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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Studi Umanistici Corso di Laurea magistrale in Lettere moderne LE EDIZIONI DELLE FANTASIE DI GIOVANNI BERCHET Relatore: Chiar.mo Prof. Alberto Valerio CADIOLI Correlatore: Chiar.mo Prof. Stefano GHIDINELLI Tesi di Laurea di: Jessica POMPILI Matr. 803796 Anno Accademico 2014 - 2015

Le edizioni delle 'Fantasie' di Giovanni Berchet

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Studi Umanistici

Corso di Laurea magistrale in Lettere moderne

LE EDIZIONI DELLE FANTASIE DI GIOVANNI BERCHET

Relatore:

Chiar.mo Prof. Alberto Valerio CADIOLI

Correlatore:

Chiar.mo Prof. Stefano GHIDINELLI

Tesi di Laurea di:

Jessica POMPILI

Matr. 803796

Anno Accademico 2014 - 2015

1

I

Giovanni Berchet e l’esperienza risorgimentale e romantica

ROMANTICISMO E RISORGIMENTO: LA LOMBARDIA DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA

«Per entro i fitti popoli; / Lungo i deserti calli; / Sul monte

aspro di gieli; / Nelle inverdite valli; / Infra le nebbie assidue; /

Sotto gli azzurri cieli; / Dove che venga, l’Esule, / Sempre ha la

patria in cor» (F₁, p. 3)1. L’immagine dell’esule che delinea

Berchet all’inizio delle sue Fantasie non potrebbe esprimere

meglio quel binomio inscindibile che fu per l’Italia il

romanticismo insieme alla tormentata esperienza del

risorgimento.

Ma parlare di risorgimento e romanticismo, in particolare di

romanticismo italiano, significa fare riferimento a due concetti

che richiederebbero una riflessione che non può trovare spazio

in questa sede. Per quanto riguarda il termine 'risorgimento',

dunque, è da intendersi qui nella sua accezione più ampia e

generale. Quella, cioè, di lungo e complicato processo di

trasformazione politica, economica, sociale e culturale che portò

l’Italia, dalla sua storica condizione di frazionamento, all’unità

nazionale nel 1861.

1 Le citazioni tratte dalle prime edizioni delle Fantasie compariranno nel testo secondo queste modalità: F₁: Giovanni Berchet, Le Fantasie, Delaforest, Parigi, 1829. F₂: Giovanni Berchet, Le Fantasie, Taylor, Londra, 1829. F₃: Giovanni Berchet, Le Fantasie, Taylor, Londra, 1831. F₄: Giovanni Berchet, Le Fantasie ed I profughi di Parga, Resnati, Milano, 1848.

2

Allo stesso modo è difficile dare una definizione specifica di

romanticismo italiano, che ha visto negli anni il susseguirsi di

teorie radicalmente opposte2. Nel 1908 Gina Martegiani puntava

l’attenzione sulla continuità di pensiero tra la cultura italiana

del secondo ‘700 , e quella definita 'romantica' dai suoi stessi

protagonisti. Il suo saggio, dal titolo Il romanticismo italiano non

esiste3, si poneva proprio il fine di mostrare come l’Italia non

avesse mai conosciuto quella forte rottura con il passato che era

stata alla base della nascita del romanticismo europeo. Gli

intellettuali che si definivano 'romantici' negli anni attorno al

1816 si riconoscevano in realtà in quelle stesse idee civili e

letterarie degli illuministi milanesi del «Caffè». Ma la posizione

della Martegiani è espressione di una sola delle teorie a

proposito del romanticismo italiano, alla quale nel tempo si

sono contrapposte riflessioni volte, invece, a evidenziare i

caratteri tipicamente europei del nostro romanticismo.

Lasciando comunque da parte tali questioni, ciò che importa

qui non è partire da una definizione di romanticismo italiano,

quanto da quel legame fortissimo che la letteratura dell ’’800

ebbe con l’esperienza risorgimentale. Quanto, dunque, la

situazione politica dell’Italia, i tentativi di rivolta, il controllo

militare, le restrizioni, la censura, gli arresti avrebbero

influenzato il pensiero e la produzione letteraria che siamo soliti

chiamare 'romantica'.

2 Si veda a tal proposito Alberto Cadioli, Romanticismo italiano, Editrice Bibliografia, Milano, 1995. 3 Gina Martegiani, Il romanticismo italiano non esiste, Seeber, Firenze, 1908.

3

A proposito della nascita del romanticismo, scrive, appunto,

Giuliano Manacorda:

«Si può dunque parlare di un romanticismo italiano per distinguerlo

o contrapporlo ad uno tedesco o di qualunque altra nazione, proprio

perché il messaggio di libertà che il romanticismo portava dalle sue

origini doveva assumere presso ogni popolo quel significato che esso

poteva storicamente dargli. […] Né è un caso che questo nostro piccolo

Sturm und Drang abbia uno sfasamento di circa un venticinquennio

rispetto a quello tedesco, ché il ritardo non è se non la maturazione

delle basi sulle quali le teorie romantiche potevano conquistare anche il

nostro paese. Alla luminosa meteora dell’aulicismo napoleonico ben si

adattava il classicismo montiano, ma al rapido tramontare di essa e al

subentrare della tetra dominazione austriaca, nel crollo di una

semilibertà appena provata e di una grandezza appena intravista, la

ribellione alla troppo dura realtà diveniva il pensiero dominante, e la

teoria di chi aveva elevato a sistema l’abbattimento dei valori costituiti

poteva e doveva trovare cittadinanza anche da noi. […] Nelle sue origini

il romanticismo fu spirito di rivolta e, lungi dall’essere una teoria

meramente letteraria ma ergendosi a nuova e totale intuizione di vita,

portò l’insofferenza e la ribellione ovunque decrepite barriere si

opponessero all’umano pensare ed agire, e […] come scrisse il Pellico,

romantico venne a significare liberale, venne a significare cioè uomo

moderno aperto al futuro e disposto a lottare per attuarlo» 4.

Fu dunque il contesto storico dell’Italia dopo la

Restaurazione, secondo Manacorda, a generare gli stimoli adatti

perché il romanticismo trovasse posto anche da noi. Non è

quindi un caso che, mentre nel resto d’Italia il dibattito

4 Giuliano Manacorda, Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze, 1972, pp. 268-69.

4

intellettuale era quasi del tutto spento (fatta eccezione per

Firenze), la produzione romantica più viva trovava terreno

fertile per attecchire proprio in quel nord Italia che passava

drammaticamente dalla dominazione francese a quella austriaca.

Si chiedeva in una lettera del ’19 Silvio Pellico: «Del resto chi

diavolo sa qualche cosa in questa penisola, fuorché in Milano?

non intendo per sapere l’erudizione, ma il criterio filosofico, e la

chiave delle vicende umane»5.

Dopo il congresso di Vienna, comunque, l’Italia si presentava

sostanzialmente in questo modo: il Piemonte tornava al re di

Sardegna, Lombardia, Veneto e Valtellina andavano a formare il

Lombardo-Veneto direttamente controllato dall’Austria, il regno

delle Due Sicilie apparteneva ai Borbone e naturalmente si

ripristinavano i confini settecenteschi per lo Stato pontificio.

Nei salotti del nord, in un primo tempo, il ritorno degli

Austriaci era stato accolto positivamente, segnava del resto la

fine della deludente parentesi napoleonica. In uno scritto

pubblicato postumo negli «Atti del Reale Istituto Veneto», Luigi

Torelli, patriota e politico italiano, rivelò il pentimento persino

di Manzoni per gli elogi alla rivoluzione francese e a Bonaparte.

A suo dire, nel corso di una passeggiata durante un soggiorno

nella casa di campagna degli Arconati a Cassolnovo (PV),

Manzoni gli avrebbe confessato, alludendo al Cinque Maggio:

«Ebbene sappia che io mi sono pentito di aver scritto quella

5 Lettera indirizzata al fratello Luigi Pellico. Citazione tratta da Silvio Pellico, Lettere milanesi, a c. di Mario Scotti, Loescher-Chiantore, Torino, 1963, p. 171.

5

poesia. Perché ho la convinzione che Napoleone era un uomo di

cattivo cuore»6.

Un certo sollievo si era quindi diffuso sul finire della

dominazione francese, ma ben presto fu chiaro a tutti che le

speranze d’indipendenza, o almeno di una larga autonomia, che

si erano respirate con i tumulti antibonapartisti del 20 aprile

1814, non erano state che un incauto ottimismo.

La costituzione, che l’Austria sembrava voler concedere sotto

l’influenza inglese, non sarebbe mai arrivata; a fugare ogni

dubbio circa la nuova linea di governo arrivò invece il proclama

austriaco del 12 giugno dello stesso anno in cui il maresciallo di

Bellegarde metteva fine a qualsiasi rivendicazione territoriale:

«Popoli della Lombardia, del Mantovano, del Bresciano-

Bergamasco e Cremasco, un felice destino vi attende: le vostre

Province sono definitivamente aggregate all’Impero

dell’Austria»7.

Ecco quindi che tornarono a galla i malumori dell’aristocrazia

e dell’alta borghesia, sempre più tagliate fuori dalle dinamiche

decisionali. Marziano Brignoli, nel saggio La Lombardia tra

rivoluzione e restaurazione , individua in due momenti specifici la

rottura tra il ceto colto liberale lombardo e i rappresentanti del

governo austriaco.

6 Citazione tratta da Ezio Flori, Soggiorni e villeggiature manzoniane, Vallardi, Milano, 1934, pp. 226-27. 7 Citazione tratta da Marziano Brignoli, La Lombardia tra rivoluzione e restaurazione, in AA. VV., Giovita Scalvini un bresciano d'Europa. Atti del convegno di studi 28-30 novembre 1991, a c. di Bortolo Martinelli, Ateneo di scienze lettere e arti-Università Cattolica del Sacro Cuore, Stamperia fratelli Geroldi, Brescia, 1993, p. 25.

6

In primo luogo la chiusura delle scuole lancasteriane, le

scuole legate a quel sistema di insegnamento che prevedeva la

collaborazione degli scolari più progrediti con il loro maestro

nell'istruzione dei compagni. Questa forma di insegnamento,

nata in Inghilterra sul finire del ‘700, aveva attecchito in tutta

Italia, e in Lombardia era stata fortemente voluta da Federico

Confalonieri, con il sostegno di aristocratici come Pecchio,

Arrivabene, Porro e i fratelli Ugoni. Ma queste scuole, oltre che

luoghi di formazione, potevano anche essere centri di diffusione

di quelle idee liberali che impensierivano i funzionari statali. Sul

finire del 1820, quindi, fu dato ordine che tutti gli istituti

venissero chiusi.

Tuttavia una forte rottura con le autorità austriache era già

arrivata, secondo Brignoli, in seguito alle tante vicende di

censura che avevano colpito il «Conciliatore» e che lo avevano

portato alla chiusura definitiva il 17 ottobre 1819.

Il «Conciliatore» aveva visto la partecipazione di intellettuali

come Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Giovanni Berchet,

Silvio Pellico, Gian Domenico Romagnosi, Giuseppe Pecchio,

Ermes Visconti e Federico Confalonieri. Nella sua breve vita,

circoscritta ad appena un anno, il «Conciliatore» era stata

un’esperienza importante, e può dunque essere considerato

«un’esemplare testimonianza dello sforzo dei più aperti gruppi

dell’aristocrazia illuminata e della borghesia intellettuale

7

milanese per affermare il proprio ruolo di classe dirigente» 8.

Non a caso, infatti, Pellico lo descrisse come un’impresa che

aveva tenuto accesa la scintilla del patriottismo e della verità. La

sua chiusura toglieva voce a un dibattito l iberale che fino ad

allora si era svolto alla luce del sole, e che finirà, quindi, per

incanalarsi con maggiore forza nelle società segrete. Di queste

quella ritenuta più pericolosa era certamente la Carboneria.

I MOTI DEL ’21: LE FUGHE E GLI ARRESTI

La Carboneria – nata nel regno di Napoli in senso anti-

napoleonico sul finire del ‘700 – aveva velocemente preso piede

in tutt’Italia ed era stata proibita in Lombardia con la

«Notificazione» del 20 agosto 1820 che attribuiva la pena di

morte non solo agli aderenti alla società, ma a tutti coloro che in

qualche modo vi fossero entrati in contatto senza farne denuncia

alla polizia.

A Milano la Carboneria era arrivata con Pietro Maroncelli, e

aveva visto la pronta adesione di Luigi Porro e Silvio Pellico (che

del Porro era segretario e precettore dei figli). Pellico a sua

volta aveva provato a coinvolgere il conte Giovanni Arrivabene,

ma senza successo. Nell’ottobre del 1820, però, la polizia

imperiale entrò in possesso di lettere e documenti sulle attività

della società segreta e il mese successivo cominciarono gli

arresti. Tra i primi ad essere fermati vi furono appunto il

8 A. Cadioli, Romanticismo italiano cit., p. 29.

8

Maroncelli e Pellico (inizialmente condannati a morte, la loro

pena sarebbe stata successivamente commutata nel carcere

duro; ottennero la grazia dieci anni dopo).

Di contro, si andavano intensificando i rapporti tra i patrioti

lombardi e il Piemonte. Ettore Perrone di San Martino, ufficiale

dell’esercito sabaudo molto vicino a Carlo Alberto, si era

incontrato nell’agosto del ‘20 a Vigevano con il conte Federico

Confalonieri, allo scopo di gettare le basi per un’alleanza

comune. Nel gennaio del ’21 Giuseppe Pecchio, altro importante

membro dell’aristocrazia lombarda, si sarebbe incontrato con lo

stesso Carlo Alberto. E nel marzo del medesimo anno in

Piemonte si accese quell’insurrezione che tanto avrebbe illuso e

deluso i patrioti italiani; preso dall’entusiasmo anche Manzoni

scrisse in pochi giorni la celebre ode Marzo 1821 che per ovvi

motivi non avrebbe visto la stampa se non dopo la sua

riscrittura nel 1848.

Carlo Alberto, infatti, dopo un primo supporto alle truppe

degli insorti guidate dal conte Santorre di Santarosa, tornò sui

suoi passi e le abbandonò al loro destino; l’esercito austriaco

inflisse loro una durissima sconfitta e il sogno rivoluzionario

svanì dopo appena due mesi. In Lombardia si mise in moto la

macchina della repressione austriaca che portò a una serie di

arresti a catena.

Nel dicembre del 1821 venne arrestato quello che era

ritenuto l’esponente più autorevole dei patrioti lombardi,

Federico Confalonieri, che condivise la sorte di Pellico e

9

Maroncelli, condannato al carcere duro nella fortezza dello

Spielberg (successivamente la pena gli fu commutata nella

deportazione in America, dalla quale riuscì a scappare per

tornare in Europa). L’interrogatorio di Federico Confalonieri

portò poi agli arresti di Giacinto Mompiani, Pietro Borsieri,

Francesco Arese, Giorgio Pallavicino, Gaetano Castillia e altri.

Chi non finì in carcere scelse la strada della fuga e dell’esil io,

mentre il Lombardo-Veneto si spegneva in una silenziosa

sottomissione che sarebbe durata almeno fino agli anni ‘40.

Sarà questo il contesto in cui continuerà ad esprimersi la

produzione letteraria del nostro romanticismo. In patria, chi non

scrive dal carcere (è il caso di Pellico che tra il 1831 e il 1832

compone Le mie prigioni , date alle stampe l’anno seguente), deve

faticosamente destreggiarsi tra i canali delle pubblicazioni

clandestine, come mostra una lettera di Vincenzo Gioberti:

«Ti mando col Leopardi e colla circolare del Vieusseux tre poesie di

un mio giovane amico. […] Le farai girare (colle debite cautele per non

danneggiarti), essendo utile che tali poesie vadano attorno. Non occorre

che io raccomandi al tuo buon senno di tacere assolutamen te intorno al

modo con cui ti sono pervenute. Sarà anzi bene che quanto all’autore,

per disviar le inchieste dei malevoli, le attribuisci al Berchet o al

Giannone o a qual altro tu vuoi de’ nostri illustri fuorusciti già noti per

versi di tal fatta»9.

Ma c’è anche chi si abbandona a una certa rassegnazione. O

almeno così aveva interpretato Berchet le nuove posizioni di 9 Lettera di Vincenzo Gioberti a Carlo Verga, datata Torino 1832. Citazione tratta da Vincenzo Gioberti, Epistolario, vol. I, a c. di Giovanni Gentile e Gustavo Balsamo-Crivelli, Vallecchi, Firenze, 1925, p. 106.

10

Manzoni, lamentandosi con la marchesa Costanza Arconati di

vedere una certa «malinconia insalubre» prendere piede tra i

rimasti del «crocchio supra-romantico della contrada del

Morone»10. Dice il poeta all’amica:

«Sa che quasi ho piacere ch’Ella non vada a Milano? Ella sa ch’io non

sono nè irreligioso per professione, nè nimico neppure di chi è divoto

più di me. Ma in casa Manzoni c’è uno spirito di proselitismo da qualche

tempo in qua, che si attacca agli altri, e conduce infino ad una

malinconia insalubre. Già Ella saprà la conversione di Ermes Visconti.

Quella smania di teologare mi è pur antipatica; e un gran teologare si fa

in Casa Manzoni. Chi è un poco debole di spirito finisce così negli

scrupoli; e Visconti mi si dice esserne già sulla via»11.

Solo in Europa, quindi, può continuare l’attività letteraria e

patriottica dei nostri romantici. Poco importa di che Europa si

tratti, come precisa Berchet: «Dove che venga, l’Esule, / Sempre

ha la patria in cor» (F₁, p. 3). Sono infatti molte le mete di chi

era costretto a fuggire dall’Italia.

La Svizzera era certo la destinazione più vicina e la più facile

da raggiungere. Qui per esempio si trasferì Giacomo Ciani,

banchiere e patriota lombardo che, intimo amico di Federico

Confalonieri, aveva preso parte a sua volta ai moti del ’ 21.

Fuggito in esilio, si era stabilito definitivamente a Lugano (dopo

10 Così Ermes Visconti aveva definito il gruppo di intellettuali che frequentavano la casa di Manzoni in una lettera a quest’ultimo datata [Milano], 25 novembre 1819. Citazione tratta da Ermes Visconti, Dalle lettere: un profilo, a c. di Sonia Casalini, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano, 2004, p. 22. 11 Lettera datata Londra, 24 luglio 1827. Citazione tratta da Giovanni Berchet, Lettere alla marchesa Costanza Arconati (febbraio 1822-luglio 1833), vol. I, a c. di Robert Van Nuffel, Vittoriano, Roma, 1956, pp. 165-66.

11

una parentesi a Ginevra e Londra), e qui aveva intrapreso

l’attività di tipografo. Ma la Svizzera, troppo vicina all’Italia,

subiva molte pressioni dal governo austriaco e non era quindi

un posto considerato sicuro da tutti. Molti esuli preferivano

rifugiarsi sul suolo francese.

La Francia era la meta preferita dai nostri compatrioti anche

per una non trascurabile ragione climatica. Meno fredda dei

paesi del nord Europa, era certamente la destinazione più

accogliente e desiderabile tra tutte quelle possibili. La sua

capitale era un attivo centro culturale che teneva viva la

produzione letteraria, e qui gli esuli avevano modo di

frequentare personalità già note ai salotti lombardi, come

Claude Fauriel o Victor Cousin. In parte era anche possibile

riaprire quel dibattito liberale soffocato in patria. In Francia si

sposteranno, dunque, Santarosa, Camillo Ugoni, Arrivabene e

Scalvini, gli Arconati, lo stesso Berchet, e altri. Ma la maggior

parte dei trasferimenti degli esuli in Francia non erano duraturi;

pur bella, infatti, Parigi non era in realtà troppo sicura, a causa

delle sempre più frequenti estradizioni concesse all’Austria e dei

molti arresti. Proprio Santarosa, riconosciuto e fermato dalla

polizia, fu accusato di cospirare contro il governo francese e

scontò diversi mesi di carcere.

Se qualcuno, come Giuseppe Pecchio, scelse di riparare in

Spagna e in Portogallo, l’unica meta a sembrare realmente sicura

era invece l’Inghilterra. Qui, presto o tardi, confluirono molti

esuli tra cui il conte Pecchio, Porro, Santarosa e naturalmente

12

Berchet, Arrivabene e Scalvini. A Londra i rischi di arresto erano

bassissimi ma il prezzo da pagare era quello di un ambiente

intellettuale molto chiuso e di un clima estremamente insalubre.

In parte aveva avuto successo presso i circoli liberali il Foscolo

(prima che il suo tenore di vita e le speculazioni lo portassero

alla rovina), ma diversa sorte toccò per esempio a Berchet, che

non riuscì mai a inserirsi nella società letteraria londinese, e

anzi nel ‘27 gli venne impedito l’accesso al club che frequentava

a causa della sua modesta condizione economica.

Ma è soprattutto al clima che si adattavano male gli esuli.

Così l’Arrivabene ricordava il suo soggiorno a Londra:

«L’impressione che Londra mi fece, fu sommamente triste. Il cielo di

dicembre non è lieto neppure in Italia, ma mio Dio, che differenza! In

Londra cielo perpetuamente nebuloso, nebbia color di arancio, fitta

tanto, che talvolta nelle vie giova sospendere il corso delle carrozze e

nelle case accendere il lume a mezzogiorno»12.

Scalvini, che era sempre stato di salute estremamente

cagionevole e soffriva di fegato e di polmoni, patì moltissimo

quel clima. Di Londra diceva: «Anche i più forti devono risentirsi

di questo clima: un’ora non è mai simile all’altra: o piove, o

nevica, o fa vento, e tali sono finora stati tutti questi giorni di

Marzo»13. Nel ’24, infatti, la sua salute peggiorò; gli salvò la vita

la pronta risoluzione dell’amico Arrivabene nel trasferirsi con

12 Giovanni Arrivabene, Memorie della mia vita, Barbèra, Firenze, 1880, p. 122. 13 Lettera di Giovita Scalvini alla madre, datata Londra, 19 marzo 1824. Citazione tratta da Marco Pecoraro, Lettere dall’esilio e frammenti inediti dello Scalvini nelle carte della polizia austriaca, in AA. VV., Studi in onore di Raffaele Spongano, Boni Editore, Bologna, 1980, pp. 346-47.

13

lui nell’amena isola di Wight, a sud dell’Inghilterra, dove lo

Scalvini si rimise in forze.

Londra quindi, sebbene sicura, non si adattava alla vita degli

esuli italiani, molti dei quali accettarono di buon grado

l’ospitalità che attorno agli anni ’30 i generosi marchesi Arconati

poterono offrire nei loro possedimenti a Gaasbeek. In Belgio,

infatti, finalmente al sicuro e ristorati da un clima più mite,

trascorsero gli ultimi anni del loro esilio diversi patrioti, prima

che l’amnistia del ’38, concessa da Ferdinando I d’Austria il

giorno della sua incoronazione a Milano, rendesse finalmente

possibile il rientro in Italia per tutti i proscritti del Lombardo -

Veneto.

Nonostante le tante difficoltà incontrate in Europa,

comunque, non venne mai meno negli esuli il desiderio di

scrivere dell’Italia, delle speranze di indipendenza, o anche solo

dell’esperienza stessa dell’esilio. In questo clima Giannone darà

alle stampe, in Francia, L'esule14, che sarà poi ristampato nel

1868 e dedicato a Garibaldi. Intanto Scalvini componeva un

poemetto dallo stesso titolo (cambiato successivamente, forse

proprio per questo motivo, in Il fuoruscito15), pubblicato

postumo nel 1860 a cura di Tommaseo. Risale all’esilio parigino

anche De la révolution piémontaise16 di Santarosa, mentre Ciani,

14 Pietro Giannone, L' esule, Delaforest, Parigi, 1835. 15 Giovita Scalvini, Scritti, a c. di Niccolò Tommaseo, Le Monnier, Firenze, 1860. Si veda anche Giovita Scalvini, Il fuoruscito, testo critico dall’autografo a c. di Robert Van Nuffel, Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1961. 16 Santorre di Santarosa, De la révolution piémontaise, chez les Marchands de nouveautés, Paris, 1821.

14

nel Canton Ticino, si associava con lo stampatore Giuseppe

Ruggia per dare alle stampe le opere dei patrioti italiani,

contribuendo in questo modo a tenere viva la causa.

Scrivere è anche un modo per esorcizzare la paura di

rimanere bloccati per sempre in quella irreversibile condizione

di stallo in cui sembrava esser caduta la patria. Scrive Camillo

Ugoni in una lettera del ’36: «Ma dove cercheremo noi, non

conforto, ma qualche tregua al pensiero di tante disgrazie?

Sempre nelle lettere e nello studio»17. Fino ad allora, infatti,

concrete iniziative di rovesciare gli equilibri politici non ve

n’erano state, e sono quindi più che comprensibili le parole di

uno sconsolato Scalvini: «Forse, noi marciremo tutti nell ’esiglio,

secondo la caritatevole espressione di Metternich» 18.

È da questo sentimento che nasceranno anche Le Fantasie di

Berchet, composte nell’esilio londinese tra la primavera del

1827 e i primi mesi del 1828 .

GIOVANNI BERCHET

All’epoca della repressione austriaca e dell’arresto di

Confalonieri, Giovanni Berchet era già parecchio conosciuto e

apprezzato nell’ambiente intellettuale milanese, nonostante le

modeste condizioni sociali dalle quali proveniva.

17 Lettera indirizzata a Giovita Scalvini, datata Saint-Leu, 25 novembre 1836. Citazione tratta da Robert Van Nuffel, Lettere di Camillo Ugoni a Giovita Scalvini, in «Convivium», 1957, p. 728. 18 Lettera indirizzata a Giovanni Arrivabene. Citazione tratta da Guido Bustico, Giovita Scalvini, in AA. VV., I cospiratori bresciani del ‘21 nel primo centenario dei loro processi, miscellanea di studi a c. dell’Ateneo di Brescia, Scuola Tip. Editrice Istituto Figli di Maria Imm., Brescia, 1924, pp. 52-53.

15

Il poeta, infatti, era nato a Milano, il 23 dicembre del 1783 , da

Caterina Silvestri e Federico Berchet. Il padre, di origini

svizzero-francesi (gli avi erano di Nantua), era niente più che un

commerciante di tessuti, proprietario di un negozio di

'pannilana'. Berchet nacque quindi in un contesto molto diverso

da quello degli intellettuali aristocratici con i quali sarebbe

entrato in contatto nel corso della sua vita.

Fin da giovane, comunque, dimostrò notevole interesse per le

lettere, tanto che la famiglia scelse di supportare questa sua

propensione allo studio dapprima con le lezioni private

impartitegli dall’abate Pietro Mazzucchelli (futuro prefetto della

Biblioteca Ambrosiana), e in seguito iscrivendolo alle scuole

Arcimbolde (al tempo ancora sotto la direzione dei Barnabiti). Il

padre era inoltre convinto dell’importanza che i figli

imparassero le lingue moderne, anche in virtù di un futuro come

commercianti. Giovanni imparò quindi il francese, l’inglese e il

tedesco, ma ciò che più suscitava il suo interesse era il fervido

panorama letterario milanese di quegli anni. I nomi a cui

guardava il poeta erano naturalmente quelli di Giuseppe Parini

(morto nel 1799), Vincenzo Monti, considerato il più illustre

poeta di allora, e Ugo Foscolo, che affascinava le nuove

generazioni per le sue opere e il suo temperamento.

È sotto queste influenze, quindi, che Berchet mosse i suoi

primi passi. Tra le opere iniziali figura un 'bigliettino' di scuse

16

indirizzato al padre dal titolo Versi infantili al padre 19 ma ben

più conosciuto è invece l’inno Per le nozze di Alberigo Rovida e di

Cristina Forni20, pubblicato attorno al 1807 nella stamperia di

Giovanni Giuseppe Destefanis. Il poeta omaggiò la coppia con un

inno che invocava Giunone ad assistere benevola alle nozze in

questione. Pur senza mostrare particolare originalità, Berchet

diede prova di sapersi muovere in perfetta sintonia con i moduli

della poesia di stampo settecentesco, mettendo ben in pratica gli

insegnamenti acquisiti e attingendo liberamente a un repertorio

ben consolidato. Ma ciò che risulta interessante dall’analisi

dell’opera è l’emergere di un motivo morale di denuncia della

corruzione del tempo (certamente di stampo pariniano). Un

aspetto importante specialmente se visto alla luce del ruolo

etico-civile che Berchet attribuirà alla poesia nelle ri flessioni

critiche sulle pagine del «Conciliatore», e che farà da linea guida

a tutta la sua produzione successiva.

Sempre di questo periodo sono l’ode All’ulcera21 e le ottave

fatte con Giuseppe Taverna22, studioso di letteratura inglese e

traduttore di Shakespeare. Ma la prima vera occasione di

Berchet di affacciarsi al panorama letterario di allora avvenne

con la traduzione in endecasillabi sciolti del Bardo23 di Thomas

Gray, nel 1807. Ancora una volta non è solo l’intento estetico a

19 Si veda Giovanni Berchet, Opere. Poesie, vol. I, a c. di Egidio Bellorini, Laterza, Bari, 1911, p. 409. 20 Ivi, p. 410. 21 Mai pubblicata interamente dagli editori delle raccolte berchettiane perché giudicata eccessivamente volgare. 22 Si veda G. Berchet, Opere. Poesie, vol. I, a c. di E. Bellorini cit., p. 415. 23 Giovanni Berchet, Il bardo di T. Gray, s.n., Milano, 1807.

17

guidare il poeta nel portare a termine l’opera. Il componimento

si apre, non a caso, con l’invettiva contro Odoardo I che,

conquistato il Galles, aveva fatto trucidare tutti i bardi. Di loro

dice Berchet: «non avendo altra professione che quella di

mantener vivo col canto l’onore insieme e l’ardor nazionale,

erano da lui creduti sommamente nocivi alle sue mire di regno e

d’oppressione»24. È evidente, dunque, il significato politico

attribuito al testo, lo stesso significato che dovette attirare

l’attenzione di Ugo Foscolo. Infatti , in una recensione apparsa

sul «Giornale della Società di Incoraggiamento» nel 1808,

Foscolo, pur criticando la scrittura di Berchet («Ci duole di non

poterle dar lode di armonia e di splendore»25; «Non pare nutrito

sempre di buone letture»26), elogiò il poeta per il «gusto, di cui

ci ha dato saggio […] nella scelta di questo componimento»27,

ringraziandolo «per l’ottimo intento di addomesticare gl’italiani

con questo esemplare di lirica sublime»28.

Un intento di natura morale e civile continua dunque a

emergere nella produzione di Berchet, cominciando anche a

manifestare le prime concrete difficoltà nel legarsi alle ragioni

della forma poetica. È lo stesso Berchet ad ammetterlo nella

premessa alla traduzione del Bardo. Qui il poeta spiega di aver

voluto tradurre il testo a tutti i costi, ritenendo assolutamente

24 G. Berchet, Il bardo cit., citazione tratta da G. Berchet, Opere. Poesie, vol. I, a c. di E. Bellorini cit., p. 305. 25 Ugo Foscolo, Edizione nazionale delle opere. Scritti letterari e politici, vol. VI, a c. di Giovanni Gambarin, Le Monnier, Firenze, 1972, p. 713. 26 Ivi, p. 715. 27 Ivi, p. 714. 28 Ivi, p. 713.

