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Silvia Ierardi n. matricola 3496253
Relazione: Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra
Le parrocchie di Regalpetra è un romanzo di Leonardo Sciascia, pubblicato nel 1956 per Laterza.
Sciascia esordisce con raccolte poetiche (Favole della dittatura, 1950; La Sicilia, il suo cuore, 1952), per poi
dedicarsi a «una materia saggistica che assume i modi del racconto» (Sciascia, citato in Felici e Rossi 1985,
p. 881) con Le parrocchie di Regalpetra. Come spiegato da Sciascia, nella Prefazione della ristampa del
1967 (collana Universale Laterza), quest'opera nasce attorno al nucleo originario delle Cronache scolastiche,
pubblicate sul numero 12 di "Nuovi Argomenti" del 1955, ampliato su richiesta di Vito Laterza che chiese a
Sciascia di scrivere un libro sulla vita di un paese siciliano. Il nome del paese, Regalpetra, è inventato e
deriva da Regalmuto, nome utilizzato nelle antiche carte per indicare Racalmuto, paese natale dell'autore, e
dai Fatti di Petra di Nino Savaerse, a cui Sciascia vuole rendere omaggio (Sciascia 1991, p. 10).
L'intento di Sciascia è quello di narrare la vita nei paesi siciliani dal 1622, concentrandosi soprattutto
sul periodo fascista, da lui vissuto direttamente, e facendo spesso risferimento alla situazione scolastica,
complice il ruolo d'insegnante nella scuola elementare da lui ricoperto tra il 1949 e il 1957 (Baldi et al. 2007,
p. 247).
Il libro è suddiviso in nove capitoli, tra cui le Cronache scolastiche, ognuno dei quali si occupa di una
tematica differente. L'opera non si identifica in un genere unitario, bensì alcuni capitoli sono più vicini a
determinati generi e altri ad altri. Ad esempio, il primo capitolo, La storia di Regalpetra, è assimilabile, per
stile e metodo di narrazione, alla storiografia, mentre i capitoli secondo e ottavo, rispettivamente Breve
cronaca di regime e Diario elettorale, sono assimilabili al genere delle memorie.
In particolare, La storia di Regalpetra, capitolo che narra la storia del paese, in ordine cronologico, dal
1622 alla contemporaneità, si distingue per un andamento e una precisione cronachistici, con frequenti
indicazioni cronologiche («la sera di quel 6 maggio 1622» Sciascia 1991, p. 21; «il giorno sedici del mese di
marzo dell'anno milleseicento», «Nell'anno 998 dell'era cristiana» e «Sotto la signoria di Girolamo primo del
Carretto il numero degli abitanti era di quattromilaquattrocentoquarantasette» Ib., p. 22). Ad avvicinare il
capitolo al genere storiografico, concorrono le citazioni costanti delle fonti («Della voracità di don Girolamo
del Carretto una anonima memoria testimonia» Ib., p. 21; «Nell'anno 998 dell'era cristiana il governatore
arabo di Regalpetra scriveva all'emiro di Palermo» Ib., p. 22; «un documento del secolo XVIII dice di ottanta
preti su una popolazione di cinquemila» e «scrive un medico regalpetrese che fu celebre nelle Due Sicilie e
nelle Spagne» Ib., p. 23; «Nel 1819, in un Dizionario geografico, statistico e biografico della Sicilia
stampato a Palermo» Ib., p. 25). L'attenzione per le fonti e la loro costante citazione emergono anche quando
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si tratta di voci popolari: l'autore prima ricorre al termine «dicono», tipico del parlato e spesso usato in
riferimento alle voci che girano senza fondamento, poi, col poliptoto del verbo, precisa chi sia la fonte (ad
esempio: «disse il veterinario comunale» Ib., p. 19).
La sintassi è semplice, prevalentemente paratattica; il registro linguistico medio: i tratti linguistici
siciliani e gli abbassamenti a un registro popolare sono pochi.
Con l'avvicinamento alla storia vissuta dal narratore, l'emotività si alza, con immediate ripercussioni
sulla sintassi, che si fa più complessa, e sullo stile, che va incontro a un innalzamento, con la frequente
introduzione di moduli retorici:
alta frequenza di dittologie («ci stavano anche signori che il popolo rispettava per la loro onestà e
gentilezza» Ib., p. 30; «il fascista impugnò l'arma ed uccise», «vissero anni di ansia e di lotta per
l'unità e la libertà d'Italia» Ib., p. 31; «nella famiglia dei Lascuda era considerato come un bambino
pieno di estri e capricci» Ib., p. 33);
asindeti («I Martinez fecero strade scuole edifici pubblici» p. 32);
moduli retorici complessi («si era perduto [...] il ricordo di uomini duri e avidi da cui discendevano
gli uomini eleganti e svagati» Ib., pp. 30-31: parallelismo con anafora seguita da dittologia;
«l'oggetto dell'odio subito divenne piccolo e vile, il fascista apparve abbietto e implorante» Ib., p. 31:
parallelismo, i cui due elementi sono costituiti da sintagma nominale + dittologia aggettivale; «così
penso sia accaduto ai Martinez ai D'Accursio ai Munisteri che a Regalpetra vissero anni di ansia e di
lotta» Ib.: asindeto, seguito da dittologia nella relativa.
