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ITALIANISTICA Rivista di letteratura italiana ANNO XXXVIII · N. 2 MAGGIO/AGOSTO 2009 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA · EDITORE MMIX estratto issn 0391-3368 issn elettronico 1724-1677

Lo sguardo di Michelangelo, poeta del "dunque": proposte esegetiche, in "Italianistica", a. XXXVIII, n. 2, 2009, pp. 175-196

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ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

ANNO XXXVIII · N. 2

MAGGIO/AGOSTO 2009

PISA · ROMA

FABRIZIO SERRA · EDITORE

MMIX

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ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

Periodico quadrimestrale diretto daDavide De Camilli, Bruno Porcelli

*Comitato di consulenza:

Johannes Bartuschat, Lucia Battaglia Ricci, Lina Bolzoni,Maria Cristina Cabani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,

Guglielmo Gorni, François Livi, Martin McLaughlin, Cristina Montagnani,Emilio Pasquini, Lino Pertile, Michelangelo Picone†,

Gianvito Resta, Luigi Surdich

*Redazione:

Ida Campeggiani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,Maiko Favaro, Eugenio Refini

*Inviare i dattiloscritti e i volumi per recensione, omaggio o cambio a

«Italianistica», presso Dipartimento di Studi Italianistici, Facoltà di Lingue,Via dei Mille 15, i 56126 Pisa, tel. e fax **39 050 553088

*«Italianistica» is a Peer-Reviewed Journal

LO SGUARDO DI MICHELANGELO,POETA DEL «DUNQUE»:

PROPOSTE ESEGETICHE*

Giorgio Masi

rem tene, verba sequentur

ell’ambito della storia letteraria italiana, il Cinquecento è un secolo in cui nonsolo le donne poetesse «fanno gruppo», come ebbe a scrivere Carlo Dionisotti in

un suo memorabile saggio,1 ma fanno gruppo anche gli artisti-scrittori, e ciò accadesoprattutto a Firenze (evento senza precedenti né repliche successive, se non spora-diche e isolate):2 nell’arco di tre generazioni si dedicano alla scrittura Leonardo, Michelangelo, Pontormo, Cellini, Bronzino e Vasari, per citare solo i più famosi.3 Ilcaso particolarissimo di questo assembramento di pittori e scultori conterranei checompongono in un breve torno d’anni un buon numero di versi e di prose (tra que-ste ultime perlopiù trattati e opere autobiografiche, private e pubbliche) andrà connesso, almeno dagli anni quaranta in poi, all’ingente attività promozionale – cul-

* Le idee esposte nel presente contributo hanno preso forma durante un mio corso sulle rime di Michelange-lo. Con gratitudine ricordo gli amici che vi sono intervenuti, proponendo letture critiche preziosamente diver-genti, anche da quelle del sottoscritto: in ordine equanimemente alfabetico, Antonio Corsaro, Roberto Fedi e Pao-la Mastrocola; e non dimentico gli studenti, che hanno subito il tutto con encomiabile cristiana rassegnazione.Salvo diverso avviso, le citazioni delle rime michelangiolesche s’intendono tratte da Buonarroti, Rime, a cura diM. Residori, introd. di M. Baratto, con uno scritto di Th. Mann, Milano, Mondadori, 1998, edizione che adotta il testo critico fissato da Enzo Noè Girardi (Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari, Laterza, 1960) con alcuni opportuniadeguamenti (segnalati alle pp. xlv-l).

1 «Una qualche donna che per irresistibile vocazione o per gioco o per disperazione scriva, si può sempre trovare. Ma storicamente, prescindendo dall’ultimo secolo, dal Risorgimento innanzi, il fenomeno è in Italia bencircoscritto. Soltanto nella letteratura del medio Cinquecento le donne fanno gruppo. Non prima né poi» (C. Dio-nisotti, La letteratura italiana nell’età del concilio di Trento [1965], in Idem, Geografia e storia della letteratura italiana,Torino, Einaudi, 19772, pp. 227-254: 237-238).

2 Sovvengono i nomi di Leon Battista Alberti, Lorenzo Ghiberti e il Filarete nel Quattrocento, Lorenzo Lippie Salvator Rosa nel Seicento, Massimo d’Azeglio nell’Ottocento, Alberto Savinio e Carlo Levi nel secolo scorso(durante il quale, però, la separazione fra i due ‘statuti’ professional-culturali si fa più sfumata: si pensi a quantoaccade col Futurismo). Tra i citati, peraltro, tutti i più antichi ebbero a che fare con Firenze (Alberti, Ghilberti, Filarete, Lippi – anche per nascita – e Rosa).

3 Nell’elenco non va compreso Baccio Bandinelli, in quanto, come ha persuasivamente dimostrato LouisWaldman, il suo presunto Memoriale è in realtà opera di un omonimo pronipote (cfr. L. A. Waldman, BaccioBandinelli and Art at the Medici Court. A Corpus of early modern Sources, Philadelphia, American Philosophical Society, 2004, pp. x e xiii, note 3-4). Andranno aggiunti invece, fra gli altri, Donato Bramante, Francesco Lan-cillotti, Paolo Pino, lo stesso Ascanio Condivi, Raffaello da Montelupo, Alessandro Allori, Alessandro Vittoria,Annibale Caccavello, Vincenzo Danti, Giacomo Zucchi, Bartolomeo Ammannati, Giampaolo Lomazzo, Federi-co Zuccari, Bernardo Buontalenti, Cristoforo Sorte, Bernardino Campi, Giovan Battista Armenini, AgostinoCarracci, Francesco Cavazzone, Giovan Battista Paggi; senza dimenticare gli architetti-scrittori: Baldassarre Pe-ruzzi, Andrea Palladio, il Vignola, Vincenzo Scamozzi. In merito resta punto di riferimento ineludibile l’operadi J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell’arte moderna [1924], Firenze,La Nuova Italia, 1977. Non sempre chiara la demarcazione rispetto al versante reciproco, ossia quello degli scrit-tori-artisti (come sarà il Montale disegnatore e pittore): nel Cinquecento una menzione meriteranno almeno gliesordi pittorici di Pietro Aretino.

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turale in genere e artistico-letteraria in particolare – svolta in prima istanza dall’Ac-cademia Fiorentina e quindi da quella del Disegno.1 A differenza delle poetesse, chetesero senza eccezioni a uniformarsi ai canoni del petrarchismo – sia pure in un ven-taglio piuttosto divaricato, estendentesi fra due estremi che potremmo individuare ri-spettivamente in Vittoria Colonna e in Veronica Franco –, ciascuno dei nominati det-te vita a testi se non altro fortemente innovativi e personali, tra cui quelli poetici sidistanziarono dalle rime del Petrarca non solo per ragioni di genere (come nel casodel Bronzino), ma anche per affinità di fondo con la tradizione locale, che continuòad essere, per tutto il secolo e oltre, da un lato egemonicamente burlesca, ripartita fratesti nenciali, burchielleschi e berneschi; dall’altro legata al culto di Dante e alla me-moria dello Stilnovo, perpetuata da Poliziano e da Lorenzo con significativi aggior-namenti teorici in chiave neoplatonica.2 Il rapporto con la ‘cultura visuale’ era, nelcaso degli artisti-scrittori, ovviamente connaturato e spontaneo; ma la loro peculiareattività letteraria non costituì un fenomeno stravagante e appartato, rientrando anziin una rete estesissima di vivaci discussioni sull’arte, che incluse tanti anonimi a fiancodi tanti accademici, dal Lasca al Varchi al Doni al Gelli ad Alfonso de’ Pazzi.3 Miche-langelo fece parte per se stesso, come il suo amato Dante, di cui condivise per sceltail destino di esule dalla madrepatria ingrata verso i propri figli migliori4 (mantenen-do, tuttavia, con la stessa significativi legami, tra cui l’annessione ‘in contumacia’ pro-prio all’Accademia Fiorentina).5

Del resto, la poesia michelangiolesca rappresenta nel suo complesso una vistosa ano-malia nel panorama poetico cinquecentesco. La raccolta delle liriche dell’artista, costi-tuita da pezzi dalle provenienze più disparate (retri di lettere, fogli con schizzi, copie al-trui, stampe), da lui non ordinata (se non, forse, per una porzione circoscritta e in forma

1 Questo emergere dell’attività letteraria degli esponenti di un gruppo professionale fino ad allora escluso –come le donne – dal mondo culturale ‘non meccanico’ (con la vistosa, ma isolata eccezione albertiana) coinci-de con l’affermarsi della dignità e dell’autonomia dell’artista, affermazione che ebbe proprio in Michelangelo ilpunto di riferimento e il vertice più elevato. Anche l’impiego del termine «artista», come mostra la discussionedel Varchi nella sua lezione sul celebre sonetto 151 («Non ha l’ottimo artista alcun concetto»), non era scontato,contrapponendosi ai più diffusi (anche a Firenze) artefice e artigiano («volgare e plebeio» per il Varchi: vedi Scrit-ti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971-1977, ii, pp. 1326-1327). Ebbene, Mi-chelangelo nelle rime usa tre volte «artista» (oltre a 151, v. 1, anche nei sonetti 25, v. 7, e 62, v.3), mai gli altri duevocaboli. Non va considerato casuale il fatto che la prima Accademia eminentemente artistica, quella del Dise-gno, appunto, fosse fondata a Firenze poco prima della morte di Michelangelo (il 31 gennaio 1563), e che lo de-signasse come suo «capo» insieme al duca Cosimo, curando poi l’allestimento delle solenni esequie fiorentinedell’artista.

2 Il filone stilnovistico-laurenziano è stato opportunamente evidenziato da Residori nel suo ottimo commentoalle rime di Michelangelo, ma andrebbe ancora approfondito soprattutto in relazione ai testi più antichi.

3 Gli anonimi sono, per esempio, gli autori degli innumerevoli componimenti pasquineschi appesi alle statueper criticarle; su questi temi vedi G. Masi, Le statue parlanti del Cavaliere e altri prodigi pasquineschi fiorentini (Ban-dinelli, Cellini, Michelangelo) e M. Spagnolo, Poesie contro le opere d’arte: arguzia, biasimo e ironia nella critica d’artedel Cinquecento, in Ex marmore. Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell’Europa moderna, Atti del Colloquio internazio-nale (Lecce-Otranto, 17-19 novembre 2005), a cura di C. Damianaki, P. Procaccioli, A. Romano, Manziana (Rm),Vecchiarelli, 2006, pp. 221-274 e 321-354.

4 I Fiorentini sono «[…] quel popolo ingrato/che solo a’ iusti manca di salute» (248, vv. 10-11); Firenze la patria«ingrata […] e della suo fortuna/a suo danno nutrice; ond’è ben segno/c’a’ più perfetti abonda di più guai» (250,vv. 9-11).

5 Michelangelo fu incluso fra gli accademici il 31 marzo 1541, subito dopo la trasformazione dell’Accademia de-gli Umidi in Accademia Fiorentina, all’apertura del consolato di Lorenzo Benivieni. Con lui, fra i trentacinquenuovi accademici, figura solo un altro fiorentino lontano dalla città natale, Vincenzo Martelli (vedi M. Plaisan-ce, L’Accademia e il suo principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana,Rm, Vecchiarelli, 2004, p. 97).

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non certo definitiva)1 e quindi soggetta all’arbitrio dei curatori postumi,2 sperimentametri e generi difformi, e solo forzatamente si può inquadrare in definizioni critiche

1 Il primo a evidenziare l’esistenza di un gruppo di ottantanove componimenti che, nel manoscritto Vat. lat. 3211e in tre parti del miscellaneo dell’Archivio Buonarroti, XIV (i, ii e iv), sono trascritti da altri in bella copia (ma convarianti d’autore autografe) e numerati, fu Carl Frey, il quale li raggruppò tutti nella propria edizione sotto il nu-mero cix e ne aggiunse altri quindici del Vaticano che a suo parere, pur non numerati, sarebbero dovuti entrare afar parte della raccolta (Die Dicthungen des Michelagniolo Buonarroti, herausgegeben und mit kritischem Apparateversehen von Dr. C. Frey, Berlin, 1897; rist. anast., con pref. di H. Friedrich, Berlin, de Gruyter, 1964, pp. 112 sgg.).Egli ipotizzò che fosse intenzione di Michelangelo e dei suoi amici-copisti (Riccio, Giannotti e altri) di allestire lastampa di tali poesie. La scelta di porre questa raccolta alla stregua di un singolo pezzo suscitò però il biasimo diMichele Barbi, che nel 1931 scrisse al direttore di «Pegaso», Ugo Ojetti, la celebre lettera aperta Come si pubblicano inostri classici (riportata nella Nota filologica di Girardi, in Buonarroti, Rime, cit., pp. 515-517), per sostenere che «que-ste poesie, che dovrebbero avere, come il vero canzoniere del Buonarroti, un posto d’onore, perdono ciascuna lapropria personalità e diventano parti di un dato numero» (ivi, p. 516). L’idea che questo fosse «il vero canzoniere delBuonarroti» progettato per la stampa fu data per «risaputa» da Mario Martelli (Esegesi del madrigale 118 di Michelan-gelo, «Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», n.s., xli, 1973-1975 [ma pubblicato nel1977], pp. 347-366: 347), accolta e sviluppata criticamente da Roberto Fedi (Il canzoniere (1546) di Michelangelo Buo-narroti, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989, pp.193-213, poi in R. Fedi, La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Roma, Salerno Edi-trice, 1990, pp. 264-305), applicata all’ordinamento della recente edizione di Buonarroti, Rime, introd., note e com-mento di S. Fanelli, pref. di C. Montagnani, Milano, Garzanti, 2006, che si apre appunto con una sezione intitolataCanzoniere contenente gli ottantanove componimenti numerati. Girardi accolse senz’altro l’idea che la raccolta fos-se pensata per la stampa, ma le negò la qualifica di canzoniere, evidenziando la presenza al suo interno di più re-dazioni di uno stesso componimento numerate come se fossero poesie diverse, l’esistenza di numerose varianti«non risolte», la frammentarietà delle parti del gruppo, distribuite su diversi manoscritti, l’assoluta analogia nel«grado di compiutezza» tra i singoli pezzi di questa raccolta e tutte le altre poesie ad essa estranee: la conclusionefu che «l’autonomia del gruppo cix» era «insostenibile» (ed. Girardi, cit., pp. 525-526). Più di recente Lucia Ghizzo-ni ha negato che esistano prove dell’intenzione di stampare quei componimenti, evidenziando come nei vari testi-moni si riscontri una copiatura indiscriminata di lezioni diverse che non permette di capire quale fosse la preferitadall’Autore (L. Ghizzoni, Indagine sul «canzoniere» di Michelangelo, «Studi di filologia italiana», xlix, 1991, pp. 167-187); tesi condivisa da Gorni (G. Gorni, Casi di filologia cinquecentesca: Tasso, Molza, Da Porto, Michelangelo, in Per Ce-sare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza, C. Vela, MilanoFondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 425-442). Ma è nota una lettera al Riccio del febbraio-marzo(?) 1546 (Il carteggio di Michelangelo, ed. postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, Firenze, Sansoni-spes,1956-1983, iv, p. 232 n. mlvi) in cui Michelangelo alludeva proprio alla stampa in questione, minacciando l’amico senon avesse abbandonato l’impresa. Infine Antonio Corsaro ha identificato la mano del Riccio in tutte le numera-zioni dei testi nei codici, definendo questo raggruppamento «un libro privato ideato per una diffusione seletticaper via manoscritta» (A. Corsaro, Intorno alle rime di Michelangelo Buonarroti. La silloge del 1564, «Giornale storicodella letteratura italiana», clxxxv, 2008, pp. 536-569: p. 553); ma i dati di fatto sembrano suggerire piuttosto che sitrattasse di un’iniziativa del Riccio totalmente disapprovata dall’Autore, che tornò su quei testi con alcune modifi-che, ma lo fece in modo non sistematico e in momenti imprecisati, non diversamente dagli altri non numerati.