18

necessario far conoscere al pubblico italiano un’opera di tale

valore. L’importanza attribuita a questa traduzione doveva

quindi, a detta del poeta, andare a scusare le molte cadute di

stile dovute alle difficoltà di portare a termine l’impresa. È già

evidente il ruolo di primaria importanza che Berchet attribuisce

all’intento etico, più che estetico, della poesia.

La traduzione del Bardo, e in particolar modo le parole di

Foscolo a riguardo, contribuirono tantissimo a conferire

autorevolezza al nome di Berchet che da allora cominciò sempre

più a frequentare figure di spicco, come il pittore Giuseppe

Bossi, Carlo Porta e Felice Bellotti, oltre che Foscolo stesso.

Ulteriore conferma delle capacità del poeta furono, tra il 1808

e il 1809, due componimenti di discreto valore, la satira I

funerali29 e il poemetto Amore30. Nella prima opera il poeta

riproponeva il motivo pariniano della decadenza dei valori, ma

senza alcun tipo di distacco ironico. Mentre nel se condo si

rappresentava il topos che opponeva alla pace e alla rettitudine

della campagna la dissolutezza del viver cittadino. Si tratta in

generale di due opere fortemente inserite nella tradizione

neoclassica che lasciano emergere tutta l’importanza delle

letture di Foscolo e Parini e dove Berchet mostra una decisa

padronanza di una poesia alta e letteraria, pur nella piena

imitazione di modelli consolidati.

29 Giovanni Berchet, I funerali, Cairo e Compagno, Milano, 1808. 30 Giovanni Berchet, Amore, Cairo e Compagno, Milano, 1809.

19

Fu un periodo molto produttivo, questo, per il poeta, che

tuttavia, non potendo vivere di rendita, si divideva

costantemente tra l’impegno letterario e il lavoro come

commerciante nell’azienda di famiglia. Questa occupazione,

però, lo rendeva troppo distante dagli intellettuali frequentati e

da qui la necessità di liberarsene il prima possibile. Iniziò così a

collaborare come traduttore per l’editore Destefanis, lavorando

alla sua collana di romanzi moderni. La maggior parte di queste

traduzioni uscirono non firmate, difficile dunque risalire ai testi

curati dal poeta, fatta eccezione per il Vicario di Wakefield31 di

Goldsmith, che gli è espressamente attribuito sullo «Spettatore»

del 30 novembre 1815 («Il sig. Giovanni Berchet, milanese, autor

de’ Funerali, dell’Amore, delle versioni del Bardo e del Vicario di

Wakefield»32). Ma la tradizione critica è solita attribuire a

Berchet anche le traduzioni del Visionario di Schiller e del

Télémaque di Fénelon.

Nell’agosto del 1810, ottenuto il posto di secondo commesso

dell’ufficio di amministrazione nella cancelleria del Senato del

Regno Italico, Berchet poté fina lmente lasciare l’azienda del

padre. Questa nuova condizione gli permetteva, inoltre, di

dedicarsi con maggiore attenzione all’attività culturale e di

frequentare con più assiduità gli ambienti intellettuali e gli

amici della società aristocratica e alto borghese.

31 Si veda Giovanni Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di Francesco Cusani, Pirotta e comp., Milano, 1863, p. 339. 32 Citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 57.

20

Anche il teatro cominciò a rientrare più spesso tra le attività

del poeta, e proprio a seguito di uno degli spettacoli visti

Berchet scrisse la Lettera sul dramma «Demetrio e Polibio»,

cantato nel Teatro Carcano33, un intervento critico sulla messa in

scena, il 6 luglio 1813 , di Demetrio e Polibio di Gioacchino

Rossini.

Gli anni che seguirono furono quelli che videro la fine del

Regno Italico, e mentre tra l’aristocrazia lombarda si

alimentavano speranze di cambiamento, Berchet perdeva

naturalmente il proprio posto di commesso. Così il 24 giugno del

1814 inviò un’istanza al nuovo governo austriaco nella quale

chiedeva una nuova occupazione, che gli venne effettivamente

assegnata. Nel settembre dello stesso anno venne chiamato a

svolgere mansioni di traduttore in vari uffici del nuovo governo,

e, grazie alla raccomandazione del classicista Giuseppe

Londonio, gli vennero affidate anche le traduzioni di alcuni testi

scolastici.

Nel frattempo il suo nome era sempre più affermato nel

contesto letterario italiano. Ne è la prova la sua apparizione

sulle pagine dello «Spettatore». Giornale ispirato allo

«Spectateur» francese, lo «Spettatore» era nato nel 1814 a

Milano per iniziativa del celebre editore Antonio Fortunato

Stella, e aveva riscosso un grandissimo successo, non solamente

nel nord Italia. Come noto, Leopardi era tra i col laboratori e Di

33 Si veda Giovanni Berchet, Opere. Scritti critici e letterari, vol. II, a c. di Egidio Bellorini, Laterza, Bari, 1912, p. 1.

21

Breme lo definì «il giornale italiano letterario più diffuso al dì

d’oggi e il più ricercato»34. Non è quindi evento da poco

l’apparizione su questo giornale, nel 1816, di alcuni versi di un

poemetto di Berchet sul lago di Como, Il Lario35, introdotti da

una nota biografica dove l’autore era definito «giovane poeta di

altissime speranze»36. Il Lario metteva perfettamente in luce

un’abilità tecnica ormai pienamente raggiunta dal poeta. Berchet

era certamente riuscito a ritagliarsi un posto di valore nel

panorama della cultura milanese del primo ‘800, e la sua poesia

poteva definirsi di stampo neoclassico.

Alla produzione neoclassica di Berchet va aggiunta, inoltre,

l’epistola A Felice Bellotti. In morte di Giuseppe Bossi 37. Il 9

dicembre del 1815 era scomparsa, infatti, una delle figure più

celebri della Milano del tempo. Giuseppe Bossi, oltre che poeta

dialettale stimato e legato a Carlo Porta, era un affermato

pittore, citato anche da Stendhal in Roma, Napoli, Firenze38.

Berchet scelse di ricordarlo con un componimento in stile

neoclassico che riscosse un notevole successo, ma in verità in

questa fase lo stile poetico di Berchet cominciò ad entrare in

crisi. E non poteva essere altrimenti, del resto, visto

l’approssimarsi della stagione romantica e l’accendersi dei

dibattiti culturali che cominciavano ad opporre gli strenui

difensori della tradizione a chi si interessava alle novità

34 Ludovico Di Breme, Lettere, a c. di Piero Camporesi, Einaudi, Torino, 1966, p. 288. 35 Si veda G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 57. 36 Ibidem. 37 Giovanni Berchet, A Felice Bellotti, Stella, Milano, 1816. 38 Stendhal, Rome, Naples et Florence, Delaunay, Paris, 1817.

22

d’oltralpe. Anche la poetica di Berchet subì dunque qualche

scossone. Tra il 1815 e il 1816 il poeta cominciò, infatti, la

stesura del carme I Visconti39, ma i risultati non furono

soddisfacenti. Lo stesso Giuseppe Bossi, prima della sua morte,

non aveva espresso un giudizio particolarmente positivo sul

testo, individuandone le molte debolezze. Berchet tornò più

volte a mettere mano a un testo che risentiva evidentemente del

richiamo del passato, della poesia notturna, del fascino per

l’orrido di fine ‘700, e dell’influenza foscoliana in un contesto

letterario che ormai stava cambiando e suggestionando il poeta

stesso. Nessun rimaneggiamento portò a un risultato

soddisfacente e infatti l’opera rimase inedita fino alla raccolta di

Francesco Cusani nel 1863.

Ad ogni modo, I Visconti mettono nuovamente in luce il

sempre crescente interesse di Berchet per una poesia impegnata

sul piano etico e civile. La vicenda rappresentata riguardava,

infatti, il personaggio di Petrarca che, ospite a Milano di

Giovanni Visconti, in seguito a una lunga visione delle

scelleratezze dei futuri signori di Milano, sceglieva di fuggire e

abbandonare per sempre la città. Seppur implicito, è evidente il

riferimento polemico alla situazione politica, sempre più critica,

del nord Italia, che infatti, da lì a qualche anno, avrebbe vissuto

la pesante stagione degli arresti e degli esilii.

Ma intanto, come si è detto, il panorama culturale milanese

stava cambiando. Era l’ottobre del 1815 quando nacque il

39 Si veda G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 388.

23

progetto della «Biblioteca italiana». Berchet non ne faceva parte,

ma vi parteciparono intellettuali importanti come Monti,

Borsieri, Pellico e Di Breme.

La «Biblioteca italiana», con l’intento dichiarato di aprirsi a

un pubblico ampio e non solamente letterario, e di uscire dalla

cultura esclusivamente italiana per aprirsi alla modernità,

preannunciava già quella che sarebbe stata l’esperienza del

«Conciliatore». Ma dentro il desiderio di rinnovamento culturale

che si respirava in questo progetto, era ormai chiara l’esigenza

di un altro tipo di rinnovamento, un cambiamento civile e

politico che voleva l’Italia al pari con le altre nazioni non solo

per cultura, ma come stato di diritto, indipendente e unitario. Il

rinnovamento culturale e quello politico erano, quindi, sempre

più strettamente intrecciati.

La «Biblioteca italiana» divenne celebre soprattutto per aver

ospitato sulle sue pagine l’articolo che avrebbe, di fatto, aperto

all’esperienza romantica in Italia, ovvero l’intervento di Madame

de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni 40.

Le parole di Madame de Staël sulla rivista invitavano gli

italiani a prestare maggior attenzione all’Europa e a tradurre,

specie dal mondo anglosassone, non tanto per dimenticare la

propria tradizione o rinnegarla, ma per non chiudersi alla

40 Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in «Biblioteca italiana. Ossia giornale di letteratura scienze ed arti», Antonio Fortunato Stella, Milano, Tomo I, Anno primo, gennaio febbraio e marzo 1816, Terza edizione.

24

modernità e quindi «mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i

quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia»41.

L’articolo ebbe un seguito inaspettato e animò un aspro

confronto tra chi si trovava d’accordo con le indicazioni della

scrittrice, e chi invece si poneva a difesa della tradizione e

dell’italianità. Questo confronto, che avrebbe ben presto trovato

due espressioni specifiche per le fazioni contrapposte,

'classicisti' e 'romantici', non poteva che vedere Berchet

militante tra le file dei secondi. Il poeta, del resto, aveva

mostrato il suo interesse per la letteratura straniera già con le

traduzioni fatte negli anni precedenti, e frequentando gli

ambienti più vicini alle idee di rinnovamento aveva maturato

una sua personale opinione alla quale avrebbe dato voce con la

Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo 42.

La Lettera semiseria uscì nel 1816, a Milano, pubblicata da

Giovanni Bernardoni. Il titolo intero era: Sul «Cacciatore feroce»

e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria

di Grisostomo al suo figliuolo. Si tratta probabilmente del picco

più alto della carriera letteraria dell’autore che con questo testo

si mostrava ormai scopertamente militante nella polemica

contro i classicisti. L’opera fu vista come un importante punto

segnato a favore del dibattito romantico e il poeta ricevette gli

elogi di numerose figure di spicco di allora. Tra queste, Di Breme

41 Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in «Biblioteca italiana. Ossia giornale di letteratura scienze ed arti», gennaio febbraio e marzo 1816, p. 16. 42 Giovanni Berchet, Sul 'Cacciatore feroce' e sulla 'Eleonora' di Goffredo Augusto Burger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, Bernardoni, Milano, 1816.

25

si mostrò felice di invitarlo al pranzo organizzato in onore di

Lord Byron in visita a Milano.

Come si evince dal titolo esteso, il testo prendeva le mosse da

un pretesto, la richiesta da parte del figlio del vecchio

Grisostomo di avere la traduzione in italiano di due ballate del

poeta tedesco Bürger. Berchet partiva dunque dalla nota

questione sull’importanza del tradurre affrontandone però un

aspetto più specifico: la scelta di rendere in prosa o in poesia un

testo straniero. Nel rispondere a tale quesito, Berchet affermava

che il vero scopo di una traduzione sta nell’essere il più

possibile fedele al testo originale. Il traduttore deve quindi

«darci a conoscere il testo» e non «regalarcene egli uno del

suo»43. Questo era sempre stato il modo con cui Berchet si era

accostato al tradurre fin dai suoi passi iniziali, e ben prima delle

polemiche romantiche di allora. Ma questa analisi dava anche al

poeta l’occasione di fare un ulteriore passo avanti, introducendo

un secondo spunto di riflessione: la differenza tra il linguaggio

della poesia e quello della prosa. Se scopo del tradurre è la

fedeltà al testo, allora la prosa può assolvere meglio a questo

compito. La lingua della prosa, infatti, per la sua capacità di

mantenersi sempre viva e in continuo movimento meglio si

adatta a operazioni di questo tipo. La lingua della poesia è

invece una lingua «alla quale non si può chiudere il Vocabolario,

43 Citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 209.

26

se prima non le si fanno le esequie»44; statica e chiusa nel

passato della propria tradizione, si adatta con difficoltà alle

novità.

Si tratta evidentemente di una riflessione molto importante,

tanto più nell’ottica di quella vera e propria crisi che vivrà la

poesia italiana nel corso dell’’800, incapace di vivere un vero

rinnovamento, trattenuta dall’impegno civile da una parte e

dalla fedeltà alla tradizione dall’altra. Un rinnovamento che,

infatti, non vedrà fondamentalmente altro interprete che

Giacomo Leopardi.

Un altro importante nodo della Lettera semiseria andava a

toccare, invece, la questione riguardante il pubblico destinatario

della produzione poetica. Nella nota distinzione tra 'parigini',

'ottentotti' e 'popolo', Berchet, escludendo i primi due perché

troppo raffinati o al contrario troppo grossolani, specifica in che

cosa consiste il suo pubblico: «comprende tutti gli altri individui

leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che avendo anche

studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono

attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di popolo»45.

Ma ancora una volta la riflessione letteraria di Berchet si

intreccia alla sua visione politica. Per Berchet, l’ampio pubblico

destinatario della poesia non è solo la classe protagonista del

dibattito culturale, ma anche quella protagonista dei

cambiamenti politici in atto: il ceto medio. Una classe sociale che

44 G. Berchet, Lettera semiseria cit., citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 210. 45 Ivi, p. 216.

27

è rappresentativa dell’intera nazione non essendo né una parte

ampia ma passiva, né una parte minima e isolata. Si tratta invece

di «mille e mille famiglie» che «pensano, leggono, scrivono,

piangono, fremono, e sentono le passioni tutte, senza pure avere

un nome ne’ teatri»46.

È a questa classe che deve guardare il poeta, «da questa deve

farsi intendere, a questa deve studiar di piacere» 47. In questo

senso, per Berchet, la sola vera poesia è quella 'popolare', quella

cioè che sa interpretare i bisogni e i gusti del suo pubblico, e sa

rispondervi in modo adeguato. Proprio per questo, tornando

nuovamente al tema del tradurre, Berchet chiarifica che è

sbagliato importare modelli stranieri che non possono essere

apprezzati in un paese dai gusti molto differenti. Le capacità del

poeta si devono invece vedere nell’abilità di adattare alla

sensibilità italiana qualcosa di nuovo e originale che viene da

fuori.

Nella riflessione di Berchet, dunque, il pubblico assume un

ruolo primario. L’importante è «piacere al popolo vostro»48,

specifica nella Lettera semiseria. Ma non si tratta, naturalmente,

di un piacere vuoto e fine a se stesso. Il pubblico va soddisfatto

nutrendolo «di pensieri e non di vento»49. E a tal fine Berchet

giustifica la ricerca di mezzi originali e innovativi: la poesia «ha

46 G. Berchet, Lettera semiseria cit., citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 216. 47 Ivi, p. 217. 48 Ivi, p. 225. 49 Ivi, p. 225.

28

diritto anche ella di adoperare mezzi modificati in infinito» 50, di

provare forme nuove e di uscire dai ristretti confini della

propria tradizione, prendendo esempio da altri (la letteratura

tedesca in primis, per questo la scelta del riferimento a Bürger).

La pubblicazione della Lettera semiseria contribuì ad

accrescere la celebrità di Berchet, ed è proprio in questo

periodo che alla cerchia dei suoi conoscenti si aggiunse

Alessandro Manzoni. L’amicizia con quest’ultimo durò per tutta

la vita. «Discutevano spesso tra loro, talvolta con vivacità,

sempre con reciproco affetto»51, così Giuseppe Massari

raccontava il rapporto di stima reciproca tra i due letterati.

Frequentando la casa di Manzoni, Berchet entrò a far parte

stabilmente di quel circolo di intellettuali che animavano le

serate in via del Morone, stringendo amicizia con Ermes

Visconti, Giovanni Torti e Giovan Battista De Cristoforis. Furono

certamente anni bellissimi per il poeta, per l’impegno culturale

che lo vedeva protagonista ma anche per le sincere amicizie e le

piacevoli consuetudini della sua vita di allora. Qualche anno più

tardi, ricordando le serate in casa Manzoni, Cristoforo Fabris

avrebbe dato un’immagine eloquente del clima accogliente dei

cenacoli letterari in via del Morone:

«D’inverno la conversazione si faceva in un semicerchio intorno al

camino, e don Alessandro non concedeva ad alcuno le molle per attizzar

il foco: aveva una passioncella per tenerlo sempre bene avviato, e lo 50 G. Berchet, Lettera semiseria cit., citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 227. 51 Giuseppe Massari, Giovanni Berchet. Ricordi dall’esilio, in «Fanfulla della domenica», 1880, n. 39.

29

governava con una sua teoria, che cioè le legna dovevano essere fra loro

vicine più che fosse possibile, senza toccarsi mai»52.

Ed è certamente a queste serate che guarderà con profondo

dolore Berchet negli anni desolati dell’esilio londinese.

All’affiatato gruppo di via del Morone si sarebbe legato più

avanti anche un altro importante gruppo di romantici costituito

da Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri e Silvio Pellico. Dal

confronto e dalla collaborazione tra questi intellettuali sarebbe

nata l’esperienza del «Conciliatore».

L’idea del nuovo giornale si inseriva pienamente nel solco

della precedente esperienza della «Biblioteca italiana» e ancor

più nella tradizione milanese del «Caffè». L’intento, espresso già

nel titolo, era quella di conciliare tutti gli amanti del vero e di

rivolgersi ad un pubblico allargato che desiderava contenuti

moderni:

«Rispettiamo moltissimo que’ gravi libri scientifici che sono capiti

da’ soli dotti, ma il nostro desiderio si è che le scienze si smascherino

qualche volta della loro gravità e si facciano conoscere ed amare anche

da chi ha la disgrazia di non essere nato per divenir dottore. E questa

disgrazia l’hanno, oltre il maggior numero degli uomini, anche tutte le

figliuole d’Eva che non sono una piccola parte del genere umano, e che

pure, senza lordarsi della polvere delle biblioteche e senza cessare

d’essere piacevoli, vorrebbero talora imparare qualche cosa di sodo ne’

libri»53.

52 Cristoforo Fabris, Memorie manzoniane, Cogliati, Torino, 1901, p. 11. 53 AA. VV., Il «Conciliatore», foglio scientifico-letterario, vol. I, a c. di Vittore Branca, Le Monnier, Firenze, 1953, p. 150.

30

Non siamo affatto lontano dalle idee espresse del tutto

autonomamente da Berchet nella Lettera semiseria di Grisostomo

al suo figliuolo , e infatti il poeta, riconoscendosi nella natura del

progetto, collaborò con passione al «Conciliatore» con

diciannove articoli firmati con lo pseudonimo di Grisostomo, ed

ulteriori articoli senza firma, rimanendo fedele al progetto fino

alla sua inevitabile chiusura il 17 ottobre 1819.

Gli interventi di Berchet sul «Conciliatore» furono occasione

per ribadire la sua idea di poesia. Una poesia volta a

interpretare i desideri del proprio pubblico e che per questo non

poteva sottrarsi a un impegno etico e civile. Nel numero del 24

dicembre 1818, a proposito di un discorso di Guglielmo Roscoe,

Berchet scriveva:

«Chi considera l ’attuale nostra civiltà […] vedrà esser dover suo il

contribuire quel tanto che egli può al miglioramento della coltura

pubblica, ed il combattere sempre più la tristezza di quei pochi che

vorrebbero far della sapienza un monopolio e tener nella ignoranza il

prossimo, onde non trovar contrasti a’ lor maligni disegni»54.

E ancora, rifiutando l’idea che la poesia debba tenersi lontana

dalla vita vera, in un articolo sulla Storia della poesia e

dell’eloquenza di Friedrich Bouterwek, Berchet precisava:

«Il poeta allora solamente ottiene il fine più sublime e più vero

dell’arte quando tien conto del carattere della sua nazione e del suo

54 Giovanni Berchet, Intorno all’'Origine delle lettere' del Roscoe, in «Conciliatore», dicembre 1818, citazione tratta da G. Berchet, Opere. Scritti critici e letterari, vol. II, a c. di E. Bellorini cit., p. 119.

31

secolo, e non ributta sdegnosamente come inopportuno ai suoi

intendimenti poetici»55.

Ma, pur lucidamente concepite, le teorie poetiche di Berchet

trovavano forti difficoltà nel tradursi in pratica. Ne sono

esempio le novelle in versi Il cavaliere bruno56 e Il castello di

Monforte57, composte attorno al 1819 e rimaste incompiute e

inedite fino alla raccolta di Cusani. Il cavaliere bruno è una

novella in versi ambientata in epoca medievale a Marsilia. Nelle

prime strofe una giovane donna prega Dio perché accolga la

madre morta in paradiso. Successivamente la ragazza viene,

però, turbata dalla dichiarazione d’amore rivolta a lei da un

giovane cavaliere. Il testo è lasciato incompleto dopo 52 ottave

del primo canto. Il motivo risiede forse nella difficoltà di

Berchet nel trovare effettivamente uno stile che abbandoni le

forme classiche per abbracciare la nuova idea di poesia. Il

risultato sembra essere invece un insieme di stili differenti per

nulla equilibrati tra loro, dove echi petrarcheschi e tassiani si

vanno a sovrapporre a richiami foscoliani e stilnovistici. Dunque

il passaggio dallo stile neoclassico a quello romantico si r ivelò,

per Berchet, più complicato del previsto.

Le stesse difficoltà si riproposero anche con Il castello di

Monforte. Qui il protagonista, un giovane spagnolo in

pellegrinaggio verso la Terrasanta, riceve ospitalità per qualche

55 Giovanni Berchet, Sulla 'Storia della poesia e dell’eloquenza' del Bouterweck, in «Conciliatore», citazione tratta da G. Berchet, Opere. Scritti critici e letterari, vol. II, a c. di E. Bellorini cit., p. 96. 56 Si veda G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 403. 57 Ivi, p. 417.

32

giorno presso il castello di Monforte, in Piemonte, riprendendo

poi il proprio cammino verso Gerusalemme. Una volta visitati i

luoghi santi, il giovane sente nostalgia del castello e delle

amicizie strette in occasione del suo soggiorno, e decide quindi

di tornarvi, ma al suo arrivo non trova che rovine, testimonianza

di una guerra che ha distrutto ogni cosa. Rispetto al Cavaliere

bruno, questa poesia dà l’occasione a Berchet di realizzare

un’intensa e romantica rappresentazione della solitudine e della

malinconia del protagonista. Ma anche questo testo non dovette

raggiungere il livello desiderato dal poeta, e infatti resterà

incompleto dopo 332 versi.

Le cause dell’interruzione di queste due opere si possono

forse comprendere meglio dall’analisi delle scelte successive del

poeta. Tra il 1819 e il 1820 , infatti, Berchet scelse di tornare a

una poesia a tema contemporaneo con I Profughi di Parga58.

Impressionato, come tutta l’opinione pubblica di allora, da un

fatto di cronaca molto grave (la cessione della piccola città di

Parga all’Impero ottomano da parte dell’Inghilterra), Berchet

compose un’opera che per la prima volta andava a soddisfare la

sua nuova poetica. Il merito della riuscita di questo lavoro sta

probabilmente nella scelta del soggetto contemporaneo, e non

più storico come per i tentativi precedenti. L’argomento storico,

infatti, almeno nella forma che vi aveva dato il poeta con Il

cavaliere bruno e Il castello di Monforte , sembrava non riuscire a

conciliarsi con la necessità di una poesia nuova e interprete dei

58 Giovanni Berchet, I profughi di Parga, Firmin Didot, Parigi, 1823.

33

propri tempi. La decisione di ricorrere alla cronaca aiuta invece

Berchet a questo scopo. È evidente infatti il valore civile e la

polemica di natura politica insita nei Profughi di Parga , tanto

che lo stesso Manzoni parlando di un’eventuale pubblicazione

ammette che sarebbe stata piuttosto pericolosa in Italia:

«Berchet a achevé son poème lyrique sur Parga. Je doute que

nous puissions le voir imprimé, parce que les règlemens de la

censure s’opposent à la pubblication de tout ce qui pourrait

déplaire à un gouvernement de ceux qu’on nomme amis, et il

n’est pas sûr que l’impression en pays étranger soit sans

inconvéniens pour l’auteur. Si ce poème doit rester enseveli,

c’est bien dommage»59.

Dal punto di vista formale Berchet cerca di colmare in questa

romanza la distanza tra poesia e pubblico, ricorrendo a uno stile

e a un linguaggio che rompe con la tradizione e si fa più

'popolare'. Il risultato è certamente più riuscito rispetto ai

tentativi precedenti anche se in verità l’opera, pur avendo parti

di grande valore, non riesce sempre a raggiungere un livello

davvero significativo. Ad ogni modo tra la stesura e la

pubblicazione dell’opera trascorse diverso tempo durante il

quale il poeta aveva intrapreso la strada dell’esilio.

Negli anni ’20, infatti, pur lavorando come traduttore presso

il governo austriaco, Berchet era entrato a far parte dei

carbonari federati, dove del resto figuravano già molti amici del

59 Lettera a Claude Fauriel, datata Milano, 29 gennaio 1821. Citazione tratta da Alessandro Manzoni, Carteggio, a c. di Giovanni Sforza e Giuseppe Gallavresi, Hoepli, Milano, 1912, p. 512.

34

«Conciliatore», ed aveva parte attiva nei progetti di

insurrezione.

Circa il suo diretto coinvolgimento nelle questioni politiche si

sa che Berchet la sera del 20 marzo 1821 si trovava al Teatro alla

Scala per sollecitare Carlo Castiglia a recuperare fondi per il

partito liberale milanese. In un’altra occasione aveva, invece,

ricevuto mille lire in consegna dal conte Arrivabene per i cavalli

dell’ufficialità sarda.

Con il precipitare degli eventi però, il 13 dicembre 1821,

anche Berchet fu costretto a fuggire da Milano. Cusani60 racconta

che quello stesso giorno il poeta si trovava a casa della figlia del

consigliere Marliani, una delle donne più vicine ai federati,

proprio nel momento in cui la stessa venne avvertita da un

ufficiale di polizia che Confalonieri stava per essere arrestato.

Senza perder tempo Berchet tornò a casa, salutò il padre e

intraprese la fuga. L’amico Descamps, un commerciante francese

residente a Milano, si offrì di condurlo a Como e di lì in Svizzera.

Nel frattempo la sorella si era premurata di nascondere le carte

del fratello e quindi la polizia, giunta poco dopo nella dimora,

non trovò nulla. Le carte vennero poi bruciate dai parenti, anche

per timore che altri potessero venirne danneggiati. In questo

modo però andarono perduti non solo documenti dal contenuto

politico, ma anche letterario. Pare si perse, ad esempio, la

tragedia Rosmunda.

60 Si veda G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. XIII.

35

Bellorini61 dà una ricostruzione in parte diversa della

perquisizione fatta nella casa di Berchet. Ad ogni modo entro

poco tempo il poeta aveva già lasciato anche la Svizzera e si era

stabilito a Parigi.

È proprio nella capitale francese che Berchet conobbe

Giuseppe Arconati, del quale divenne ottimo amico. E qui,

naturalmente, avvenne anche l’incontro con sua moglie,

Costanza Trotti Bentivoglio Arconati. La sua permanenza in

Francia fu però veramente breve. Saputo della richiesta di

estradizione avanzata al governo francese, Berchet lasciò, dopo

appena qualche mese, Parigi e si trasferì a Londra, dove conobbe

l’amico Giovita Scalvini.

L’esilio londinese durò fino al 1829 e fu per Berchet

un’esperienza terribile, sulla quale è importante soffermarsi

perché è in questo contesto che maturerà l’idea delle Fantasie.

La permanenza di Berchet in Inghilterra fu tutt’altro che

facile. A rendere questa esperienza tale contribuirono molteplici

fattori, tra cui naturalmente le precarie condizioni economiche.

Berchet non disponeva di molto, ed era spesso costretto ad

accettare la benevolenza degli amici. Costanza Arconati non

mancò mai di assicurarsi che il marito concedesse generose

somme al poeta nelle circostanze più difficili, ma Berchet

soffriva nel dipendere dagli altri e desiderava provvedere da

solo al proprio sostentamento. Provò quindi a inserirsi

61 Egidio Bellorini, La fuga da Milano e l’esilio di Giovanni Berchet, in «Archivio Storico Lombardo. Giornale della Società Storica Lombarda», 1910, p. 426.

36

nell’ambiente giornalistico londinese prendendo contatti con

diverse testate. Tuttavia, a frenarlo dall’intraprendere

seriamente questa strada, vi era la necessità di rimanere fedele

ai propri principi. Lavorare per giornali di pessima fama, che

pure lo avrebbero pagato considerevolmente, gli era del tutto

impossibile, come spiega più volte nelle lettere all’amica

Costanza62:

«Per iscrivere in giornali pagati dal ministero ho già qualche

lusinghiera offerta. Ma morrò di fame, prima di far cosa che ripugni alla

mia coscienza».

«Mi si vorrebbe far scrivere nel Quarterly Review, giornale che paga

moltissimo gli scrittori perché pagato esso dal ministero; ma io non

voglio smentire il mio carattere a rischio di far piuttosto il

pescivendolo».

«Si figuri che anch’egli [Foscolo] mi vuol persuadere a scrivere nel

Quartely, giornale, com’ella sa, screditatissimo. Mi duole davvero, il non

poter trovare ancora da occuparmi e guadagnare qualch e cosa; ma santo

Dio! Cose contro la coscienza non le posso, non le so fare».

«Ella vede che ho volontà d’occuparmi; mi manca solo di trovare la

via di far fruttare le occupazioni mie in questo paese discretamente

egoista; ma spero di riuscirvi senza far torto alla coscienza mia, il che

più di tutto mi preme, quantunque Foscolo mi derida per ciò».

62 Lettere datate 1822 ad eccezione dell’ultima che non riporta l’anno. Citazioni tratte da Giovanni Berchet, Lettere alla marchesa Costanza Arconati (agosto 1833-maggio 1851), vol. II, a c. di Robert Van Nuffel, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma, 1962, pp. 254-55.

