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4/6/2015 L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser | tysm
http://tysm.org/linchiesta-prima-di-tutto-vittorio-rieser/ 1/26
(http://tysm.org/)
P H I LO S O P H Y A N D S O C I A L C R I T I C I S M
L’inchiesta prima di tutto: Vittorio RieserBy Marco (http://tysm.org/author/marco/)+ (https://plus.google.com/+MarcoDottitysm), 24 maggio 2015
L’ingresso alla Fiat di Mirafiori (1956)
(http://twitter.com/share?url=http://tysm.org/linchiesta-prima-di-tutto-vittorio-
rieser/&text=L%E2%80%99inchiesta+prima+di+tutto%3A++Vittorio+Rieser)
D I DA M I A NO PA L A NO
In una famosa fotogra�a scattata all’inizio degli anni Sessanta, probabilmente nel settembre 1962, si trova �ssato un
frammento della vita dei «Quaderni rossi», una delle riviste che più ha inciso nella storia intellettuale italiana del
secondo dopoguerra (e forse dell’intero Novecento). L’uno accanto all’altro, con le spalle rivolte al muro e gli occhi
diretti verso un oggetto che rimane fuori dal campo, nella foto sono ritratti Gaspare De Caro, Raniero Panzieri
(http://tysm.org/raniero-panzieri-una-lezione-di-metodo/), Toni Negri e Mario Tronti (http://tysm.org/il-novecento-
di-mario-tronti/).
Con l’eccezione di De Caro, che dopo aver fornito alcuni contributi importanti negli anni Sessanta preferì assumere
una posizione più de�lata, gli altri tre protagonisti dell’immagine sarebbero stati ricordati – e sono ancora oggi in
gran parte considerati – come i principali esponenti del cosiddetto «operaismo» italiano.
4/6/2015 L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser | tysm
http://tysm.org/linchiesta-prima-di-tutto-vittorio-rieser/ 2/26
(http://i0.wp.com/tysm.org/wp-content/uploads/2015/05/Tronti-de-Caro-Panzieri-Negri.jpg)
Tronti, Negri, de Caro, Panzieri nella redazione di Quaderni Rossi
E una simile ricostruzione ha senza dubbio più di qualche fondamento, perché il contributo dei tre intellettuali –
ognuno dei quali ha proceduto peraltro in direzioni politiche molto differenti – ha davvero impresso un’impronta
indelebile a quella rilettura del marxismo in cui si può intravedere il tratto forse più originale della «Italian Theory»
(sempre che una simile formula abbia davvero qualche utilità).
Ma se si volesse ricostruire la genesi dell’operaismo, e se si volesse dar conto della sua ricchezza, sarebbe
necessario riconoscere anche la pluralità di prospettive e di percorsi che convissero all’interno di un �lone assai più
eterogeneo di quanto le etichette facciano talvolta supporre.
A dispetto del ruolo che Panzieri e Tronti ebbero nel de�nire le ipotesi iniziali, e degli sviluppi apportati da Negri tra
la �ne degli anni Sessanta e gli anni Settanta, sarebbe per esempio indispensabile riconoscere che il concetto di
«composizione di classe» – un concetto davvero centrale per l’operaismo – ebbe la sua genesi soprattutto nelle
ipotesi e nelle ricerche condotte da Romano Alquat (http://it.wikipedia.org/wiki/Romano_Alquati)i nella prima
metà degli anni Sessanta, e che molte intuizioni di Sergio Bologna (http://tysm.org/nel-cervello-della-crisi-la-storia-
militante-di-sergio-bologna-tra-passato-e-presente/) ebbero una funzione essenziale nell’indirizzare il suo
sviluppo ulteriore, così come per la sua problematizzazione critica. Ma un quadro che volesse davvero restituire la
complessità e la ricchezza dell’operaismo italiano non potrebbe neppure dimenticare il contributo di Vittorio Rieser.
Nonostante il percorso teorico e politico di questo «intellettuale militante» si sia ben presto allontanato da quelle
traiettorie che abitualmente sono considerate come una �liazione (più o meno diretta) dell’esperienza avviata dai
«Quaderni rossi», Rieser mantenne infatti ben salde alcune delle idee maturate all’inizio degli anni Sessanta. E,
soprattutto, non abbandonò mai la convinzione che l’«inchiesta», che Panzieri indicò come punto di partenza del
lavoro dei «Qr», fosse lo strumento imprescindibile per avviare qualsiasi progetto politico.
A pochi mesi dalla sua scomparsa – avvenuta il 22 maggio 2014 – un ricco volume curato da Matteo Gaddi offre
l’occasione per ricostruire il percorso di Rieser, ripubblicando alcuni suoi interventi recenti, ma raccogliendo
soprattutto le testimonianze di quanti ebbero occasione di lavorare con lui nel corso di più di mezzo secolo, come
per esempio Goffredo Fo�, Giovanni Mottura, Francesco Ciafaloni, Liliana Lanzardo e Bianca Beccalli[1]. I contributi
accolti nel volume non sono comunque interessanti solo perché forniscono una testimonianza umana, ma anche
perché iniziano a offrire alcuni elementi preziosi per la ricostruzione dell’itinerario di quello che – con le parole di
Fo� – può essere considerato come «uno dei più bei personaggi espressi dalla storia del movimento operaio nella
seconda metà del Novecento»[2].
Un intellettuale militante
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Nato a Torino nel 1939, Rieser cominciò molto presto il suo impegno politico, già nella seconda metà degli anni
Cinquanta, all’interno dell’Unione Socialisti Indipendenti (Usi), una piccola formazione antistalinista fondata nel 1951
da Valdo Magnani e Aldo Cucchi. La prima esperienza che avvicinò Rieser al metodo dell’inchiesta – uno strumento
che sarebbe poi rimasto centrale – avvenne però in Sicilia, al seguito di Danilo Dolci, nel 1956. Alcuni giovani militanti
torinesi che avranno poi un ruolo importante nella nascita dei «Quaderni rossi» – come Giovanni Mottura ed Emilio
Soave – svolsero a Palermo e in alcuni piccoli centri siciliani un’inchiesta, cui Dolci fornì comunque una chiave
molto diversa da quella in seguito adottata per le inchieste operaie[3].
Per Mottura la collaborazione con Dolci si sarebbe protratta ancora per alcuni anni, �no al 1959, ma per Rieser – che
fra l’altro conobbe Fo� proprio in Sicilia – si concluse già nel 1956, e da quel momento le sue energie si
indirizzarono prevalentemente verso la dimensione della fabbrica. Dopo la con�uenza dell’Usi nel Psi, avvenuta al
congresso del 1957, Rieser (sempre insieme a Mottura) aderì alla corrente che faceva capo a Lelio Basso e che
avrebbe trovato una sede di dibattito teorico importante con la fondazione di «Problemi del socialismo». Proprio in
questo periodo Rieser, Mottura e Pugliese iniziarono a «organizzare una presenza studentesca a supporto delle
lotte operaie, con la Cgil torinese, quella di Garavini, Alasia, Pugno»[4]. E in quella stessa fase, Mottura ebbe anche
modo di prendere parte all’inchiesta sugli operai della Fiat promossa da Giovanni Carocci e pubblicata su «Nuovi
Argomenti»[5].
I primi contatti con la realtà sindacale – e in particolare con la Fiom – dovevano gradualmente consolidare un
piccolo gruppo di giovanissimi militanti di provenienza eterogenea, ma accomunati da una forte avversione allo
stalinismo, che af�ancavano alla formazione teorica il contatto con la fabbrica e con le rivendicazioni dei lavoratori:
«da un lato, uno studio di storia del movimento operaio, centrato in particolare sulla rivoluzione russa (e
largamente ispirato – e direttamente guidato – da un’impostazione “eterodossa”, trozkista o anarchica); dall’altro,
[…] uno studio dei problemi sindacali, in cui i dirigenti della Cgil torinese, da Garavini ad Alasia a Pugno a Fernex, ci
spiegavano i principali elementi della contrattazione e la situazione delle fabbriche»[6].
Il piccolo gruppo assunse un ruolo diretto in alcune vertenze contrattuali del 1959, anche perché l’azione di quel
nucleo di studenti (per quanto non certo cospicuo) riusciva a compensare l’assenza del sindacato in molte realtà
torinesi. In uno dei primi scritti di Rieser, apparso proprio su «Problemi del socialismo» e dedicato a uno sciopero
alla Magnadyne di Torino (una fabbrica di televisori con una quota elevata di manodopera femminile), si può già
ritrovare non solo una traccia signi�cativa di quelle esperienze di intervento, ma anche l’anticipazione di motivi che,
di lì a poco, diventeranno centrali per la ri�essione dei «Qr».
Stilando un bilancio delle mobilitazioni cominciate nel ’59, Rieser notava infatti che nel corso della vertenza erano
emersi «non solo una generica combattività ‘spontanea’, ma un tipo di partecipazione politica organizzata in forme
autonome (le assemblee di sciopero), e – entro certi limiti – una notevole capacità di decisione e di giudizio sulla
linea dei sindacati»: elementi che addirittura sembravano suggerire che andasse emergendo l’«embrione di una
nuova forma di organizzazione permanente»[7].
Rieser e i «Quaderni rossi»
Una sollecitazione decisiva a ripensare le modalità di questo intervento giunse senza dubbio dall’incontro con
Panzieri, che si era trasferito a Torino per lavorare all’Einaudi nel 1959 e che ben presto trovò in Rieser, Mottura e
Pugliese un piccolo nucleo con cui impostare il lavoro da cui sarebbero poi scaturiti i «Qr», e da cui sarebbe nato
anche il progetto di un’inchiesta sugli operai della Fiati. Come ricordava Rieser nel 2001: «Lì l’in�uenza di Panzieri è
stata determinante, nel senso che noi lavoravamo in quel momento con il sindacato non sulla Fiat ma in altre
fabbriche torinesi, sostanzialmente quelle dove c’erano già delle lotte, e dicevamo “continuiamo a fare il lavoro su
queste cose, alla Fiat come si fa?”.
Panzieri, invece, diceva: “no, dobbiamo affrontare la questione e il nodo della Fiat, e l’unico modo per farlo è lo
strumento dell’inchiesta”. Quindi, a quel punto sull’inchiesta alla Fiat si coagularono tutti»[8]. Al gruppo dei giovani
torinesi si aggiunsero anche altri elementi, destinati ad avere un ruolo fondamentale nella vita della rivista. Tra
questi – oltre al gruppo romano, composto soprattutto da Tronti, Asor Rosa, De Caro, Rita Di Leo – non certo
secondario fu l’apporto di Alquati, Emilio Soave e Romolo Gobbi, che provenivano da un percorso diverso rispetto a
Rieser e Mottura, e che vissero peraltro la loro esperienza nella rivista con una certa estraneità.
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Sul primo numero dei «Qr», oltre al contributo molto evidente del mondo sindacale torinese e al fondamentale
saggio di Panzieri sull’uso delle macchine nel neo-capitalismo, spiccava senza dubbio un importante testo proprio
di Alquati, nel quale si pre�guravano molti di quei tratti delle «forze nuove» della Fiat destinati a emergere negli anni
seguenti[9]. Il saggio di Alquati era in realtà il testo di una relazione presentata a un convegno sulla Fiat organizzato
dal Psi torinese, ed era dunque il frutto di un’elaborazione indipendente da quella del gruppo guidato da Panzieri.
Ciò nondimeno, in un breve intervento apparso ancora prima dell’uscita del primo numero della rivista, Rieser non
si lasciava sfuggire l’importanza delle osservazioni di Alquati, che intuiva – osservando i comportamenti dei nuovi
operai – una disponibilità al con�itto tutt’altro che episodica, benché abissalmente distante da quella dei vecchi
quadri. In particolare Rieser sottolineava, accanto alle «contraddizioni di fondo della condizione operaia alla Fiat»,
soprattutto «gli elementi che portavano questo con�itto a uno stadio cosciente», e cioè «il crollo dei ‘miti’, dei
modelli di valori con cui la Fiat aveva tentato di integrare l’operaio nel sistema aziendale»[10].
Simili elementi non potevano certo indurre a generalizzazioni eccessivamente schematiche, ma dovevano piuttosto
suggerire la necessità di ripensare l’azione sindacale, adeguandola al livello della soggettività operaia e utilizzando
politicamente le contraddizioni nei modelli valoriali: «Così come i modelli di consumo sono strumentali per la
direzione capitalistica, le loro contraddizioni vanno viste altrettanto strumentalmente dal movimento operaio. I
modelli di valori ‘aziendali’ sono lo strumento dell’integrazione (basata su una misti�cazione della condizione
oggettiva dell’operaio nella produzione capitalistica); le loro contraddizioni devono essere uno strumento per
rompere l’integrazione, e per giungere quindi a una coscienza dei problemi di fondo, cioè della struttura del potere
capitalistico dentro e fuori la fabbrica».[11]
Benché la posizione di Rieser sembrasse convergere su molti punti con quella di Alquati, tra le due prospettive
rimanevano però notevoli differenze, in parte ‘metodologiche’, ma soprattutto ‘politiche’, relative in particolare al
modo stesso di intendere l’organizzazione ‘politica’.
Nel primo numero dei «Qr» tali differenze erano però quasi invisibili, e sarebbero emerse solo più tardi, dinanzi
peraltro a urgenze politiche. D’altronde, l’editoriale di apertura di Vittorio Foa sposava la visione che avrebbe
contraddistinto la ri�essione dei «Qr» e anche quei limiti che sarebbero stati in seguito spesso rimproverati
all’operaismo degli anni Sessanta: limiti che consistevano innanzitutto nella convinzione che lo sviluppo economico
dovesse rendere del tutto obsoleta anche la vecchia distinzione fra un Nord industriale e un Sud arretrato, e in
secondo luogo nell’idea che la piani�cazione dovesse accrescere sensibilmente il ruolo economico dello Stato (e
che si dovesse persino imboccare la via di una gestione ‘autoritaria’ dello sviluppo)[12].
I contributi pubblicati da Rieser sui primi due numeri della rivista in realtà si concentravano sui criteri di de�nizione
del settore e sulla classi�cazione del lavoro, e in buona parte sembravano applicare a questo tema la chiave fornita
da Panzieri nel saggio sull’uso delle macchine[13]. Il settore andava infatti ride�nito «in rapporto agli obiettivi
dell’azione sindacale, e non solo in rapporto a certi criteri tecnologici e produttivi che si ri�ettono nell’attuale spinta
contrattuale», e ciò comportava anche che si potesse giungere a una de�nizione politica del settore, da intendere
come «una possibilità obiettiva di connessione e generalizzazione di rivendicazioni, nuove in quanto investono aspetti
del processo produttivo che �nora non erano direttamente toccati, in modo organizzato, dall’antagonismo di
classe»[14].
Sul secondo numero il discorso di Rieser si estendeva – adottando la medesima logica – alla classi�cazione del
lavoro, e anche a questo proposito venivano indicati gli scopi che la classi�cazione sindacale avrebbe dovuto
perseguire: «a) rompere l’“apparenza capitalistica” che tende a nascondere (progressivamente) l’importanza (progressiva)
della forza-lavoro. […] b) fornire “prezzi aggiuntivi” al prezzo di mercato della forza-lavoro. […] c) opporsi alla disponibilità
di manodopera»[15].