Inoltre, nel momento in cui la narrazione coincide col vissuto del narratore, vi è un inserimento più
frequente di termini e perifrasi del gergo popolare (es. «canchero» Ib., p. 27, variante popolare di “cancro”
(Sabatini – Coletti 2011)) e di «tratti caratteristici dell'italiano meridionale come il verbo in fine di frase [...]
e l'avverbio anticipato» (Coletti 2000, p. 343):
«una croce sopra ci mettevano» (Sciascia, p. 33): “metterci una croce” è un'espressione popolare,
con la dislocazione del verbo alla fine della frase, tipica del siciliano;
«nudi li spogliarono» (Ib., p. 35);
«subito chiedono analisi e radiografie» (Ib., p. 37);
«degnamente chiuse la sua vita con questa deliberazione» (Ib., p. 37);
«Il sindaco quella proposta aveva fatto» (Ib., p. 38).
Talvolta, il verbo in fine di frase non è tanto un tratto demotico, quanto un meccanismo di
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focalizzazione, come nel seguente passo: «non si era mosso da casa Lascuda, dunque innocente era» (Ib., p.
34). Credo sia più probabile la dislocazione di “innocente”, che una costruzione sintattica meridionale. Non
solo in questo capitolo, ma in tutta l'opera si alternano costruzioni meridionali, con il verbo in fine di frase o
l'anticipazione dell'avverbio, a meccanismi di focalizzazione. Ad esempio, è probabilmente un tratto
demotico l'anticipazione dell'avverbio in: «la politica sempre diventa affare di tribù» (Ib., p. 105); mentre è
una dislocazione volontaria quella di “tutto uno scherzo”, per sottolineare come nessuno creda vi sia una
reale libertà, in: «Nessuno è convinto che la libertà c'è, tutto uno scherzo è» (Ib., p. 181).
Riassumendo, La storia di Regalpetra è un capitolo suddivisibile in due parti:
la storia più remota, non vissuta dall'autore, è narrata con uno stile più cronachistico e vi è un
tentativo di condurre una narrazione oggettiva, tipica della storiografia, attraverso la citazione delle
fonti. Gli interventi del narratore o la manifestazione di suoi giudizi sono rari e spesso impliciti («ha
avuto venti milioni dal governo per restaurare la chiesa, buttarla giù e rifarla più brutta» Ib., p. 19:
«rifarla più brutta» implica che, per il narratore, la chiesa fosse brutta e che oggi lo sia ancora di più;
«tant'altre cose scriveva che dubito abbia oggi il coraggio di scrivere» Ib., p. 25; «i braccianti
lavoravano tutto l'anno solo per pagare il debito del grano che i padroni avaramente anticipavano»
Ib., p. 30: l'avverbio “avaramente” esprime implicitamente il giudizio negativo del narratore sui
padroni);
la storia che ha coinvolto direttamente il narratore è narrata con uno stile diverso: da uno stile
storiografico, con una narrazione che vuole essere principalmente oggettiva, si passa a un
coinvolgimento emotivo del narratore che conduce la narrazione verso una maggiore soggettività,
espressa da periodi più lunghi, dall'aumento dei moduli retorici e da una lingua più
meridionaleggiante per semantica e sintassi.
Al contrario de La storia di Regalpetra, il capitolo seguente, Breve cronaca del regime, nonostante sia
anch'esso di carattere storico, non ricerca una narrazione oggettiva, bensì è strutturato come il racconto di
una serie di ricordi personali del narratore inerenti al periodo fascista.
La narrazione non vuole in alcun modo essere una narrazione storica oggettiva, come emerge
chiaramente dal seguente passo: «Ogni giorno all'una andavamo ad ascoltare il bollettino in un caffè
affollatissimo. Ci piaceva notare le reazioni della gente» (Ib., p. 55). Il primo segnale di mancanza di
oggettività è dato dal soggetto sottinteso: una prima persona plurale. Inoltre, col primo periodo sembra che il
narratore voglia introdurre ciò che aveva sentito in un bollettino di guerra, ma l'informazione,
apparentemente circostanziale, data dal superlativo «affollatissimo» è, in realtà, anticipatrice del periodo
successivo, col quale il narratore rivela il motivo della routine quotidiana del bollettino ascoltato in un caffè:
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non avere notizie certe e fondate sulla guerra, ma il divertimento o la curiosità personale dell'amico e sua
nell'osservare le reazioni della gente.
