storia del credito in età medievale gode ormai di una ricca tradizione storiografica, decisamente sbilanciata però

8 Estimi, b. 12, num. 17 (1296); b. 161 (1315-16).

197

verso l’ambito geografico toscano. Rispetto alle ricerche assai avanzate su vicende fiorentine, senesi, pistoiesi, per non par-lare del caso di Francesco Datini, assolutamente straordinario dal punto di vista archivistico prima che storiografico, la storia del nostro banchiere presenta vantaggi e svantaggi. Un aspetto indubbiamente positivo delle nostre fonti è la possi-bilità che esse offrono di seguire la costruzione di un grande patrimonio in una fase cronologica piuttosto precoce rispetto agli esempi toscani, che raramente risalgono oltre il secolo XIV. L’elemento negativo è legato alla tipologia della nostra documentazione, che, a differenza dei Libri di memorie o delle Ricordanze o dei Libri della ragione toscani, non ci dice quasi nulla sulla mentalità dell’uomo d’affari bolognese, sulla sua cultura professionale, sulla sua ideologia e su una questione cruciale, al tempo stesso tecnica e psicologica, come il con-trasto fra prassi mercantile e normativa canonica in materia di interesse creditizio9. Nel caso di Romeo infatti, a fronte di un enorme giro d’affari che ruotava indubbiamente intorno al credito a interesse nelle sue più varie applicazioni, sta il silenzio delle fonti sia in merito agli strumenti contrattuali impiegati per aggirare il divieto canonico, sia e a maggior ragione riguardo all’approccio esistenziale del banchiere al problema della condanna ecclesiastica dell’usura. In merito alla questione contrattuale, possiamo ritenere con buona approssimazione che la maggioranza dei mutui di Romeo, stipulati con contadini, rientri in quella diffusissima forma di contratti in cui il pegno, costituito da un bene immobile, rappresenta al tempo stesso la sicurtà del mutuo, cioè la garanzia del capitale, e la fonte da cui, attraverso la rendita dell’immobile, il prestatore trae l’interesse10. La que-

9 Sulle questioni della mentalità dell’uomo d’affari, riferite ad un ambito, appunto, prevalentemente toscano, si può partire dai contributi di Sapori (1955, 691-722), con ricca bibliografia, e Id. (1973), e da Renouard (1949); della ricca produzione successiva, si dovranno vedere almeno Bec (1967; 1983); Branca (1986). Le fonti mercantili sono state, fino all’intervento di Sapori, oggetto di interessi prevalentemente linguistico-letterari, da parte ad es. di Monteverdi (1941) e Castellani (1952). Ma si veda ora Cicchetti e Mordenti (1985). 10 Prassi documentata sia in Toscana che in Lombardia: Sapori (1955); Violante (1962); Pinto (1980).

198

stione psicologica è più sfuggente; il silenzio dei documenti sembra in proposito pressoché impenetrabile. È poco più di una flebile eco quella proveniente dalle fonti inquisitoriali, su cui ci si soffermava nell’introduzione, e tuttavia sembra possibile dedurne, con le necessarie cautele, un’immagine pittosto vivace di strade e piazzette e androni, animati da un gruppo di «liberi pensatori» – Pepoli, Zovenzoni, Tettalasini ed altri –, impegnati in discussioni in cui ricorreva frequente il tema della liceità dell’usura e la critica nei confronti degli ordini mendicanti e della loro predicazione. Troppo poco, certo, per vedere in questi crocchi di colleghi e vicini di casa l’espressione di una coscienza etico-economica degli operatori del credito. Ed inoltre ignoriamo quale fosse il diretto coinvolgimento di Romeo in quelle conversazioni, spesso ospitate dall’androne della sua domus magna. Ma forse non è del tutto ingiustificato pensare che, con i suoi più attivi colleghi cambiatori, il Pepoli condividesse almeno un atteggiamento, se non ostile, sospettoso nei confronti dell’ambiente ecclesiale e culturale, quello domenicano, da cui proveniva la più radicale e argomentata condanna dell’interesse creditizio. Per inciso: anche da questo punto di vista, l’oblio del padre usuraio costituiva un prezzo da pagare, per l’accoglimento solenne delle spoglie di Taddeo nel pantheon domenicano. Se per quanto riguarda gli atteggiamenti mentali di Romeo siamo nel campo delle ipotesi più sfumate, ciò che emerge dalla prassi creditizia documentata non si espone a molti dubbi interpretativi: le solide basi della sua fortuna economica poggiano sul nudo interesse, dissimulato, ma non troppo, nelle migliaia di contratti di mutuo, cambio, deposito testimoniate dagli estimi: il profitto dunque più difficile da conciliare coi dettami della dottrina canonica sull’usura. Fin dai primi decenni del Duecento il banco dei Pepoli era attivo sulla piazza cittadina, affiancandosi alle altre compagnie locali e toscane che, esauritasi la fase espansiva dell’economia bolognese del XII secolo, sfruttavano le comode opportuni-tà ancora offerte dal fiorente mercato universitario e l’alta redditività delle operazioni di mutuo e di trasmissione del

199

denaro connesse alla presenza studentesca11. Ma quella dei Pepoli non era, nel settore, un’agenzia d’avanguardia: non disponeva ad esempio di filiali all’estero, anche se aveva svi-luppato un sistema di collaborazione con altri gruppi (quelli dei Raccorgitti e dei Pizzigotti), che era in grado di metterla in contatto con le piazze francesi, e che permetteva al padre e agli zii di Romeo di essere, verso la metà del Duecento, fra i più accreditati cambiatori bolognesi12. Rispetto a que-sta tradizione familiare, l’attività di Romeo, iniziata verso il 1269-1270, presenta subito elementi di interessante novità: in primo luogo la scomparsa pressoché totale della clientela studentesca. Quella categoria privilegiata di immigrati, che con le sue dispendiose esigenze aveva fatto le fortune dei suoi antenati e di tanti loro colleghi, non sembra esercitare su di lui alcuna attrattiva. Romeo preferisce offrire le sue prestazioni ad una clientela locale e assai variamente compo-sita13. È questa, forse, la prima testimonianza di una lucida e tempestiva capacità di interpretare i mutamenti in atto nella società, carattere di cui la biografia del personaggio offrirà numerose altre testimonianze. Di lì a qualche anno, infatti, il settore del credito studentesco avrebbe risentito pesantemente della grave crisi in cui l’Università bolognese stava scivolando in seguito ai turbamenti in atto nella vita cittadina e alla contemporanea sfida lanciata da altri centri di studio. Quelle stesse turbolenze sociali, ed i conflitti interni ed esterni in cui la città fu coinvolta a partire dai primi anni Settanta del Duecento, accentuavano le difficoltà economiche ed il ricorso generalizzato al credito di consumo da parte degli strati sociali più umili della popolazione urbana e rurale. Un campo fecondissimo si apriva alle speculazioni di grandi banchieri e piccoli usurai. Ed eccoci ad un altro dei nuclei tematici più interes-santi, particolarmente in chiave comparativa, della ricerca

11 Sul ruolo propulsivo della presenza studentesca nei confronti delle attività creditizie, cfr. Pini (1988). 12 Si vedano ad esempio i contratti di Zerra, padre di Romeo, docu-mentati in Chartularium (1921, 69-70, 134, 148, 172-173). 13 ASBo, Famiglia Pepoli, s. I/A, Istrumenti, 141, pp. 80 ss.

200

su Romeo. La classificazione degli operatori del credito in due categorie ben distinte, una di banchieri-cambiatori-mer-canti, dediti al credito d’impresa, una di usurai-prestatori su pegno, dediti al credito di consumo, è forse scientifica-mente fondata, se guardiamo al vigore con cui la tradizione storiografica antica e recente traccia un confine netto fra i due gruppi, sia sul versante della tecnica commerciale e ban-caria, sia su quello della storia della mentalità14. E tuttavia, probabilmente legittima per il tardo Trecento toscano, una distinzione rigida fra usuraio e banchiere sembra del tutto improponibile per il primo Trecento bolognese. Proprio la parabola professionale di Romeo, infatti, documenta una fase dello sviluppo economico medievale in cui in un grande banchiere, nel più grande banchiere cittadino, affiora a più riprese la natura insopprimibile dell’usuraio: la fisionomia dignitosa e rispettabile dell’imprenditore e il ghigno satanico dello strozzino convivono e si alternano nella stessa figura professionale. Considerazioni che valgono, ovviamente, se osserviamo a posteriori usurai e banchieri sul piano della prassi economica; per i contemporanei invece, e dal punto di vista del prestigio sociale, come si accennava nell’introdu-zione, la distanza fra le due categorie umane e professionali era e rimaneva abissale. Cerchiamo di dare qualche spessore argomentativo e cro-nologico a questa considerazione generale. Il primo estimo di Romeo ci presenta la situazione del suo patrimonio nel 1296, a quasi trent’anni dall’inizio dell’attività professionale. In questo momento il capitale del banchiere assomma a 71.809 lire di bolognini; o almeno questa è la cifra cui, salvo erore calculi, si giunge sommando le singole stime delle varie voci dell’estimo, mentre la cifra riportata in calce alla denuncia, introdotta dalla solita formula summa totius estimi capit et est, era di 60.820 lire, con una tentata evasione «da errata contabilità» di circa 11.000 lire pari al 15% del dichiara-to15. Questo enorme patrimonio è costituito per l’83% di

14 Si vedano, a puro titolo di esempio, Melis (1972); Le Goff (1976; 1987); sullo status giuridico del banchiere, Nardi (1979). 15 Estimi, b. 12, S. Agata, 17, c. 53v.

201

crediti (59.718 lire) e per il 17% di beni immobili (12.091 lire). Del capitale investito in attività creditizie, la maggior parte riguarda contratti stipulati con abitanti del contado, cifre relativamente modeste vengono invece investite con la clientela cittadina. Si tratta in questo caso per lo più di crediti di consumo o del finanziamento di piccole iniziative commerciali, per cifre che comunque non superano quasi mai le 100 lire: una clientela minuta costituita integralmente da salariati e artigiani16. Ma in questa fase il fulcro dell’attività di Romeo gravitava decisamente sul contado. Nelle zone di S. Giovanni in Persiceto a nord e Castel S. Pietro a est, Romeo contava centinaia e centinaia di contratti di mutuo, e soprattutto annoverava fra i suoi debitori le comunità stesse, rappresentate dai massari, costrette come i privati a ricorrere agli anticipi del banchiere per far fronte ad una sempre più insostenibile pressione fiscale da parte del co-mune bolognese17. I beni immobili costituiscono nell’estimo del 1296 quasi solo un’appendice rispetto all’ampio e ordinato elenco dei crediti: ricoprono evidentemente un’importanza economica assai limitata nel quadro complessivo del patrimonio del banchiere. Si tratta in primo luogo delle case di strada Ca-stiglione in cui Romeo risiede con la sua vasta famiglia: la domus magna, appartenuta un tempo alla famiglia Cacitti e conquistata attraverso una speculazione finanziaria conclusa nel 1276 da una sentenza del giudice del podestà; intorno alla domus edifici più modesti, in cui risiedono altri membri della famiglia, e locali adibiti a cantina e dispensa18. Una residenza ampia e confortevole dunque, in grado di offrire anche, nel cortile, spazi di aggregazione per un vicinato socialmente omogeneo, e nel suo insieme un nucleo immobiliare di indubbio prestigio, non paragonabile tuttavia, come espres-sione scenografica, alla mole emergente delle torri gentilizie. E del resto a questa data, se pure non rinuncia a qualche privilegio di stile magnatizio, come la peschiera per la quale

16 Ibid., cc. 31r-35r. 17 Ibid., cc. 2r-14r. 18 Ibid., c. 48r-v.

202

acquista nel 1295 duemila pesci vivi, Romeo rivolge le sue energie migliori, in politica come nelle attività economiche, ad affermazioni meno clamorose e più concrete. Un valore politico ed economico insieme riveste ad esempio la proprietà di un vasto immobile affacciato sulla piazza del comune, in cui aveva sede la grande macelleria pubblica (la becaria de platea), un investimento importante per il reddito ingente del canone d’affitto, ma soprattutto perché collegava il banchiere alla potentissima Società dei beccai19. Altra proprietà in cui al valore economico si af-fiancava una spiccata valenza politico-sociale è quella dei mulini. Romeo ne possiede diversi, disseminati in quasi tutto il territorio bolognese, da Castelfranco a Castel S. Pietro, dopo averli acquistati dalle comunità rurali, o più spesso acquisiti in soluzione di debiti, cioè attraverso abili specu-lazioni finanziarie20. L’aspetto economico dell’investimento si manifesta subito nell’indirizzo che il banchiere impone alla nuova gestione privatizzata degli impianti, che sembra ispirarsi ad una più stringente logica del profitto. Esami-niamo solo il caso del mulino di Castelfranco: mentre nella gestione comunale i mugnai versavano al massaro un canone annuo in denaro di 26 lire ed erano garantiti da contratti decennali, sotto la gestione di Romeo il canone annuo passa a 400 corbe di frumento, valutabili circa 120 lire, con un aumento di poco inferiore al 400%, mentre la durata del contratto scende a tre anni. Ma più rilevanti ancora sono gli elementi extra-economici dell’operazione. Insieme coi mulini infatti il banchiere entrava in possesso dei connessi diritti, di origine bannale, di monopolio della molitura, in base ai quali i coltivatori della zona erano ora obbligati a ricorrere ai mulini di Romeo, lasciando ai gestori una quota del macinato, generalmente corrispondente ad 1/1621. Quei

19 Ibid., c. 50r. Sui beccai bolognesi e sul loro ruolo nella società co-munale, cfr. Fanti (1980, 31 ss.). 20 Estimi, b. 12, S. Agata, 17, c. 47r; Famiglia Pepoli, s. I/A, Istrumenti, 141, p. 145. 21 Questa è la quota documentata nell’estimo di Romeo del 1315 (Estimi, 161, c. 21r).

203

diritti che le comunità rurali avevano conquistato inserendosi nella crisi dei poteri signorili, ora, strangolate dalla pressione fiscale del comune egemone, erano costrette a cederli ad un nuovo potere che proprio allora cominciava ad affacciarsi sul contado22. Da parte sua, con le tecniche della speculazione finanziaria, Romeo si impadroniva di strutture dall’elevata capacità produttiva, che nello stesso tempo costituivano importanti strumenti di controllo politico-economico delle popolazioni rurali, strumenti dotati fra l’altro di una densità simbolica di remota origine feudale. Altrettanto può dirsi dei giuspatronati sulle pievi rurali che in quegli anni il banchiere acquisisce, secondo la testimonianza dell’archivio di famiglia, ricevendone l’investitura dalle stesse comunità23. È rilevante ma non straordinaria in questo periodo (1296) l’entità dei beni fondiari di Romeo, di poco superiore alle 1.000 tornature (200 ettari circa), ripartite in 50 appezzamenti di estensione assai ineguale, distribuiti lungo un ampio arco che si estende nella pianura fra Castelfranco a ovest e Castel S. Pietro a est. La destinazione produttiva dei fondi è in grande maggioranza prativa, in percentuale minore arativa e vineata. L’assenza quasi totale di bestiame nel capitale del banchiere induce a credere che la sua consistente produzione di foraggio venisse destinata prevalentemente alla vendita, o investita in anticipi ai contadini, fonte per loro di ulteriori ragioni di dipendenza. Il pregio maggiore della situazione documentaria su Romeo è la possibilità di disporre di due estimi complessivi, che fotografano la situazione del suo patrimonio a distanza di un ventennio (1296-1315), permettendoci di studiare l’evoluzione del capitale e la politica degli investimenti24.

22 Su queste dinamiche, in un altro contesto regionale, cfr. Cherubini (1974, 210-228). 23 Famiglia Pepoli, s. I/A, Istrumenti, 141, p. 96. 24 Oltre agli estimi del 1296 (Estimi, b. 12, S. Agata) e 1315 (Estimi, b. 161), Romeo deve averne presentati altri due, nel 1305 e nel 1308, che purtroppo sono andati perduti. Il fatto che siano stati presentati non sembra in dubbio, dato che ancora nel XVIII secolo Baldassarre Carrati trascriveva un ruolo d’estimo in cui Romeo risulta annotato per 88.500 lire nel 1305 e per 70.000 nel 1308: BCA, Ms. B 784 (B. Carrati, Note tratte

204

Come l’estimo del 1296 anche quello del 1315 descrive un patrimonio in cui il credito ha la preminenza assoluta sugli investimenti immobiliari, in un rapporto percentuale, anzi, quasi identico a quello di un ventennio prima: 83% di crediti e 17% di beni immobili nel 1296; 83,6% di crediti e 16,4% di beni immobili nel 1315. A parte questo elemento di con-tinuità indubbiamente significativo, che testimonia i forti e coerenti interessi professionali del banchiere, l’estimo del 1315 documenta già nella struttura espositiva una situazione patrimoniale completamente nuova. I beni non vengono più descritti in due sezioni distinte, crediti e beni immobili, come avveniva nel primo estimo di Romeo e come continua ancora ad essere negli estimi dei suoi concittadini benestanti, ma raggruppati per ambiti geografici, che costituiscono una serie di capitoli, in cui al nome della località fanno seguito, ordinatamente elencati, beni immobili e crediti. Di assoluto rilievo è poi l’incremento generale del patrimonio, che passa dalle 71.809 lire del 1296 alle 86.661 del 1315 (+20,68%). Ma gli spunti più interessanti procedono dal confronto analitico dei dati e dalla scomposizione dei valori d’insieme. Iniziamo dagli investimenti creditizi. Mentre i dati com-plessivi sembravano suggerire un’immagine di continuità, l’analisi ravvicinata mostra come siano ben poche le località in cui il livello dei crediti si mantiene costante nell’arco del ventennio. Il credito ai contadini manifesta infatti una mobilità accentuata: al calo degli investimenti nella zona occidentale corrisponde un sensibile incremento nelle zone orientale e nord-orientale del contado; queste aree, territori vent’anni prima sconosciuti all’attività del banchiere, regi-strano ora la sua significativa presenza. Passando dal credito ai privati a quello alle comunità rurali, noteremo invece, rispetto alla situazione del 1296, un’esposizione finanziaria complessivamente più contenuta. Ciò si spiega considerando come gran parte dei contratti che in precedenza legavano le comunità al banchiere era invece risolta, nel 1315, in se-

dagli estimi), pp. 6, 42. Sull’esistenza dell’estimo del 1308, del resto, siamo informati anche dalla denuncia del 1315, che vi fa riferimento (Estimi, b. 161, c. 1r).

205

guito alle acquisizioni in solutum che nel frattempo avevano consegnato a Romeo ingenti nuclei immobiliari e fondiari: è il caso delle comunità di S. Agata, Castelfranco, Castel S. Pietro, incapaci di far fronte ai debiti contratti con lui per assolvere ai doveri fiscali, e costrette quindi a sacrificare gran parte dei beni comunali (terre e mulini)25. Ma l’evoluzione in assoluto più rilevante nel settore creditizio è quella che si registra in città. In primo luogo perché l’incidenza percentuale del credito cittadino sul pa-trimonio complessivo del banchiere risulta nel ventennio più che raddoppiata, passando dal 9 al 18,6% e dimostrandosi la voce di gran lunga più attiva fra quelle che costituiscono il capitale mobile di Romeo. Si può dire anzi, in estrema sintesi, che mentre espropriava contadini e comunità rurali, riconvertendo in immobili gran parte dei crediti nel contado, il banchiere dedicava al mondo urbano le sue migliori risorse professionali. Cambia radicalmente, ad esempio, la fisionomia sociale della sua clientela. Non più i piccoli commercianti, artigiani, salariati alla ricerca di finanziamenti minimi di pura sussistenza, come era vent’anni prima, ma le forze economi-che più vivaci: grandi famiglie, come i Guastavillani, attive nell’allevamento del bestiame e nel commercio delle carni; enti religiosi, come il monastero di S. Procolo e l’abbazia di Nonantola, impegnati in complesse operazioni immobiliari; potenti società artigiane, soprattutto, come l’Arte della Lana Bisella, che per entità di contratti è fra i migliori clienti del Pepoli26. Decisamente meno usuraio e più banchiere, dunque, emerge Romeo dal suo secondo estimo. Anche l’analisi del patrimonio immobiliare e della sua evoluzione deriva le migliori suggestioni dalla scomposizione topografica dei dati. Ne affiora l’immagine di un’avanzata compatta in tutte le zone della pianura (ovest, nord, est), una progressione a ventaglio che porta il banchiere a incre-mentare del 1.500% il suo patrimonio fondiario: dalle 1.066 tornature del 1296 alle 14.196, pari a 2.645 ettari, nel 1315, il che ne fa di gran lunga il maggior proprietario bolognese

25 Estimi, b. 161, cc. 183r-187r. 26 Estimi, b. 161, cc. 125v-138r.

206

dell’epoca. Considerazione tanto più rilevante, se pensiamo che, anche nel settore immobiliare, le maggiori attenzioni di Romeo sembrano in questo periodo concentrarsi sul centro urbano27. Mentre infatti nel primo estimo il banchiere de-nunciava fra i beni cittadini unicamente gli edifici occupati dalla sua famiglia in strada Castiglione, la fonte del 1315 descrive anche un consistente patrimonio immobiliare, più di sessanta edifici abitativi, distribuiti in tutto il territorio urbano. Investimento lucroso, certo, ma anche strumento di controllo, tramite le locazioni, di vaste clientele. Un’ultima considerazione sui mulini. L’interesse del Pepoli per questi impianti emergeva già dall’analisi della fonte del 1296 e dagli atti dell’archivio di famiglia. Di mulini Romeo continua ad occuparsi attivamente anno dopo anno, tanto da possederne 18 nel 1315, rispetto ai 5 di vent’anni prima, ed anche in questo campo egli sembra procedere in modo tale da rendere sempre più estesa ed omogenea la rete della sua presenza nelle zone di pianura a nord della via Emilia.