37

Fallì quindi l’inserimento nella società intellettuale inglese. Si

conoscono, in verità, un paio di articoli riconducibili a Berchet 63,

ma il sogno di poter vivere di una professione letteraria svanì

definitivamente e il poeta non poté far altro che accettare il

lavoro da impiegato offertogli da Ambrogio Obicini, un

commerciante milanese residente a Londra. L’Obicini non aveva

mai esitato ad aiutare i suoi compatrioti in Inghilterra, come

ricorda anche il conte Arrivabene nelle sue Memorie: «Valido

appoggio fu pure per me e per tutti gli emigrati una persona fino

allora a me ignota: il banchiere milanese signor Obicini» 64.

Tuttavia il conte ricordava male la professione del suo

benefattore che non era, appunto, banchiere, ma commerciante

con sede a Coleman Street.

Naturalmente il lavoro da impiegato non poteva rendere

felice Berchet che soffriva inoltre di una salute precaria, messa

costantemente a rischio dal clima rigido. In queste circostanze il

poeta cominciò sempre più ad isolarsi dal mondo, prendendo le

distanze anche dai tanti esuli di passaggio a Londra. Diceva a tal

proposito: «Non pratico con chi non istimo; e non m’importa

ch’uno sia nato in Italia, se non è meritevole ch’io lo consideri

per compatriota»65. Berchet, insomma, non riuscì mai a

ricostruire in Inghilterra quel sereno cenacolo di frequentazioni

63 Si veda a tal proposito Ugo Foscolo, Edizione nazionale delle opere. Saggi e discorsi critici, vol. X, a c. di Cesare Foligno, Le Monnier, Firenze, 1953, p. XV e Ugo Foscolo, Edizione nazionale delle opere. Scritti vari di critica storica e letteraria, vol. XII, a c. di Uberto Limentani, Le Monnier, Firenze, 1978, p. CLI. 64 G. Arrivabene, Memorie della mia vita cit., p. 126. 65 Londra, 9 febbraio 1827. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 149.

38

che gli era stato tanto caro in patria. Vedeva con regolarità

Arrivabene, Scalvini e pochi altri. Ma badava bene di tenersi

lontano da chi non riteneva degno della sua amicizia, primo fra

tutti Foscolo66:

«Ieri ho pranzato da Foscolo, il quale m’accolse molto cordialmente

(in apparenza) e con tante offerte di giovarmi; sicchè io mi trovo

imbrogliato davvero, perch’Ella sa i miei principii, e com’essi non mi

permettono di far gran lega con lui. Tuttavolta, mi bisogna usar molta

prudenza per non inimicarmelo; farò come gli antichi che sacrificavano

anche agli Dei infernali, affinchè non nuocessero».

«Io non posso che lodarmi delle esibizioni cortesi che Foscolo mi fa;

ma il carattere suo e la nomina che s’è fatta a Londra m’obbliga a non

fare con lui gran comunella. Ci vuol prudenza molta in questo paese, ove

la riputazione d’uomo onesto e di carattere va innanzi a quello d’uomo

d’ingegno. Io non voglio inimicizie con Foscolo ma né troppa amicizia

posso fare con lui».

In generale l’esperienza londinese di Berchet finì per ridursi

alla solitudine della propria casa, e al rapporto epistolare con

Costanza Arconati, unico supporto nei momenti di difficoltà.

Persino l’amicizia con Manzoni risentì di questa delicata fase

della vita del poeta. Di tutta la parentesi londinese non si

conosce che una sola lettera indirizzata all’amico (ma rivolta in

verità anche a Grossi67). Con l’Arconati il poeta lamenta una

sorta di abbandono di Manzoni nei suoi confronti, specie in

66 La prima lettera è priva di data, la seconda è datata 17 agosto 1822. Citazioni tratte da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., p. 255. 67 Si veda Egidio Bellorini, L’amicizia di Giovanni Berchet per Alessandro Manzoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1912.

39

occasione della pubblicazione dei Promessi Sposi: «Non l’ho con

lei», scrive all’amica, «l’ho col Manzoni, per non avermi mandato

il romanzo, dopo tante promesse»68. Del resto l’allontanamento

tra i due si era fatto via via non solo fisico ma anche ideologico.

Pur apprezzando I Promessi Sposi , Berchet vedeva in questa

letteratura una rinuncia alla lotta risorgimentale che invece, dal

suo punto di vista, era necessaria e inevitabile: «Le prime cento

pagine del III volume degli Sposi mi hanno seccato un poco; il

resto mi è piaciuto assai. […] Il rimprovero che forse io farei a

Manzoni sarebbe tutt’altro che letterario. Considerato come

letteratura, il suo romanzo è, torno a dirlo, una gran bella

cosa»69. Nonostante questo, comunque, non cessò mai la grande

stima che Berchet aveva per Manzoni. A lui farà riferimento

anche nella lettera Agli amici in Italia in apertura delle Fantasie.

Ma sarà solo al rientro dall’esilio che i rapporti tra i due

riusciranno a tornare quelli di un tempo.

Non fu, comunque, soltanto la difficile condizione personale a

impensierire il poeta negli anni di Londra. Come la maggior

parte degli esuli anche Berchet sentiva su di sé tutta la

delusione e il disappunto per il fallimento dei tentativi

insurrezionali per i quali si era impegnato in prima persona.

Ecco quindi che la sua poesia si era caricata di quei toni di

rabbia e rancore che lo avrebbero reso «il poeta dell’odio allo

68 Lettera datata Londra, 3 agosto 1827. Berchet fa qui riferimento alla 'ventisettana'. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 167. 69 Ivi, p. 170. Lettera datata Londra, 11 settembre 1827.

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straniero»70. In questo modo avevano preso forma le romanze

Clarina, Il romito del Cenisio , Rimorso, Matilde, Il trovatore e

Giulia, delle quali il grande merito fu soprattutto l’aver saputo

interpretare i sentimenti dell’epoca. Lo stile ancora una volta

cerca di allontanarsi dai canoni della tradizione, e nel tentativo

di farsi più popolare (obiettivo raggiunto sempre con molte

difficoltà e contraddizioni) si avvicina alle forme del

melodramma. Ed è anche per questo motivo che queste romanze

ebbero al tempo così larga circolazione. De Sanctis, delle poesie

di Berchet, ricordava che «di nascosto correvano manoscritte e

se le strappavano di mano l’un l’altro»71. Mazzoni72 cita a tal

proposito l’almanacco Alle donne italiane che portava i

personaggi di Berchet come reali modelli di comportamento ai

propri lettori, e suggeriva alle patriote di seguire l’esempio di

Clarina rammentando le parole che lei aveva rivolto al suo

amante.

Ma la poesia di Berchet in questa fase non è solo poesia

d’odio, è anche, evidentemente, poesia di dolore. Alle aspre

invettive (si legge in Clarina contro Carlo Alberto: «Non v’ha

clima sì lontano, / Ove il tedio, lo squallor, / La bestemmia d’un

fuggente / Non t’annunzi traditor»73) si mescolarono via via e in

modo sempre più frequente versi di desolazione e malinconia.

Berchet si faceva più attento alla sofferenza, come emerge anche

70 Si veda Giovanni Berchet, Liriche, a c. di Attilio Momigliano, Vallecchi, Firenze, 1926, p. 97. 71 Francesco De Sanctis, Mazzini e la scuola democratica, Einaudi, Torino, 1951, p. 103. 72 Si veda Guido Mazzoni, Storia letteraria d’Italia. L’Ottocento, Vallardi, Milano, 1960, p. 582. 73 Giovanni Berchet, Clarina, citazione tratta da G. Berchet, Opere edite ed inedite, a c. di F. Cusani cit., p. 100.

41

dalle lettere: «Quando l’uomo è infelice, non mi balzano agli

occhi che le di lui virtù»74. E sarà proprio questa capacità di

rappresentare la sofferenza a rendere grande il poeta ben oltre

la parentesi del risorgimento.

Le Fantasie , invece, si collocano sul finire dell’esilio

londinese. Il poeta a partire dal ’27 appare sempre più provato,

come mostrano numerose lettere. Alle difficoltà economiche si

erano aggiunti, infatti, altri dispiaceri: la malattia del padre e

l’esclusione dal club frequentato da tempo. E Berchet non fa

mistero con la marchesa Costanza di sentirsi fragile e in

difficoltà:

«L’età del povero mio padre, e la sua salute guasta da una malattia

l’anno scorso, mi facevano aspettare quando che sia questo colpo;

nondimeno le confesso che mi è sensibile oltre misura. […] Tutto il

dolore dell’esilio lo sento ora; almeno avessi potuto vederlo, povero

vecchio! Mi scusi non so continuare»75.

«Ella mi domanda minuto conto della mia vita; che posso io mai

dirle? Se non le spiace, le racconterò anche un’inezia per se stessa, ma

che nella situazione mia accresce ancor più la mala vita ch’io vivo qui in

Londra. Di tutte le abitudini mie, la meno disagradevole, se non

divertente, quella almeno che mi confortava un tantino l’animo, era

l’andare talvolta la sera al Club. Sono quattro anni ch’io vi era ammesso,

e tra la libreria, i giornali, il fuoco, e la separazione d’ogni sorta di

volgarità, mi vi trovava tranquillamente bene, quantunque Peppino

sappia che non vi fossero allegrie. Anche questo poco conforto mi è ora

tolto. Le lettere d’invito sono per tre mesi, e si rinnovano; a quest’ora

74 Londra, 20 gennaio 1824. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 60. 75 Ivi, p. 147. Lettera datata Londra, 16 gennaio 1827.

42

ne avevo già avuto un sedici; scaduto il mio termine cerco altr o invito

secondo il solito e me lo si rifiuta. Da prima credei che senza accorgermi

avessi commesso qualche fallo, e credei dover mio far domandare se ciò

era. No; sono rifiutato, perché occupato, impiegato in Casa di

Commercio. Eppure io non aveva fatto mistero di questo con chi mi

propose da principio. Dopo quattro anni, lo confesso, che ciò mi rende

come perduto. Non è tanto per la mortificazione del perché, dacchè il

povero vi si debbe pur sottoporre; e mi basta esser convinto io che la

povertà non è delitto. Ma è perchè proprio non so che mi sostituire a

quella abitudine. Chiunque mi dirà che posso andarmene a casa, a

leggere a canto al mio fuoco. Ma dopo di aver passato 10 o 12 ore nelle

catacombe di Coleman Street, se di là mi porto a casa direttament e la

mia malinconia, davvero ho paura del mio temperamento talvolta

cadente ad una certa prostrazione d’animo, di cui fo ogni sforzo per non

dar segni ad anima vivente. Eppure che ho a fare? Non mi resta altro

partito che ritirarmi a casa o passeggiare su e giù per le strade, dacchè

qui non vi sono nè Gabinetti di Lettura, nè le cento risorse di Parigi. […]

Le prometto, cara Amica, che non passerò mai dinnanzi la bottega di un

cordaio. […] Sono così solo; e talvolta mi piglia un tale scadimento

d’animo che aborro fino i libri. Già vedo che oramai diventerò di peso

agli altri ed a me stesso»76.

Il cambiamento troppo brusco dai salotti milanesi e francesi

alla società londinese aveva condotto il poeta a una forte

depressione con disturbi psicologici e fisici che ancora una volta

Costanza ascolta con pazienza:

«Sono molti giorni che davvero non ho buona salute, senza pur poter

dire d’essere malato. Soffro come una specie di convulsioni nervose che

m’irritano assai»77.

76 Londra, 2 marzo 1827. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 151. 77 Ivi, p. 133. Lettera datata Londra, 21 luglio 1826.

43

«Oggi sto bene; ma questi dieci giorni addietro avrei venduta la mia

salute, come Esaù la primogenitura, per una scodella di lenti. E’ curioso

questo esser tanto travagliato dalla bile; fisicamente intendo, perchè

moralmente è più noja che bile»78.

«Ho bisogno ch’Ella mi scriva qualche lettera allegra. […] Non so se

sia effetto della primavera, o minaccia d’un qualche malore; ma sono

talvolta si malinconico che l’aprire una lettera a me diretta mi angustia

per tema di trovarci una disgrazia»79.

«Anche questo ritorno dell’inverno dopo alcuni dì sereni e caldi, mi

fa male. Ma è destino che gli uomini dieno sempre la colpa de’ loro mali

a cagioni che ne sono innocenti. Tutto il male mio deriva da me. Ne’

panni miei centomila individui sarebbero felici; ed io nol sono. E

perchè? Perchè di tutte le persone rifugiate il più goffo sono io. Mi lagno

della solitudine, e sono d’una difficoltà schizzinosa nel mischiarmi ad

altri, quasi che fossero ancora i tempi in cui l’imbarazzo non fosse che

della scelta. Anzi ogni dì più sento ripugnanza a dipartirmi dalla

solitudine, che ogni dì più mi pesa. Forse n’è colpa anche l’esser troppo

diversi gli amici perduti dagli amici che potrei farmi, e fors’anche una

cresciuta fierezza di carattere dalla quale mi dovrebbe pure scadere. E

forse, e più che forse, ch’io sono irragionevole talvolta. E lo sono ora di

certo, annojandola con queste digressioni, quando la brevità della di Lei

lettera dovrebbe intimare anche a me d’esser breve. Mi scusi se mi

lascio andare. […] Mi considero come della famiglia davvero, e questa è

illusione unica che mi rimane, e mi conforta, sotto mille forme, mille

volte il dì. Vi sto attaccato, come il naufrago alla tavola di salvazione» 80.

78 Londra, 12 gennaio 1827. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 146. 79 Ivi, p. 156. Lettera datata Londra, 27 marzo 1827. 80 Ivi, p. 157. Lettera datata Londra, 17 aprile 1827.

44

«Farò di tutto perché l’avvilimento d’animo non pigli più piede in

me»81.

«Ho determinato assolutamente di venire a vederli, perché ho

proprio bisogno di rimettermi all’abbattimento in cui da un pezzo sento

prostrato il mio cuore. Ma temo non possa essere così presto; […]

Intanto sia Ella tranquilla, la scongiuro, sul conto mio. […] Farò di tutto

per vincere questi primi giorni della malinconia; lo deggio a chi mi vuol

tanto bene»82.

Berchet è dunque solo, lontano dagli affetti e dalle

consuetudini di casa e assolutamente incapace di inserirsi nella

società londinese. È in queste condizioni che maturerà una

romanza nuova, molto lontana dalle precedenti e in qualche

modo isolata nella produzione del poeta. Le Fantasie è l’opera

dell’esilio che più risente della nostalgia del passato tanto da

ruotare interamente attorno al tema della perdita. Perdita degli

amici, a cui appunto è dedicata la lettera introduttiva, e perdita

della virtù da parte del popolo italiano, sopito in un remissivo

torpore da cui va risvegliato con gli esempi gloriosi della storia.

La romanza si compone di cinque sezioni, corrispondenti alle

cinque visioni (fantasie appunto) di un esule italiano a cui

appaiono a turno le immagini della lotta dei Lombardi contro

Federico Barbarossa, e le immagini di viltà e disonore dell’Italia

contemporanea. Alla prima fantasia corrisponde il noto

giuramento dei Lombardi a combattere uniti l’imperatore; alla

seconda la rinuncia alla lotta da parte dei contemporanei; alla

terza la sconfitta di Federico a Legnano; alla quarta la pace di

81 Londra, 1° maggio 1827. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 158. 82 Ivi, p. 162. Lettera datata Londra, 19 giugno 1827.

45

Costanza e alla quinta nuovamente l’ immagine della viltà

dell’Italia ottocentesca.

Le Fantasie rappresentano certamente lo sforzo maggiore di

raggiungere quella forma poetica che Berchet ricercava già dai

primi anni ‘20 . Nelle Fantasie l’impegno etico-civile, e ancor più

quello dichiaratamente politico, si legano a una poesia

effettivamente nuova. Pur con diverse incertezze delle quali,

come si vedrà, lo stesso poeta era perfettamente consapevole, Le

Fantasie si discostano dal patetismo delle romanze precedenti,

senza però allontanare il pubb lico 'popolare' voluto dall’autore,

toccando talvolta livelli significativi di intensità lirica.

Ma Le Fantasie , al di là del loro valore letterario, sono da

guardare soprattutto come un deciso, e forse disperato, gesto

patriottico. Un richiamo a chi come il poeta aveva creduto e

lavorato all’indipendenza della patria, un invito a non lasciarsi

andare allo sconforto e alla resa. A questo obbiettivo Berchet

non ha difficoltà a sacrificare l’intento estetico dell’opera che va

quindi giudicata, come indicato da lui stesso nelle parole

introduttive, principalmente come «una buona azione» (F₁, p.

37).

46

II

La prima edizione delle Fantasie

LA STESURA DELLE FANTASIE

La stesura delle Fantasie inizia tra la primavera e l’estate del

1827. Il primo accenno alla romanza si trova, infatti, in una

lettera del 17 luglio dello stesso anno, nella quale il poeta

confessa all’amica Costanza Arconati di essere intento

all’elaborazione di un nuovo testo poetico che gli porta via più

tempo del previsto:

«Una mia romanza che manderei volentieri laggiù non è finita; e mi

viene più lunga ch’io non vorrei, per cui non so quando sarà terminata.

Se sapessero quanto qui mi costi il far versi, i miei amici me ne

distorrebbero con comandamento»83.

Si allude certamente alle Fantasie dal momento che la

precedente romanza, Giulia, circolava già nel settembre 182684.

La stesura delle Fantasie risale dunque ai mesi precedenti il

luglio 1827. E a quanto dichiarato dal poeta nella lettera

all’amica, a caratterizzare questa fase creativa c’è soprattutto

una sorta di difficoltà che il poeta avverte nello scrivere, un vero

e proprio disagio che lo turba significativamente. Nella lettera

del 17 luglio Berchet non entra nello specifico delle sue

preoccupazioni, ma le cause di questa insofferenza emergeranno

anche in altre occasioni. In primo luogo, a rallentare la stesura

83 Londra, 17 luglio 1827. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 164. 84 Ivi, p. 137. «Gli manderò subito che lo saprò fisso in qualche luogo l’ultima Romanza sulla Coscrizione», si legge in una lettera datata Londra, 1° settembre 1826.

47

dell’opera ci sono certamente le concrete circostanze in cui si

trova a scrivere il poeta. Berchet non è un intellettuale a tempo

pieno, non ha risorse economiche che gli permettono di

dedicarsi interamente alla scrittura e, come si è visto, non è in

grado di vivere della sua arte. L’intera giornata è dedicata al

lavoro presso Obicini e «dopo di aver passato 10 o 12 ore nelle

catacombe di Coleman Street»85 il tempo per un serio lavoro

letterario risulta inevitabilmente insufficiente. L’impegno

richiesto dall’attività di impiegato porta quindi Berchet a

dubitare di aver ancora capacità all’altezza della sua fama:

«Una volta io credeva di poter procacciarmi la vita col mettere a

contributo quel poco ingegno che ho. Anche questa credenza non l’ho

più. Ogni volta ch’io mi metto per fare qualche cosa, è lo stesso come

ordinare al capo che dolga, allo stomaco che si rivolti. Ch’io non fossi

atto a nulla più altro, che a scriver lettere da Obicini? Ho anche questa

paura. Se la cosa è tale, varrà meglio non mutare il presente, e lasciar

che duri fin che può»86.

Ma la riflessione circa la fase di stesura assume

un’importanza maggiore alla luce di ciò che si legge nella lettera

introduttiva alle Fantasie. In questa occasione il poeta si lascia

andare ad alcune considerazioni che, se da una parte sono

riconducibili ad una semplice modestia, caratteristica

abbastanza tipica di Berchet, dall’altra rivelano il vero motivo

delle difficoltà riscontrate. Argomentando a proposito della

possibilità di aggiungere note storiche ai versi, infatti, il poeta

85 Si veda nota n. 76. 86 Londra, 3 agosto 1828. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 188.

48

introduce il complicato discorso riguardante la

rappresentazione del vero in poesia. Nel confronto tra sé e

Manzoni (definito «un certo tale tra voi», «maliardo

benedettissimo»), Berchet individua due elementi indispensabili

alla riuscita di un’impresa simile: l’«abbondanza di tempo» e, in

particolar modo, l’«ingegno». Non è dunque immediata una

scrittura che punta all’intreccio della materia storica con la

finzione letteraria, è principalmente una questione di abilità:

«D’altronde, per avere coraggio di metter fuori de’ discorsi storici in

occasione di pochi versi, è mestieri far que’ discorsi come li sa fare un

certo tale tra voi, entrando in materia ricco di letture, d’idee, di acume

critico, di veduta ampia, e di nuove e franche considerazioni; per modo

da non sapersi se doverlo più ammirare per la tanta bellezza delle sue

poesie, o per la tanta sagacità delle sue note. [...] Ma per riuscire al

quale e al quanto a cui riesce quel certo tale, maliardo benedettissimo,

sono, almen che sia, requisiti indispensabili, abbondanza di tempo e

trascendenza d’ingegno: due cose queste delle quali io patisco un

pochetto, e più che un pochetto, di penuria. Non dirò delle due quale più

manchi» (F₁, p. 11).

È nella scelta della materia, dunque, che va individuato il

motivo di una così complicata elaborazione. Ma la scelta del vero

storico in questa romanza era stata, in qualche modo, una scelta

obbligata. Come si è visto Le Fantasie nascono in un contesto

diverso da quello delle prime romanze dell’esilio. Gli eventi del

’21 sono ormai molto lontani e nuovi concreti progetti di rivalsa

da parte dell’Italia non ve ne sono. Berchet guarda a una patria

silenziosa e spenta, non è più tempo di versi di invettiva e

49

dolore disperato, occorre una poesia che sia in grado di

risvegliare dal torpore attraverso gli esempi del passato. Questa

scelta necessita però di una complicata riflessione stilistica che

rischia di non trovare un punto di arrivo. Come spiega il poeta:

«Il tipo del bello l’ho in capo talvolta; ma quando si tratta

d’imitarlo coi fatti, dalle dalle, non mi riesce. Insomma non ho

saputo far meglio» (F₁, p.38).

Dunque, partendo dall’ammissione della proprie difficoltà di

scrittura, Berchet trasforma la lettera introduttiva alle Fantasie

in un’ampia riflessione teorica su un tema che da molti anni era

al centro dei dibattiti intellettuali dell’epoca, il rapporto

storia/invenzione. L’intera romanza, a detta del poeta, si fonda

sull’«incastro» in un «tutto d’invenzione» di quei «minuti

particolari» riferiti alla storia medievale della nostra penisola

(F₁, p. 14). Ma per Berchet il rapporto tra le due componenti, il

vero e l’invenzione, deve sempre pendere a favore

dell’immaginazione. La funzione della poesia non è, e non deve

mai essere, informativa:

«Gli accidenti ch’io narro tocca al lettore di pigliarseli o come

veramente somministrati dalla storia, o come consentanei ad essa, e

bene o male inventati. A me nella qualità di poeta, supponendo per

ipotesi ch’io il fossi, a me non importa, e non deve tampoco importare,

che ad un modo piuttosto che all’altro il lettore si attenga.

L’incumbenza mia, secondo l’obbligo che me ne impone l’arte, non è di

rappresentargli un fatto storico, quale precisamente fu; ma è solo di

suscitare in lui qualche cosa di simile all’impressione, al sentimento,

50

all’affetto che susciterebbe in lui la presenza reale di quel fatto» (F₁, p.

18).

Scopo dunque delle Fantasie non è informare circa la storia

dei comuni medievali. Quello resta il compito della storiografia,

che del resto vive nell’’800 una fase di crescente successo presso

il largo pubblico, grazie al fiorire di numerose opere di

divulgazione destinate a un’ampia cerchia di lettori. Una novità

che incontra tutto il favore di Berchet, come confessa

nell’introduzione alle Fantasie: «questa moda mi va a genio

molto» (F₁, p. 13). Tuttavia è sua opinione che ci sia una

nettissima differenza di intenti a separare la figura del poeta da

quella dello storico. Al poeta è richiesto qualcosa di più della

trasmissione del sapere, al poeta è richiesto di raggiungere gli

animi, di suscitare sentimenti. E proprio allo scopo di smuovere

le coscienze che Berchet ha deciso di intraprendere la scrittura

della sua opera. Ma attribuire al poeta il compito di smuovere le

coscienze, e legare questo compito alla lotta risorgimentale

significa ammettere l’intento di militanza letteraria insito nella

stesura delle Fantasie. Ecco quindi che la difficoltà riscontrata

dal poeta nel dare forma alla propria creazione non sta solo

nella necessità di intrecciare storia e invenzione, ma nel trovare

la soluzione migliore per un intento politico e civile. È in questo

senso che si devono leggere Le Fantasie:

«Voi vi sarete accorti ch’io mi sono messo sur una strada la quale

non è giusto giusto quella indicata dall’estetica come conducente diritto

allo scopo ultimo che l’arte poetica si prefigge per unico, sur una strada

51

dove spesso fo sagrificio della pura intenzione estetica ad un’altra

intenzione, dei doveri di poeta ai doveri di cittadino. Nel conflitto di

queste due sorta di doveri, è da ravvisarsi un’angustia per l’uomo che

ne sente l’importanza di entrambe; e nella prevalenza in lui della

devozione civile sulla devozione estetica, è da riconoscersi, se non

m’inganno, qualche cosa d’onesto, la sottomessione dell’amor proprio

all’amore della patria. […] Forse anche voi dovreste, nel giudicare i miei

versi, procedere con qualche riferimento a quelle considera zioni. Per

male allora che andasse la causa mia dinanzi a voi, questo almeno

sareste tratti a dover dire: ha fatto un cattivo poema, ma una buona

azione» (F₁, pp. 36-37).

Ed è proprio privilegiando l’intento militante a quello

strettamente estetico che Berchet si concede tutte quelle

imprecisioni, debolezze e mancanze che riassume in

un’approfondita autocritica all’interno della lettera introduttiva:

«V’è nondimeno in questi cinque sogni qualche cosa di troppo

misurato, di troppo ragionevole. […] Dunque poca verisimiglianza ne’

cinque sogni. In essi anche una certa mancanza, diciamo così,

d’intonazione poetica, […] un non so che inesprimibile di grave che non

sa trascinarti fuori della realtà della vita più che tanto, un ideale che è

bensì poetico, ma lo si sente cercato con intendimento prosaico. La

forma poi di questo componimento, visione o sogno, fantasie che lo si

chiami, è una forma di poema che ha tanto di barba, una forma usata e

riusata fino alla nausea» (F₁, p. 39).

Ad ogni modo, nonostante le tante difficoltà riscontrate in

fase di scrittura, alla data del 3 ottobre 1828 Le Fantasie sono

52

concluse. L’opera è terminata e Berchet comincia quindi a

pensare alla pubblicazione.

DISAVVENTURE EDITORIALI

I rapporti di Berchet con gli stampatori non erano mai stati

troppo felici. Negli anni, infatti, il poeta si era dovuto districare

da tutta una serie di spiacevoli inconvenienti editoriali che

puntualmente si verificavano al momento della pubblicazione

delle sue opere87. Alla lunga il poeta stesso finì per ridere della

sua costante sfortuna, scrivendo in una lettera all’amica

Costanza: «Davvero, sono come Arlecchino colle sue trentatre

disgrazie!»88. Ma molte di queste seccature non erano, in verità,

che inconvenienti piuttosto comuni in un contesto editoriale

ancora di antico regime. Abbastanza inevitabile per gli scrittori

dell’’800 era, ad esempio , incorrere in edizioni contraffatte,

rimaneggiate e pubblicate senza il consenso dell’autore.

Comunissime erano anche le edizioni pubblicate con falsa

indicazione dell’anno o del luogo di stampa89 per le motivazioni

più disparate, dalla necessità di aggirare la censura alla

semplice pirateria. A tal proposito Li Gotti osserva che già la

scelta di mantenere l’anonimato per le sue prime traduzioni gli

87 A tal proposito si veda anche Ettore Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1933. 88 Londra, 5 luglio 1822. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., p. 255. 89 Si veda anche Marino Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa. Falsi, inventati o supposti, Sansoni Antiquariato, Firenze, 1951.

53

causò qualche danno. Secondo Alberto Spaini90, infatti, l’editore

Silvestri, approfittando di ciò, nel 1830 diede alle stampe una

pessima traduzione del Wilhelm Meister di Goethe (peraltro, con

il titolo errato di Alfredo) attribuendola al poeta e riportando

quindi il suo nome sul frontespizio.

Come si è detto, incorrere nella pirateria era problema assai

comune al tempo, tuttavia Berchet ebbe molto da fare anche nel

gestire i ritardi di pubblicazioni commissionate, invece, ad amici

fidati. A tal proposito particolarmente complesso fu il percorso

che portò alla stampa dei Profughi di Parga91. Scritti prima

dell’esilio, tra il 1819 e il 1820, i versi non vennero pubblicati

subito al termine della stesura, probabilmente per difficoltà

legate alla censura, come si evince da una lettera di Manzoni92.

Giunto, però, a Parigi nel ’21, il poeta decise di rivolgersi

all’amico Claude Fauriel per la pubblicazione. Sui proventi di

questa stampa Berchet contava molto, necessitando di risorse

con le quali abbandonare in fretta la Francia e stabilirsi nella più

sicura Londra. Per questo aveva urgenza che la commissione

affidata all’amico venisse portata a termine il prima possibile, e

di questo si lamentava appunto nelle lettere con l’Arconati:

«Io non ho ancora stabilito nulla riguardo al partire o al restare.

Certo che in Inghilterra credo che potrei provvedere meglio a’ disegni

miei, dacchè qui non vedo costrutto in nulla, e i dì passano senza

concretare alcunchè. Ma mi spaventa l’avventurarmi senza un appoggio

90 Circa questa vicenda si veda Alberto Spaini, Goethe e Berchet, in «La Voce», n. 5, 1913, p. 1004 e Lavinia Mazzucchetti, Goethe e Berchet, in «La Voce», n. 13, 1913, p. 1046. 91 Si veda nota n. 58. 92 Si veda nota n. 59.

54

preventivo in un paese ove tutto è carissimo. D’altronde se prima non

sono stampati gl’infami, sciaguratissimi, odiosissimi miei versi, di qui

non posso partire. E chi sà quando lo saranno! Maledetta flemma di F…

Pur sono in ballo, e mi bisogna ballare» 93.

Contrariamente ai desideri del poeta, invece, la stampa della

romanza prese sempre più tempo, e a Berchet non restava che

lamentarsene impotente: «Fauriel mi scrive che sta per

istampare i miei infamissimi, sciaguratissimi versi; ma e chi sa

quando? e chi sa quando? e via via così sempre, e intanto non

v’ha inezia che non mi irriti, e mi faccia perder pazienza, e non

mi rattristi»94.

Alla fine il poeta si risolse comunque a partire per

l’Inghilterra, nonostante il progetto di pubblicazione non fosse

ancora concluso. Per la sistemazione a Londra contò, infatti, su

un prestito fattogli dagli Arconati, ma la stampa della sua opera

continuava comunque a stargli a cuore, specie perché sperava

potesse far parlare di lui nella società intellettuale inglese, dove

si apprestava ad entrare:

«Quel maledetto Fauriel non mi ha mai scritto se i miei versi sieno o

nella Senna o sotto i torchj. Questa lentezza mi fa danno davvero» 95.