A livello lessicale, è interessante il fatto che il narratore non utilizzi per esteso il nome “Mussolini”
quando narra di persone contro il fascismo («quello» Ib., p. 44; «questo cornuto» (b., p. 45), mentre lo
utilizzi quando parla di persone o realtà favorevoli al dittatore («Mio padre si era iscritto al fascio per
lavorare: ma credeva in Mussolini anche se non credeva nel fascismo» Ib., p. 44; «Tranne che per qualche
piccola invettiva, del fascismo e di Mussolini non sentivo parlare che bene» Ib., p. 45). Questo fenomeno è
esemplificativo di come la lingua della narrazione adempia, a volte, a una funzione mimetica, adeguandosi
alla probabile lingua dei protagonisti della narrazione.
Inoltre, nell'opera di Sciascia è evidente l'uso accorto della sintassi e del ritmo; ad esempio:
«I ragazzi più frenetici salivano sulle spalle dei compagni, gridavano - che cosa fa il Negus? Tutti eravamo
convinti che il Negus non facesse che schifo. Ed anche il signor Eden. E la Francia. E la Russia. Faceva
schifo tutto il mondo. Noi no. Eravamo poveri e volevamo un posto al sole. Eravamo un popolo di eroi. Il
federale si affacciava al nostro clamore. Era zoppo. Non poteva essere che un eroe. Poi andavamo dal
prefetto. Si facevano le dieci, le dieci e mezza: ormai la vacanza era guadagnata La manifestazione si
afflosciava di colpo. Ce ne andavamo a gruppi fuori città.
Prendemmo l'Etiopia. Crepuscolari vignette del Negus che partiva col treno Addis Abeba-Gibuti costellavano
le edicole: c'era un po' di malinconia nell'aria, la canzone di moda era chitarra romana. Le scuole chiudevano.
Ritornai in paese per le vacanze. Quando si faceva discorso dell'impero, mia zia diceva - il povero Negus. Io
pensavo che me ne sarei andato in Etiopia, a correre avventure o magari a fare il maestro. Le vetrine erano
piene di libri sull'Etiopia e sulla guerra. Ce n'era uno intitolato Io in Affrica. Scrissi Affrica in un
componimento, a scuola; il professore lo segnò in rosso. Non amava D'Annunzio né, disse, i dannunziani da
tre a un soldo. Mi fece un po' di bene.
Passai le vacanze leggendo libri americani, non ricordo come mi fossero venuti tra le mani. Ritornai a scuola
pensando fosse finito il tempo delle manifestazioni. C'era invece la Spagna. Ma ci stavamo alla stracca,
ormai; non era la stessa cosa che per l'Etiopia; o forse noi eravamo un po' cambiati. Il commissario di P.S.
veniva mentre aspettavamo il suono della campanella per entrare a scuola, chiamava quelli che conosceva
come animatori delle manifestazioni - e che, non la facciamo una bella manifestazione? - diceva. E che è
successo? - chiedevano gli studenti. Abbiamo preso Santander - diceva il commissario. Ci avviavamo alla
federazione. Ma durava una mezz'ora. Restavamo a passeggiare coi libri sottobraccio, a discorrere di libri e di
ragazze. Avevo scoperto Dos Passos. E c'era una ragazza che mi piaceva. Avevo sempre bisogno di soldi, con
due lire al giorno non ce la facevo ad andare a cinema e fumare, e compravo ogni settimana l'«Omnibus» di
Longanesi e il «Corriere» quando c'era l'articolo di Cecchi» (Ib., pp. 51-52).
Il passo sopra citato si distingue per una sintassi frammentata, costituita da periodi brevi. Il ritmo si
velocizza, rispetto al co-testo antecedente, rispecchiando la velocità con cui, all'epoca, si sono succeduti gli
eventi narrati: come all'epoca gli eventi si succedevano a una velocità tale quasi che le persone non se ne
rendevano conto, così il lettore, che si accinge ad affrontare il passo, si trova di fronte a una serie sterminata
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di brevissimi periodi e a una notevole mole d'informazioni che difficilmente riuscirà ad assimilare alla prima
lettura, se segue il ritmo frenetico e segmentato imposto dall'interpunzione. Questo tipo di sintassi e ritmo
vengono mantenuti fino a che Sciascia narra di eventi vissuti dalla popolazione tutta, di eventi collettivi,
entrati nella storia. Quando, al termine del passo citato, il narratore torna a riferire della sua storia personale
(suo avvicinamento all'antifascismo), il ritmo si appiattisce, la narrazione prosegue più lentamente,
permettendo al lettore di concentrarsi sul narrato, il narratore si sofferma su particolari descrittivi.