2 Buonarroti il Giovane effettuò una vera e propria ‘normalizzazione’ delle rime del prozio, tra interventi cen-sorî, rimaneggiamenti stilistici ed esclusioni; ciò nonostante, un lettore come Foscolo colse ugualmente alcunepeculiarità della poesia michelangiolesca: ma i saggi foscoliani, alla luce del testo critico, sembrano parlare di unautore ‘terzo’, una sorta di ibrido frutto dell’intervento dell’editore seicentesco (U. Foscolo, Michel Angelo [1822]e Poems of Michel Angelo Buonarroti [1826], in Idem, Opere, x, Saggi e discorsi critici, ed. critica a cura di C. Foligno,Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 447-468 e 469-508). Com’è noto, i primi a tornare ai mss. originali abbandonando la‘vulgata’ di Buonarroti il Giovane furono Cesare Guasti, che la ordinò per metri (Le rime di Michelangelo Buonar-roti, pittore, scultore e architetto, cavate dagli autografi e pubblicate da C. Guasti accademico della Crusca, Firenze,Le Monnier, 1863); poi Carl Frey, che tentò un ordinamento cronologico (Die Dicthungen des Michelagniolo Buonar-roti, cit.), seguito nel 1960 da Enzo Noè Girardi, l’ultimo editore critico delle rime michelangiolesche. Varie edi-zioni commentate hanno adottato testo e ordinamento stabiliti da Girardi (Buonarroti, Rime, introd. di G. Te-stori, cronologia, premessa e note a cura di E. Barelli, Milano, Rizzoli, 1975; Idem, Rime e lettere, a cura di P.Mastrocola, Torino, utet, 1992; e l’ed. cit. a cura di M. Residori, uscita nel 1998); una sostanziale novità è venutadalla citata recente edizione a cura di S. Fanelli, che invece ha scelto una sorta di soluzione di compromesso, presentando in apertura il Canzoniere (che sarebbe in sé un macro-esempio di ‘non-finito’ michelangiolesco: cfr.l’introd. della Fanelli a p. xvii) e di seguito le altre rime ordinate, come nell’ed. Guasti, per forme metriche (SonettiMadrigali Canzoni Sestine Epitaffi per Cecchino Bracci Capitoli in terza rima Ottave e Rispetti Barzelletta in ottonari Di-stici Terzetti Quartine Frammenti), riportando le poesie di ciascun metro in ordine cronologico (sempre seguendoil testo critico di Girardi). Segnalo un inconveniente non di poco conto che quest’ultimo ordinamento (o anchequello esclusivamente per metri applicato da Guasti e perorato da Gorni) provoca, rispetto a quello (pur velleita-

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unitarie. Anche l’incasellamento nei vari filoni stilistici e contenutistici (petrarchismo,burlesco, ‘dantismo’), oltre che filosofici (neoplatonismo) e spirituali (temi savonarolia-ni e aperture alla riforma), sortisce spesso esiti insoddisfacenti, dato che appare limita-tivo scindere persino entro un unico testo l’uno aspetto dall’altro. Si tratta quindi di uninsieme che tende alla diffrazione e alla differenziazione, e pure il cosiddetto ‘canzo-niere’ – che va considerato probabilmente un tentativo allotrio di dare veste unitaria aun determinato raggruppamento di testi, o forse più semplicemente di censirli – pre-senta infatti singolari infrazioni che non si possono ignorare (l’inconsueta netta preva-lenza di madrigali, la presenza di componimenti politici fortemente polemici, diciamopure ‘realistici’ e ad personam, l’oltranza espressiva comunque renitente ad acquietarsiin forme di serena classicità). All’origine di ciò, sicuramente, il carattere estemporaneo,più che occasionale, di molti testi; altrettanto sicuramente, il fatto che essi appartenga-no a epoche molto distanti (grosso modo dal 1503-1504 al 1560), e risentano dunque diatteggiamenti spirituali e ideologici che nel tempo mutarono anche in modo radicale.

Se vogliamo evitare l’ambiguità delle etichettature critiche, per reperire ciò che con-traddistingue i testi poetici di Michelangelo ci si potrà orientare su taluni temi ricorrenticon valore metaforico (la scultura come raggiungimento dell’essenza immortale, il fuo-co come mezzo di trasformazione purificante, gli occhi soggetto e oggetto di visionespirituale), oppure su immagini reiterate (l’io dimidiato e reso oggettivo, l’io alle presecon se stesso)1 e riflessioni ossessive, specie in età avanzata, anche se non monocordi(l’appressamento della morte, talvolta usufruito anche in chiave sottilmente ironica).2

riamente) cronologico di Frey e Girardi: l’infrangersi dei micro-raggruppamenti tematici, che comprendono poe-sie tra le più famose di Michelangelo. P. es., dei quattro sonetti ‘notturni’ 101-104, solo due entrarono nel cosid-detto canzoniere (103 e 104) e quindi restano separati dagli altri; e le due poesie del «concetto» racchiuso nel mar-mo, anch’esse strettamente connesse come due facce di un dittico, sono però un sonetto (il 151, commentato daBenedetto Varchi) e un madrigale (il 152), nessuno dei quali fa parte del canzoniere.

1 Le liriche michelangiolesche in cui compare l’io dimidiato sono quelle che recano i nn. 8, 91, 108, 130, 144, 147(al v. 4), 152 (al v. 11), 154, 161, 163 e 235. Questo concetto, che in Petrarca era negativo sconvolgente effetto dell’in-namoramento (p. es. in rvf 292, vv. 1-4: «Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente,/e le braccia e le mani e i piedi e ’lviso/che m’avean sì da me stesso diviso/e fatto singular da l’altra gente»), in Michelangelo resta ancora tale neimadrigali 8, 91, 130, 147 e nel rispetto 108; è altro nel madrigale 144 (una sorta di fantasia precorritrice del propriodestino); diventa addirittura un salutare straniamento conoscitivo-spirituale quando a indurlo è Vittoria Colonna,come nel celebre madrigale 152, nel 154 e nel 235 (e anche, meno esplicitamente, nel 163); è infine condizione desi-derata e addirittura oggetto di preghiera nel 161.

2 Se non lo si interpreta quale dissimulazione di un sentire tragico, come invece talvolta si tende a fare, è na-turalmente autoironico il tardo capitolo burlesco 267: «Dilombato, crepato, infranto e rotto/son già per le fatiche,e l’osteria/è morte, dov’io viv’e mangio a scotto» (vv. 22-24), chiuso da una caratteristica battuta paradossale: «ch’i’son disfatto, s’i’ non muoio presto». Ma anche laddove meno ci si aspetterebbe un guizzo arguto, cioè in un so-netto di risposta a Ludovico Beccadelli composto nel momento di massimo coinvolgimento spirituale e di con-trita preparazione alla morte da parte di Michelangelo, c’è spazio per il sorriso. Il vescovo Beccadelli gli aveva scrit-to dopo essersi congedato dall’artista per raggiungere la propria diocesi in Dalmazia, con la mesta convinzioneche si sarebbero rivisti solo in cielo; Michelangelo, refrattario all’enfasi patetica, gli risponde smorzando decisa-mente i toni: «Per croce e grazia e per diverse pene/son certo, monsignor, trovarci in cielo;/ma prima c’a l’estre-mo ultimo anelo,/goderci in terra mi parria pur bene» (300, vv. 1-4). Al ricevimento del sonetto, il vescovo scrissea Michelangelo una lettera che coglie appieno le istanze dell’amico, apprezzando «il bel sonetto che Vostra Si-gnoria m’ha scritto, che per più conti m’è piaciuto assai, vedendo la perseveranza dell’amor suo meco et la vivaci-tà dello spirito et ingegno d’ella», e, smesso il pessimismo su un futuro nuovo incontro romano, auspica comun-que il proseguimento di una corrispondenza epistolare e poetica, «secondo che lo spirito ne invitarà, il qualesapemo molto bene che parla tra noi di core et non per cerimonie cortegiane» (per le citazioni dalla lettera, nellequali i corsivi sono miei, e su tutto il «dialogo poetico» fra i due – cinque sonetti del vescovo e due dell’artista –cfr. A. Corsaro, Michelangelo e la lirica spirituale del Cinquecento, in Ludovico Castelvetro. Letterati e grammatici nellacrisi religiosa del Cinquecento, Atti della xiii Giornata Luigi Firpo (Torino, 21-22 settembre 2006), a cura di M. Firpoe G. Mongini, Firenze, Olschki, 2008, pp. 261-284: 263-267; per il testo del sonetto del Beccadelli, di cui Michelan-gelo riprende nel suo incipit i termini usati nelle terzine, vedi anche l’ed. Residori, cit., p. 461 nel cappello).

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Tuttavia si tratterà pur sempre di singoli accenti, note ribattute che, ovviamente, nondi rado sono del tutto assenti dai testi. Forse il carattere distintivo più uniformementediffuso, concordemente riconosciuto a questi versi e che contribuisce in modo non se-condario a dare ragione dell’anomalia di cui si diceva in apertura, è la loro spiazzantedifficoltà di lettura (mi si perdoni la per ora ineludibile genericità del rilievo). Difficoltàche è stata ritenuta non a torto un obiettivo deliberatamente perseguito dall’Autore, innome di una personale poetica dell’inconsueto e dell’oscuro;1 ma che è anche la con-seguenza di una oggettiva peculiarità degli usi linguistici michelangioleschi, in man-canza di una dotta e navigata sorveglianza formale (esattamente come accade nella poesia di un altro artista fiorentino contemporaneo, Benvenuto Cellini):2 i limiti inter-pretativi, imputabili a un periodare fortemente ellittico, alla ricorrenza di anacoluti, adiscordanze di numero e genere, al ricorso non solo ad accezioni marcatamente muni-cipali di taluni vocaboli, ma anche a termini inattestati nei nostri lessici (sui quali si puòsolo ipotizzare che si tratti di neologismi coniati da Michelangelo) sono i medesimi cherendono talvolta accidentata la prosa corrente di un Machiavelli o di un Guicciardini,nonché quella di altri contemporanei e concittadini. D’altro canto è indicativo che ilpronipote dell’artista, autore in prima persona di testi spiccatamente vernacolari, tro-vandosi a rendere pubbliche per la prima volta nel 1623 le poesie del grande omonimonon si limitasse a un’edizione nel senso moderno del termine, ma effettuasse un vero eproprio rifacimento, una sorta di traduzione che sciogliesse tutti i nodi contenutisticipiù intricati e appianasse tutte le scabrosità stilistiche e linguistiche (per non parlare diquelle di altro genere).

Di qui la necessità di tornare a riflettere su testi spesso disseminati di cruces più ese-getiche che ecdotiche, nonostante su di essi abbiano esercitato il proprio acume raffi-natissimi lettori. E occorrerà farlo presupponendo tutti i limiti interpretativi appenaenunciati, e dunque ascrivendo un difetto di comprensione a noi remoti destinatari, lun-gi dall’imputare imperizia di scrittura all’Autore;3 il quale meriterà sicuramente fiducia,quanto alla logica interna dei propri enunciati, se non altro perché il cardine attorno acui ruotano tanti dei suoi componimenti è proprio un rigoroso sillogismo, i cui esiti ap-paiono di frequente paradossali, ma mai irrazionali.4 Ne è riprova anche una singolare

1 «Michelangelo perseguiva più che la perfezione letteraria, la difficoltà, l’oscurità, l’abnormità. […] elimina ilsemplice a favore del complicato […] sempre alla ricerca dell’inconsueto» (H. Friedrich, Epoche della lirica italia-na, ii, Il Cinquecento, Milano, Mursia, 1975, pp. 33, 34, 59). Walter Binni ne fece la chiave di volta della propria inter-pretazione della poesia michelangiolesca, sottolineando «la tensione a un più che estetico, a un più che bello, che(mentre rafforza il rifiuto dell’idillio, del facile, dell’edonistico, del facilmente compiuto e armonizzato ed eufoni-co) motiva le ragioni di una poetica del difficile, dell’arduo, e la stessa forza delle antitesi e dei procedimenti con-cettistici-metaforici all’estremo del loro impiego più ‘virtuosistico’ mai privo del tutto di una base generale, ma-gari più indiretta e rarefatta, ma mai del tutto assente» (W. Binni, Michelangelo scrittore, Torino, Einaudi, 1975, p.51; concetto ribadito alle pp. 56, 58, 60-61 e 63). Guglielmo Gorni, infine, attesta l’accordo della critica moderna nelriconoscere alle poesie di Michelangelo «une obscurité foncière» (Gorni, Obscurité et transparence dans les poèmesde Michel-Ange, «Cahiers de la faculté des Lettres de l’Université de Genève», iv, 1, 1991, pp. 13-19: 13).