A chiarire quale fosse la prospettiva che Rieser adottava in questa fase è forse però un testo sulle mansioni apparso
nel novembre 1961 in «Problemi del socialismo». Criticando la linea seguita a lungo dai partiti di sinistra sulle lotte
sindacali, Rieser sottolineava invece come fosse indispensabile tornare alla condizione operaia, soprattutto per
individuarvi «quei problemi che più direttamente si legano alla struttura del potere capitalistico nella fabbrica»[16].
La mansione doveva dunque essere considerata sotto il pro�lo del potere, e dunque come «complesso di decisioni
direttamente o indirettamente inerenti alla produzione del prodotto»[17]. Secondo la lettura di Rieser, le
trasformazioni produttive rendevano sempre più importanti le decisioni operaie, e ciò tendeva a pro�lare «una
contraddizione potenziale fra la portata crescente delle decisioni ‘tecniche’ degli operai e la concentrazione
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crescente verso l’alto delle decisioni ‘politiche’»[18].
La contraddizione ‘potenziale’ non si traduceva necessariamente in risultati politici, ma richiedeva comunque un
intervento adeguato da parte delle organizzazioni del movimento operaio: «non vi è un rapporto automatico fra
questa contraddizione e determinate conseguenze di rottura nel sistema. La contraddizione ‘di per sé’ non giunge a
queste conseguenze: essa, ad esempio, non impedisce di per sé il funzionamento della produzione e l’espansione
dell’azienda; essa crea senza dubbio anche delle disfunzionalità sul piano tecnico-produttivo, ma tutto ciò non
porta a nessuna conseguenza automatica. Le conseguenze possono nascere se su questa contraddizione si
inserisce un intervento cosciente delle organizzazioni operaie, che intenda sviluppare il contrasto su un piano
politico, di lotta di classe nella fabbrica»[19].
Uno spirito simile emergeva, alcuni mesi dopo, anche da un testo dedicato al ruolo dei trasporti nell’integrazione
della classe operaia, comparso sempre su «Problemi del socialismo». Al di là delle conclusioni provvisorie cui
Rieser giungeva in quell’intervento, l’ottica era sostanzialmente la stessa che emergeva dal secondo numero dei
«Qr», aperto dal famoso testo di Tronti su La fabbrica e la società e contrassegnato dall’attenzione rivolta alla
progressiva integrazione dei diversi momenti del ciclo produttivo (anche di quelli disseminati nella società, al di
fuori del perimetro della «fabbrica empirica»). E così Rieser, proprio nelle prime righe, osservava che non si
potevano comprendere le scelte di innovazione capitalistica senza considerare «la variabile integrazione della classe
operaia nel sistema: cioè l’eliminazione di ogni comportamento disfunzionale al sistema da parte della forza-lavoro;
al limite, l’eliminazione di questi comportamenti ad opera della forza organizzata della classe operaia stessa»[20].
«Sociologi» ed «hegeliani»
A dispetto delle convergenze su alcuni punti cardine della rilettura di Marx e dell’interpretazione delle logiche del
neo-capitalismo, alla �ne del 1962 – quando veniva pubblicato l’articolo sui trasporti – la lacerazione tra le diverse
anime dei «Qr» era ormai alle porte. Più che vere e proprie divergenze teoriche – che comunque esistevano, ma che
per molti versi attraversavano trasversalmente i due fronti contrapposti – a determinare la frattura furono
soprattutto i progetti politici differenti. In termini molto schematici, il punto discriminante stava nel progetto di dar
vita a un giornale di fabbrica e conseguentemente a un’organizzazione politica vera e propria, contrapposta non
solo ai due grandi partiti della sinistra italiana, ma anche esterna al sindacato.
Se Rieser, Mottura, Dario e Liliana Lanzardo (cioè il primo gruppo che si era stretto attorno a Panzieri dopo il suo
arrivo a Torino) espresse �n dall’inizio riserve notevoli, l’ipotesi del giornale di fabbrica – che poi sarebbe diventato
«classe operaia» – ottenne invece un sostegno convinto da un gruppo in realtà piuttosto eterogeneo, composto fra
l’altro da Alquati, dal gruppo romano di Tronti e Asor Rosa, dal gruppo veneto raccolto attorno a Negri (che però
sino a quel momento aveva avuto un peso ridotto). E a dare alimento a quell’ipotesi stava soprattutto la
convinzione che fossero ormai mature le condizioni per una nuova offensiva operaia. La cosiddetta «rivolta di
Piazza Statuto» aveva d’altronde esercitato un’in�uenza non marginale su molti dei protagonisti dei «Qr». Accusato
da alcuni ambienti torinesi di aver fomentato la rivolta, il gruppo prese uf�cialmente le distanze dai disordini, che
Panzieri in particolare valutò in termini estremamente negativi. Ma quella contestazione confermò comunque la
determinazione di quei membri dei «Qr» che puntavano verso una ‘radicalizzazione’.
Un tentativo di mediazione fu compiuto con il fascicolo delle «Cronache dei Quaderni rossi», uscito nel settembre
1962, nel quale venivano anche affrontati i fatti di piazza Statuto. Ad aprire il numero era proprio un lungo articolo di
Rieser dedicato a La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici),
nel quale, pur sottolineando il grande peso della nuova spinta con�ittuale, continuava a rimanere centrale il ruolo
del sindacato. Rieser non esaminava puntualmente il corso della lotta, anche se forniva una valutazione negativa dei
contratti. Ma soprattutto notava come i partiti della sinistra si fossero rivelati ormai pienamente integrati nella
logica della programmazione, e come in questo modo le stesse lotte operaie fossero state utilizzate per rompere le
resistenze, provenienti dai gruppi capitalistici più arretrati ai progetti di razionalizzazione dello sviluppo avanzati dal
governo di centro-sinistra. L’esito contrattuale, in special modo nel caso dell’accordo preliminare con l’Intersind,
aveva infatti dimostrato come, grazie all’iniziativa pubblica, si fosse raggiunto l’obiettivo di «imprigionare l’iniziativa
autonoma della classe operaia nel modo meno incerto possibile, cioè servendosi delle organizzazioni, sindacali o
politiche, della classe operaia stessa»[21].
Dinanzi a questa situazione, e cioè privi di qualsiasi collegamento con le organizzazioni politiche, i con�itti operai
avevano assunto i tratti di mobilitazioni ‘anarco-sindacaliste’, ma proprio il sindacato (ossia la Cgil) aveva in questa
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occasione raggiunto un punto cardine: «l’affermazione dell’autonomia rivendicativa e di lotta del sindacato e della
classe operaia, anche di fronte alla programmazione, può acquistare oggi, nel momento in cui concretamente e in
modo massiccio si tenta di negare quest’autonomia, un grande valore di prospettiva per tutto il movimento
operaio»[22]. E proprio questo punto poteva rappresentare «il nucleo di partenza di una linea di lotta della classe
operaia al nuovo livello politico creato dallo sviluppo capitalistico», oltre che «l’unica base reale da cui può partire la
ricerca, faticosa e dif�cile, di una linea politica anti-capitalistica»[23].
Il nodo emerso in occasione dei rinnovi contrattuali del 1962 era considerato da Rieser, in una prospettiva più
ampia, anche in un articolo apparso sul terzo numero dei «Qr». Dal punto di vista teorico, il riferimento era
rappresentato dall’idea secondo cui la piani�cazione tendeva a integrare all’interno della logica dello sviluppo
capitalistico anche le diverse organizzazioni politiche e sindacali, rendendone dunque l’azione funzionale alla logica
dello sviluppo. Si trattava di una visione che discendeva dagli articoli di Tronti apparsi sulla rivista – e cioè La
fabbrica e la società e Il piano del capitale[24] – ma in generale dall’idea (condivisa dallo stesso Panzieri)[25] secondo
cui la dimensione del piano dovesse determinare la progressiva riduzione dell’autonomia di partiti e sindacati[26].
Pur condividendo questo quadro interpretativo – in cui però non era dif�cile ritrovare le tracce di una dif�cile
mediazione tra posizioni ormai distanti – Rieser segnalava però i margini di autonomia che ancora la Cgil sembrava
conservare. In altre parole, se Cisl e Uil sembravano ormai pienamente ‘integrate’ nella logica del piano, la Cgil
tendeva a mostrare elementi contraddittori, e dunque la presenza contestuale di integrazione e di autonomia. In
particolare, in relazione al rapporto fra incrementi della produttività e aumenti salariali, la Cgil mostrava nelle analisi
sulle singole realtà aziendali posizioni ben differenti da quelle articolate a proposito del livello generale, in cui invece
venivano adottate pienamente le esigenze di una piani�cazione equilibrata dello sviluppo (in funzione della
riduzione degli squilibri tra Nord e Sud e in vista dell’eliminazione del monopolio)[27].
Quando il terzo numero dei «Qr» uscì, la frattura si era ormai consumata, perché di fatto Tronti, Alquati e il gruppo
veneto erano già impegnati a dar seguito al progetto di «classe operaia», il cui primo fascicolo fu pubblicato alcuni
mesi dopo, all’inizio del 1964. Se a decidere la rottura con il gruppo di «classe operaia» fu lo stesso Panzieri[28], in
vista del dibattito interno la posizione contrapposta a quella di Tronti fu sintetizzata in una serie di Tesi stese da
Rieser insieme a Michele Salvati e dedicate a Lotta operaia e prospettiva politica. Da quelle tesi certo non emergevano
chiare indicazioni politiche, ma risultava comunque evidente una certa distanza rispetto alle posizioni di Tronti,
soprattutto nel momento in cui veniva evocata l’eventualità di una rottura ‘rivoluzionaria’: «L’apertura di una
possibilità rivoluzionaria», si leggeva infatti nelle Tesi, «è […] schematizzabile, in termini molto generali, come
nascente dall’incontro tra una incapacità, in un momento storicamente determinato, del capitalismo a realizzare le misure
di razionalizzazione che, eliminando certi costi contro cui la classe operaia si batte in quel momento, ne
assorbirebbe temporaneamente la lotta, e un certo grado di coscienza politica e di organizzazione operaia, tale da
portare quest’ultima a decidere una lotta globale per il rovesciamento del sistema».
A dispetto dello stile burocratico con cui le Tesi erano redatte, ciò che spiccava di più – in relazione a ciò che
sarebbe diventato l’operaismo italiano con l’esperienza di «classe operaia» – erano, innanzitutto, l’insistenza sul
ruolo della «coscienza politica», e, in secondo luogo, una visione del ruolo dell’avanguardia e della strategia in linea
con la tradizione leninista. Se infatti – con una celebre mossa – Tronti avrebbe tramutato il partito in «tattica»,
consegnando la «strategia» ai comportamenti della classe[29], le Tesi assegnavano all’avanguardia la de�nizione
della strategia, con espressioni da cui trapelava anche una certa infatuazione per l’illuminismo tecnocratico della
programmazione. E infatti, al punto 3.7, Rieser e Salvati scrivevano: «Sul piano concettuale, l’elaborazione di una
strategia rivoluzionaria ha le caratteristiche di un modello di previsione, articolato in due parti: a) previsione di tipi di
sviluppo e di ‘contraddizioni’ oggettive (eliminabili) del sistema capitalistico, in vari ambiti; b) previsione di sviluppo
delle lotte operaie in rapporto a essi, e dei tipi di organizzazione politica legati alle lotte. […] La veri�ca dei modelli di
previsione formulati avviene nell’impostazione e realizzazione di lotte operaie che siano al tempo stesso, coerenti con tali
modelli e coerenti con i criteri politici che si sono scelti. I margini di realizzabilità di lotte di questo tipo sono,
ovviamente, variabili. In base alla veri�ca e falsi�cazione delle previsioni, operata dalle lotte operaie (sia da quelle
impostate coerentemente con i criteri politici dello schema, sia dalle altre), si opereranno modi�che e sviluppi nel
modello di previsione, da cui la strategia viene orientata»[30].
Il tentativo di sanare la frattura con l’avvio di un giornale di fabbrica, «Cronache operaie», si rivelò un fallimento, e di
quella pubblicazione uscì di fatto solo un numero, nell’autunno del 1963. La scissione del gruppo di «classe
operaia» è stata rievocata in molte occasioni, e spesso – nelle ricostruzioni retrospettive – sono state sottolineate le
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divergenze teoriche tra Panzieri e la visione ‘hegeliana’ che emergeva dagli scritti Tronti[31]. Accanto a questa prima
motivazione, si trovava però soprattutto un altro elemento di contrasto, che verteva direttamente sul pro�lo politico
del gruppo, nonché sull’ipotesi di dar vita a un giornale che avrebbe sancito de�nitivamente la rottura con le
formazioni uf�ciali del movimento operaio.
E, d’altronde, fu lo stesso Panzieri a indicare nella riunione in cui decise la rottura i termini della divergenza: la
lettura di Tronti era «un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può compiere
una sinistra operaia», «una �loso�a della storia, una �loso�a della classe operaia»; mentre ciò cui i «Qr» potevano
puntare era soltanto «un lavoro di formazione di un’avanguardia rivoluzionaria non di massa, le cui tesi politiche
per un periodo prevedibilmente lungo non possono coincidere con il movimento reale, ma possono mirare solo in
prospettiva a questa coincidenza»[32]. Il lavoro comune, anche solo limitato a una ri�essione teorica, diventava per
questo impossibile, almeno agli occhi di Panzieri. E così i due percorsi da quel momento si divaricarono
nettamente.
Dopo Panzieri
Dopo la scissione della componente di «classe operaia», il percorso dei «Qr» fu messo a dura prova dall’improvvisa
morte di Panzieri. Come ricorda oggi Liliana Lanzardo, Rieser ri�utò di sostituire uf�cialmente Panzieri «nella
continuità del lavoro della rivista e del gruppo»[33], ma ciò nonostante non cessò di essere una delle sue colonne
portanti. Nel quarto numero appariva d’altronde un suo lunghissimo articolo, dedicato a Sviluppo e congiuntura nel
capitalismo italiano, nel quale svolgeva un’analisi ad ampio raggio delle prospettive dello sviluppo capitalismo in
Italia e dunque dei margini che si aprivano per il con�itto di classe sul breve-medio periodo[34].
E l’anno seguente, nell’aprile 1965, teneva una relazione al seminario dei «Qr» in cui, dopo un’analisi della situazione
interna e internazionale, si delineavano alcuni possibili rapporti operativi non solo con «classe operaia», ma anche
con alcune formazioni maoiste (e in particolare con le Edizioni Oriente)[35]. Già da questi elementi si potevano
d’altronde riconoscere i segnali di un mutamento di sensibilità da parte dei «Qr»[36]. Un mutamento che certo non
determinava l’abbandono delle ipotesi originarie, ma che tendeva a ri�ettersi in una maggiore attenzione verso la
dimensione internazionale dello sviluppo e verso le proposte di revisione del marxismo che provenivano dalla
«rivoluzione culturale» di Mao.