«Quel ritardo di Fauriel mi fa gran danno: non perchè i miei versi

possano darmi essi profitto, ma perchè, miserabili come pur sono,

93 Parigi, 19 marzo 1822. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 9. 94 Ivi, p. 14. Lettera datata Amsterdam, 27 aprile 1822. 95 Ivi, p. 18. Lettera datata Londra, 29 maggio 1822.

55

potrebbero servirmi d’introduzione qui più che un semplice biglietto di

visita»96.

Alla fine anche questa possibilità svanì, e il poeta, rassegnato,

scrive all’amica di desiderare unicamente la conclusione di

questa infinita vicenda:

«Il fatto che i versi non sono ancora stampati, che Fauriel sempre

m’ha fatto penare invano, e che per quattrocento franchi cederei a

chiunque il profitto di quella inezia con quella gioia stessa con cui Esaù

vendeva per un piatto di lenti la sua primogenitura, e scommetterei di

far miglior negozio assai di Esaù, quantunque io sia al buio affatto di

quanto va manipolando Fauriel per questa sciaguratissima stampa, a cui

m’annoia il pensare, tanto è andata per le lunghe» 97.

Ma sarebbe ingiusto accusare di inefficienza Fauriel che fu

per anni «traduttore benevolo dei nostri romantici e l’agente

editoriale a Parigi della letteratura italiana»98, soprattutto

perché nel periodo in questione stava affrontando la malattia, e

in seguito la morte, della compagna, Mad.me de Condorcet.

Berchet comunque non si diede per vinto e tentò di interessare

al progetto anche Victor Cousin99. Alla fine I profughi di Parga

videro la luce nel maggio del 1823, circa tre anni dopo la loro

conclusione. Per la stampa Fauriel si era accordato con uno dei

più prestigiosi tipografi del tempo, Firmin Didot, stampatore

parigino erede della celebre famiglia Didot che si era distinta

96 Lettera datata 27 giugno 1822. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., p. 255. 97 Ivi. Lettera datata 5 luglio 1822. 98 Alberto Cento, Fauriel agente dei romantici italiani. Ovvero le disavventure editoriali di due poeti, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1957, p. 346. 99 Si veda E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta cit., p. 76.

56

nell’arte della stampa lungo tutto il ‘700 a partire dal suo

capostipite François Didot. Nel 1811 Firmin Didot era stato

nominato stampatore dell'Istituto di Francia, e nel ‘14

stampatore del re, e le sue edizioni di pregio erano celebri in

tutta Europa. In contrasto con la sua grande fama, però, Didot

non si rivelò uno stampatore affidabile, ed è forse anche per

questo che, anni dopo, Berchet non tornerà a rivolgersi a lui per

la stampa delle Fantasie. Come emerge dalla corrispondenza tra

il poeta e Fauriel, infatti, nonostante le sollecitazioni fatte, il

tipografo non prestò la dovuta attenzione ai tempi della

pubblicazione, lasciando i due intellettuali ad aspettare

rassegnati:

«Le retard de mr. Didot il faut bien l'avaler bon gré, mal gré. Du

moins que les exemplaires puissent arriver a Londres avant que tout le

mond soit parti pour la campagne. ce qui arrivera sur la moitiè et la fin

de Juillet. Je dois en donner six copies a une autre dame amie de mr.

evans, ainsi au moins 3 douzaines il me faudra en avoir. Quant a mon

nom,n'ayez aucune peur a le mettre tout entier en tete de cet

opuscle»100.

Ad ogni modo, una volta stabilitosi a Londra, Berchet fece

tesoro dell’esperienza fatta. Per i componimenti successivi,

infatti, il poeta non si sognò neppure di intraprendere la ricerca

di uno stampatore e, allo scopo di risparmiarsi nuove seccature,

scelse per i suoi versi una strategia di diffusione semplice e poco

dispendiosa. Le romanze composte negli anni dell’esilio

100 Londra, 24 giugno 1822. Citazione tratta da R. Van Nuffel, Lettere di Berchet a Claude Fauriel, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1958, p. 102.

57

londinese vennero, infatti, copiate negli album dei compatrioti

di passaggio a Londra o allegate (in forma manoscritta o

stampate in foglietti volanti) alle lettere destinate agli amici più

fidati, molti dei quali si incaricavano anche di farle penetrare

clandestinamente in Italia diffondendole poi per vie segrete.

Di Clarina e del Romito del Cenisio , ad esempio, si parlerebbe

in una lettera del primo agosto 1823. L’autore, inviando i versi ai

coniugi Arconati, chiede appunto un aiuto per farli arrivare in

Italia. In quei giorni, infatti, Costanza si apprestava a recarsi a

Lugano, e qui non sarebbe stato difficile per lei assoldare

qualche contrabbandiere che portasse le opere in territorio

italiano. Il confine con la Svizzera era, già nel corso del ‘700 , il

passaggio più utilizzato per il traffico di quei libri soggetti a

censura che non avrebbero mai superato i controlli doganali.

Questi volumi venivano affidati a giovani abituati a percorsi

alternativi rispetto alle vie principali, strade di montagna e

sentieri, spesso impervi e pericolosi, che eludevano i fermi della

polizia. Anche le opere di Berchet, naturalmente, non potevano

circolare in altro modo, essendo il poeta un autore ricercato sul

quale gravava la pena capitale, ed essendo le opere stesse di

contenuto sovversivo. Così scriveva dunque Berchet nella

lettera: «Una copia delle Romanze Clarina, ecc. non si potrebbe

buttarla a Lugano in mano di qualche galuppo? Non fo per altro

58

la menoma istanza per questo, troppo premendomi di non

comprometterla nel menomo che»101.

Di Matilde si parla invece in una lettera del 13 settembre

1825: «Si ricorda di quella picciola tiritera regalata a

Marietta102? N’ho mandata jeri un’altra più lunga, in Italia. Avrei

gusto che le capitasse in mano. Ad ogni modo l’avrà quando a

Bruxelles»103. In questo caso Berchet non specifica le modalità

con cui aveva mandato il manoscritto in Italia, ma Matilde era

già stata copiata anche nell’album di un’importante patriota

italiana, Teresa Kramer-Berra104, il 19 marzo 1825.

Al Trovatore, secondo Li Gotti e Van Nuffel, si fa accenno in

una lettera del 30 luglio 1824 . In questo caso il poeta pensava di

inviare il testo in forma manoscritta a Maria Arconati,

scegliendo poi di tornare sui suoi passi a causa del co ntenuto:

«A Marietta aveva promesso un non so chè, ed ho vergogna di non

aver finora attenuta la parola. Ma come pensare a poesia in questa

inondazione di prosa che mi affoga? Le manderei quasi in cambio

un’altra brevissima romanza fatta in questi ultimi d ì; ma quantunque

non politica, ed innocente come l’acqua, pure non mi pare conveniente

per una fanciullina che non deve saper pure che v’abbia al mondo la

parola amore. Dica dunque a Marietta che non mi voglia male, e che mi

compatisca del mio ozio, tutt’altro che beato»105.

101 Londra, 8 agosto 1823. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 46. 102 Maria Arconati, sorella minore della marchesa. 103 Londra, 13 settembre 1825. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 105. 104 Si vedano pp. 105-106. 105 Lettera datata Londra, 30 luglio 1824. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 78.

59

Giulia, come si è visto106, risale ai mesi precedenti il

settembre 1826, e viene indirizzata a Peppino: «Se avrò tempo

copierò stasera quella romanza, altrimenti sarà l’ordinario

venturo»107.

Un autografo di Giulia è inoltre contenuto in una lettera al

marchese Antonio (Togno) Trotti, fratello di Costanza.

In tutto questo la marchesa Arconati aveva naturalmente un

ruolo di primaria importanza. Costanza si occupava, infatti, di

copiare personalmente, quando possibile , i versi del poeta e di

diffonderli nei salotti liberali. Certamente di suo pugno si

conoscono il Rimorso e Giulia108.

Ma questa tipologia di trasmissione si rivelò un danno non da

poco per il poeta. Così sciolte le poesie circolavano trasmesse di

bocca in bocca, copiate e ricopiate, con inevitabili storpiature e

distorsioni della forma originale. Non solo, approfittando della

confusione ci fu persino chi si attribuì la loro paternità. In una

lettera del 7 novembre 1826 Berchet, tra il divertito e lo

sconcertato, scrive alla marchesa:

«Ho ricevuto una lunghissima lettera e carissima davvero del buon

Togno. […] Fra i minuti particolari mi raccontò anche che Dandolo109

ebbe la stolidità di stampare in un suo libro come cosa sua quella mia

romanzaccia il Trovatore . Mi ha fatto ridere davvero; e se la cosa ei

106 Si veda nota n. 84. 107 Londra, 19 settembre 1826. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., pp. 139-40. 108 Si veda E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta cit., p. 78. 109 Tullio Dandolo.

60

crede che valga la pena d’essere rubata, io volentieri gliela cedo. Ma è

proprio un ragazzaccio»110.

A raccogliere queste romanze in un’unica pubblicazione ci

pensarono, negli anni successivi, diverse edizioni. Uscirono

infatti numerose raccolte dal titolo Poesie, nessuna delle quali

probabilmente è da ritenersi di volontà autoriale. Si tratterebbe,

invece, di contraffazioni italiane o delle stamperie svizzere (in

particolare della tipografia di Giuseppe Ruggia a Lugano e forse

anche della Tipografia Elvetica di Capolago)111. Del resto, visto

l’ampio consenso riscontrato da questi testi, non è difficile

immaginare che gli stampatori avessero approfittato della

110 Londra, 7 novembre 1826. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 140. 111 Dal 1826 in poi uscirono diverse edizioni di Poesie di Giovanni Berchet con false indicazioni tipografiche (sul frontespizio di alcune di queste figurava l’epigrafe «Adieu, my native land, adieu!»; in qualche altro caso compariva invece la litografia di una lampada ad olio accompagnata dal motto alere flammam). Una prima edizione di queste raccolte non dà l’indicazione dello stampatore, ma solo il luogo e l’anno: Londra, 1824. Il frontespizio cita: Poesie di Giovanni Berchet. E il volume contiene tutte le romanze dell’esilio, compresa Giulia. Difficile poter considerare autentica questa edizione dal momento che, come si è visto, la stesura di Giulia si colloca attorno al ’26. Una seconda edizione è invece datata Londra, 1826 e il frontespizio riporta: Poesie di Giovanni Berchet. Seconda edizione riveduta dall’autore coll’aggiunta di altre nuove romanze. Il contenuto è identico a quello della prima edizione ma Giulia compare con l’indicazione dell’anno 1829. Lascia, inoltre, qualche dubbio il nome italianizzato del tipografo: Riccardo Taylor (Richard Taylor). Del 1829 si conoscono diverse edizioni. Una risulta stampata a Milano e porta sul frontespizio la precisazione A spese dell’editore. Svariate altre, invece, riportano nel frontespizio l’indicazione: Londra, nella stamperia di R. Taylor. Tra queste Marino Parenti (si veda Marino Parenti, Rarità bibliografiche dell’Ottocento. Materiali e pretesti per una storia della tipografia italiana nel secolo decimonono, vol. IV, Sansoni Antiquariato, Firenze, 1958, pp. 197-201) ha individuato alcuni esemplari in carta azzurra che sarebbero frutto di una contraffazione italiana (queste edizioni, tra l’altro, contengono Le Fantasie ma senza alcuna prefazione iniziale). Altri esemplari, invece, sempre secondo Parenti apparterrebbero all’edizione originale che porta il titolo per esteso: Poesie di Giovanni Berchet. Terza edizione riveduta dall’autore coll’aggiunta di altre nuove romanze e delle Fantasie. Tuttavia pare davvero difficile ipotizzare si tratti di una raccolta voluta dall’autore visto che la versione delle Fantasie proposta non è preceduta dall’introduzione originale ma da una completamente differente e non autoriale, come si vedrà più avanti. Infine, ulteriori esemplari portano nuovamente l’indicazione della stamperia londinese di Taylor e la data 1830 o anni successivi. Anche in questo caso non si tratta di edizioni curate dall’autore che, del resto, negli anni ’30 non si trovava più a Londra.

61

circolazione manoscritta per mettere sul mercato delle ed izioni

utili alla causa risorgimentale, oltre che di sicuro successo.

Ad ogni modo l’esperienza deludente della trasmissione

manoscritta non si sarebbe ripetuta con Le Fantasie . Terminata

l’opera, infatti, alla data del 3 ottobre 1828 , Berchet si adoperò

immediatamente per la ricerca di un editore. Evidentemente il

poeta riponeva troppe speranze nel messaggio di riscatto

morale e civile contenuto nella romanza per rischiare di vederlo

corrotto da refusi e storpiature. Scrive in una lettera all’amica

Costanza:

«Ho scritto a Scalvini per sentir quanto mi costerebbe lo stampare a

Parigi quell’ultima cosuccia ora finita. Sono stufo di mandar manoscritti

in Italia dove mi stroppiano, guastano, spropositano tutto. Vorrei che

fosse stampata dentro l’anno»112.

Giovita Scalvini si trovava appunto in Francia all’epoca della

lettera. I due intellettuali erano amici da diverso tempo e

Berchet riponeva grande fiducia nella sua disponibilità e nelle

sue competenze da affidargli interamente la riuscita della

pubblicazione. Ma Giovita non sarà il solo ad avere un ruolo

fondamentale nella pubblicazione delle Fantasie. Anche la

marchesa si occuperà personalmente della revisione e della

pubblicazione dell’opera.

112 Londra, 3 ottobre 1828. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 191.

62

Allo scopo di ricostruire meglio la storia editoriale che ha

portato alla stampa di questa romanza, si è scelto quindi di fare

accenno alle vicende biografiche di entrambi.

GIOVITA SCALVINI

Nobile, ma di stirpe decaduta, Giovita Scalvini era nato a

Botticino in provincia di Brescia, dove la sua famiglia aveva

diversi possedimenti, quasi tutti in rovina.

Come gran parte della nobiltà bresciana, anche Scalvini prese

parte alle iniziative di rivolta degli anni ’20 che gli costarono

l’arresto prima e l’esilio poi. Ma la storia dell’esilio di Scalvini si

intreccia inevitabilmente con quella della sua amicizia con il

conte Giovanni Arrivabene.

I due si erano conosciuti a Brescia, tra il 1813 e il 1814 . Il

conte apparteneva a un’antica e influente casata di Mantova e

ricorda così, nelle sue Memorie, il loro primo incontro:

«Sul finire del 1813 io mi ritirai a Brescia ove mi trattenni sino nella

primavera del 1814. Furono giorni cari ed istruttivi per me. Passavo le

intiere serate con Camillo Ugoni e con Scalvini, che conobbi allora. Si

leggevano libri seri, si discutevano interessanti questioni. […] Lo

Scalvini debole di corpo, era altrettanto forte di mente; di delicato e fine

gusto e giudice competentissimo in fatto di lettere e di belle arti» 113.

Pur molto diversi di carattere – fragile ed estremamente

sensibile Scalvini, freddo e risoluto Arrivabene – tra i due

113 G. Arrivabene, Memorie della mia vita cit., pp. 20-21.

63

nacque un’amicizia che durò per tutta la vita. Più volte il conte si

prese cura dell’amico nei momenti di difficoltà: «Non

preoccuparti troppo dell’avvenire», scriveva nel ‘17, «un asilo,

un sostegno lo troverai sempre nella casa mia»114. E Scalvini

negli anni gli fu sempre grato e affezionatissimo; confessa al

conte in una lettera: «Non mi resta di consolante che la tua

amicizia e la certezza che il tempo non l’arresta»115.

Decisa la fuga dall’Italia, infatti, il conte portò con sé l’amico

per tutta l’Europa, e continuò a provvedere a lui

economicamente, almeno fino a quando la polizia pose sotto

sequestro anche i suoi averi, mettendolo in grave difficoltà. Ma

Arrivabene provava anche un certo senso di colpa nei confronti

di Scalvini per essere stato, anche se involontariamente, la causa

dei suoi guai. Nel maggio del 1821 , infatti, la polizia austriaca

aveva arrestato il conte dopo la scoperta dei suoi contatti, come

si è visto, con Pellico e la Carboneria. Vennero, quindi,

perquisite le sue abitazioni; documenti realmente

compromettenti non furono rinvenuti, ma il conte scontò

comunque otto mesi di prigione. Tra le carte trovate nella sua

abitazione saltò fuori anche una lettera di Scalvini che ne causò

l’arresto il 29 maggio 1821.

Il contenuto della lettera, ritenuto pericoloso e sovversivo,

era più semplicemente riconducibile a un motto di scherno, ma

bastò a far scattare l’arresto:

114 Citazione tratta da Edmondo Clerici, Giovita Scalvini, Milano, Editrice Milanese, 1912, p. 7. 115 Ivi, p. 24.

64

«Domani Mompiani ed io andremo dalla Calderara; niun tedesco,

niun ministro, niuna spia. Monti ha scritto un inno per lo imperatore

ch’è sotto i torchi. Bada bene, è sotto i torchi l’inno, non l’imperatore

per nostra sventura. Siamo tali piante noi, che di null’altro ci nutriamo

che di liberalismo»116.

Ma al di là delle poche prove concretamente rinvenute dagli

ufficiali austriaci, e dell’assoluzione ottenuta da entrambi,

Giovita Scalvini e il conte Arrivabene appartenevano realmente

a quella fitta rete di cospiratori lombardi che contava i più alti

nomi della nobiltà e della borghesia di Brescia, Mantova, Milano,

Como e Bergamo. I rapporti tra membri delle società segrete

delle diverse città erano necessari allo scopo di lavorare per

l’obiettivo comune e questo rendeva le sorti degli uni

irrimediabilmente legate a quelle degli altri. Così, dopo il

fallimento dell’insurrezione del ’21 e la pioggia di arresti e

interrogatori, fu chiaro a entrambi che solo la via dell’esilio li

avrebbe tutelati davvero da ulteriori fermi. A preparare la fuga

ci pensò, appunto, il conte:

«La sera entro in un caffè. Eravi Luigi Guerrieri. “Oh Arrivabene! io

andava appunto in traccia di te; vedi che cosa mi manda mio fratello?”

Leggo la lettera; essa conteneva la nuova dell’arresto di Mompiani e

di…Borsieri. A quella lettura mi monta il sangue al capo, mi batte

violentemente il cuore, e dico a me stesso: “Domani tu sarai lungi di

qui” […] L’amico mio Mazzucchelli giudicò prudente non entrare in

Brescia colla mia carrozza. La lasciammo quindi e con l’altra vettura

andammo a Brescia, dritti a casa di Scalvini. Questi vedendoci arrivare

116 Citazione tratta da Cesare Cantù, Il conciliatore e i carbonari, Treves, Milano, 1878, p. 226.

65

improvvisi, agitati, indovinò tosto quale era il motivo che ci aveva

condotti da lui. Fummo immantinente d’accordo che non v’era da

esitare, che bisognava uscire dell’Italia, e quanto prima, tanto

meglio»117.

Scalvini, che dell’esilio vedeva lucidamente tutte le difficoltà,

si arrese alla consapevolezza che non ci fossero alternative.

Partirono quindi alla volta della Svizzera. Qui soggiornarono per

poco tempo, trasferendosi poi a Parigi e infine a Lo ndra, dove

ritrovarono il Santarosa e Foscolo. Foscolo era stato amico di

Scalvini già in patria, ma il bresciano non aveva mai avuto

un’alta opinione di lui, e anzi ne avrebbe dato un ritratto

pessimo nelle memorie pubblicate postume dal Tommaseo: «Era

un uomo di fantasia e d’ingegno, ma di nessuna virtù

d’animo»118.

Ed è sempre a Londra che Scalvini ebbe modo di conoscere

Giovanni Berchet, con il quale sarebbe nata un’amicizia forte e

duratura.

Nel settembre del 1826, pero , essendo il governo francese

divenuto meno severo con i proscritti italiani, Arrivabene e

Scalvini tornarono a Parigi. Nello stesso periodo anche la

famiglia Arconati si trovava in Francia, e aveva stretto attorno a

sé un salotto letterario molto frequentato. Ricorda Arrivabene:

«Sul finire dell’autunno si rientrò in Parigi, dove trovammo giunta la

famiglia Arconati, e mercè la bontà sua il soggiorno di quella grande

città non fu più una solitudine per me. Essa da quel momento divenne la

117 G. Arrivabene, Memorie della mia vita cit., pp. 83 e 87. 118 Citazione tratta da G. Scalvini, Scritti, a c. di N. Tommaseo cit., pp. 150-51.

66

mia famiglia adottiva; la mia sventura veniva così temperata. In casa

Arconati frequentavano poche, ma notabili persone; vi si passavano

serate deliziose»119.

Scalvini ebbe quindi occasione di conoscere Costanza. In

seguito sia gli Arconati che lo stesso Arrivabene si spostarono

altrove in Europa. Scalvini sarebbe rimasto invece a Parigi dove,

in ristrettezze economiche, si impegnò duramente in diverse

occupazioni. Iniziò un periodo difficile ma produttivo per

l’intellettuale bresciano che, oltre a impartire lezioni private,

collaborò all’allestimento di diverse riviste e antologie. Fu molto

attivo presso tipografi e librai, ed è quindi per questo che

Berchet affiderà a lui il compito di cercare un editore per la

romanza appena terminata, Le Fantasie. Sempre a Parigi Scalvini

scrisse la sua opera più importante, il saggio Dei Promessi Sposi

di Alessandro Manzoni120, stampato a Lugano da Giuseppe

Ruggia.

La parentesi francese dell’esilio di Scalvini si concluse nel ’33,

con il felice ricongiungimento ai suoi amici in Belgio, presso gli

Arconati.

Tornò a Brescia nel ’39, grazie all’amnistia, ma, ormai molto

provato nel fisico, trascorse i suoi ultimi anni combattendo i

frequenti attacchi di tisi che lo portarono alla morte nel gennaio

119 G. Arrivabene, Memorie della mia vita cit., p. 160. 120 Giovita Scalvini, Dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, Giuseppe Ruggia e comp., Lugano, 1831.

67

1843. Avvicinandosi la fine e ripensando all’esilio, scriveva nelle

sue memorie:

«Non sono molti anni ch’io passava la sera nella compagnia di

Pecchio, di Foscolo, e di Santarosa: e tutti e tre sono morti. Dov’è quel

popolo di persone che dalla mia infanzia sino alla virilità sono state la

cura, l’amore, il desiderio della mia vita? [… ] È morto mio fratello; sono

morti i miei maestri, i miei condiscepoli, i miei amici, tutti in

giovanezza. […] Presto non potrò più dire: l’anno scorso, come oggi,

faceva, stava… Vi è qualcosa di assai triste in ciò. Tardando a morire,

saranno venuti meno quelli che allora mi avrebbero pianto»121.

LA MARCHESA COSTANZA ARCONATI

Figlia del marchese Lorenzo Trotti Bentivoglio e della nobile

austriaca Marie von Schaffgotschen, Costanza era nata a Vienna,

e in Austria aveva trascorso la sua fanciullezza. Trasferitasi con

la famiglia a Milano, sposò nel 1819 il cugino, il marchese

Giuseppe (Peppino) Arconati Visconti, orfano ed unico erede di

un vastissimo patrimonio con possedimenti a Milano, Torino,

Roma e in Sardegna. La loro casa nel milanese era divenuta in

poco tempo uno dei piu importanti punti di riferimento per gli

intellettuali e i patrioti lombardi, ma i moti del ’21 e il processo

a carico di Federico Confalonieri avrebbero portato anche gli

Arconati sulla strada dell’esilio. Contro il marito Giuseppe,

infatti, gravavano pesanti capi d’accusa a seguito delle

confessioni fatte sotto interrogatorio dal carbonaro Carlo

121 Citazione tratta da G. Scalvini, Scritti, a c. di N. Tommaseo cit., pp. 155-56 e 197.

68

Castiglia: si sapeva di forti somme versate dall’Arconati alla

cassa dei federati e di un suo viaggio a Torino per convincere

Carlo Alberto a invadere la Lombardia, recando con sé una

lettera del San Marzano. Il marchese non volle rischiare di

condividere la sorte di Confalonieri e fuggì in Francia prima di

essere arrestato.

L’esilio dei marchesi Arconati fu comunque molto diverso da

quello della maggior parte degli esuli italiani. Nel Belgio la

famiglia aveva ereditato da tempo vastissimi possedimenti, tra

cui l’imponente castello di Gaasbeek. Questo permetteva loro di

muoversi agevolmente per l’Europa senza cambiare il tenore di

vita a cui erano abituati. Inoltre Costanza non era coinvolta in

alcun processo ed era libera di recarsi, come spesso faceva, in

Italia, frequentando i salotti più importanti e riportando le

notizie della situazione italiana.

Prima tappa dell’esilio degli Arconati fu Parigi, nel ’21.

L’Hôtel Hollande, dove avevano preso alloggio, divenne sub ito il

punto di riferimento per gli intellettuali presenti nella capitale.

Qui la marchesa ebbe modo di conoscere Giovanni Berchet, che

aveva già incontrato precedentemente a Milano a casa di

Manzoni. Ricorda a tal proposito il poeta:

«In Parigi venne fortunatissimo, il momento in cui ruppe per la

prima volta quella sbarra che pareva separarci nella conversazione in

casa Manzoni. Quante volte, ritornando sul passato, accuso di stolta la

mia timida ritrosia ad accostarmi a quel benedetto tavolino che

separava noi uomini dalla gentilezza feminea. Chi sa forse, Ella allora mi

69

credeva un orso! Voglia il cielo che il giudizio ch’Ella fa ora di me sia più

vicino alla realtà»122.

Dopo l’incontro Parigino, invece, Costanza diventerà una

figura fondamentale nella vita di Giovanni Berchet. Prima amore

non corrisposto, poi tenera amica, infine insostituibile

confidente, la marchesa si legò a lui per tutta la vita, come

testimonia l’intenso rapporto epistolare che i due intrattennero

dal 1822 (anno dell’incontro a Parigi) al 1851 (anno della morte

del poeta). Donna colta e interessata alle lettere, Costanza ebbe

più volte parte attiva nella stesura e pubblicazione delle opere

del poeta e di molti altri intellettuali che le sottoponevano i loro

scritti per averne impressioni e correzioni, affidandole spesso

anche la ricerca del tipografo. Nel ’28, ad esempio, trovandosi a

Parigi, la marchesa ricevette le bozze delle Fantasie del Berchet

(ancora a Londra) e insieme a Giovita Scalvini si occupò della

revisione e pubblicazione dell’opera.

Lasciata la capitale francese, i marchesi Arconati si

trasferirono definitivamente in Belgio nei loro possedimenti a

Gaasbeek e il castello divenne per molto tempo rifugio sicuro di

numerosi esuli italiani. Del resto la generosità degli Arconati era

ben conosciuta. I coniugi si rendevano spesso disponibili a

offrire rifugio ad amici e conoscenti, e a soccorrerli

economicamente ovunque si trovassero. Una solidarietà 123 che

122 Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. VII. 123 A tal proposito si veda anche Giuseppina Bertoni, Tradizione di generosità e d’amor patrio nella famiglia di Costanza Arconati, in AA. VV., Studi sul Berchet. Pubblicati per il primo centenario della morte, a c. del Liceo Ginnasio Giovanni Berchet di Milano, Tipografia Grafica Milano, Milano, 1951.

70

peccava, però, di poca prudenza. Toccò ai genitori di Costanza

raccomandare loro circospezione nell’aiutare persone ricercate,

dal momento che il governo austriaco mandava agenti e spie in

giro per l’Europa. Non solo, la loro disponibilità peccò spesso

anche di eccessiva buona fede, come testimoniano gli

avvertimenti dati a Costanza dagli amici più stretti per evitare

che la marchesa si lasciasse impietosire da semplici

approfittatori.

Come tutti gli esuli anche i coniugi Arconati tornarono in

patria dopo l’amnistia del ’38 e parteciparono entrambi

attivamente all’unificazione dell’Italia. Giuseppe fu nominato

senatore nel 1865.

LA STAMPA DELLA PRIMA EDIZIONE

Per la pubblicazione delle Fantasie, Berchet si affidò dunque

a due amici fidati, incaricandoli della ricerca di un tipografo

parigino. A questo proposito va detto che il poeta sembra non

pensare neppure a una pubblicazione inglese. Infatti, nonostante

l’Inghilterra fosse certamente la dest inazione più tranquilla per

gli esuli italiani, non era possibile considerarsi del tutto al

sicuro neppure sul territorio britannico. Più volte il parlamento

inglese era tornato, nel corso della prima metà dell’’800, a

discutere degli stranieri presenti sul proprio territorio e a

rimettere mano all’Alien-Bill, una legge approvata negli anni ’90

del ‘700 . La norma prevedeva che tutti gli stranieri che

71

sbarcavano sull’isola dovessero farsi riconoscere, dichiarando le

loro generalità al capitano della nave prima di metter piede sul

suolo britannico. Non gli era inoltre concessa la detenzione di

armi, e in seguito si aggiunse l’obbligo di ottenere un permesso

di soggiorno. Naturalmente per gli esuli in fuga dalla polizia

austriaca, come anche Berchet, era necessario evitare il più

possibile di fornire generalità e domicilio. Su questa legge il

parlamento tornò più volte, tra proposte di abolizione e rimesse

in vigore con ulteriori disposizioni. Quindi, volendo mantenere

una condotta il più possibile accorta, Berchet cercava di evitare

le pubblicazioni londinesi, come aveva spiegato anche all’amico

Fauriel a proposito dei Profughi di Parga: «Il me semble que

toutes mes letters vous auront assez fait voir la firme intention

dans laquelle je suis de faire imprimer mes vers à Paris et non à

Londres. […] Mais de l’imprimer à Londres avant que à Paris ce

ne serait pas prudent»124.

Possibile che anche per Le Fantasie, dunque, il poeta volesse

evitare problemi proprio nel paese che lo ospitava da parecchi

anni. Del resto una pubblicazione inglese sarebbe stata piuttosto

problematica e dispendiosa. Berchet non aveva grande

familiarità con l’ambiente editoriale londinese , inoltre stampare

gli esemplari a Londra avrebbe comportato il loro invio in

Francia ad amici e conoscenti che potessero farli penetrare in

Italia. È soprattutto questo, infatti, lo scopo del poeta. Come

124 Lettera datata Londra, 3 giugno 1822. Citazione tratta da Alberto Cento, Fauriel agente dei

romantici italiani ovvero le disavventure editoriali di due poeti, in «Giornale storico della

letteratura italiana», 1957, pp. 347-48.

72

specificato nella lettera introduttiva, l’eventuali tà che

un’edizione inglese possa far conoscere quest’opera anche al di

fuori dell’Italia non interessa in alcun modo Berchet:

«Per poco ch’io ve l’asserisca, lo crederete ben subito, o diletissimi,

che nel comporre i versi che oggi vi dedico, voi, voi soli , io sempre

aveva dinanzi alla mente, come lettori a cui soddisfare, s’io lo potessi.