2 Entrambi, Cellini e Michelangelo poeti, con una tendenza sintattica al tortuoso, al contorto e all’ellittico(«versi di contorta fattura» ha definito quelli del secondo Gorni, Temi platonici in Michelangelo, «Intersezioni», xv,1995, pp. 375-385: 381).

3 Gorni, Casi di filologia cinquecentesca, cit., p. 441, parlò di «deliri esegetici» concludendo (a proposito delle enig-matiche ottave allegoriche sul gigante, n. 68): «in definitiva il vero monocolo, in tutta questa misteriosa storia digiganti, altamente suggestiva e grottesca, non è altri, duole dire, che il lettore moderno» (ivi, p. 442).

4 All’opposto, quindi, di quanto sostenne Hugo Friedrich: «Le più felici poesie di Michelangelo […] non sonopropriamente logiche, hanno nonostante tutto un’armonia. […] Perché la lirica non vuole comunicazione, nonvuole una correttezza né reale né logica, quantunque sopporti bene la correttezza logica. […] Il fallimento dellalogica sotto il peso di questo fantasticare passionale viene, malgrado ogni sforzo logico, captato dal linguaggio li-rico, legittimato ed espiato» (Friedrich, Epoche della lirica italiana, cit., ii, p. 60).

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frequentissima ricorrenza lessicale che i critici non hanno, mi pare, esplicitamente sot-tolineato: quella di una congiunzione con valore conclusivo caratteristica del ragiona-mento logico-filosofico (in particolare dei teoremi), ossia il dunque (dunche nel fiorenti-no di Michelangelo),1 corrispondente volgarizzato dell’ergo del linguaggio specialistico.La si trova, con un’insistenza indubbiamente anomala rispetto agli usi poetici contem-poranei, al centro di moltissimi componimenti dell’artista, quasi sempre all’inizio di unverso, che nei sonetti è spesso il primo delle terzine; talvolta è sostituita da congiunzioniomologhe («onde», «però» = ‘perciò’) o sottintesa nell’apodosi – spesso interrogativa –di un periodo aperto da un «se».2 L’effetto espressivo è affidato in questi casi in buonaparte al concetto (in forma quasi esclusiva ciò accade negli epitaffi per Cecchino Brac-ci, tali da far parlare spregiativamente di «concettismo»), al cuore del quale si pervieneattraverso un’intelaiatura logica, elaborata o depistante quanto si vuole, ma necessa-riamente irreprensibile.3 È insomma fondamentale che la parafrasi di queste poesie siaplausibile, che non svicoli rinunciatariamente in costruzioni ad sensum: anzi, se la diffi-coltà può indurre l’esegeta michelangiolesco alla desperatio, proprio la fiducia nella ne-cessaria presenza di una logica rigorosa nell’enunciato (anche nei frammenti, quando

1 Giovanni Nencioni notò anche nella scrittura epistolare di Michelangelo «la costante eliminazione dell’ele-mento labiale nelle labiovelari di chiunque, dunque, ovunque (chiunche, dunche, ovunche sono esclusivi anche nel Guic-ciardini e accolti, a Firenze, da letterati aperti al gusto della lingua viva, come il Varchi)» (G. Nencioni, La linguadi Michelangelo [1965], in Idem, Fra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino, Einaudi, 1983, pp. 89-107: 94).

2 Il «dunche» si trova nelle seguenti poesie: sonetto 4, ultimo verso; alla fine della prosa 14; al centro del ma-drigale 19, all’inizio del v. 5; ottave 54, all’inizio del v. 92 (al centro dell’ottava); son. 58, all’inizio della prima terzi-na; son. 63, inizio della seconda terzina; sestina 70, v. 25 (inizio della quinta stanza); son. 79, inizio prima terzina;son. 80, inizio prima terzina; cap. 85, v. 34; son. 103, inizio v. 12; centro del madrigale 129, inizio v. 11; fine del ma-drigale 132, inizio v. 12; centro del madrigale 134, inizio v. 8; son. 151, v. 9; centro del madrigale 154, inizio v. 5; cen-tro del madrigale 192, inizio v. 7; son. 193, inizio prima terzina; son. 239, inizio prima terzina; terzine 283, ultimoverso. Troviamo invece, con la stessa funzione, «onde»: al centro del madrigale 30, inizio del v. 4; nel son. 46, ini-zio seconda terzina; son. 88, inizio seconda terzina; centro del madrigale 118, inizio v. 5; centro del madrigale 119,v. 13; centro del madrigale 137, inizio v. 7; centro del madrigale 258, inizio v. 7; «però»: son. 82, inizio prima terzina;son. 84, inizio seconda terzina; periodo ipotetico concluso da interrogativa: madrigale 126, vv. 1-5; fine del madri-gale 138; madrigale 147, vv. 5-8; fine madrigale 229; quartine e ultima terzina del son. 233; ultima terzina del son.236; madrigale 245, vv. 1-6; madrigale 246, vv. 5-9; son. 259, vv. 3-4; madrigale 262, primo e ultimo distico; son. 266,prima quartina; fr. di son. 301, vv. 3-4; «dunche» e «però»: sonetto 98, rispettivamente a metà del v. 6 e all’inizio del-la prima terzina; periodo ipotetico e «dunche»: madrigale 139, vv. 12-13; centro del madrigale 145 (inizio del v. 5);son. 160, prima quartina e inizio prima terzina; madrigale 173, vv. 1-4, 11-13, inizio v. 14; epitaffio 206, vv. 3-4; son.276, prima terzina; fr. di son. 279, seconda quartina; periodo ipotetico, «dunche» e «però»: madrigale 123, vv. 8-10,11-14 e 15.

3 Era proprio questo il merito delle rime michelangiolesche agli occhi di Ascanio Condivi, che chiuse la suabiografia (stampata nel 1553) con il seguente auspicio purtroppo disatteso: «Spero tra poco tempo dar fuore al-cuni suoi sonetti e madrigali, quali io con lungo tempo ho raccolti sì da lui sì da altri, e questo per dar saggio almondo quanto nell’invenzione vaglia e quanti bei concetti naschino da quel divino spirito» (A. Condivi, Vita diMichelagnolo Buonarroti, a cura di G. Nencioni, con saggi di M. Hirst e C. Elam, Firenze, spes, 1998, p. 66). Di«barocchismo goffo e infernalmente sproporzionato» e di epigrammi «tutti intessuti di concettini e concetti» parlò a suo tempo G. Contini, Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, «Rivista Rosminiana», xxxi, 4, otto-bre-dicembre 1937, poi col titolo Una lettura su Michelangelo, in Idem, Esercizî di lettura sopra autori contemporaneicon un’appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, pp. 242-258: 250 e 251; seguito poi da Walter Bin-ni («eccesso concettistico di sapore addirittura prebarocco […] eccesso di virtuosismo», in Binni, Michelangeloscrittore, cit., p. 61). Viceversa, Natalino Sapegno introdusse la nozione di «ingegnosità», formulando una equili-brata sintesi che trovo ancora condivisibile: «Non sarei affatto alieno dall’azzardare una definizione delle rimeche puntasse tutta proprio sul canone dell’ingegnosità; occorre pur sempre premettere che l’ingegnosità di Mi-chelangelo tende per lo più non a risolversi in un gioco intellettualistico e in ultima analisi arido, sì a tradurrefaticosamente una sottile e contrastata sostanza umana; nasce insomma dal profondo; non elimina, anzi conferma e mette in risalto l’impegno dell’uomo e dell’artista» (N. Sapegno, Appunti sul Michelangelo delle ‘Rime’,in Studi in onore di Alfredo Schiaffini, numero speciale di «Rivista di Cultura Classica e Medioevale», viii, 1965: ii,pp. 999-1005: 1001).

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un singolo ragionamento, se non un vero sillogismo, appaia in sé compiuto) può addi-rittura fare da guida nell’interpretazione, dato che induce a scartare le letture che con-ducono fuori dal binario del raziocinio.

L’impianto speculativo delle poesie michelangiolesche, ho detto, ha spesso esiti pa-radossali, ma è sempre teso a comunicare un’idea, dalla quale presumibilmente il com-ponimento ha avuto origine. La prima tappa del percorso creativo è rintracciabile in al-meno uno dei due brani in prosa inseriti da Frey e poi da Girardi fra le rime dell’artista:

La fama tiene gli epitafi a giacere; non va né inanzi né indietro, perché son morti, e e’ loro opera-re è fermo [13].

El Dì e la Notte parlano, e dicono: – Noi abbiàno col nostro veloce corso condotto alla morte el duca Giuliano; è ben giusto che e’ ne facci vendetta come fa. E la vendetta è questa: che avendo noimorto lui, lui così morto ha tolta la luce a noi e cogli occhi chiusi ha serrato e nostri, che non ri-splendon più sopra la terra. Che arebbe di noi dunche fatto, mentre viveva? [14]

Per quanto riguarda il primo brano sorge il fondato dubbio che possa trattarsi non diuno schema per una poesia ma di un progetto ‘verbalizzato’ per una realizzazione scul-torea o pittorica: la spiegazione di un’allegoria; dubbio che, invece, non può sussistereper il secondo. A fugarlo è proprio l’assetto sillogistico del discorso (una premessa arti-colata in due momenti e seguita da una conseguente conclusione introdotta dall’im-mancabile dunche): che utilità potrebbe avere nella descrizione di un complesso allego-rico da rendere figurativamente? Dovendo illustrare un organismo iconografico di talgenere, a prevalere sarebbe necessariamente l’andamento narrativo, non quello ragio-nativo: il risultato finale, l’istantanea che coglie artisticamente i singoli elementi dell’al-legoria (i simboli) mentre interagiscono tra di loro non può che essere descritta e rac-contata, traendo significato dall’azione rappresentata ed eventualmente da ciò cheaccade subito prima e subito dopo il momento raffigurato (un esempio di tale anda-mento, che prevede soprattutto la descrizione di gesti, si ha per l’appunto nella prosa n.13). Viceversa, un concetto derivante da un ragionamento non può essere reso in mododiretto per immagini.1

Se dunque la composizione poetica compiva un percorso sostanzialmente inverso ri-spetto alla creazione artistica – scultorea – come la presenta lo stesso Michelangelo (nondalla superficie al centro, eliminando via via il superfluo, ma dal centro alla superficie,dando veste a uno scheletro), allora è da supporre una subalternità di partenza del-l’aspetto formale rispetto a quello contenutistico, dato che il secondo precedeva e nonaccompagnava di pari passo il primo (giusta una metodica che ricorda da vicino quelladi un futuro ammiratore di Michelangelo, anch’egli poeta autodidatta, ossia Vittorio Al-fieri; se vogliamo, pure con qualche affinità stilistica nei risultati).2 Nella realizzazione

1 Un simile rapporto fra prosa e versi riguarda l’esposizione da parte di Michelangelo del «concecto» (così è definito nel testo) dell’epitaffio 186 per Cecchino Bracci in una lettera del 1544 a Luigi del Riccio che riporta ancheil testo del componimento. In questo caso, tuttavia, considerata pure la distanza riscontrabile tra la prosa e l’epigramma, la prima è da reputare piuttosto una glossa esplicativa che un lavoro preparatorio (vedi Il carteggiodi Michelangelo, cit., iv, p. 178, n. mxix).

2 Nota è la descrizione del proprio metodo compositivo offerta dall’Alfieri nella Vita: «E qui per l’intelligenzadel lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggia-re. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficiodel tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male,difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare ilnumero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena di quel che diran-no e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riem-

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lirica, poi, Michelangelo appare con tutta evidenza concentrato nell’esaltazione dellaforza del concetto piuttosto che nell’adeguamento di quest’ultimo a un’ideale limpi-dezza espressiva. In quest’ottica, il perseguimento dell’oscurità e dell’abnormità non èfine a se stesso, ma è teso a dare risalto all’idea: il paradosso sorprendente è una sortadi iperbole concettuale con cui il gioco dei significati viene inequivocabilmente ante-posto a quello dei significanti. In ciò credo consista la distanza di fondo notoriamenterilevata dal Berni tra la poesia buonarrotiana e i clichés dei petrarchisti:

Ho visto qualche sua composizione:son ignorante, e pur direi d’avéllelette tutte nel mezzo di Platone;sì ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle:tacete unquanco, pallide vïolee liquidi cristalli e fiere snelle:e’ dice cose e voi dite parole.1

Nella contrapposizione cose-parole l’accento è posto, mi pare, non sulla specifica naturadelle «cose» dette, ma sul fatto che esse non siano «parole» vane (delle quali si fornisco-no esempi eloquenti). Verranno pure «tutte» da Platone, come sembra all’«ignorante»Berni; ma non è detto che tutte le «cose» michelangiolesche rappresentino sempre ecomunque l’essenza ideale della verità, l’idea platonica del vero. È sicuro, invece, cheBerni rinvenga in tutti i versi dell’artista cose e non parole, cioè un messaggio impor-tante e concreto, che assume un ruolo di primo piano rispetto al puro formalismo, ilquale viceversa ripropone all’infinito temi usurati. La contrapposizione (non direi pro-prio la dialettica) è sì fra res e verba, ma non oppone qui un agglomerato di forme-con-cetti ideali a una sequenza di ingannevoli apparenze sensibili, bensì due antitetiche mo-dalità espressive: una che dà rilievo al pensiero da trasmettere contro un’altra che siesercita e si focalizza sulla esteriorità del significante.2 E questo pensiero non può esse-

pio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, escrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non so-lamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungagginidel primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il do-ver successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si ritrova cer-to mai più con le fatiche posteriori» (V. Alfieri, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 19742, pp. 170-171 –parte i, epoca iv, cap. iv –).

1 F. Berni, Capitolo a fra Bastian dal Piombo, vv. 25-31, in Idem, Rime, a cura di D. Romei, Milano, Mursia, 1985,p. 184.