Se il quinto numero della rivista era interamente dedicato al tema dell’inchiesta (con un importante contributo dello
stesso Rieser su Informazioni, valori e comportamenti operai[37], nell’ultimo fascicolo comparivano due articoli di
Edoarda Masi dedicati rispettivamente agli Insegnamenti teorici del comunismo cinese e a Rivoluzione nel Viet-nam e
movimento operaio occidentale[38]. In quell’ultimo numero, Rieser tornava invece sulla congiuntura internazionale, nel
tentativo di prevedere quali fossero i margini di azione negli anni successivi[39].
Ma si poteva intravedere anche in alcuni suoi contributi il fascino che sulla sua elaborazione esercitavano le
posizioni cinesi. L’interesse nei confronti di Mao – del tutto assente invece presso la componente, peraltro
eterogenea, che diede vita a «classe operaia» – era d’altronde già af�orato �n dal 1963, quando la prima «Lettera dei
Quaderni rossi» presentava un testo di Edoarda Masi Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista
cinese[40], e sarebbe costantemente riemerso negli anni seguenti. Se lo stesso Rieser �rmò alcune delle «Lettere»,
centrate sul sindacato e su momenti congressuali del Psi[41], l’interesse per la lotta anti-imperialista ricompariva
infatti nel documento, �rmato Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-imperialista e
situazione nel Medio Oriente», del giugno 1967[42], e nel testo I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre di Dario
Lanzardo[43], oltre che nel fascicolo monogra�co di «Quaderni piacentini» Imperialismo e rivoluzione in America
Latina, realizzato in collaborazione con i «Qr» e con «Classe e Stato» (un fascicolo alla cui redazione partecipò lo
stesso Rieser)[44].
L’esperienza della «rivoluzione culturale» avrebbe in effetti avuto per Rieser un valore centrale, e ancora nel 2001,
ricostruendo le principali matrici teoriche del suo percorso, sarebbe tornato su questo aspetto: «rispetto ai grandi
pensatori e leader politici del marxismo, io ho cominciato con Marx attraverso Panzieri, poi sono arrivato a Mao
dopo, quando Raniero era già morto, diciamo all’epoca delle rivoluzione culturale, e da lì sono giunto anche a Lenin.
Quindi, la risposta che do è di tipo maoista: la soggettività deve essere molto reale, non è qualcosa di costruito
dall’avanguardia, dal partito. La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e però molto spesso è disorganica,
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contraddittoria, che esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di
tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa. Secondo me, dal punto di
vista teorico l’impostazione maoista resta l’unica valida, perché in Lenin c’è un’accentuazione kautskiana molto
forte sul ruolo dell’avanguardia, mentre la risposta di Mao è la più realistica»[45].
L’esplosione
Dopo la conclusione delle attività dei «Quaderni rossi», Rieser – come si è d’altronde visto a proposito del numero
sull’imperialismo in America Latina – si era avvicinato al gruppo dei «Quaderni piacentini», cui peraltro collaborava
anche Goffredo Fo�. Dopo aver presentato sulla rivista alcuni testi inediti di Panzieri, tra cui la famosa relazione su
Lotte operaie nello sviluppo capitalistico[46], Rieser pubblicava per esempio un articolo in cui sintetizzava alcuni
elementi di analisi sulle traiettorie del capitalismo europeo, già ampiamente trattati sul sesto numero dei «Qr». La
congiuntura, secondo Rieser, tendeva a esasperare i margini di intensi�cazione del lavoro sugli impianti esistenti,
senza al tempo stesso poter offrire contropartite rilevanti. Ma questo alimentava una forte risposta operaia, dif�cile
da mediare. «L’attuale fase della razionalizzazione», scriveva per esempio, «stimola la reazione operaia proprio là
dove il capitalismo è più vulnerabile anche dalle forme spontanee, meno organizzate, di lotta: cioè al livello
dell’organizzazione del lavoro»[47].
Ciò naturalmente non comportava una debolezza della controparte, ma certo consegnava margini notevoli
all’azione operaia, che – nel quadro di una progressiva integrazione delle forze politiche e sindacali – si trovava
priva di forme organizzate capaci di esercitare un ruolo di guida. Dinanzi a una simile situazione, pur prendendo le
distanze dalle posizioni di «classe operaia», Rieser riteneva fosse indispensabile costruire margini di azione al di
fuori delle organizzazioni consolidate: «è necessario cioè ripartire dalle radici della spontaneità operaia, con i
problemi sindacali che ne vengono posti, e cercare di farle ripercorrere un cammino di crescente coscienza ed
organizzazione politica»[48].
Inoltre, anche se ammetteva che le rivendicazioni puramente economiche assumevano un pro�lo direttamente
‘politico’, pensava però che la spontaneità non fosse suf�ciente, e che fosse dunque comunque necessario cercare
di costruire un’organizzazione più stabile, almeno tendenzialmente alternativa a quelle uf�ciali. Pur consapevole
delle enormi dif�coltà, argomentava infatti la necessità di «iniziare un graduale e metodico lavoro di
‘ricollocamento’, che si sviluppi contemporaneamente in due direzioni: verso la creazione di forme organizzative
operaie in fabbrica, capaci di cominciare a rispondere sindacalmente ai problemi creati dalla razionalizzazione
capitalistica […], e verso la politicizzazione graduale degli elementi di reazione spontanea al sistema che esistono
ora»[49].
Il terreno su cui praticare quel lavoro di sperimentazione era rappresentato dai giornali di fabbrica, di cui erano
esempio «Il potere operaio» toscano, ma soprattutto la «Voce operaia», un foglio torinese realizzato direttamente da
operai (cui Rieser aveva fornito un supporto importante). Ma ben presto i ritmi – che Rieser prevedeva piuttosto
lenti – subirono un’improvvisa accelerazione, dovuta all’esplosione della contestazione studentesca, che in Italia
ebbe un epicentro proprio a Torino. Rieser – che allora era assistente di Sociologia – giocò un ruolo signi�cativo nel
sostenere la necessità che gli studenti si volgessero verso la dimensione di fabbrica, per trovare un terreno su cui
rilanciare il carattere della contestazione[50]. Il movimento torinese appariva invece nel suo complesso piuttosto
lontano dalle posizioni di Rieser, se non altro perché per tutta la prima fase – dall’autunno 1967 �no alla primavera
dell’anno seguente – il tema principale fu rappresentato dalla lotta contro l’«autoritarismo»[51].
Iniziative come quella della Lega Studenti-Operai ebbero dunque scarso impatto sulla gran parte del movimento
torinese, almeno �no ai primi mesi del 1969[52]. Proprio in quel periodo Rieser �rmò insieme a Mario Volterra una
lunga analisi, dedicata a Movimento studentesco, Pci e centro-sinistra, nella quale si consideravano le diverse alternative
che la contestazione universitaria si trovava di fronte. Se per un verso venivano ribadite le linee di interpretazione
dello sviluppo capitalistico già svolte in precedenza, il dato più rilevante era in questo caso rappresentato dalla
comparsa proprio di un soggetto come il movimento studentesco, che pareva offrire le condizioni di un’estensione
del fronte antagonista. Come scrivevano Rieser e Volterra, «si aprono […] possibilità concrete di tradurre in pratica il
potenziale allargamento dello schieramento rivoluzionario che – teoricamente – il processo di proletarizzazione
dovrebbe produrre nelle società capitalistiche avanzate»[53].
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Ma le potenzialità non equivalevano necessariamente a risultati politici, perché andavano già prendendo corpo
tendenze che puntavano a ridimensionare la portata antagonista della protesta studentesca e a funzionalizzarne la
spinta alle esigenze stesse delle piani�cazione dello sviluppo. Ed era a questo proposito che, nell’analisi di Rieser e
Volterra, faceva la comparsa il discorso ‘maoista’ sulla «linea di massa». In questo senso, in un passaggio cruciale,
scrivevano infatti: «Per costruire un minimo di strategia e di organizzazione unitaria è necessario, ancora una volta,
partire da una analisi delle classi nella società in cui agiamo: da una analisi delle classi nel senso maoista, cioè
un’analisi politica che individui il tessuto di contraddizioni in cui le varie classi si situano nel momento attuale e la
posizione in cui ciascuna di esse si colloca (o può collocarsi) rispetto a una linea rivoluzionaria.
Quest’analisi è particolarmente possibile ora (o meglio, può dare ora risultati diversi e più precisi che nel recente
passato) anche in seguito all’azione del Ms: che, portando alla luce, estendendo e intensi�cando i con�itti esistenti
nella società, spinge via via strati sociali (�nora passivi o in posizione ambigua) a prendere posizione – in toto o
spaccandosi all’interno o per ora in loro parti minoritarie – schierarsi nella lotta da una parte o dall’altra. Proprio
per questo collegamento oggettivo esistente tra l’azione del movimento e l’attuale con�gurazione dello
schieramento di classe, il Ms può effettuare quest’analisi partendo da un’analisi della natura e delle ragioni della
ragioni della ‘disponibilità politica’ mostrata dai vari strati sociali rispetto all’azione del Ms (senza ovviamente far
poi di questo l’unico criterio di misura della più generale ‘disponibilità rivoluzionaria’ di ciascun strato)»[54].
Benché in queste argomentazioni fossero evidenti le in�uenze maoiste, in realtà per Rieser l’enfasi sull’analisi della
realtà di classe equivaleva, ancora una volta, alla riaffermazione della centralità dell’inchiesta, come strumento
attraverso cui pervenire alla de�nizione della linea politica e delle modalità organizzative. Se Rieser e Volterra
indicavano al movimento studentesco la necessità di rinnovare il proprio repertorio di azione e soprattutto di
trovare una connessione con le lotte operaie, gli eventi dei mesi successivi sancirono in effetti una almeno parziale
saldatura di queste due componenti, attorno alle lotte Fiat.
E, sul numero successivo dei «Quaderni piacentini», lo stesso Rieser poteva riassumere, in una lunga intervista, le
sequenze del con�itto, destinato a conoscere una prima vetta negli scontri di corso Traiano, il 3 luglio 1969[55]. In
quella fase, alle porte della Fiat erano ormai arrivati molti dei frammenti della galassia operaista, e iniziava a
prendere avvio la divaricazione tra quelle due anime da cui, di lì a poco, sarebbero nati tanto Potere operaio quanto
Lotta continua. Forse fu lo stesso Rieser, insieme a Mario Dalmaviva, a coniare la formula «La Lotta continua»,
�rmando con questa sigla i volantini dell’assemblea operai-studenti[56]. Nonostante alcuni elementi di vicinanza
(tra cui una certa sensibilità ai temi della «rivoluzione culturale»), Rieser non aderì mai al gruppo di Sofri.
Naturalmente conservò una distanza ancora maggiore da «La classe», il giornale che di lì a poco si sarebbe
trasformato in «Potere operaio». Rispetto alle impostazioni di quest’ultimo gruppo, Rieser esprimeva chiaramente il
proprio dissenso già nell’estate 1969, nonostante riconoscesse a «La classe» il merito di aver compreso la centralità
delle rivendicazioni salariali. La distanza di Rieser stava però tutta nel giudizio di «spontaneismo» che dava del
gruppo che faceva capo a Negri e Bologna, e – più precisamente – che fosse necessario lavorare per costruire delle
avanguardie capaci di dare continuità alle rivendicazioni. In particolare, Rieser riteneva cruciale costruire
«avanguardie di massa», costituite sui luoghi di lavoro da elementi che fossero in grado di operare «una certa
uni�cazione delle parole d’ordine», di «svolgere un’azione di collegamento», di «creare embrioni di organizzazione
che abbiano certe possibilità di durata in fabbrica»[57].
Ma, oltre a questo, era anche necessario pensare a vere e proprie «avanguardie politiche», in fondo molto simili alle
avanguardie della tradizione marxista-leninista: «Non possiamo assolutamente rinviare il processo di formazione e
di chiari�cazione interna di una avanguardia politica composta da studenti e da operai che, senza illudersi di poter
prevedere e piani�care il futuro in misura troppo elevata, sappia però valutare giorno per giorno e con un minimo di
anticipo tutti i problemi e le decisioni di lotta a cui ci si trova di fronte, che sappia estrarne il signi�cato politico più
profondo e proporlo a livello nazionale, e che sappia vedere quali sono le indicazioni di prospettiva che tutta
quest’esperienza di lotta dà, da un lato per la formazione del partito, e dall’altro in indicazioni di strategia, di azione
di questo partito»[58].
I problemi sollevati da Rieser non erano molto diversi da quelli che, di lì a pochi mesi, avrebbero affrontato anche
Lotta continua e Potere operaio, perché in effetti i motivi teorici della loro divaricazione furono proprio relativi al
modo in cui concepire l’«avanguardia» su cui costruire l’organizzazione[59]. Nella realtà la divaricazione aveva
naturalmente anche altre motivazioni, ma entrambe le formazioni – con qualche rilevante differenza – ritennero che
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l’organizzazione dovesse essere costruita a partire dalle avanguardie ‘interne’, e cioè le avanguardie emerse nelle
diverse situazioni con�ittuali.
La posizione di Rieser, pur riconoscendo la centralità delle avanguardie ‘interne’ (che de�niva come «avanguardie di
massa»), riaffermava però la necessità di un altro livello di avanguardia, caratterizzato anche da una preparazione
teorica e da una militanza speci�ca al di fuori del luogo di lavoro e dentro un’organizzazione speci�camente
politica[60]. E proprio una simile convinzione doveva progressivamente allontanare Rieser dalle componenti
dell’operaismo (e del futuro «post-operaismo»), per spingerlo verso un recupero più esplicito del leninismo e,
qualche anno più tardi, verso l’approdo a una formazione come Avanguardia operaia, che a Milano aveva in qualche
misura combinato alcune dimensioni in senso lato ‘operaiste’ con un’impostazione marxista-leninista
(contrassegnata peraltro da un marcato antistalinismo)[61].
Il lavoro di porta
La militanza a tempo pieno di Rieser – che aveva abbandonato l’attività di assistente all’Università di Torino per
insegnare alla scuola serale, proprio per poter continuare il ‘lavoro di porta’ alla Fiat – si scontrò però, dopo
l’esplosione con�ittuale del ’69, con una nuova dif�coltà. Sebbene Rieser avesse avuto un ruolo signi�cativo nelle
attività dell’Assemblea operai-studenti, la sua decisione di non entrare nei due principali gruppi che presero forma
dalle lotte alla Fiat – Potere operaio e soprattutto Lotta continua – fece sì che per un periodo la sua militanza
assumesse il pro�lo di un lavoro di inchiesta quasi individuale[62]. Il piccolissimo gruppo raccolto attorno a Rieser,
che tentava di introdurre nelle lotte di fabbrica alcune tematiche maoiste, si incontrò con il percorso del Collettivo
Lenin, una formazione che a Torino conobbe un certo sviluppo tra il 1969 e il 1973, quando con�uì in Avanguardia
operaia[63].
Nel Collettivo (che era nato da un precedente collettivo di formazione cattolica, approdato allo studio di Lenin e
Mao), Rieser trovò il potenziale su cui costruire quell’«avanguardia politica» che a suo avviso risultava tanto
importante per poter sfuggire ai rischi di un riassorbimento dell’ondata con�ittuale. Ma, se per un verso la
formazione teorica rimaneva fondamentale per la costruzione di un’«avanguardia politica», per l’altro era ancora
più importante consolidare ciò che aveva de�nito come un’«avanguardia di massa», e cioè uno strato di militanti
direttamente operativi negli ambiti lavorativi (e non necessariamente emanazione dell’organizzazione strettamente
politica)[64].