1.2. Patrimonio e potere

Ma Romeo, come sappiamo, non è solo un grandissimo uomo d’affari: fin dai primi anni della sua attività egli appare costantemente coinvolto nelle tensioni e nei rapporti di po-tere interni alla società comunale; per tutto l’arco della sua vita pubblica, si mantiene lontanissimo dal precetto ribadito tante volte, con enfasi ossessiva, dai mercanti toscani, che raccomandavano a figli e discepoli di attenersi in campo politico ad un atteggiamento di costante devozione al potere costituito, di sostanziale e prudente conformismo sociale. Ricorrente con varie sfumature, quel precetto è sintetizzabile nella formula proposta da Paolo da Certaldo nel suo Libro di buoni costumi: «In ogni terra che vai o che stai, dì sempre bene di que’ che reggono il Comune; e degli altri non dire

27 Estimi, b. 161, cc. 121v-125r.

207

però male, però che potrebboro montare in istato, e non t’avrebbero per amico loro né di loro stato»28. Alla base di questo atteggiamento, caratteristico della mentalità mercantile toscana, sta quella che potremmo definire una sostanziale indifferenza ideologica, o più precisamente una preminenza assoluta degli interessi economici su quelli politici. Nulla di più facile, grazie ai Libri di memorie, che sorprendere i grandi protagonisti della vita economica toscana del tardo Trecento in atteggiamenti di fastidio e preoccupazione, se non di aperta insofferenza, verso gli impegni che la costituzione comunale proponeva loro, specie quando ciò li costringeva ad allontanarsi dagli affari29. La mercatura lasciava ben poco spazio alla politica in quell’orizzonte esistenziale ed ideo-logico. Lontanissimo, dicevamo, da questo atteggiamento, Romeo non solo vive all’interno delle istituzioni comunali una vicenda personale intensa e drammatica, ma nelle stesse operazioni economiche e finanziarie appare costantemente animato da preminenti finalità politiche. La sua carriera pubblica si presta ad una scansione in due grandi periodi: durante il primo i suoi impegni nella vita delle istituzioni comunali non sono diversi da quelli di tanti suoi colleghi in affari, e corrispondono più o meno agli incarichi politici cui erano chiamati tutti gli esponenti di ri-lievo del ceto mercantile30; il secondo periodo invece lo vede ricoprire ruoli istituzionali ed extra-istituzionali sempre più rilevanti, espressione di un potere personale ormai in chiara evoluzione signorile. Fra i due periodi, gli anni della guerra con Ferrara (1296-1299), decisivi nella crisi delle istituzioni comunali bolognesi31. Alla vita politica il Pepoli si affaccia da una posizione già favorevole, grazie ai legami matrimoniali realizzati dal padre Zerra e, dopo la sua morte, dallo stesso Romeo nel ruolo di

28 Citato da Branca (1986, 18). 29 In Giovanni di Pagolo Morelli (Branca 1986, 190-191), ma atteg-giamenti analoghi si riscontrano facilmente, ad esempio, nelle lettere di Francesco Datini (Origo 1958, 186 ss.). 30 Giansante (1991, 35-48). 31 Ibid., pp. 48-52.

208

tutore delle sorelle, accasate con esponenti di alcune delle più ricche e potenti famiglie cittadine, tanto ghibelline (Tettala-sini), che guelfe moderate (Simonpiccioli) o radicali (Caccia-nemici). Un atteggiamento, questo, che si può interpretare come frutto di una meditata strategia diplomatica, ma anche del prevalere di interessi socio-professionali sugli schieramenti di parte, dato che anche altri membri della famiglia Pepoli, di solide tradizioni guelfe, si uniscono indifferentemente a casate guelfe (Baccadelli, Galluzzi, Asinelli) e ghibelline (Foscardi, Pizzigotti, Tettalasini), tutte accomunate però da un antico prestigio sociale e da solide basi economiche, e scelte perlopiù fra quelle saldamente radicate nella Società del Cambio. Con il confortante sostegno di questi rapporti familiari, prende avvio alla fine degli anni Settanta la carriera politica di Romeo di Zerra dei Pepoli. Immatricolato all’Arte del Cambio e alla Società dei Castelli, partecipa insieme con alcuni colleghi, esponenti della parte guelfa, alle trattative diplomatiche che, secondo la volontà del rettore pontificio, avrebbero dovuto condurre nella primavera del 1280 alla pacificazione fra i guelfi Geremei ed i ghibellini Lamber-tazzi, con il conseguente rientro in città di questi ultimi, di nuovo in esilio dopo la seconda cacciata del 1279. Il ruolo ricoperto in quell’ambasceria, che doveva mediare fra le spinte estremiste emergenti dalla società cittadina e le istanze conciliatrici del rettore, ci porterebbe ad accostare Romeo, in questo periodo, alle correnti del guelfismo moderato. Ipotesi che si concilierebbe bene anche con le descritte linee di politica matrimoniale. Per il resto, nulla sembra distinguere la carriera politica del nostro cambiatore fino al 1296 da quella di tanti altri esponenti dell’egemone ceto mercantile e creditizio: non il ruolo nella struttura militare cittadina, che anzi lo vede registrato fra i fanti, e non fra i cavalieri della cappella di S. Agata; né gli incarichi ricoperti nella Società dei cambiatori, cui nel 1294 risulta iscritto con altri 12 membri della famiglia, o nella Società dei Castelli, che riuniva oltre ai Pepoli altri membri del ceto creditizio bolognese (Zovenzoni, Beccadelli); né infine la sua presen-za, regolare ma non ossessiva, negli organi consiliari del

209

comune, che d’altra parte stavano già da allora perdendo progressivamente le loro funzioni più schiettamente politiche, a vantaggio di collegi ristretti. È proprio questa la via che, dalla metà degli anni Novanta, Romeo sembra intraprendere in modo deciso. Dal 1293 si registra infatti la sua presenza costante nei collegi di sapientes, che si affiancavano sempre più spesso al Consiglio degli Ottocento nella gestione degli affari di maggior rilievo economico-finanziario. Il conflitto lungo e devastante intrapreso con la signoria estense negli ultimi anni del secolo ebbe per la città gravi conseguenze in campo politico-diplomatico, alterando in modo sensibile l’assetto territoriale della sua egemonia e la natura dei suoi rapporti con la lega ghibellina e la rettoria pontificia, ma anche nel settore economico e sociale, venendo a colpire in maniera gravissima gli equilibri già delicati fra città e contado, fra produzione agricola e sistema annonario, fra presenza studentesca ed economia urbana: ragioni non ul-time della rapida, incontrollabile evoluzione istituzionale che seguì di lì a poco. Stimolato dall’emergenza bellica, andava crescendo in quegli anni il ruolo politico delle balìe, com-missioni ristrette destinate ad esautorare progressivamente gli organi costituzionali. In primo luogo gli Otto di guerra, in cui si concentravano i poteri militari e diplomatici, ma anche la balìa addetta alle questioni annonarie (Domini de blado) e quella finanziaria dei Domini quinque super augendis introitibus et minuendis expensis. In pratica, queste tre com-missioni, di cui ripetutamente Romeo farà parte nei primi anni del nuovo secolo, riescono ad avocare a sé i poteri di organi come gli Anziani e Consoli o i Difensori dell’Avere, cui la costituzione comunale delegava il controllo degli aspetti fondamentali della vita politica: l’amministrazione fiscale, i problemi militari, l’attività diplomatica, l’approvvi-gionamento alimentare. Due fattori avevano contribuito ad incrementare oltremisura l’autorità di questi centri ristretti di potere: da un lato l’urgenza delle questioni da affrontare nell’emergenza militare, come il reclutamento di truppe, l’imposizione di collette, il reperimento di derrate alimentari, che consigliava il ricorso a procedure abbreviate e ad orga-ni più agili dei tradizionali consigli; dall’altro la crescente

210

influenza di una fazione filoestense nella società bolognese e la sua penetrazione all’interno del Consiglio del Popolo e di quello degli Ottocento, che rendevano impossibile in questi organi la discussione di questioni militari, a causa di continue operazioni di spionaggio. Per queste ragioni, ma anche per i danni diretti e indiretti arrecati alla vita economica cittadina dal prolungato stato di guerra, per l’impoverimento e l’abbandono del contado devastato, per il degrado del sistema di comunicazioni stradali e fluviali, gli ultimi anni del Duecento imposero a Bologna una serie di emergenze politiche, economiche e sociali. Nell’affrontarle le istituzioni comunali ebbero, costante e decisivo, il contributo di Romeo Pepoli, che mentre dimostrava doti diplomatiche non comuni nel distendere la sua rete di relazioni, mobilitava a sostegno della politica bolognese, e capillarmente nel tessuto sociale, le sue risorse finanziarie apparentemente inesauribili. Se gli interessi creditizi dei suoi innumerevoli interventi si rivelavano generalmente contenuti, il loro prezzo politico fu invece altissimo. Conclusasi, anche grazie alla mediazione benevola di Bonifacio VIII, la guerra con Ferrara, ripresero vigore in città le tendenze favorevoli alla riconciliazione con i ghibellini in esilio. La corrente del guelfismo moderato, a cui in quest’epoca possiamo accostare anche Romeo e i suoi più stretti collaboratori, riesce così ad imporre, passata l’emergenza bellica, il rientro dei Lambertazzi e la loro pro-gressiva reintegrazione nelle cariche pubbliche. Ne derivò un più preciso delinearsi dei connotati politici del guelfismo «bianco» bolognese, a fronte del quale con altrettanta nettezza si delinea lo schieramento dei guelfi «neri». A questa fazione, emarginata allora dai centri di potere politico, si rivolsero le attenzioni della diplomazia estense. Insoddisfatto delle condizioni della pace del 1299, il marchese Azzo VIII d’Este trovò la sua quinta colonna interna alla società bolognese proprio in quelle famiglie ultra-guelfe (Galluzzi, Gozzadini, Beccadelli), che il prevalere dei Bianchi aveva costretto ad un rancoroso isolamento32.

32 Ibid., pp. 52-65.

211

Una congiura filoestense fu in effetti scoperta e repressa nel 1303, ma il perdurare di questa situazione di incertezza politica e diplomatica contribuì a rafforzare la tendenza a restringere, a danno dei consigli, i centri del potere effettivo, affidando sempre più incondizionatamente la città a balìe composte da guelfi bianchi. Della più autorevole di queste, guidata dal giurista Bonincontro dello Spedale, fa parte Ro-meo, che ne rappresenta anzi l’anima finanziaria, dato che con il suo patrimonio soccorre ripetutamente, come per il passato, le esangui casse comunali. A più riprese egli mobilita somme ingentissime «ad honorem et utilitatem e libertatem communis et populi Bononie», come recita eloquente una provvigione del maggio 1305. Messe a disposizione delle finanze comunali, le ricchezze gli conferiscono uno straor-dinario potere; la sua presenza e il suo consenso attivi si avviano ad essere condizioni essenziali per la realizzazione di qualunque programma da parte del comune. Si tratti della ricostruzione di castelli, del reclutamento di truppe merce-narie, del sostegno diplomatico ed economico da offrire agli avversari del marchese d’Este: in tutti questi casi e in molti altri i finanziamenti necessari procedono direttamente dalle casse di Romeo. A questo pervasivo potere di fatto, corrisponde fino al 1305 un atteggiamento mimetico del banchiere sul piano politico-istituzionale, che porterebbe a non distinguerlo, all’interno degli organi collegiali, fra le molte decine di esponenti del ceto mercantile e creditizio. Solo nel 1306, in seguito ad una repentina conversione politica, lo vediamo uscire decisamente allo scoperto. Legata da un’alleanza politica e militare saldissima al comune fiorentino, Bologna risente verso la fine del 1305 delle vicende politiche toscane, che da tempo e in modo irreparabile volgono a vantaggio dei guelfi neri. Le sconfitte militari subite dai Bianchi fiorentini e dai loro alleati preparano il mutamento dei rapporti di forza all’interno della società bolognese: proprio Romeo si dimostrerà allora il più sollecito a recepire i nuovi indirizzi della politica internazionale. Nel 1306 lo vediamo infatti capeggiare, al fianco di Bornio Samaritani, un tumulto di chiare tendenze ultra-guelfe. Anticipandone gli sviluppi,

212

Romeo si pone alla guida del nuovo corso politico, ottenen-do la direzione di una speciale balìa incaricata di comporre le lotte civili che si riaccendevano nella società bolognese. Dopo anni di ordinaria militanza fra i guelfi bianchi, dopo aver guidato, affrettandone i tempi, la riscossa dei radicali, il banchiere si offre ora per la necessaria opera di mediazione, imposta dalle pressanti richieste della diplomazia pontificia e dai delicati equilibri internazionali in cui la città era coinvolta. Dalla nuova commissione in cui è impegnato, Romeo svolge una complessa azione politica e diplomatica, i cui obiettivi principali sono attenuare i conflitti fra le fazioni interne e rafforzare l’apparato difensivo da opporre a vecchi e nuovi nemici esterni. Nell’uno e nell’altro campo egli ottiene si-gnificativi successi nel periodo 1307-1310, non senza altri consistenti sacrifici finanziari: la ricostruzione di castelli al confine romagnolo, destinati a sostenere un probabile attacco ghibellino, e l’allestimento di spedizioni militari in Romagna avvengono solo grazie al generoso intervento del Pepoli. Fra il 1310 e il 1312 il processo in atto all’interno delle istituzioni comunali si manifesta con chiarezza; la mutazione affiora all’esterno, ormai inequivocabile, dichiarata anche dai formulari, tradizionalmente prudenti, dei verbali consiliari: tutte le balìe, il barisello (ufficiale con rilevanti compiti di polizia politica), gli stessi anziani e consoli delle società po-polari vengono eletti in presentia domini Romei de Pepulis. Al «benefattore del comune e del popolo», come lo qualificano le fonti, viene così riconosciuto un ruolo costituzionalmente inaudito, un potere personale cui si oppongono ormai ben pochi limiti. Gli anni seguenti vedono il rafforzarsi del processo signorile in atto, ma anche la crescita parallela di una fa-zione contraria a Romeo, organizzata intorno alla famiglia Maltraversi33. Nel gennaio 1316, un temporaneo prevalere di questa corrente mobilita contro i suoi progetti una consistente aggregazione di società popolari. Come spesso accade in contesti di turbolenze politico-istituzionali, terreno privile-

33 Ibid., pp. 65-75.

213

giato dello scontro diventa l’amministrazione della giustizia: l’intervento diretto di Romeo in difesa di un esponente della famiglia Garisendi, accusato dell’uccisione di un artigiano della Società dei fabbri, provoca la reazione violenta delle società popolari ed il temporaneo esilio di Romeo. Questo schierarsi del banchiere al fianco di una delle più antiche famiglie della nobiltà cittadina si presta a diverse, suggestive interpretazioni. Certo potevano esistere, all’interno della Società del Cambio di cui entrambe le famiglie facevano parte, concreti legami di ordine professionale e personale fra il Garisendi e il Pepoli, ma neppure, e non sarebbe il primo sintomo, si può escludere l’affiorare in Romeo di una sensibile attrazione verso il ceto magnatizio: si stava forse compiendo in lui la mutazione definitiva, la personale e radicale revisione del processo che quasi un secolo prima aveva portato mercanti e cambiatori bolognesi a schierarsi al fianco delle società artigiane, decretando il successo dell’insurrezione popolare del 1228. Comunque sia, una sottovalutazione delle forze ostili lo aveva condotto ad un atto di sfida imprudente, o quanto meno prematuro, che gli costò un breve esilio. Dopo il rientro, nella primavera dello stesso 1316, egli si dimostra più cauto nei rapporti con le società popolari. Questo è sufficiente a garantirgli un pieno controllo degli sviluppi istituzionali in atto, come sembra potersi dedurre da alcuni eventi degli anni 1316-1317, che di nuovo lo vedono costantemente al centro della vita cittadina: i suoi nemici personali vengono individuati come nemici del comune e della parte guelfa ed espulsi con la mobilitazione della Società della Croce, struttura paramilitare di terribile efficacia; il suo parere personale viene richiesto, nella forma dell’arbitrato, a soluzione di complessi conflitti giudiziari; il suo intervento è sufficiente a far condannare a morte, senza l’intervento del giudice, un castellano infedele; l’elezione del barisello e degli anziani, dei consoli, dei ministrali delle arti, cui la provvigione del 1310 gli consentiva di presenziare, diviene nel 1317 suo esplicito privilegio. Si fanno insomma inequivocabili, intorno alla sua figura politica, i segni di un potere signorile del quale ormai la stessa opinione pubblica doveva avere una chiara percezione. Ai

214

descritti sviluppi istituzionali si affiancano infatti, in questi anni, alcuni eventi dall’elevato contenuto simbolico: così le nozze fra Giacoma, figlia di Romeo, e Obizzo, erede del marchese d’Este; così soprattutto i pubblici festeggiamenti per la laurea del figlio Taddeo. Quel matrimonio, celebrato con grandi apparati nel marzo del 1317, veniva a coronare una complessa operazione diplomatica che legava i Pepoli alla signoria estense in esilio dal 1309. Proprio attraverso l’appoggio politico e finanziario del banchiere bolognese, gli Estensi andavano preparando il loro rientro a Ferrara e, raggiunto l’obiettivo nell’agosto del 1317, attestavano pubblicamente la loro gratitudine all’alleato. Come è carat-teristico dei regimi signorili di quegli anni, che manifestano tutti una spiccata vocazione intercittadina, Romeo riusciva così a trarre dalla politica estera un sostegno decisivo alla realizzazione del suo progetto di potere. Ma il pubblico, definitivo riconoscimento del nuovo assetto delle istituzioni cittadine coincide probabilmente con le celebrazioni per la laurea di Taddeo, che oscurarono ogni precedente in materia. E ciò non tanto per la fastosità della cerimonia, tradizione anzi consolidata in occasione di addottoramenti di personaggi socialmente elevati, quanto per il significato apertamente pubblico che quei festeggiamenti assunsero. Voluta da Romeo, la celebrazione pubblica venne decretata dal Consiglio del Popolo nel febbraio 1320, ed ebbe luogo nel maggio successivo con ampia partecipazione popolare, interpretata dalle cronache posteriori come tributo di devo-zione e gratitudine che la città e le istituzioni rivolgevano al banchiere, in un clima politico ormai inequivocabilmente signorile. Sarebbe probabilmente riduttivo attribuire in quell’oc-casione a Romeo un intento puramente autocelebrativo. Certo una componente del genere è presente nell’operazione, ma è anche probabile che, acquisendo una coscienza via via più consolidata del proprio ruolo politico, il Pepoli ne progettasse anche la continuazione dinastica nella persona del figlio primogenito, che già svolgeva incarichi pubblici di un certo rilievo: ecco che allora il dottorato in diritto civile di Taddeo e la sua celebrazione ufficiale venivano a

215

costituire un’ulteriore ragione di prestigio e legittimazione, oltre che un’acquisizione tecnica propedeutica all’esercizio del potere. Un percorso imprevedibile e accidentato avrebbe ef-fettivamente portato, anni più tardi, i Pepoli alla signoria della città. Nell’immediato gli equilibri interni alla società bolognese si orientavano però nella direzione opposta ai progetti di Romeo. Ancora una volta nell’ambito giudiziario affiorano i sintomi del prevalere di una fazione contraria al banchiere. Una sua richiesta di indulgenza nei confronti di uno studente spagnolo, accusato del rapimento della gio-vane figlia di Francesco Zagnoni, autorevole esponente del guelfismo nero bolognese, non salva la vita al malcapitato, che viene giustiziato nell’aprile 1321. Poco importa che gli eventi successivi abbiano dato ragione alle previsioni di Romeo, che metteva in guardia la città contro le pericolose conseguenze di una sentenza di condanna, destinata a pro-vocare, come puntualmente accadde, l’esodo degli studenti verso altri centri universitari. Il che costrinse poi le autorità a contrattare con le organizzazioni studentesche il loro rientro, a condizioni da alcuni giudicate umilianti per il comune. Se dimostrava la lucida conoscenza che Romeo aveva del mondo studentesco e dei suoi meccanismi interni, la vicenda costituiva di fatto per lui una sconfitta politica e morale. Solo un’apparente vittoria, gravida di negative conseguenze, fu quella che riportò quello stesso anno ottenendo dal giudice del podestà l’assoluzione di un notaio, esponente della sua fazione, accusato di falso in atto notarile. Pochi reati erano paragonabili a questo, per lo sdegno che potevano provo-care nell’ambiente cittadino, così profondamente permeato di cultura notarile e tradizionalmente sensibile a tutto ciò che riguardava la certezza della pubblica fede. Lo scandalo dell’assoluzione del notaio infedele fu enorme, e l’apparente successo politico di Romeo si rivelò un tragico errore. Altro, decisivo errore fu la scelta da parte sua di un podestà, il fiorentino Albicello Buondelmonti, troppo sfacciatamente tendenzioso nell’amministrazione della giustizia. Procedendo con ingiustificata severità contro un avversario di Romeo, il podestà innescò la miccia di un malcontento diffuso: i vari

216

fermenti antipepoleschi trovarono un’improvvisa coesione nella fazione maltraversa e il 17 luglio 1321 l’insurrezione dilagò con violenza. Scampato fortunosamente all’assedio del suo palazzo, Romeo si rifugiava in esilio a Ferrara e successi-vamente in Romagna. Di qui iniziava, in collaborazione con vari esponenti ghibellini, a organizzare militarmente il suo rientro, e questo contribuì a riaccendere le tendenze ultra-guelfe del regime comunale bolognese. A Bologna Romeo non avrebbe più fatto ritorno: dopo una serie di fallimenti politici e diplomatici, cadde nelle mani del legato pontificio Bertrando del Poggetto, che lo fece trasferire ad Avignone, dove sarebbe morto nell’autunno 132234.