2 È l’amico Antonio Corsaro a parlare di «dialettica cose-parole» come «traduzione letterale di quella dialetticares-verba sulla quale si era giocata tanta riflessione estetica del platonismo rinascimentale» (A. Corsaro, Miche-langelo, il comico e la malinconia, «Studi e problemi di critica testuale», xlix, 1994, pp. 97-119: 100). All’interno dellariflessione estetica neoplatonica – alla quale, come vedremo più avanti, senz’altro risale il concetto ripreso dal Ber-ni – i due termini possono dirsi dialettici; ma nel capitolo a fra Bastian dal Piombo essi sono contrapposti con for-za polemica l’uno all’altro. Derivare, poi, dalla filiazione neoplatonica un’equivalenza tra realismo comico e veri-tà filosofica, mi sembra un’estensione azzardata, che ha come conseguenza l’escogitazione di un piano allegoricodi lettura del capitolo 267 di Michelangelo quanto mai suggestivo, ma anche condizionato (per essere coerente) aslittamenti nella decodifica del piano letterale. Mi riferisco a due punti chiave nella lettura di Corsaro, la terzinainiziale: «I’ sto rinchiuso come la midolla/da la sua scorza, qua pover e solo,/come spirto legato in un’ampolla» ei famosi vv. 25-27: «La mia allegrezz’è la maninconia,/e ’l mio riposo son questi disagi:/che chi cerca il malanno,Dio gliel dia». Per riannodarsi a Ficino, lo «spirto» del v. 3 deve avere significato fisiologico-filosofico, come quellodefinito nel De Vita (vedi il saggio cit. di Corsaro, p. 109); deve essere, cioè, «una sostanza fisica […] precisamentedefinita dalla filosofia neo-platonica come il veicolo privilegiato della trasmissione delle istanze interiori (imma-ginazione, fantasia, intuizione creativa ecc.) alla realtà intellettiva e contemplativa» (ivi, p. 110); erede, dunque, de-gli «spiriti» cavalcantiani. In realtà, lo «spirto legato in un’ampolla» di cui parla Michelangelo non è altro che uno

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re unificato in astrazioni idealizzanti e nobilitanti, ma ha natura estremamente varia,dal sublime in alto precipitando senza alcuna esitazione né impaccio in quello en bas,tra «mete di giganti» e «carogne, canterelli o cessi»; ha valore in sé, in quanto originalee arguto e complesso, ma non è immancabilmente filosofico o religioso (svariando dal-la morale alla psicologia alla politica alla satira). Insomma, nel pantheon degli auctoresmichelangioleschi accanto a Pico e a Ficino ci sono (come avviene in tutti i letterati fio-rentini del tempo) Burchiello e Pulci, senza che si debba attribuire l’esclusiva del ‘con-tenuto’ ai filosofi: i due versanti di riferimento hanno uguale dignità, a patto che si ab-bia qualcosa da dire, ed è un ‘qualcosa’ tutt’altro che uniforme. A volte i diversi livelli sisovrappongono quasi incontrollabilmente, coesistendo in una singola poesia con scar-ti improvvisi;1 a volte sembra che il rifiuto di un poetare fine a se stesso conduca a esiticomici totalmente fuori luogo e irriguardosi, ma non involontari né inconsapevoli (co-me in certi epitaffi per Cecchino Bracci o in quello per Fausta Mancini).2 L’imperativo

spirito folletto, come quello della lampada di Aladino: legare è termine tecnico della terminologia magica (vuol di-re ‘costringere con un incantesimo’, cfr. il Grande dizionario della lingua italiana, diretto da S. Battaglia [dal vol. viiisotto la direzione di G. Bárberi Squarotti], Torino, utet, 1961-2002, s.v., § 16), e avere il diavolo nell’ampolla era unmodo di dire proverbiale che significava ‘agire con capacità diaboliche’ o ‘saper indovinare tutto’ (vedi ivi, s.v. Dia-volo, tra le locuzioni elencate nel § 23). Quindi non si tratta di un fluido corporeo, ma di un’entità individuale au-tonoma, come Dathan e Abiron che animano il dialoghetto di Anton Francesco Doni intitolato appunto Gli spiri-ti folletti, da lui stesso stampato nel 1546 e aperto con queste parole: «Chi ha il diavolo nell’ampolla lavorasottilmente nelle sue faccende […]. […] io in quello che [certi spiriti] mi volavano intorno al capo, dissi l’orationedi san Cipriano et gli legai nella medaglia della mia berretta; così gli ho in casa sani et salvi, i quali, anchora chevadano fuor di quella gemma a sparvieri, e’ tornano et fanno mille bei ragionamenti» (A. Del Fante, Note su A.F. Doni. Gli Spiriti Folletti, «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere “La Colombaria”», xli,1976, pp. 171-209: 199). Quanto al celeberrimo v. 25, che può fare da motto a tante romantiche rappresentazioni diun Michelangelo cupamente tormentato dall’ansia creativa, esso non ha nulla a che fare né con l’ansia, neppurequella d’origine spirituale o filosofica, né con altre forme depressive, saturnine, melanconiche o melancoliche chesiano. «La mia allegrezz’è la maninconia» non è affatto «un marcato ossimoro», come sostiene Corsaro (nel saggiocitato a p. 113) e prima ancora Danilo Romei (D. Romei, “Bernismo” di Michelangiolo [1984], ora in Idem, Da LeoneX a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534), Manziana, Rm, Vecchiarelli, 2007, pp. 307-338: 322); non si può parlare, cioè, di «“allegrezza” malinconica» (Corsaro, Michelangelo, il comico e la malinconia,cit., p. 113), perché il verso non significa ‘sono felice (solo) quando sono triste’, ossia ‘quando soffro gioisco’: unasimile interpretazione è ipotizzabile solo isolandolo dal suo contesto. Nell’economia del componimento, e ancheconsiderando soltanto i due versi sopra citati che lo seguono, esso significa (grottescamente): ‘(sono talmente di-sperato che) quando sono allegro sono malinconico’, cioè, in altre parole, ‘il massimo di allegrezza a cui posso ar-rivare io è la malinconia’; paradosso che si ripete al verso seguente: ‘riposare per me significa trovarmi in questi(enormi) disagi’, concludendo poi con una battuta ulteriormente, sarcasticamente autodenigratoria: ‘se c’è qual-cuno che i malanni se li cerca, è giusto che Dio glieli conceda’. Insomma, io credo che avesse perfettamente ra-gione il Croce quando, a proposito di questo e di altri versi michelangioleschi celebri (e travisati), li definiva «ver-si che s’ingrandiscono nell’isolamento […]. Sono versi meno tragici di quel che da soli si atteggino in chi così liripete, perché appartengono a un componimento di grottesca e burlesca esagerazione delle proprie miserie, a ungenere di iperboli dello stravagante e del brutto allora assai gustate» (B. Croce, La lirica cinquecentesca, in Idem,Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari, Laterza, 1957, pp. 341-441: alle pp.394-403 il par. vi, dedicato a Michelangelo, da cui, a p. 396, la citazione).

1 P. es., nel componimento 54 (tredici ottave frammentarie), che non può definirisi, a rigore, rusticale, ma pre-senta sicuramente forti tratti realistici. Tuttavia, mentre nelle prime quattro stanze tale realismo non è dissimile,anche nella scelta singolare dei paragoni («Tu non se’ fatta com’un uom da sarti», v. 11, per dire che la donna nonè insensibile), dalle altre rime michelangiolesche ‘serie’, nella quinta stanza si ha un improvviso scarto verso il bas-so, con l’evocazione di funzioni fisiologiche (il bisogno impellente di mangiare, di evacuare), proseguito più avan-ti con la ricerca di un «buco […] nella pelle» (v. 60) largo a sufficienza per poter esternare tutto l’amore concepitoper lei, e con l’identificazione di se stesso con un pallone che si gonfia allorché l’immagine della donna amata pas-sa in lui attraverso gli occhi. Di nuovo uno scarto verso l’alto si ha nelle ultime due ottave, con l’evocazione di con-cetti e sintagmi caratteristici (l’«occhio san» al v. 96, il fuoco della passione che è tale da accendere anche l’acquadelle sue lacrime, e solo con quel fuoco egli può guarire).

2 Riguardo all’epigramma 184 per Cecchino Bracci e al 177 per la Mancini, giocati sul significato dei rispettivicognomi, l’insofferenza per il forzato componimento d’occasione (che traspare da tante annotazioni in prosa ri-

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di ‘dire cose’ risponde, insomma, a un’attitudine morale tradizionalmente e autorevol-mente additata: è l’indicazione oppositiva ciceroniana «rem opinor spectari oportere,non verba» (Tusculanae, 5, 11, 32), connessa d’altronde al celebre motto catoniano «remtene, verba sequentur», che nella successione cronologico-gerarchica suggerita all’ora-tore rispecchia perfettamente il sopra descritto procedimento compositivo michelan-giolesco. E in funzione critico-letteraria tale contrapposizione era già stata adottata,prima del Berni, proprio da Giovanni Pico della Mirandola, in quella famosa lettera incui aveva inteso esaltare la poesia in volgare del destinatario, Lorenzo il Magnifico: il si-gnificato ivi attribuito a res e verba è sovrapponibile, io credo, a quello riproposto nelcapitolo bernesco A fra Bastian dal Piombo. Pico, infatti, sulla scorta di una opinione dif-fusa fra i dotti («ex eruditis»), aveva individuato difetto di res (contenuto) in Petrarca, diverba (forma) in Dante; alla poesia di Lorenzo non sarebbero mancati, invece, né l’unoné l’altra:

Sunt apud vos duo praecipue celebrati poetae florentinae linguae, Franciscus Petrarcha et DantesAligerius, de quibus illud in universum sim praefatus, esse ex eruditis qui res in Francisco, verba inDante desiderent. In te qui mentem habeat et aures neutrum desideraturum, in quo non sit vide-re an res oratione, an verba sententiis magis illustrentur.1

Berni, a differenza di Pico, considera invece spregiativamente il primato dei verba e col-loca senz’altro Michelangelo nella linea di chi primeggia per le res, recuperando, quin-di, implicitamente l’antica gerarchia di Cicerone e Catone.2

A conferma – e corollario – della centralità del sillogismo nelle liriche buonarrotia-ne, e a riprova di una contrapposizione di fondo rispetto a una poesia d’impianto ‘clas-

volte a Luigi del Riccio, tese cinicamente a esaltare la ricompensa in natura che egli attende per il parto poetico)ha fruttato a futura memoria pezzi di umorismo noir che solo in quanto tali possono avere valore (laddove l’epi-taffio acquisisce spontaneamente valore burlesco, come del resto era d’uso comune: si pensi a quello In morte delcane del duca di Francesco Berni, o a quelli numerosi scritti in vita dei non compianti da Alfonso de’ Pazzi e da al-tri): «Qui son de’ Bracci, deboli a l’impresa/contr’a la morte mia per non morire;/meglio era esser de’ Piedi perfuggire/che de’ Bracci, e non far da˙llei difesa»; «In noi vive e qui giace la divina/beltà da morte anz’il suo tem-po offesa./Se con la dritta man face’ difesa,/campava. Onde nol fe’? Ch’era mancina». Del resto, la promiscuitàdel genere epigrammatico è tale che anche un testo solenne come quello scritto per dar voce alla Notte può cela-re debiti persino con la più screditata rimeria pasquinesca: vedi, in proposito, Masi, Le statue parlanti del Cavalieree altri prodigi pasquineschi fiorentini (Bandinelli, Cellini, Michelangelo), cit., pp. 253-259.

1 Cito da Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, p. 796. «Voi avetedue celebrati poeti fiorentini: Francesco Petrarca e Dante Alighieri, a proposito dei quali in genere convien pre-mettere che fra i dotti alcuni rilevano un certo difetto di contenuto in Petrarca, di forma in Dante. Chi abbia men-te ed orecchie nulla di simile rimpiangerà nei tuoi versi, in cui è difficile dire se valgano più le cose o le parole»(trad. di E. Garin; ivi, p. 797).

2 Che si tratti davvero di una sorta di ‘antipetrarchismo etico’ cui non disdice il pauperismo catoniano (pur contutta la leggerezza del caso) lo dimostra anche un’altra occorrenza nelle rime del Berni dei disprezzati stilemi pe-trarcheschi, avvicinata da Silvia Longhi ai versi per Michelangelo, ossia i vv. 46-51 del Capitolo al cardinale [Ippolito]de’ Medici: «Ma lasciate ch’io abbia anch’io denari,/non fia più pecoraio ma cittadino,/e metterò gli unquanco amano e’ guari; /com’ha fatto un non so chi mio vicino,/che veste d’oro e non più degna il panno/e dassi del mes-ser e del divino» (Berni, Rime, cit., p. 163). Dunque, mentre riconosceva in Michelangelo un proprio sodale (ope-rando nei suoi confronti, come ha scritto la Longhi, «una sorta di transfert»), nell’anonimo «divino» qui evocato(l’Aretino, sembra evidente) addita un traditore della causa, dopo che anch’egli aveva satireggiato a più riprese iliquidi cristalli e gli unquanco. I riferimenti alla Longhi attengono al suo commento alle rime del Berni in Poeti delCinquecento, i, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, a cura di G. Gorni, M. Danzi e S. Longhi, Milano-Napoli,Ricciardi, 2001, p. 800, nota a 29-31. A suggello esplicativo dei celebri versi del «famigerato capitolo» del 1534, citole parole di Danilo Romei, che sottoscrivo in toto: «rivendicando perentoriamente il primato delle res sui verba, ilBerni significava non un anacronistico (ottocentesco) realismo, bensì anzitutto la profonda serietà di un impegnoetico e di una compromissione sentimentale, che certo non faceva difetto alla poesia michelangiolesca» (Romei,‘Bernismo’ di Michelangiolo, cit., p. 311).