Ora che gli ho ricopiati, li rileggo pensando a voi; nè parmi che per voi

abbiano bisogno di schiarimenti. Se mi tocca di pubblicarli in terra

straniera, non è per questo ch’io mi figuri che stranieri li vogliano

leggere. […] Io non ho mira che l’Italia» (F₁, p. 7).

Come si è visto, Giovita Scalvini, nel periodo in questione, era

particolarmente attivo nell’ambiente editoriale parigino, ed è

quindi lui ad occuparsi della ricerca di uno stampatore per Le

Fantasie. Ma in verità anche la marchesa era solita svolgere

compiti di questo tipo. Nel ’34, ad esempio, sarà proprio lei, in

mancanza di altri volontari, a rendersi disponibile per la ricerca

di un editore per la traduzione del Faust di Goethe dello stesso

Scalvini125.

Ad ogni modo, alla fine la scelta del bresciano ricadde su

François Pihan-Delaforest126, piccolo ma affidabile tipografo

parigino che aveva iniziato la propria carriera come libraio nel

125 Irene Perini, Scalvini, Goethe, Faust, in Giovita Scalvini, Traduzione del Faust di Goethe, edizione critica a c. di Beniamino Mirisola, Morcelliana, Brescia, 2012, p. 7. 126 François Pihan-Delaforest (1782-18..). Per distinguere le proprie edizioni da quelle del suo più celebre omonimo Ange-Augustin-Thomas Pihan-Delaforest (1791-1842; stampatore del Delfino di Francia e della Corte di Cassazione, con attività in rue des Noyers n. 37), sul frontespizio delle opere impresse da François compariva sempre la formula 'Pihan-Delaforest (Morinval)'; questa formula comparirà, infatti, anche sul frontespizio delle Fantasie. Circa i due tipografi si vedano anche le voci corrispondenti nel database della Bibliothèque Nationale de France (data.bnf.fr).

73

1824, rilevando l’attivita di E tienne-Marseille Giraud in rue des

Filles-Saint-Thomas n. 7. In seguito, dopo molti anni di

collaborazione con il tipografo Jean-Marie-Anthelme Boucher,

aveva rilevato la sua officina a Parigi, in rue des Bons -Enfans n.

34, e aveva dato inizio anche alla sua attività tipografica.

Per i tipi di Delaforest, oltre che Le Fantasie, uscirono anche

altre opere di patrioti italiani. Pietro Giannone, ad esempio,

diede alle stampe L’esule127 nel 1829, mentre nel 1836 Terenzio

Mamiani della Rovere pubblicava le sue Nuove Poesie128. Lo

stesso Tommaseo si affido a Delaforest, stampando tra il ’35 e il

’36 sia Dell’Italia129 che le Confessioni130.

Scelto l’editore, Berchet mandò il manoscritto a Parigi,

chiedendo, come si è visto nella lettera del 3 ottobre 1828 , che

l’edizione venisse fatta entro l’anno. Ma nel corso della ricerca

dello stampatore il poeta maturò l’idea di aggiungere ai versi

una prefazione introduttiva. Proprio in questa prefazione

Berchet spiega, infatti, che sottoponendo l’opera conclusa al

giudizio di qualche amico (possibile si trattasse dello stesso

Scalvini, uno dei pochi ad aver letto la romanza prima della sua

pubblicazione), gli era stata suggerita l’idea di corredare il testo

di note storiche. Questa proposta venne rifiutata dal poeta per

una serie di motivazioni delle quali si dà conto proprio

127 Si vedano pp. 13-14. 128 Terenzio Mamiani della Rovere, Nuove poesie, Delaforest, Parigi, 1836. 129 Niccolò Tommaseo, Dell'Italia. Libri cinque, Delaforest, [Parigi], s.d.. 130 Niccolò Tommaseo, Confessioni, Delaforest, [Parigi], s.d..

74

nell’introduzione. Tuttavia il poeta si convinse della necessità di

una lettera introduttiva. Si legge nella prefazione:

«Nell’atto di mandare allo stampatore la presente romanza, mi sento

suggerita da taluno la convenienza di farle precedere almeno qualche

parola di prefazione; ov’io m’ostini a non volerla provvedere di note,

come a tal altro pareva bisognasse. […] Pigliale come vuoi, poco su poco

giù, note o prefazione m’hanno faccia di pedanteria nel caso mio. […] A

sbrigarmi in qualche modo da una siffatta perplessità, ho afferrato come

buon ripiego un suggerimento dell’animo mio, quello di rivolgermi a

voi, dilettissimi, e d’indirizzarvi, come fo, questa mia lettera tutta

confidenziale. Scritta come vien viene, come se riassumessi per un

momento ancora una di quelle tante chiacchierate con voi a cuor largo»

(F₁, pp. 5-6).

Ecco, quindi, che alla data del 30 dicembre dello stesso anno

Berchet scrisse all’Arconati, avvisandola di voler spedire

all’amico Giovita la prefazione ormai conclusa, perché fosse

mandata in stampa: «Se vede Scalvini, lo saluti, e gli dica che se

non trovo occasione, manderò al più tardi martedì prossimo

quel certo che per mezzo della Posta»131. Ma, come spiegato in

una lettera successiva, Berchet non spedì la prefazione a

Scalvini, ma alla contessa stessa, allo scopo di risparmiare

all’amico il costo della tassa postale. La marchesa, tuttavia, non

avendo dato cenno di aver ricevuto il plico, generò la

preoccupazione del poeta che il pacco fosse andato perduto. Le

modalità con cui lo aveva spedito, inoltre, non facevano che

131 Lettera datata Londra, 30 dicembre 1828. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 199.

75

aumentare la sua preoccupazione. La lettera era stata, infatti,

affidata frettolosamente a un ciabattino perché la portasse

all’ufficio postale. A Berchet venne quindi il timore che l’uomo

potesse aver intascato i soldi e dato fuoco alla lettera. La

distruzione della stessa si sarebbe rivelata un danno

irreparabile dal momento che il poeta l’aveva scritta di getto e

non ne conservava nessuna copia:

«Lunedì sera, 5C.te ho messo alla Posta una lettera voluminosa

diretta a Lei pel solo fine di risparmiare a Scalvini il porto della

inclusavi per lui. Aveva pregato Scalvini di farmi dare un cenno da Lei

della ricevuta del plicco. Mancandomi questo cenno, mi nasce il dubbio

che il plicco sia andato smarrito; perché stretto dal tempo, ed ingannato

da chi mi aveva promessa un’occasione particolare, non potei mandare

ad impostar la lettera al l’ufficio generale, e la diedi ad uno de’ minuti

ufficj, ad un ciabattino a cui i dieci scellini pagati d’affiancatura

potevano essere tentativo per metter al fuoco la lettera ed in tasca i

denari. Non sarebbe gran male la perdita di quel plicco per se ste ssa;

ma siccome io non saprei come più rimediarvi essendo uno scritto, fatto

a tamburo battente, di cui non ho più traccia raccapezzabile, così

almeno mi premerebbe di sapere se o no Scalvini l’abbia ricevuto. Forse

la prima sua lettera mi toglierà da questa incertezza; e forse se andò

alle fiamme, il ciabattino ebbe più giudizio di me. […] Torno a

domandarle mille perdoni della sfacciataggine di diriggere a Lei la

lettera per Scalvini, ove sia giunta; ma Ella è ricca e Scalvini non l’è» 132.

Che la prefazione fosse stata scritta «a tamburo battente», è

confermato anche dalla data che riporta: Piccadilly, 5 gennaio

132 Londra, 13 gennaio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., pp. 200-01.

76

1829. Come risulta dalla lettera appena citata, dunque, la

prefazione alle Fantasie venne terminata lo stesso lunedì nel

quale fu inviata a Scalvini.

Il plico, ad ogni modo, non era affatto andato perduto. La

marchesa confortò di questo il poeta che infatti il 15 gennaio le

scrisse per ringraziarla e per rinnovarle la richiesta di prendersi

cura dell’edizione:

«Perdoni se nell’ultima mia l’ho seccata riguardo al plicco ch’io

credeva smarrito. S’Ella anche si prende cura a far che l’edizione

dell’inezia mia riesca bene, possa dire ai miei versi…ma non voglio dir

nulla perch’Ella non creda ch'io parli per complimento; cosa della quale

nel momento attuale sono lontano più che mai. Favorisca di dare a

Scalvini il mezzo foglio qui unito»133.

Il mezzo foglio a cui allude il poeta poteva, forse, contenere

ulteriori indicazioni per la pubblicazione. Ad ogni modo, come si

è detto, Berchet riponeva piena fiducia in Scalvini e

nell’Arconati e a loro non aveva solo affidato il compito di

seguire la stampa dell’edizione, ma anche l’eventuale revisione

del testo. La marchesa era solita, infatti, prestare aiuti di questo

tipo agli amici intellettuali. In una lettera del luglio 1829134,

infatti, si parla della sua trascrizione, ed eventuale revisione, di

una traduzione di Arrivabene degli Elementi di economia

133 Londra, 15 gennaio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 202. 134 Ivi, p. 218. Lettera datata Londra, 7 luglio 1829.

77

politica135 di Mill. Per non parlare del supporto dato a diversi

letterati negli anni sereni di Gaasbeek:

«Su tutti, con somma compiacenza, vigilava Costanza. Infaticabile,

essa credeva di aver diritto al primo posto nel cuore di tutti quelli i

quali formavano il suo gruppo, cioè il suo piccolo regno: e così, fino ad

un certo punto, accadeva. Ella, avendo il dono di suscit are facilmente le

amicizie, specialmente negli uomini, vivrà per gli amici stessi, li aiuterà

in quanto potrà, e, nello stesso tempo, con affettuosa tirannia, disporrà

di loro un po’ a suo talento»136.

Berchet aveva dunque dato disposizione che gli amici

intervenissero, se necessario, a correggere la sua opera. Una

disposizione che la marchesa dovette prendere molto

seriamente visto che scelse di intervenire sulle Fantasie

all’insaputa dell’autore. Da una lettera di Berchet si evince,

infatti, che l’Arconati aveva deliberatamente cassato alcune

parti senza chiedere prima il parere del poeta. La notizia, a

quest’ultimo, arrivò solo a cose fatte e senza neppure la

precisazione di quali passaggi fossero. Non è quindi facile capire

cosa avesse voluto tagliare la marchesa, anche se pare

abbastanza evidente si trattasse di un paio di frasi contenute

nella prefazione. Come si legge nella lettera citata qui di seguito,

135 James Mill, Elementi di economia politica, traduzione di Giovanni Arrivabene, Giuseppe Ruggia e comp., Lugano, 1830. 136 Zelmira Arici, G. Berchet e Costanza Arconati Visconti. Anni di esilio e di attesa (1821-1838), in AA. VV., Studi sul Berchet cit., p. 188.

78

infatti, nella discussione tra Berchet e Costanza non si parla di

versi, ma di «frasi»:

«È curioso il destino che tutte le lettere dell’ottimo Scalvini vadano

perdute per me. Una me ne scrisse egli per mezzo di Pecchio; e Pecchio

la perdette. Una me ne scriveva ora ed egli stesso la perde. E a

proposito. Ha fatto Ella benissimo a levare le due frasi, ciò non era che

conforme alle piene facoltà da me date a Scalvini, e non posso che

ringraziarla. Non era bisogno che me ne avvertisse; ma avendolo voluto

fare, pareva naturale che anche m’indicasse le frasi riprovate dal di Lei

Santo Offizio. Quel non dirmelo, c’est me mettre un peu trop à ma place ,

voglio dire nel cantuccio dove sta il manico della scopa. Ho fantasticato

invano quali frasi potessero mai essere. Un tantino di condiscendenza

verso il nemico de’ misterj non avrebbe fatto male. Del resto questo

lamentarmene è piuttosto per cogliere il primo lampo di buon umore,

dopo tutti questi bruttissimi giorni; che non altro. L’ho sempre detto

che v’è una tinta d’amabilissimo dispotismo in lei»137.

Le motivazioni dell’intervento non vengono spiegate in

nessuna lettera. Si può forse ipotizzare, data la natura molto

accorta della marchesa, che Berchet fosse stato troppo aspro in

alcuni passaggi polemici rivolti alla patria e agli amici rimasti in

Italia. Ma si tratta solo di supposizioni. Ciò che risulta piuttosto

chiaro è, invece, il fastidio che questo episodio dovette

provocare nel poeta. Al di là della gentilezza che mostra nella

sua risposta, infatti, l’insofferenza di Berchet per essere stato

137 Londra, 30 gennaio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 204.

79

messo da parte «nel cantuccio dove sta il manico della scopa» è

abbastanza palese.

Neppure all’Arconati, comunque, fece piacere il «dispotismo»

rimproveratogli dall’amico e dovette a tal proposito strapazzare

il poeta nella lettera seguente. Berchet scelse comunque di non

alimentare nuovamente la discussione e di considerare

archiviata la questione:

«L’inopportuna ed improvocata asprezza della di Lei lettera del 2

corrente sarà stata, ne sono certo, riconosciuta anche da Lei stessa

pochi minuti dopo averla scritta. Credo ch’ella considererà come prova

d’amicizia il lasciare io cadere quella lettera come non avvenuta» 138.

Nonostante queste difficoltà, comunque, la prima edizione

delle Fantasie lasciò soddisfatto il poeta, risultando un’edizione

elegante e ben fatta. Quanto al numero di copie stampate,

invece, è interessante la scelta di Berchet di limitare la stampa a

cento esemplari. Non vi è in questa pubblicazione alcun intento

di lucro, lo spirito che continua ad accompagnare Le Fantasie è

anche nella pubblicazione unicamente votato al riscatto morale

e civile della patria. Al poeta non interessava un ritorno

economico, come era accaduto ad esempio per i Profughi di

Parga. Il lavoro presso Obicini gli permetteva di vivere

dignitosamente e di perseguire con questa pubblicazione un

intento puramente ideologico. Difatti , nonostante Delaforest

avesse richiesto la sottoscrizione per tutte le cento copie, il

138 Londra, 6 febbraio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 205.

80

poeta scelse di non cercare associati e di pagare unicamente di

tasca propria l’intera pubblicazione. La sua unica

preoccupazione era che le copie venissero sparpagliate il più

possibile tra amici e conoscenti in Italia. Si legge in una lettera

del 17 febbraio 1829:

«Ha fatto eccellentemente bene nel disporre a nome mio di quelli

esemplari e la ringrazio. Solamente mi permetta di sperare ch’Ella non

abbia dimenticato Cousin139 e Sismondi140. A quest’ultimo l’esemplare

potrebbe esser mandato per mezzo di Bossi141, mandandone uno anche a

Bossi; dico così, onde non far pagare a Sismondi il porto. Se vi sono altri

a cui sia bene donarlo, la prego, di farlo. All’autore per esempio d i Clara

Gazul142, ch’io stimo molto, ed a chiunque insomma ella crede. Mi

premono quelli da mandarsi a Firenze secondo scrissi a Scalvini. A

Milano poi, quanti più si può; dacchè quelli che Ella farà pervenire ai

nostri amici, e che principalmente mi premono , non cadranno per

questo in mano che vogliano dar pubblicità alla cosa. Posto che deggio

comperare dallo Stampatore i cento esemplari, e che di rivenderli io non

ho voglia veruna nè qui nè altrove; sparpagliamoli più che si può. Non

so se il vecchio Tracy143 si ricordi di me; (io ebbi il piacere di visitarlo a

Parigi); ma se anche a lui quell’inezia potesse essere grata, non lasci di

donargliela in mio nome. Insomma faccia lei; e non parliamone altro» 144.

Ancora una volta sono dunque Scalvini e l’Arconati ad

occuparsi di diffondere il più possibile le copie dell’edizione,

139 Victor Cousin. 140 Simonde de Sismondi. 141 Il marchese Benigno Bossi. 142 Prosper Mérimée, autore del dramma teatrale Le Théâtre de Clara Gazul (1825). 143 Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, filosofo francese. 144 Londra, 17 febbraio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., pp. 253-54.

81

sotto le indicazioni del poeta. Si legge in un’altra lettera, sempre

indirizzata alla marchesa: «A Pucci145 mandi i miei saluti e se

può le Fantasie»146.

L’opera ebbe un notevole successo in Italia. In molti

mandarono i propri entusiastici complimenti all’autore e le

copie della prima edizione si esaurirono molto velocemente.

Visto il notevole interesse di pubblico, sempre nel 1829, lo

stampatore Giuseppe Ruggia decise di ridare alle stampe Le

Fantasie presso la sua tipografia di Lugano, senza però il

consenso dell’autore.

145 Giuseppe Pucci. 146 Bonn, 1° gennaio 1830. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 226.

82

III

La seconda edizione delle Fantasie

IL CANTON TICINO E IL RISORGIMENTO ITALIANO

L’età napoleonica portò numerosi sconvolgimenti anche in

territorio elvetico. Alla Confederazione Svizzera dei tredici

cantoni nata in epoca medievale veniva infatti a sostituirsi, per

volere della Francia, uno stato unitario che aboliva la

precedente organizzazione federale. Il 12 aprile del 1798 si

costituiva, dunque, la Repubblica Elvetica. Si trattava di un

regime politico, formalmente indipendente, ma di fatto imposto

e controllato da Napoleone, per nulla gradito alla popolazione

locale. Diversi problemi si ebbero soprattutto nel far accettare

ai cittadini svizzeri la nuova organizzazione dei vecchi cantoni

in otto prefetture. Organizzazione che fu, peraltro, impossibile

da mantenere nel tempo. Questi cantoni vissero, infatti, anni e

anni di tormentate fusioni e separazioni , praticamente fino al

definitivo scioglimento della Repubblica Elvetica.

Quanto al Canton Ticino, esso nacque proprio nel 1798,

dall’unione, per decisione napoleonica, dei due differenti

cantoni di Lugano e Bellinzona. Questa regione andò poi a

prendere il nome dal fiume più importante del suo territorio, il

Ticino.

Benché il Canton Ticino appartenesse di fatto alla Svizzera, la

Francia ne gestiva naturalmente gli affari, tanto che per un

breve periodo i distretti meridionali di Muggio e Mendrisio

83

vennero annessi alla Repubblica Cisalpina. La capitale del

cantone divenne inizialmente Bellinzona, salvo poi stabilire una

rotazione di sei anni tra le città di Bellinzona, Lugano e Locarno.

Questa alternanza durò fino al 1878, quando Bellinzona divenne

la capitale unica e permanente.

Ad ogni modo, la fine del regime napoleonico e la

restaurazione cambiarono nuovamente il volto della

Confederazione Svizzera che, liberatasi dal controllo francese,

vide crescere su di sé l’influenza dell’Impero austriaco.

Il Ticino si dotò di due organi politici: un Gran Consiglio, con

poteri legislativi, e un Consiglio di Stato, con potere esecutivo.

In verità quest’ultimo ebbe sempre notevoli difficoltà a

garantire un ordinamento democratico, trovando spesso al suo

interno personalità di spicco con ambizioni di potere. Il caso più

eclatante fu certamente quello di Giovanni Battista Quadri che,

pur senza arrivare a un vero e proprio colpo di stato, portò

avanti una politica autoritaria tanto che gli anni del suo governo

sono anche noti come la fase del 'regime del Quadri' (1815-

1830).

Ma sebbene la federazione elvetica fosse, di fatto, filo-

austriaca, il Canton Ticino non rimase affatto estraneo alle

vicende del risorgimento italiano. Al contrario, vi era in questa

parte della Svizzera un sentimento così marcato di appartenenza

alla cultura italiana, specialmente lombarda, che il Ticino fu

diretto protagonista delle vicende che portarono all’unità

d’Italia. E non sarebbe potuto essere diversamente, visto i

84

legami di vicinanza, amicizia, e parentela che da secoli univano

gli abitati dei due diversi territori.

Il Canton Ticino fu quindi, negli anni della lotta

risorgimentale, una terra 'amica' per gli esuli in fuga dal

Lombardo-Veneto. Soprattutto dopo il fallimento dei moti del

’21, la Svizzera italiana fu un appoggio fondamentale per chi

scappava dalla polizia per mettersi in salvo in Europa. Ma fu

preziosa anche per chi cercava una nicchia più o meno protetta

dove riorganizzare i progetti di insurrezione e continuare con la

propaganda liberale.

Il forte supporto che diedero questi territori ai patrioti

italiani rimase costante fino agli anni ’40. Com’è noto, dopo la

fine disastrosa della campagna del 1848, il Canton Ticino diede

asilo politico a migliaia di fuggiaschi milanesi, la maggior parte

dei quali sarebbero tornati in patria dopo la concessione

dell’amnistia da parte dell’Austria. Ma ci fu anche chi scelse di

rimanere in Svizzera. Carlo Cattaneo, ad esempio, che a Milano

aveva presieduto al comitato di guerra durante le cinque

giornate, al rientro degli austriaci nella città aveva trovato

rifugio a Castagnola, e lì scelse di rimanere fino alla morte.

Nell’agosto del 1848, a Lugano, riparò per qualche tempo anche

Giuseppe Mazzini.

Ma le vicende politiche che legarono il Canton T icino all’Italia

nel periodo del risorgimento si intrecciano anche con un’altra

storia, quella delle tipografie del cantone che per anni portarono

avanti una durissima battaglia contro i governi in difesa della

85

libertà di stampa e di espressione, e in generale del pensiero

liberale, utilizzando le loro risorse per schierarsi contro ogni

forma di repressione anche fuori dai confini nazionali.

TIPOGRAFIE TICINESI E TRADIZIONE LIBERALE

Se è indubbio che il supporto delle tipografie del Canton

Ticino fu indispensabile negli anni cruciali dell’Unità d’Italia, è

pur vero che queste stamperie potevano vantare una lunga

tradizione di battaglie liberali condotte già dalla seconda metà

del ‘700 , a partire dalla fondazione di una delle più note officine

tipografie di queste zone, la Tipografia Agnelli di Lugano.

Era il dicembre del 1745 quando i fratelli Federico, Antonio e

Giambattista Agnelli, appartenenti a una famiglia di stampatori e

librai milanesi attiva da oltre un secolo, avviarono le pratiche

per aprire un’officina a Lugano, chiedendo inoltre il privilegio di

essere per vent’anni gli unici tipografi dei baliaggi svizzeri

ultramontani (ovvero di quel territorio che avrebbe poi preso il

nome di Canton Ticino). I motivi che portarono gli Agnelli ad

aprire a Lugano una succursale della loro attività milanese

erano di natura soprattutto economica. A Milano, come in molte

altre città italiane, l’editoria era sempre più sofferente, e pagava

la sua incapacità di adattarsi ai gusti di un pubblico nuovo e in

crescita. Ma un altro problema non indifferente rallentava gli

affari di chi lavorava in questo settore. La censura costituiva,

infatti, un problema notevole. Ottenere l’autorizzazione alla

86

stampa era lungo e faticoso e prevedeva la doppia approvazione

delle autorità civili e di quelle ecclesiastiche. Inoltre la

complessa situazione politica del nord Italia rendeva difficile e

macchinoso il commercio librario. La Svizzera, dove era

permesso di stampare «qualunque libro, purché non fosse

contra la Suprema Superiorità Elvetica»147, risultava dunque

molto più vantaggiosa.

L’attività dei fratelli Agnelli iniziò ufficialmente nell’estate

del 1746, ma a gestire la tipografia fu soprattutto Giambattista

Agnelli che ne sarebbe divenuto la colonna portante. Già da

subito, inoltre, prese il via il progetto di una gazzetta, le «Nuove

di diverse corti e paesi d’Europa» (meglio conosciuta come

«Gazzetta di Lugano»). L’idea era quella di fornire un giornale

attento non solo alla cronaca locale ma anche, e soprattutto, alla

realtà internazionale, dando conto delle novità in ambito

politico e dei cambiamenti negli equilibri di potere in Europa.

Nei primi due anni la tipografia, pur nel contesto di

un’informazione di qualità, mantenne una condotta

assolutamente prudente. Ma già a fine anni ’50 la gazzetta prese

la strada di un giornalismo più impegnato, facendosi notare per

le sue pubblicazioni fortemente antigesuite. I governi

cominciarono così a fare pressioni sulla stamperia che però,

lontana dal farsi intimorire, continuò a dare sempre più spazio

alle idee liberali che giungevano dagli altri paesi.

147 Citazione tratta da Fabrizio Mena, Stamperie ai margini d’Italia. Editori e librai nella Svizzera italiana 1746-1848, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2003, p. 21.

87

Il 3 aprile del 1788 , la stamperia subì uno scossone. Venne a

mancare, infatti, Giambattista Agnelli e la sua scomparsa portò

ad un’aspra contesa interna alla famiglia a causa del testamento

che destinava al nipote, Giambattista junior (figlio di Federico),

«tutto il negozio di stamperia, libri, carta, mobili, attrezzi,

crediti, ragioni, ed azioni, ed ogni altra cosa esistente nel

predetto negozio di Lugano niente eccettuato»148. La tipografia

passò quindi sotto la guida del nipote di Agnelli, mentre la

direzione delle «Nuove» venne affidata all’abate Giuseppe

Vanelli, che collaborava con la stamperia già da diverso tempo.

L’impegno dei due si concentrò soprattutto sulla gazzetta,

specie in occasione dei fatti sempre più eclatanti che

interessavano la Francia. Le «Nuove» cominciarono a dare

larghissimo spazio, infatti, alle notizie della Rivoluzione

francese, suscitando la disapprovazione dei governi europei. La

gazzetta era difficilmente attaccabile dal momento che i curatori

si guardavano bene dall’esprimere palesemente i propri giudizi

sui fatti. Si preferiva mantenere una condotta molto più

ambigua, dando voce ai documenti ufficiali (citati tra virgolette)

o agli articoli della stampa estera. Tuttavia la scelta dei brani,

specie quelli più crudi degli anni del Terrore, diede al giornale la

fama di rivista sovversiva. Il governo austriaco si impegnò

fortemente a impedirne la circolazione nei propri territori ma,

pur osteggiate e sequestrate in diverse occasioni, le «Nuove»

erano di fatto diventate il foglio più letto di tutta l’alta Italia.

148 Citazione tratta da F. Mena, Stamperie ai margini d’Italia cit., p. 74.

88

La fine della tipografia Agnelli arrivò il 29 aprile del 1799 . Nel

frattempo l’assetto politico dell’Europa era molto cambiato.

Come si è visto, la Francia napoleonica aveva esteso il proprio

controllo anche alla Svizzera, dando origine alla Repubblica

Elvetica. In questo periodo la stamperia Agnelli continuò a

dimostrarsi filofrancese, contribuendo con il proprio giornale

alla mitizzazione di Napoleone come difensore della libertà e

della giustizia, schierandosi duramente contro i contadini delle

periferie che sovente insorgevano contro gli invasori. Nel ’99,

però, il Ticino visse una sommossa più violenta delle precedenti,

la 'controrivoluzione' di Lugano, durante la quale la stamperia,

accusata di essere dalla parte dei nemici, venne brutalmente

saccheggiata dalla folla scalmanata. Negli scontri, Giambattista

Agnelli riuscì a fuggire, rimase invece ucciso Giuseppe Vanelli,

giustiziato come giacobino e traditore sotto l’Albero della

Libertà.

Dalle ceneri della tipografia Agnelli nacque la tipografia

Rossi. Pietro Rossi era stato uno dei principali responsabili del

sollevamento del ’99; un libello anonimo sui fatti di quell’anno

lo definiva «il più favorito amico degli austriaci», «il prezzolato

dell’Inghilterra»149. Rossi si legò a due soci, Pietro Casnati e il

tipografo e libraio milanese Luigi Veladini. La stamperia

condusse la propria attività manifestando un’evidente militanza

antinapoleonica e antifrancese che costò la soppressione del suo

149 Citazioni tratte da F. Mena, Stamperie ai margini d’Italia cit., p. 109.

89

giornale, il «Telegrafo delle Alpi», e l’allontanamento dal

cantone di Pietro Rossi.

Alla tipografia si aggiunse nel 1801 Francesco Veladini,

fratello cadetto di Luigi che rilevò la stamperia a suo nome nel

1805.

Sotto la rinnovata ragione sociale di Tipografia Veladini prese

a uscire un nuovo periodico, in sostituzione del «Telegrafo».

Nell’intenzione di Veladini doveva chiamarsi «Gazzetta

Svizzera», ma gli venne concessa l’autorizzazione solo per un

nome più modesto, «Corriere del Ceresio». Questo giornale,

anche per la delicatissima situazione politica di quegli anni (il

sempre più evidente indebolimento della Francia napoleonica,

l’avanzata austriaca e l’instabile governo del cantone) mantenne

una condotta estremamente prudente, e nonostante ciò subì

comunque intimidazioni e pressioni da parte del governo. Della

scarsa autonomia del giornale si accorsero anche i lettori,

sempre meno interessati a rinnovarne l’abbonamento. Il

periodico finì così per virare su notizie più strettamente legate

alla Confederazione: decreti ufficiali e cronaca locale.

La svolta arrivò nel 1814. La caduta di Napoleone divenne

ufficiale e ne gioì tutto il Canton Ticino. Così, Veladini chiese

l’autorizzazione a ridare al suo giornale il glorioso nome del

periodico degli Agnelli, «Gazzetta di Lugano», e la richiesta fu

accolta. La direzione del giornale venne affidata a Giuseppe

Vanelli (nipote dell’abate ucciso nel 1799). La rivista, e in

generale la tipografia, visto l’ottimismo che si respirava a

90

seguito della ritirata francese, tornò allo spirito liberale che

aveva contraddistinto le esperienze precedenti. Il governo

austriaco, però, non tardò a mostrare al Canton Ticino che la

libertà di stampa e di opinione sarebbero rimaste un’utopia, e

che la caduta di Napoleone aveva significato niente più che un

diverso equilibrio di poteri in Europa. La tipografia tornò quindi

a doversi difendere da minacce e sequestri. Alla «Gazzetta di

Lugano» fu impedita la distribuzione nel Lombardo-Veneto e

certo non aiutò, nel 1818, la nomina a governatore di Milano di

Giulio Strassoldo, determinatissimo a combattere la stampa

sovversiva con ogni mezzo.

Dal 1820, inoltre, i rapporti con l’Austria peggiorarono

seriamente. Il giornale aveva dato, infatti, ampiamente s pazio

alle notizie circa la rivoluzione di Spagna, e ancora di più a

quelle sull’insurrezione di Napoli, facendo scopertamente

stampa di propaganda, dando spazio agli articoli delle testate

più accanite ed esaltando la libertà. È a questo punto che Vienna,

scavalcato il governo ticinese ritenuto inaffidabile, fece in modo

di sopprimere definitivamente la gazzetta. Morto il giornale,

veniva a mancare una fonte d’informazione importante per tutto

il Lombardo-Veneto, tanto che alla notizia della soppressione in

molti accorsero, soprattutto da Como, per assicurarsi gli ultimi

numeri della rivista. Il cantone restava, tra l’altro, sprovvisto del

suo principale mezzo per le comunicazioni ufficiali ai cittadini

italiani che avevano affari nel Ticino.