Analogamente al secondo capitolo, anche l'ottavo, Diario elettorale, presenta una narrazione
soggettiva, riconducibile, come suggerisce il titolo, al genere del diario o, meglio, delle memorie. La
narrazione procede spesso per balzi, con paragrafi collegati né da nessi testuali, né logici, ma il cui
susseguirsi segue solo il flusso di pensieri del narratore. Ad esempio:
«Apre la campagna elettorale un candidato della Dc, ex qualunquista. I borghesi sono terribili nel pretendere
dagli altri coerenza, loro la ignorano, dagli altri ferocemente la pretendono. Il candidato, nonostante il salto, è
però di rigorosa coerenza: il movimento dell'uomo qualunque non c'è più, gli stupidi si sono abbandonati ad
una più dichiarata e spettacolare forma di fascismo, i furbi nella Dc hanno trovato buon asilo, dove volete che
vada un uomo furbo?, l'ex qualunquista è furbo, due volte è stato candidato nelle liste qualunquiste senza
riuscire a sortirne deputato, questa è certo la volta buona.
Registrata la prima gaffe della campagna: l'ex qualunquista mette in guardia l'elettorato contro la corruzione:
c'è un partito, non la Dc, che nella sola provincia di Agrigento dispone di duecento milioni, non lasciatevi
comprare, la coscienza ecc.; la gente considera invece che un partito con tanti milioni è straordinariamente
forte, e se un partito è forte gli si può dare il voto. Non si può fare ad un partito propaganda migliore, a
battere sull'accusa dei duecento milioni c'è il rischio che quel partito diventi forte davvero.
Un oratore che non conosce la particolare psicologia di una popolazione inciampa sempre in qualche gaffe, a
volte in irreparabile errore. Un comunista, autore di un libro sulla vita sovietica, venne una volta a
Regalpetra, ai contadini limpidamente spiegò cosa un colcos fosse: l'effetto fu straordinario, ad aver buon
orecchio si poteva sentire lo sciamare dei voti verso partiti che i colcos non promettevano il Pc ebbe il
suffragio più basso che mai a Regalpetra si sia registrato» (Ib., p. 163).
Nel primo paragrafo inizia la narrazione della campagna elettorale.
Il secondo paragrafo è costituito dalla narrazione di un momento specifico della campagna elettorale,
rimasto particolarmente impresso nella mente del narratore, che lo chiama «la prima gaffe» e lo riporta.
Quest'evento ha segnato interiormente il narratore e la scelta di riportarlo è del tutto soggettiva,
probabilmente altri non ricordano nemmeno l'evento.
Il terzo paragrafo inizia con una considerazione generale propria del narratore, collegata all'evento
raccontato nel paragrafo precedente, una sorta di morale ricavata dall'evento del secondo paragrafo. Procede
con la narrazione di un evento particolare che, nuovamente, ha segnato il narratore.
Anche nel passo successivo emerge la soggettività della narrazione, attraverso un uso della
punteggiatura che non segue le norme grammaticali: le virgole (unici elementi d'interpunzione del passo)
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indicano pause generiche e non aiutano nell'interpretazione logica del periodo, costituito da un susseguirsi di
frasi distribuite in quel modo perché pensate in quel modo dal narratore. Sembra mancare una chiara
pianificazione del discorso, solitamente presente nello scritto; le informazioni si susseguono seguendo il
flusso dei pensieri del narratore, come spesso accade nel parlato:
«uomini e donne sognano i loro morti, secondo quello che i defunti dicono o fanno nella sequenza del sogno,
ho sete, ho fame, non vogliono sedere, sudano, i vivi cavano certezza che i loro morti stanno in purgatorio,
quasi mai in paradiso o nell'inferno, e che hanno bisogno di preghiere messe e opere buone» (Ib., p. 166).
Da notare, inoltre, nel passo sopra citato, il discorso indiretto libero («ho sete, ho fame») e la triade
asindetica («preghiere messe e opere buone»), la quale indica l'accumulo delle tre azioni tipiche di chi vuol
aiutare un proprio caro in purgatorio. Vi è un'opinione negativa implicita del narratore sulla chiesa e sulla
questione del purgatorio e delle indulgenze. Quest'opinione implicita è sottolineata anche nella prosecuzione
del periodo: «e dopo aver ordinato una messa, al botteghino del lotto vanno per decifrare il sogno, lo
traducono in numeri la cui chiave è sempre nel 31-47, morto che parla» (Ib., p. 166). L'accostamento messa
in suffragio – gioco d'azzardo è una critica alla chiesa e al meccanismo delle indulgenze, il quale viene
paragonato al gioco d'azzardo, cioè a una strategia volta a produrre guadagno in favore di chi la gestisce e a
discapito di coloro che ne fruiscono, e mette in evidenza la fede, mista a superstizione, tipica dei ceti sociali
bassi: sognare un morto rinvia contemporaneamente all'ambito religioso e a quello del gioco. I due ambiti
sono uniti dalla superstizione: il morto è apparso perché vuole essere aiutato nella sua salita del purgatorio,
ma anche per dare i numeri del lotto.