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sicista’, sta anche la particolare modalità di ricorso alla tradizione mitologica: essa è li-mitata, infatti, a un puro nominalismo, quasi mai estendendosi all’impiego di circo-stanze narrative. Personaggi e divinità del mito classico sono semplici pedine mute diun gioco totalmente nuovo e originale, sostanzialmente estraneo alla tradizione. Il so-le, tante volte evocato, è sì Febo (probabilmente anche per alludere al nome del miste-rioso dal Poggio),1 ma non usa infocati carri volanti e non ha mai a che fare con Icaroe Dedalo; la notte non denunzia i tenebrosi vincoli genealogici elencati dai mitografi, èprosopopea di un fenomeno astronomico più che di un’antica divinità; le allegorie so-no invenzioni inedite, con personificazioni singolari e spesso enigmatiche.2 Insomma,anche in poesia il principio ispiratore di Michelangelo sembra essere quello arguta-mente formulato in uno dei più celebri fra i suoi motti sciorinati da Vasari (motto nelquale, peraltro, si riaffacciano le res): «Chi va dietro a altri, mai non gli passa innanzi; echi non sa far bene da sé, non può servirsi bene delle cose d’altri».3

Uno dei temi più cari al Buonarroti poeta riguarda un aspetto evidentemente crucia-le per un artista-letterato: quello della visione, dello sguardo e degli occhi. Nell’ambitodi questo tema rientra uno dei testi più oscuri di tutta la raccolta, il sibillino frammen-to in terzine numerato 35 da Girardi. A causa della sua sostanziale incompletezza e in-conditezza,4 oltre che della presenza di un enigmatico hapax lessicale («vebre» al v. 12),esso si è prestato nel corso del tempo alle acrobazie interpretative più azzardate. Tut-tavia il testo di mano dell’artista non ha affatto un aspetto tormentato, essendo privo direvisioni, di versi alternativi, di cancellature, di varianti in genere: se non fosse per le ri-me incatenate, quei quattordici versi ordinatamente incolonnati a prima vista sembre-rebbero quelli di un sonetto nella sua veste definitiva. Dunque anche in questo caso èlecito se non altro presupporre una certa coerenza interna, e attenendosi al principiosopra enunciato, riguardo l’origine della poesia michelangiolesca dalla versificazione diun «concetto» rigorosamente logico, forse si possono trovare alcuni appigli sicuri al no-stro esercizio di parafrasi. Un metodo d’indagine che in questa circostanza può risulta-re utile consiste nel considerare l’eziologia ‘materiale’ del componimento. Quest’ulti-mo si trova sul retro di un foglio, sul recto del quale è stato scritto un sonetto, il n. 34.5La ricognizione diretta del manoscritto permette di stabilire in quale ordine i due testifurono vergati: di sicuro la stesura del sonetto precedette quella delle terzine, perchéinizialmente il foglio fu usato per la bella copia del 34, quindi, a causa di un ripensa-mento, il primo verso di quest’ultino fu cancellato con un tratto di penna e riscritto piùin alto; a questo punto il retro della carta era divenuto disponibile per altre scritture, e

1 Cfr. Romei, ‘Bernismo’ di Michelangiolo, cit., p. 329, nota 80.2 Analogamente, in campo artistico Michelangelo rivisita sempre in modo originale temi mitologici e simbo-

logie allegoriche. Si pensi al bassorilievo della cosiddetta Battaglia di Centauri e Lapiti (tema suggerito a Michelan-gelo, stando al Condivi, da Poliziano): la resa figurativa è un groviglio di corpi che è molto difficile giustificare inbase al presunto tema (vedi in merito le considerazioni di Gorni, Temi platonici in Michelangelo, cit., pp. 376-379).Si pensi anche alle statue della Sagrestia Nuova di San Lorenzo, tra cui la stessa Notte: l’insieme è un apparato al-legorico piuttosto laico per una cappella mortuaria, ma siamo più vicini al territorio degli iconologi e degli idea-tori di imprese ed emblemi, che a quello di un erudito classicista. Il Giorno e la Notte, poi, diventano nelle poesiefin da subito personaggi parlanti, soprattutto la seconda, che oltre che nella prosa n. 14 si esprime nel famoso epi-gramma politico n. 247.

3 G. Vasari, La vita di Michelangelo nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi, Milano-Napoli, Ric-ciardi, 1962, i, p. 128. E vedi il relativo commento di Paola Barocchi, ivi, iv, pp. 2098-2111.

4 Eloquente il commento di Michelangelo Buonarroti il Giovane: «Parla della figura dell’occhio. Pare che nonabbia il principio, perché non ci s’intende, né fine» (ed. Guasti, cit., p. 312, nota 1).

5 Ms. dell’Archivio Buonarroti, XIII (autografo), cc. 17r-18r: a c. 17r il n. 34 (con varianti annotate alle cc. 17v e18r), a c. 17v il n. 35.

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Michelangelo vi stilò le terzine del n. 35.1 Ebbene, i due testi appaiono accomunati an-che da una palmare consecutività speculativa: sono riflessioni sullo stesso tema attuateda due punti di vista differenti, uno eminentemente spirituale (nel 34), l’altro fisico-fi-siologico (nel 35).2 Partiamo dunque dal sonetto:

La vita del mie amor non è il cor mioc’amor di quel ch’i’ t’amo è senza core;dov’è cosa mortal, piena d’errore,esser non può già ma’, né pensier rio.

15 Amor, nel dipartir l’alma da˙dDio,me fe’ san occhio e te luc’e splendore;né può non rivederlo in quel che moredi te, per nostro mal, mie gran desio.Come dal foco el caldo, esser diviso

10 non può dal bell’etterno ogni mie stimach’exalta, ond’ella vien, chi più ’l somiglia.Poi che negli occhi ha’ tutto ’l paradiso,per ritornar là dov’i’ t’ama’ prima,ricorro ardendo sott’alle tuo ciglia.

Contini notò come la variante introdotta al primo verso (La vita del mie amor al postodi La casa mie d’amor) generi dissonanza (se non vera e propria incongruenza) col v. 3,nel quale si fa riferimento al cuore come a un luogo in cui l’amore non può trovarsi,non a un organo per esso non vitale.3 Tale variante sembra essere stata indotta dal v.2, in cui invece si dice che l’amore è «senza core», cioè che è privo di un requisito esi-stenziale, non di un ‘contenitore’: dunque una certa dissonanza sussisteva anche nellaversione primitiva, quella con casa nell’incipit. Nell’una e nell’altra versione occorre in-fatti integrare significati impliciti: se si accetta casa, bisogna intendere «è senza core»come ‘esiste fuori dal mio cuore’; se si legge vita, allora s’intende che l’amore ‘non ne-cessita del mio cuore per vivere’ e che (vv. 3-4) ‘non può esistere laddove sia una cosamortale piena d’errore e di pensieri abietti’. Comunque sia, la variante iniziale non in-ficia la logica complessiva del componimento; la successione delle quartine e delle ter-zine scandisce i passaggi di un ragionamento con un obiettivo sostanziale molto chia-ro: nel sonetto 34 Michelangelo vuole spiegare perché non può fare a meno di guardarenegli occhi la persona amata; questa poesia è, insomma, la giustificazione spiritualedell’urgenza dello sguardo amoroso. Ai vv. 1-6 sono enunciate le premesse, cui seguo-no le relative inevitabili conseguenze (scandite dall’anafora: «né può», v. 7; «non può»,

1 Le grafie e gli inchiostri sono diversi (a differenza di quanto asserisce Girardi: «nella stessa grafia e con lo stes-so inchiostro», a p. 188), quindi è possibile che appartengano a momenti distanti nel tempo; quanto, però, è arduostabilirlo, anche perché Michelangelo usava una calligrafia molto formalizzata: in questi casi, realizzazioni grafi-che anche alquanto diverse fra loro potevano benissimo essere contemporanee, proprio perché erano frutto del-l’imitazione di modelli scrittorî prestabiliti. Sulla grafia michelangiolesca resta basilare lo studio di L. BardeschiCiulich, Costanza ed evoluzione nella grafia di Michelangelo, «Studi di grammatica italiana», iii, 1973, pp. 5-138.

2 Già Frey reputò le terzine una continuazione («Fortsetzung») del sonetto (Die Dicthungen des MichelagnioloBuonarroti, cit., p. 381), ma la sua osservazione rimase lettera morta presso i critici. Tale comunanza ‘eziologica’non rappresenta, peraltro, un caso isolato: la si riscontra, p. es., anche nella coppia 37-38 e nel terzetto 42-43-44, entrambe le volte con coesistenza di testi compiuti e frammentari.

3 G. Contini, recensione all’ed. Girardi, «Lingua Nostra», xxi, 1960, pp. 68-72, poi in Idem, Frammenti di filolo-gia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, i,pp. 667-677: 672. La Fanelli risolve la contraddizione decidendo di basarsi per la parafrasi sulla «lezione originaria»e non su quella messa a testo, peraltro citandola malamente come «La casa del mie amor» (vedi ed. Fanelli, cit., p.107, nota a 1-4).

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v. 10), con due motivazioni (nelle terzine) che circoscrivono progressivamente l’ogget-to dello sguardo:

Dato che il mio amore nei tuoi confronti rifugge dalla materia, e dato che io sono stato creato co-me colui che guarda con purezza («san occhio»)1 e tu come luce splendente, io non posso fare ameno di rivedere Dio nel tuo corpo, sventuratamente mortale; inoltre, poiché la mia facoltà di am-mirare non può stare separata dalla bellezza eterna (come il calore è indissolubilmente legato alfuoco), e poiché nei tuoi occhi c’è tutto il Paradiso, è a loro che devo rivolgermi, per tornare al-l’origine del mio amore [cioè, appunto, al Paradiso stesso, dove ti amai ab initio].

In altri termini: la purezza dell’amore è condizione per la purezza dello sguardo; la luceè condizione necessaria per la vista: esiste, dunque, un destino originario di vincolantereciprocità tra la creatura-occhio e la creatura-luce; e la luce emanata da quest’ultima(impronta della bellezza eterna) si concentra a sua volta soprattutto nei suoi occhi. Nonsi tratta di indebite sintesi e sottilizzazioni di chi scrive, dato che il tema degli occhi e del-lo sguardo è, come si è detto, tra i più frequentati da Michelangelo (in quanto motivocentrale della riflessione neoplatonica sull’amore),2 e presenta significative ricorrenze dialcuni specifici aspetti qui indicati: la purezza dello sguardo (113; 116; 141, v. 2; 164; 166, vv.5-6), l’esigenza imprescindibile di guardare gli occhi di chi si ama (28; 91), l’essere unacreatura-occhio (fino al coerente esplicito esito estremo di 166, v. 13: «fa’ del mie corpotutto un occhio solo») con la vocazione innata a guardare la bellezza (39, vv. 9-11; 97, vv.12-14; 107, v. 1; 117, v. 5; 131; 164; 173), gli occhi-splendore celestiale della persona amata (30;81; 107; 163).3 Sono temi, del resto, che ricorrono spesso anche nei Rerum vulgarium fragmenta, caratterizzando, fra l’altro, una nota triade di canzoni (71-72-73), le cosiddette«cantilene oculorum» (oggetto di lezioni varchiane all’Accademia Fiorentina),4 partico-

1 Questo ricorrente sintagma (Residori rimanda a 54, v. 96 – vedi infatti qui sopra, nota 1 a p. 183 – e a 141, v. 2)va posto in relazione con l’altro analogo «intelletto sano» (in 164, v. 9 e in 166, v. 5), a sua volta derivato dalla cele-bre apostrofe dantesca «O voi ch’avete li ’ntelletti sani» (Inf., ix, v. 61), ma forse anche memore del riutilizzo fici-niano: «E però ciascuno che è d’intellecto sano si debba guardare che l’amore, certamente nome divino, alle stol-te perturbationi scioccamente non transferisca» (M. Ficino, El libro dell’amore, a cura di S. Niccoli, Firenze,Olschki, 1987, p. 17 – i, iv, 24 –). Si cita la versione in volgare del commento platonico di Ficino perché, pur am-mettendo che Michelangelo possedesse un’infarinatura di latino (ma cfr. in proposito più avanti, nota 2 a p. 191),è davvero difficile pensare che padroneggiasse appieno quello del filosofo figlinese, mentre la profonda cono-scenza del Libro dell’amore è accertata dalle frequentissime reminiscenze nelle Rime. Ciò detto, non è certo neces-sario considerare la data della stampa di Neri Dortelata, il 1544, come terminus post quem per la lettura del trattatoda parte dell’artista, come invece afferma Danilo Romei (‘Bernismo’ di Michelangiolo, cit., p. 312): i numerosi codi-ci dell’opera sicuramente anteriori all’editio princeps dimostrano una diffusione manoscritta che in più di mezzosecolo non dovette mancare di raggiungere uno che dalla cerchia laurenziana non fu certo distante (vedi in pro-posito l’elenco e lo stemma approntati da Sandra Niccoli in Ficino, El libro dell’amore, cit., pp. ix e lix).

2 «Ma che cercano costoro quando scambievolmente s’amano? Cercano la pulchritudine: perché l’amore è de-siderio di fruire pulchritudine, cioè bellezza. La Bellezza è uno certo splendore che l’animo humano ad sé rapi-sce. La bellezza del corpo non è altro che splendore nell’ornamento di colori e linee […]. Quella luce del corponon è conosciuta dagli orecchi, naso, gusto o tacto, ma dall’occhio. Se l’occhio solo la conosce, solo la fruisce, so-lo adunque l’occhio fruisce la corporale bellezza, e essendo l’amore desiderio di fruire bellezza e questa cono-scendosi dagli occhi soli, l’amatore del corpo è solo del vedere contento, sì che la libidine del toccare non è parted’amore né affecto d’amante, ma spetie di lascivia e perturbatione d’uomo servile […] La figura dell’uomo, la qua-le spesse volte per la interiore bontà felicemente concessa da Dio è nello aspetto bellissima, per gli occhi di colo-ro che la riguardano, nel loro animo trasfonde il raggio del suo splendore. Per questa scintilla lo animo, come perun certo amo tirato, inverso del tirante si diriza» (Ficino, El libro dell’amore, cit., p. 44 – ii, ix, 1-5 –).

3 Altri componimenti implicati a vario titolo nel tema degli occhi e dello sguardo, il proprio e quello dell’esse-re amato, sono i nn. 8, v. 10; 24; 40, v. 2; 42; 44; 89; 105; 114; 115; 146; 165; 166; 174; 229; 234; 255; 256, v. 15; 258; 301.

4 La definizione delle tre canzoni si trova in una postilla di Petrarca nel codice degli abbozzi (Vat. lat. 3196) riferita a un verso enumerativo del Triumphus Cupidinis (iii, v. 114) di cui il poeta evidenzia l’analogia strutturalecon il v. 37 della sua canzone 71. Per le otto lezioni sulle canzoni degli occhi che il Varchi tenne durante il suo con-solato nel 1545 vedi U. Pirotti, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo, Firenze, Olschki, 1971, p. 29.

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larmente elaborate e concettose e quindi molto ‘michelangiolesche’. Non stupirà, allo-ra, ritrovare al v. 8 del sonetto 34 un sintagma di rvf 71, v. 18 (anch’esso in chiusa di en-decasillabo e accompagnato dalle stesse rime mio e rio): «gran desio», ricorrente pure al-l’interno del v. 59 della canzone 72.