91

In tutto questo Giuseppe Vanelli, in seguito a problemi

giudiziari (pare fosse stato coinvolto in una lite, ma l’episodio

non è chiaro), era scappato in Piemonte, e aveva lasciato la

direzione della rivista, prima della soppressione, a Pietro Peri e

al giurista Antonio Albrizzi. Proprio in una lettera a questi due,

Vanelli parlò eccitato di grandi novità dal Piemonte, alludendo

certamente all’imminente sollevazione del ‘21, nella quale

sperava con tutto il cuore, e che avrebbe raccolto ben presto

anche l’entusiasmo di tutto il Canton Ticino. Scrive Martinola:

«Scoppiata poi nel marzo del ’21 la rivoluzione anche in Piemonte, il

Governo ticinese conobbe momenti di autentica paura nel timore che la

rivoluzione, guadagnando la Lombardia e lambendo il Ticino, animasse

a passare ai fatti quei liberali luganesi che, avendo dovuto subire una

Costituzione non voluta, avevano dato ripetuti segni di volersene

liberare tanto che fin dal novembre dell’anno prima, rinnovandosi i

poteri cantonali, avevano tentato, benché poi soccombenti, di rovesciare

il Governo con chi lo guidava e liberalizzare il paese come promettevano

di fare con scritte elettrizzanti, quali Costituzione o Morte, apparse nei

caffè e sulle cantonate. Non erano dunque sospetti gratuiti e paure

esagerate, come parve poi alla Confederazione, se a cose passate risultò

svelato un preciso piano rivoluzionario che prevedeva di impadronirsi

dell’arsenale, armare i braccianti che lavoravano allo stradale del S.

Bernardino e, liberato il paese dal regime austriacante, appoggiare la

rivoluzione nell’alta Italia alla quale, si legge scritto, il Ticino si sarebbe

92

aggregato. Ma col fallimento della rivoluzione piemontese il piano

rientrò»150.

A seguito della soppressione del giornale, Veladini andò

incontro a serissimi problemi economici che lo costrinsero a

chiedere aiuto al governo e ad impegnarsi in una condotta

assolutamente irreprensibile, come effettivamente sarà da

questo momento in poi. La tipografia Veladini durò fino al 1925.

Giuseppe Vanelli, invece, tornato nel Ticino, avviò un

progetto tutto suo. Il 7 gennaio del 1823 , infatti, mandò avanti le

pratiche per l’apertura di una nuova tipografia, questa volta

sotto la ragione sociale Ditta Giuseppe Vanelli &Comp..

La tipografia aveva come soci fondatori oltre a Vanelli, Pietro

Peri, Antonio Airoldi e Giuseppe Ruggia. Si trattava di quattro

figure piuttosto attive e conosciute nel Canton Ticino.

Pietro Peri, giornalista e letterato, apparteneva alla piccola

nobiltà luganese ed aveva già collaborato con Vanelli nella

precedente tipografia. Antonio Airoldi veniva, invece, dalla

borghesia mercantile ed era un convinto liberale che all’epoca

della fondazione della ditta tipografica aveva già avuto i suoi

guai con il governo austriaco. Martinola lo descrive come un

«'fanatico' nel libro nero dell’Austria che ancora nel ’32 gli

negava l’ingresso in Lombardia»151.

Giuseppe Ruggia, invece, nato a Lugano il 22 giugno 1782 , era

l’unico che proveniva, in verità, da un ambiente molto diverso

150 Giuseppe Martinola, Un editore luganese del risorgimento. Giuseppe Ruggia, Fondazione Ticino Nostro, Lugano, 1985, p. 20. 151 Ivi, p. 17.

93

da quello editoriale. Aveva ereditato dal padre la professione di

farmacista, e in poco tempo era diventato un chimico conosciu to

ed apprezzato. Esperto di veleni, veniva spesso assunto come

perito nelle cause di veneficio. Quella più importante vide come

protagonista, nel 1827, nientemeno che il landamano Giovanni

Battista Quadri, vittima di un intrigo ordito ai suoi danni. Gli

erano stati offerti, infatti, da parte di un’ignara popolana, tre

volatili imbottiti di arsenico. Ne derivò un clamoroso processo

nel quale Ruggia ebbe il compito di ispezionare la prova del

delitto.

Ad ogni modo, Giuseppe Vanelli, non ebbe il tempo di vede re

molto della sua nuova attività. Affetto da idropisia, morì nel

marzo del 1824, appena un anno dopo l’apertura dell’officina. La

società continuò con la medesima ragione sociale fino al ’27 e

nel frattempo le azioni di Vanelli vennero rilevate da Frances co

Romagnoli, noto liberale che, insieme al fratello, aveva preso

parte ai moti del ’21 ed era stato condannato a vent’anni di

carcere. Romagnoli, fuggito in tempo, aveva trovato riparo a

Roveredo e in seguito si era trasferito a Lugano. Nella tipografia

di Vanelli, e poi in quella di Ruggia, ebbe sostanzialmente

mansioni amministrative, ma dovette guardarsi più volte dal

governo austriaco che ne chiedeva costantemente

l’allontanamento dal Canton Ticino. Ad ogni modo, restò a

Lugano fino al 1830, quando accetto di passare alla Tipografia

Elvetica di Capolago della quale divenne direttore nel 1847.

94

La sua guida diede una svolta politica alla stamperia,

trasformandola in un punto di riferimento fondamentale per i

rivoluzionari italiani. Fra coloro che facevano capo alla

tipografia vi erano, tra gli altri, Cesare Balbo, Francesco

Guerrazzi, Vincenzo Gioberti, Francesco Dall'Ongaro, Giuseppe

La Farina, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Carlo Rusconi e

Niccolò Tommaseo. I loro testi venivano stampati e introdotti

clandestinamente in Italia soprattutto ad opera di Luigi

Dottesio, patriota di idee mazziniane, che proprio per questo

motivo venne arrestato il 12 gennaio 1851 e impiccato a Venezia

l’11 ottobre dello stesso anno. La sua morte si andò ad

aggiungere alle schiaccianti pressioni politiche e alle difficoltà

finanziarie che determinarono la chiusura della tipografia nel

marzo del 1853. Ma i tempi ormai erano maturi e da lì a un

decennio l’Italia avrebbe trovato davvero la strada per

quell’indipendenza nella quale avevano tanto creduto, e per la

quale si erano tanto spesi, anche i patrioti della Svizzera

italiana.

LA MILITANZA POLITICA E CULTURALE DI GIUSEPPE RUGGIA

La tipografia di Giuseppe Vanelli si sciolse ufficialmente il 14

maggio 1827, quando Giuseppe Ruggia chiese ai soci di poterla

rilevare a suo nome. Veniva così a costituirsi, il 13 giugno dello

stesso anno, una nuova attività sotto la ragione sociale Ditta

Giuseppe Ruggia e Comp..

95

La società era composta, come prima, da Giuseppe Ruggia,

Pietro Peri e Antonio Airoldi, ai quali si era aggiunto, però, un

nuovo membro, Giacomo Ciani, esule lombardo che, come si e

detto, aveva preso parte ai moti del ’21 trovando poi rifugio nel

Canton Ticino. Francesco Romagnoli, invece, non più socio,

rimase nella tipografia come dipendente solo per i primi anni,

per poi passare, come si è visto, all’Elvetica di Capolago. Il

marchese Giuseppe Arconati provvide di suo a due torchi e

continuò, nei momenti di difficoltà, a sostenere generosamente

l’attività.

La sede della tipografia cambiò tre volte. Da via Canova n. 105

si sposto , infatti, nel settembre del 1829, nella contrada di Verla

al n. 186 e infine, nel ’33, nella Villa Farina, proprieta della

famiglia Ciani. Giuseppe Ruggia, invece, abitò sempre in via

Canova.

A un anno di distanza dall’apertura della tipografia vennero

aperte anche una cartoleria e una libreria. La cartoleria forniva

tutto l’occorrente per la corrispondenza (carta, penna, calamaio

etc…), mentre la libreria si dedicava, almeno inizialmente, a libri

scolastici, storici o letterari. Non passò molto, comunque, che la

tipografia prese la piega più marcatamente liberale che era nel

suo destino. Inoltre si avviò il progetto di un giornale, il

«Corriere Svizzero», che sarebbe divenuto il diretto concorrent e

della «Gazzetta» di Veladini.

Il «Corriere Svizzero» vide la luce per la prima volta

nell’aprile del 1823. Vi lavorava un numeroso gruppo di

96

intellettuali liberali: Stefano Franscini (esponente di spicco del

Partito Liberale Radicale ticinese), Giacomo Luvini-Perseghini e

Bernardo Vanoni (intellettuali e politici di Lugano), l’avvocato

Giovanni Battista Riva («ricco liberale e fanatico esaltato» 152) e

talvolta anche l’avvocato Giovanni Battista Monti (Consigliere di

Stato). Consulente, correttore di bozze e traduttore era invece il

profugo vicentino Vincenzo Pagani, ma non di rado Ruggia si

avvaleva anche del supporto dei due esuli piemontesi Carlo

Modesto Massa e Francesco Bonardi (il quale, sempre in

contatto con Parigi, favoriva il contrabbando delle opere

stampate in Francia).

La linea editoriale del giornale è facilmente intuibile:

«Pur attenendosi a una linea controllata, nella dosatura, nel taglio

delle notizie, nella scelta delle gazzette dalle quali attingeva, il Corriere

lasciava trasparire a un lettore perspicace da quale parte stava, di quali

fermenti brulicassero le sue colonne. Seguiva con trasparente simpatia

la causa spagnola, biografava volentieri i capi del libe ralismo, salutava

la liberazione della Bolivia, esaltava la costituzione liberale largita da

don Pedro al Portogallo, dava sempre più spazio agli accesi dibattiti

della Camera francese sotto i due Borboni della Restaurazione» 153.

Con il ’29 e l’aumento delle pressioni da parte delle autorità,

il giornale si fece ancor più agguerrito, tanto che si arrivò a

concludere l’esperienza del «Corriere» per iniziarne una nuova,

e più dichiaratamente battagliera, con «L’Osservatore del

Ceresio».

152 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 25. 153 Ivi, p. 26.

97

«L’Osservatore», nato il 2 gennaio 1830, aggiunse nel ’33 il

sottotitolo di Giornale politico, di scienze, arti e commercio e nel

’34 quello di Giornale repubblicano federale . Negli anni il

periodico si schierò duramente contro ogni restrizione della

libertà di stampa, ed ebbe sempre un’attenzione particolare per

la causa italiana. Della rivoluzione del ’31 negli Stati della

Chiesa, scriveva: «Gli Italiani soccombono un’altra volta,

soccombono senza gloria, soccombono col crudele

presentimento di riportar biasimo e taccia di fiacchezza e

vigliaccheria»154. Le pubblicazioni durarono fino al dicembre del

1834.

Altro giornale uscito dalla tipografia di Giuseppe Ruggia fu il

«Repubblicano della Svizzera italiana», che vide la luce il 20

gennaio del 1835. Fino al ’42 fu stampato dalla tipografia Ruggia,

in seguito dalla Tipografia della Svizzera Italiana, cessando

definitivamente nel ‘79.

Il giornale portava in epigrafe la massima: «Tre cose siano

poste a salvare la Repubblica: la costituzione delle leggi, la virtù

dei magistrati, le accuse dei vizj»155. E il manifesto di lancio

chiariva che il periodico era destinato a tutto il Canton Ticino e

ai «buoni vicini delle italiane vallate della Rezia» 156. Anche

questo giornale, dunque, confermava la linea seguita dai

precedenti, dando notizia della cronaca del Ticino ma sempre

154 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 149. 155 Ivi, p. 193. 156 Ibidem.

98

guardando con attenzione all’Italia. A proposito di questo, scrive

Martinola:

«Il giornale […] ospitò corrispondenze sulle operazioni poliziesche

in Lombardia e nello Stato pontificio, denunciò ripetutamente lo

spionaggio austriaco nel Ticino, confutò le ricorrenti proteste del

Governo di Milano, difese, quand’era necessario, i profughi colpiti: nel

luglio del ’35, per esempio, difendeva Francesco Antonio Piazzoli,

nell’ottobre insorgeva contro il negato permesso di soggiorno al

principe di Belgioioso che ogni anno soleva passare un mese a Lugano,

nel febbraio del ’37 difese strenuamente il dott. Carlo Rezia di Porlezza,

benemerito verso i poveri infermi, di cui Milano chiedeva

imperiosamente l’espulsione: e così di seguito»157.

Ad ogni modo non fu solo l’attività tipografica legata ai

giornali a regalare la fama di pericoloso sovversivo a Giuseppe

Ruggia. Le scelte editoriali fatte dalla tipografia negli anni

mostrano chiaramente per quale motivo l’attività dello

stampatore non potesse che impensierire le autorità. Oltre alla

stampa di libri scientifici di chimica e di botanica (legati

soprattutto ad interessi personali di Ruggia), la tipografia si

occupò naturalmente anche di letteratura e saggistica, dando

per lo più spazio ad autori importanti ma anche, all’occorrenza,

a opere di modesto valore (libretti di vario intrattenimento e

romanzi brevi tradotti dall’inglese o dal tedesco). Nei titoli e

negli autori pubblicati, però, è sempre evidente il fortissimo

intento di militanza politica e culturale di Giuseppe Ruggia. Nel

1827, ad esempio, uscirono dalla tipografia di Lugano alcune 157 G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., pp. 194-95.

99

ristampe delle tragedie di Giovanni Battista Niccolini, come noto

inneggianti alla libertà e all’indipendenza italiana. Nel periodo

tra il ’28 e il ’32 , invece, la tipografia si impegnò in traduzioni di

saggi politici (provenienti dalla Francia e dall’Italia) che

diffondevano le dottrine del liberalismo o del socialismo

cosiddetto utopistico.

Tra gli autori pubblicati ricorrono naturalmente numerosi

patrioti ed esuli italiani. Nel ’29, ad esempio, dopo essersi

rivolto a Giuseppe Ruggia su consiglio di Vieusseux, il livornese

Enrico Mayer poté stampare a Lugano il suo volumetto dal titolo

Il pianto d’Italia e il Nome di Patria , opera in versi nella quale

l’autore compiangeva l’Italia in ginocchio, elogiando i nomi

illustri dei compatrioti condannati a morire in carcere o sotto

cieli stranieri.

Altro autore pubblicato da Ruggia fu il pesarese Terenzio

Mamiani, politico legato a Cavour, arrestato nel giugno d el ’31

per aver cercato di dar vita ai moti insurrezionali in Romagna e

in Toscana. Mamiani aveva affidato nel ’30 un manoscritto a suo

cugino perché fosse mandato a Lugano, e qui il volume era

uscito a stampa col titolo Rime volgari di Arnaldo . Nel corso del

processo a suo carico gli venne chiesto perché avesse fatto

stampare proprio a Lugano le sue poesie. Mamiani rispose che

«essendo sparse di pensieri liberali non si sarebbero potute fare

imprimere negli Stati Pontifici»158. Confermando, quindi, la

preoccupazione degli inquirenti che numerosi volumi proibiti

158 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 102.

100

venissero stampati nel Ticino e fatti entrare di contrabbando

non solo nel Lombardo-Veneto ma in tutta Italia.

Celebre patriota italiano in contatto con Lugano era anche

Tullio Dandolo, padre dei noti sovversivi Emilio ed Enrico

Dandolo, protagonisti delle cinque giornate di Milano. Tullio

Dandolo non era ricercato dalla polizia ma avendo nascosto

nella sua tenuta diversi insorti dei moti del ’21, era tenuto sotto

stretta sorveglianza dalle autorità austriache, tanto da decidere

di affidare a Ruggia, e non alle tipografie di Varese, la stampa di

un volumetto tutto sommato innocuo, Una state a Varese e suoi

dintorni. Lettere ad Erminia (che uscì nel ’25 a Lugano, per

giunta in forma anonima).

Attorno al ’24 Giuseppe Ruggia ebbe modo di conoscere un

altro noto patriota italiano, grande amico di Berchet e a sua

volta disperso in esilio, Camillo Ugoni. Il bresciano trovò subito

una grande intesa con il tipografo luganese, lavorando per lui

alla traduzione degli scritti inglesi di Foscolo su Petrarca 159 e poi

a quella delle prose critiche di Goethe su Manzoni 160. Entrambe

uscirono in forma anonima dal momento che l’autore non volle

azzardarsi a far comparire sul frontespizio neppure le sue

iniziali, come avrebbe invece preferito lo stampatore.

Giuseppe Pecchio, invece, entrò in contatto con Giuseppe

Ruggia, forse per tramite di Ciani, attorno al 1824, e fu l’inizio di

159 Ugo Foscolo, Saggi sopra il Petrarca, [traduzione di Camillo Ugoni], Vanelli e comp., Lugano, 1824. 160 Johann Wolfgang Goethe, Interesse di Goethe per Manzoni, [traduzione di Camillo Ugoni], Ruggia e comp., Lugano, 1827.

101

una lunga e felice collaborazione. Pecchio, tra l’altro, non chiese

mai alcun compenso all’editore al quale mandava i propri

manoscritti sempre in regalo. Ruggia diede alle stampe dieci sue

opere, ed ebbero tutte un notevole successo. Si trattava

naturalmente di pubblicazioni dal contenuto fortemente inviso

al governo. Nel 1826, ad esempio, usciva il saggio Un’elezione di

membri del Parlamento in Inghilterra 161, volume scritto, a detta

dell’autore, per mostrare all’Italia cosa fosse la libertà. Ancor

più compromettente era certamente, nel ’27, L’anno mille

ottocento ventisei dell’Inghilterra162, che dava libero sfogo

all’odio anti austriaco in più di un passo. L’Austria era definita

«un corpo opaco che non dà né riceve luce»163. Scriveva Pecchio:

«Che importa al ben essere del genere umano, ai progressi, al

perfezionamento della mente umana la lunga vita di quegli imperi che

non hanno conferito alcun bene alla società? Che desiderio, che dolori

lascerebbe dietro di sé l’Austria, per esempio, se scomparisse fra i

governi europei? Essa, in oggi più che mai, si è fatta il dragone de gli orti

esperidi, che non permette che si colgano i pomi d’oro, e con lo stolido

intento d’arrestare la marcia dell’Europa, sacrifica due nazioni,

l’italiana e l’ungarese, nate per brillare sul teatro del mondo»164.

Sempre di Pecchio (ma in forma anonima), con il falso luogo

di Filadelfia, e la falsa indicazione tipografica 'per Androfilo

161 Giuseppe Pecchio, Un'elezione di membri del Parlamento in Inghilterra, Vanelli e comp., Lugano, 1826. 162 Giuseppe Pecchio, L'anno mille ottocento ventisei dell'Inghilterra, Vanelli e comp., Lugano, 1827. 163 G. Pecchio, L’anno mille ottocento venti sei cit., citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 81. 164 Ibidem.

102

Filoteo', usciva nel ‘30 un’altra opera dal contenuto fortemente

sovversivo. Riprendendo lo spirito del ’21, si invitavano tutti gli

italiani a tenersi pronti a insorgere contro l’Austria e a cacciarla

via per sempre. L’appello all’intera nazione era insito nel titolo,

fortemente provocatorio: Catechismo italiano ad uso delle scuole,

dei caffè, delle botteghe, taverne, bettole e bettolini ed anche del

casino dei nobili e semminarj. Con approvazione e licenza del

senso comune165.

Altro celebre esule italiano legato a Ruggia fu il conte

Giovanni Arrivabene. La presentazione tra i due avvenne

probabilmente per tramite dei coniugi Arconati che di Ruggia

erano intimi amici e si recavano spesso a trovarlo, non

mancando di sostenere la tipografia nei momenti di difficoltà.

Persino nel quieto isolamento di Gaasbeek i legami tra i coniugi

e Lugano non si interruppero mai. Gli Arconati, infatti, sentivano

regolarmente l’amico Ruggia, affidando a lui anche la loro

corrispondenza per gli amici e i parenti di Milano, confidando

nei suoi mezzi per farla arrivare di contrabbando a destinazione.

Ruggia raccoglieva anche le lettere che la madre di Costanza,

Antonietta, gli inviava, perché arrivassero in Belgio.

Per Ruggia, Arrivabene mise a disposizione le sue conoscenze

di economia e sociologia, dando anche conto delle novità

apprese negli anni di Londra, passati a contatto con personalità

come James Mill. Per questo motivo il conte può essere

165 [Giuseppe Pecchio], Catechismo italiano ad uso delle scuole, dei caffè, delle botteghe, taverne, bettole e bettolini ed anche del casino dei nobili e semminarj. Con approvazione e licenza del senso comune, [Ruggia e comp.], Filadelfia, 1830.

103

considerato uno dei pionieri, in Italia, del liberismo della scuola

britannica.

Nel ’33, battendo sul tempo l’Elvetica di Capolago, la

tipografia Ruggia diede alle stampe le Addizioni di Maroncelli in

un’edizione delle Mie prigioni di Pellico166. E nello stesso anno

fece uscire anche una ristampa dei Ragionamenti167 di Cesare

Cantù con l’aggiunta di un capitolo dedicato all’Innominato. Il

testo, un accurato commento ai Promessi Sposi di Alessandro

Manzoni, lasciava trasparire la fortissima insofferenza per il

dominio austriaco nel Lombardo-Veneto, tanto che l’inquisitore

Zaiotti, a proposito dell’opera, osservò: «Cantù fa due passi

verso la gloria, tre verso la galera»168.

Attorno al 1829, inoltre, parte di quel gruppo di esuli che era

solito intrattenere rapporti con la tipografia di Lugano, propose

a Giuseppe Ruggia il progetto di una rivista (mai realizzata) che

avrebbe avuto il nome di «Rivista Italiana»169. Il progetto era

stato ideato da Giacomo Ciani che aveva poi coinvolto, in qual ità

di collaboratori, Giuseppe Pecchio, Giovanni Arrivabene, Camillo

Ugoni e Giuseppe Arconati. Direttore della rivista sarebbe stato

Pellegrino Rossi e vicedirettore Giovita Scalvini (che in quel

periodo si trovava a Parigi). Inoltre Victor Cousin, interp ellato

di persona da Scalvini, diede la sua disponibilità a scrivere

166 Silvio Pellico, Le mie prigioni colle addizioni di Piero Maroncelli, Ruggia e comp., Lugano, 1833. 167 Cesare Cantù, Sulla storia lombarda del secolo XVII. Ragionamenti per commento ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, Ruggia e comp., Lugano, 1833. 168 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 190. 169 Si veda a tal proposito Laura Sala Quaranta, «Rivista italiana». Storia di una rivista risorgimentale mai pubblicata, in «Bollettino storico della Svizzera italiana», volume LXXIII, 1961.

104

l’articolo di lancio. Come si è detto, il progetto non andò a buon

fine, anche se uscirono comunque per i tipi di Ruggia alcuni

articoli preparati per la rivista (come il saggio di Giovit a Scalvini

sui Promessi Sposi170).

Ma il più celebre dei rivoluzionari con il quale entrò in

contatto Giuseppe Ruggia fu certamente Giuseppe Mazzini. I

rapporti tra i due cominciarono attorno al ’32 e durarono nel

tempo. Oltre a proposte di edizioni, co-edizioni e riviste (per lo

più rimaste irrealizzate), tra i due ci fu soprattutto unità

d’intenti. Mazzini si fidava ciecamente di Ruggia tanto da

contare su di lui per far entrare di contrabbando in Italia

opuscoli di propaganda o materiali di altro genere. A ttorno al

’33, ad esempio, aveva consigliato al carbonaro Gaspare Rosales

di servirsi di Ruggia per far giungere a destinazione un

messaggio scritto con inchiostro simpatico sui margini «di un

libro innocuo, di un giornale servile»171.

Del resto Giuseppe Ruggia non era noto solo per la

produzione di stampa propagandistica, ma anche per praticare

regolarmente il contrabbando approfittando di una linea di

confine molto estesa e difficilmente controllabile. Lo praticava

per vari canali, sfruttando i boschi, le strade montane o le vie

d’acque. E poteva, naturalmente, contare anche su diversi

complici: dalla parte di Locarno, ad esempio, il rifugiato

piemontese Pietro Olivero, e dalla parte di Ponte Tresa i fratelli

170 Si veda p. 66. 171 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 176.

105

Giovanni, Giuseppe e Antonio Stoppani. Il contrabbando era di

vario genere. Naturalmente, come si è visto, il tipografo si

premurava soprattutto di far entrare in Italia le proprie

edizioni, o quelle in generale utili alla causa, camuffate spesso

con copertine e frontespizi falsi. Ma si occupava anche di

trasmettere la corrispondenza degli amici esuli (secondo alcuni

aneddoti, nascosta nei pesci sventrati e poi ricuciti). In qualche

caso pare avesse fatto entrare in Italia anche delle armi,

utilizzando dei tronchi d’albero svuotati, affidati ai corsi

d’acqua.

Ad ogni modo, la condotta del tutto spregiudicata di Giuseppe

Ruggia non passò inosservata agli occhi delle autorità del

Canton Ticino che, regolarmente incalzate dal governo austriaco,

cercarono di mettere più di una volta un freno alla

sfacciataggine del tipografo luganese. Una significativa

occasione di scontro avvenne, nel 1826, con la pubblicazione di

alcune poesie inedite di Carlo Porta, Raccolta di poesie inedite in

dialetto milanese coll’aggiunta della Prineide e di alcune altre

anonime172. L’edizione era stata realizzata probabilmente grazie

all’aiuto di Teresa Kramer Berra, cugina di Pietro Peri. Figlia di

un celebre avvocato milanese e moglie dell’industriale Carlo

Kramer (grande amico di Tommaso Grossi), Teresa Kramer

Berra era una convinta rivoluzionaria che si era adoperata per i

moti del ’21, trasferendosi poi in Europa. Doveva esser stata lei

172 Carlo Porta, Raccolta di poesie inedite in dialetto milanese coll'aggiunta della Prineide e di alcune altre anonime, s.n., Italia [Lugano], 1826.

106

a consegnare le poesie inedite (ricevute forse da Grossi) al

cugino perché venisse allestita l’edizione (come si evince da una

sua lettera a quest’ultimo, intercettata dalla polizia austriaca:

«Come andò l’affare delle poesie? Non ne so più nulla»173).

Questa edizione, a detta del governatore della Lombardia

Strassoldo, conteneva poesie offensive verso il buon costume e

ingiuriose verso l’Austria, e si chiedeva al governo del Cantone

di intervenire in qualche modo nel contenere la condotta delle

tipografia di Ruggia. Strassoldo trovò dalla sua parte Giovan

Battista Quadri che nel medesimo anno ammetteva fossero state

stampate anche «altre dispregevoli operette di simile

materia»174, alludendo certamente ad alcune opere di Pecchio, e

forse anche alle raccolte poetiche di Berchet, stampate da

Ruggia, con il falso luogo di stampa di Londra, proprio in questo

periodo.

Ad ogni modo Quadri riteneva che l’Austria dovesse esser

messa nelle condizioni di fidarsi del Canton Ticino che fino ad

ora si era mostrato uno stato di dubbia fama per il diritto d’asilo

concesso a numerosissimi esuli del Lombardo-Veneto, e per una

stampa ostinatamente liberale al limite del sovversivo. Così,

deciso a voler mantenere ottimi rapporti con Milano, provò in

tutti i modi a far approvare misure di censura preventiva sulla

stampa e intraprese una vera e propria guerra contro la

tipografia di Ruggia. La stamperia venne regolarmente

173 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 51. 174 Ivi, p. 52.

107

perquisita, multata e minacciata, tanto che il tipografo intentò

una causa per dimostrare di essere costantemente vittima di

soprusi. Il processo finì in un nulla di fatto, e i tentativi di

mettere un freno alla stampa da parte di Quadri continuarono.

La tipografia Ruggia, comunque, non rimase inerte. Il 19 giugno

del 1827, proprio mentre veniva richiesto al parlamento di

decidere a favore della censura preventiva, la stamperia

produsse in tutta fretta svariati esemplari di un opuscolo,

Osservazioni sul progetto di legge sottoposto al gran consiglio ,

che venne poi distribuito ai deputati che si apprestavano a

votare. La «Gazzetta Ticinese» di Veladini, invece, si asteneva

dal prendere posizioni scomode, vantandosi, anzi, di andare «in

cerca di fatti e non di opinioni»175.

Con la tipografia di Veladini tornò a scontrarsi più volte

Giuseppe Ruggia, dando, con le sue parole, un chiaro profilo del

suo modo di intendere l’attività tipografica:

«Limitatevi, Signor Veladini, a pubblicare Taccuini, Calendari,

Breviarj, annuarj, catechismi ecc. È questa la vostra missione […]. È

questo il vostro esercizio d’un arte libera che non sapeste nemmeno

difendere quando fu in pericolo di essere annientata» 176.

«Se la nostra tipografia non conta trentasei anni di esistenza come la

vostra, ha l’onore di dirvi che, indipendente da ogni estranea influenza,

ha nei suoi quindici anni percorso una carriera onorevole; e che

dedicata unicamente al progresso della civiltà , ha essa solo dato a luce

in uno o due anni più opere degne della pubblica stima che non ne

175 Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 63. 176 Ibidem.

108

stampaste voi in trentasei; e potremmo anche dirvi che quando la

tipografia nostra si è adoperata a difendere e a sostenere la libertà

repubblicana, altrettanto voi, più lombardi che svizzeri, vi siete

adoperati in senso contrario»177.

Attorno al 1837, però, la tipografia cominciò ad entrare

seriamente in crisi. La situazione economica della società

permise alla stamperia di tirare avanti solo per pochi anni.

Giuseppe Ruggia morì il 29 luglio 1839, lasciando tutto al

fratello Pietro; nel suo testamento si firmò «farmacista e

tipografo». Pietro mandò avanti la stamperia fino al 1842,

quando la società si sciolse definitivamente per essere rilevata,

nel ’51, da Giacomo Ciani, mutando la ragione sociale in

Tipografia della Svizzera Italiana.

Giuseppe Ruggia fu insomma uno dei principali punti di

riferimento per i patrioti italiani negli anni del risorgimento.

Qualche anno prima della morte del tipografo, Filippo Ugoni,

parlando di lui in una lettera a Sismondi, lasciava trasparire

tutta la stima, e allo stesso tempo l’affetto, che aveva suscitato

in molti lo stampatore luganese, dando un ritratto chiaro della

fama che si era costruito nel tempo Giuseppe Ruggia:

«L'amico Ruggia merita tutto dagli affezionati alla causa nostra. La

sua stamperia in Lugano è una batteria formidabile contro i nostri

nemici. […] Davvero, […] egli s'è meritato lo Spielberg le mille volte; e

spesso gli oscuranti di questo cantone e gli oscuranti ssimi di Milano lo

177 Sul «Repubblicano» del 18 giugno 1836. Citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 65.

109

hanno fatto soffrire molto anche nella borsa; egli protegge qui i liberali

d'Italia non solo come stampatore, ma in ogni modo che può» 178.