In effetti, uno degli obiettivi fu proprio la costruzione dei Cub, i Comitati Unitari di Base, che – a differenza di quanto
era avvenuto a Milano, dove erano nati come organismi ‘spontanei’ già nel 1968 – ebbero uno sviluppo piuttosto
tardivo, e anche per questo il Collettivo Lenin riconobbe la necessità di operare all’interno dei consigli di fabbrica e
di riconoscere anche la legittimità dei delegati (e dunque la necessità di interagire con le strutture sindacali)[65]. Se
questi erano gli obiettivi, non è dif�cile riconoscere nello stile di lavoro del Collettivo la forte impronta che derivava
a Rieser dall’esperienza dei «Qr» e che si traduceva, ancora una volta, nella centralità dell’inchiesta, riletta ora nella
chiave maoista della «linea di massa», e considerata – si leggeva per esempio in un documento del 1972 – come
l’«unica maniera per conoscere bene quali sono le esigenze e le idee degli operai» e come il solo strumento per
«stabilire un corretto rapporto con le masse»[66].
Il radicamento dei Cub nella realtà torinese, avvenuto soprattutto tra il 1972 il 1973, indusse il Collettivo Lenin a
ricercare un coordinamento nazionale con altre formazioni che portassero avanti una linea analoga, e una simile
sponda venne trovata soprattutto in Avanguardia operaia, che a Milano aveva in effetti sostenuto i Cub �n dal loro
apparire. Da questo avvicinamento, scaturì nel 1974 la vera e propria con�uenza del Collettivo Lenin in Avanguardia
operaia, nella cui organizzazione Rieser assunse un ruolo di primo piano. Dopo aver partecipato nel 1975 alle
elezioni amministrative a Torino, sostenendo una lista denominata «Democrazia operaia», in vista delle elezioni
politiche del giugno 1976 Ao diede vita – insieme a Lotta continua e Pdup – al cartello elettorale «Democrazia
proletaria», che aveva come obiettivo il sostegno a un governo di sinistra (alternativo alla linea del «compromesso
storico»), ma la cui avventura si risolse in una clamorosa scon�tta[67].
Dopo le elezioni del 20 giugno 1976 Lotta continua avviò il processo di scioglimento, sancito alcuni mesi dopo dal
congresso tenuto a Rimini, ma anche Avanguardia Operaia – seppure più lentamente – iniziò a incamminarsi verso
quel processo che avrebbe condotto alla fusione col Pdud e alla formazione di Democrazia proletaria (non più
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cartello elettorale, ma vero e proprio partito), nel 1978. Al dibattito post-elettorale prese parte ovviamente anche
Rieser, che inizialmente considerò la scon�tta come «profondamente salutare» per le forze della sinistra
radicale[68]. In realtà, la discussione interna si sarebbe ben presto rivelata lacerante, anche perché – in vista della
fusione col Pdup – venne da alcune componenti messa in radicale discussione la stessa esperienza dei Cub.
In questa fase di dibattito, protrattasi per più di un anno, Rieser – che faceva parte del Comitato Centrale di Ao – si
schierò contro il segretario Aurelio Ciampi, che aveva avviato un processo parallelo di uni�cazione con la
componente del Pdup che faceva capo a Lucio Magri[69]. Nel marzo 1977, in occasione del suo quinto congresso,
Avanguardia Operaia decise comunque lo scioglimento, �nalizzato alla costruzione di un’organizzazione più ampia,
che divenne l’anno seguente Democrazia proletaria[70]. Rieser – che peraltro dopo l’ingresso in Ao, anche per le
necessità del suo ruolo politico, si era trasferito all’Università di Modena, lasciando Torino e la scuola serale – entrò
nella nuova formazione, senza però assumere mai incarichi direttivi.
Dentro le trasformazioni
La �ne dell’esperienza di Avanguardia Operaia coincise per molti versi con la conclusione dell’attività politica diretta
di Rieser (che comunque, verso la �ne degli anni Ottanta, si iscrisse al Pci e poi, nel decennio seguente, a
Rifondazione comunista, senza però mai assumere ruoli uf�ciali). Ciò nondimeno, la ricerca ‘militante’ non si
arrestò, e Rieser di fatto proseguì il lavoro di inchiesta soprattutto partecipando, �n dai primi anni Ottanta, all’Ires-
Cgil di Torino, presso il quale trascorse anche un lungo periodo di distacco sindacale, dal 1989 �no al 1999[71]. Tra le
numerose indagini di questa fase spiccano ricerche sui delegati sindacali, sulle trasformazioni del mondo operaio e,
ancora una volta, sugli stabilimenti Fiat, radicalmente modi�cati dalla ristrutturazione degli anni Ottanta[72]. Ma
anche negli ultimi anni della sua vita – ormai in pensione e alle prese con i problemi di salute – Rieser tornò
nuovamente sui temi che lo avevano accompagnato per più di mezzo secolo, confermando ancora una volta la
centralità dell’inchiesta come strumento conoscitivo e come via preliminare alla de�nizione di ogni disegno
progettuale, che fosse politico o sindacale, e che si distendesse sui tempi lunghi delle prospettive strategiche o
rimanesse circoscritto sui tempi rapidi di un intervento puntuale.
Nel 2010, introducendo Lotte operaie nella crisi, un volume di Matteo Gaddi dedicato all’analisi di alcune realtà
aziendali del Nord colpite dalla crisi, Rieser tornava a ribadire la centralità dell’inchiesta come strumento su cui
incardinare qualsiasi discorso politico e sindacale. L’iniziativa di Gaddi – che in qualche modo raccoglieva l’eredità
di Rieser, seguendone anche le indicazioni di metodo – nasceva anche dalla presa d’atto che, con la scomparsa dalla
geogra�a parlamentare italiana della sinistra radicale, fosse indispensabile tornare a ricostruire un progetto politico
partendo dalle fondamenta, ossia proprio dalla dimensione del lavoro.
Rispetto alle vecchie inchieste degli anni Sessanta e Settanta, naturalmente i materiali che Gaddi proponeva non
potevano che registrare la realtà di un contesto completamente mutato, che presentava innanzitutto l’assenza quasi
completa di quadri militanti in grado di poter fornire un anello di connessione materiale tra i ‘ricercatori’ e i
lavoratori, e proprio per questo gli interlocutori erano soprattutto lavoratori iscritti al sindacato (dunque soggetti
già relativamente ‘politicizzati’). Si trattava inoltre di quelle che Rieser de�niva «inchieste lampo», ossia inchieste
realizzate in tempi molto rapidi, con l’obiettivo di un intervento immediato in una situazione di emergenza, a cui
dovevano seguire anche inchieste a più ampio raggio[73]. Il punto principale era però che si trattava di materiali di
inchiesta dal pro�lo chiaramente ‘politico’, e cioè �nalizzati non a ‘fotografare’ una situazione, ma a fornire
strumenti conoscitivi in vista di un’azione in un contesto speci�co, oltre che, in secondo luogo, a costruire uno
strato intermedio di militanti, capaci di utilizzare l’inchiesta come strumento di lavoro principale[74].
Presentando una sezione della rivista «Progetto lavoro», in cui apparivano elementi di indagine raccolti soprattutto
dallo stesso Gaddi[75], Rieser scriveva d’altronde che lo strumento dell’inchiesta era necessario per fornire
conoscenze ai lavoratori e ai militanti sindacali, ma sottolineava anche – in evidente polemica con molte
interpretazioni provenienti dall’operaismo – come l’inchiesta dovesse essere il frutto tanto delle esperienze dei
lavoratori, quanto – al tempo stesso – dei dati complessivi a disposizione degli «specialisti»: «Una conoscenza vera
delle condizioni di lavoro nasce solo dall’esperienza-conoscenza dei lavoratori; ma, al tempo stesso, va
‘completata’ con informazioni e dati sulla produzione, i suoi mercati, la situazione �nanziaria, le leggi che agiscono
sull’economia, che vanno ricavati da altre fonti. Noi quindi non crediamo in un ‘sapere operaio’ auto-suf�ciente,
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contrapposto alla ‘scienza borghese’, come hanno teorizzato alcuni settori dell’operaismo e alcune ideologie
super�ciali legate al movimento del ’68. Pensiamo […] che la conoscenza derivante dall’esperienza dei lavoratori
vada integrata con il sapere tecnico derivante dalle conoscenze di specialisti ed esperti, e che solo da una sintesi,
autonoma e critica, di questi due �loni di conoscenza possa derivare una base conoscitiva adeguata all’azione di
classe»[76].
L’accenno polemico alle concezioni del «sapere operaio» sviluppate da «alcuni settori dell’operaismo» non era certo
sorprendente per quanti conoscevano il percorso intellettuale e politico di Rieser, e d’altro canto anche il
riferimento alle «conoscenze di specialisti ed esperti» sembrava riproporre proprio quella idea ‘neo-illuministica’
delle scienze sociali che spesso venne rimproverata ai «Qr» dopo la rottura tra Panzieri e il gruppo composito che
diede vita a «classe operaia». Se infatti molti critici – sviluppando le critiche già accennate dallo stesso Panzieri –
avrebbero in seguito accusato Tronti di costruire una �loso�a della storia idealistica[77], gli esponenti
dell’operaismo – o quantomeno dell’operaismo che prese forma con la «rivoluzione copernicana» proposta da
Operai e capitale, avrebbero continuato a considerare negativamente la �ducia risposta da Rieser e dai «Qr» nella
sociologia (e più speci�camente nella «sociologia borghese»). Il più deciso in questa critica fu naturalmente Alquati,
che �n dall’inizio aveva polemizzato con le concessioni eccessive alle scienze sociali di matrice statunitense fatte da
Rieser e dagli altri giovani raccolti attorno a Panzieri (per questo de�niti spesso, non senza un tono spregiativo,
«sociologi»)[78]. E ancora oggi, d’altronde, nella completa ricostruzione della storia dell’operaismo italiano
compiuta dallo studioso australiano Steve Wright, l’ultima fase dei «Qr» viene ricordata, seppur solo
tangenzialmente, per l’«uso acritico della sociologia»[79].
In effetti negli scritti di Rieser degli anni Sessanta – almeno �no al momento in cui nel 1969, per seguire il «lavoro di
porta» alla Fiat, non abbandonò l’università, dedicandosi quasi a tempo pieno all’attività politica – si poteva
riconoscere l’in�uenza della sociologia italiana del periodo. E in particolare si poteva intravedere più di qualche eco
del contributo di intellettuali come Luciano Gallino e Alessandro Pizzorno, che andavano introducendo in Italia molti
temi della sociologia industriale statunitense.
Quel contributo, che pure proveniva da intellettuali vicini alla sinistra, si era scontrato alla �ne degli anni Cinquanta
con la severa opposizione degli ambienti vicini al Pci, in cui erano ancora forti le resistenze alla sociologia della
tradizione crociana. In un intervento scritto a quattro mani con Laura Balbo, Rieser nel 1962 faceva il punto del
dibattito, sottolineando in particolare come spazi di dibattito signi�cativi giungessero dalla ri�essione della scuola
dellavolpiana, e in particolare di Lucio Colletti e dello stesso Tronti, in cui – pur rimanendo un pregiudizio nei
confronti delle scienze sociali – la rilettura non ideologica del marxismo poteva aprire direzioni di ricerca
sociologica. Ma Balbo e Rieser riconoscevano soprattutto la validità di una prospettiva che integrasse il marxismo –
come critica del capitalismo – con le tecniche della ricerca sociologica, e in questo senso per esempio scrivevano:
«L’analisi dell’alienazione capitalistica, in particolare, della condizione operaia nella fabbrica, può valersi ora di
strumenti ‘tecnici’ offerti dalla moderna sociologia e psicologia; di tali tecniche viene fatto spesso un uso ambiguo e
ideologico; in un contesto marxista possono dare risultati nuovi e assai utili. Da un altro lato, è possibile – sul piano
formale – una revisione della formulazione linguistica di certe ipotesi marxiane, che ne elimini ambiguità e
contraddizioni. Un’operazione del genere può valersi ora di tecniche assai raf�nate, e può dare risultati non
trascurabili»[80].
La scelta dei temi che indicavano Balbo e Rieser al termine del loro articolo non era certo casuale, perché si trattava
per molti versi dei nodi al centro della discussione dei «Qr». Leggendo oggi i carteggi dei protagonisti, è abbastanza
evidente che i componenti del gruppo romano – e in particolare Tronti – nutrivano ben più di qualche riserva nei
confronti dell’utilizzo che Rieser faceva delle tecniche sociologiche, ma è anche evidente che l’avversario forse più
radicale dei «sociologi» era proprio Alquati, che rivendicò �n dal principio l’originalità della propria «conricerca»,
metodologicamente nettamente contrapposta all’«inchiesta» portata avanti dagli altri componenti dei «Qr», oltre
che dallo stesso Panzieri. Su molte di queste divergenze Rieser sarebbe d’altronde ritornato in diverse occasioni,
chiarendo in termini retrospettivi alcuni passaggi e soffermandosi anche sui limiti della visione dello stesso
Panzieri, che pure rimase sempre un riferimento per l’intellettuale torinese.
In un testo apparso alla metà degli anni Settanta, in cui rievocava tanto Panzieri quanto l’origine dei «Qr», ricordava
certo gli apporti positivi della rivista, relativi in particolare all’analisi innovativa delle trasformazioni del capitalismo,
al riconoscimento delle nuove forme in cui si esprimeva l’autonomia operaia, alla critica delle visioni del socialismo
canonizzate dall’esperienza sovietica e in�ne alla riproposizione della questione della forma dell’organizzazione
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politica. Accanto a questi meriti, non nascondeva però i limiti, e in questa rassegna non era certo dif�cile
riconoscere un ri�esso delle polemiche che, in quegli anni, Ao andava conducendo sia contro le formazioni
dell’estrema sinistra che si richiamavano all’eredità dell’operaismo, sia contro i teorici dell’«autonomia del politico»
entrati nel Pci.
Tra questi limiti, Rieser segnalava infatti «una sopravvalutazione degli aspetti programmati e razionalizzatori dello
sviluppo capitalistico», «una critica tutta ideologica al riformismo del movimento operaio», «un’esaltazione
ideologica, che attribuiva alla coscienza spontanea della classe operaia un livello politico e una sistematicità assai
lontani da una realtà che era assai più complessa e contraddittoria», «teorizzazioni spontaneiste sul problema
dell’organizzazione», «una visione schematica della realtà di classe, ridotta allo scontro tra classe operaia e classe
capitalistica», «una sottovalutazione degli obiettivi democratici della lotta di classe in Italia», oltre che «una
percezione unilaterale e deformata di molti aspetti dell’esperienza cinese»[81].