Quest’ultima lirica petrarchesca introduce all’altro genere di approccio nella rifles-sione michelangiolesca sul tema dello sguardo attuata nel dittico 34-35, quello fisico-fisiologico delle terzine sull’occhio.1 Vi si trova, infatti, ai vv. 49-51, una singolare no-tazione coloristica (peraltro non inconsueta nel Canzoniere), il cui potenziale ‘realismo’(almeno per gli standards del trecentista) è in qualche modo arginato da un’ellitticaconcisione descrittiva: «[se la dolcezza provata dagli amanti fortunati fosse tutta con-centrata in un solo luogo, sarebbe nulla a confronto di ciò che provo io] quando voialcuna volta/soavemente tra ’l bel nero e ’l bianco/volgete il lume in cui Amor si tra-stulla».2 Lo sguardo di Laura è l’epifania di una luce amorosa che si volge risaltandonel contrasto di due colori antitetici: il poeta evoca così precisi particolari fisici (la pu-pilla e la sclera) semplicemente con un’affascinante opposizione cromatica.3 È quantoper l’appunto avviene anche, con lo stesso ellittico cromatismo, nelle terzine 35 di Mi-chelangelo, in cui, ai vv. 10 e 14, il discorso si concentra sui movimenti e i colori del-l’occhio, che però in questo caso è il proprio, il «san occhio», come suggeriscono al-cuni indizi:4

El ciglio col color non fere el voltocol suo contrar, ché l’occhio non ha˙ppena5da l’uno a l’altro stremo ov’egli è volto.L’occhio, che sotto intorno ad agio mena,

15 picciola parte di gran palla scuopre,che men rilieva suo vista serena,e manco sale e scende quand’el copre;onde più corte son le suo palpebre,che manco grinze fan quando l’adopre.6

10 El bianco bianco, el ner più che funebre,s’esser può, el giallo po’ più leonino,

1 Si noti che anche Ficino dedica un intero capitolo alla fisiologia dell’occhio e agli effetti ‘patologici’ dellosguardo («Che l’amore volgare è mal d’occhio», laddove per «mal d’occhio» s’intende ‘malocchio, maleficio’): Ficino,El libro dell’amore, cit., pp. 189-194 (vii, iv).

2 La stessa concisa espressione, con affine coronamento aggettivale, è presente nella canzone unissonans «Verdipanni, sanguigni, oscuri o persi»: «[…] io le luci apersi/nel bel nero e nel biancho» (rvf 29, vv. 22-23), nel sonetto«Non d’atra et tempestosa onda marina»: «[…] quel raggio altero/del bel dolce soave bianco et nero,/in che i suoistrali Amor dora et raffina» (ivi, 151, vv. 6-8), e nella nona estravagante (la ballata «L’amorose faville e ’l dolce lume»,vv. 7-9): «[…] Amor dal bel viso lucente/si fa mia scorta et infallibil segno,/mostrandose nel bel nero et nel bianco»(F. Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, introd. di M. Santagata,Milano, Mondadori, 1996, p. 685). Marco Santagata nel suo commento ricorda Cino da Pistoia, «Dante, quandoper caso», v. 12: «Ma prima che m’uccida il nero e il bianco».

3 Peraltro, sono particolari non individualizzanti, generiche sineddochi che possono riferirsi a qualsiasi occhioumano, maschile o femminile che sia.

4 Analogo passaggio dall’oggettivo al soggettivo (o viceversa) in testi consecutivi si riscontra nella già citatacoppia 37-38 (frammenti accomunati anch’essi dalla medesima origine materiale) e nei sonetti notturni, nell’ulti-mo dei quali (il 104) si propone appunto l’io dell’autore (su di essi mi permetto di rinviare a Masi, La poesia not-turna di Michelangelo (e gli animali vili), in corso di pubblicazione su «Studi Rinascimentali»).

5 Il raddoppiamento fonosintattico, verificato sul ms., era sfuggito alla trascrizione diplomatica di Girardi; Freyriporta invece (non correttamente) «a penna».

6 A testo: «larupre», con postilla di mano di Buonarroti il Giovane: «l’adopre forse». Girardi ha seguito la le-zione scelta da Guasti e Frey («l’aopre»), ma quest’ultima forma non si riscontra mai nelle rime michelangiole-sche, mentre è attestato un «adopra» (44, v. 5). Si propone, quindi, di accogliere la congettura del pronipote.

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che scala fa dall’una all’altra vebre.1Pur tocchi sotto e sopra el suo confino,e ’l giallo e ’l nero el bianco non circundi.

Le diverse parafrasi proposte della prima terzina (nell’ordine: Guasti, Girardi, Sum-mers, Residori, Fanelli) paiono francamente insoddisfacenti:

Il ciglio coll’ombra sua non impedisce il mio vedere quando si contrae, ma l’occhio è libero dal-l’una all’altra estremità dell’occhiaia in cui si gira.2Il ciglio contraendosi non copre d’ombra l’occhio tanto da impedirgli di vedere; sì che l’occhio nonsoffre limitazione lungo l’arco sul quale si volge, dall’una all’altra estremità dell’occhiaia.3The colorless membrane of the eye does not hinder sight by closing, so that the eye is not imped-ed as it turns from side to side.4Il sopracciglio non ha bisogno di imporsi alla vista (di chi guarda) con il suo colore in contrasto,giacché l’occhio in ogni caso non ha difficoltà (a vederlo) dall’una all’altra estremità tra cui è trac-ciato il suo arco.5Il ciglio, contraendosi, non impedisce all’occhio di vedere, perché non ha difficoltà a muoversi lungo l’arco della sua orbita.6

Quanto alla lettura di Guasti e Girardi, a chi potrebbe venire in mente che il «ciglio» (fos-sero pure, per sineddoche, tutte le ciglia) impedisse la vista con la sua ombra? Peraltro,come nota Residori, «color» per ‘ombra’ appare quanto meno stravagante. La Fanellielimina l’ombra, ma non spiega «col color»; inoltre: come si fa a contrarre un ciglio (ole ciglia)? in che modo queste contrazioni potrebbero mai porsi in relazione con i mo-vimenti del bulbo oculare? Sulle idee di Summers mi soffermerò più avanti. Residori,da parte sua, propone una vera e propria rivoluzione copernicana nell’interpretazione,partendo dal presupposto che Michelangelo volesse qui fornire «un precetto circa il co-lore da usare per dipingere il sopracciglio (analogo a quelli, relativi all’occhio, dei vv. 10sgg.)»:7 in pratica l’esegeta sviluppa l’indicazione di Paola Mastrocola, che peraltro nonviene qui citata: «È una sorta di lezione su come dipingere l’occhio»8 (anche su questodovrò tornare oltre). Si può pure dare «a ciglio il senso frequente di ‘sopracciglio’»;9 tut-tavia, piuttosto accidentata risulta la costruzione che si richiede per la spiegazione pro-posta («con cautela»): «col color […] col suo contrar» starebbe per ‘con il suo colore incontrasto’, e «l’occhio non ha˙ppena» starebbe per ‘l’occhio [dell’osservatore] in ognicaso non ha difficoltà (a vederlo) [il sopracciglio]’ (con ellissi alquanto ardita, che ab-braccia in un sol colpo verbo e pronome). Oltre tutto, alla fine dei conti non risulta mol-to chiaro quale «precetto» Michelangelo avrebbe qui dispensato: forse che, in qualsiasimodo lo si dipinga, il sopracciglio (o le ciglia: anch’esse formano un arco che collega idue estremi dell’occhio) si vede comunque, anche se non ha un colore contrastante(non si sa bene con cosa, forse con l’incarnato circostante)? Non sembra granché: forsel’unica indicazione concreta che il pittore apprendista potrebbe ricavare da questi versiè che non è necessario usare un colore che faccia risaltare troppo il sopracciglio (o le ci-

1 Misteriosa parola inattestata nei lessici, e di inequivocabile lettura nel manoscritto, se vebre è in qualche rela-zione con vibrissa, che il Lexicon del Forcellini definisce «pilus in naribus homini» (per Guasti: «fibrilla»), sarà forsesinonimo di ‘ciglio’. Ancora sulla «vebre» più avanti nel testo.

2 Ed. Guasti, cit., p. 312. 3 Ed. Girardi, cit., p. 188.4 J. D. Summers, Michelangelo and the Language of Art, Princeton, Princeton University Press, 1981, p. 415.5 Ed. Residori, cit., p. 60, nota a 1-3. 6 Ed. Fanelli, cit., p. 257.7 Ibidem. 8 Ed. Mastrocola, cit., p. 97, cappello al n. 35.9 Ed. Residori, cit., p. 60, nota a 1-3 (anche per le citazioni subito seguenti).

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glia). Non si può immaginare, credo, nulla di più generico (molte più parole che cose…)o di più involuto.

Ritengo invece si debba partire dall’idea che «ciglio» qui sia sineddoche per ‘palpe-bra’: traslato meno comune di quello di ciglio per ‘occhio’,1 ma parimenti legittimo erichiesto dal senso del discorso nel suo insieme, in particolare dal v. 7: «quand’el copre»;‘quando [il ciglio] copre l’occhio’, infatti, non può che significare ‘quando [la palpebra]copre l’occhio’, dato che il ciglio non può coprire alcunché se non in quanto parte del-la palpebra a cui è solidale, ed è solo per il tramite di essa che «sale e scende» (ibidem).Inoltre, occorre tenere presente che il ciglio-palpebra è protagonista di tutta la primaparte (funzionale) del componimento (vv. 1-9), tornando in scena anche sullo sfondodella seconda (descrittiva), laddove in primo piano affiorano i colori dell’occhio, ossiadi ciò che è visibile, appunto, entro i confini delle palpebre (vv. 10-14); è la palpebra,dunque, a trovarsi al centro di questi versi, con i suoi movimenti e il suo rapporto conl’occhio che essa protegge. In particolare, riguardo alla prima terzina, soggetto di «èvolto» al v. 3 (richiamato da «egli») non andrà considerato, come fanno tutti i com-mentatori (salvo Residori, che però ribalta il punto di vista), l’«occhio» del v. 2, ma ancora «El ciglio» del v. 1, cioè, appunto, la palpebra.2 Ne deriva l’interpretazione se-guente, che comprende anche quella delle altre terzine per dare subito un’idea com-plessiva del significato del testo:

La palpebra colorata [‘non trasparente’]3 non offende la vista4 col suo contrario [‘la cecità’],5 per-ché l’occhio non subisce danni dall’una all’altra estremità dove essa si volge. L’occhio, che si muoveagevolmente sotto (di essa), mette allo scoperto solo una piccola parte della grande sfera (del bul-bo), la quale (per il resto) è meno importante ai fini della chiarezza della sua vista, e quando (la pal-pebra) copre (e scopre) l’occhio, sale e scende per un tratto più breve [di quanto sarebbe se la partescoperta del bulbo e necessaria per la vista fosse maggiore]; perciò le sue palpebre sono più corte,in modo da fare meno grinze quando si adoperano. Il bianco [‘la sclera’] (sia) bianco, il nero [‘la pu-pilla’], se si può, più che funerario, il giallo [‘l’iride’], poi, più che fulvo; il quale (giallo) collega l’una

1 Per un esempio di quest’ultimo vedi Poliziano, Stanze, i, 38, v. 1: «La fera sparve via dalle suo ciglia», e i nu-merosissimi esempi, da Iacopone in poi, riportati nel Grande dizionario della lingua italiana, cit., s.v. Ciglio, § 2.

2 Il significato che si ricava individuando invece nell’«occhio» il soggetto di «è volto» appare poco conseguen-te: se la vista non è impedita dal «ciglio col color […] col suo contrar» (vv. 1-2), in che modo ciò è causato dal fattoche l’occhio possa volgersi da un’estremità all’altra dell’occhiaia? Pur volgendosi l’occhio e roteando a piacimen-to, la chiusura della palpebra impedirà sempre e comunque la vista (mentre le ciglia, per non parlare delle so-pracciglia, con tutte le contrazioni possibili non possono incidere sulla visione). O, se accettiamo la parafrasi diGuasti («[…] ma l’occhio è libero […]»), in che modo le due circostanze si contrappongono? Inoltre, consideran-do «occhio» soggetto di «è volto», si determina una immotivata ripetizione ravvicinata dello stesso concetto,espresso (inequivocabilmente) anche al v. 4.

3 Ritengo che l’espressione «col color» non vada intesa come complemento di mezzo rispetto al verbo (fere, ‘fe-risce’): tale funzione è svolta piuttosto da «col suo contrar» (su cui vedi la nota 5 qui sotto). La duplicazione dellostesso complemento con la stessa preposizione sembrerebbe incongrua, mentre l’uso di col nel primo caso credosia dovuto semplicemente al fatto che, per ragioni metriche, non poteva essere usato l’aggettivo colorato. La spe-cificazione parrebbe sottintendere una implicita contrapposizione rispetto alla membrana trasparente che ricoprela parte anteriore dell’occhio, cioè la cornea, per la quale vedi quanto detto subito di seguito nel testo.

4 Volto per ‘vista, sguardo’ è dantesco e petrarchesco (vedi il Grande dizionario della lingua italiana, cit., s.v., § 7).5 Resta aperta la possibilità di interpretare, riavvicinandoci a Guasti, ‘non offende la vista contraendosi’: ma

paiono fondate le riserve sulla spiegazione di «contrar come verbo (‘contrarre’, molto raro a quest’epoca) anzichécome aggettivo (‘contrario’)» avanzate da Residori (ed. cit., p. 60, nota a 1-3). A cui si può aggiungere un esempioin cui Michelangelo usa appunto l’espressione il suo contrario con una funzione e una disposizione sintattica moltosimile al caso in esame, tanto da suggerire il significato qui indicato tra parentesi quadre (il contrario della vista èla cecità): «Se lungo spazio del trist’uso e folle/più temp’il suo contrario a purgar chiede» (297, vv. 1-2), ossia: ‘seil lungo durare della scellerata abitudine al peccato richiede, per essere purificata, una più lunga permanenza nelsuo contrario (cioè nella virtù)’.

Lo sguardo di Michelangelo, poeta del «dunque»: proposte esegetiche 191

all’altra palpebra [cioè la palpebra superiore a quella inferiore].1 (Il giallo) arrivi appena a toccare,sopra e sotto, il suo confine [‘le palpebre’], così che il bianco non circondi il giallo e il nero.