LA SECONDA EDIZIONE DELLE FANTASIE

Sul finire degli anni ‘20, il nome di Giovanni Berchet non

suonava certo nuovo a Lugano, specie tra le persone legate

all’attività di Giuseppe Ruggia. Noto per aver preso parte ai moti

del ’21 che ne avevano causato l’esilio, la sua produzione poetica

londinese, imbevuta di spirito risorgimentale, non era certo

passata inosservata da quelle parti. Qui, del resto, circolavano

figure vicinissime al poeta. Come si è visto, Giovanni Arrivabene

e Giovita Scalvini avevano avuto modo di lavorare in diverse

occasioni con la tipografia di Giuseppe Ruggia. E i coniugi

Arconati, amici di lunga data, nonché finanziatori dello

stampatore, si tenevano costantemente in contatto con lui,

concedendosi numerose visite a Lugano. Altro amico comune di

Berchet e Ruggia era naturalmente Giacomo Ciani, socio della

ditta tipografica, che regolarmente portava a Lugano le novità

editoriali nelle quali si imbatteva durante i frequenti soggiorni a

Parigi (dove aveva modo di rivedere, o di avere notizie, degli

amici dispersi in esilio). E, in verità, altra figura che legava

Giovanni Berchet alla tipografia di Ruggia era anche l’amica del

poeta, Teresa Kramer Berra, cugina di Pietro Peri (socio di lunga

data della stamperia). Come si è detto, in un album della patriota

178 Citazione tratta da Giuseppe Calamari, Lettere di Camillo e Filippo Ugoni al Sismondi, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1938, p. 662.

110

risulta anche copiata la poesia Matilde, alla data del 19 marzo

1825.

Non è difficile immaginare che proprio per queste vie il

tipografo luganese ebbe modo di trovarsi tra le mani le romanze

di Giovanni Berchet, quelle composte tra il 1824 e il 1826 . Del

resto queste poesie per entrare di contrabbando in Italia

dovettero per forza passare per la Svizzera. Talvolta era stato lo

stesso poeta a chiedere che fossero così introdotte in Italia, e

probabilmente in uno dei suoi viaggi a Lugano, Costanza

Arconati, o qualche altro amico, si affidò proprio all’esperienza

del 'contrabbandiere' Ruggia per raggiungere lo scopo.

Fatto sta che, venuto in possesso di un materiale più che

prezioso, senza troppi indugi Ruggia pensò di trarne un’edizione

a stampa. Edizione che dovette avere, tra l’altro, notevolissimo

successo visto che vi seguirono numerose ristampe, tra il 1826 e

il 1832, e qualcuna anche negli anni seguenti . Di queste edizioni

il poeta, chiuso nella solitudine di Londra, non seppe

probabilmente nulla per molto tempo visto che ancora nel

maggio del ’29 , a proposito dello stampatore, confessava alla

marchesa: «Ruggia io non so chi sia»179.

Ma la necessità di chiedere il permesso di Berchet per

l’edizione a stampa non dovette neppure sfiorare la mente di

Ruggia che era solito agire in modo molto pragmatico, senza

andar troppo per il sottile, quando si trattava di metter fuori

179 Lettera datata Londra, 26 maggio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 213.

111

delle edizioni utili alla causa. Un racconto di Angelo Somazzi,

noto liberale che aveva collaborato all’«Osservatore del

Ceresio», risulta efficace per chiarire il modus operandi del

tipografo:

«In quello stesso anno 1830 circolavano di celato per le mani dei

giovani studenti in Lombardia le poesie manoscritte di Giovanni

Berchet. Io le lessi e ne tenni copia, come di un modello del genere

romantico nuovo in Italia. […] Io affidai a Pietro Peri il mio manoscritto,

ed egli, invaghito di quelle romanze, le diede poi, a mia insaputa, al

tipografo Ruggia, che le pubblicò coi suoi tipi, e ne fece grande spaccio,

essendo ricercatissime»180.

Ad ogni modo, nel 1829 dovette giungere a Lugano anche

qualche copia dell’edizione parigina delle Fantasie, uscite per i

tipi di Delaforest. E non è difficile immaginare che a portare

l’opera possa esser stato Giacomo Ciani nel corso di qualche

visita a Parigi. La romanza conquistò, naturalmente, Giuseppe

Ruggia che in essa vide un valido supporto alla propaganda

liberale. Tra l’altro, l’edizione parigina delle Fantasie, come si è

visto, era stata prodotta in un numero modesto di esemplari. Il

tipografo dovette, quindi, intuire che ve ne sarebbe stata

richiesta.

Nello stesso anno, dunque, dalla tipografia di Ruggia uscì

quella che sul frontespizio era definita una 'seconda edizione'

delle Fantasie, con consueta falsa indicazione: Londra, nella

stamperia di R. Taylor, Shoe-Lane, 1829.

180 Citazione tratta da F. Mena, Stamperie ai margini d’Italia cit., p. 291.

112

La tipografia Taylor era nata nel 1803 a Londra, in Fleet

Street e successivamente si era trasferita in Shoe Lane. L’aveva

fondata lo stampatore e naturalista Richard Taylor, in società

con il fratello, e la loro attività durò fino al 1852. Il nome di

Taylor ricorre costantemente nelle edizioni contraffatte di

Giuseppe Ruggia, e infatti anche le sue edizioni delle Poesie di

Berchet riportavano sul frontespizio il nome di questo

stampatore. Difficile dire se il poeta entrò mai nella tipografia di

Taylor. Forse stampò davvero qualche foglio presso Taylor, e

forse proprio per questo il nome del tipografo londinese fu

utilizzato da Ruggia per le sue contraffazioni. Ma come si è visto,

Berchet non riteneva sicuro stampare in Inghilterra e

probabilmente a Londra fece imprimere solo qualche foglio

volante (come Clarina, ad esempio, stampata su un foglio che

riportava in fondo le iniziali dell’autore: G.B.). Tuttavia questi

fogli, privi di indicazioni tipografiche, non permettono di capire

se Berchet entrò mai davvero in contatto con lo stampatore

Richard Taylor.

Ad ogni modo, nel rifare nuovamente l’edizione delle

Fantasie, Giuseppe Ruggia introdusse un cambiamento non da

poco. La lettera introduttiva dell’opera, che portava il titolo Agli

amici in Italia , risulta infatti rimossa. Al suo posto il tipografo

preferì inserire un ampio cappello introduttivo di venti pagine

dal titolo Ragguagli storici .

La notizia di questa edizione dovette arrivare, per vie

traverse, a Berchet, il quale risentito per non esser stato

113

interpellato circa il cambiamento, chiese spiegazioni al

tipografo. La risposta dello stampatore, indirizzata a Berchet,

passò per le mani della contessa Arconati che cedette alla

curiosità di leggerla. Qui probabilmente Ruggia diede conto

delle sue scelte, o comunicò al poeta il contenuto della nuova

introduzione. Ad ogni modo, Berchet non si mostrò per nulla

disposto a lasciar correre il piccolo equivoco venuto a crearsi,

spiegando all’amica di ritenersi profondamente offeso:

«Ella mi domanda se ha fatto male ad aprire la lettera del Ruggia. Se

in ciò v’è cosa che dovesse spiacermi è questa sua domanda. Ho io

segreti per Lei? Ne ho più forse io per me stesso che non per Lei. Anzi le

dico schiettamente che mi ha rallegrato come una prova di buona

amicizia anch’essa questo di lei aprire le mie lettere. Le apra pur tutte

mi farà sempre ugual piacere. Questa poi villana del Rugg ia non

meritava i due scellini di porto ed è per risparmiare altri due che la

prego di leggere, sigillare, e mandar subito alla posta il mezzo foglio

d’altra parte. Credo c’Ella approverà la lettera che scrivo al Ruggia

serbandomi ignaro di quella ch’egli scrisse a me. Certe insolenze non

bisogna poi sopportarle come asinelli. Parmi d’avere menagé le

convenienze riguardo a Ciani ed all’Autore della prosa; ma il Ruggia

ch’io non so chi sia, perché risparmiarlo? D’altronde la lettera vada a

chi tocca. La spedisca subito; e mi dica se ho fatto bene»181.

Nella lettera emerge anche il nome di Giacomo Ciani. Come si

è detto, fu probabilmente lui a suggerire l’edizione a Giuseppe

Ruggia; Berchet si premurò quindi di evitare che la questione

andasse a intaccare i buoni rapporti con l’amico. Ma dalla lettera 181 Lettera datata Londra, 26 maggio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 213.

114

si evince anche che il poeta era del tutto all’oscuro circa l’autore

di questa nuova introduzione. Non conoscendo chi vi avesse

messo mano, dunque, Berchet scelse di muoversi con estrema

cautela. Anzi, nella lettera indirizzata allo stampatore mise in

chiaro di non essere in collera né per l’introduzione di per sé

(che, tra l’altro, dichiarava di non aver letto), né per il suo

autore (al quale diceva di dover, probabilmente, ammirazione).

Lo aveva, invece, infastidito, la leggerezza con cui si era unito in

un’edizione a suo nome, ciò che suo non era affatto. Anzi, la più

grande preoccupazione del poeta stava proprio nel temere che il

tipografo si fosse spinto fino al punto di dichiarare per autoriale

il testo nuovo. Scrive il poeta:

«Sr. Ruggia, Mi viene detto che nel ristampare le mie Fantasie , Ella si

sia fatto lecito, non solamente di sopprimere la prosa mia, ma ben anche

di sostituirne un’altra. Che la prosa mia non le piacesse è l’ultima delle

mie angustie. Ch’Ella l’abbia o no stampata è l’ultimo de’ miei pensieri.

Ma che Ella, trattandosi di un Autore tuttavia vivente, n’abbia falsata

l’intenzione, e scambiato lo scopo del Libretto, col mischiare al mio ciò

che non è mio, questo non so che in verun paese civilizz ato uno

stampatore lo possa fare di suo arbitrio, senza taccia d’inurbano, per

non dir peggio; né io potrei lasciare di lagnarmene, senza taccia di

passivamente balordo. Per poco ch’Ella avesse consultato l’ottimo Ciani,

od almeno che sia l’abic della buona creanza, avrebbe sentito che le

incumbeva rigoroso il dovere di chiedere prima licenza a me della

sostituzione da lei voluta. Mi affretto a portarle queste lagnanze prima

che mi capiti sott’occhio la prosa da lei sostituita; giacché ignaro affatto

come ne sono, non sento pesarmi sull’animo il timore di parer di fare

115

menomo torto all’autore di essa, a cui probabilmente dovrò la mia

ammirazione. Voglio credere ch’Ella, Sr. Ruggia, non avrà spinta la

soperchieria fino al segno di non dichiarare nell’Ediz.e da Lei fatta,

come la prosa da lei inseritavi non era lavoro mio. S’Ella non l’avesse

dichiarato in termini espliciti e precisi, vi ponga rimedio subito in modo

che pienamente mi soddisfaccia: altrimenti sarò costretto io a far

conoscere, per via de’ Giornali o come crederò meglio, la deviazione da

lei commessa dalle comuni regole della decenza e dell’onestà, e a dar

quindi a questo di lei atto il nome che più propriamente gli si compete.

Posso perdonarle un’inciviltà ma non posso nè deggio sofferire un

sopruso. In considerazione del buon amico Ciani aspetto fino al ritorno

del Corriere una di Lei risposta, prima di far nulla. Vorrei poterle

serbare parte di quella stima e di que’ riguardi che Le dovrei negare

affatto, ove alla scortesia Ella avesse aggiunto il fallo di porre il nome

mio a un lavoro d’altri, o di lasciar correre subdolamente come mio ciò

che non mi appartiene»182.

Come si è detto, Berchet allegò questa lettera alla

corrispondenza per Costanza, fiducioso che l’amica la

recapitasse a Giuseppe Ruggia. La lettera, invece, non arrivò mai

a destinazione. La marchesa, anzi, rimase tanto infastidita dalle

dure parole rivolte a un caro amico di famiglia, e a un difensore

della causa risorgimentale, che non pensò neppure di

trasmettere la lettera a Lugano. Al contrario riservò una

notevole strigliata al poeta. Ne derivò un battibecco che te nne

182 Lettera datata Londra, 26 maggio 1829. Citazione tratta da E. Li Gotti, Le disavventure editoriali d’un poeta cit., pp. 80-81.

116

occupati gli amici per diverso tempo. Scrive il poeta il 2 giugno

del 1829:

«Carissima Amica, Di quella mia lettera un tantino duretta Ella, me lo

lasci dire D.na Costanza Gentilis.a, Ella non ha capito niente. E come

d’ordinario avviene che chi male intende, peggio risponda, Ella mi ha

fatto dono d’una strapazzata, quando in buona coscienza Ella mi doveva

tutt’altro. Ma non mettiamo più il dito su questo tasto, e per carità non

facciam liti»183.

La piccola crisi con l’amica Costanza venne dunque a

risolversi. Tuttavia il poeta non poté esimersi dal tornare a

chiedere che una sua risposta al tipografo venisse recapitata.

Scrisse quindi una seconda lettera, dai toni più gentili chiedendo

all’amica di fare nuovamente da tramite:

«Non vado menomamente in collera perch’Ella non abbia spedita la

lettera al Ruggia. Ad onta di quello ch’Ella mi dice, avrei le mie buone

ragioni per lasciarla correre quella lettera. Tutta volta se Ella ama

meglio, bruci l’altra, e spedisca la qui unita ma o l’una o l’altra vada di

certo, per due forti ragioni, l’una ch’io voglio ignorare quella goffa

lettera villanissima scrittami da lui; e l’altra, perché non mi voglio dar

l’incomodo di pensar più oltre a questa corbelleria. Avrei mandato io di

qui oggi la lettera al Ruggia se non avessi temuto ch’Ella interpretasse

questo, come un trovarmi io seccato dalle osservazioni ch’Ella mi fece.

No davvero, non è per nulla così. Ad Arrivabene, più premuroso di non

183 Lettera datata Londra, 2 giugno 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 214.

117

offendere i conoscenti che di difendere gli amici, parrà duro il mio

contegno col Ruggia; e però non ne parli con lui, e faccia ella» 184.

Come si è visto, anche il conte Giovanni Arrivabene era

accorso a prendere le difese del tipografo, suscitando l’amarezza

di Berchet nel sentirsi messo da parte come «amico», a

vantaggio di un «conoscente».

La delusione di Berchet si riversò anche su Giacomo Ciani.

Inizialmente, il poeta si era trattenuto da prendere decisioni

drastiche in merito all’accaduto («far conoscere, per via de’

Giornali o come crederò meglio»), per rispetto all’amico, socio

della tipografia. Tuttavia non aveva saputo trattenersi dal

rimproverare a Ciani una certa mancanza di lealtà nei suoi

confronti. È del 21 ottobre 1829, infatti, una lettera dove l’amico

torna sull’argomento, respingendo le accuse del poeta di essers i

schierato dalla parte di Ruggia:

«Perché io ti ho rimandata la lettera del Ruggia, tu vuoi tirarne la

conseguenza che essa fu scritta di mio consentimento? Io non intendo

questa tua maniera di ragionare. Mi sembra, ch’egli era più naturale il

supporre, che io, avendo impedito al Ruggia di dirmi le sue ragioni, per

le quali si chiamava da te offeso o maltrattato, non poteva accettare la

tua commissione di rimandargli la lettera»185.

Insomma, pur fortemente contrariato dalla condotta di

Ruggia, Berchet dovette rassegnarsi, suo malgrado, a non poter

alzare troppo la voce con una persona che godeva di

184 Lettera datata Londra, 5 giugno 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 216. 185 Lettera datata Bellinzona, 21 ottobre 1829. Citazione tratta da Jacques Boulenger, Berchet et Costanza Arconati, in «Il Risorgimento italiano», 1913, p. 692.

118

grandissimo rispetto e fortissima amicizia presso molti esuli.

Anzi, forse il poeta a Londra, lontano dagli ambienti intellettuali

degli amici rimasti in Francia e in Svizzera, non aveva compreso

a pieno l’influenza di Giuseppe Ruggia, figurandosi di aver a che

fare con un tipografo di poco conto.

Ad ogni modo la principale preoccupazione di Berchet, quella

cioè di veder spacciata per sua un’introduzione scritta da altri,

si risolse con la firma 'Gli Editori' al termine dei Ragguagli

storici. Si continuava a lasciare all’oscuro, però, circa la mano

dietro al testo. E tuttavia ciò che più stupisce della condotta di

Berchet in questa vicenda è il suo assoluto disinteresse verso la

ristampa stessa. L’autore non pare minimamente interessato alla

maggiore diffusione che l’edizione di Ruggia avrebbe dato alla

sua opera. Al contrario, il poeta non accettò mai questa seconda

edizione, tanto che in una lettera del ’29 all’Arconati tornava a

precisare: «Ov’Ella scrivesse a Scalvini, lo spinga a non lasc iar

fuggire occasione di mandare in Italia, dove che sia ed a chi sia,

le poche copie che gli rimangono delle Fantasie, onde

contrapporle alla falsificazione di Lugano»186.

L’ACCOGLIENZA DELLE FANTASIE IN ITALIA E LA RECENSIONE DI MAZZINI

Uscite nei primi mesi del 1829, già a metà anno le Fantasie

presero a circolare in Italia riscuotendo un notevole successo.

186 Lettera datata Londra, 26 maggio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 213-14.

119

Chi ebbe modo di leggere l’edizione parigina, e quindi

soprattutto amici e conoscenti ai quali Berchet si era premurato

di farla arrivare, non mancò di complimentarsi con il poeta per

la lettera introduttiva Agli amici in Italia . Il gradimento

dell’amica Costanza fu naturalmente il più caro a Berchet:

«Quelle poche parole da lei dette su quella mia prefazione,

m’hanno fatto gusto. È orgoglio, od amicizia? Lo spieghi lei»187.

Ma sinceri complimenti erano giunti all’autore anche da

Giuseppe Pecchio. Scriveva il poeta a Costanza:

«È curiosa la sorte di quella mia povera Lettera agli Amici, da chi

buttata nel fango, da chi levata alle stel le. In questo momento ricevo da

Pecchio (e da lui non l’avrei mai aspettata) una lode sperticata per

quella lettera, e mi raccomanda di sparpagliarla molto in Italia come

cosa ottima in tutti i sensi, e da farmi onore. Che razza di giudizi diversi

sono quelli degli uomini! Ma non mi è mai caduto in pensiero di

contentarli tutti; e in questa occasione meno che in altra» 188.

Le Fantasie ricevettero le lodi anche di Giuseppe Mazzini.

Sull’«Indicatore livornese» del 29 giugno 1829 uscì, infatti, una

sua recensione che dava un giudizio estremamente positivo

sull’opera. Di Berchet, Mazzini era sempre stato un appassionato

lettore, tanto da trascriverne accuratamente i versi nei suoi

quaderni. In un suo manoscritto autografo189 che porta il titolo

di Poesie varie raccolte e trascritte da Giuseppe Mazzini figurano,

187 Lettera datata Londra, 30 gennaio 1829. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 205. 188 Ivi, p. 213. Lettera datata Londra, 26 maggio 1829. 189 Conservato presso il Museo del Risorgimento di Genova (Cart. 1, n. 197) e pubblicato in Giuseppe Mazzini, Edizione nazionale degli scritti editi ed inediti. Zibaldone Giovanile, vol. II, a c. di Arturo Codignola, Cooperativa Tipografico-Editrice Paolo Galeati, Imola, 1967, pp. 71-207.

120

ad esempio, I Profughi di Parga e alcune romanze. Ma

l’apprezzamento di Mazzini alle Fantasie di Berchet era

principalmente di natura politica. Mazzini faceva, in verità,

anche qualche considerazione di tipo letterario, ma non era

certo la poesia di per sé ad interessarlo, quanto il messaggio

patriotico contenuto in essa:

«Io raccomando con tutta l’anima a’ miei lettori la Romanza. […] Ira,

ed orgoglio son le due muse, che la dettarono: l’orgoglio delle antiche

memorie, e l’ira del moderno torpore. […] L’idea, che è la stessa del

Sogno di Byron, è poetica al sommo grado, e i contrasti profondi, e

impensati danno al componimento una vita tutta propria, tutta energica,

tutta lirica, ch’è il vero carattere della Romanza. […] Ora, noterò io le

molte bellezze poetiche che adornano la Romanza, e i pochi difetti, che

la fanno men bella? Il lettore non lo attenda da me, e mi terrei l’ultimo

tra la razza dei giornalisti flagellati da Vittorio Alfieri s’io potessi

freddamente, e coi canoni delle scuole tormentare ogni strofa di un

lavoro, com’è questo delle Fantasie . A me pare, anche letterariamente

parlando, che l’autore abbia sentita l’altezza delle missione, che i tempi

danno al poeta, ed abbia mostrato d’intendere più ch’altri la essenza, e

la forma del Romanticismo. […]Rinunzio a’ predatori di sillabe l’alto

incarico di spiluccare alcune locuzioni meno poetiche, poche costruzioni

intralciate, e quattro, o cinque vocaboli, che sanno d’affettato o

d’improprio»190.

L’intero articolo di Mazzini, dunque, tesse le lodi delle

Fantasie per quel sentimento di rivalsa che sono state in grado

di risvegliare negli italiani, tanto che il futuro fondatore della

190 Giuseppe Mazzini, Scritti letterari editi ed inediti. Letteratura, vol. I, Cooperativa Tipografico-Editrice Paolo Galeati, Imola, 1906, pp. 158-59.

121

Giovine Italia afferma con certezza: «No; questi esempli non

andranno perduti. […] Noi porremo altri nomi appresso agli

antichi, altre glorie a fianco delle glorie passate» 191.

Nella sua recensione Mazzini non fa mai a lcun riferimento

diretto alla lettera Agli amici in Italia , ma è certamente la prima

edizione delle Fantasie che ebbe occasione di leggere. Proprio in

quell’introduzione, infatti, Berchet si chiedeva se la critica gli

avrebbe riconosciuto di aver fatto «un cattivo poema, ma una

buona azione» (F₁, p. 37). E Mazzini non ha dubbi circa la

risposta da dare in merito: «Non esito ad affermare, ch’egli ha

fatta ad un colpo una buona Romanza, e un’ottima azione»192.

Le Fantasie ebbero dunque un notevole successo in Italia. Ma

se numerosi elogi vennero dagli intellettuali legati al poeta, è

pur vero che i versi della romanza corsero anche al di fuori dei

salotti liberali e dei circoli aristocratici (e questo anche grazie

alle numerose copie della romanza diffuse in Ita lia dalla

tipografia di Giuseppe Ruggia). Scrive Galletti: «Se ne

moltiplicavano furtivamente le copie; se ne sussurravano i versi

nelle vie più remote alle orecchie degli amici fidati; anche le

giovinette li mandavano a memoria e gli adolescenti li

ascoltavano, impallidendo, dalle labbra delle loro madri» 193.

Berchet si confermava, insomma, poeta 'popolare'. E il valore

letterario delle sue opere continuava a rimanere strettamente

191 G. Mazzini, Scritti letterari editi ed inediti. Letteratura, vol. I, cit., p. 160. 192 Ivi, p. 159. 193 Alfredo Galletti, Giovanni Berchet. Nel centenario della morte, in AA. VV., Studi sul Berchet cit., pp. 24-25.

122

legato all’impegno civile riversato in esse. Dei limiti poetici delle

Fantasie, l’autore si era detto ben consapevole nella lettera

introduttiva, confessando di vedere nella propria opera «una

certa mancanza, diciamo così, d’intonazione poetica» oltre che

una forma «usata e riusata fino alla nausea» (F₁, p. 39). Ma

proprio come aveva avvertito lo stesso Berchet, un giudizio

esclusivamente letterario sulle Fantasie non era certo possibile

darlo. Berchet era agli occhi del suo pubblico il 'cantore della

patria', in grado di arrivare alle coscienze, facendo di più «che

non tutte le congiure della Giovane Italia»194. E in funzione di

questo era giudicato dai suoi contemporanei. Ad eccezione dei

funzionari di polizia, naturalmente. A loro qualche giudizio

letterario era capitato di darlo. In un rapporto relativo al

sequestro di alcune poesie di Berchet, infatti, si sentenziava

severamente: «libello privo di merito letterario, perché scritto

in versi cattivi, senza sali e senza talento»195.

194 Enrico Montazio sulla «Frusta repubblicana» del 4 febbraio 1849. Citazione tratta da Giuseppe Giusti, Epistolario. Lettere aggiunte e appendici, vol. IV, a c. di Ferdinando Martini, Le Monnier, Firenze, 1932, p. 282. 195 Citazione tratta da E. Bellorini, La fuga da Milano e l’esilio di Giovanni Berchet cit., pp. 430-31.

123

IV

Confronto tra prima e seconda edizione, e le edizioni

successive

PRIMA E SECONDA EDIZIONE DELLE FANATASIE A CONFRONTO

Uscita per i tipi di Delaforest, la prima edizione delle Fantasie

si presentava come un’edizione elegante e raffinata196, stampata

in 12°.

Si trattava di un volumetto di 102 pagine con copertina

editoriale riportante, nel mezzo di una cornice di fili chiari e

scuri, il titolo dell’opera: LE FANTASIE, | Romanza | DI GIOVANNI

BERCHET. Al recto della pagina successiva vi era l’occhietto: LE

FANTASIE. | mentre al verso della stessa pagina, al centro, era

riportata l’indicazione: DAI TORCHJ DI PIHAN-DELAFOREST

(MORINVAL), | RUE DES BONS-ENFANS, N°. 34. Seguiva quindi il

frontespizio: LE FANTASIE, | ROMANZA | DI GIOVANNI BERCHET.|

(piccolo fregio) | PARIGI, | PRESSO DELAFOREST, LIBRAJO, | RUE DES

FILLES-SAINT-THOMAS, N°. 7. | – | 1829 |.

Dalla pagina 5 alla 45 c’era la lettera AGLI AMICI MIEI | In

Italia.|, con data Piccadilly, 5 gennaio 1829. Alla pagina 47 c ’era,

invece, un nuovo occhietto: LE FANTASIE. | e dalla pagina 49

196 Gli esemplari della prima edizione delle Fantasie consultati per questo studio risultano tutti in carta velina. La carta velina era una carta particolarmente pregiata che non presentava traccia di filigrana, filoni o vergelle, diffusasi soprattutto in area francese tra ‘700 e ‘800. Naturalmente si trattava di una carta piuttosto costosa, per questo motivo è possibile che non tutti i cento esemplari della prima edizione delle Fantasie siano stati effettivamente stampati su questa carta. Forse solo una parte era in carta velina (magari gli esemplari destinati a figure di spicco o agli amici più cari), e il resto in carta comune. Ad ogni modo non è possibile dirlo con certezza dal momento che di questa edizione se ne sono conservati pochissimi esemplari.

124

iniziava finalmente la romanza, preceduta ancora dal titolo: LE

FANTASIE. | (piccolo fregio).

Il fregio nominato (raffigurante una sorta di fiorellino

stilizzato) oltre che nel frontespizio era presente anche in

apertura e in chiusura di poesia. Mentre i numeri delle pagine

figuravano incorniciati da due piccole frecce, disposte in

direzione opposta (sia il fregio che le frecce si trovano anche in

altre edizioni di Delaforest, come nel poema di Giannone,

L’esule197).

Sulla quarta di copertina, invece, al centro di una cornice,

compariva un’incisione raffigurante un’arpa. Mentre in basso, al

di fuori del riquadro, si trovava nuovamente la scritta:

IMPRIMERIE PIHAN DELAFOREST (MORINVAL).

Questa edizione parigina risulta particolarmente rara198. Il

censimento per questo studio ne ha individuati quattro

esemplari199 e il confronto tra questi non ha evidenziato nessuna

lezione differente. L’esemplare conservato a Torino presenta ,

invece, una nota manoscritta sull’occhietto: Ritrovato nella

197 Si vedano pp. 13-14. 198 Si veda a tal proposito M. Parenti, Rarità bibliografiche dell’Ottocento, vol. IV, cit., pp. 194-96. 199 Gli esemplari consultati sono conservati presso: Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (F₁MiB): esemplare singolo, con copertina originale. SEGNATURA: SALA.FOSC.05.0112. Biblioteca Comunale Centrale di Milano (F₁Mi): esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: SG.H.1053. Biblioteca Civica Centrale di Torino (F₁To): esemplare singolo. SEGNATURA: BTC.408.E.53. Biblioteca di Casa Carducci a Bologna (F₁Bo): esemplare singolo. SEGNATURA: 2.A.159. Un altro esemplare, non consultato, è conservato a Parigi, presso la Bibliothèque Nationale de France.

125

Contrada dei Panierai alli 10 7bre 1839200. La Contrada dei

Panierai era una strada di Torino (oggi via Palazzo di Citta )

chiamata con questo nome per le numerose botteghe dei cestai lì

presenti. La scritta potrebbe forse riferirsi al sequestro

dell’edizione da parte degli ufficiali di polizia. Cosa che, del

resto, accadeva spesso con le edizioni di Berchet, come si e visto

anche a proposito delle raccolte di poesie201. L’esemplare

conservato a Bologna apparteneva, invece, a Giosue Carducci, e

gli fu donato dall’amico Alberto Bacchi della Lega , noto studioso

e bibliografo202.

Diversa nel contenuto, ma molto simile nell’aspetto, era

invece la seconda edizione delle Fantasie, quella allestita da

Giuseppe Ruggia. Questa edizione si presentava come un piccolo

opuscolo di 80 pagine, in 16°, stampato su carta comune203. La

copertina ricalcava in modo evidente quella parigina, con una

cornice di fili sottili e spessi al centro della quale si trovava il

200 L’esemplare contiene anche una correzione manoscritta di non facile interpretazione. Il v. 545 «Giù al ponte v’è gridi; – lo passa qualcuno:» pare essere stato corretto in «Giù al ponte v’è gridi; – il passa qualcuno:». La variante, che non sembra avere di per sé particolare significato, non è comunque autoriale, dal momento che il verso resta immutato nell’edizione Resnati (1848), ampiamente rivista da Berchet. 201 Si vedano pp. 121-22. 202 Sul contropiatto anteriore del volume si trova infatti un appunto manoscritto (non autografo di Carducci, ma probabilmente del genero Giulio Gnaccarini): dono di A. Bacchi Lega febbr. 1901. Carducci aveva amato molto i versi di Berchet, e delle Fantasie aveva scritto: «Versi benedetti; anche oggi ripetendoli mi bisogna balzare in piedi e ruggirli, come la prima volta che gl’intesi. E gli intesi da una voce di donna, dalla voce di mia madre! Era il lunedì di Pasqua del 1847; e un superbo sole di primavera rideva nel cielo turchinissimo; e cinque paranzelle filavano su ’l mare lontano, rapide agili e bianche come ninfe antiche, e sui colli tra il folto verde smeraldino delle biade e degli alberi parevano meno annoiate sin le vecchie torri ruinose del medio evo; e da per tutto era un subisso di fiori: fiori nelle piante, fiori tra l’erba, fiori per cielo e per terra, del più bel giallo del più largo rosso, del più amabile incarnatino. Come son belli i fior dei peschi a primavera! E pure, dopo sentiti codesti versi non vidi più nulla; o, meglio, vidi tutto nero: avevo una voglia feroce di ammazzare tedeschi». Citazione tratta da Giosuè Carducci, Opere. Bozzetti e scherme, vol. III, Zanichelli, Bologna, 1889, pp. 178-81. 203 La filigrana è AM.