Benché salvasse Panzieri dall’accusa di «spontaneismo» – un’accusa che invece a suo avviso fondata per il gruppo
di «classe operaia» – in realtà Rieser sottolineava come una simile tentazione fosse almeno in parte implicita nella
stessa generalizzazione tratta dai «Qr» a proposito delle nuove forme di lotta operaia. «La stessa analisi unilaterale
del capitalismo italiano», secondo Rieser portava infatti Panzieri «al tentativo di costruire una prospettiva strategica
unicamente a partire dai contenuti impliciti nelle lotte di fabbrica: contenuti che egli non mitizza, che cerca di
sottoporre a elaborazione; ma un’elaborazione che, proprio perché basata su una visione unilaterale della realtà,
�nisce per essere fortemente ideologica»[82].
Anche dopo gli anni Settanta la valutazione dell’esperienza dei «Qr» non si sarebbe modi�cata nelle sue coordinate,
anche se naturalmente il mutare del clima politico avrebbe quantomeno indebolito la polemica contro lo
«spontaneismo»[83]. Al di là della speci�ca visione del rapporto tra organizzazione politica e dimensione di massa,
che Rieser formulava allora (e in qualche misura avrebbe continuato a formulare anche in seguito) in termini
‘maoisti’, c’erano però alcune differenze più sostanziali che separavano la sua ricerca da quella dell’operaismo (o
quantomeno dell’operaismo nato da «classe operaia» e poi declinatosi in molteplici varianti). E queste differenze
emersero per molti versi �n dai primi anni Sessanta, nella contrapposizione tra l’«inchiesta» e la «conricerca».
Tanto Rieser quanto Alquati sarebbero tornati più voltre a ribadire le rispettive posizioni, e Rieser avrebbe anche
riconosciuto come la «conricerca» – ossia una ricerca cui prendessero parte direttamente gli operai, e in cui
dunque sparisse la distinzione tra ricercatore e operaio-oggetto della ricerca – fosse senz’altro preferibile, ma
richiedesse condizioni molto rare, spesso anzi del tutto assenti[84]. Una ricostruzione di parte, ma comunque
indicativa, della contrapposizione era compiuta – solo alcuni anni dopo – dallo stesso Rieser, insieme a Dino De
Palma e a Edda Salvadori, sul quinto numero dei «Qr».
Ripercorrendo infatti le tappe di svolgimento dell’inchiesta alla Fiat del 1960-61 – quella da cui erano partite tutte le
ipotesi della rivista – i tre ricercatori tornavano sulla contrapposizione, che in parte ri�etteva anche le residue
ostilità verso la sociologia americana, individuando due diverse visioni dell’inchiesta: «Da un lato si sosteneva che la
scelta dei problemi e degli strumenti con cui affrontarli doveva essere condotta sulla base dei nostri problemi
politici, e che su quella base l’inchiesta doveva procedere in modo molto rigorosamente sociologico. Si potevano e
si dovevano, naturalmente, utilizzare tutte le possibilità di contatto che l’inchiesta offriva per individuare eventuali
quadri operai che avrebbero potuto assumere subito un ruolo politico più attivo (non escluso quello di ricercatori):
ma l’impostazione dell’inchiesta dovevamo essere noi a darla, molto chiaramente, in partenza, e non poteva
sorgere spontaneamente dal susseguirsi di contatti con gli operai»[85].
Al di là delle considerazioni dei protagonisti e dello stesso Alquati (che peraltro avrebbe lavorato per un’intera vita
sulla precisazione di cosa si dovesse intendere per «conricerca»[86]), è molto probabile che la divergenza non fosse
tanto ‘metodologica’, quanto di carattere strettamente ‘politico’. Per molti versi, infatti, il gruppo dei «sociologi»
intendeva l’inchiesta come un lavoro di studio e ricerca sulla soggettività operaia del tutto ‘preliminare’ al lavoro
politico e dunque alla costruzione (insieme al sindacato) di determinate linee di azione, anche se era scontato che
proprio il lavoro di inchiesta dovesse stabilire o consolidare rapporti con operai che potevano rivestire un ruolo di
‘avanguardie’, o comunque di militanti.
Al contrario, Alquati – in cui, almeno nei primi anni Sessanta, era piuttosto forte l’in�uenza di un certo ‘anarco-
sindacalismo’ di matrice francese e statunitense – pensava verosimilmente la «conricerca» come un lavoro
direttamente ‘politico’, non tanto per la partecipazione diretta degli operai, quanto perché doveva puntare a
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ricostruire il processo produttivo ‘dal basso’ – dal «punto di vista operaio» – connettendo e organizzando quelle
tracce di antagonismo che già esistevano. In una simile visione, ovviamente il ruolo dell’organizzazione strettamente
‘politica’ di fatto scompariva, assorbita interamente dall’azione diretta degli operai dentro il processo lavorativo e
dentro il tessuto organizzativo che veniva a uni�care i diversi punti che ‘bloccavano’ la razionalità del «piano».
Ed era invece proprio questo aspetto che Rieser avrebbe severamente contestato, rimproverando tra l’altro a
Panzieri il fatto che un simile spontaneismo fosse una conseguenza dell’interpretazione del neo-capitalismo, in
virtù della quale ogni fattore di blocco e resistenza poteva essere considerato come una ‘rottura’. In questo modo,
però si tralasciava del tutto il problema dei valori e la questione della coscienza, nella convinzione che dai
comportamenti operai scaturisse direttamente una rivendicazione di potere. Nelle premesse e nelle conseguenze
del lavoro di inchiesta, sintetizzavano De Palma, Rieser e Salvadori, si nascondeva così una duplice ambiguità: «se da
un lato la coscienza politica era vista come un obiettivo da raggiungere, in certa misura indispensabile per la stessa
lotta sindacale, dall’altro essa compariva come già implicita nei comportamenti operai di con�itto e di protesta,
anche nei loro aspetti più immediati», e proprio per questo la «coscienza politica» compariva «al tempo stesso
come obiettivo e come premessa del nostro intervento»[87].
Anche sulla scorta di questo riesame critico dell’inchiesta del 1960-61, Rieser – sempre sul quinto numero dei «Qr»
– ebbe cura di chiarire come nel lavoro di indagine dovessero essere tenuti ben distinti i comportamenti dalle
informazioni e soprattutto dai valori. Rieser – che peraltro non utilizzò mai il concetto di «composizione di classe»
nel signi�cato con cui venne inteso da «classe operaia», soprattutto grazie alla ride�nizione compiuta da Alquati –
non negava l’importanza dei comportamenti, ma sottolineava anche come una loro analisi dovesse essere sempre
af�ancata dall’analisi delle informazioni e dei valori. E, più speci�camente, riteneva che il riferimento a informazioni,
valori e comportamenti fosse molto più utile e chiaro della contrapposizione tra «forza-lavoro» e «classe operaia»
introdotta soprattutto da Tronti, per indicare, rispettivamente, i lavoratori come strumento ‘passivo’ del processo di
produzione e i lavoratori in quanto soggetto collettivo, capace di interrompere il processo lavorativo. Una simile
contrapposizione rischiava per Rieser di diventare fuorviante, nel senso che suggeriva l’idea che i lavoratori fossero
o totalmente integrati, oppure totalmente rivoluzionari, mentre la realtà era ovviamente più articolata, nel senso che
– come scriveva – si presentavano «situazioni in cui informazioni, valori e comportamenti peculiari della classe
operaia si accompagnano ad altri mutuati da gruppi sociali diversi, e in cui informazioni, valori e comportamenti
con�ittuali col sistema sociale esistente si accompagnano ad altri integrati nello stesso sistema»[88].
Tutto il discorso di Rieser puntava però a reintrodurre un nodo fortemente presente nella tradizione marxista-
leninista e invece �no a quel momento quasi del tutto assente nella ri�essione dei «Qr», ossia il nodo della
«coscienza di classe», perché a suo avviso proprio su questo elemento l’inchiesta doveva insistere, per poter
costruire un progetto politico che andasse oltre l’immediatezza dei comportamenti con�ittuali.
Se il modello di coscienza di classe da adottare indicava «il tipo di informazioni e di valori che si considerano
adeguati ai nostri obiettivi politici, e indica i problemi a cui tali informazioni e valori si riferiscono», l’inchiesta doveva
porsi l’obiettivo «anzitutto di fornire elementi di conoscenza utilizzabili per confrontare il grado attuale di coscienza
operaia con quel modello, in secondo luogo di contribuire a creare strumenti di intervento che sviluppino nella
coscienza operaia elementi coerenti al modello, in terzo luogo di stimolare direttamente, negli operai intervistati,
una presa di posizione di fronte ai problemi contenuti nel modello»[89].
Anche se forse il risultato raggiunto nell’articolo del ’65 non era del tutto soddisfacente, Rieser non avrebbe mai
abbandonato la convinzione che, nel lavoro di inchiesta, fosse sempre indispensabile considerare anche il livello
della coscienza politica. Anche per questo avrebbe considerato sempre molto criticamente, oltre che la distinzione
tra «forza-lavoro» e «classe operaia», anche l’idea che da una determinata «composizione tecnica» della forza-
lavoro dovessero scaturire speci�ci comportamenti con�ittuali, e dunque un’altrettanto determinata
«composizione politica»[90]. In realtà non tutti i �loni dell’operaismo adottarono quella distinzione e soprattutto
l’idea di una relazione necessaria fra la dimensione ‘tecnica’ e quella ‘politica’, perché per esempio Sergio Bologna –
che pure ebbe un ruolo determinante tanto nel tratteggiare quello schema, quanto nel delineare la �gura
dell’«operaio massa» – già all’inizio degli anni Settanta imboccò una direzione piuttosto differente[91].
Ciò nondimeno, rimane vero che l’elemento della coscienza politica nei �loni operaisti – pur non essendo del tutto
assente – rimane spesso su un piano secondario (o marginale), a fronte della centralità assegnata ai comportamenti
operai e ai ‘residui’ con�ittuali sedimentati nella struttura della composizione di classe. Ed era invece proprio sulla
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centralità della coscienza di classe che Rieser sarebbe tornato quasi costantemente, anche nei suoi ultimi interventi,
adottando in questo caso lo schema proposto da Erik Olin Wright, che distingue tre differenti livelli: «la percezione
delle alternative», «le teorie sulle conseguenze» e in�ne «le preferenze»[92].
Il velo dell’«apparenza»
Il costante richiamo all’importanza della «coscienza di classe», la critica serrata contro lo ‘spontaneismo’ e la stessa
polemica indirizzata alle visioni ‘operaiste’ del «sapere operaio» – motivi che ritornano nei suoi scritti, dagli anni
Sessanta in poi – non deve però indurre l’impressione che il percorso di Rieser possa essere racchiuso entro le
coordinate della tradizione marxista-leninista, o dentro i con�ni del «marxismo ortodosso». Benché Rieser abbia in
effetti considerato a lungo (forse sempre, o quantomeno a partire dalla �ne degli anni Sessanta) come riferimenti
cruciali gli scritti di Lenin e Mao, per comprendere pienamente il suo itinerario è importante ricordare come la sua
concezione della «coscienza di classe» fosse molto distante da quella adottata dalle diverse varianti del leninismo,
perché quella idea veniva declinata in una variante ben distante da quelle che erano ravvisabili nelle formazioni
‘�locinesi’ degli anni Sessanta.
Per molti versi nella tradizione leninista (o meglio nelle principali varianti di questa tradizione), la coscienza di classe
viene ad assumere due differenti pro�li, che si sovrappongono spesso ambiguamente l’uno sull’altro: innanzitutto,
la coscienza di classe è, in termini politici, la coscienza della propria forza, del proprio ruolo, del proprio compito,
che l’Arbeiterklasse conquista nel corso di una lunga stagione di con�itti, i quali – in linea tendenziale – conducono i
singoli operai e le singole frazioni in cui è divisa la classe lavoratrice a riconoscere gli interessi comuni e a difenderli
collettivamente; in secondo luogo, in termini ‘�loso�ci’, la coscienza di classe è invece la conoscenza non misti�cata
della società capitalistica, una conoscenza che consente di comprendere quale sia il ‘reale’ interesse della classe
lavoratrice, non sulla base di un’identità politica comune, bensì sulla scorta di un’analisi di lungo periodo condotta
con gli strumenti della teoria marxista da parte di un gruppo ristretto di individui, che – proprio perché dotati dei
mezzi analitici adeguati e della «teoria rivoluzionaria» – possono assumere il ruolo politico di avanguardia.
Benché questo schema sia evidentemente sempli�cato, esso riesce forse a cogliere un’ambiguità che percorre – più
che semplicemente la tradizione leninista – l’intera traiettoria del marxismo. Ma, soprattutto, non è dif�cile
ritrovare una formulazione nitida della connessione tra la centralità della teoria marxista e la legittimazione del
ruolo dell’avanguardia politica nelle pagine leniniane di Che fare?, perché in questo caso la battaglia contro lo
«spontaneismo» e il «tradeunionismo» è combattuta proprio in nome di una visione la cui superiorità politica si
gioca sul terreno della capacità di visione (e previsione). E ciò signi�ca che l’idea secondo cui «la coscienza politica
di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica»[93] si può reggere
solo sull’idea che quella coscienza politica – che può essere portata «dall’esterno» – sia in realtà il prodotto di una
conoscenza non misti�cata della realtà dello sviluppo capitalistico e delle sue tendenze, e che proprio per questo sia
superiore scienti�camente alle posizioni che assecondano le tendenze ‘spontanee’ al «tradeunionismo».
Al di là della legittimità di una simile ricostruzione, il punto è che proprio distinguendo queste due differenti
concezioni della «coscienza di classe» si può forse comprendere appieno il ‘leninismo’ (riletto in chiave ‘maoista’)
di Rieser, e dunque cogliere senza deformazioni il signi�cato del suo costante richiamo alla «coscienza di classe». In
effetti, Rieser fu per molti versi ‘leninista’ nel rivendicare la centralità del ceto politico, ossia nell’affermare la
necessità di quadri preparati teoricamente, in grado di in�uire «dall’esterno» sui lavoratori e sulle loro decisioni.
Proprio per questo, polemizzò sempre contro lo ‘spontaneismo’, che esaltava l’azione ‘autonoma’ della classe
operaia, trascurando tanto l’importanza dei livelli di mediazione politica e sindacale, quanto il peso della formazione
teorica dei quadri.
Al tempo stesso – e vale la pena sottolinearlo, perché si tratta di un aspetto forse non opportunamente segnalato –
Rieser non condivise mai la convinzione ‘leninista’ secondo cui la teoria sarebbe l’unico strumento capace di
squarciate il velo ideologico che occulta la realtà e di mostrarne dunque il volto non misti�cato. E proprio per
questo non concepì mai la «coscienza di classe» come una forma di conoscenza ‘non misti�cata’ consentita dalla
teoria, né tanto meno intese dunque l’avanguardia come la ristretta cerchia di dirigenti capaci di guidare le masse
grazie alla superiorità del loro sapere.