La descrizione funzionale dell’occhio, che ne espone gli aspetti di provvidenziale ade-guatezza agli scopi cui l’organo è preposto, ha richiamato alla mente di David Summersl’elogio del corpo umano, e in particolare quello dell’occhio, che si legge nel ii libro delDe natura deorum di Cicerone. Ammettiamo pure che il Buonarroti in qualche modo diquell’opera latina avesse avuto sentore (ma la questione è tutt’altro che pacifica, e do-vremo tornarci):2 lo studioso, però, ha utilizzato in modo sicuramente non perspicuol’esaltazione ciceroniana dell’occhio, interpretando i vv. 1-2 delle terzine michelangiole-sche sulla base delle prime righe della descrizione del De natura deorum: «Quae primumoculos membranis tenuissimis vestivit et saepsit; quas primum perlucidas fecit ut per eascerni posset, firmas autem ut continerentur» (De natura deorum, ii, 57 – 142 –), da cui laparafrasi citata, «The colorless membrane of the eye does not hinder sight by closing»:3non si capisce dove, in questi versi, Michelangelo direbbe che l’occhio è rivestito da unamembrana trasparente (anche ammesso che «col color non fere el volto» voglia dire ‘ètrasparente’, soggetto è «El ciglio»; e se «col suo contrar» significa ‘by closing’, com’è chequesta membrana trasparente, che altrove Summers dice essere la cornea, può chiuder-si?). Utile sembra risultare, invece, il confronto con le righe subito seguenti del De natu-ra deorum, solo in parte citate da Summers, riguardanti il libero movimento del bulbooculare e soprattutto il provvidenziale funzionamento delle palpebre:

Lubricos oculos fecit et mobiles, ut et declinarent si quid noceret et aspectum quo vellent facile con-verterent; […] palpebraeque, que sunt tegmenta oculorum, mollissime tactu ne laederent aciem, ap-tissime factae et ad claudendas pupulas ne quid incideret et ad aperiendas, idque providit ut iden-tidem fieri posset cum maxima celeritate.

L’osservazione che la palpebra non danneggia la pupilla (ma acies significa anche ‘vista’,appunto il «volto» michelangiolesco) nel suo aprirsi e chiudersi giustifica piuttosto, mipare, la parafrasi che qui si è proposta; mentre l’iniziale accenno ciceroniano alla mo-bilità dell’occhio corrisponde al v. 4 delle terzine michelangiolesche.

Un caso in cui Michelangelo attinse molto probabilmente da un testo in latino c’è emette conto citarlo ora perché riguarda giustappunto la fisiopatologia dell’occhio e può

1 Se, come detto, «vebre» equivale a ‘ciglio’ (vedi sopra, nota 1 a p. 189), sarà ancora sineddoche per ‘palpebra’:del resto in un’immagine frontale dell’occhio con le palpebre aperte, è la linea delle palpebre stesse ad essere tan-gente rispetto al cerchio dell’iride (come è specificato nei due versi seguenti).

2 In passato si dava per scontato che Michelangelo non conoscesse il latino (di «cultura scarsa di fondamentiumanistici» parlò Nencioni, La lingua di Michelangelo, cit., p. 90; l’«educazione di Michelangelo non previde l’ap-prendimento del latino né ebbe, in genere, un’impronta umanistica», rincarò, fra gli altri, Martelli, Esegesi delmadrigale 118 di Michelangelo, cit., p. 364); ma come possiamo noi critici rinunciare a individuare reminiscenze piùo meno peregrine nelle opere di un artista così grande e inventivo (che peraltro rivendicava con forza la propriaoriginalità e renitenza all’imitazione pedissequa, come abbiamo visto)? D’altronde, una via traversa che permet-tesse a certi concetti eruditi di giungere al suo orecchio si può sempre trovare; oppure ci si può aggrappare a unpaio di indizi: o il puerile noviziato presso il maestro di «grammatica» Francesco da Urbino, ricordato da Condivi(e additato con convinzione da Romei, ‘Bernismo’ di Michelangiolo, cit., p. 312, nota 28), oppure – ma la consisten-za si fa davvero molto scarsa – la senile intenzione manifestata dal Michelangelo-personaggio di Donato Gian-notti, la quale potrebbe fare di lui un latinista autodidatta della terza età (vedi in proposito Summers, Michelange-lo and the Language of Art, cit., p. 463, nota 23). Di fatto, pochissime certezze si hanno al riguardo: su una di questemi soffermo poco più oltre nel testo.

3 Summers, Michelangelo and the Language of Art, cit., p. 415. Più avanti è ribadita tale parafrasi, e la sua dipen-denza dal De natura deorum: «In analogy to this text, Michelangelo’s first tercet may be read to say that the eye hasa colorless membrane (the cornea) which does not hinder sight by closing (that is, the eye always sees when it isopen)» (ivi, p. 416).

192 Giorgio Masi

contribuire a spiegare, se non il senso, almeno l’origine di quella misteriosa «vebre» delv. 12: si tratta di una serie di annotazioni autografe che si trovano proprio nel codice Vat.lat. 3211 (contenente le poesie scritte o riviste a Roma), pubblicate fra i suoi Ricordi coln. cccx,1 nelle quali si leggono le ricette di farmaci adatti alle diverse malattie e lesionidell’occhio; evidenti i motivi dell’interesse oftalmologico di uno scultore, facilmentesoggetto all’infortunistica concernente l’apparato visivo. La fonte di molte delle notizieregistrate dall’artista è stata individuata in un Breviarium magistri Petri Yspani de egritu-dinibus oculorum et curis, ed è verosimile che egli non attingesse a un volgarizzamento,in quanto nel ricordo michelangiolesco compaiono strafalcioni dovuti probabilmenteproprio a fraintendimenti del testo latino (forse anche della grafia). Tra questi bisogne-rà annoverare pure alcuni termini che è vano cercare nei lessici, esattamente come ilnostro «vebre» (anch’esso, peraltro, quasi certamente relativo all’anatomia oculare): «ar-teria tresente», «vena fiduce».2 Ulteriori indagini sarebbero opportune, in ogni caso, tra itermini specialistici dei trattati di anatomia e di medicina dei quali, stando ancora aSummers, una qualche pratica indiretta Michelangelo potrebbe avere avuto.3

La mia parafrasi diverge da quelle dei precedenti commentatori anche nello spiegareil v. 6: «che men rilieva suo vista serena».4 A mio parere, il che relativo si riferisce a «granpalla» (la sfera del bulbo in tutta la sua grandezza) e l’osservazione formulata in questoverso (‘[la maggior parte del bulbo] è meno importante ai fini della chiarezza della vi-sta’) è coerente con quanto viene detto ai vv. 5 e 6-8: dell’occhio resta scoperta una mi-nima porzione, per l’appunto solo quella indispensabile alla vista.

Vari problemi solleva pure la seconda sezione del componimento, in cui si passa bruscamente al cromatismo oculare, ma non senza un implicito legame con ciò cheprecede: ci si riferisce, infatti, proprio a quanto indicato nei vv. 5-6, ossia alla parte del-l’occhio che le palpebre lasciano scoperta, l’unica visibile dall’esterno, insomma. Neitre elementi cromaticamente distinguibili nella porzione esterna del bulbo oculare (pu-pilla, iride, sclera), una volta definite – petrarchescamente – «nero» e «bianco» rispetti-

1 Buonarroti, I ricordi, a cura di L. Bardeschi Ciulich e P. Barocchi, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 363-367. Sul ms.Vaticano Latino 3211 vedi la Nota filologica di Girardi (ed. cit., pp. 483-485) e vedi sopra, nota 1 a p. 177; il ricordo cccxsi trova verso la fine del manoscritto, alle cc. 102v-103r.

2 Il confronto col testo del ricettario latino citato dalle curatrici nelle note evidenzia gli errori di interpretazio-ne: «Alla pustola dell’ochio […] è de sangue che disciende dalla chongiuntiva tunica, ed è cosa d’arteria tresente»– «Pustula in oculo est sanguis qui ad coniunctivam tunicam descendit et a suis arteriis cum arterie ipse crepue-rint»; «Alchuna volta si fa l’aperatione vel perforatione per percossa primitiva, la quale nulla fia. Chontra primiti-va chagione fae flobotomia della vene lacrimale e poi della vena fiduce» – «Perforatio autem fit quandoque perprimitivam causam ex percussione. Fit autem a natura cuius nulla est cura. Fiat contra primitivam causam flebotomia de vena lacrimali deinde fiat flebotomia de vena frontis» (Buonarroti, I ricordi, cit., pp. 366 e 368, no-te 9 e 10, corsivi miei). Nel secondo caso sembrerebbe esserci stata anche la perdita di una porzione di testo («Fitautem a natura»), che compromette il senso della versione michelangiolesca. Non pochi altri termini del ricordosuscitano perplessità.

3 «He must have been familiar at least at second hand with anatomical writers from Galen to Vesalius (the lat-ter published when Michelangelo was nearly seventy)» (Summers, Michelangelo and the Language of Art, cit., p. 9).

4 Guasti spiega il verso come una quanto meno stravagante allusione alla sporadicità degli strabuzzamenti: «tal-ché poco apparisce la sua vista serena (l’occhio, quant’è grande, non s’apre che di rado)» (ed. Guasti, cit., p. 312):perché mai un occhio spalancato a più non posso dovrebbe essere una visione «serena»? A Guasti si accosta Gi-rardi, che però, tenendo conto del fatto che qui si parla del bulbo oculare nella sua interezza, finisce per esprime-re una delusione che potrebbe essere condivisa solo da un oculista piuttosto sadico («onde meno si può goderedella sua vista»: ed. Girardi, cit., p. 188). Esula dal gotico l’ipotesi di Paola Mastrocola, ma appare incongruamen-te limitativa, fuori chiave rispetto all’impostazione elogiativa senza riserve di tutto il discorso: «così che la sua se-rena, felice capacità di vedere è minore» (ed. Mastrocola, cit., p. 97, nota 6); Residori, infine, maschera l’exocula-mento di Girardi dietro un’impropria estensione figurata: «cosicché il suo sguardo luminoso è meno visibile» (ed.Residori, cit., p. 61, nota a 4-7).

Lo sguardo di Michelangelo, poeta del «dunque»: proposte esegetiche 193

vamente la prima e la terza, restava da scegliere un colore ‘antonomastico’ per la se-conda: perché usare proprio il «giallo […] leonino?». Legare tale scelta alla fisiognomi-ca, come fa Summers, significa forzare speciosamente il dettato: qui «leonino» è esclu-sivamente il punto di colore degli occhi, i tratti somatici non c’entrano; e gli occhi dicui si parla qui non sono né caropi (azzurri o grigi), né glauci (verdastri, azzurro-grigi ogrigio chiari), come richiederebbe appunto il tipo leonino.1 Neppure qui ha molto senso, mi sembra, pensare a una generica prescrizione tecnica per i pittori, come sostiene Residori (sviluppando, come si è detto, l’idea di Paola Mastrocola):2 il giallopotrà anche essere una singola componente nella resa pittorica del colore dell’iride, manon certo la dominante; e allora perché citare solo quel colore, tra le varie componen-ti necessarie a giungere al risultato finale che, normalmente, potrà essere marrone, az-zurro, verde o grigio?

La spiegazione conduce necessariamente dal generico allo specifico. Io credo che ilgiallo in questione in questo caso sia effettivamente il colore principale dell’iride, cheperciò sarà un’iride molto particolare, sui generis. E sembrerebbe proprio che le iridi diMichelangelo lo fossero, stando alla singolare descrizione dei suoi occhi fornita da Asca-nio Condivi e ripresa poi praticamente alla lettera da Vasari: «Le ciglia han pochi peli, liocchi più tosto si posson chiamar piccioli che altrimenti, di color corneo, ma vari e mac-chiati di scintille giallette et azzurrine».3 Ebbene, osservando da vicino i ritratti coevi del-l’artista conservati presso la Casa Buonarroti di Firenze (ed esposti ultimamente af-fiancati in una bella Mostra sul Volto di Michelangelo), ascrivibili rispettivamente aMarcello Venusti, a Jacopino del Conte e a Giuliano Bugiardini, si nota che, mentre nelprimo gli occhi risultano particolarmente scuri (praticamente neri), negli ultimi duel’iride appare inequivocabilmente di un colore giallo-ambra chiaro, che si potrebbe ef-fettivamente definire «corneo» o, ancor meglio, fulvo («leonino»). Un fenotipo raro, ge-neticamente parlando, ma esistente e, tanto per restare nell’ambito delle definizioni fe-line, tale da far popolarmente definire le iridi con quella peculiare colorazione «occhi digatto». È questo, io credo, l’indizio che induce a pensare che quelli di cui parlano le ter-zine siano gli occhi dell’artista stesso visti allo specchio, come, prima di Summers, pen-savano già Guasti, che infatti aveva parafrasato il v. 10 «Il bianco dell’occhio mio», e poiFrey, che scrisse: «er [Michelangelo] sein san ochio nunmehr beschreibt».4 Insomma, ul-timato (o riletto) il sonetto 34, Michelangelo si sofferma a scrutare i suoi stessi occhi ene descrive scrupolosamente la morfologia, concepita con suprema razionalità dalCreatore (lo spirito della descrizione coincide perciò con quello laudativo del De naturadeorum); infine fornisce specifiche indicazioni coloristiche, ma non a un generico ap-prendista pittore di occhi: il suo è, se vogliamo, un abbozzo o un progetto di autori-tratto,5 i cui presupposti morali (caratteristici di questo genere poetico) sono da rinve-nire appunto nel precedente e congiunto sonetto 34. L’auto-osservazione che chiama in

1 Cfr. Summers, Michelangelo and the Language of Art, cit., p. 415.2 «Qui si tratta non del vero colore dell’iride, ma di quello da usare per rappresentarla in pittura» (ed. Residori,

cit., p. 62, nota a 11). Cfr. sopra, nota 8 a p. 189.3 Condivi, Vita di Michelagnolo Buonarroti, cit., p. 66 (corsivi miei). Cfr. Vasari, La vita di Michelangelo nelle

redazioni del 1550 e del 1568, cit., i, p. 131: «Gli occhi più tosto piccoli che no, di color corneo, macchiati di scintillegiallette azzurricine, le ciglia con pochi peli».

4 «Michelangelo was almost certainly writing about one of his own eyes» (Summers, Michelangelo and the Language of Art, cit., p. 415); ed. Guasti, cit., p. 312; ed. Frey, cit., p. 381 (corsivi miei).