1.3. Un progetto incompiuto

Secondo una fortunata tradizione aneddotica, priva di fondamenti documentari quanto densa di valori simbolici, Romeo ed i suoi riuscirono a sfuggire all’assedio del luglio 1321, facendo a cavallo una sortita improvvisa dal loro pa-lazzo di strada Castiglione, lanciandosi al galoppo attraverso la folla minacciosa e gettando manciate di monete d’oro che gli inseguitori si attardarono a raccogliere35. Si chiudeva così in una pioggia d’oro un’avventura politica che sotto quel segno si era costantemente sviluppata. Priva, dicevamo, di fondamenti documentari coevi, ma di ampia diffusione nella tradizione storiografica cittadina non di molto posteriore agli eventi, la leggenda sembra la sintesi suggestiva di con-siderazioni e interrogativi che ripetutamente si propongono a chi segua il corso di quella biografia, e che ora grazie alla sovrapposizione delle due prospettive, quella professionale e quella politica, sembra possibile delineare con maggiore

34 La notizia della morte improvvisa di Romeo è tramandata dalle cronache cittadine: Corpus chronicorum (1910-40, II, 352). Su tutta la vicenda biografica di Romeo, con particolare riferimento al suo ruolo nella storia politica e istituzionale del comune bolognese, si sofferma piuttosto diffusamente Cherubino Ghirardacci: sulla morte del banchiere, cfr. Ghirardacci (1605-57, II, 35). 35 Sulla leggenda e le sue fonti, cfr. Giansante (1991, 9).

217

profondità di immagine. In che modo dunque le ricchezze di Romeo si sono fatte strumento di potere, percorso privi-legiato del suo progetto politico? O anche: in che modo la sua immensa potenza economica è stata attratta nell’orbita delle istituzioni comunali, già sovraffollate di soggetti politici? E infine: cos’è mancato a quel progetto per consolidarsi in stabile regime signorile? Un tratto caratteristico dell’agire di Romeo è la sua costante attenzione per il contado, cui in certi periodi egli sembra dedicare, assai più che alla città, le proprie risorse professionali e politiche. Il problema del rapporto col con-tado era del resto uno dei più assillanti in ogni realtà citta-dina, e la capacità di gestire questo rapporto in modo più efficace rispetto ai regimi comunali è stata spesso individuata come una ragione non secondaria di successo del modello signorile di potere36. Nel caso del nostro banchiere, abbiamo visto quale mole di risorse finanziarie egli mobilitasse rego-larmente per il credito ai contadini. Il rinnovarsi indefinito di quei contratti, per la cronica insolvibilità dei debitori, e il conseguente controllo permanente da parte del banchie-re della proprietà contadina stabilivano un legame diretto fra lui e percentuali considerevoli delle popolazioni rurali (il 27% nella zona di S. Giovanni, percentuali superiori a Castel S. Pietro, fino al 60% a S. Agata). Ma come abbiamo visto, anche le comunità nel loro insieme erano obbligate nei suoi confronti da contratti collettivi, stipulati da massari e sindaci, costretti a ricorrere agli anticipi monetari di Romeo a causa di una politica fiscale oppressiva, che d’altra parte lo stesso Pepoli orchestrava dall’interno dei competenti organi consiliari bolognesi. A questa capillare presenza finanziaria, il banchiere affiancava gli elementi concreti di una presenza militare, attraverso le opere di ristrutturazione e il successi-vo controllo di fortilizi e strutture di difesa, e gli elementi simbolici del giuspatronato sulle pievi rurali; concreti e simbolici insieme erano invece i significati del controllo dei mulini disseminati in tutto il territorio della pianura. Una

36 Limitandoci al contesto romagnolo e lombardo, cfr. almeno Larner (1972, 328 ss.); Cognasso (1966); Tabacco (1979, 381 ss.).

218

rete vasta e fitta, dunque, quella che Romeo distendeva sul contado bolognese negli anni di passaggio fra Due e Tre-cento, una rete, soprattutto, tessuta con le tecniche tipiche delle speculazioni finanziarie. I primi anni del nuovo secolo vedono la mobilitazione sistematica di questi strumenti an-che sullo scenario cittadino e nei confronti delle istituzioni comunali. Abbiamo visto più volte il banchiere intervenire direttamente a sostegno delle iniziative politiche e militari del comune: si può dire che dal 1310 in poi non ci sia in-tervento ordinario o straordinario delle istituzioni che possa prescindere dalla magnanimità di Romeo37. A questa totale dipendenza finanziaria, che si tradusse nelle forme descritte in una vera tutela politica sugli organi di governo, il Pepoli affiancò poi il controllo sulle relazioni esterne, realizzando un canale diplomatico, parallelo e distinto da quello istitu-zionale, con la signoria estense, che proprio grazie ai suoi diretti, personali e ripetuti interventi poté organizzare la riconquista di Ferrara. Eppure, nonostante questi indubbi elementi di forza, nonostante esibisse fin dalle origini almeno due dei caratteri distintivi dei regimi signorili più consolidati (una profonda penetrazione nel contado, salde relazioni intercittadine), quel progetto signorile non giunse ad una compiuta realizzazione. Per sfuggire ora ai determinismi stimolati dalla conoscenza dei successivi sviluppi istituzionali, per non leggere l’avven-tura del nostro banchiere solo come una falsa partenza del regime signorile a Bologna e il suo fallimento come effetto necessario dell’immaturità dei tempi, cerchiamo di indivi-duare concretamente, dopo gli elementi di forza, i punti deboli del progetto. Una questione probabilmente insolubile, data la tipologia degli atti consiliari del comune bolognese (Riformagioni e Provvigioni, fin troppo sintetiche nel riportare i verbali delle sedute)38, è quella degli argomenti e delle tecniche adottate

37 Per un confronto con altre realtà cittadine, su questi aspetti finanziari dell’affermazione signorile, cfr. Jones (1978); Becker (1978); Waley (1952; 1969, 231-232). 38 ASBo, Comune. Governo, Riformagioni del Consiglio del Popolo e della Massa; Provvigioni dei consigli minori.

219

dal banchiere e dai suoi alleati per ottenere volta per volta il consenso degli organi istituzionali; a maggior ragione sono destinati a rimanere oscuri i percorsi seguiti nelle sedi ristrette e occulte del potere. Non sappiamo cioè in che modo un condizionamento di fatto, una stretta tutela sulle istituzioni comunali riuscisse a tradursi in egemonia politica. E non è questione oziosa, perché il mutamento in atto si inseriva in una consolidata tradizione comunale, burocratica, funziona-riale, dai meccanismi complessi ed evoluti, che aveva anche sviluppato efficaci sistemi di autodifesa contro possibili degenerazioni istituzionali. Una tradizione politica repubbli-cana che non rinunciava tra l’altro, come ogni espressione medievale del potere, ad una propria dimensione sacrale. L’egemonia dei mercanti, dei cambiatori, dei notai bolognesi veniva celebrata infatti, come si è visto nel primo capitolo, da statuti corporativi e comunali che ne descrivevano l’origine provvidenziale: come il potere dell’imperatore nel Liber Au-gustalis, così anche il potere delle società popolari procede, in quegli statuti, dalla clemenza divina, che lo volle come rimedio alle conseguenze sociali e politiche del peccato. Lo stesso Taddeo Pepoli, pochi decenni più tardi, verrà circonfu-so da un’aureola laica, tipicamente giuridica e bolognese, che emanava però dalla sacralità del diritto e faceva del signore cittadino una sorta di sacerdote della giustizia39. Fra queste due realtà di potere si sviluppa la parabola di Romeo, che della prima, l’egemonia del ceto mercantile e creditizio, era espressione diretta, e della seconda, il regime signorile del figlio, avrebbe costruito le fondamenta più solide. E forse la stessa, concreta, troppo concreta evidenza di quella fortuna e delle sue origini aveva impedito a Romeo di sviluppare le necessarie componenti extra-economiche del proprio potere, aveva costretto quel progetto signorile a rimanere fuori da ogni sacralità e da ogni mito, dentro la storia, fino a farsene travolgere.

39 Sull’immagine di Taddeo nella storiografia, cfr. ora Antonioli (2004, 198-212).

220

2. Dagli affari alla politica: i Gozzadini

Costantemente schierati, a differenza di Romeo, sul versante del guelfismo radicale e anche per questo a lungo fra i suoi più accesi oppositori, i Gozzadini ben prima di lui, e in gran numero, pagarono con il bando questa coe-renza, alleandosi infine nel 1321 con la fazione pepolesca in esilio, per tentare inutilmente una comune riscossa40. Ma in realtà, fin dall’inizio, il percorso professionale e politico degli esponenti più noti e meglio documentati della famiglia Gozzadini, contemporanei di Romeo, sembra svilupparsi in rapporto dialettico con quella ingombrante presenza. Si ha cioè l’impressione che l’agire pubblico del Pepoli finisse per rappresentare, per quella generazione di cambiatori, un fru-strante termine di confronto; e in particolare per i Gozzadini, che in scala minore sembrano riproporre alcune di quelle scelte strategiche, soprattutto in merito alla politica degli investimenti e al rapporto con le comunità del contado. A differenza di Romeo, tuttavia, che sa mantenersi in costante e proficuo equilibrio fra affari e politica, è caratteristica pro-pria e peculiare dei Gozzadini il prevalere anche nelle scelte professionali delle finalità politiche su quelle economiche. Saldamente radicati nella Società del Cambio, in cui rappre-sentavano con 35 iscritti il gruppo più numeroso, e attivi negli ambienti creditizi, come ci mostrano con abbondanza i contratti registrati nei Memoriali del Comune41, i membri di questa famiglia sembrano però voler anteporre, al successo negli affari, l’affermazione decisa del clan nella logica degli schieramenti in atto, manifestando inoltre, come si accennava, un’irrefrenabile attrazione culturale prima che politica per il ceto magnatizio. E così, non solo militano di preferenza, come Romeo non fece mai, nella cavalleria comunale, ma più d’uno di loro subisce fra il 1298 e il 1303 la cancellazione dalla matricola del cambio, come «magnate, nobile e poten-

40 Sulla famiglia Gozzadini nel XIII e XIV secolo la bibliografia è al-quanto scarna; si vedano comunque le voci biografiche di Tamba (2002a). Sui fratelli Napoleone e Bernabò Gozzadini, cfr. Vezzali (1999). 41 Vezzali (1999, 253, n. 2).

221

te», definizione volta per volta decretata da Riformagioni del Consiglio del Popolo, e non sappiamo se, in questo caso, più temuta o ambita, comunque incompatibile con l’appartenenza alla Societas Populi. È quanto accade ad esempio a Miravalle di Brandeligi Gozzadini, iscritto nella matricola del 1294 ed estimato per 729 lire nel 1296, ma cancellato dal Liber matricularum nel dicembre 1298, perché riconosciuto come nobilis et potens da una riformagione del Consiglio del Popolo del 24 novembre di quell’anno42. Sorte analoga tocca nella stessa occasione al fratello di Miravalle, Governale, mentre Lancillotto di Amadore, estimato per 587 lire nel 1296, e Napoleone di Licanorio, su cui ci soffermeremo tra poco, subiscono la cancellazione dalla matricola in seguito ad un provvedimento del gennaio 130343, in un clima politico che all’epoca si manifestava particolarmente ostile ai guelfi neri, determinato dagli andamenti della politica estera, ma anche, sul piano interno, dalle scelte strategiche di Romeo. Tentiamo ora di dare qualche maggiore concretezza e, insieme, di arricchire di sfumature questo quadro generale, seguendo un poco più da vicino due vicende esemplari, quelle dei fratelli Bernabò e Napoleone di Licanorio, così come vengono ricostruite in una recente e approfondita ricerca sulla famiglia44. L’estimo di Bernabò, figlio di Lica-norio Gozzadini (1261-1329), redatto nel 1296 è attualmente irreperibile; sembra certo tuttavia che la denuncia sia stata presentata, perché da altre fonti Bernabò risulta iscritto ai ruoli di quell’anno per la cifra di 4.000 lire di bolognini. Ciò ne faceva di gran lunga il primo contribuente della famiglia, e questa condizione di privilegio si mantiene pressoché inal-terata nel corso di un trentennio; prima di morire, infatti, Bernabò ha modo di presentare altre quattro denunce, fra il

42 Estimi, b. 28, S. Michele dei Leprosetti, num. 29; ASBo, Comune, Capitano del Popolo, «Libri matricularum» delle società d’arti e d’armi, 2, c. 7r. 43 ASBo, Comune, Capitano del Popolo, «Libri matricularum» delle società d’arti e d’armi, 2, cc. 2v (Lancillotto), 8v (Napoleone), 10 r (Go-vernale). Per l’estimo di Lancillotto cfr. Estimi, b. 28, S. Michele dei Leprosetti, num. 27. 44 Vezzali (1999).

222

1305 e il 1329, e le cifre d’estimo, nonostante gli andamenti contraddittori dell’economia bolognese di quegli anni, si mantengono costantemente sopra le 3.500 lire45. In tutto questo lungo periodo, il percorso di Bernabò si caratterizza di connotati molto diversi rispetto a quelli che abbiamo detto più comuni nella famiglia, e che in modo esemplare vedremo concentrarsi nella figura a tinte forti del fratello Napoleone. Al contrario di quest’ultimo, Bernabò dispiega una carriera politica priva di colpi di scena, ignora le clamorose afferma-zioni personali e attraversa una sequela di incarichi pubblici, l’abbiamo già vista a proposito di Romeo, del tutto ordinaria nel suo ceto: all’interno del Consiglio dei Duemila, nel Col-legio degli Anziani, nelle strutture amministrative dell’Arte del Cambio. Spicca però, in questo percorso sotto traccia, l’incarico di grande rilievo, felicemente condotto a termine nel 1307, per la pacificazione fra il comune bolognese e gli abitanti di Nonantola. In questo caso, l’esito della vicenda e le linee operative adottate da Bernabò portano chiari i segni di una accentuata mentalità economica applicata ai rapporti politici, non infrequente all’epoca, ma piuttosto rara in quella famiglia. Bernabò infatti aveva risolto una questione assai complessa in modo favorevole alle autorità bolognesi, facendo valere il peso economico della propria presenza nel territorio nonantolano: la difficile situazione finanziaria dei contadini della zona e dell’abbazia stessa, che erano all’epoca gravemente esposti nei confronti del Gozzadini e vincolati da una situazione debitoria di antica insolvibilità, li costrinse ad un atteggiamento conciliante nei confronti della città e del suo rappresentante. Una mescolanza dunque fra ruolo pubblico e privato, fra politica e patrimonio, che già abbiamo visto in azione nella vicenda di Romeo, ma che più in generale caratterizza in quel periodo i rapporti fra città e contado e le strategie dei ceti dirigenti comunali. Nel caso di Bernabò Gozzadini tuttavia, lo studio degli estimi presentati in successione fra il 1304 e il 1329 sembra manifestare, prevalente rispetto ad una vera strategia politica, un progetto di accumulazione

45 Ibid., p. 262.

223

patrimoniale e ricomposizione fondiaria particolarmente attento, allineato, sul piano economico, ai modelli più in-novativi dell’epoca. Non a caso Bernabò riuscì ad evitare le conseguenze più negative delle persecuzioni politiche che colpirono i suoi fratelli e i parenti più stretti: è lui stesso, ad esempio, a presentare nel 1304 la denuncia d’estimo per conto di Napoleone, espulso da un anno circa e in esilio fino al 1306, quando la riscossa dei guelfi neri gli avrebbe consentito di rientrare in patria46. L’estimo di Bernabò per il 1304, il primo fra quelli con-servati, presenta un patrimonio complessivo di circa 3.500 lire ed un relativo equilibrio fra beni immobili, 1.900 lire, e crediti, 1.600 lire47. Tutta la proprietà fondiaria, 400 torna-ture complessive, si trova nella zona orientale del contado, fra Budrio, Medicina e Castenaso, con una consistente unità poderale in quest’ultima località, di circa 70 tornature, ed un gran numero di appezzamenti minori, 17 pecie per 200 tornature in tutto, concentrati invece a Fiesso. Dieci anni dopo, la situazione appare in vorticosa evoluzione: l’estimo del 1315 mostra pressoché azzerato il capitale creditizio e quasi raddoppiata, 750 tornature, la proprietà fondiaria. L’incremento si concentra nelle zone in cui la presenza pa-trimoniale di Bernabò era già più consistente: a Fiesso gli appezzamenti salgono a 23, per 365 tornature complessive, mentre a Castenaso si aggiungono all’unico fondo del 1304 altre tre unità, per 150 tornature; ma compaiono anche 4 grossi appezzamenti, di 140 tornature complessive, a Castel S. Paolo, località sconosciuta all’estimo precedente. Si avverte soprattutto, nel secondo estimo, una tendenza in atto verso la ricomposizione fondiaria, un processo sensibile che tende ad accorpare le unità minori in strutture poderali complesse e si affianca all’investimento che mira invece ad acquisire ex novo proprietà piuttosto estese48. E che si tratti dei due aspetti di un unico progetto economico sembra dimostrarlo con chiarezza l’ultimo estimo, quello presentato da Bernabò

46 Ibid., pp. 262-263. 47 Ibid., pp. 263-264, tav. 2. 48 Ibid., p. 264.

224

nel 1329, pochi mesi prima di morire. Mentre infatti il patri-monio terriero complessivo continua ad aumentare in modo consistente, passando in dieci anni da 750 a 1.250 tornature circa, il numero delle unità fondiarie scende bruscamente dalle 41 del 1315 alle 18 del 1329, testimonianza evidente del forte processo di accorpamento in atto. Bernabò dun-que mira decisamente a costituire grosse strutture poderali: 9 unità fondiarie per 450 tornature a Fiesso, che continua ad essere il centro patrimoniale dell’azienda, ma anche una nuova proprietà di 90 tornature a Varignana ed una di ben 370 tornature a Prunaro, mentre le 200 tornature di Castel S. Paolo vengono ricomposte in un solo podere. Prevalgono naturalmente, nel nuovo modello di proprietà che va deli-neandosi, le colture miste, arativo-vigna soprattutto, rispetto alle colture estensive di cereali e alle vaste zone boschive, che caratterizzavano il patrimonio di Bernabò nel primo estimo. E tuttavia continua la prevalente destinazione cerealicola delle sue terre, cui si affianca una porzione consistente di prativo: cereali e foraggi che eccedono abbondantemente le quantità destinate all’autoconsumo e che, verosimilmente, venivano indirizzati al ricettivo mercato urbano, i primi, a contadini e allevatori i secondi. Non è questa l’unica testimonianza della precoce mentalità imprenditoriale di Bernabò, che mette in campo, negli investimenti razionali e in una gestione assai oculata del patrimonio fondiario, esperienze già preceden-temente maturate nelle attività creditizie, analogamente, del resto, a quanto avviene in altri casi noti, oggetto di recenti ricerche, riguardanti esponenti di famiglie creditizie, oltre ai Pepoli i Piantavigne ad esempio, e altre invece di grandi allevatori e imprenditori agricoli, come i Guastavillani e il ricchissimo beccaio Giacomo Casella49. Nel caso di Bernabò, a questo possente processo di ac-cumulazione fondiaria, corrisponde un altrettanto evidente disinvestimento creditizio; già nel 1315, infatti, il Gozzadini non denuncia più alcun credito. Un fenomeno fin troppo

49 Sui Guastavillani cfr. Libro di conti (2004, 16-23); su Giacomo Casella, cfr. Pini (1977b, 130-144); sui Piantavigne, cfr. Castagnini (1976, 110-113).