L'obiettivo primario di Sciascia, ne Le parrocchie di Regalpetra, è quello di offrire una narrazione e
una denuncia dei paradossi e delle ingiustizie della Sicilia. Il libro, per quanto abbia un'ambientazione
fantastica, presenta fatti assolutamente verosimili e presta particolare attenzione alle condizioni in cui le
classi povere versavano, concentrandosi soprattutto sulle condizioni dei salinari, dei zolfatari e dei braccianti,
sul cui lavoro si basa l'economia del paese: la scarsa paga è a malapena sufficiente per il sostentamento loro e
delle loro famiglie, il pericolo di morte sul lavoro è altissimo.
Nel corso di tutta l'opera, sono frequenti i riferimenti ai salinari, ai zolfatari e ai braccianti, spesso
riportati mediante excursus. Ad esempio, nelle Cronache scolastiche, riferendo di un episodio in cui gli
studenti hanno detto al narratore, allora insegnante, per chi votavano i loro genitori e se la sono presa con
l'unico «misino», accusandolo di avere quell'opinione politica solo perché il padre lavora a Gìbili, Sciascia
coglie l'occasione per proporre il seguente excursus:
«Gìbili è una zolfatara gestita da fascisti, chi vi lavora, per il salario che supera le mille lire, è considerato un
privilegiato. Gli altri, nelle saline, guadagnano cinquecento lire al giorno. I braccianti agricoli, quando c'è
lavoro, ne guadagnano seicento; non fanno più di ottanta giornate in un anno» (Ib., p. 115).
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L'attenzione per le condizioni dei ceti bassi s'esprime spesso mediante il riporto di dati precisi, che
mettono in rapporto lo stipendio alle ore di lavoro, dando vita a brani costituiti da una sintassi segmentata,
brevi periodi e frequenti segni d'interpunzione:
«Ora viene l'estate; la mietitura la raccolta delle mandorle la vendemmia. A mietere un uomo
guadagna duemila lire al giorno […]. Dura dieci, quindici giorni la mietitura. […] Anche le donne
lavorano, nella raccolta delle mandorle e nella vendemmia; o stanno a cuocere il pomodoro» (Ib., p.
141).
«L'uomo [che lavorava nelle saline] […] guadagnava seicento lire […] in una giornata di dodici ore»
(Ib., p. 146).
«Quando i salinari vanno in pensione (cinquemila lire al mese)», «A causa dei dolori reumatici i
salinari perdono in un anno da sei a dieci giornate di lavoro ciascuno […]; chi non lavora un giorno
veramente per un giorno non mangia, ammalati e infortunati hanno duecentottanta lire al giorno»
(Ib., p. 151).
L'interesse di Sciascia per le realtà sociali basse della Sicilia non si limita a brevi excursus sul loro
stile di vita e ai dati suoi loro salari, ma è esteso alla loro lingua («mangiarono con la salvietta, come i
contadini dicono per esprimere solenne soddisfazione» Ib., p. 21; «La vecchiaia dei salinari è tutta «dolore di
ossa», come loro dicono; questi dolori li chiamano anche romantici, vogliono dire reumatici» Ib., p. 151) e
alle loro letture («insieme ai Reali di Francia e al Rutilio qualche contadino che sa leggere tiene anche I
misteri dell'Inquisizione di Spagna» Ib., p. 40; «qualche povero che sa di lettere dice che a mangiare carne e
burro rischierebbe di fare la fine di Bertoldo, che come è noto morì per non aver più potuto, alla corte di
Alboino, nutrirsi di rape e fagioli» Ib., p. 80: riferimento alla storia di Bertoldo, contadino rozzo, ma di
mente acuta, che diventerà consigliere del re (Moretti 1995, p.140, vol. II)).