Per cogliere questo aspetto della ri�essione di Rieser sono cruciali alcuni suoi scritti della metà degli anni Sessanta,
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in cui – in modo molto più organico di quanto avrebbe fatto in seguito – si concentrò su due concetti della teoria
marxista e sulla loro utilizzabilità sotto il pro�lo dell’indagine sociologica. In un contributo apparso nel 1965 sui
«Quaderni di Sociologia», Rieser si dedicava infatti a un esame puntale del concetto di «alienazione», svolgendo una
breve rassegna sia dell’uso che ne aveva fatto Marx nei suoi scritti, sia delle interpretazioni che ne erano state date
dai successivi autori marxisti e dalla sociologia. La tesi generale di Rieser era che il concetto di «alienazione» fosse
eccessivamente pregno di densità �loso�ca, e che soprattutto – riferendosi all’espropriazione di un’«essenza»
originaria che caratterizzerebbe l’essere umano – potesse essere applicato a molte realtà, col risultato di smarrire la
speci�cità che l’alienazione presentava nel modo di produzione capitalistico. E proprio per questo, come d’altronde
Rieser avrebbe fatto anche in seguito, la soluzione consisteva nell’intendere l’alienazione in relazione alla struttura
di potere all’interno del quale il lavoratore si trova inserito, e dunque, in particolare, «alla sua esclusione da
determinati poteri di decisione che sono prerogativa della direzione di fabbrica o – in un ambito più vasto – di una
‘élite di potere’»[94].
Nel corso della discussione, Rieser evocava anche il problema – che af�orava, pur sporadicamente, nelle pagine
marxiane – del rapporto fra realtà ed apparenza: in altre parole, Marx rilevava che dalla condizione di alienazione
degli operai all’interno della fabbrica non discendeva necessariamente un comportamento antagonista, perché il
loro antagonismo poteva essere limitato dal fatto che avessero una conoscenza ‘misti�cata’ della realtà. Dunque,
per Marx sembra esistere «una struttura oggettiva con due facce, quella ‘reale’ e quella (altrettanto oggettiva della
prima) ‘apparente’: il carattere ‘antagonistico’ o meno degli atteggiamenti operai dipende dal fatto che essi abbiano
coscienza soltanto della faccia ‘apparente’ (misti�cata) di tale struttura, o giungano alla coscienza di quella
‘reale’»[95]. Se in Marx la visione duplice della realtà sociale rimaneva in fondo marginale, in molti marxisti
successivi doveva invece diventare fondamentale, ed era proprio per segnalare le implicazioni deleterie di questa
operazione che Rieser attaccava forse l’espressione �loso�ca più elegante del Linkskommunismus degli anni Venti,
ossia il György Lukáks di Storia e coscienza di classe, e in particolare la sezione dedicata alla «rei�cazione»[96].
Nel discorso di Lukáks – osservava Rieser – la rei�cazione appariva come «l’alienazione più la misti�cazione di cui
il capitalismo la riveste»[97], ma l’ambiguità dei concetti comportava una serie di problemi, il principale dei quali
consisteva nella dif�coltà di comprendere in quale modo si potesse uscire dalla condizione di «rei�cazione»:
quest’ultima, infatti, in parte appariva come un risultato ‘oggettivo’ del modo di produzione capitalistico, mentre
dall’altro sembrava una condizione dalla quale il proletariato (e non la borghesia) poteva uscire, perché, come
scriveva il �losofo ungherese, «il pensiero proletario ha per scopo il rovesciamento fondamentale dell’insieme della
società».
Per fondare questo passaggio, Lukáks tornava alla connessione tra alienazione e antagonismo del giovane Marx,
una soluzione che – agli occhi di Rieser – comportava una serie di limiti: «la coscienza rivoluzionaria del
proletariato e il successo dell’azione che ne consegue sembrano essere il prodotto necessario dello sviluppo
storico, l’esito a cui inevitabilmente porta, attraverso un capovolgimento dialettico, proprio il raggiungimento della
massima rei�cazione. L’ambiguità di tale posizione appare nel momento stesso in cui il �ne pratico del proletariato
(il rovesciamento del capitalismo) è considerato come un dato: il raggiungimento del grado di coscienza e di
organizzazione necessario per realizzare tale �ne diviene allora assai meno precario, perché la chiarezza e
l’intensità del �ne determina una progressiva selezione dei mezzi atti a raggiungerlo»[98].
Lo spunto polemico di Rieser contro il giovane Lukáks, e contro la concezione della «coscienza di classe» che
emergeva dai suoi scritti degli anni Venti, non era affatto un motivo occasionale, e d’altronde veniva ulteriormente
ripreso in un articolo di poco successivo, dedicato esplicitamente al nodo dell’«apparenza» nell’analisi
marxiana[99]. In questo testo, altrettanto importante di quello sull’alienazione per la piena comprensione delle
categorie interpretative adottate in seguito da Rieser, venivano ripercorse le differenti sequenze in cui Marx
sviluppava l’idea secondo cui la totalità sociale si presenta con due facce, una reale e una misti�cata, e soprattutto
erano esplorate le tappe da toccare per superare l’«apparenza» (e per svelare la realtà che struttura le relazioni
sociali).
Se Marx aveva iniziato a svolgere la propria idea dell’«apparenza» in relazione alla critica dell’economia politica,
mostrando come le categorie economiche occultassero la realtà dei rapporti sociali, questo schema era stato poi
esteso anche alle modalità con cui le differenti classi concepiscono le dinamiche economiche, il salario o il mercato.
In altre parole, a questo punto, il problema non era più quello di una spiegazione scienti�ca, incapace di cogliere le
‘leggi’ fondamentali del modo di produzione capitalistico, bensì quello della rappresentazione della società e dei
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suoi meccanismi da parte dei singoli lavoratori. Ancora una volta, Lukáks era indicato come il �losofo che con
maggiore convinzione aveva sviluppato questa idea, già implicita in Marx, giungendo in particolare a formulare la
nozione di «rei�cazione» (come sintetizzava Rieser, infatti, «rei�cazione = alienazione + apparenza»)[100].
Il punto era però che, per effetto di una simile operazione, la dimensione oggettiva della rei�cazione tendeva a
confondersi, e a diventare non distinguibile, dalla dimensione soggettiva, ossia dalla concreta rappresentazione che i
soggetti storici danno della realtà in cui sono inseriti. In sostanza, il fenomeno della rei�cazione discendeva da una
logica oggettiva, ma in questo modo non poteva che essere teoricamente rimosso un altro processo cui pure Marx
accennava in diversi punti, ossia il processo soggettivo grazie al quale i diversi soggetti sociali procedono –
attraverso la propaganda, l’educazione, la manipolazione – a diffondere una determinata rappresentazione della
realtà. E questo, di fatto, impediva anche di considerare la «coscienza di classe» come un prodotto storico, ossia
come l’esito di dinamiche soggettive, dal momento che le sue caratteristiche venivano semplicemente derivate da
‘leggi’ oggettive.
Come scriveva nitidamente Rieser: «nel rapporto tra ‘apparenza’ e ‘realtà’ che si istituisce nell’analisi marxiana,
entrambi i termini del rapporto sono oggettivi. È oggettiva l’apparenza in cui i dati di una determinata realtà sociale si
presentano tra loro non connessi, o connessi solo in modo parziale e deformato, come è oggettiva la legge che li
connette nel loro rapporto reale. Ora, da ciò deriva anche la possibilità di sviluppare sistematicamente il rapporto
tra ‘apparenza’ e coscienza di classe. Se l’apparenza avesse solo una dimensione soggettiva (consistesse cioè in una
‘visione della società’ o di parti di essa, che risulti ‘falsi�cabile’ in base a certi criteri), essa sarebbe osservabile
soltanto attraverso una rilevazione empirica della ‘visione della società’ propria delle varie classi in una determinata
situazione. Nell’impostazione marxiana invece essa è rilevabile a prescindere da quest’analisi empirica, e
quest’ultima anzi è in certo modo deducibile dall’apparenza stessa, oggettivamente intesa»[101].
Memoria, identità e coscienza
Molto probabilmente era anche per lo sguardo critico con cui si rivolgeva a Marx, e ai ‘residui’ �loso�ci del suo
discorso, che Rieser poteva essere considerato negli anni Sessanta – dagli esponenti dell’operaismo di «classe
operaia» – come il caposcuola dei «sociologi», ossia di una rilettura del marxismo troppo in�uenzata dalla
sociologia statunitense e soprattutto dalle sue esigenze di aderenza al dato ‘empirico’. In effetti, la critica che Rieser
muoveva ad alcune nozioni marxiane e alla lettura di Lukáks era orientata proprio dalla necessità di condurre
indagini empiriche i cui risultati non fossero predeterminati da categorie come «alienazione» e «apparenza».
Queste categorie �nivano infatti con l’assumere come presupposto logico ciò che invece sarebbe dovuto emergere
come esito dell’indagine (rendendo così persino super�uo quel lavoro di inchiesta che per Rieser era centrale). Più
che essere il frutto di un’infatuazione per il metodo delle scienze sociali – un’infatuazione che, pur non essendo
mai acritica, è riconoscibile negli scritti degli anni Sessanta, ma che in qualche misura sarebbe sempre rimasta un
riferimento metodologico – quella critica alle componenti più �loso�che dell’armamentario concettuale marxiano
si collocava al cuore di una visione della realtà del con�itto di classe in cui andavano innanzitutto comprese le
concrete modalità storiche della coscienza di classe: modalità che non potevano essere interpretate né come
conseguenze necessarie della struttura ‘oggettiva’ della società capitalistica, né tanto meno come un insieme di
comportamenti soggettivi ‘determinati’ – come in alcune varianti schematiche dell’operaismo – dalla struttura
‘tecnica’ del processo lavorativo. Ed è in questa chiave che deve essere riletto un denso saggio apparso al principio
degli anni Ottanta sulla nuova serie dei «Quaderni piacentini», dedicato alla memoria storica e alla coscienza di
classe.
Rileggendo oggi quel contributo è piuttosto evidente quali fossero i bersagli polemici contro i quali Rieser allora
indirizzava le proprie considerazioni. Si trattava innanzitutto di quelle posizioni che, tentando di ridurre la portata
della scon�tta politica sancita simbolicamente dal fallimento dell’occupazione della Fiat nel 1980, consideravano la
«memoria» come un peso per l’articolazione dei nuovi percorsi politici, già sperimentati dai soggetti sociali
emergenti[102]. Ma si trattava anche di quelle tendenze storiogra�che che, alla ricerca di comportamenti antagonisti
al di fuori della dimensione della fabbrica, giungevano a riscoprire nelle tradizioni del mondo contadino i segni –
certo sbiaditi – di comportamenti antagonisti alla logica della modernizzazione capitalistica. Entrambe queste
tendenze, insieme a ciò che rimaneva dell’operaismo e della «storia militante» degli anni Settanta, si erano
incontrate al convegno su Memoria e nuova composizione di classe organizzato nell’ottobre 1981 a Mantova
dall’Istituto Ernesto de Martino e dall’Associazione Primo Maggio (senza peraltro trovare alcun punto di
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mediazione)[103]. E nonostante il convegno non venisse citato, era piuttosto chiaro che i suoi lavori costituivano il
riferimento implicito dell’intervento di Rieser, che in effetti poneva al centro proprio il rapporto tra i «mutamenti nella
composizione di classe» e gli «elementi di scon�tta politica del progetto di trasformazione emerso dal ’68 in poi».
Tra i rischi che Rieser segnalava, a proposito della ricerca sulla memoria, stavano innanzitutto l’idealizzazione del
passato e la convinzione ideologica che, «scavando nella memoria storica si possa arrivare a una sorta di ‘purezza
originaria’ dell’identità e della coscienza di classe, non contaminate da strati�cazioni successive e da sovrapposizioni
esterne»[104]. Per evitare simili rischi sottolineava come in realtà il rapporto tra memoria e identità fosse spesso
molto articolato, e non fosse riconducibile a uno schema binario, centrato sulle dimensioni della continuità e della
discontinuità, come d’altronde mostravano i due tipi di identità (e di memoria) della classe operaia torinese e di
quella emiliana. Ma era inevitabilmente al nodo della coscienza di classe che approdavano le considerazioni di
Rieser.
E in questo senso tornava a criticare – come d’altronde aveva fatto già negli anni Sessanta – i limiti di quella visione
‘operaista’, secondo cui «lo sviluppo della coscienza di classe come un processo che trae origine dalle condizioni di
lavoro, più precisamente dall’esperienza del dispotismo di fabbrica, arriva alla coscienza della natura di classe di questo
dispotismo e alle lotte conseguenti, attraverso l’esperienza di queste lotte […] si estende poi come coscienza di
classe in senso pieno all’area della società e del potere politico»[105]. In una simile visione – di cui Rieser
riconosceva comunque i meriti, soprattutto politici – la «memoria» in quanto tale aveva un peso secondario, nel
senso che rientrava al massimo «in termini di esperienza di lotta». Ma dopo la metà degli anni Settanta l’emergere di
un nuovo quadro, l’irrompere della frammentazione e il declino della ‘centralità operaia’ avevano incrinato la
linearità dei questo schema, col risultato di far riemergere il nodo rimosso della memoria. Per ripensare la
connessione tra memoria, identità e coscienza di classe secondo Rieser era invece necessario prendere atto
dell’ambivalenza che il concetto di «coscienza di classe» aveva sempre avuto nella tradizione marxista:
un’ambivalenza che certo rimandava alle ambiguità segnalate negli articoli sull’«alienazione» e sull’«apparenza»
degli anni Sessanta, ma che in questo caso era riferita soprattutto al fatto che la coscienza di classe era stata
concepita, per un verso, in relazione alla «contrapposizione tra classe operaia e classe capitalistica», mentre, per un
altro, in rapporto al «problema politico della rivoluzione»[106].
In altre parole, la coscienza era stata intesa, da una parte, come l’identità collettiva della classe operaia, capace di
sostenere il suo con�itto col capitale, mentre, dall’altra, era stata concepita – in termini vicini a quelli del giovane
Lukáks, e in generale a quelli del marxismo-leninismo – come una conoscenza ‘scienti�ca’ delle leggi di sviluppo del
capitalismo e, dunque, di una visione capace di individuare quale fosse il percorso da seguire (per procedere verso
la ‘rivoluzione’ e per evitare le derive ‘tradeunionistiche’). Ma, in entrambe le declinazioni, una sola era la ‘vera’
coscienza di classe, mentre le altre potevano essere liquidate come varianti della ‘falsa coscienza’.
E proprio questo rischio sembrava riaf�orare anche nelle discussioni sulla memoria, perché spesso pareva di
assistere a una riproposizione surrettizia dell’idea che esista «un’‘unica vera coscienza possibile’, legata a una
de�nizione e misurazione della coscienza di classe non solo in riferimento ai livelli di identità e contrapposizione di
classe concretamente esistenti, ma a un modello strategico precostituito»[107]. Dinanzi a questo rompicapo teorico, la
soluzione che Rieser proponeva non era però di rinunciare al concetto, bensì di registrarne la polisemia, e al tempo
stesso di rinunciare all’idea che esista una connessione ‘necessaria’ tra i diversi piani. La «coscienza di classe», in
sostanza, doveva essere riferita sia al «modo in cui la classe operaia si identi�ca, distinguendosi e contrapponendosi
rispetto ad altre classi», sia col «‘progetto’, con le tendenze di mutamento che da questa identità-contrapposizione
scaturiscono», ma sempre senza dimenticare che non vi è mai «una connessione unilineare, un’unica connessione
possibile»[108].