225

accentuato, pur in un contesto economico generale che ve-deva certamente in atto un diffuso movimento dei capitali in quella direzione: il disimpegno radicale di Bernabò dalle attività originarie, sue e della famiglia di provenienza, va probabilmente posto in relazione con altre scelte personali, come l’affiliazione alla Milizia di Maria Vergine Gloriosa dei Frati Gaudenti, e spiegato con una sua progressiva as-similazione all’ideologia e alla cultura dei ceti aristocratici, cui corrisponde un allontanamento dalle istituzioni politiche ed economiche del Popolo50. In ogni caso, prevalentemente economiche o ideologiche che fossero, le scelte di Bernabò lo portarono a triplicare la superficie fondiaria complessiva del suo patrimonio, dalle 400 tornature del 1304 alle 1.200 del 1329, consentendogli di superare pressoché indenne le conseguenze determinate dalle interminabili e devastanti crisi belliche degli anni a cavallo fra i due secoli; che portano, per fare un solo esempio, il valore della tornatura di arativo a scendere dalle 5-10 lire del 1296 alle 3-4 lire del 1315, per crollare infine nel 1329 alla cifra di 1-1,5 lire. Fratello maggiore di Bernabò, Napoleone di Licanorio Gozzadini (1250 circa-1319) mostra un percorso esisten-ziale, politico, professionale completamente diverso, in cui le finalità politiche, ancor più che nel caso precedente, sembrano costantemente prevalere su quelle economiche. Questa ispirazione, dai connotati del guelfismo più radicale, Napoleone la manifesta già durante le cacciate dei Lamber-tazzi del 1274 e 1279, in cui il Gozzadini ebbe un ruolo significativo, dimostrandosi poi costantemente contrario al rientro degli esuli, così come nella successiva conquista di Faenza del 1282, cui pure prese parte attivamente. Imma-tricolato al Cambio nel 1294, e di fatto piuttosto attivo nel settore negli anni finali del Duecento, viene cancellato, si diceva, dalla matricola nel 1303 ed esiliato, perché ricono-sciuto da una Riformagione del Popolo colpevole di intese con il nemico estense. Come tanti altri guelfi neri, cioè, era più o meno direttamente coinvolto nelle ripetute congiure organizzate a Bologna dalla parte marchesana, la fazione

50 Vezzali (1999, 265).

226

filoestense che tramava per abbattere il regime dei geremei moderati, controllato all’epoca da potentissime balìe in cui è costante la presenza di Romeo Pepoli. Solo il cambio di campo di quest’ultimo e la rivoluzione del 1306 consentirono ai guelfi neri, fra cui Napoleone, di rientrare in patria51. Si apriva così per il Gozzadini una nuova stagione politica, feconda di incarichi amministrativi e soprattutto militari, e si apriva anche un periodo, piuttosto breve in realtà, di collaborazione con l’antico avversario nelle file del guelfismo radicale. Già nel 1315, tuttavia, Napoleone e Romeo sono di nuovo schierati su fronti opposti; a quella data, infatti, il Gozzadini milita attivamente nella fazione maltraversa che riesce ad ottenere il primo e provvisorio esilio di Romeo: solo la morte probabilmente gli impedì di partecipare, nel 1321, alla cacciata dei Pepoli. Una testimonianza indiretta di quella persistente inimicizia ci viene dall’estimo presen-tato nel 1329 dai figli di Napoleone, che lamentano, per ottenere clemenza fiscale, i soprusi e i danni economici e politici subiti dalla propria famiglia a causa dell’ostilità del precedente regime pepolesco. Eppure, nonostante l’opposta militanza politica e la vivace concorrenza che, almeno negli anni Novanta del Duecento, li contrapponeva in campo creditizio, la politica economica che emerge dagli estimi di Napoleone è, su scala ovviamente molto inferiore ed anzi incomparabile per quanto riguarda i successi ottenuti, assai simile a quella del rivale Romeo, e sensibilmente diversa da quanto sembra caratterizzare invece le scelte della maggioranza dei loro colleghi d’affari. Ciò appare con particolare evidenza concentrando l’atten-zione su due nuclei tematici, economico il primo, politico il secondo, che mostrano come in entrambi i personaggi e nelle loro comuni scelte strategiche si imponesse, nel corso degli anni, sempre più decisivo il rapporto con il contado: sul piano economico si tratta della tendenza accentuata a spostare dalla città al territorio rurale il centro d’interesse dell’attività e degli investimenti immobiliari, o meglio del-l’impegno assiduo per affiancare alle attività cittadine una

51 Ibid., pp. 265-266.

227

robusta presenza nel contado; cui corrisponde, sul piano politico, un uso non economico della ricchezza, finalizzato ad ottenere consensi ed esercitare pressioni sulle comunità rurali, obiettivi non estranei, certo, anche ad altri percorsi di affermazione, ma in questi casi particolarmente accentuati ed anzi preminenti. Come l’estimo di Romeo, anche quello di Napoleone era nel 1296 decisamente sbilanciato sul versante creditizio: ad un patrimonio immobiliare modesto, di 300 lire, corrispondeva infatti una quarantina circa di contratti di credito, con una lieve prevalenza dei debitori cittadini su quelli contadini, per 1.400 lire complessive52. L’entità dei contratti di mu-tuo è variabile e la clientela prevalentemente di estrazione sociale medio-bassa, con l’unica eccezione di un mutuo di 112 lire concesso a Simone Lambertini. Gli estimi successivi mostrano una situazione in rapida evoluzione. Già nel 1304, il patrimonio fondiario, pochi anni prima qualche decina di tornature, si avvia ad eguagliare il capitale creditizio: più di 80 appezzamenti, per 360 tornature complessive, tutti situati nella pianura orientale, con una particolare concentrazione fra Medicina, Liano, Vedrana. Nel 1307 gli appezzamenti sono 87, ma l’estensione complessiva si impenna a 650 tor-nature; il processo di incremento e ricomposizione fondiaria si perfeziona nel 1315, quando gli appezzamenti scendono a 77, mentre l’estensione complessiva sale ancora, fino a 700 tornature circa, con segni evidenti di un appoderamento in atto nelle zone di Fiesso, Farneto e Liano, dove, sia pure a livelli meno accentuati rispetto al fratello, anche Napoleone sembra voler realizzare unità fondiarie sempre più vaste, arricchite da diversi edifici abitativi, mentre la destinazione produttiva dei terreni non è più il semplice arativo, ma colture miste, con presenze significative di vineato, prativo e ortivo. Ma come si accennava, il carattere eminente di Napoleo-ne e dei Gozzadini in genere non è tanto l’intraprendenza economica, quanto la tendenza a trasformare le ragioni di presenza creditizia e fondiaria in elementi di controllo

52 Ibid., pp. 267-268, tav. I.

228

politico del territorio, con un particolare radicamento nella zona orientale del contado bolognese. I contratti che legano a Napoleone i contadini e le comunità stesse di Medicina, Budrio, Ozzano, Farneto, tendono in parte a risolversi nel corso degli anni con l’acquisizione in solutum, da parte del banchiere, delle terre che costituivano le garanzie dei prestiti, in parte invece si rinnovano, di anno in anno, perpetuando le ragioni di quella dipendenza. Con questa tecnica, ben collaudata e di ampia diffusione, i Gozzadini distendono la loro rete di controllo di quell’area della pianura e del primo Appennino, fra la via San Vitale, la via Emilia e le colline a oriente della città53. Proprio da quella zona, in cui erano in grado di arruo-lare un piccolo esercito, i Gozzadini avrebbero di lì a poco messo alla prova le loro forze. Nel 1322 infatti organizzavano un colpo di mano, poi fallito, contro il governo comunale bolognese, per favorire il rientro in patria degli eterni rivali Pepoli, allora in esilio54.

3. Il banchiere aristocratico: gli Artenisi-Beccadelli

Un dossier documentario abbastanza ricco, costituito soprattutto dai loro estimi per gli anni 1296-1315, consente di seguire la politica degli investimenti di due gruppi fami-liari, gli Artenisi e i Beccadelli, fra loro strettamente legati, ascrivibili entrambi all’aristocrazia consolare bolognese ed entrambi ben numerosi, il primo con 25 iscritti, il secondo con 21, nella Matricola del Cambio del 1294: queste condi-zioni ci autorizzano a considerarli ideali rappresentanti dei cambiatori di più nobile estrazione, e a tentare di verificare se da questa provenienza sociale derivi una qualche specificità nel loro agire economico e professionale. Ben distinte nella tradizione genealogica e anche nella comune opinione dei contemporanei e degli amministratori comunali, che senza troppe incertezze qualificano gli uni

53 Ibid., pp. 268-270. 54 Giansante (1991, 73-74).

229

de Artenixiis e gli altri de Becadellis55, le due famiglie erano però alla fine del Duecento ancora fortemente accomunate nella discendenza da un unico ceppo, quello degli Artenisi, da cui qualche decennio prima si erano diramati i Beccadel-li56. Da questo legame derivano alcune ambiguità e diversi problemi prosopografici, a partire dai numerosi Artenisio dei Beccadelli e Beccadello degli Artenisi che ricorrono nelle fonti dell’epoca. Ancora nel 1296, del resto, i due figli di Mattiolo del fu Beccadello degli Artenisi, Terzolino e Pietro detto Fantone, si iscrivono all’estimo definendosi, il primo, de Artenixiis, il secondo, de Becadellis57. Solo vent’anni più tardi, nell’estimo del 1315, la nuova coscienza familiare sembra definitivamente acquisita, dato che quello stesso Terzolino di Mattiolo si qualifica ora, coerentemente agli altri fratelli, de Becadellis58. Sia pure con tutte le incertezze e le sfuma-ture del caso, ci sentiamo dunque autorizzati a distinguere i due gruppi, così come fa la matricola dei cambiatori, anche se l’origine e le scelte pubbliche sembrano in quegli anni saldamente unirli. È indubbia, si diceva, l’appartenenza di entrambi alla più antica aristocrazia cittadina. Alcuni passaggi della storia bolognese dei secoli XII e XIII, cui già abbiamo accennato nei capitoli precedenti, consentono di attribuire agli Arte-nisi e ai loro discendenti Beccadelli ruoli di primo piano nella struttura sociale e nella vita politica del comune di età consolare e podestarile: dalle cariche di console cittadino e dalle missioni diplomatiche svolte negli ultimi anni del XII secolo, alla guida della Società del Cambio e agli incarichi giudiziari dei decenni centrali del Duecento; e ancora, le podesterie di città romagnole, ripetutamente ottenute dagli Artenisi, e le spedizioni militari guidate, con vario esito, nella seconda metà del secolo. Ma a parte questo, si tratta

55 Così ad esempio in Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 78; S. Tecla, numm. 3, 8, 15, 16, 23 etc. 56 Sulle origini dei Beccadelli cfr. Dolfi (1974, 91-93); Crollalanza (1965, I, 106); Spreti (1928-35, II, 14-15). 57 Estimi, b. 29, S. Tecla, num. 29; b. 15, S. Giovanni in Monte, num. 89. 58 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 65.

230

forse delle famiglie più coinvolte, fra quelle appartenenti alla Società del Cambio, nelle dinamiche tipiche dei ceti aristocratici. Ad esempio nel fervore edilizio, che porta le famiglie nobili a gareggiare nella costruzione di torri e case-torri, efficaci ed imponenti macchine da guerra, ma al tempo stesso clamorose affermazioni architettoniche di prestigio gentilizio. Gli Artenisi sono fra i primi e più ambiziosi co-struttori di torri: nel 1141 ne innalzano una a pochi metri da quella degli Asinelli, con la quale doveva rivaleggiare per altezza e artificiosità, tanto da crollare rovinosamente già nel 1201, provocando decine di vittime59. Un’altra torre Artenisi si ergeva a ridosso delle case abitate dalla famiglia in strada S. Stefano, fra le cappelle di S. Stefano e S. Tecla, e poco distanti, all’angolo fra le vie S. Stefano e Borgonovo, si trovavano le case turrite dei Beccadelli, distrutte nel 1303, dopo la scoperta della congiura filoestense cui avevano aderito alcuni esponenti della famiglia, puniti per questo con l’esilio e l’atterramento degli edifici60. La partecipazione attiva alle lotte di fazione e un’accentuata rissosità sociale sono altri caratteri tipici del ceto magnatizio che Artenisi e Beccadelli manifestano ad un alto grado. Gli scontri fra gli Artenisi e i loro rivali di Castel dei Britti e quelli fra i Beccadelli, i da Sala e i Baciacomari, attraversano tutto il Duecento; le trat-tative orchestrate dal rettore pontificio Bertoldo Orsini, che tentavano nel 1279 di portare alla pacificazione fra le parti bolognesi, e la successiva violenta ripresa della lotta trovano costantemente e attivamente schierati sul fronte geremeo sia gli Artenisi che i Beccadelli. Questi ultimi poi estremizzarono in direzione ultraguelfa la loro militanza, affiancandosi più volte ai Gozzadini, come nel caso della citata congiura del 1303 che costò l’esilio a Mattiolo e Mino Beccadelli. Sono, infine, importanti corollari della mentalità aristocratica i ruoli militari spesso ricoperti da Artenisi e Beccadelli nell’esercito comunale, l’attrazione che esercitava su di loro un ordine religioso dalla spiccata vocazione nobiliare come la Milizia dei Frati Gaudenti, in cui gli uni e gli altri militarono nume-

59 Gozzadini (1980, 92-95). 60 Ibid., pp. 133-138; Milani (2003, 383).

231

rosi, e una tradizione cavalleresca, cui pure si è accennato, certo di problematico accertamento documentario, perché diffusa per via tralatizia da cronache tarde, ma comunque indicativa di aspirazioni vivacemente manifestate da queste famiglie, come del resto dalle altre di analoga estrazione sociale. Vediamo dunque se e in che modo le dichiarazioni patrimoniali presentate, fra il 1296 e il 1315, da esponenti delle due famiglie manifestano strategie di affermazione eco-nomica particolarmente connotate in senso aristocratico. Partiamo dagli Artenisi, residenti quasi tutti nella cap-pella di S. Tecla. Gli estimi più significativi sono quelli di Alberto di Artenisio e di Beccadino, figlio del frate gaudente Nicolò di Beccadello61; entrambi appaiono subito, da una lettura anche rapida delle loro dichiarazioni patrimoniali, assai più attivi come proprietari terrieri che come cambiatori. Il capitale di Alberto di Artenisio Artenisi, che ammontava negli anni Ottanta a 2.000 lire di bolognini, si è mantenu-to pressoché immutato nell’estimo del 1296. La denuncia assomma infatti a 2.148 lire, innalzate a 4.000 dalla stima tecnica. Di queste, solo 289 sono il frutto di investimenti creditizi: i 6/7 del patrimonio sono dunque costituiti da beni immobili, fra cui la casa di residenza di via S. Stefano, un edificio dignitoso stimato 400 lire, e un discreto patrimonio fondiario, costituito soprattutto da vigne pregiate, 25-30 lire a tornatura, distribuite fra la guardia cittadina e il territorio di Soverzano. I pochissimi crediti riguardano però cifre di una certa consistenza, dalle 22 alle 100 lire, per le quali sono indebitati con lui sia cittadini delle cappelle centrali, sia abitanti del contado. Decisamente più stimolante per noi risulta l’estimo di Beccadino Artenisi, suggestivo a partire dalla situazione familiare del dichiarante. Beccadino infatti, figlio di Nicolò di Beccadello, appartiene al ramo che già da qualche generazione, ma in modo ancora piuttosto fluido, stava dando origine alla stirpe dei Beccadelli; tanto che il suo parente e confinante Zanochio di Giacomino si riferisce a lui come Beccadino dei Beccadelli. Egli stesso invece continua a

61 Estimi, b. 29, S. Tecla, num. 3 (Alberto di Artenisio); num. 34 (Beccadino del fu Nicolò di Beccadello Artenisi).

232

qualificarsi «de Artenixiis», così come aveva fatto nell’estimo del 1287, quando insieme col fratello Mino aveva presentato una denuncia di 6.666 lire. Come Alberto, anche Beccadino Artenisi non può definirsi un cambiatore di professione, dato che nel suo estimo, che presenta una cifra complessi-va di 5.900 lire, compare un solo credito, di 110 lire, che neppure è il frutto di un mutuo, ma dell’insolvenza dei suoi affittuari di Viadagola. Anche in questo caso infatti si tratta di un grande proprietario terriero, titolare di un patrimonio immobiliare e fondiario vasto e complesso. Ne fanno parte in primo luogo gli edifici di città: oltre alla casa di abitazione di via S. Stefano, confinante coi Beccadelli e con la chiesa di S. Giovanni in Monte, un altro edificio prestigioso, che Beccadino possiede nei pressi del carrobbio di Porta Rave-gnana e delle case degli Zovenzoni, ed otto casette, invece, di modesto livello, situate in strada Castiglione, nella parrocchia di S. Lucia, e destinate ad accogliere affittuari di estrazione popolare. Il patrimonio fondiario di Beccadino, circa 650 tornature complessive, si concentra nella bassa pianura, abbastanza equamente ripartito fra Viadagola, Granarolo e S. Giorgio di Piano. Il maggiore addensamento si verifica a Viadagola, con 232 tornature dalle diverse destinazioni produttive (arativa, vineata, prativa), mentre prevalentemente prative sono le 201 tornature di Granarolo; una complessa struttura poderale è invece quella che Beccadino possiede a S. Giorgio di Piano, con numerosi edifici e più di 240 tor-nature, fra arativo, vineato, prativo e ortivo. La destinazione diversa dei fondi incide certo in modo decisivo nel definirne il valore economico, dalle 5-6 lire a tornatura per l’arativo di Granarolo alle 30 lire degli orti nella guardia civitatis; ma altrettanto significative sono le oscillazioni dovute alla varia produttività dei fondi, per cui, ad esempio, la tornatura di arativo può anche raggiungere, nella zona di Viadagola, la valutazione di 10-15 lire. Assai meno interessanti risultano l’estimo di Nicolò del fu Buvalello Artenisi, fra l’altro di assai problematica leggibilità, ma comunque inferiore alle 1.000 lire, e quello di Francesco di Alberto Artenisi, anch’esso di poco inferiore alle 1.000 lire e costituito quasi integralmente dalla casa di abitazione di via S. Stefano e da qualche decina

233

di tornature di terra, situate nella zona collinare e orientale del contado bolognese62. Unico fra gli estimi degli Artenisi a presentare qualche interesse per la storia del credito è quello di Terzolino di Mattiolo, appartenente anch’egli al ramo Beccadelli della famiglia, ma per il momento ancora legato, a differenza del fratello Pietro, al nome dell’antica stirpe, cui nell’intestazione della denuncia dichiara di appartenere: Terçolinus q. Mathioli Becadelli de Artenixiis63. Proprio con il fratello, Pietro detto Fantone, che come vedremo tra breve sceglie invece senza esitazione di farsi estimare con il nuovo cognome de Becadel-lis, Terzolino aveva presentato la precedente dichiarazione, nel 1287, per la cifra complessiva di 800 lire; ed ancora nel 1296, quando le loro denunce sono separate, gli unici beni immobili di Terzolino e di Pietro sono quelli posseduti in comune dai due fratelli: la casa di abitazione, adiacente la chiesa di S. Giovanni in Monte, piuttosto modesta a giudi-care dalla stima che se ne propone, 150 lire complessive, e un appezzamento di 10 tornature di vigna nel territorio di Crevalcore, anch’esso stimato nell’insieme 150 lire. La parte di beni immobili spettante a Terzolino, così come quella di Pietro, assomma dunque a 150 lire in tutto. La gran parte del suo capitale infatti è costituito da crediti, ordinatamente elencati nella parte iniziale dell’estimo: 43 contratti di mutuo per 1.284 lire complessive. La clientela cui Terzolino sembra rivolgere di preferenza le sue attenzioni professionali è co-stituita dai contadini della pianura orientale, fra Castenaso e Budrio, che compaiono numerosi fra i suoi debitori, sia a titolo personale che collettivamente, come nel caso della comunità di Arvigliano, per cifre generalmente modeste, da 3 a 10 lire. Si rivolgono a lui però anche alcuni artigiani e commercianti bolognesi, fabbri, bisilieri, pescatori, ottenendo mutui di entità variabile fra le 10 e le 20 lire. Non mancano, infine, e sono i clienti impegnati con lui per le cifre più con-sistenti, da 60 a 100 lire e oltre, esponenti dell’aristocrazia

62 Estimi, b. 29, S. Tecla, num. 23 (Nicolò del fu Buvalello Artenisi); num. 78 (Francesco di Alberto Artenisi). 63 Estimi, b. 29, S. Tecla, num. 29.

234

cittadina e della nobiltà feudale, come il conte Bertolino di Ripa d’Isola, notai delle famiglie Buvalelli e Bompetri, ed altri cambiatori, come Petrizolo Bombaroni. Sembra evidente dunque che nel caso di Terzolino Ar-tenisi ci troviamo di fronte un vero cambiatore-banchiere, piuttosto giovane ma già avviato verso una carriera ed in-teressi professionali ben definiti in senso creditizio, anche se non molto specializzati quanto a clientela. L’impressione si rinnova passando ad esaminare il ramo Beccadelli della famiglia, a partire dall’estimo del fratello di Terzolino, Pie-tro64. Si tratta di una denuncia, come vedremo, perfettamente simmetrica rispetto a quella di Terzolino, e questo rende ancora più suggestiva la scelta del cognome nell’intestazione: Petrus qui dicitur Fantone q. Mathioli Becadelli de Becadellis. Siamo dunque, con Pietro e Terzolino, esattamente nella fascia generazionale in cui una identità familiare nuova si sta affermando fra i discendenti di Beccadello degli Artenisi, e Pietro ne ha coscienza in anticipo rispetto al fratello, che solo negli estimi trecenteschi si presenterà con il nuovo cognome agli ufficiali addetti al rilevamento. Perfettamente condivisa fra i due, invece, e ampiamente diffusa, come vedremo, in tutti i Beccadelli è una spiccatissima vocazione professionale verso il credito. L’estimo di Pietro per il 1296 è infatti quasi integralmente costituito da crediti, 59 contratti di mutuo per 1.220 lire complessive, cui si aggiungono unicamente le 150 lire dei modesti beni immobili, posseduti in comune col fra-tello. Anche Pietro, come Terzolino, si dedica di preferenza alla clientela contadina; il baricentro della sua azione però è più spostato verso il settore settentrionale del contado, fra Cadriano e Crevalcore. Inoltre, a differenza di quanto ab-biamo visto per Terzolino, sono sensibilmente più frequenti fra i mutui di Pietro i contratti di media entità, fra le 15 e le 30 lire, rispetto a quelli modesti, di 3, 5 o 10 lire, piuttosto rari, mentre sono solo due i contratti superiori alle 100 lire, uno dei quali è stipulato dal beccaio Ugolino di Ottobono. Oltre ai contadini, compaiono con una certa frequenza fra

64 Estimi, b. 15, S. Giovanni in Monte, num. 89.

235

i debitori di Pietro Beccadelli esponenti di grandi casati bolognesi, come i Galluzzi e i Caccianemici, suoi colleghi cambiatori, delle famiglie Zovenzoni, Pavanesi e Sabadini, e maestri dello Studio, come Francesco di Odofredo. Terzolino e Pietro erano in quegli anni relativamente giovani e potevano vantare quindi un’esperienza profes-sionale piuttosto limitata e situazioni economiche ancora modeste. Altri esponenti della famiglia, tutti residenti nella stessa cappella di S. Tecla e in edifici contigui, presentano invece nel 1296 dichiarazioni patrimoniali ben più consi-stenti. Esaminiamo gli estimi dei fratelli Benno e Zanochio, figli di Giacomino Beccadelli, e quello di Tommaso di Salvo Beccadelli65. La denuncia di Benno è gravemente danneggiata nella parte iniziale e risulta qua e là di difficile lettura. Se ne deduce tuttavia la cifra d’estimo complessiva di 8.331 lire, che lo colloca a pieno titolo nell’élite economica bolo-gnese; con l’ausilio della luce di Wood, inoltre, si riesce a interpretare anche la maggior parte delle poste. Ne emerge abbastanza chiaramente l’immagine di un uomo d’affari assai attivo negli ambienti del Cambio, legato da numerosi rapporti finanziari ad altri banchieri ed impegnato anche in operazioni piuttosto complesse. Quasi tutto il suo capitale, infatti, 7.611 lire su 8.331, risulta investito in operazioni creditizie. Gli unici beni immobili sono costituiti dalla casa di abitazione in S. Tecla, certamente dignitosa ma niente di più se viene stimata 200 lire, e da 11 appezzamenti di terra che Benno possiede a Bagnarola di Budrio, per un’estensio-ne complessiva di 102 tornature, per lo più arative, stimate nell’insieme 520 lire. Una parte significativa del patrimonio fondiario è il risultato diretto di speculazioni finanziarie, si tratta infatti di terre arative e casamenti ottenuti dal Bec-cadelli a saldo di mutui cui i contadini suoi debitori non erano stati in grado di far fronte, perdendo di conseguenza il bene consegnato in garanzia. Nell’insieme, tuttavia, non si direbbe che il settore agricolo rivesta un ruolo rilevante

65 Estimi, b. 29, S. Tecla, num. 8 (Benno del fu Giacomino Beccadelli); num. 16 (Zanochio del fu Giacomino Beccadelli); num. 35 (Tommaso del fu Salvo Beccadelli).