Concentrandoci sulla lingua dell'opera, si può dire che Sciascia attui la «riduzione del «divario
plurisecolare tra codice letterario e codice parlato dell'italiano» [Sgroi 1990, p. 255], [...] attraverso la
mediazione del dialetto e dell'italiano regionale» (Testa 1997, pp. 327-8). Infatti, sono frequenti scelte tipiche
dell'italiano meridionale:
A livello lessicale: «guappo» (Sciascia 1991, p. 118), usato soprattutto nel napoletano; «quartara»
(Ib., p. 131), che indica un'unità di misura di capacità diversa a seconda delle zone italiane o, come
nel testo, un recipiente in terracotta per trasportare e conservare acqua e vino, utilizzato in Sicilia;
«onorata società» p. 134: termine utilizzato dai camorristi napoletani, nella seconda metà
dell'Ottocento, per indicare la loro organizzazione. Dalla fine dell'Ottocento, il termine è spesso
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utilizzato per indicare anche la mafia siciliana e quella calabrese. Termini siciliani: «giummo» (Ib.,
p. 45) (Coletti 2000, p. 343), «di buona gana» (Sciascia 1991, p. 46) (Coletti 2000, p. 343), «balate»
(Sciascia 1991, p. 49). Talvolta, Sciascia utilizza un lessema o una frase tipici dell'uso siciliano e li fa
seguire da una glossa esplicativa: «Pampilonia, nel dialetto dei regalpetresi, vuol dire confusione
infernale chiasso panico smisurata allegria» (Ib., p. 97); «Col freddo i vecchi se ne vanno. Quagliano
– qui dicono. Quagliare vuol dire cagliare, l'inavvertito cagliare della vita, la morte che lentamente si
coagula nel corpo di un uomo, si fa gelida forma. È una espressione che viene usata per coloro che
giungono senza strazio alla morte» (Ib., p. 192); «ti vitti (ti ho visto: un gioco che non consente la
minima distrazione)» (Ib., p. 193: in questo caso, tra il dialettismo e la glossa, vi è l'italianizzazione
del termine); «si dice – il cornuto nel proprio paese, il fesso in qualsiasi luogo – per dire che chi è
afflitto da coniugali sventure può diventare un altro lasciando il paese dove la sua sventura è
conosciuta, ma un esso non cambierà personalità cambiando luogo» (Ib., p. 92: da notare, inoltre, i
poliptoti dice – dire, cambiare – cambierà – cambiando e la dislocazione a sinistra dell'attributo
“coniugali”. La glossa è un capolavoro letterario: apparentemente chiara e scorrevole, in realtà
studiata nel minimo dettaglio e arricchita da fini figure retoriche). Vi sono, inoltre, scelte grafiche
che rispecchiano la fonetica siciliana, quali “vurdunari” da ““bburdunarii”, lessema siciliano (Testa
2014) con passaggio b > v in quanto i dialetti meridionali italiani tendono a pronunciare in maniera
simile “v” e “b”: «gli asini dei vurdunari (approssimativamente: mulattieri)» (Sciascia 1991, p. 158).
A livello morfologico, l'articolo determinativo plurale "li" sia per il maschile che per il femminile,
tipico dell'Italia meridionale (Rohlfs 1954, par. 418): «i preti e li manimorte» (Sciascia 1991, p. 25),
«li poverelli» (Ib., p. 26), «li medici» (Ib., p. 97).
A livello sintattico, il verbo in fine di frase (Testa 1997, p. 274 e Coletti 2000, p. 343) e l'avverbio
anitcipato (Coletti 2000, p. 343) (cfr. pp. 2-3).
Complessivamente, si può dire che la lingua dell'opera coincida con un italiano semplice, vicino al
parlato, nonostante la presenza delle forme meridionali sopra illustrate.
In particolare, per quel che riguarda la sintassi, si può parlare di una sintassi semplice, comprendente
mezzi elementari di topicalizzazione, quali l'espressione del complemento d'argomento con di + sostantivo di
derivazione latina («Della voracità di don Girolamo del Carretto una anonima memoria testimonia» Sciascia
1991, p. 21), e arricchita da svariate figure retoriche, il più delle volte semplici, quali la similitudine («I
galantuomini si sentirono come topi nella trappola» Ib., p.63; «Questo disagio, come di una pietra che cade
in uno specchio d'acqua» Ib., p. 95; «La Dc di Regalpetra è come quelle fotografie-ricordo in cui intorno al
bisononno o al parente d'America si attruppano in disegno genealogico tutti i parenti, fino all'ultimo nato con
la tettina in bocca» Ib., p. 105; «Monsignore resta come il portiere che guarda il pallone fulminare
improvvisamente la rete» Ib., p. 114; «Portano vecchi scarpe militari aperte nella punta come bocche
sdentate» Ib., p. 117; «la scarpa pesa nel passo come piombo» Ib.; «quando il film è proibiti ai minori di