L’inchiesta in un mondo in frammenti
I temi che sollevava Rieser all’inizio degli anni Ottanta ritornano anche in alcuni dei suoi contributi più recenti,
talvolta stesi solo come appunti di discussione da far circolare tra i suoi contatti più stretti[109]. E forse proprio
perché già allora coglievano nitidamente alcune tendenze (non solo economiche, ma propriamente ‘politiche’ e
‘culturali’), quelle pagine meriterebbero oggi di essere rilette, forse conducendo persino più a fondo le indicazioni
critiche di Rieser. D’altro canto, le ambiguità del concetto di «coscienza di classe», il suo riferimento (più o meno
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implicito) alla capacità di squarciare il velo della misti�cazione ideologica, così come la tentazione di poter
discernere la coscienza ‘autentica’ da quella ‘falsa’, non possono che apparirci oggi sotto un pro�lo ancora diverso.
Perché il tramonto di quella visione della «coscienza di classe» non è solo il frutto della dissoluzione della
‘tradizione marxista’ e della �ne dell’illusione secondo cui solo una conoscenza stabilmente ancorata alla critica
dell’economia politica può consentire di superare l’«apparenza» e di giungere alla realtà ‘oggettiva’. Il tramonto della
visione della «coscienza di classe» è infatti anche il ri�esso del crollo dell’immaginario progressista otto e
novecentesco, nel quale si innestavano le ambizioni prometeiche del marxismo.
Questa caduta implica soprattutto la rinuncia a pensare che ci sia un orizzonte, più o meno lontano, più o meno
chiaramente percepibile, che possa davvero far quadrare il cerchio della complessità, e che dunque solo una visione
‘scienti�ca’ della realtà – quale che sia la scienza cui si guarda – possa ricomporre anche solo teoricamente i mille
frammenti di una realtà composita. Il territorio così insidioso nel quale ci troviamo certo non rende meno utile il
lavoro dell’inchiesta (e neppure l’importanza di una formazione teorica). Ma l’inchiesta viene oggi a collocarsi su un
terreno completamente diverso da quello in cui era inserita negli anni Sessanta e Settanta, perché il compito
dell’inchiesta oggi non può più essere quello di decifrare i bisogni, i comportamenti, le aspettative, le inclinazioni dei
lavoratori e delle «masse», per poter poi collocare quegli elementi frammentari alla base di una ri�essione tattica,
ma dentro il quadro generale di una visione strategica, e dunque in un orizzonte dai tempi lunghi (spesso
lunghissimi), il cui punto terminale appariva comunque de�nito e condiviso.
Per chiunque osservi i con�itti del XXI secolo senza gli occhiali deformati del Novecento, non può più esistere infatti
un obiettivo predeterminato di lungo periodo, e persino le linee di fondo di qualsiasi strategia non possono essere
predeterminate, o ancorate a una teleologia implicita, se non a una teleologia – qualunque forma essa assuma – che
sia costruita ‘politicamente’. Il terreno dei con�itti del XXI secolo è allora il terreno di una radicale completa
contingenza, nel senso che le forme storiche della coscienza – di cui Rieser segnalava la complessità – si divaricano
forse per sempre dall’orizzonte progettuale che per buona parte del Novecento avevano assunto come riferimento.
E su proprio questo terreno si ripropone in forme nuove e più radicali il vecchio nodo – spesso frainteso –
dell’«autonomia del ‘politico’». Un nodo in cui il ‘politico’ non è più semplicemente il campo in cui si gioca il
con�itto per il controllo delle istituzioni, ma soprattutto la dimensione in cui una teoria può forse costruire un
progetto capace di rammendare tutti i brandelli di una realtà frammentata. E, dunque, la dimensione in cui si
possono tentare di comporre, in una visione inevitabilmente contingente, tutte le tessere che ogni volta restituisce
quell’interminabile lavoro inchiesta di cui Vittorio Rieser, per più di mezzo secolo, non si stancò mai di ribadire la
centralità.
Note
[1] M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser. Intellettuale militante di classe, Punto Rosso, Milano, 2015. La �gura di Rieser è
stata rievocata anche da B. Beccalli, Ricordo di Vittorio Rieser: un intellettuale dai molti talenti, in «il manifesto», 24
maggio 2014 [http://ilmanifesto.info/ricordo-di-vittorio-rieser-un-intellettuale-dai-molti-talenti/], A. d’Orsi, La
�ânerie di un rivoluzionario. Ricordo di Vittorio Rieser, «Micromega online», 26 maggio 2014
[http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-�anerie-di-un-rivoluzionario-ricordo-di-vittorio-rieser/], G. Mottura,
Vittorio Rieser e l’inchiesta, in «Inchiesta», 2014, n. 184 [http://www.inchiestaonline.it/lavoro-e-sindacato/giovanni-
mottura-vittorio-rieser-e-linchiesta/].
[2] G. Fo�, Le albe torinesi, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 21.
[3] «L’impostazione ci lascia subito un po’ perplessi» – avrebbe infatti ricordato lo stesso Rieser molti anni più tardi,
in un volume curato da Enzo Pugliese – «ad esempio, la domanda “Dio vuole che tu sia disoccupato?” crea
imbarazzo sia in noi che la dobbiamo porre, sia in molti dei nostri interlocutori, che non ne capiscono il senso. Ma
Danilo sostiene che è quella a cui sono state date “alcune delle più belle risposte” – e questo rivela il criterio che
in�uirà anche sulla presentazione dei risultati: selezionare le risposte “più belle” letterariamente, più che
analizzare/organizzare le risposte in modo da costruire un’analisi di come era vissuto il problema della
disoccupazione (tema centrale dell’inchiesta). Malgrado questo, si tratta per noi di un’esperienza importante, di
confronto con una realtà ben diversa da quella torinese (in particolare per Giovanni, che vedrà da vicino cos’è una
cittadina della “provincia ma�osa”)». Cfr. V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, in E. Pugliese (a cura di),
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L’inchiesta sociale in Italia, Carocci, Roma, 2008, ora disponibile anche online, sul sito di «L’ospite ingrato»
[http://www.ospiteingrato.org/per-vittorio-rieser/].
[4] S. Dalmasso, Una militanza di classe, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 45.
[5] Cfr. G. Carocci, Inchiesta alla Fiat, Parenti, Firenze, 1960.
[6] V. Rieser, L’inchiesta nella fabbrica e nella società, cit.
[7] V. Rieser, Note sullo sciopero alla Magnadyne, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 1, p. 87.
[8] V. Rieser, Intervista (3 ottobre 2001), in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 190. L’intervista è apparsa
originariamente nel Cd-rom allegato a G. Borio – F. Pozzi – G. Roggero, Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai
movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, 2002.
[9] R. Alquati, Relazione sulle «forze nuove». Convegno del Psi sulla Fiat, gennaio 1961, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, ora
in Id., Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 27-53.
[10] V. Rieser, La politica della Fiom torinese, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 6, p. 675.
[11] Ibi, p. 678.
[12] Ed era in fondo proprio su questa visione che Foa chiudeva il suo intervento: «Questa tendenza porta alla
necessità, sempre crescente, di una rigida programmazione della produzione e dei suoi sbocchi, di un sempre più
forte condizionamento dei consumi, e quindi di una piena libertà, da parte dell’impresa, rispetto alle sue condizioni
interne e rispetto alla vita della società. Ogni elemento di instabilità, per il periodo di ammortamento degli impianti,
deve essere eliminato. […] Al limite dell’automazione le tregue saranno richieste per tutto il periodo
dell’ammortamento. Ma a quel limite sarà di evidenza solare l’alternativa che già oggi travaglia il movimento operaio
e sindacale nei paesi capitalistici avanzati. O tutto il potere sarà consolidato nelle imprese, con la perdita
dell’autonomia operaia e sindacale […], oppure un potere di decisione e di controllo, sia pure transitoriamente in
termini dualistici di antagonismo continuo, sarà conquistato dalla collettività dei lavoratori-produttori, dallo Stato
all’azienda» (V. Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 16-17).
[13] Cfr. R. Panzieri, L’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 53-72, poi in
Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino, 1976, pp. 3-50.
[14] V. Rieser, De�nizione del settore in una prospettiva politica, in «Quaderni rossi», 1961, n. 1, pp. 75-76.
[15] V. Rieser, Note sulla classi�cazione del lavoro, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 144-164.
[16] V. Rieser, La mansione aziendale come problema politico, in «Problemi del socialismo», 1961, n. 11, p. 1132.
[17] Ibi, p. 1135.
[18] Ibi, p. 1139.
[19] Ibi, pp. 1139-1140.
[20] V. Rieser, Il problema dei trasporti e l’integrazione della classe operaia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 11, p.
989.
[21] V. Rieser, La lotta operaia nella programmazione capitalistica (appunti sulla lotta contrattuale dei metalmeccanici), in
«Cronache dei Quaderni rossi», settembre 1962, p. 24
[22] Ibi, p. 20.
[23] Ibidem.
[24] M. Tronti, La fabbrica e la società, in «Quaderni rossi», 1962, n. 2, pp. 1-31, e M. Tronti, Il piano del capitale, in
«Quaderni rossi», 1963, n. 3, pp. 44-73, poi in Id., Operai capitale, Einaudi, Torino, 1971 (I ed. 1966), rispettivamente
alle pp. 39-59, e pp. 60-85.
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[25] Cfr. R. Panzieri, Plusvalore e piani�cazione. Appunti di lettura del ‘Capitale’, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, poi in Id.,
Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pp. 51-85.
[26] Come si leggeva d’altronde sull’editoriale del terzo numero, «le lotte operaie – se non escono dai limiti del
piano – possono anche essere utili per il capitalismo: ad esempio, nel momento in cui c’è bisogno di un incremento
dei consumi per uno sviluppo capitalistico più avanzato, la lotta operaia può servire ad imporre aumenti salariali
anche a quei padroni più ‘arretrati’ che vi si oppongono» (Quaderni rossi, Piano capitalistico e classe operaia, in
«Quaderni rossi», 1963, n. 3, p. 12).
[27] Cfr. V. Rieser, Salario e sviluppo nella politica della Cgil, in «Quaderni rossi», 1963, n. 3, pp. 211-236.
[28] Cfr. la testimonianza dello stesso Rieser, riportata in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni
Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, pp. 760-761.
[29] Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, cit., pp. 256-258.
[30] Tesi Rieser-Salvati, in G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 303.
[31] Per esempio, si vedano le ricostruzioni di S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero
Panzieri, Dedalo, Bari, 1976, specie pp. 99-125, F. Schenone, Fare l’inchiesta: i «Quaderni rossi», in «Classe», XI (1980),
n. 17, pp. 173-220, S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008, pp. 85-89, oltre
che i materiali raccolti in G. Trotta – F. Milana, (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit.
[32] R. Panzieri, Intervento alla riunione di redazione «Qr»-«Cronache operaie», in Id., La ripresa del marxismo-leninismo
in Italia, a cura di D. Lanzaro, Sapere, Milano, 1972, pp. 301-304.
[33] L. Lanzardo, Per Vittorio, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., p. 33.
[34] Cfr. V. Rieser, Sviluppo e congiuntura nel capitalismo italiano, in «Quaderni rossi», 1964, n. 4, pp. 87-211.
[35] Relazione di Vittorio Rieser al seminario del 17-18 aprile 1965 – Torino, Notizie e documenti di lavoro, aprile 1965.
[36] Un bilancio del lavoro compiuto e un programma su quello da fare erano peraltro proposti nell’intervento di V.
Rieser, I «Quaderni rossi», in «Rendiconti», 1965, n. 10, pp. 270-288,
[37] V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 77-106.
[38] Cfr. E. Masi, Insegnamenti teorici del comunismo cinese, e Rivoluzione nel Viet-nam e movimento operaio occidentale, in
«Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 351-372, pp. 373- 389.
[39] V. Rieser, Note sulla congiuntura capitalistica internazionale, in «Quaderni rossi», 1966, n. 6, pp. 180-284.
[40] E. Masi, Su alcuni temi rilevanti nelle posizioni del Partito comunista cinese, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 1, 20
novembre 1963.
[41] Cfr. V. Rieser, Sulle attuali vicende del partito socialista italiano, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 2, 30 novembre
1963, Id., Le tesi della Fiom per il XIV Congresso, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 3, 1 gennaio 1964, Id., La lotta degli
operai della Olivetti contro il sistema di cottimo, in «Lettera dei Quaderni rossi», n. 4, 20 gennaio 1964. Di poco
successivo era anche Id., Problemi attuali della Cgil, in «Problemi del socialismo», 1965, n. 2.
[42] Quaderni rossi, Note per una discussione su «Problemi della lotta anti-imperialista e situazione nel Medio Oriente»,
giugno 1967.
[43] D. Lanzardo, I cinquant’anni della Rivoluzione d’Ottobre, settembre 1967.
[44] Cfr. Imperialismo e rivoluzione in America Latina, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 31.
[45] V. Rieser, Intervista, cit., pp. 195-196. Per un ulteriore approfondimento sulla valutazione della «rivoluzione
culturale», cfr. V. Rieser, La classe operaia cinese e la lotta tra le due linee, in «Politica comunista», 1973, n. 5, e 1974, n. 8.
[46] Cfr. R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 29, poi in Id., Lotte
operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di S. Mancini, Einaudi, Torino, 1976, pp. 25-50.
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[47] V. Rieser, Classe operaia e sviluppo capitalistico europeo, in «Quaderni piacentini», 1967, n. 30, p. 35.
[48] Ibi, p. 39.
[49] Ibi, p. 40.
[50] Cfr. per esempio V. Rieser, Università e società, in «Problemi del socialismo», 1968, n. 35, pp. 341-353.
[51] Cfr. per esempio il testo di G. Viale, Contro l’Università, in «Quaderni piacentini», 1968, n. 33, poi in Id., S’avanza
uno strano soldato, Edizioni Lotta continua, Roma, 1973, 19-48.
[52] Si veda su questi tentativi, F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla Fiat e il movimento studentesco, in «Quaderni
piacentini», 1968, n. 35, pp. 73-80.
[53] V. Rieser – M. Volterra, Movimento studentesco, Pci e centro-sinistra, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 37, p. 19.
[54] Ibi, p. 25.
[55] Cfr. V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, pp. 2-29.