236

negli interessi imprenditoriali di Benno: il suo patrimonio fondiario comprende ampie zone di incolto, di estensione imprecisata perché evidentemente sconosciuta al proprietario, in un’epoca in cui al contrario la tendenza generalizzata era verso il dissodamento e la messa a coltura, ed anche le zone ad arativo e le vigne, poche queste ultime, non sono parti-colarmente valorizzate, a giudicare dalle stime unitarie che non superano mai le 6 lire a tornatura. Le maggiori energie, dunque, Benno Beccadelli le dedicava certamente alle spe-culazioni finanziarie: nei 67 contratti di mutuo documentati dal suo estimo, mobilita complessivamente più di 7.600 lire ed una quota considerevole di questo capitale, il 15% circa, è a sua volta il risultato di crediti che il Beccadelli ha ottenuto da suoi colleghi d’affari, in una complessa rete di finanziamenti che coinvolgono, come vedremo, compagnie bancarie, privati e comunità del contado. L’attività di Benno si rivolge ad una clientela assai diversificata e l’entità dei crediti è la più varia: dalle cifre modestissime, 2-3 lire, prestate a contadini di Gavaseto o a piccoli artigiani, fino alle 700 lire che ha ottenuto da lui il comune di Cento. La maggior parte dei mutui, comunque, riguarda cifre piccole, da 10 a 20 lire, e medie, 50-60 lire, e coinvolge contadini della zona nord-orientale, da S. Pie-tro in Casale a Budrio. Non mancano, fra i suoi debitori, cittadini appartenenti a tutte le classi sociali: artigiani, no-tai, ecclesiastici, ed esponenti della più antica aristocrazia bolognese, come Maccagnani, Caccianemici, Simonpiccioli e Pascipoveri. Ma i contratti più interessanti sono quelli che legano il Beccadelli ad altri gruppi creditizi cittadini – Zovenzoni, Pizzigotti, Dugliolo, Mezzovillani –, non solo perché si tratta di operazioni di notevole entità, 440 lire, ad esempio, il mutuo concesso a Giuseppe da Dugliolo, ma perché testimoniano l’importanza e la complessità degli affari in cui Benno era coinvolto. Un rilievo particolare sembra rivestire in proposito il finanziamento di 1.100 lire, che il Beccadelli ha ottenuto dalla compagnia pistoiese dei Pannocchia, detta «della Scala», rappresentata a Bologna dalla società dei Bianchi di Cosa, e che ha successivamente investito in due mutui, stipulati con il comune di Cento, 700

237

lire, e con Gualterino Maccagnani, 400 lire66. L’estimo di Benno, come quello del fratello Zanochio, è infine di grande interesse per il contributo documentario non trascurabile che offre ad un tema di fondamentale importanza, l’interesse praticato per i contratti di mutuo, sul quale le fonti risultano in genere laconiche. Alcuni dei contratti di Benno, infatti, vengono registrati nell’estimo dichiarando la differenza fra la cifra effettivamente mutuata e quella riportata nell’atto notarile. Come è noto, si tratta di uno degli espedienti più comuni per garantire al prestatore la possibilità di un congruo guadagno; la cifra riportata dall’istrumento era infatti ampiamente superiore al capitale mutuato, in quanto comprensiva dell’interesse pattuito nel contratto. Nel nostro caso la differenza fra le due cifre è talvolta di enorme entità, del 200 e anche del 300%, più spesso è del 40-50%; ma è comunque impossibile da questi dati dedurre conclusioni sul tasso annuale d’interesse, non disponendo di alcun elemento in merito alla durata dei contratti. Altri aspetti, piuttosto, si prestano a considerazioni suggestive, a partire ad esempio dalla motivazione ufficiale della disparità fra le cifre: Benno dichiara infatti, in quei casi, che il documento in suo possesso riporta una cifra superiore a quella effettivamente prestata «ad maiorem securitatem». La certezza di riscuotere un cre-dito di 5 o di 6 lire, dai contadini di Gavaseto o Bagnarola, sarebbe dunque meglio garantita dall’avere a disposizione, e dal poter quindi eventualmente esibire in giudizio, un atto notarile che documenta una cifra enormemente superiore, di 20 o 25 lire; allo stesso modo, il suo debitore Allegra-

66 La compagnia pistoiese «della Scala» era attiva a Bologna già negli anni Sessanta del Duecento, con una presenza non ingente sul piano degli investimenti ma piuttosto capillare (Maragi 1981, 150). La situa-zione sembra mutata a fine secolo, almeno a giudicare da questo estimo di Benno Beccadelli. Il finanziamento che il banchiere bolognese ottiene dalla compagnia pistoiese è infatti di entità tutt’altro che modesta, ma il fatto che il contratto sia documentato, recita l’estimo, «dai libri dei figli di Bianco di Cosa», sembra indicare che a questa data la società della Scala non sia direttamente presente sulla piazza bolognese, ma si faccia appunto rappresentare dalla compagnia dei Bianchi, che del resto man-teneva analoghi rapporti d’affari, come vedremo, anche con altre società toscane.

238

tutti Mezzovillani dovrà sentirsi maggiormente obbligato al pagamento del mutuo di 200 lire, che ha effettivamente stipulato col Beccadelli, dalla possibilità che quest’ultimo avrebbe, in caso di insolvenza, di convocarlo in giudizio per un debito documentato di 500 lire! Assai probabilmente, il documento ed il suo contenuto dovevano garantire non dalla totale insolvenza, ma dal ritardato pagamento del debito, ed era in realtà un ritardo previsto e calcolato nel contratto: in sostanza, siamo di fronte, coi mutui di Benno Beccadelli, ad una delle forme più frequenti di legittimazione contrattuale dell’usura, documentata da numerose altre fonti e ricordata anche, per gli ambienti bolognesi, da A.I. Pini, e cioè un accordo fra le parti, che prevedeva e monetizzava il danno provocato al mutuante dal ritardato recupero del capitale67. Un altro elemento rende interessante a questo proposito l’estimo del nostro cambiatore, e lo stesso vale in tutti i casi, non infrequenti, in cui si rende esplicita nella dichiarazione fiscale la differenza fra capitale mutuato e cifra documentata dall’istrumento: solo il primo, il capitale investito nei diversi mutui, viene computato nell’estimo di Benno, non la cifra comprensiva dell’interesse, documentata nell’atto notarile, quella cioè che verosimilmente verrà incassata dal banchiere. Certo si può ritenere che questa sia una concessione ottenuta da una categoria sociale, i membri del Cambio, potente e in grado di influire sulle scelte tecniche degli organi fiscali del comune, ma d’altra parte, l’estimo era, come è ampiamente noto, un accertamento del capitale e non del reddito; è, quindi, coerente alla sua funzione il fatto che, nel caso dei crediti, vengano censite solo le cifre mutuate e non i relativi interessi. È comunque di notevole rilievo che nel contesto bolo-gnese di quest’epoca, e nell’ambito della documentazione pubblica costituita dagli estimi, non venga neppure posta in dubbio la liceità dell’interesse nei contratti di mutuo, che del resto la stessa legislazione statutaria riconosceva ampia-mente, sia pure stabilendo un limite del 20% annuo all’usu-

67 Pini (1962, 70-71).

239

ra legittima68. Come si accennava nelle pagine introduttive, gli ambienti comunali bolognesi di questi anni, in aperta contraddizione con la normativa canonistica e con la pre-dicazione mendicante, sembrano aperti verso una mentalità economica che non solo tollera l’interesse moderato, ma lo considera un elemento costitutivo del prestigio professio-nale dei cambiatori. Una mentalità che si fa prassi giuridica e amministrativa nei documenti pubblici, a partire, appun-to, dagli estimi. In quello del fratello di Benno, Zanochio Beccadelli, ad esempio, la differenza fra cifra mutuata e cifra riportata dall’atto notarile viene dichiarata sistemati-camente per tutti i crediti e senza ricorrere ad alcuna for-mula giustificativa. Zanochio era all’epoca, fra i membri del suo gruppo familiare, il più ricco ed anche il più attivo sul mercato creditizio. Il suo estimo di 11.155 lire lo pone in-fatti fra i primi 15 contribuenti bolognesi ed è costituito per l’80% di crediti. Anche il patrimonio immobiliare è tuttavia di un certo interesse, soprattutto se raffrontato a quello degli altri Beccadelli: la sua casa di abitazione in strada S. Stefano, ad esempio, è, con le 500 lire di stima, di gran lunga la più prestigiosa nell’ambito familiare. Oltre a quella casa, che doveva emergere in modo considerevole su quelle confinanti di Beccadino e di Artenisio Artenisi, Zanochio possiede altri due edifici di un certo livello abi-tativo, stimati 150 e 300 lire, nella zona del trivio di Porta Ravegnana; ai beni urbani si aggiunge poi un interessante patrimonio fondiario nei pressi di Bagnarola, 90 tornature di prati e boschi, stimate complessivamente 420 lire, e so-prattutto una vigna di 7 tornature, situata nella zona privi-legiata della guardia civitatis e stimata 20 lire a tornatura. Ma, si diceva, Zanochio è soprattutto un attivissimo ban-chiere: il suo estimo elenca 90 contratti di mutuo per qua-si 9.000 lire complessive. L’entità dei contratti è assai varia, oscillando dalle 4 lire prestate a Ugolino di Giacomino da Casalecchio alle 1.200 concesse al collega Benvenuto Santi da Marano; la sua particolare attenzione tuttavia sembra

68 Statuti del comune (1869-77, II, 202).

240

concentrarsi su di una clientela di livello medio-alto e sono piuttosto numerosi i mutui superiori alle 200 lire. Sono debitori del Beccadelli esponenti delle più prestigiose fami-glie bolognesi, sia di antica aristocrazia che di recente af-fermazione. Genovese Caccianemici ricorre ripetutamente al finanziamento di Zanochio e gli deve complessivamente 800 lire, così anche Guglielmo Lambertini, Mattiolo Gal-luzzi, Prandino Prendiparte e Lazzaro Liazzari, tutti impe-gnati con lui per cifre oscillanti fra le 50 e le 500 lire. Ma altrettanto numerosi, e per cifre non meno ingenti, sono i suoi debitori fra gli esponenti del Cambio: Zovenzoni, Gozzadini, Pavanesi, Mezzovillani, Gardini e soprattutto Clarissimi e Maranesi, coinvolti questi ultimi da mutui, ri-spettivamente, di 800 e di 1.200 lire. Meno interessato, invece, appare Zanochio sul fronte del credito ai contadini, relativamente rari fra i suoi clienti, e ancor meno, al con-trario di quanto abbiamo visto per i Pepoli o i Gozzadini, nei confronti delle comunità del contado: solo il comune di Casalecchio sembra ricorrere al suo finanziamento e per cifre complessivamente modeste. Come l’estimo di Benno, si diceva, anche quello di Zanochio si presta a interessanti considerazioni in merito al tasso di interesse praticato nei contratti di mutuo. Tutti i suoi contratti, infatti, vengono registrati nella denuncia riportando sia la cifra realmente prestata, quella che verrà contabilizzata ai fini fiscali, sia quella dichiarata nell’istru-mento, comprensiva dell’interesse. Anche in questo caso naturalmente, mancando i dati sulla durata dei contratti, non siamo in grado di andare oltre qualche cauta ipotesi. Si può osservare, tuttavia, come nella grande maggioranza dei contratti, e cioè per 51 mutui su 90, la differenza fra le due cifre sia del 10%; e questo, tanto per contratti di piccola e media entità, di 40 o 50 lire, i cui atti notarili riportano la cifra di 44 o 55 lire, quanto per quelli più ingenti, di 300, o di 500, o anche di 800 lire, invariabilmente corredati di istrumenti che riportano, rispettivamente, cifre di 330, 550, 880 lire. Il prestito più importante, quello di 1.200 lire concesso a Benvenuto da Marano, prevede un interesse lievemente più contenuto, dell’8% circa, dato che il debi-

241

tore dovrà restituire 1.300 lire; non mancano poi interessi notevolmente superiori, del 20, 50 e anche del 100%, ma sono piuttosto rari, non più di una decina di contratti su 90. La grande prevalenza degli istrumenti che prevedono una differenza del 10%, fra cifra prestata e cifra da restituire, farebbe pensare che si tratti appunto di mutui stipulati in tempi recenti e che quello sia proprio il tasso di interesse concordato su base annuale, corrispondente in effetti a quello che sappiamo più frequente sulla piazza bolognese, mentre le differenze superiori al 10% potrebbero indicare contratti più antichi, rinnovati alla scadenza e quindi comprensivi di interessi maggiori. L’ultimo esponente della famiglia che prendiamo in esame, Tommaso di Salvo Beccadelli, dimostra all’interno del gruppo una decisa specializzazione professionale verso il piccolo credito. È infatti, fra tutti i suoi, quello con la clientela più numerosa, socialmente assai composita, ma im-pegnata generalmente con lui per cifre modeste. La denuncia patrimoniale di Tommaso è costituita quasi integralmente di crediti, 3.286 lire sulle 3.795 della sua cifra d’estimo, a testimonianza di un impegno professionale quasi assoluto. Gli unici beni immobili dichiarati sono la casa di prestigio che abita in strada S. Stefano, valutata 400 lire; una mode-sta casetta, data in affitto in strada S. Felice; una piccola estensione di terra, poche tornature vineate, nella guardia della città. In compenso, si diceva, Tommaso è impegnato in quegli anni nella gestione di ben 133 contratti di mu-tuo. Prevalgono nettamente le cifre basse e medio basse, ed anzi 105 contratti su 133 riguardano mutui inferiori alle 20 lire e solo sei contratti sono superiori alle 100 lire. Una vocazione ben precisa dunque, rispetto agli altri Bec-cadelli, che si esprime però nell’entità delle cifre e non in una particolare tipologia sociale della clientela, che appare al contrario ampiamente interclassista. Ricorrono infatti a Tommaso, per averne in prestito cifre modeste, esponenti della nobiltà feudale e cittadina, i da Sala ad esempio, e gli Albiroli, i Rodaldi e gli Scappi; dottori dello Studio, come i Malavolta, e personaggi di estrazione giuridica e notarile, come i Buttrigari e i Boattieri; suoi colleghi cambiatori,

242

delle famiglie Pavanesi e Sardelli, e sono i pochi debitori coinvolti per cifre superiori alle 100 lire. La sua clientela è costituita in buona percentuale da abitanti del contado, della zona settentrionale soprattutto, fra Manzolino, S. Gio-vanni, Pieve di Cento, e anche da comunità, collettivamente rappresentate dal massaro. A parte la prudenza o le limitate possibilità finanziarie che non gli consentono speculazioni troppo ardite, Tommaso appare sul piano professionale estremamente versatile. Unico nel suo gruppo familiare, ad esempio, stabilisce diretti rapporti d’affari con una clientela politica, appartenente fra l’altro alla parte tradizionalmente avversa, cioè la ghibellina. Salinguerra Torelli, esponente della fazione ferrarese allora in esilio, ottiene infatti dal Beccadelli due mutui, modesti anch’essi, in linea dunque con la prassi di quel banco: rapporti d’affari, appunto, e nient’altro, si direbbe, nel caso di Tommaso. Non così per i suoi cugini, i figli di Zanochio e di Benno, che di lì a poco sarebbero stati condannati all’esilio perpetuo, per intese segrete col nemico estense, la parte ferrarese al potere in questo caso, finalizzate ad abbattere con un colpo di mano il regime dei guelfi moderati. Vent’anni dopo, l’estimo del 1315 documenta sia per gli Artenisi, sia per i Beccadelli, ormai ben individuati come gruppo autonomo, situazioni familiari ed economiche totalmente rivoluzionate. Il fenomeno più evidente è un sensibile deprezzamento degli immobili, effetto di tendenze generali dell’economia bolognese e italiana di quegli anni: ne potremmo proporre diverse testimonianze. Non si riscontra invece, al contrario di quanto abbiamo visto in atto nel patri-monio dei Gozzadini, una reale tendenza al disinvestimento creditizio. Giacomo e Francesco, figli di Alberto Artenisi, che nel 1296 aveva presentato, lo ricordiamo, un estimo superiore alle 2.100 lire, hanno tentato negli anni seguenti di conservare immutato e indiviso il patrimonio immobiliare del padre; presentano infatti nel 1315 una dichiarazione congiunta in cui descrivono beni in gran parte perfettamente corrispondenti a quelli paterni: la casa di abitazione in strada S. Stefano, alcune terre vineate e arative a S. Ruffillo e S.

243

Martino in Soverzano69. Inoltre, non solo hanno evitato la dispersione ereditaria del patrimonio, ma lo hanno in parte incrementato, con l’acquisto di un altro edificio abitativo in S. Giovanni in Monte, investimento cui probabilmente hanno sacrificato altre vigne, possedute a suo tempo dal padre nella guardia della città. Non si può dire, insomma, che la loro gestione del patrimonio familiare sia stata pigra o disattenta; tuttavia, nonostante l’intraprendenza, la cifra complessiva dell’estimo dei due eredi di Alberto per il 1315 è, con 1.100 lire, inferiore alla metà di quella paterna del 1296, ad effetto di stime immobiliari che in vent’anni sono crollate, in alcuni casi, del 40, 50 o 60%. È poi di grande rilievo la scelta che i due sembrano aver intrapreso per far fronte a questi andamenti economici negativi, intensificando notevolmente rispetto alla generazione precedente degli Ar-tenisi il proprio impegno nel credito. Mentre infatti, come si ricorderà, l’estimo di Alberto era costituito per il 90% circa di beni immobili, il che ci faceva giudicare poco più che formale la sua immatricolazione al Cambio, quello dei figli è al contrario un patrimonio prevalentemente creditizio. Francesco e Giacomo sono cioè, nel 1315, in primo luogo attivi banchieri impegnati nella gestione di numerosi con-tratti di mutuo, di entità generalmente modesta, soprattutto nella zona del contado nord-orientale, fra Budrio, Vedrana, S. Martino in Soverzano, S. Giovanni in Triario. Ed è in-teressante anche l’estrema varietà della loro clientela, che comprende oltre ai contadini e alle comunità di quell’area, cittadini di estrazione modesta, piccoli artigiani, ecclesiastici, ma anche colleghi cambiatori, delle famiglie Zovenzoni e della compagnia dei figli di Bianco di Cosa. Giacomo e Francesco di Alberto sono anche, fra gli Artenisi di questa generazione, gli unici a poter vantare una situazione patrimoniale di qualche rilievo. Tutti gli altri pre-sentano estimi modesti, come Princivalle di Francesco (110 lire), Semolino di Simone (192 lire), Francesco di Mattiolo (263 lire), o modestissimi, come Lando di Mino (60 lire)70.

69 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 71. 70 Estimi, b. 183, S. Stefano, num. 32 (Princivalle del fu Francesco

244

Fa in parte eccezione Artenisio di Giacomo, che presenta un estimo di 550 lire, cui in realtà si dovrebbero aggiungere altri crediti per 650 lire, ma si tratta di mutui inesigibili, «et isti sunt debitores malpagi...» recita la fonte, che non vengono quindi contabilizzati ai fini fiscali71. Pur risentendo delle stesse dinamiche generali, la si-tuazione dei Beccadelli è molto diversa rispetto a quella degli Artenisi, in primo luogo per gli andamenti ereditari e patrimoniali dei due nuclei familiari. La discendenza di Zanochio, ad esempio, è assai numerosa e quello che era nel 1296 il patrimonio più ingente fra i Beccadelli, più di 11.000 lire, risulta nel 1315 estremamente frammentato. Nessuno dei figli di Zanochio presenta un estimo superiore alle 500 lire. Se per Mattiolo, che dichiara un capitale di sole 148 lire, questo può in parte spiegarsi con le conseguenze dell’esilio che, come si diceva, lo aveva colpito nel 1303, per gli altri possiamo pensare solo ad una gestione inadeguata delle nuove contingenze economiche72. Altri esponenti del gruppo infatti sembrano aver tratto dalle attività creditizie, ancora costantemente prevalenti sugli interessi immobiliari, strumenti di efficace tutela dei patrimoni, se non di signi-ficativi incrementi. Così è per i figli di Benno, Azzone e Ildebrandino, che presentano una denuncia di 1.482 lire73, e per l’altro figlio di Benno, Mino, che dichiara 1.433 lire74; così è soprattutto per Gozzadino di Giacomino Beccadelli, che alle 4.370 lire del proprio estimo, aggiunge le terre arative e vineate di Viadagola, portate in dote dalla moglie, Soldana di Zoene Pepoli, e soprattutto il prestigio di quel legame familiare, da far valere nei rapporti d’affari non meno che negli ambienti politici75. Nessuno degli altri, numerosi

Artenisi); num. 17 (Semolino del fu Simone Artenisi); num. 80 (Lando del fu Mino Artenisi); S. Tecla, num. 1 (Francesco di Mattiolo Artenisi). 71 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 68. 72 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 77 (Artenisio di Zanochio); num. 8 (Beccadino di Zanochio); num. 10 (Colaccio di Zanochio); num. 45 (Mattiolo di Zanochio); num. 57 (Sclaritta di Zanochio). 73 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 13. 74 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 76. 75 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 64.