sedici anni stanno nell'atrio come anime del purgatorio» Ib., p. 118; «nitidamente lontani come in fondo a un
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binocolo rovesciato» Ib., p. 122; «guadagno sicuro, che ogni mese giunge come il giorno dopo la notte» Ib.,
p. 128; «pane di governo che noi maestri mangiamo come quei cani ipiombati di noia» Ib.; «per vedere lo
scritto sulla lavagna deve uscire al banco e avvicinarsi a guardarla come un ariete che stia per dare di corna»
Ib., p. 130; «eccoli tutti, i mafiosi, come mosche chiamate dal miele» Ib., p. 134; «le rare lampadine che
pendono dai fili come arance dai pruni del presepe» Ib., p. 149; «Quest'ultima espressione, falsa come una
moneta catanese» Ib., p. 181; «quattro grandi vetrate [...] tintinnano per il vento come le sonagliere di un
mulo che va all'ambio» Ib., p. 185; «una casa fradicia come una fogna» Ib., p. 190) e poliptoti appartenenti al
dominio linguistico popolare («con le mani nelle mani» Ib., p. 134), altre volte più complesse e raffinate,
quali le dittologie di aggettivi (cfr. p. 2; «duecento ragazzi affamati e urlanti» Ib., p. 117; «in fondo alla loro
realtà di miseria e rancore» Ib., p. 122; «una povertà stagnante e disperata» Ib., p. 123; «il volto piccolo e
bianco» Ib., p. 147; «gli uccelli […] si riprendono in voli stracchi e spezzati» Ib., p. 187; «una giacca nera e
lunga, fustagno consunto e lucido» Ib., p. 188; «Grinzose e scure […] le mani» Ib., p. 188; «il maestro delle
prime classi, vecchio e malato» Ib., p. 189) e le terne («sale, nebbia e miseria» Ib., p. 123; «le vie della
servile adulazione, della menzogna, della delazione» Ib., p. 189; «leggere scrivere e far di conto» Ib., p. 189;
«le botteghe sono piene, i treni arrivano, le strade sono aperte al traffico» Ib., p. 192), a volte combinate
(«penso a tutta la genealogia di servitù e di miseria da cui vien fuori, al maestro che gli sputa in faccia, alla
madre che va a lavare i pavimenti nelle case dei ricchi, al padre disoccupato» Ib., p. 189: incapsulatore
cataforico «genealogia», precisato da una dittologia di complementi di specificazione, «di servitù e di
miseria», esplicitato dalla triade di complementi di termine, costituiti da sintagma nominale + modificatore),
l'ellissi («ché quando i poveri fanno un regalo il non accettarlo per loro un disprezzo» Ib., p. 137) e il
chiasmo («prima i periti, i salti mortali dopo» Ib., p. 170).
Talvolta, la sintassi risulta frantumata e complicata da un'interpunzione del tutto soggettiva. Sciscia fa
un «uso pletorico» (Testa 1997, p. 329) e «rilevato» (Novelli s.d.) «dei dati dell'interpunzione: segni, dallo
statuto autonomo e iconico» (Testa 1997, p. 329) che «frantumano, antirealisticamente, la linea della frase e
ogni possibile, minima estensione di lingua e respiro» (Ib.). Oltre ai già citati casi (cfr. pp. 4 – 6), ne è
un'esemplificazione il passo seguente, dove vi è una sovrabbondanza dei due punti:
«ha dovuto far rimuovere il sarcofago: e i regalpetresi hanno visto gratis l'Ill.mo don Girolamo del Carretto.
Non tutti: perché il parroco subito si scocciò del pellegrinaggio tumultuoso, non c'era sugo, chiuse le porte
della chiesa» (Sciascia 1991, p. 19).
Complica la fruibilità del testo la frequenza degli asindeti1, spesso usati negli elenchi per velocizzare
ritmo: «Tutti ora ricordano: una donna due dieci» Ib., p. 68 (si tratta di un'iperbole resa medianre l'asindeto,
il quale velocizza anche il ritmo); «e famiglie amicizie vecchi e nuovi rancori» Ib., p. 85; «Altro che favole
grammatica le città del mondo» Ib., p. 112; «che si lavino le orecchie – così sporche che vi germoglierebbero
le fave – le gambe le mani» Ib., p. 113; «hanno il pezzo di terra il mulo l'asino la mezzadria» Ib., p. 117; «la
1 Inteso come assenza di congiunzione, compresi i segni d'interpunzione.
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posta non porta loro che di queste cartoline, per andare a scuola per il servizio di leva per il richiamo per la
tassa» Ib., p. 123; «Le discussioni cadono sempre su stipendi indennità aumenti» Ib., p. 126; «Altrove gente
che lavora con le braccia ha già conquistato dignità speranza serena fiducia» Ib., p. 132; «Continuamente si
spiano si accusano si insultano» Ib., p. 140; «Ora viene l'estate; la mietiutra la raccolta delle mandorle la
vendemmia» Ib., p. 141; «ebbe un funerale con banda corone e autorità» Ib., p. 146; «l'amicizia fa strage in
Sicilia, è mafia massoneria partito politico» Ib., p. 179.