[56] Su questa paternità, si esprimeva lo stesso Rieser: «c’era la fase dell’assemblea studenti-operai, la nascita della
sigla Lotta Continua, che inizialmente è nata non come sigla di un gruppo: mi ricordava Mario Dalmaviva che, a
quanto pare, l’abbiamo inventata io e lui perché ogni giorno si faceva un volantino e, siccome le lotte si estendevano,
una volta l’abbiamo titolato La Lotta Continua, dunque era un titolo descrittivo che poi è rimasto. Sofri poi si è
impadronito di questo, ha rotto l’unità molto confusa dell’assemblea studenti-operai, ha costruito il suo gruppo e a
quel punto io non l’ho seguito nel suo progetto» (V. Rieser, Intervista, cit., in Borio, pp. 199-200). Una versione
analoga è stata rievocata anche dallo stesso Dalmaviva: «Gennaio-febbraio 1969. Con Vittorio Rieser e con un
operaio che lavorava alla Meccanica di Mira�ori, un militante politico dei gruppi, cominciammo a discutere della
situazione alla Fiat, ad andare alle porte e a tenere delle riunioni con pochi compagni che erano interessati a un
discorso sulla condizione operaia. […] Decidemmi di fare un volantino […] legandolo alle solite tematiche salariali
[…] La Lega studenti-operai praticamente non c’era più e dovevamo risolvere il problema della �rma. Noi eravamo
fondamentalmente studenti o militanti dei gruppi e ci presentavamo senza �rma politica. Al primo volantino
discutemmo con Vittorio come �rmarli. Mica potevamo distribuirlo anonimo. Lui propose “La Lotta continua”, ma
il “La” non piaceva e fu cancellato. La nascita di Lotta continua. Eravamo davvero quattro gatti. Vittorio, Dario e
Liliana, Ottavio un operaio di Mira�ori, e qualche studente del gruppo di Sociologia» (testimonianza in A. Grandi,
Insurrezione armata, Rizzoli, Milano, 2005, pp. 129-130).
[57] V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni piacentini», 1969, n. 38, p. 26.
[58] Ibidem.
[59] Cfr. per esempio, A. Sofri, Relazione introduttiva, in «Giovane critica», n. 19, 1969, ora in R. Massari (a cura di),
Adriano Sofri, il ’68 e il Potere operaio pisano, Massari, Bolsena (Vt), 1998, pp. 305-324, ma anche cfr. L. Bobbio, Storia
di Lotta continua, Feltrinelli, Milano, 1989 (II edizione), e D. Giachetti, La carovana di Lotta Continua e l’«eterno» problema
dell’organizzazione, nel bollettino del Cipec «Storia cultura politica», s.d., pp. 5-14.
[60] A proposito della questione dell’organizzazione, Rieser partecipò anche a una dicussione condotta sulla rivista
delle Edizioni Oriente «Vento dell’Est» nel 1968 (dal n. 7 al n. 10), e, qualche tempo dopo, sviluppò anche una critica
alle posizioni ‘maoiste’ de «il Manifesto», per cui si veda A proposito dell’ articolo di M. Salvadori e della tematica de «il
manifesto», in «Vento dell’Est», V (1970), n. 17, poi ripreso in M.L. Salvadori – V. Rieser, Rätesystem und Maoismus,
Merve, Berlin, 1972.
[61] Cfr. S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., e D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M.
Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-76.
[62] Cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino. L’esperienza dei Cub, Comitato Unitari di Base, Punto Rosso, Milano, 2009, pp.
66-67.
[63] «Nato dall’esperienza della Lega studenti-operai che tenta di legare il movimento studentesco, nella sua fase di
maggiore espansione, con le lotte operaie» scrive Sergio Dalmasso, «il piccolo movimento politico ha il merito di
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cercare una solida formazione dei militanti (Marx, Lenin, Mao, un comunismo non staliniano ne sono le basi) e di
avere il proprio centro nell’esperienza dei Cub di fabbrica, certo meno radicati e noti di quelli milanesi, ma
esperienza signi�cativa e capace di formare quadri politici centrali nelle lotte operaie e nella loro proiezione politica»
(S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 47).
[64] Come ricorda in questo senso Riccardo Barbero, l’in�uenza maoista di Rieser, «tesa a superare vecchie
concezioni sul rapporto tra le diverse forme di organizzazione politica e di lotta sindacale», orientò «la discussione
sugli organismi politici di base». Cfr. R. Barbero, Vittorio Rieser e il Collettivo Lenin, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio
Rieser, cit., p. 65.
[65] Cfr. D. Giachetti, Vittorio negli anni dei Comitati Unitari di Base, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 69-
76.
[66] Documento del Cub Fiat Mira�ori, 13 settembre 1972, citato in 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., p. 96.
[67] Per ricostruire gli obiettivi di quell’operazione, può essere utile rileggere V. Rieser, Conferenza stampa radiofonica,
in «Quotidiano dei Lavoratori», 4 giugno 1976, citato parzialmente in S. Dalmasso, Una militanza di classe, cit., p. 48.
[68] V. Rieser, Indicazioni per un bilancio critico, in «Quotidiano dei Lavoratori», 23 giugno 1976, citato in 1969/1977.
Lotte operaie a Torino, cit., p. 190.
[69] Su questa fase, cfr. per esempio l’intervento sottoscritto da Roberto Biorcio, Vittorio Borelli, Franco Calamida,
Vittorio Rieser, Ripresa dell’iniziativa politica e problemi interni al partito, in «Quotidiano dei Lavoratori», 16-17
gennaio 1977. Ma, per un quadro generale, cfr. 1969/1977. Lotte operaie a Torino, cit., pp. 190-193
[70] Su questo processo, si veda W. Gambetta, Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Punto
Rosso, Milano, 2010.
[71] Un quadro molto ricco delle ricerche compiute in questo contesto è offerto da Gian Carlo Cerutti,
Trasformazioni del lavoro e relazioni sindacali tra crisi del fordismo e post-fordismo, in M. Gaddi (a cura di), Vittorio
Rieser, cit., pp. 93-111.
[72] Tra le pagine di Rieser – disperse fra riviste, rapporti di ricerca e pubblicazioni occasionali – possono essere
ricordati, per esempio, M. Franchi – V. Rieser, Esperienza e cultura dei delegati. Un’indagine nella realtà metalmeccanica
modenese, Bonhoeffer Edizioni, Reggio Emilia, 1984, G. Cerutti – V. Rieser, Fiat: qualità totale e fabbrica integrata,
Ediesse, Roma, 1991, G. Cerruti – F. Ciafaloni – F. Liso – V. Rieser, Professionalità in transizione, Ediesse, Roma, 1991,
G. Cerruti – V. Rieser, L’imperfetta modernizzazione. Una ricerca sui quadri Fs in Piemonte, Ediesse, Roma, 1995, F. Perini
– V. Rieser, Salute, sicurezza e condizioni di lavoro. Un’indagine tra le iscritte e gli iscritti della Cgil Piemonte, Ediesse,
Roma, 2004, oltre che l’opuscolo Dentro il lavoro, l’Unità, Roma, 1989 (nel quale sono presentati alcuni primi risultati
della ricerca commissionata dal Pci). Forse il testo più signi�cativo di questa fase è però rappresentato da V. Rieser,
Fabbrica oggi. Lo strano caso del dottor Weber e di mister Marx, Sisifo, Siena, 1992, parzialmente ripreso anche in M.
Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 206-226.
[73] Cfr. M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi. Materiali di analisi e di inchiesta sociale, Punto Rosso, Milano, 2010. Si veda
al proposito la lettura proposta in La società dentro la fabbrica. A proposito di alcune inchieste recenti, 18 maggio 2011
[http://www.damianopalano.com/2011/05/la-societa-dentro-la-fabbrica-proposito.html], raccolto anche nell’e-book
Al termine della notte. Tracce nella decadenza italiana (2013).
[74] V. Rieser, Prefazione, in M. Gaddi, Lotte operaie nella crisi, cit., pp. 5-23.
[75] Fra i casi considerati da Gaddi su «Progetto Lavoro», per esempio la cantieristica (n. 1, 2010), l’ex distretto
tessile della Valseriana (n. 1, 2010), la Bassano Grimeca di Rovigo (n. 3, 2011), l’Elettrolux (n. 5, 2011), Ibm di
Vimercate (n. 8, 2011), Invatec-Medtronic di Brescia (n. 10, 2012), CF Gomma di Passirano (n. 10, 2012), Memc di
Merano (n. 11, 2012), Porto Marghera e Murano (n. 13, 2012).
[76] V. Rieser, Perché questa sezione della rivista, in «Progetto Lavoro», n. 1, p. 43. Questa visione dell’inchiesta ritorna,
in modo piuttosto fedele, anche nel recente volumetto di Matteo Gaddi, Crisi industriale e classe operaia. Spunti per un
lavoro di inchiesta, Punto Rosso, Milano, 2015, in particolare alle pp. 106-130. Per alcune notizie, cfr. M. Gaddi, L’ultima
fase dell’inchiesta, in Id., (a cura di), Vittorio Rieser, cit., pp. 172-186.
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[77] Paradigmatico è in tal senso il vecchio articolo di R. Sbardella, La Nep di «Classe operaia», in «Classe», XI (1981), n.
17, pp. 239-262, ma sulla stessa linea anche A. Mangano, Autocritica e politica di classe. Diario teorico degli anni
Settanta, Ottaviano, Milano, 1978, specie pp. 79-131.
[78] Cfr. per esempio R. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità alternative, Torino, 1994, p. 145.
Ma cfr. anche F. Schenone, Fare l’inchiesta, cit.
[79] S. Wright, L’assalto al cielo, cit., p. 89.
[80] L. Balbo – V. Rieser, La ‘sinistra’ e lo sviluppo della sociologia, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 3, p. 192. Su
temi simili, cfr. anche V. Rieser, Sociologia industriale e sviluppo capitalistico, in «Problemi del socialismo», 1962, n. 9-
10, pp. 901-912, e Id., Lavoratori, sindacati e progresso tecnologico, in «Quaderni di sociologia», XII (1963), n. 1, pp. 58-72.
[81] V. Rieser, Panzieri e i «Quaderni Rossi», in «Politica comunista», III (1975), n. 3, pp. 31-32.
[82] Ibi, p. 35.
[83] Valutazioni simili – anche se meno segnate dalla polemica politica contingente – vennero riproposte due
decenni dopo, in un volume che ricordava Panzieri: cfr. la testimonianza di Rieser compresa in P. Ferrero (a cura di),
Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Punto Rosso – Carta, Milano – Roma, 2006 (I edizione 2005), pp. 222-239.
[84] «La disputa era astratta», ricordava nel 2001, «perché quando hai la possibilità di fare conricerca è chiaro che è
questo il metodo migliore, però se sei all’esterno di una situazione e l’inchiesta è il primo strumento di presa di
conoscenza di quella realtà ovviamente devi ricorrere a metodi tradizionali, non nel senso di fare questionari
quantitativi (quando puoi farli vanno bene anche quelli), ma devi usare con il dovuto senso critico dei metodi
tradizionali di ricerca» (V. Rieser, Intervista, cit., pp. 193-194).
[85] D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-61, in «Quaderni rossi», 1965, n. 5, pp. 219-220.
[86] Cfr. per esempio R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca, Padova, 1993.
[87] D. De Palma – V. Rieser – E. Salvadori, L’inchiesta alla Fiat nel 1960-61, cit., p. 251.
[88] V. Rieser, Informazioni, valori e comportamenti operai, cit., p. 87.
[89] Ibi, p. 88.
[90] In questo senso, nell’intervista del 2001 riportava per esempio un parere del sindacalista Gianni Marchetto:
«Quando gli si chiede che esperienza ha avuto dell’operaio-massa, lui risponde: “quando ero segretario della lega di
Mira�ori ne ho conosciuti due: Massa Giacomo, che era della manutenzione e iscritto al sindacato, e Massa
Giuseppe, che era uno combattivo delle carrozzerie non iscritto”. E poi da lì chiede: “come vi spiegate che a
Mira�ori il turno A ha sempre scioperato meglio del turno B malgrado avessero ovviamente la stessa composizione
di classe? Perché la soggettività del singolo operaio c’entra, perché in uno c’erano certi operai e nell’altro certi altri”.
Questo è un contributo teoricamente importante per il rapporto tra composizione di classe e soggettività» (V Rieser,
Intervista, cit., pp. 203-204).
[91] Sul percorso di Bologna, ho proposto uno schema di analisi in D. Palano, Nel cervello della crisi. La «storia
militante» di Sergio Bologna fra passato e presente, in «tysm», vol. 6, n. 9, novembre 2013.
[92] V. Rieser, Analisi di classe, inchiesta e costruzione strategica, in «Progetto Lavoro», 2011, n. 4, p. 53. Il riferimento
era in particolare a E.O. Wright, Classes, Verso, London, 1985.
[93] Lenin, Che fare (1903), Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 115.
[94] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, in «Quaderni di Sociologia», XV (1965), n. 2, p. 166. Una
soluzione simile era anche adottata, circa un quarto di secolo dopo, nelle note metodologiche per la ricerca sul
lavoro commissionata dal Pci alla �ne degli anni Ottanta, riportate sinteticamente in Dentro il lavoro, cit., e poi in V.
Rieser, Fabbrica oggi, cit., dove si legge per esempio, a proposito della nozione di «alienazione»: «Si sceglie una
de�nizione volutamente riduttiva e parziale: l’alienazione viene de�nita come mancanza di controllo, in un duplice
riferimento: – al lavoro: mancanza di controllo sulle condizioni del proprio lavoro (immediate e/o più mediate o
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indirette); – al progetto: mancanza di controllo sulle condizioni realizzazione dei propri progetti che includono il
lavoro» (ibi, p. 146).
[95] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, p. 138.
[96] Cfr. G. Lukáks, Storia e coscienza di classe (1923), SugarCo, Milano, 1991, pp. 107-275.
[97] V. Rieser, Il concetto di «alienazione» in sociologia, cit., p. 142.
[98] Ibi, pp. 143-144.
[99] Su Lukáks e su Storia e coscienza di classe sono comunque da vedere anche le annotazioni svolte da Rieser in un
seminario del 2006, organizzato da Riccardo Bello�ore, la cui trascrizione è ora riportata in M. Gaddi (a cura di),
Vittorio Rieser, cit. pp. 227-241.
torna anche in u
[100] V. Rieser, L’«apparenza» del capitalismo nell’analisi di Marx, in «Quaderni di Sociologia», XV (1966), n. 1, pp. 57-88.
[101] Ibi, p. 87.
[102] Emblematico era da questo punto di vista l’intervento di A. Negri (Erkenntnisstheorie. Elogio dell’assenza di
memoria, in «Metropoli», n. 5, 1981, poi in Id., Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno, 1987, pp. 159-167
[103] Cfr. C. Bermani – F. Coggiola (a cura di), Memoria operaia e nuova composizione di classe. Problemi e metodi della
storiogra�a sul proletariato, Maggioli, Rimini, 1986.
[104] V. Rieser, A proposito di memoria storica e coscienza di classe, in «Quaderni piacentini», n.s., 1982, n. 4, pp. 17-35.
[105] Ibi, p. 29.
[106] Ibi, p. 30.
[107] Ibi, p. 31.
[108] Ibi, p. 32. Tali considerazioni non riguardavano solo la storiogra�a, perché la frammentazione metteva in crisi
anche la strategia seguita dal sindacato dalla �ne degli anni Sessanta, una strategia che «consisteva nella
costruzione di un blocco sociale unitario estendendo e generalizzando l’esperienza di un settore (minoritario) trainante,
nel caso speci�co l’operaio comune della grande produzione di serie» (V. Rieser, Sindacato e composizione di classe, in
«Laboratorio politico», 1981, n. 4, p. 68).
[109] Alcuni di questi sono raccolti in M. Gaddi (a cura di), Vittorio Rieser, cit., in particolare 242-288.
Cita questo articolo: L’inchiesta prima di tutto: Vittorio Rieser, "Tysm". Published 24 maggio 2015. Last
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PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
VOL. 24, ISSUE NO. 24
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