245

Beccadelli estimati nel 1315, neppure Terzolino coi suoi figli, presenta situazioni patrimoniali paragonabili a queste76. Sia pure nel mutato contesto generale e su livelli eco-nomici complessivamente più modesti, le caratteristiche imprenditoriali del gruppo Artenisi-Beccadelli sembrano dunque mantenersi piuttosto coerenti nel corso dei decenni. Non si direbbe, inoltre, che si manifestino al suo interno tendenze indicative di una particolare mentalità economica, diverse da quelle espresse da altri gruppi di meno aristocra-tiche ascendenze. Gli Artenisi-Beccadelli non conoscono, per intenderci, atteggiamenti simili a quelli manifestati dai Gozzadini, che all’inizio del Trecento, nel tentativo di sublimare le proprie origini popolari, disimpegnandosi progressivamente dagli ambienti creditizi, accentuano oltre-modo un processo comunque diffuso verso l’investimento immobiliare. O meglio: se una attitudine aristocratica poteva dirsi latente nell’originario ceppo degli Artenisi, iscritti in gran numero al Cambio ma in effetti non particolarmente attivi nel settore bancario alla fine del Duecento, ed invece grandi proprietari terrieri, il ramo Beccadelli della famiglia è al contrario, già in quella fase cronologica, perfettamente allineato sulle frontiere avanzate della speculazione creditizia e appare, inoltre, assai organizzato come gruppo bancario. Sono in grado, ad esempio, i Beccadelli, di programmare l’intervento dei propri rappresentanti nelle diverse zone del contado bolognese, occupando quasi senza reciproche sovrapposizioni tutta la pianura nord-orientale, e anche di proporsi alla clientela con specializzazioni diverse in merito all’entità dei mutui, come sembra evidente almeno nei casi di Zanochio e di Tommaso. A quella mentalità si sta adeguan-do anche chi, come Terzolino Artenisi, all’interno del suo gruppo sembra attardarsi ancora sulla soglia della mutazione genetica, frenato da una sorta di nostalgica affezione a una famiglia e a un nome di antiche e aristocratiche origini, ma nello stesso tempo è già strenuamente impegnato a stipulare vantaggiosi mutui con i contadini di Budrio e Castenaso, e infatti viene identificato, da vicini e parenti, col nome di

76 Estimi, b. 183, S. Tecla, num. 65.

246

Terzolino Beccadelli e aggregato quindi, per pubblica fama, al nuovo casato di attivissimi banchieri. Niente più che sfumature, forse, svanite del tutto qualche decennio più tardi, quando, l’abbiamo visto, i figli di Alberto Artenisi, pur conservando il nome dell’antica stirpe, non si distinguono più per strategie degli investimenti da quelli di Benno Beccadelli.

4. Dalla politica agli affari: i figli di Bianco di Cosa

Discendenti di un esule fiorentino, Cosa di Aldrovandino, rifugiatosi a Bologna verso il 1223, i Bianchi di Cosa (o «del Cossa») sono per questa ragione immatricolati, oltre che alla Società del Cambio, a quella dei Toschi, anche se tenaci tradizioni di famiglia, accreditate dagli storici bolognesi di età moderna, vogliono che un loro antenato fosse proprio da Bologna emigrato a Firenze fra XII e XIII secolo77. Comunque, fosse o no Cosa un immigrato «di ritorno», suo figlio Bianco, anziano per la Società dei Toschi e attivo esponente della parte guelfa negli anni Settanta e Ottanta, è da individuare come il principale artefice delle rilevanti fortune della famiglia. Grazie a lui, l’emarginazione politica, lo sradicamento provocato dall’esilio del padre si sarebbero rivelati infatti eccellenti opportunità economiche. Trasferita dalla politica al mondo dei rapporti d’affari, questa attitudine ad una dimensione intercittadina, eredità degli antichi legami con Firenze e la Toscana, avrebbe caratterizzato felicemente, come vedremo, il percorso di affermazione sociale dei di-scendenti di Cosa. Dal matrimonio di Bianco con Sirra di Docenvalle Gozzadini nascono almeno sette figli, anch’essi attivi nella vita politica, nella cultura giuridica universitaria, soprattutto nel mondo economico: più volte anziani Bruni-no e Filippo fra il 1290 e il 1295, esiliato poi, il secondo, a

77 Mancando una bibliografia recente sulla famiglia, si dovrà ricorrere alle notizie tramandate da Dolfi (1974, 148-160); Ghirardacci (1605-57, I, 254, 273, 439, 474, 488, 556); Savioli (1784-91, III/1, 60); Gozzadini (1980, 158-161); Spreti (1928-35, II, 71-72).

247

Milano nel 1303; dottore di leggi, e ambasciatore nel 1297, Benvenuto; organizzatore negli stessi anni, Bartolomeo, coi fratelli Francesco, Cosa e Bonifacio, di una società d’affari con gli Acciaiuoli e di altri importanti contatti commerciali con la Toscana e il Veneto. Questi ultimi dati, divulgati nella tradizione bolognese a partire dalle opere dei genealogisti secenteschi, trovano tuttavia suggestive conferme nell’estimo presentato nel 1296 da sei figli di Bianco, ed in altri docu-menti inediti78. Almeno sull’estimo, dato lo straordinario interesse dei suoi contenuti, sarà necessario soffermarsi per un’analisi un poco più approfondita79. Nella loro dichiarazione congiunta i sei fratelli Bonifacio, Brunino, Bartolomeo, Filippo, Francesco e Cosa ci descrivono uno dei patrimoni familiari più ingenti a Bologna in quegli anni, inferiore solo a quelli dei Pepoli, dei Guastavillani e di pochissimi altri gruppi. Ma si tratta soprattutto di una struttura patrimoniale assai complessa e articolata, di cui fanno parte terreni di varia estensione e vocazione produttiva, edifici urbani e rurali, mulini e, fra i beni mobili, numerosi mutui stipulati direttamente dall’uno o dall’altro dei fratelli ed altri titoli di credito, che invece spettano loro in quanto rappresentanti della società Acciaiuoli di Firenze, o come appaltatori di dazi. Un’azienda, dunque, che proietta i suoi interessi in vari settori economici ed esprime una mentalità piuttosto avanzata, più versatile comunque rispetto a quella dei colleghi cambiatori bolognesi. A questa data inoltre, il 1296, il gruppo dei sei fratelli manifesta anche una rimarchevole compattezza nella gestione collettiva del capitale. A partire dal nucleo abitativo occupato delle loro famiglie, un complesso di tutto rispetto situato nel primo tratto di strada S. Stefano, fra il trivio di porta

78 Delle informazioni, del tutto inedite, sui rapporti dei Bianchi di Cosa con gli Agolanti pistoiesi e sui loro contatti commerciali con la Toscana e il Veneto, testimoniati da documenti bolognesi del fondo Demaniale (ASBo, Corporazioni religiose soppresse, Convento di S. Francesco, bb. 49/4181-50/4182) e dell’archivio Lambertini (ASBo, Famiglia Lamber-tini, Miscellanea, b. 1), sono debitore all’amico Armando Antonelli, che ringrazio cordialmente. 79 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56.

248

Ravegnana e l’androne della famiglia Liuzzi, corrispondente all’attuale vicolo del Luzzo. Si tratta di due edifici contigui, entrambi di altissimo prestigio abitativo: il primo, confinante con Albizzo del Ferro, stimato 1.200 lire, il secondo, addos-sato alle case di Guido Liuzzi, valutato 1.000 lire80. Non sono questi gli unici immobili posseduti in città dai figli di Bianco di Cosa. Nella stessa zona centrale in cui abitano, fra la cappella di S. Stefano e quella di S. Maria del Carrobbio, dichiarano la proprietà di altri otto edifici di assai diverso valore, dalle 40 alle 800 lire: alcune di queste case, stimate nell’insieme più di 4.300 lire, sono il frutto di spregiudicate speculazioni finanziarie, come quella ai danni di Giovanni Albrizzi, cui apparteneva in precedenza una casa della par-rocchia di S. Maria, assegnata dal giudice ai figli di Bianco a soluzione di un debito81. Anche il patrimonio terriero è di una certa consistenza, 1.567 tornature, stimate complessivamente 7.110 lire, ma è soprattutto rilevante il livello molto avanzato di accorpamento fondiario che vi si manifesta. Gli appezzamenti, situati nella pianura orientale e settentrionale, sono quasi tutti molto estesi: superiori alle 200 tornature ciascuna le unità arative e prative di Piumazzo e Manzolino, stimate 5 lire a tornatura; 360 e 570 tornature le due estensioni di arativo di Mezzolara di Budrio, il cui valore oscilla fra le 3 e le 4 lire a tornatura. Sono prevedibilmente inferiori le estensioni delle vigne più pregiate, quelle della guardia civitatis, stimate più di 25 lire a tornatura, e delle colture miste di arativo-vineato, localizzate a S. Ruffillo e stimate 15 lire a tornatura. Nell’insieme, e sia pure attraverso tracce documentarie così esili, il patrimonio immobiliare dei Bianchi di Cosa sembra il frutto di una mentalità economica attenta e aperta su vari fronti, che si esprime non solo in un processo di accumulazione molto accentuato, più di 11.600 lire è il valore complessivo degli

80 Le case e l’annessa torre erano state acquistate nel 1280 da Cosa di Aldrovandino. La torre fu poi abbattuta nel 1303, in seguito al coinvolgi-mento dei Bianchi nella congiura filoestense, e le case subirono la stessa sorte nel 1321, dopo la cacciata dei Pepoli e della loro fazione, cui anche i Bianchi aderivano (Gozzadini 1980, 160-161). 81 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56, c. 1v.

249

immobili, ma anche in una certa attitudine imprenditoriale, come ad esempio è evidente nella gestione del mulino di Bagnarola di Budrio, che i sei fratelli denunciano nel loro estimo, valutandolo 140 lire82. Non c’è dubbio, tuttavia, che le maggiori attenzioni e i capitali più ingenti dei sei fratelli fossero attratti in quegli anni, così come era stato per il padre Bianco, dal mondo dei commerci e degli investimenti creditizi. In quei settori la varietà dei loro impegni è veramente notevolissima, so-prattutto rispetto al panorama che abbiamo visto delinearsi finora all’analisi delle nostre fonti. Ed inoltre i contratti di mutuo, che nell’attività dei cambiatori bolognesi, come si è visto, assorbono la quasi totalità degli investimenti, non rappresentano invece il fulcro degli interessi dei Bianchi di Cosa: sono solo 23 i contratti di questo genere documentati dall’estimo e vi sono mobilitate poco più di 2.000 lire83. I crediti più consistenti, nessuno però superiore alle 270 lire, sono quelli concessi ad una clientela aristocratica, i Prendipar-te, ad esempio, e ad esponenti di altre famiglie del Cambio, come Zovenzoni e Dugliolo, mentre per piccole cifre, 10-12 lire, sono impegnati con loro alcuni contadini del territorio di Budrio. Non è escluso che un maggior impegno dei figli di Bianco nel settore del credito, e soprattutto nei confronti di questa clientela, sia stato scoraggiato dall’infelice esito di alcuni investimenti, compiuti anni prima dal padre in società con rappresentanti dei banchi Pavanesi, Clarissimi, Becca-delli e Zovenzoni. Ne abbiamo una testimonianza indiretta nella nostra fonte. I sei fratelli dichiarano infatti, chiedendo però che non vengano contabilizzati in quanto inesigibili, quattro grossi crediti, per complessive 2.340 lire, stipulati a suo tempo da Bianco e dai suoi soci in favore di alcuni esponenti della più antica e prestigiosa aristocrazia consolare bolognese, Lambertini e Galluzzi ad esempio, rivelatisi poi debitori insolventi. Ed è di grande interesse la stretta con-nessione che la fonte stabilisce, esprimendo la mentalità e i sentimenti rancorosi dei dichiaranti, fra l’estrazione sociale

82 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56, c. 1r. 83 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56, cc. 1v-2r.

250

magnatizia dei debitori e la loro ostinazione nel non rispet-tare gli impegni assunti. Quei denari, dichiarano sconsolati i figli di Bianco, «in eorum bursas non redeunt», e quindi non vanno considerati nella cifra d’estimo, in quanto non fanno più parte del loro capitale; vengono tuttavia elencati nella denuncia, per mantenere almeno il diritto a chiedere il pagamento («ne ius repetendi amitterent»), il che, fra l’altro, ci conferma il valore probatorio che l’estimo poteva assumere nelle contese giudiziarie. Ma le cifre più rilevanti e le energie professionali più intense sono quelle che i fratelli Bianchi mettono in campo nella società che hanno stipulato con il grande banchiere e mercante fiorentino Leone Acciaiuoli: complessivamente 10.340 lire, investite in 92 contratti di varia natura creditizia e commerciale, cui si devono aggiungere tessuti di lana e cotone per il valore di 1.550 lire, che i sei fratelli possiedono in società con lo stesso Acciaiuoli84. Una buona parte di quei contratti riguardano crediti che Bartolomeo e i fratelli hanno concesso per conto degli Acciaiuoli ad artigiani bolognesi del settore tessile e conciario. In particolare compaiono fra i loro debitori numerosi bisilieri, e la stessa Società dei bisilieri, che hanno ricevuto a credito quantità variabili di lana, verosimilmente di provenienza fiorentina e destinata al fiorente mercato bolognese. Non è quello della lana l’unico settore in cui si dimostra attiva la società fiorentino-bolo-gnese: altrettanto numerosi sono gli anticipi di altri tessuti (tele di canapa ad esempio), e quelli di cuoio e pellicce destinati a calzolai e pellicciai; la versatilità merceologica della compagnia, del resto, sembra praticamente illimitata, tanto da comprendere nei generi trattati anche la «polvere di zucaro» che un pellicciaio bolognese, Bartolomeo Lan-franchi, ha acquistato a credito a Verona da un socio degli Acciaiuoli. Anche l’entità dei crediti per queste forniture è assai variabile, dalle 4-5 lire di cuoio o di tela anticipate a piccoli artigiani e bisilieri, fino alle 306 lire di lana avute a credito da Giovanni Rustighelli. Nel settore creditizio, in cui, come abbiamo visto, il loro impegno diretto era piuttosto

84 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56, cc. 2v-3v.

251

circospetto e, comunque, indirizzato verso gli investimenti più modesti, i Bianchi di Cosa sono assai più spregiudicati come esponenti del banco Acciaiuoli; a questo titolo stipula-no infatti due mutui di grande consistenza, per complessive 3.000 lire con Enrico Mezzovillani. Ed infine, al riparo degli ingenti capitali dei soci fiorentini, non temono di assumersi incarichi gravosi e remunerativi come l’appalto dei dazi; ne gestiscono infatti due fra i più importanti nel panorama delle finanze pubbliche bolognesi, quello delle gualchiere e quello dei mulini, per i quali devono incassare complessivamente 1.650 lire. Non meno interessanti dei crediti, a testimonianza della vasta e complessa rete d’affari in cui sono impegnati i figli di Bianco, sono i debiti registrati nell’estimo. Non quelli, pure ingenti (1.320 lire), che hanno nei confronti delle sorelle, Orabile e Scotta, per disposizione testamentaria del padre Bianco, o le 3.000 lire che lo zio Bartolino di Cosa ha investito nella loro società, ma i debiti per mutui, depositi ed altri rapporti commerciali e creditizi che li legano, come soci degli Acciaiuoli, ad altre compagnie toscane85. Nei confronti della società fiorentina dei Bardi, ad esempio, Bartolomeo e i suoi fratelli hanno un debito di 630 lire per l’acquisto di tele di canapa, mentre dai Frescobaldi e da altri banchi fiorentini e pistoiesi hanno ottenuto a più riprese mutui e depositi per 2.000 fiorini d’oro e circa 3.000 lire di bolognini, investiti, evidentemente, nelle varie attività documentate dall’estimo. E certo un allargamento dell’orizzonte documentario, qui per il momento non praticabile, permetterebbe di fornire maggiore spessore alla ricerca e di arricchire di particolari un quadro già abbastanza indicativo, del resto, di una viva-cità imprenditoriale e di una varietà di interessi forse non consuete negli ambienti del Cambio bolognese. Anche questo gruppo tuttavia, per alcuni versi all’avan-guardia, sembra pagare un pesantissimo contributo alla grave crisi che attanaglia la vita economica bolognese fra la fine del XIII e i primi anni del XIV secolo. Come si è più volte

85 Estimi, b. 29, S. Stefano, num. 56, c. 4v (i loro debiti diretti); c. 4r (i loro debiti come soci degli Acciaiuoli).

252

accennato, a proposito dei Pepoli, ad esempio, e dei Goz-zadini, l’emergenza militare in cui la città era coinvolta da decenni ed altre più generali contingenze negative finirono per corrodere i principali elementi propulsivi dell’economia urbana, avviando anzi un rapido processo recessivo. Le dichiarazioni d’estimo ne offrono dirette ed immediate te-stimonianze. Esaminiamo rapidamente gli estimi dei Bianchi di Cosa, o «Bianchi del Cossa», come inizia ora a chiamarli la nostra fonte, per il 131586. Dei sei fratelli che avevano presentato la denuncia congiunta nel 1296, solo il maggiore, Bartolomeo, risulta defunto, di Cosa non sappiamo nulla, mentre gli altri quattro sono ancora in vita e presentano ciascuno la propria dichiarazione: già dal precedente estimo del 1308, del resto, la compattezza patrimoniale originaria si era irrimediabilmente dissolta; i fratelli presentavano cioè dichiarazioni separate, anche se la loro somma complessiva era, nel 1308, ancora abbastanza vicina al capitale di partenza. Nel 1315, invece, come ora vedremo, le cifre d’estimo dei Bianchi hanno subito una vorticosa erosione e pochissimo sembra rimanere delle straordinarie ricchezze del 1296. Nel 1315 dunque, Bartolomeo, il fratello maggiore a capo dell’azienda familiare nel 1296, è morto già da alcuni anni: i suoi cinque figli (Nicolò, Dino, Galeotto, Bianco e Giacomo), che erano stati estimati per 1.500 lire nel 1308, presentano ora una modestissima dichiarazione, ampiamente inferiore alle 400 lire. A queste vanno aggiunte le 247 lire dichiarate dalla figlia di Bartolomeo, Lucia, moglie di Gio-vanni Mattuiani. Del patrimonio dei cinque figli maschi di Bartolomeo fa parte in realtà anche una porzione degli edifici che la famiglia possedeva da decenni in strada S. Stefano, ora non estimata in seguito alla nuova normativa fiscale sulla «prima casa». Pur considerando questa circostanza, tuttavia, il confronto fra le due dichiarazioni risulta piuttosto

86 Estimi, b. 183, S. Stefano, num. 60 (Filippo del fu Bianco del Cossa); num. 78 (Eredi di Bartolomeo del fu Bianco del Cossa); num. 115 (Lucia, altra figlia di Bartolomeo); num. 82 (Francesco del fu Bianco del Cossa); num. 95 (Brunino del fu Bianco del Cossa); num. 140 (Bonifacio del fu Bianco del Cossa); num. 110 (Orabile, figlia del fu Bianco del Cossa).

253

desolante: i figli di Bartolomeo di Bianco possiedono nel 1315 solo la casa di abitazione e qualche tornatura di terra arativa, prativa e vineata nei dintorni di Budrio; nient’altro, e soprattutto nessun bene mobile, né merci, né crediti. La situazione è lievemente migliore per gli altri figli di Bianco. Filippo, che era stato estimato 2.400 lire nel 1308, dichiara nel 1315 di possedere circa 400 tornature di terra arativa e prativa fra Budrio e Macaretolo, per un valore complessivo di 900 lire, cui deve aggiungersi la casa di abitazione in S. Stefano, confinante col fratello Brunino, non estimata, e qualche altro edificio di modesto valore economico; anch’egli non denuncia crediti, né altri beni mobili. Molto simile a questo è l’estimo di Brunino, sette anni prima titolare di un capitale di 5.700 lire crollato nel 1315 a sole 819 lire. Brunino aveva acquisito, dal patrimonio collettivo del 1296, la porzione di edifici di strada S. Stefano affacciata sull’an-drone dei Liuzzi ed altre casette contigue, confinanti con i Rodaldi e i Beccadelli. Oltre a questo patrimonio urbano, Brunino denuncia nel 1315 alcune terre arative a Budrio, a Manzolino e a S. Venanzio: più di 450 tornature, tutte però di valore molto modesto, fra i 10 e i 20 soldi a tornatura. Un solo credito, di 75 lire, fa parte del suo patrimonio, ma i debitori appartengono a una stirpe di magnati tradizio-nalmente insolventi, i Prendiparte, e il dichiarante non ha quindi alcuna speranza di incassarlo. Ancora più modesta la situazione economica di un altro figlio di Bianco, Francesco, stimato nel 1308 per 2.000 lire ed ora per sole 363. Nella sua struttura il capitale di Francesco di Bianco è del tutto simile a quello dei fratelli e dei nipoti: la casa di abitazione in S. Stefano, non estimata, e alcune terre arative, prative e vineate, distribuite fra Budrio, Argile e la guardia civitatis, nell’insieme 250 tornature circa; nient’altro, e soprattutto nessun credito. L’unico dei sei fratelli Bianchi a mantenere ancora nel 1315 qualche modestissimo interesse nel settore bancario è Filippo, anch’egli titolare di un capitale violentemente eroso negli ultimi sette anni: dalle 2.000 lire del 1308 alle 729 del 1315. Oltre alle terre di Vedrana, Budrio e Bagnarola, Filippo, a differenza dei fratelli, continua ad amministrare crediti: piccoli mutui, 200 lire in tutto, che però coinvolgono alcune

254

comunità del contado, Vedrana e Felegarolo, e soprattutto lo mettono in contatto con personaggi autorevoli; il mutuo con il comune di Vedrana è stipulato infatti in società con Licanorio Gozzadini, e cioè con il gruppo familiare che in quegli anni stava appunto conquistando, con gli strumenti del credito, il controllo capillare di quell’area del contado bolognese. Come già abbiamo visto proprio nel caso dei Gozzadini, il ventennio 1296-1315 manifesta dunque, anche attraverso gli estimi dei Bianchi di Cosa, da un lato una fuga progressiva e irreversibile dal credito e dalle attività bancarie, dall’altro una tenuta ed anzi un incremento degli investimenti immobiliari, duramente colpiti tuttavia da una violentissima svalutazione. Un semplice confronto contabile sulle denunce dei sei figli di Bianco darà concretezza all’osservazione. Nel 1315 la somma dei capitali dei cinque eredi di Bartolomeo e degli altri quattro fratelli superstiti supera di poco le 3.000 lire: anche considerando che l’estimo di Cosa, il sesto fratello, sia andato perduto, e ricordando che a questa cifra andrebbero aggiunte le stime delle case di abitazione, non più sottoposte all’estimo, il confronto con l’estimo di quasi 30.000 lire, pre-sentato dai figli di Bianco nel 1296, è fin troppo eloquente. E la differenza, enorme, è motivata, in percentuale quasi analoga credo, dalla totale scomparsa dei crediti nei capitali degli esponenti della famiglia, e dal crollo verticale del valore degli immobili, case e terre, su cui nel corso del ventennio e soprattutto negli ultimi anni si erano concentrate in modo pressoché esclusivo le loro attenzioni.