Passando all'analisi lessicale dell'opera, oltre ai già citati regionalismi (cfr. pp. 7 – 8), segnalo un
ispanismo («pronunciamientos» Ib., p. 62), alcuni arcaismi (es. «istesso» Ib., p. 26, forma arciaca di "stesso"
dal latino "ipsum"), alcune varianti antiche e dotte (es. «pronunziarlo» Ib., p. 27). Però, ciò che caratterizza il
lessico dell'opera è la grande attenzione da parte dell'autore nell'operare le sue scelte: spesso compaiono
lessemi non neutri che lasciano intuire l'opinione del narratore (cfr. p. 6; «ectoplasmi di gerarchi volteggiano
nell'aria» Ib., p.114; «Ricompaiono sulla piazza i liberali, si svegliano quando le elezioni sono vicine» Ib., p.
167). Altre volte, Sciascia ricorre all'uso di figure retoriche per esprimere implicitamente la sua posizione.
Ad esempio, nel seguente passo, attraverso l'uso di lessemi particolari e di figure retoriche, esprime
implicitamente la sua avversione per il fascismo:
«Poiché per i fascisti è giornata di lutto, c'è anche la bandiera col nastro nero: e nel discorso del candidato
tutto il ciarpame funerario vien fuori, come un carro funebre il discorso si muove tra siepi di gagliardetti, in
un migliaio di aggettivi la patria piange la sua perduta grandezza» (Ib., p. 164).
“ciarpame” è un lessema non neutro e l'aggettivo "funerario”, la similitudine tra discorso e funerale e
l'iperbole «migliaio di aggettivi» non fanno che sottolineare la posizione implicita del narratore.
Inoltre, l'autore fa spesso uso di un lessico preciso, al limite dello specialistico, come nei seguenti casi:
invece di utilizzare un iperonimo generico, quale “reato”, precisa i tipi di reato nel passo:
«l'omicidio, l'abigeato, in certe zone persino il furto nei pollai» (Ib., p. 41);
preferisce il lessema «prestidigitazione» (Ib., p. 120) a “prestigiazione”, il cui etimo del primo
lessema ("praesto" + "digitus") riconduce più specificamente alla radice della manualità (le dita)2.
Infine, vorrei segnalare alcuni elementi testuali ricorrenti: gli sviluppi tematici dissociati («In quanto
agli undici consiglieri […], un paio restarono nella rete di Mori, gli altri non si iscrissero mai al fascio» Ib.,
p. 38; «La fatidica maggioranza dei ventitre consiglieri democristiani si divise, dodici consiglieri si misero
dalla parte del sindaco, dieci restarono dalla parte del segretario del partito» Ib., p. 92), l'uso enfatico dei
deittici («questo qui raglia sempre di donne» Ib., p. 67) e i fenomeni di ripresa. Questi ultimi sono tipici della
2 Per approfondimenti si veda:
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/domande_e_risposte/lessico/lessico_275.html.
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lingua parlata e, il più delle volte, ricorrono in costrutti caratterizzati da un ordine marcato delle parole,
realizzati per particolari esigenze di rilievo (Fiorentino 2011). Propongo alcuni esempi:
«Trenta ragazzini che non possono star fermi […]; e vengono anche le mamme a raccomandarmi che
li raddrizzi a botte, i loro figli» (Sciascia 1991, p. 112): la ripresa è affidata al pronome anaforico
«li», il cui antecedente nel testo («Trenta ragazzi») si trova a notevole distanza, quindi viene poi
esplicitato mediante parafrasi («i loro figli»).
«Se poi volete contarli tutti, i mafiosi del paese» (Ib., p. 134): l'oggetto è anticipato mediante il
pronome. Tra pro-forma e punto di attacco vi è una relazione cataforica.
Ricorre spesso il modulo anaforico “detto / detta”, tipico del linguaggio burocratico: «detto filato
ipocondriaco» (Ib., p. 97), «detta pietra» (Ib., p. 98).
Concludendo, Le parrocchie di Regalpetra è un'opera inseribile appieno tra quelle opere narrative del
periodo metà anni Cinquanta – decennio successivo «che ancora sfruttano intensivamente in funzione
realistica le varietà marginali e socialmente marcate della lingua» (Testa 1997, p. 274). Tuttavia, è giusto
sottolineare che gli elementi spiccatamente dialettali s'inseriscono su una trama che è costituita dalla lingua
italiana, dando origine a una lingua che è un italiano semplice, con tratti propri del parlato, solo raramente
elevato a uno stile più alto, mediante alcune figure retoriche e determinati lessemi.
Bibliografia e sitografia
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http://www.treccani.it/enciclopedia/pronomi-di-ripresa_%28Enciclopedia_dell%27Italiano%29/.
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Giovanni Treccani, Roma, s.v. “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, p. 140, vol. II..
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