5 Si noti, però, che la «lezione su come dipingere l’occhio» a cui pensa Paola Mastrocola è eventualmente ipotizzaibile solo a partire dal v. 10, non prima, ed è motivata solo dai due congiuntivi dei vv. 13 e 14; non hannoquindi ragion d’essere tentativi di spiegazioni in tal senso, p. es., di «col color» al v. 1 come ‘fatto col colore’.

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causa i propri occhi, peraltro, non è un’attitudine isolata nelle rime: nella canzone n. 51lo specchio, fissato con attenzione, è inesorabile testimone dell’invecchiamento del-l’artista,1 mentre il madrigale 229 è per intero un dialogo coi suoi stessi occhi.2

Al tema dello sguardo non manca un ulteriore – mai espressione fu più attinente –punto di vista: dopo aver parlato del proprio (ora irresistibilmente attratto dalla bellez-za della persona amata, ora concentrato su se stesso), resta ancora da dire dello sguar-do altrui, o meglio della reciprocità o meno tra il proprio sguardo e l’altrui. La recipro-cità ideale culmina addirittura nell’identificazione con l’altro, sancita dal sonetto 893 (lacui premessa è contenuta in quanto era stato detto da Ficino nel suo commento,4 e fureso poeticamente da Michelangelo nel madrigale 234, laddove afferma di riconoscersinella donna amata, e solo in lei, come in uno specchio).5 Il dramma, invece, nasce ov-viamente dall’assenza di reciprocità: è ciò che lamentava Petrarca nell’ultima stanza del-la seconda «cantilena oculorum» (rvf 72),6 ed è quanto si legge nel madrigale 113 di Mi-chelangelo (non ci può essere reciprocità perché la persona amata vede il pianto negli

1 «Oïmmè, oïmmè, ch’i’ son tradito/da’ giorni mie fugaci e dallo specchio/che ’l ver dice a˙cciascun che fiso ’lguarda!» (51, vv. 1-3; corsivo mio).

2 A suggello dell’interpretazione proposta di queste terzine, trovo del tutto condivisibili e appropriate le paro-le della lettura continiana del 1937: «Michelangelo scopre con gioia la comodità, l’agio, la pulitezza (doti, dunque,quanto mai sostanziose) dei movimenti del globo oculare. Il liscio rotare del bulbo provoca la sua voluttà; e l’ec-cita a una descrizione generale dei fenomeni. Michelangelo decide che una descrizione esauriente, precisa e fun-zionale abbia luogo, che ne meriti la pena; e così s’impaccia in confuse formule di dinamica (oltre che il testo èdifficilissimo e mal costituito); finché, però, egli non arrivi al senso genuino, realissimo, del colore. Giunge qui al-l’enunciato che si soddisfa da sé, alla parola, all’elenco; qui, anche, termina l’ispirazione; qui s’arresta il fram-mento» (Contini, Una lettura su Michelangelo, cit., pp. 246-247).

3 «Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume/che co’ miei ciechi già veder non posso; / porto co’ vostri piediun pondo adosso, / che de’ mie zoppi non è già costume. / Volo con le vostr’ale senza piume; / col vostro inge-gno al ciel sempre son mosso; / dal vostro arbitrio son pallido e rosso, / freddo al sol, caldo alle più fredde bru-me. / Nel voler vostro è sol la voglia mia, / i miei pensier nel vostro cor si fanno, / nel vostro fiato son le mie pa-role. / Come luna da sé sol par ch’io sia, / ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno / se non quel tanto chen’accende il sole».

4 «Ma dove l’amato nello amore risponde, l’amatore almen che sia nello amato vive. Qui cosa maravigliosa ad-viene quando due insieme s’amano: costui in colui e colui in costui vive. Costoro fanno a cambio insieme e cia-scuno dà sé ad altri per altri ricevere. E in che modo e’ dieno sé medesimi si vede, perché sé dimenticano; ma co-me ricevino altri non è sì chiaro, perché chi non ha sé, molto meno può altri possedere. Anzi l’uno e l’altro ha sémedesimo, e ha altrui, perché questo ha sé ma in colui, colui possiede sé ma in costui. Certamente mentre che ioamo te amante me, io in te cogitante di me ritruovo me, e me da me medesimo sprezzato in te conservante rac-quisto; quel medesimo in me tu fai. Questo ancora mi pare maraviglioso: imperò che io, da poi che me medesi-mo perdetti, se per te mi racquisto, per te ho me. Se per te io ho me, io ho te prima e più che me, e sono più adte che a me propinquo, con ciò sia che io non m’accosto a me per altro mezzo che per te» (Ficino, El libro del-l’amore, cit., p. 41 – ii, viii, 16-22 –); nello stesso capitolo ficiniano anche alcuni concetti sull’amore ideale ripropo-sti da Michelangelo nel sonetto 59 (cfr. ivi, pp. 41-42 – ii, viii, 24-26 –). E vedi anche in cosa consiste l’ideale reci-procità fra un amante vecchio e uno giovane (che è esattamente la situazione di tante rime michelangiolesche):«el più antico con gli occhi fruisce la bellezza del più giovane, e il più giovane fruisce con la mente la bellezza delpiù antico; e colui che solo di corpo è bello, per questa consuetudine diventa bello dello animo, e colui che di ani-mo solo è bello, riempie gli occhi di corporale bellezza. Questo è cambio maraviglioso all’uno e all’altro, onesto,utile e giocondo. L’onestà in amendue è pari, perché equalmente è onesto lo ’mparare e lo ’nsegnare; nel più an-tico è giocondità maggiore, el quale ha dilectatione d’aspecto e d’intellecto; nel giovane è maggiore utilità, im-però che, quanto è più presente l’anima che il corpo, tanto è più pretioso lo acquisto della bellezza intellectualeche corporale» (ivi, pp. 44-45 – ii, ix, 7-9 –).

5 «Tanto non è, quante da te non viene, / agli occhi specchio, a che ’l cor lasso cede; / che s’altra beltà vede, /gli è morte, donna, se te non somiglia, / qual vetro che non bene / senz’altra scorza ogni su’ obbietto piglia» (234,vv. 1-6). Cfr. anche per questo specifico paragone Ficino, El libro dell’amore, cit., p. 43 (ii, viii, 38): «Doventa adun-que l’animo dell’amante uno certo specchio nel quale riluce la imagine dell’amato, il perché l’amato quando ri-conosce sé nello amante, è constrecto ad lui amare».

6 «Perch’io veggio, et mi spiace, / che natural mia dote a me non vale / né mi fa degno d’un sì caro sguardo»(rvf 72, vv. 61-63).

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occhi del poeta che pure godono della gioiosa bellezza dei suoi; quindi il diletto saràsempre «dispàri»):1

Esser non può già ma’ che gli occhi santiprendin de’ mie, com’io di lor, diletto,rendendo al divo aspetto,per dolci risi, amari e tristi pianti.2

È questa, io credo, la chiave di lettura che può condurci a ipotizzare la giusta integra-zione per l’incipit del madrigale 31, mutilo dell’inizio di tutti i versi a causa di un tagliosul margine sinistro del foglio che lo riporta. Residori accoglie tutte le integrazioni diGirardi tranne (a mio avviso giustamente) quella al primo verso,3 pubblicando il com-ponimento come segue:

[…] non già, ma gli occhi mei son quegliche ne’ tuo soli e beglie vita e morte intera trovato hanno.Tante meno m’offende e preme ’l danno,più mi distrugge e cuoce; 5dall’altra ancor mi nuocetante amor più quante più grazia truovo.Mentre ch’io penso e pruovoil male, el ben mi cresce in un momento.O nuovo e stran tormento! 10Però non mi sgomento:s’aver miseria e stentoè dolce qua dove non è ma’ bene,vo cercando ’l dolore.4 con maggior pene.

Girardi aveva proposto di colmare la lacuna con «Amor»: la parafrasi che dovrebbe ri-sultarne («I miei occhi han trovato nei tuoi, unici in bellezza, non già amore, ma vita emorte insieme»)5 contrasta però con la disposizione sintattica della frase, perché, purammettendo le consuete ardite dislocazioni terminologiche michelangiolesche, l’ele-mento contrapposto nell’avversativa direttamente ad «Amor», cioè la dittologia «e vitae morte» (v. 3), appare troppo lontano dal ma, a causa della relativa interposta; lo stessoGirardi, del resto, era dubbioso in proposito («La ricostruzione di 31 non è senza qual-che incertezza, specialmente nei primi due versi»).6 Ora, bisogna tenere conto del fattoche il concetto generale del componimento è un’esaltazione (paradossale) della soffe-renza amorosa, derivante dall’inestricabile legame riscontrato fra morte-sofferenza e vita-appagamento: non c’è l’una senza l’altra, quindi solo se si prova il male si prova anche il bene, il male non deve diminuire, pena la proporzionale contemporanea ridu-zione del bene. Questo è un effetto peculiare riscontrato dagli «occhi mei», che hanno

1 La citazione è dal v. 6 del madrigale (diastole in rima). Michelangelo lamenta mancata reciprocità anche, masu un piano diverso, nel madrigale 255 (gli occhi-specchio dell’amata gli rivelano per contrasto la sua bruttezza).

2 113, vv. 1-4.3 Per Residori essa «non sembra dare un senso plausibile» (ed. Residori, cit., p. 54, nel cappello al madrigale).

Stella Fanelli invece ripropone tutto il componimento «nella forma ricostruita dal Girardi» (ed. Fanelli, cit., p. 199).4 Il punto sottoposto indica l’apocope necessaria per rimediare all’ipermetria del verso, già suggerita da

Girardi.5 Ed. Girardi, cit., p. 183. Parafrasi seguita sostanzialmente dalla Fanelli: «Non solo amore, ma vita e morte

hanno trovato i miei occhi nei tuoi così belli» (ed. Fanelli, cit., p. 199), trasformando però arbitrariamente l’anti-tesi del testo («non già, ma») in coordinazione («Non solo […] ma»). 6 Ed. Girardi, cit., p. 184.

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trovato, appunto, «e vita e morte» nella bellezza unica dei «tuo». Ciò che è caduto al-l’inizio del primo verso, io credo, è qualcosa che deve contrapporsi non a «vita e mor-te», ma agli «occhi mei», in quanto, evidentemente, si verifica in esso l’assenza di tale ef-fetto peculiare: insomma la soluzione più plausibile, mi pare, consiste nell’integrare ilverso con «I tuo»; perché anche questo madrigale parte dal presupposto che non esisteparità, reciprocità di sentimenti, ed è questa l’origine del «danno» e del «male»: «non ituoi (nei miei), ma i miei occhi sono quelli che hanno trovato nei tuoi vita e morte in-sieme». La sofferenza che ne deriva, però, è paradossalmente fonte di dolcezza.

Lo sguardo di Michelangelo poeta è un mistero che egli può descrivere ma non spie-gare: attratto ineluttabilmente dalla bellezza, percorre una traiettoria circolare che loriconduce a se stesso, incontrando sul suo percorso specchi reali o spirituali, finendo pervedere la propria immagine anche negli altri. Riceve emozioni ma non comunica, op-pure trasmette impressioni involontariamente fuorvianti: del resto, se i sentimenti nonsono che il frutto di una propensione ideale fissata ab aeterno, ciò che proviamo non ciappartiene, ciò che vediamo, come lo vediamo, non dipende affatto dalla nostra limita-tissima volontà e sfugge totalmente alla nostra ancor più limitata capacità di compren-sione.

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SOMMARIO*

la ‘cultura visuale’ · iRoberta Capelli, «Amor si pinge figurato»? Guittone (non) risponde 11Mauro Scarabelli, «Una figura della Donna mia». Un episodio di polemica antifigu-

rativa nelle Rime di Guido Cavalcanti 21Lucia Battaglia Ricci, Ai margini del testo: considerazioni sulla tradizione del Dan-

te illustrato 39Grazia Maria Fachechi, L’immagine traduttrice/traditrice e la responsabilità degli

esegeti: il rapporto tra gli argumenta di Nicola Trevet e Albertino Mussato e le minia-ture di Seneca tragico 59

Johannes Bartuschat, Appunti sull’ecfrasi in Boccaccio 71Susanna Barsella, La parola icastica: strategie figurative nelle novelle del Decameron 91Andrea Torre, Saggio di un commento ad emblemi petrarcheschi 103Michelangelo Zaccarello, Ingegno naturale e cultura materiale: i motti degli ar-

tisti nelle Trecento Novelle di Franco Sacchetti 129Eugenio Refini, Leggere vedendo, vedere leggendo. Osservazioni su testo iconico e ver-

bale nella struttura della Hypnerotomachia Poliphili 141Angelica Lugli, Nuove riflessioni per il Tramonto della National Gallery di Londra 165Giorgio Masi, Lo sguardo di Michelangelo, poeta del «dunque»: proposte esegetiche 175Carmelo Occhipinti, Ligorio iconologo e la Pazienza di Villa d’Este a Tivoli. Appunti

sull’Occasione e Penitenza di Girolamo da Carpi 197Paolo Procaccioli, Dai Modi ai Soneti lussuriosi. Il ‘capriccio’ dell’immagine e lo

scandalo della parola 219Gerarda Stimato, Da Pietro Aretino a Giorgio Vasari: contagio epistolare come prima

palestra di stile 239Renzo Rabboni, Fra Aretino e Varchi: le lettere (e le rime) sull’arte di Nicolò Martelli 251Maria Pia Ellero, Narciso e i Sileni: il ritratto mentale nella lirica da Lorenzo a

Tasso 271Maiko Favaro, Sulla concezione dell’impresa in Scipione Ammirato 285Maria Antonietta Terzoli, Frontespizi figurati. L’iconografia criptica di un’edi-

zione secentesca dell’Adone 299Quinto Marini, Immagini di capitali europee dell’età barocca nei bischizzi di un am-

basciatore della Serenissima 315Roberto Gigliucci, Classicismo ideale e realismo metafisico 331Aurélie Gendrat-Claudel, «Chiamàti per così dire dal testo»: i rami dell’Ortis 1816

ovvero Foscolo illustratore 347Giuliana Nuvoli, Vorrei raccontarti una storia …Paolo e Francesca fra testo e rap-

presentazione artistica dal Trecento all’età romantica 363Maria Gabriella Riccobono, Aspetti eidetico-visuali delle novelle Rosso Malpelo

e Jeli il pastore 377Cristiano Spila, «Bianca agonia». La morte del cigno nell’arte e nella letteratura 391

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