255

CONCLUSIONI

Molti elementi inducono a definire quella descritta in queste pagine come la storia di un declino, la parabola discen-dente di un gruppo professionale che per qualche decennio era stato anche un ceto di governo. Il fenomeno è abbastanza chiaro nel suo andamento generale, anche se la percezione delle sue fasi successive e delle sue diverse componenti, economiche e politico-sociali, risulta alquanto disturbata, a causa forse della cronologia non perfettamente allineata delle fonti di cui disponiamo, tutte assai ricche peraltro di dati concreti e suggestioni. Il nostro punto di partenza, lo statuto della Società dei cambiatori del 1245, primo fra gli statuti societari bolognesi giunti fino a noi, segnava probabilmente l’apice delle fortune pubbliche di quella categoria, venendo a coronare un periodo di prepotente ascesa, avviato negli ultimi decenni del secolo precedente e caratterizzato dalla felice integrazione fra attività economica e impegno politico. Il credito, anzi, nei decenni dell’egemonia dei cambiatori, era divenuto esso stesso strumento privilegiato dell’azione politica, analogamente a quanto recenti ricerche hanno de-scritto, ad esempio, per Asti; ma a Bologna con una dose maggiore di consapevolezza ideologica da parte dei suoi protagonisti, come denuncia il proemio rolandiniano dello statuto, che innalza la deontologia della professione a sintesi dei valori civili comunali e candida esplicitamente la categoria dei cambiatori, con quelle alleate dei mercanti e dei notai, a legittima rappresentanza politica della comunità cittadina. In una prospettiva cronologica sfasata rispetto allo statu-to, cui si è cercato di rimediare ricorrendo a fonti narrative anch’esse tarde, ma portatrici di tradizioni più risalenti, la matricola di fine Duecento ci ha fornito elementi per studiare la composizione sociale del Cambio e per delineare il ruolo delle famiglie che al suo interno erano le più attive sulla

256

scena politica e che, fin dall’epoca del comune consolare, avevano contribuito, pur in un clima spesso conflittuale, alla costruzione di quella egemonia. All’epoca della matricola tuttavia (1294), e degli estimi che pure hanno offerto alla ricerca un’immensa ricchezza di dati (1296-97), la centra-lità politica degli uomini del Cambio si era sensibilmente attenuata, ma soprattutto erano più sfumati i connotati socio-economici di quella presenza. Certo, molte famiglie di cambiatori conservano, fra Due e Trecento, posizioni di forza nei centri di potere del comune: i Pepoli, anzi, con Romeo attingono e con Taddeo consolidano la signoria della città; Gozzadini e Beccadelli, Zovenzoni e Artenisi ed altri si alternano per decenni nella guida delle fazioni al potere, nell’organizzazione di congiure e anche, inevitabilmente, nell’infoltire i gruppi all’esilio o al confino. Ma si tratta, appunto, di dinamiche di parte, in cui la fisionomia sociale ed economica dei protagonisti si stempera completamente nelle logiche di fazione e, sempre più spesso, in quelle det-tate da equilibri diplomatici che coinvolgono poteri esterni (Firenze e gli Este, il Papato e i Visconti). Anche il gruppo professionale dei cambiatori, che fino agli anni Cinquanta del Duecento aveva diretto in gran par-te la politica comunale, e che ancora verso il 1270 sembra indirizzarne le scelte antimagnatizie, tanto da attraversare pressoché indenne quel periodo, si allinea di lì a poco a una tendenza generale, smarrendo ogni coesione politica e ideologica. E così il Cambio, che aveva saputo preservare dagli effetti della legislazione punitiva quasi tutte le proprie componenti, comprese quelle dalle origini più evidente-mente aristocratiche, viene lacerato anch’esso, come tutta la società cittadina, dai grandi conflitti civili del 1274-79: da quel momento l’esclusione politica, nelle sue diverse forme, colpirà implacabilmente i casati dei banchieri di parte ghibellina, mentre quelli guelfi, certo più numerosi, si inseriranno nei meccanismi spesso convulsi dei conflitti per il potere e continueranno ad alimentare le divisioni interne alla parte, collaborando in questo con esponenti di famiglie aristocratiche e popolari, di giuristi e di notai. Troveremo allora cambiatori fra i guelfi neri e fra i bianchi,

257

fra i congiurati filoestensi e fra quelli filofiorentini e così via, ma sarà ormai impossibile distinguere nel loro agire pubblico i connotati di una vocazione professionale. La vi-cenda del tutto eccezionale di Romeo Pepoli, in cui ancora credito e potere, affari e politica sembrano perfettamente integrarsi, ed anzi quasi identificarsi, conclude quella pa-rabola, forse prolungandone inopinatamente gli esiti oltre i limiti naturali. A differenza di Romeo, i suoi colleghi, ed ancor più i suoi eredi, vivono una netta divaricazione fra i due aspetti, professionale e politico, del proprio impegno. Dalla fine del Duecento, sembra dunque che i percorsi di affermazione delle famiglie del Cambio debbano scegliere se andare verso la professione creditizia o verso la politica. E nel secondo caso, di lì a qualche decennio, assecondando i mutamenti in atto nella mentalità dei ceti dirigenti, le origini creditizie del potere sarebbero state, come si è visto per i Pepoli, pudicamente velate. Anche perché, nel frattempo, l’etica economica di quei ceti era stata finalmente allineata alla normativa canonistica, e questo sottraeva all’esercizio dell’usura ogni margine di onorabilità.

FONTI E RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

261

FONTI

Fonti inedite

Archivio di Stato di Bologna (ASBo), Comune, Governo, Rifor-magioni del Consiglio del Popolo e della Massa; Provvigioni dei consigli minori.

ASBo, Comune, Capitano del Popolo, «Libri matricularum» delle società d’arti e d’armi.

ASBo, Comune, Capitano del Popolo, Venticinquine; Libri vigin-tiquinquenarum.

ASBo, Comune, Ufficio dei Riformatori degli estimi, serie II, Denunce dei cittadini.

ASBo, Atti dei notai del distretto di Bologna, Secolo XIII, Sala Manfredo; Sala Enrichetto.

ASBo, Corporazioni religiose soppresse, Convento di S. Francesco, bb. 49/4181-50/4182, 335/5078-357/5100.

ASBo, Famiglia Lambertini, Miscellanea.ASBo, Famiglia Pepoli, serie I/A, Istrumenti, 141-142 (Sommario

cronologico), 150-151 (Repertorio alfabetico).Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (BCA), Ms.

B 673; B 3298 (C. Salvetti, Notizie storiche sulla famiglia Pepoli).

BCA, Ms. B 784 (B. Carrati, Note tratte dagli estimi).

Fonti edite

Acta S. Offici (1982-84), Acta S. Officii Bononie ab anno 1291 usque ad annum 1310, a cura di L. Paolini e R. Orioli, 2 voll., Roma.

Antonino da Firenze s. (1586), Chronicorum opus, Lione.Arienti, G.S. (1888), Gynevera de le clare donne di Joane Sabadi-

no de li Arienti, a cura di C. Ricci e A. Bacchi Della Lega, Bologna.

Boncompagno da Signa (1892), Rhetorica novissima, a cura di A. Gaudenzi, in Bibliotheca iuridica Medii Aevi, II, Bologna.

262

Boncompagno da Signa (1968), Testi riguardanti la vita degli studenti a Bologna nel secolo XIII, a cura di V. Pini, Bologna.

Boncompagno da Signa (1996), Rota Veneris, a cura di P. Garbini, Roma.

Boncompagno da Signa (1999), L’Amicizia, a cura di M. Baldini e C. Conti, Signa (Fi).

Chartularium (1921), Chartularium Studii Bononiensis, V, Memo-riali del Comune di Bologna, anni 1265-1266, a cura di G. Zaccagnini, Bologna.

Chartularium (1987), Chartularium Studii Bononiensis, XV-XV bis, Memoriali del Comune di Bologna, anno 1270, memoriale 12, a cura di R. Ferrara, G. Tamba e M. Zaghini, Bologna.

Corpus chronicorum (1910-40), Corpus chronicorum Bononiensium, a cura di A. Sorbelli, in Rerum Italicarum Scriptores, II ed., XVIII/1, Città di Castello.

Guido Faba (1890), Summa dictaminis, a cura di A. Gaudenzi, in «Il Propugnatore», 3, pp. 287-338, 345-393.

Griffoni, M. (1902), Mathei de Griffonibus Memoriale historicum de rebus Bononiensibus, a cura di L. Frati e A. Sorbelli, in Rerum Italicarum Scriptores, II ed., XVIII/2, Città di Castello.

Hostiensis (1505), Summa. Cum additionibus Nicolai Superantii, Venetiis.

Hostiensis (1965), In Decretalium libros commentaria, V, ripr. facs. ed. Venetiis 1581, Torino.

Innocentius IV (1968), Commentaria super libros quinque decreta-lium, ripr. facs. ed. 1570, Frankfurt.

Ioannes Andree (1963a), In quinque decretalium libros novella commentaria, V, ripr. facs. ed. Venetiis 1581, Torino.

Ioannes Andree (1963b), Novella in Sextum, ripr. facs. ed. Venetiis 1499, Graz.

Die Konstitutionen (1996), Die Konstitutionen Friedrichs II. für das Königreich Sizilien, hrsg. von W. Stürner, in MGH, Const., II, Supplementum, Hannover.

Liber sive matricula (1980), Liber sive matricula notariorum comu-nis Bononie, a cura di R. Ferrara e V. Valentini, Roma (con indice dei nomi su foglio elettronico, a cura di D. Tura e G. Tamba, Roma 2006).

Libro di conti (2003), Libro di conti della famiglia Guastavillani (1289-1304), a cura di E. Coser e M. Giansante, Bologna.

Moneta Cremonensis (1964), Adversus catharos et valdenses libri quinque, ripr. facs. ed. Romae 1743, Ridgewood.

Oculus pastoralis (1966), Oculus pastoralis pascens officia et continens radium dulcibus pomis suis, a cura di D. Franceschi, Torino.

263

Petri Cantinelli Chronicon (1902), Petri Cantinelli Chronicon (aa. 1228-1306), a cura di F. Torraca, in Rerum Italicarum Scriptores, II ed., XXVII/2, Città di Castello.

Pietro Ramponi (2003), Memoriale e cronaca, 1385-1443, a cura di A. Antonelli e R. Pedrini, Bologna.

Raynerius Sacconi (1974), Summa de catharis, a cura di F. Sanjek, in «Archivum Fratrum Praedicatorum», 44, pp. 31-60.

Il Serventese (1891-92), Il Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei, a cura di F. Pellegrini, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 9, pp. 22-71, 181-224; 10, pp. 95-140.

Statuti del Popolo (1888), Statuti del Popolo di Bologna del secolo XIII, a cura di A. Gaudenzi, Bologna.

Statuti delle società (1888-96), Statuti delle società del popolo di Bologna, a cura di A. Gaudenzi, 2 voll. (I: Società delle armi; II: Società delle arti), Roma.

Statuti del comune (1869-77), Statuti del comune di Bologna dall’anno 1245 all’anno 1267, a cura di L. Frati, 3 voll., Bologna.

Statuti di Bologna (1937-39), Statuti di Bologna dell’anno 1288, a cura di G. Fasoli e P. Sella, 2 voll., Città del Vaticano.

Villani, G. (1990-91), Nuova cronica, a cura di G. Porta, 2 voll., Parma.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Abbondanza, R. (a cura di) (1973), Il notariato a Perugia, Catalogo della mostra documentaria di Perugia, maggio-luglio 1967, Roma.

Antonelli, A. (2002), I Guinizzelli, discendenti di Magnano, residenti nella cappella di San Benedetto di Porta Nuova, in Magnani. Storia, genealogia e iconografia, a cura di G. Malvezzi Campeggi, Bologna, pp. 27-43.

– (2004), Nuovi documenti sulla famiglia Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento, atti del convegno di Padova-Monselice, 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, pp. 59-105.

Antonelli, A. e Pedrini, R. (2000), La famiglia e la torre dei Ga-risendi al tempo di Dante, in La torre Garisenda, a cura di F. Giordano, Bologna, pp. 23-89.

Antonelli, R. (1994), La scuola poetica alla corte di Federico II, in Toubert e Paravicini Bagliani (1994, II, 309-323).

Antonioli, G. (2004), Conservator pacis et iustitie. La signoria di Taddeo Pepoli a Bologna (1337-1347), Bologna.

Arias, G. (1901), I trattati commerciali della repubblica fiorentina, Firenze.

Arnaldi, G. (1976), Scuole nella Marca Trevigiana e a Venezia nel secolo XIII, in Storia della cultura veneta, I, Vicenza, pp. 350-386.

Artifoni, E. (1994), Retorica e organizzazione del linguaggio politico nel Duecento italiano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, atti del convegno di Trieste, 2-5 marzo 1993, a cura di P. Cammarosano, Roma, pp. 157-182.

– (1997), «Sapientia Salomonis». Une forme de présentation du sa-voir rhétorique chez les «dictatores» italiens (première moitié du XIIIe siècle), in La parole du prédicateur, Ve-XVe siècle, études réunies par R.M. Dessì et M. Lauwers, Nice, pp. 291-310.

Avalle, D.S. (1975), Modelli semiologici nella «Commedia» di Dante, Milano.

265

266

Baldwin, J.W. (1970), Masters, princes and merchants. The social views of Peter the Cantor and his circle, Princeton.

Bartoli Langeli, A. (1985), La documentazione degli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Culture et idéologie dans la genèse de l’état moderne, actes de la table ronde de Rome, CNRS-École française de Rome, 5-7 octobre 1984, Rome, pp. 35-55.

– (1988), Le fonti per la storia di un comune, in Società e istituzioni (1988, I, 5-21).

Battelli, G. (1953), Ricerche sulla pecia nei codici del «Digestum Vetus», in Studi in onore di Cesare Manaresi, Milano, pp. 311-330.

Bec, C. (1967), Les marchands écrivains, Paris.– (1983), I mercanti scrittori, in Letteraura italiana, a cura di A.

Asor Rosa, II, Torino, pp. 269-297.Becker, M.B. (1978), Le trasformazioni della finanza e l’origine

dello stato territoriale a Firenze nel Trecento, in Chittolini (1978, 149-186).

Bellocchi, L. (1987), Le monete di Bologna, Bologna.Bellomo, M. (1994), La scienza del diritto al tempo di Federico II,

in Toubert e Paravicini Bagliani (1994, II, 86-106).Bergonzoni, F. (1980), Venti secoli di città. Note di storia urbanistica

bolognese, Bologna.Berselli, A. (a cura di) (1976-80), Storia dell’Emilia-Romagna, 2

voll., Bologna.Bertram, M. (1989), Hundert bologneser Testamente aus einer No-

vemberwoche des Jahres 1265, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 69, pp. 80-100.

– (1990), Bologneser Testamente. Erster Teil: Die urkundliche Überlieferung, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 70, pp. 151-227.

– (1991), Bologneser Testamente. Zweiter Teil: Sondierungen in den Libri Memoriali, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 71, pp. 195-240.

Betto, B. (1968), Uno statuto del collegio notarile di Treviso del 1324, in Raccolta di studi in memoria di G. Soranzo, Milano, pp. 10-59.

Black, A. (1992), Political thought in Europe, 1250-1450, Cam-bridge.

Bocchi, F. (1973), Le imposte dirette a Bologna nei secoli XII e XIII, in «Nuova rivista storica», 57, pp. 273-312.

– (a cura di) (1990), I portici di Bologna e l’edilizia civile medie-

267

vale, catalogo della mostra di Bologna, 26 aprile-22 luglio 1990, Bologna.

Bordone, R. (1991), Il passato storico come tempo mitico nel mondo cittadino italiano del Medioevo, in «Società e storia», 51, pp. 1-22.

– (a cura di) (1994), L’uomo del banco dei pegni. Lombardi e mer-cato del denaro nell’Europa medievale, Torino.

– (2004), Tra credito e usura: il caso dei lombardi e la loro col-locazione nel panorama economico dell’Europa medievale, in Boschiero e Molina (2004, 141-161).

Borlandi, A. (1970), Moneta e congiuntura a Bologna, 1360-1364, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medioevo», 82, pp. 391-478.

Boschiero, G. e Molina, B. (a cura di) (2004), Politiche del credito. Investimento, consumo, solidarietà, atti del convegno interna-zionale di Asti, 20-22 marzo 2003, Collana del Centro studi sui lombardi, 5, Asti.

Branca, V. (1986), Mercanti scrittori. Ricordi nella Firenze tra me-dioevo e rinascimento, Milano.

Brasiello, U., Benedetto, M.A. e Caron, P.G. (1975), Usura, in Novissimo digesto italiano, 20, Torino, pp. 368-381.

Bruni, F. (1991), Testi e chierici del medioevo, Genova.Buc, P. (1994), L’ambiguité du Livre. Prince, pouvoir et peuple dans

les commentaires de la Bible au Moyen Age, Paris.

Cammarosano, P. (1991), Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma.

Campanini, A. (2003), Disciplina a tavola. La legislazione suntuaria sui banchetti in Emilia-Romagna (secc. XIII-XVI), in La cuci-na specchio di vita e civiltà, atti del convegno di Cingoli, 30 giugno 2002, a cura di S. Bernardi (La cucina della memoria. Quaderni, 1-2), Cingoli.

– (2006), La table sous contrôle. Les banquets dans le cadre des lois somptuaires en Italie entre le Moyen Age et la Renaissance, in Excès (et contraintes) alimentaires en Europe, Tours, 3-4 févr. 2006, in «Food & history», 4/2, pp. 131-150.

Capitani, O. (1960), L’incompiuto «Tractatus de iustitia» di fra’ Remigio dei Girolami, in «Bullettino dell’Istituto storico ita-liano», 72, pp. 91-134.

– (1965), Il «De peccato usure» di fra’ Remigio de’ Girolami, in «Studi medievali», 6, pp. 537-662.

– (a cura di) (1988), L’Università a Bologna. Personaggi, momenti e luoghi dalle origini al XVI secolo, Bologna.

268

– (a cura di) (1990), Cultura universitaria e pubblici poteri a Bolo-gna dal XII al XV secolo, atti del convegno di Bologna, 20-21 maggio 1988, Bologna.

Casini, E. (2004-05), La bottega del drappiere. Redazioni statutarie a confronto e trascrizione dello statuto della società dei drap-pieri del 1367, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. M.G. Muzzarelli.

Castagnini, O. (1974-75), Una famiglia di cambiatori bolognesi fra Due e Trecento. I Piantavigne e le loro proprietà immobiliari negli estimi cittadini dal 1296 al 1329, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. V. Fumagalli.

– (1976), Il patrimonio di un frate gaudente bolognese all’inizio del ’300: Dondiego Piantavigne, in «Il Carrobbio», 2, pp. 105-120.

Castellani, A. (1952), Nuovi testi fiorentini del Dugento, 2 voll., Firenze.

Castellani, L. (1998), Gli uomini d’affari astigiani. Politica e denaro tra il Piemonte e l’Europa (1270-1312), Torino.

Cattini, M. (a cura di) (1997), Mercanti e banchieri a Modena dal XIII al XVIII secolo, Modena.

Ceccarelli, G. (2005), L’usura nella trattatistica teologica sulle restituzioni dei male ablata (XIII-XIV secolo), in Quaglioni, Todeschini e Varanini (2005, 3-23).

Cencetti, G. (1959), Rolandino Passaggeri dal mito alla storia, in «Rivista del notariato», 4, pp. 373-387.

– (1961), Passaggeri Rolandino, in Il notariato nella civiltà ita-liana. Biografie notarili dall’VIII al XX secolo, Milano, pp. 436-443.

Cherubini, G. (1974), Signori, contadini, borghesi. Ricerche sulla società italiana del Basso Medioevo, Firenze.

Chittolini, G. (a cura di) (1978), La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato del Rinascimento, Bologna.

Cicchetti, A. e Mordenti, R. (1985), I libri di famiglia in Italia, Roma.

Cognasso, F. (1966), I Visconti, Milano.Constable, G. (1976), Letters and letter-collections, Turnhout.Costa, P. (1969), Iurisdictio. Semantica del potere politico nella

pubblicistica medievale (1100-1433), Milano.Crescenzi, G.P. (1639), Corona della nobiltà d’Italia, overo Com-

pendio dell’Istoria delle famiglie illustri, Bologna.Crollalanza, G.B. di (1965), Dizionario storico-blasonico delle fa-

miglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, 3 voll., ripr. facs. ed. Pisa 1886-90, Bologna.

269

Cuomo, L. (1977), Sul commercio dei panni a Bologna nel 1270, in «Archivio storico italiano», 135, pp. 333-371.

Dal Pane, L. (1957), Vita economica a Bologna nel periodo comu-nale, Bologna.

D’Amato, A. (1988), I domenicani e l’Università di Bologna, Bo-logna.

Davis, C.T. (1988), L’Italia di Dante, ed. or. Philadelphia 1984, Bologna.

De Matteis, M.C. (1977), La teologia politica comunale di Remigio de’ Girolami, Bologna.

Destrez, J. (1935), La «pecia» dans les manuscrits universitaires du XIIIe et du XIVe siècle, Paris.

Dolfi, P.S. (1974), Cronologia delle famiglie nobili bolognesi, ripr. facs. ed. Bologna 1670, Bologna.

Dondarini, R. (2000), Bologna medievale nella storia delle città, Bologna.

Erioli, E. (2003-4), Artigiani e costruttori a Bologna nel Medioevo: gli statuti dei falegnami, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Conservazione dei beni culturali, rel. P. Galetti Polini.

Etica e politica (1999), Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel ’200 e ’300, atti del convegno di Assisi, 15-17 ottobre 1998, Spoleto.

Fanti, M. (1963), San Procolo, la chiesa, l’abbazia. Leggenda e storia, Bologna.

– (1976), Le lottizzazioni monastiche e lo sviluppo urbano di Bologna nel Duecento, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 27, pp. 121-144.

– (1980), I macellai bolognesi. Mestiere, politica e vita civile nella storia di una categoria attraverso i secoli, Bologna.

– (2000), Le vie di Bologna. Saggio di toponomastica storica e di storia della toponomastica urbana, Bologna.

Fasoli, G. (1931), Catalogo descrittivo degli statuti bolognesi con-servati nell’Archivio di Stato di Bologna, Bologna.

– (1933), La legislazione antimagnatizia a Bologna fino al 1292, in «Rivista di storia del diritto italiano», 6, pp. 351-392.

– (1935), Le compagnie delle arti in Bologna fino al principio del secolo XV, in «L’Archiginnasio», 30, pp. 237-280; 31, pp. 56-79.

270

– (1993), «Gynevera delle clare donne»: frivolezze, austerità ed altro, in Memorial per Gina Fasoli. Bibliografia ed alcuni inediti, a cura di F. Bocchi, Bologna, pp. 103-108.

Federico II e Bologna (1996), Federico II e Bologna, atti del convegno di Bologna, 18 marzo 1995, Bologna.

Federico II e le nuove culture (1995), Federico II e le nuove culture, atti del XXXI convegno storico internazionale di Todi, 9-12 ottobre 1994, Spoleto.

Ferrari, R. (1983), Energia idraulica e struttura urbana: i canali di Bologna, in Problemi d’acque a Bologna in età moderna, Bologna, pp. 341-360.

Fink Errera, G. (1983), La produzione dei libri di testo nelle uni-versità medievali, in Libri e lettori nel Medioevo. Guida storica e critica, a cura di G. Cavallo, Bari, pp. 131-165; 284-302.

Franchini, V. (1931), Patti commerciali di Venezia con Bologna, in «L’Archiginnasio», 29, pp. 295-324.

Frescura Nepoti, S. (1975), Il canale di Reno e il Navile prima del 1270, in «Il Carrobbio», 1, pp. 167-171.

– (1980-81), Natura ed evoluzione dei dazi bolognesi nel secolo XIII, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 31-32, pp. 137-165.

Gasparri, S. (1992), I «milites» cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, Roma.

Ghirardacci, C. (1605-1657), Historia di Bologna, I-II, Bologna.Giansante, M. (1982-83), Aspetti e problemi di vita comunale

bolognese. L’estimo del 1296-97, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. A. Vasina.

– (1985), Il quartiere bolognese di Porta Procola alla fine del Due-cento. Aspetti economici e sociali nell’estimo del 1296-97, in «Il Carrobbio», 11, pp. 124-141.

– (1985-86), L’età comunale a Bologna. Strutture sociali, vita eco-nomica e temi urbanistico-demografici: orientamenti e problemi, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 92, pp. 103-222.

– (1987a), Eretici e usurai. L’usura come eresia nella normativa e nella prassi inquisitoriale dei secoli XIII-XIV. Il caso di Bologna, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 23, pp. 193-221.

– (1987b), L’inquisizione domenicana a Bologna fra XIII e XIV secolo, in «Il Carrobbio», 13, pp. 219-229.

– (1991), Patrimonio familiare e potere nel periodo tardo-comuna-le. Il progetto signorile di Romeo Pepoli, banchiere bolognese (1250c.-1322), Bologna.

271

– (1995), Conventi e monasteri nel contesto urbano, in Zanni Ro-siello (1995b, 89-93).

– (1998), Retorica e politica nel Duecento. I notai bolognesi e l’ideologia comunale, Roma.

– (2002), Rolandino e l’ideologia del comune di popolo. Dallo statuto dei cambiatori del 1245 a quello dei notai del 1288, in Tamba (2002b, 51-74).

– (2006), Una nuova fonte per la storia economica bolognese, in Giansante, Tamba e Tura (2006, 77-91).

Giansante, M., Tamba, G. e Tura, D. (a cura di) (2006), Camera actorum. L’archivio del Comune di Bologna dal XIII al XVIII secolo, Bologna.

Gozzadini, G. (1980), Delle torri gentilizie di Bologna e delle famiglie alle quali prima appartennero, ripr. facs. ed. Bologna 1875, Bologna.

Greci, R. (1978), La tariffa daziaria bolognese del 1351, in «Il Carrobbio», 4, pp. 263-277.

– (1982), Vie di comunicazione e mezzi di trasporto nel Medioevo, in Cultura popolare nell’Emilia-Romagna. Le origini e i linguaggi, Milano, pp. 206-222.

Greci, R., Pinto, G. e Todeschini, G. (2005), Economie urbane ed etica economica nell’Italia medievale, Roma-Bari.

Greco, A. (1997), Modena crocevia di merci e mercanti, in Cattini (1997, 23-44).

Guida generale (1981), Guida generale degli Archivi di Stato ita-liani, I, Roma.

Hessel, A. (1975), Storia della città di Bologna, 1116-1280, a cura di G. Fasoli, ed. or. Berlin 1918, Bologna.

Inglese, G. (2003), Guinizzelli Guido, in Dizionario biografico degli italiani, 61, Roma, pp. 391-397.

Jones, P. (1978), Comuni e signorie: le città-stato nell’Italia del tardo Medioevo, in Chittolini (1978, 99-123).

Kaye, J. (2005), Changing definitions of money, nature, and equality, c. 1140-1270, reflected in Thomas Aquinas’ questions on usury, in Quaglioni, Todeschini e Varanini (2005, 25-55).

Landau, P. (1994), Federico II e la sacralità del potere sovrano, in Toubert e Paravicini Bagliani (1994, I, 31-47).

272

Larner, J. (1972), Signorie di Romagna, ed. or. London-New York 1965, Bologna.

Le Bras, G. (1950), La doctrine ecclésiastique de l’usure à l’époque classique (XII-XV siècle), in Dictionnaire de théologie catholique, XV/2, coll. 2336-72, Paris.

Le Goff, J. (1976), Mercanti e banchieri nel Medioevo, Messina-Firenze.

– (1987), La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, Roma-Bari.

Liotta, F. (1993), Vicende bolognesi della «Constitutio in basilica beati Petri» di Federico II, in Vitam impendere magisterio, a cura di A. Gutierrez, Città del Vaticano, pp. 79-92.

Lobrichon, G. (1992), Gli usi della Bibbia, in Lo spazio letterario (1992, I/1, 523-562).

Lopez, R.S. (1949), Continuità e adattamento nel Medioevo: un millennio di storia delle associazioni di monetieri nell’Europa meridionale, in Studi in onore di G. Luzzatto, Milano, pp. 74-117.

Lourdaux, W. e Verhelst, D. (a cura di) (1976), The concept of heresy in the Middle Ages (11th-13th c.), The Hague-Leuven.

Luscombe, D.E. (1982), The state of nature and the origin of the state, in The Cambridge history of later medieval philosophy, Cambridge, pp. 757-770.

Mainoni, P. (2005), Credito e usura tra norma e prassi: alcuni esempi lombardi (sec. XII-prima metà XIV), in Quaglioni, Todeschini e Varanini (2005, 129-158).

Maire Vigueur, J.-C. (1995), Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas de l’Italie médiévale, in «Bibliothèque de l’École des chartes», 153, pp. 177-185.

– (a cura di) (2000), I podestà dell’Italia comunale. Parte I: Recluta-mento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), 2 voll., Roma.

Malaguzzi Valeri, F. (1979), La zecca di Bologna, ripr. facs. ed. Milano 1901, Bologna.

Manselli, R. (1963), L’eresia del male, Napoli.Maragi, M. (1981), Moneta e credito a Bologna nell’Antichità e nel

Medioevo, Bologna.Medica, M. (a cura di) (1999), Haec sunt statuta. Le corporazioni

medievali nelle miniature bolognesi, catalogo della mostra di Vignola, 27 marzo-11 luglio 1999, Vignola.

Melis, F. (1972), Documenti per la storia economica dei secoli XIII-XVI, Firenze.

273

Merlo, G.G. (1995), Coscienza storica della presenza ereticale nel-l’Italia degli inizi del Duecento, in Il senso della storia (1995, 287-308).

Micheletti, D. (1979-80), Gli estimi del comune di Bologna: il quar-tiere di Porta Ravennate (1296-97), tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. A. Vasina.

– (1981), Gli estimi del comune di Bologna: il quartiere di Porta Ravennate (1296-97), in «Il Carrobbio», 7, pp. 293-304.

Miglio, M. (1986), Parola e gesto nella società comunale, in Ceti sociali ed ambienti urbani nel teatro religioso europeo del ’300 e del ’400, atti del convegno di Viterbo, 30 maggio-2 giugno 1985, Viterbo, pp. 41-58.

Milani, G. (1996), Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione duecentesco, in «Rivista storica italiana», 108, pp. 149-229.

– (2001), Da «milites» a magnati. Appunti sulle famiglie aristocrati-che bolognesi nell’età di Re Enzo, in Pini e Trombetti Budriesi (2001, 125-154).

– (2003), L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma.

Montanari, M. (2004a), Come nasce un mito gastronomico. Bolo-gna fra localismo e internazionalismo, in Montanari (2004b, 9-24).

– (a cura di) (2004b), Bologna grassa. La costruzione di un mito, Bologna.

Monteverdi, A. (1941), Testi volgari italiani dei primi tempi, Mo-dena.

Muratori in Bologna (1981), Muratori in Bologna. Arte e società dalle origini al secolo XVIII, Bologna.

Nardi, P. (1979), Studi sul banchiere nel pensiero dei glossatori, Milano.

Origo, I. (1958), Il mercante di Prato, Milano.Orlandelli, G. (1956-57), Ricerche sull’origine della «littera bo-

noniensis»: scritture documentarie bolognesi del secolo XII, in «Bollettino dell’Archivio paleografico italiano», 2-3, pp. 179-214.

– (1959), Il libro a Bologna dal 1300 al 1330. Documenti. Con uno studio su: Il contratto di scrittura nella dottrina notarile bolognese, Bologna.

274

Padoan, G. (1960), Tradizione e fortuna del commento all’Eneide di Bernardo Silvestre, in «Italia medievale e umanistica», 33, pp. 227-240.

Padovani, A. (1985), L’inquisizione del podestà. Disposizioni antie-reticali negli statuti cittadini dell’Italia centrosettentrionale nel secolo XIII, in «Clio», 21, pp. 345-393.

Pagnin, B. (1934), La littera bononiensis, in «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti», 93, pp. 593-665.

Palmieri, A. (1918), Le strade medievali tra Bologna e la Toscana, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 8, pp. 17-51.

– (1933), Rolandino Passaggeri, Bologna.Panella, E. (1985), Dal bene comune al bene del comune. I trattati

politici di Remigio dei Girolami, in «Memorie domenicane», 16, pp. 1-198.

Paolini, L. (1975), L’eresia catara alla fine del Duecento, Roma.– (1977), Gli ordini mendicanti e l’inquisizione. Il «comportamen-

to» degli eretici e il giudizio sui frati, in «Melanges de l’École française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes», 89, pp. 695-709.

Pini, A.I. (1962), L’arte del cambio a Bologna nel XIII secolo, in «L’Archiginnasio», 57, pp. 20-81.

– (1967), I Libri matricularum societatum Bononiensium e il loro riordinamento archivistico, Bologna.

– (1976), Produzione, artigianato e commercio a Bologna e in Ro-magna nel Medio Evo, in Berselli (1976-80, I, 519-547).

– (1977a), Le ripartizioni territoriali urbane di Bologna medievale, Bologna.

– (1977b), Gli estimi cittadini di Bologna dal 1296 al 1329, in «Studi medievali», 18/1, pp. 111-159.

– (1982), Potere pubblico e addetti ai trasporti e al vettovagliamento cittadino nel Medioevo: il caso di Bologna, in «Nuova rivista storica», 66, pp. 253-281.

– (1986), Città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna.

– (1988), La presenza dello Studio nell’economia di Bologna me-dievale, in Capitani (1988, 85-111).

– (1990), I maestri dello Studio nell’attività amministrativa e politica del comune bolognese, in Capitani (1990, 151-178).

– (1993), Canali e mulini a Bologna tra XI e XV secolo, in Id., Campagne bolognesi. Le radici agrarie di una metropoli medie-vale, Firenze, pp. 15-38.

275

– (1995), Dalla fiscalità comunale alla fiscalità signorile: l’estimo di Bologna del 1329, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 46, pp. 343-371.

– (1996), Città medievali e demografia storica. Bologna, Romagna, Italia (secc. XIII-XV), Bologna.

– (1999a), La chiesa, il monastero e la parrocchia di S. Vitale a Bo-logna dalle origini alla fine del XIII secolo, in Id., Città, chiesa e culti civici in Bologna medievale, Bologna, pp. 91-118.

– (1999b), Un principe dei notai in una «repubblica di notai»: Ro-landino Passaggeri nella Bologna del Duecento, in Il notariato italiano del periodo comunale, Piacenza, pp. 29-46.

Pini, A.I. e Trombetti Budriesi, A.L. (a cura di) (2001), Bologna, re Enzo e il suo mito, atti della giornata di studio di Bologna, 11 giugno 2000, Bologna.

Pinto, G. (1980), Note sull’indebitamento contadino e lo sviluppo della proprietà fondiaria cittadina nella Toscana tardo-medievale, in «Ricerche storiche», 10, pp. 3-19.

Plessi, G. (1989), Guida alla documentazione francescana in Emilia-Romagna, Padova.

Quaglioni, D. (1995), Politica e diritto al tempo di Federico II, in Federico II e le nuove culture (1995, 3-26).

– (2005), Standum canonistis? Le usure nella dottrina civilistica me-dievale, in Quaglioni, Todeschini e Varanini (2005, 247-264).

Quaglioni, D., Todeschini, G. e Varanini, G.M. (2005), Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a confronto (sec. XII-XVI), atti del convegno internazionale di Trento, 3-5 settembre 2001, Roma.

Quetif, J. e Echard, J. (1719-21), Scriptores ordinis Praedicatorum, Lutetiae Parisiorum.

Renouard, Y. (1949), Les hommes d’affaires italiens du Moyen Age, Paris.

Repertorio degli statuti (1997-99), Repertorio degli statuti comunali emiliani e romagnoli (secc. XII-XVI), a cura di A. Vasina, 3 voll. (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Subsidia, 6), Roma.

Ricci, G. (1980), Bologna, Roma-Bari.Rocca, D. (1984-85), Gli estimi del comune di Bologna. Il quartiere

di Porta Stiera nel 1296-97, tesi di laurea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. A. Vasina.

Roncaglia, A. (1982), Le corti medievali, in Letteratura italiana Einaudi, 1, Il letterato e le istituzioni, Torino, pp. 33-147.

276

Rosa, E. (1974-75), L’ultimo porto di Bologna, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 25-26, pp. 137-186.

Rottenwöhrer, G. (1982), Der Katharismus, Bad Honnef.

Salvioni, G.B. (1894), La moneta bolognese e la traduzione del Savigny, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 12, pp. 140-170; 295-329.

– (1961), Il valore della lira bolognese dalla sua origine alla fine del secolo XV, ripr. facs. ed. 1896-1902, Torino.

Sapori, A. (1955), Studi di storia economica, Firenze.– (1973), La mercatura medievale, Firenze.Sarti, M. e Fattorini, M. (1888-96), De claris Archigymnasii Bono-

niensis professoribus, II ed., Bononiae.Savioli, L.V. (1784-91), Annali bolognesi, 3 voll., Bassano.Schaller, H.M. (1989), Dalla Vigna Pietro, in Dizionario biografico

degli italiani, 38, Roma, pp. 776-784.Schmitt, J.C. (1990), Il gesto nel Medioevo, Roma-Bari.Il senso della storia (1995), Il senso della storia nella cultura me-

dievale italiana, atti del convegno di Pistoia, 14-17 maggio 1993, Pistoia.

Società e istituzioni (1988), Società e istituzioni dell’Italia comuna-le: l’esempio di Perugia (secoli XII-XIV), atti del convegno di Perugia, 6-9 novembre 1985, Perugia.

Lo spazio letterario (1992), Lo spazio letterario del Medioevo, 1, Il Medioevo latino, Roma.

Spreti, V. (1928-35), Enciclopedia storico-nobiliare, 8 voll., Mila-no.

Stelling-Michaud, S. (1955), L’Université de Bologne et la pénétra-tion des droit romain et canonique en Suisse aux XIIIe et XIVe siècles, Génève.

Stürner, W. (1983), Rerum necessitas und divina provisio. Zur Interpretation des Prooemiums der Konstitutionen von Melfi (1231), in «Deutches Archiv», 39/2, pp. 467-554.

– (1987), Peccatum und Potestas. Der Sündenfall und die Entstehung der herrscherlichen Gewalt im mitteralterlichen Staatsdenken, Sigmaringen.

Tabacco, G. (1979), Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino.

Tamassia, N. (1894), Odofredo. Studio storico-giuridico, Bologna.Tamba, G. (1978), I documenti del governo del comune bolognese

277

(1116-1512). Lineamenti della struttura istituzionale della città durante il Medioevo, Bologna.

– (1981), Le norme associative. Lo statuto della società dei muratori negli anni 1248-56, in Muratori in Bologna (1981, 119-134).

– (1995), Le riformagioni del consiglio del popolo di Bologna. Elementi per un’analisi diplomatica, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 46, pp. 237-257.

– (1996), Il consiglio del popolo di Bologna. Dagli ordinamenti popolari alla signoria (1283-1336), in «Rivista di storia del diritto italiano», 69, pp. 49-93.

– (1998), Una corporazione per il potere. Il notariato a Bologna in età comunale, Bologna.

– (2000a), Ghisilieri, in Dizionario biografico degli italiani, 54, Roma, pp. 22-34.

– (a cura di) (2000b), Rolandino, 1215-1300. Alle origini del no-tariato moderno, Bologna.

– (2002a), Gozzadini, in Dizionario biografico degli italiani, 58, Roma, pp. 188-231.

– (a cura di) (2002b), Rolandino e l’Ars notaria da Bologna al-l’Europa, atti del convegno internazionale di Bologna, 9-10 ottobre 2000, Milano.

Taubes, J. (1997), La teologia politica di san Paolo, ed or. München 1993, Milano.

Todeschini, G. (1994), Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma.

– (1998), I vocabolari dell’analisi economica fra alto e basso medioe-vo: dai lessici della disciplina monastica ai lessici antiusurarii (X-XIII secolo), in «Rivista storica italiana», 110, pp. 781-833.

– (2000), Razionalismo e teologia della salvezza nell’economia assi-stenziale del basso Medioevo, in Zamagni (2000, 45-54).

– (2002), I mercanti e il tempio. La società cristiana e il circolo vir-tuoso della ricchezza fra medioevo ed età moderna, Bologna.

– (2005), La riflessione etica sulle attività economiche, in Greci, Pinto e Todeschini (2005, 151-228).

Toubert, P. e Paravicini Bagliani, A. (a cura di) (1994), Federico II, atti del convegno di Erice, 22-29 settembre 1991, 3 voll. (vol. I: Federico II e il mondo mediterraneo; vol. II: Federico II e le scienze; vol. III: Federico II e le città italiane), Palermo.

Tugnoli Aprile, A. (1996), Il patrimonio e il lignaggio. Attività finanziarie, impegno politico e memoria familiare di un nobile dottore bolognese alla fine del XV secolo, Bologna.

278

Tura, D. (2006), La Camera degli atti, in Giansante, Tamba e Tura (2006, 3-36).

Ullmann, W. (1963), The Bible and principles of government in the Middle Ages, in La Bibbia nell’Alto Medioevo, atti della X settimana del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 26 aprile-2 maggio 1962, Spoleto, pp. 181-227.

Varvaro, A. (1987), Il regno normanno-svevo, in Letteratura ita-liana Einaudi. Storia e geografia, 1, L’età medievale, Torino, pp. 79-99.

Vasina, A. (1965), I romagnoli fra autonomie cittadine e accentra-mento papale nell’età di Dante, Firenze.

– (1996), Bologna e la II Lega lombarda, in Federico II e Bologna (1996, 183-201).

Vauchez, A. (1966), Une campagne de pacification en Lombardie autour de 1233, in «Melanges d’archéologie et d’histoire», 88, pp. 503-549.

Verger, J. (1994), La politica universitaria di Federico II, in Toubert e Paravicini Bagliani (1994, III, 129-143).

Vezzali, F. (1999), Dall’attività del cambio alla proprietà terriera: il caso di Napoleone e Bernabò Gozzadini nel periodo tardo-co-munale, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 50, pp. 253-274.

Violante, C. (1962), Per uno studio dei prestiti dissimulati in ter-ritorio milanese (secoli X-XI), in Studi in onore di A. Fanfani, I, Milano, pp. 641-735.

Vitale, V. (1901), Il dominio della parte guelfa in Bologna, Bolo-gna.

Waley, D. (1952), Medieval Orvieto. The political history of an Italian city-state, Cambridge.

– (1969), Le città-repubblica dell’Italia medievale, Milano.Wandruszka, N. (1993), Die Oberschichten Bolognas und ihre Rolle

während der Ausbildung der Kommune (12. und 13. Jahrhun-dert), Frankfurt a.M.

Zaccagnini, G. (1920), I banchieri pistoiesi a Bologna e altrove nel secolo XIII, Pistoia.

Zamagni, V. (a cura di) (2000), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, Bologna.

Zanella, G. (1995), Hereticalia. Temi e discussioni, Spoleto.

279

Zanni Rosiello, I. (1995a), Un luogo di conservazione della memoria, in Zanni Rosiello (1995b, 13-18).

– (a cura di) (1995b), L’Archivio di Stato di Bologna, Fiesole.Zanotti, A. (2000), Il sistema delle acque a Bologna dal XIII al XIX

secolo, Bologna.