126

titolo: LE FANTASIE, | Romanza | DI GIOVANNI BERCHET. Dopo la

pagina di guardia seguiva l’occhietto: LE FANTASIE, |ROMANZA. E

poi il frontespizio: LE FANTASIE, | ROMANZA | DI | GIOVANNI BERCHET, |

PRECEDUTA DA | RAGGUAGLI STORICI. | SECONDA EDIZIONE. | (xilografia)

| LONDRA | NELLA STAMPERIA DI R . TAYLOR, SHOE-LANE | 1829.

A precedere la romanza, dalla pagina 5 alla 24, c ’erano i

RAGGUAGLI | STORICI. | , firmati GLI EDITORI. Prima dell’inizio del

testo si trovava nuovamente l’occhietto: LE FANTASIE, | Romanza.

| e finalmente a pagina 27 iniziava la poesia, preceduta dal

titolo: LE FANTASIE. | (piccolo fregio). Il fregio, identico a quello di

Delaforest, si ripeteva anche in chiusura di volume.

Come si e visto, sul frontespizio compariva una xilografia. Si

trattava di una piccola incisione raffigurante una mano nell’atto

di versare dell’olio in una lucerna, accompagnata dal motto alere

flammam. La xilografia della lampada e il motto latino sono

spesso presenti nelle edizioni ruggiane (solitamente quelle

stampate con la falsa indicazione di Londra-tipografia Taylor,

forse anche per riconoscerle meglio). La xilografia compariva

inoltre sulla quarta di copertina, al centro di una cornice.

Sempre sulla quarta di copertina ma in basso e al di fuori del

riquadro era riportata l’indicazione: NELLA STAMPERIA DI R .

TAYLOR, SHOE-LANE.

E evidente, dunque, che gli sforzi di Giuseppe Ruggia,

nell’allestire questa edizione, si concentrarono soprattutto nel

ridare al lettore un’edizione che fisicamente fosse quasi del

tutto identica a quella di Delaforest, imitandone la copertina e

127

riproponendo all’interno del volume la stessa disposizione di

titoli, occhietti e fregi, prestando attenzione anche alle parti del

testo in maiuscoletto volute dall’autore. Tuttavia, per le difficili

condizioni in cui la tipografia di Lugano si trovava a lavorare,

molto spesso costretta a stampare di fretta e nella clandestinita

notturna, le edizioni ruggiane non vantavano certo fama di

correttezza ed eleganza, risultando quasi sempre trasandate e

piene di refusi. Di questo, scrive Martinola:

«In questa luce dunque la tipografia va valutata, rivestendo

rilevanza quasi trascurabile la qualita tecnica delle sue edizioni: non

esemplari per rigore e invece anche trasandate, come inevitabilmente

doveva accadere a una stamperia costretta a lavorare in condizioni

disagevoli, talvolta impossibili, col solo supremo fine di servire la causa

italiana per la quale era sorta e non per offrire esemplari editoriali alla

fame dei bibliofili»204.

Naturalmente meno propensi a scusare la trascuratezza delle

edizioni ruggiane erano gli autori delle stesse che sovente se ne

lamentavano. Nonostante gli ottimi rapporti di amicizia e

collaborazione con lo stampatore luganese, ad esempio,

Giuseppe Mazzini, che amava le belle edizioni, mal sopportava

che Ruggia stampasse «su pessima carta, con vecchi

caratteri»205. E anche Terenzio Mamiani, a proposito della

pubblicazione nel 1829 delle sue Rime volgari di Arnaldo206,

annotava nel Giornale della mia vita: «Questa sera ho riscosso

204 G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 267. 205 Giuseppe Mazzini citato in G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 166. 206 Terenzio Mamiani, Rime volgari di Arnaldo, s.n., s.l., 1829.

128

dalla posta le mie Poesie stampate a Lugano. L’edizione e brutta

di infiniti errori»207.

Nonostante gli sforzi, dunque, l’edizione di Ruggia non

eguaglio la prima in raffinatezza ma certamente la supero in

tiratura. Per l’editore luganese era infatti importante garantirsi

un’ampia diffusione, considerata la militanza politica e culturale

che caratterizzava il suo lavoro. L’edizione ruggiana delle

Fantasie e dunque meno rara di quella parigina. Questo studio

ne ha esaminati otto esemplari208, per la maggior parte rilegati

all’interno di raccolte miscellanee. L’esemplare conservato a

Torino mantiene, invece, la copertina originale, come si e detto

del tutto identica a quella della prima edizione.

Il confronto di questa edizione con la prima ha evidenziato

numerose differenze. In qualche caso si tratta banalmente di

errori di stampa dovuti a incidenti verificatisi in fase di

produzione (caratteri spostati, saltati o rovesciati) o a qualche

207 Terenzio Mamiani, Giornale della mia vita, citazione tratta da G. Martinola, Un editore luganese del risorgimento cit., p. 102. 208 Gli esemplari consultati sono conservati presso: Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo (F₂BgM): esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: SALA.34.GALL.B.2.10(5).

Biblioteca Comunale Centrale di Milano (due volumi): F₂Mi1: esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: SG.D.386.

F₂Mi2: esemplare singolo. SEGNATURA: SG.F.4.-1.

Biblioteca Nazionale Braidense (F₂MiB): esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: SALA.FOSC.05.0100/02.

Biblioteca Norberto Bobbio dell’Università degli studi di Torino (due volumi): F₂ToB1: esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: A*50.L.07/2.

F₂ToB2: esemplare singolo, con copertina originale. SEGNATURA: A*49.H.04.

Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (F₂Rm): esemplare in raccolta miscellanea. SEGNATURA: 203.8.A.18.2.

Harvard Library di Cambridge (F₂H): esemplare singolo, copia digitalizzata accessibile dal catalogo Hollis.

129

svista (i due punti sostituiti dal punto fermo). Ma sulle forme

interessate si e prontamente intervenuti, infatti gli errori non

ricorrono in tutti gli esemplari. E vero quindi che l’edizione

ruggiana risulta in parte trasandata, ma sarebbe esagerato

parlare di un’edizione «brutta di infiniti errori». Qui di seguito

sono riportati, accanto alle lezioni corrette, i refusi di stampa e

i testimoni interessati.

F₁Mi

v. 344 Non dispetti chi un’altra seguì.

F₂BgM

Nondispetti (...) seg uì.

F₁Mi

v. 379 Questo dì ch’io volea, l’ho veduto:

F₂Mi1 ; F₂MiB ; F₂H

veduto.

F₁Mi

v. 492 Non da fastosa insegna,

F₂Mi1 ; F₂MiB

inse gna,

F₁Mi

v. 556 Oh, bello! Sul campo venir di que’

prodi,

F₂MiB

pr o

F₁Mi

v. 594 Tornata ov’ella nacque

F₂BgM ; F₂Mi1 ; F₂ToB2

ornata

Altri due errori sono presenti nell’edizione, dovuti

probabilmente a uno sbaglio in fase di composizione. Questi

errori tuttavia non sono stati corretti e compaiono, infatti, in

tutti i testimoni. Si tratta di errori ortografico-grammaticali,

riguardanti gli accenti e la punteggiatura in chiusura di verso.

Qui sono poste a confronto le lezioni della prima edizione e

quelle scorrette della seconda.

T

130

F₁Mi

v. 133 Ebben! che importami,

F₂Mi2

importami;

v. 728 Cacciar dinanzi a sè, se,

Nel primo caso, ai vv. 133-136 («Ebben! che importami, / Se

omai l’Italia / Nome tra i popoli / Non serba più?»), l’errore e

evidente dal fatto che l’introduzione del punto e virgola al posto

della semplice virgola va a spezzare in modo netto il periodo,

separandone le due frasi («che importami; / Se omai l’Italia /

Nome tra i popoli / Non serba più?»). Al v. 728, invece, si perde

l’accento del pronome riflessivo «sé». Le lezioni scorrette furono

tuttavia ripristinate nelle successive raccolte di poesie

berchettiane (comprendenti anche Le Fantasie) uscite dalla

tipografia di Lugano.

Un altro errore e presente anche al v. 400, dove l’edizione

ruggiana inserisce un punto fermo a chiusura della prima ottava

della quinta parte. La lezione non solo figura in tutti gli

esemplari analizzati, ma non venne mai corretta neppure nelle

successive raccolte di poesie uscite dalla stamperia. Possibile

che l’errore, non facilmente individuabile, sia sempre sfuggito, a

differenza di quelli precedentemente visti. O forse, piu

semplicemente, chi in tipografia si occupo di allestire l’edizione

(Ruggia stesso o gli uomini di lettere attivi nella sua officina,

Pietro Peri, ad esempio, o Giacomo Ciani), non si rese conto di

aver inserito un errore, correggendo il verso sul modello delle

altre ottave della romanza. La prima ottava di ogni parte si

conclude, infatti, sempre con un punto fermo, e le ottave sono

131

naturalmente simili tra loro per la ricorrenza della formula

iniziale («Era sopito l’Esule / Era la notte oscura»), ad eccezione

dell’incipit della poesia. In questo caso, pero , il punto fermo e

evidentemente un errore perche va a inserirsi nel mezzo della

lunga descrizione del paesaggio sognato dall’esule

addormentato.

F₁Mi

v. 393 Era sopito l’Esule;

Era la notte oscura.

Il sogno erano agnelle

Vaganti alla pastura;

Campi che leni salgono

Su per colline belle;

Lontano a dritta ripidi

Monti, e altri monti ancor;

Dinanzi una cerulea

Laguna, un prorompente

Fiume che da quell’onde

Svolve la sua corrente.

Sovra tant’acque, a specchio,

una città risponde;

guglie a cui grigio i secoli

composero il color;

Ed irte di pinacoli

Case, che su lor grevi

Denno sentir dei lenti

Verni seder le nevi;

E finestrette povere,

A cui ne’ dì tepenti

La casalinga vergine

Infiora il davanzal.

F₂Mi2

Era sopito l’Esule;

Era la notte oscura.

Il sogno erano agnelle

Vaganti alla pastura;

Campi che leni salgono

Su per colline belle;

Lontano a dritta ripidi

Monti, e altri monti ancor.

Dinanzi una cerulea

Laguna, un prorompente

Fiume che da quell’onde

Svolve la sua corrente.

Sovra tant’acque, a specchio,

una città risponde;

guglie a cui grigio i secoli

composero il color;

Ed irte di pinacoli

Case, che su lor grevi

Denno sentir dei lenti

Verni seder le nevi;

E finestrette povere,

A cui ne’ dì tepenti

La casalinga vergine

Infiora il davanzal.

132

L’errore figura corretto solo nelle edizioni ruggiane

posteriori al 1848, ovvero in quelle successive all’edizione

Resnati alla quale probabilmente fecero riferimento.

Tuttavia l’edizione luganese non inserì solamente errori. Al

contrario alcuni interventi di Ruggia andarono a migliorare il

testo.

F₁Mi

v. 226 Nel padiglion deserto.

F₂Mi2

deserto,

v. 309 Si, Colui che par lento agli afflitti, Sì,

v. 555 Là chiede ogni voce: Guerrieri, che

fù?–

fu?–

Come si vede, al v. 309 l’edizione luganese corregge «Si» in

«Sì» e al v. 555 «fù» in «fu». Anche ai vv. 225-228 («Preda dei

primi a irrompere / Nel padiglion deserto. / Ecco ostentar pel

campo / L’aurea collana e il serto:») si inserisce un

miglioramento, introducendo la virgola al posto del punto fermo

che nella prima edizione divideva in due la frase separando

l’«aurea collana e il serto» dal sostantivo a loro collegato,

«preda». A riprova della bonta di questi interventi, le lezioni

saranno poi accolte dal poeta nell’edizione Resnati.

Gli interventi al testo delle Fantasie, dunque, non risultano

particolarmente numerosi, tuttavia la prima e la seconda

edizione appaiono comunque progetti diversi. A fare la

differenza e senza dubbio, come si e visto nei capitoli

precedenti, la sostituzione dell’ampia lettera introduttiva di

Berchet dal titolo Agli amici in Italia , con il testo Ragguagli

133

storici a firma 'Gli Editori', inserito da Ruggia. Una sostituzione

che, al di la dello sdegno suscitato nel poeta, ando a mutare, di

fatto, la natura stessa dell’opera a causa del contenuto delle due

differenti introduzioni. Pur non essendoci testimonianze

esplicite circa le ragioni di questa scelta, l’operazione portata

avanti da Giuseppe Ruggia appare, in verita , piuttosto chiara.

Nelle intenzioni dello stampatore, infatti, c’era l’idea di

destinare l’opera a un pubblico ben diverso dal lettore 'ideale'

dichiarato da Berchet proprio nella lettera introduttiva. Per il

poeta, il destinatario dell’opera era infatti un gruppo di lettori

ben specifico, e a questo gruppo appartenevano prima di tutto

gli «amici in Italia» (come eloquentemente dichiarato nel titolo

introduttivo). Si trattava di quegli intellettuali che Berchet

aveva conosciuto e frequentato per tanti anni a Milano e con i

quali i rapporti si erano bruscamente interrotti a seguito degli

eventi del ’21 e della fuga del poeta dall’Italia. E infatti con il

loro ricordo in mente, quasi a voler fingere quelle antiche

conversazioni letterarie ormai perdute, che il poeta ammette di

aver composto la romanza:

«Nel comporre i versi che oggi vi dedico, voi, voi soli, io sempre

aveva dinanzi alla mente, come lettori a cui soddisfare , s’io lo potessi.

Ora che gli ho ricopiati, li rileggo pensando a voi; ne parmi che per voi

abbiano bisogno di schiarimenti» (F₁, p. 7).

Berchet confessava di provare una nostalgia infinita per i

tempi in cui era solito trovarsi in compagnia dei suoi amici,

tanto piu che la solitudine dell’esilio si era fatta piu dolorosa.

134

Per questo motivo, nell’opera, c’era in qualche modo anche la

volonta dello scrittore di tornare a dare sue notizie, a far sentire

la propria voce a chi ormai lo stava dimenticando. Scrive il poeta

in una lettera alla marchesa Costanza Arconati: «Avrei la

tentazione d’affidarle qualche lettera per amici; ma pensando

che nessuno risponde, e meglio accomodarmi al loro silenzio»209.

La polizia austriaca, infatti, non riservava un trattamento

leggero ai proscritti del Lombardo-Veneto, impedendo loro

qualunque contatto con i cari rimasti in patria. La posta spedita

in Italia era sequestrata alla dogana e agli esuli veniva mandata

in risposta una lettera dal contenuto standard dove si informava

che le persone cercate non desideravano avere rapporti con

cittadini al di fuori della legge, e li invitavano invece a

costituirsi. Gli unici contatti possibili con chi era rimasto in

Italia erano attraverso le vie clandestine, ma questo non era

sempre possibile. Scrive, dunque, il poeta nell’introduzione alle

Fantasie:

«Ho afferrato come buon ripiego un suggerimento dell’animo mio,

quello di rivolgermi a voi, dilettissimi, e d’indirizzarvi, come fo, questa

mia lettera tutta confidenziale. Scritta come vien viene, come se

riassumessi per un momento ancora una di quelle tante chiacchierate

con voi a cuor largo, senza rigore di proposito, senza intento letterario,

delle quali componevasi la nostra conversazione (perdita questa del le

piu amare che m’abbia costato l’esilio), la lettera […] mi presta luogo a

dire quel poco che pur si vuole ch’io dica e, quello che val meglio per

209 Lettera datata Londra, 1° agosto 1823. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. I, cit., p. 45.

135

me, mi procaccia il gusto di chiamarvi ancora 'i miei cari'. Forse anche a

voi non dispiacera di ricevere impunemente per questa via un solenne

saluto dall’amico vostro lontano, da colui del quale sarebbe delitto per

voi l’avere contezza altrimenti; frutto anche questo delle vostre belle

polizie, che vi strozzano in petto perfino le affezioni private» (F₁, pp. 6-7).

E ancora agli amici, e alla nostalgia per loro, si fa riferimento

in chiusura della lettera:

«Amici miei, e detto che l’amore induce a taciturnita : bisogna per

altro dire che metta anche talvolta una parlantina da rimbambiti. Così

ora avvenne di me. Ma e colpa anche vostra, perche non m’avete mai

interrotto il discorso. Ed era pur vostro costume l’interrompermelo una

volta ad ogni istante: questa corda non tocchiamola. L’illusione che mi

sono creata d’essere e parlare con voi mi riuscì tanto consolante, che

l’averla tirata in lungo a bella posta e astuzia perdonabilissima; e voi,

ne son certo, me la perdonerete di buona voglia. Pervenuto al punto in

cui m’e mestieri congedarla questa illusione, scioglierla, sperderla tutta,

e far fine e dirvi addio, sento che nella parola 'addio' v’e qualche cosa

che non m’e dilettevole, e tutt’ad un tratto mi trovo essere divenuto

taciturno davvero. Addio, amici miei; la memoria di me non perisca nel

cuor vostro» (F₁, pp. 44-45).

Ma non e solo questo ristretto circolo di lettori quello

prescelto come destinatario della romanza. Agli amici in Italia si

uniscono, infatti, tutte «le persone nelle quali e supponibile una

discreta coltura» (F₁, p. 8), pur non legate al poeta da «amicizia

personale» e tuttavia ugualmente interessate a dare «uno

sguardo» alla sua opera.

136

Il profilo del pubblico al quale vuole rivolgersi la romanza va

comunque a delinearsi in modo piu chiaro anche attraverso un

altro discorso, quello relativo all’inserimento nel testo di note

esplicative circa gli episodi storici citati. Come si e visto,

Berchet decide di non corredare il testo di note e tra le

motivazioni della scelta c’e anche la sicurezza di rivolgersi a un

pubblico per il quale sarebbero superflue. Note al testo non sono

necessarie, dunque, perche il destinatario immaginato da

Berchet e un lettore sufficientemente colto da non necessitare di

ragguagli sulle vicende storiche riguardanti l’eta comunale e la

sollevazione delle citta lombarde contro il Barbarossa:

«In Italia, cari miei, come volete ch’io pensi che, col tanto boriare

che vi si fa d’onore nazionale, s’ignori poi l’epoca piu bella, piu gloriosa

della storia italiana, la confederazione de’ lombardi in Pontida, la

battaglia di Legnano, la pace di Costanza? Questi fatti il dichiararli io a

voi, piu che superfluo, sarebbe ridicolo. E uno scortese complimento

parrebbe anche se mi mettessi a spiegarli a que’ pochi che, senza

onorarmi d’amicizia personale, volessero pure onorarmi d’uno sguardo

gettato sul mio libretto. 'Costui', direbbero, 'o misura dalla propria la

parvita dell’intendimento altrui, o ci guarda dall’alto in basso come

tanti scolaretti, a’ quali tutto debba riuscir nuovo '» (F₁, pp. 7-8).

Non solo, Berchet sottolinea che e unicamente questo lettore

'ideale' la figura alla quale intende rivolgersi con la propria

opera: «Che se vi ha costaggiu taluno […] a cui non sia stata

rotta la sonnolenza incuriosita neppure dal gran rumore fatto

pel lungo e pel traverso dell’Europa dalla bell’opera del signor

137

Sismondi210 sulle repubbliche italiane, tanto peggio per lui!»

(F₁, p. 8).

Questa precisazione da parte di Berchet non fa che

accentuare la differenza tra Le Fantasie e il resto della sua

produzione poetica. Lo scopo di quest’opera era, infatti,

risvegliare lo spirito risorgimentale ormai sopito. E per farlo

all’autore serviva rivolgersi a quella classe sociale nella quale il

sentimento risorgimentale era nato, la stessa che se ne era poi

resa interprete: il ceto aristocratico e alto borghese. E a loro che

occorreva ricordare la virtu italiana, e a loro che serviva

chiedere di tornare a lavorare per l’indipendenza. Per questo

motivo con Le Fantasie il poeta non puntava piu ad un

allargamento di pubblico e ad intercettare quell’ampia cerchia di

lettori piccolo e medio borghesi, come si era affermato nei tanti

dibattiti sulle pagine del «Conciliatore». La poetica dell’autore

restava naturalmente immutata, ma il contesto del tutto

particolare in cui si andavano a collocare le Fantasie richiedeva

evidentemente un pubblico differente. Non c’e dunque alcun

intento pedagogico nelle Fantasie, il poeta non e interessato a

colmare le lacune altrui:

«E che ci ho a fare io? Ov’anche principiassi dal dirgli: 'Sono fatti che

avvennero dagli anni di Cristo 1167 fino agli anni di Cristo 1183', gia

non ne verrei a capo di nulla: oppure ad agevolargli la lettura di due

210 L’opera a cui allude Berchet è la Storia delle repubbliche italiane di Simonde de Sismondi, uscita tra il 1807 e il 1818 in sedici volumi. A tal proposito si veda Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen Âge, chez Henri Gessner, Zurich, 1807-1818 e la sua traduzione in italiano Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, [traduzione di Stefano Ticozzi], [Giusti], [Milano], 1817-1819.

138

fogli di versi, mi bisognerebbe lavorar per lui un volume di prosa.

Mancherebbe anche questa! Imporre a me il gastigo della pigrizia

altrui!» (F₁, p. 10).

Anche in occasione delle osservazioni circa la forma della

romanza, il poeta si mostra sicuro di rivolgersi ad un lettore

competente per il quale queste osservazioni sono, in verita ,

superflue: «Il suggerire io queste osservazioni a voi, dilettissimi,

gli e davvero un portar patate in Irlanda» (F₁, p. 29).

E esattamente da questa idea di destinatario, pero , che

prende le distanze Giuseppe Ruggia. Nelle intenzioni del

tipografo per la seconda edizione non c’era affatto la ristretta

cerchia aristocratica e alto borghese alla quale si rivolgeva

Berchet. Ne e prova anche la tiratura dell’edizione di Lugano, di

gran lunga superiore alle cento copie stampate a Parigi per

amici e conoscenti.

Il destinatario pensato da Ruggia e , invece, proprio quel largo

pubblico di impiegati, artigiani e piccoli commercianti che

avevano cantato per le strade i versi di Clarina e che avrebbero

certamente apprezzato allo stesso modo quelli delle Fantasie, se

opportunamente introdotti. Del resto, nozioni storiche

dettagliate, in particolare in riferimento all’eta medievale, non

erano certo appannaggio di tutti e opere divulgative di questo

tipo cominciavano appena a circolare in Italia. Ecco dunque

l’inserimento da parte di Ruggia di diciannove pagine di

Ragguagli storici particolarmente dettagliati che, appoggiandosi

all’opera di Sismondi citata da Berchet, puntavano a fornire le

139

conoscenze minime indispensabili per comprendere la romanza.

Si legge nei Ragguagli:

«Chi legge la storia delle Repubbliche Italiane al medioevo, per poco

non si crede trasportato a’ tempi meravigliosi della Grecia libera. Così

splendidi esempj di valore ne’ combattimenti, di fermezza nelle

risoluzioni, di longanimita nei piu disperati patimenti, quella secura

fiducia dell’uno contro i dieci, meriterebbono bene che tanto si

conoscessero, se ne scrivesse, se ne parlasse, quanto d’ordinario non si

conoscono, non se ne parla, non se ne scrive. Se non che le tenebre e la

ruggine, che sembrano coprir que’ tempi; la fatica delle ricerche per la

complicazione dell’argomento storico; e piu la direzion primitiva delle

scuole (ora vien ponendosi giu di moda), che ne volgeva esclusivamente

ai temi eroici greci e romani, furon cagione, noi crediamo, della nostra

indifferenza per un’epoca a noi piu vicina, per la storia di famiglia,

direm così , di noi italiani d’oggigiorno» (F₂, p. 1).

Inoltre la prefazione ruggiana non precludeva la lettura a chi

invece fosse perfettamente a conoscenza della materia trattata.

Da qui i chiarimenti finali:

«Vogliano i discreti condonare all’interesse dell’argomento, la

loquacita di questi ragguagli. Qual si e poi conoscitore de’ nostri annali,

se non trovasse a revocar, leggendo, la memoria di questa

luminosissima delle epoche italiane, quel compiacimento che provammo

noi stessi ritraendola; queste linee sieno a lui per non iscritte. Che noi

crederemo tuttavia di non aver sciupata al tutto l’opera nostra, quando

pur fossero di qualche opportunita a pochissimi tra i molti o i pochi, che

leggeranno questa poesia: piu lieti ancora, se mai saran seme che, anche

ad un solo, fruttifichi il desiderio di conoscere per lungo e per largo la

storia (che pur da ogni italiano dovrebb’essere conosciuta) delle

140

Repubbliche Italiane del medio evo del signor Sismondi, dalla quale

abbiamo, nella maggior parte, compilati questi ragguagli» (F₂, pp. 23-24).

I Ragguagli andavano a toccare tutti gli aspetti principali

della vicenda intercorsa tra i comuni lombardi e il Barbarossa,

in particolar modo quelli rappresentati da Berchet nella

romanza: le varie discese dell’imperatore in Italia, la

costituzione della Lega, la battaglia di Legnano, il volo delle

colombe sul carroccio (aneddoto legato alla tradizione volgare),

la fuga dell’imperatore e naturalmente la pace di Costanza.

All’ampio excursus storico si andavano ad aggiungere,

inoltre, alcune indicazioni di lettura. Chi compilo

quest’introduzione (probabilmente sempre Peri o Ciani) scelse,

infatti, di fornire al lettore anche una sorta di chiave di

interpretazione del testo. Mostrando nuovamente di volersi

rivolgere ad un pubblico ampio e meno competente rispetto a

quello immaginato da Berchet, l’edizione di Ruggia riformulava

in modo semplice e diretto le articolate considerazioni critiche

esposte dal poeta nell’introduzione originale. Si legge nei

Ragguagli:

«Dalla magnifica tela che abbiamo disvolta, ne’ due punti saglienti

della congiura di Pontida e della giornata di Legnano, prese il Berchet

subbietto a’ suoi dipinti storico-poetici. Nel che fare, non s’appiglio allo

spediente d’infarcire la storia colla favola, per darne poi cio che non

fosse bene ne l’una ne l’altra; ma con pennello forte e creatore

procaccio di sbozzare alcuni tratti storici animati e viventi, sponendo in

iscena personaggi che furono, secondo la natura lor vera: altri di pura

141

creazione cavandone dalla fantasia, foggiati dietro le ragioni de’ tempi,

li destino a rappresentare individualmente una data epoca, una data

localita : ad essere i simboli viventi delle qualita moral i e politiche

dell’eta loro. La storia dira se quel lombardo che muore, sia

un’espressione fedele delle attitudini morali del secolo duodecimo;

come gli Italiani d’oggigiorno potranno vedere, se l’altro italiano, che

vien dopo a riscontro, renda immagine dello spirito e dei caratteri del

secolo presente» (F₂, pp. 22-23).

Ad ogni modo, al di la dell’evidente differenza di pubblico

immaginata da Ruggia per questa edizione, resta da interrogarsi

se non ci fossero anche altre motivazioni tali da giustificare la

sostituzione della lettera Agli amici in Italia .

Certamente l’edizione ruggiana, privata dell ’introduzione

originale, risulta meno 'aggressiva' di quella parigina. Infatti,

delle severe bacchettate di Berchet ai compatrioti inerti («Un

tempo nelle vene de’ nostri antenati non iscorreva poi tutto

latte»; «Le soperchierie tedesche non erano in Italia ingozzate

poi tutte come ciambelle calde»; «Che i lombardi, invece di

esercitarsi a cantare 'amen', invece d’addestrarsi ad inarcar le

schiene…», F₁ pp. 8-9) non restava praticamente nulla.

L’introduzione di Ruggia sceglieva invece di muoversi con

estrema cautela su questo terreno, dando spazio solo ad una

pacata osservazione: «Gl’Italiani di allora eran piu inchini alle

forti opere, che non alle speculazioni politiche: gli Italiani

presenti son piu tratti alle idee, che all’oprare» (F₂, p. 22).

Possibile che la tipografia non desiderasse esporsi a troppi

rischi con questa pubblicazione, scegliendo quindi di dare alle

142

stampe la poesia (gia sufficientemente pericolosa di per se ), ma

di eliminare l’introduzione originale dove, tra l’altro, ci si

augurava esplicitamente di poter dare ai tedeschi «un rifrusto,

una ceffata solenne, proprio di quelle gustose che spicciano a un

tratto gl’imbrogli» (F₁, p. 9). Tuttavia la condotta, come si e

visto, costantemente spregiudicata della stamperia di Lugano

non lascia molto spazio a questa ipotesi .

Cio che appare evidente e invece una certa coerenza della

struttura di questa edizione con le altre prodotte dalla

stamperia, in particolare in riferimento agli scritti peritestuali.

Era abbastanza frequente, infatti, che le edizioni di Giuseppe

Ruggia uscissero accompagnate da una prefazione editoriale

(spesso dal titolo Avvertimento), solitamente firmate 'Gli Editori'

(o, al contrario, dal titolo Gli Editori, ma senza firma). Qui la

tipografia era solita ritagliarsi uno spazio dove rivolgersi al

proprio lettore e costruire un rapporto di fiducia con lui. Le

prefazioni, infatti, oltre a dare notizie sull’opera e sull’autore,

spiegavano le ragioni per le quali gli editori avevano deciso di

dare alle stampe tale volume e in che modo lo stesso avrebbe

arricchito il bagaglio culturale del loro pubblico.

Le prefazioni avevano anche lo scopo di soccorrere il lettore

per le opere ritenute di difficile comprensione delle quali,

appunto, si suggeriva una chiave interpretativa. Come era

avvenuto con i Ragguagli storici delle Fantasie, ad esempio,

anche nell’Avvertimento alle Poesie inedite di Ugo Foscolo del

143

1831 gli editori si rivolgevano direttamente al lettore,

orientandolo:

«Pregati da un suo parente di farle pubblicare colle nostre stampe,

noi vi aderimmo tanto piu volentieri. […] Ti paranno svenevoli e

disarmoniche; ma se ti piacera , o cortese lettore, di considerarle

attentamente, vedrai rifulgere in esse que’ puri germi che […]

fruttarono all’Italia un Genio»211.

Anche per l’Orazione sopra la predestinazione212 dell’abate

milanese Eugenio Piantanida, la prefazione accompagnava il

lettore nella comprensione di un discorso, altrimenti,

difficilmente decodificabile. Mentre per la riedizione della Storia

d’Italia213 di Carlo Botta, gli editori si dicevano certi che non

fosse necessaria la presentazione al loro pubblico ne dell’autore,

ne dell’opera in questione, vista la fama consolidata di entrambi.

La scelta di inserire prefazioni editoriali nelle proprie opere

continuo anche dopo la chiusura della Tipografia Ruggia e il

conseguente passaggio alla Tipografia della Svizzera Italiana,

guidata da Ciani. Anzi, nell’introduzione ai Dettati politici,

filosofici, statistici di Melchiorre Gioia si garantiva il

proseguimento della precedente linea editoriale: «Fin dall’anno

1839, la Tipografia Ruggia e C., della quale noi siamo successori,

pubblico le Opere Minori, di Melchiorre Gioia. […] Per soddisfare

211 Ugo Foscolo, Poesie inedite tratte da un manoscritto originale, Giuseppe Ruggia e comp., Lugano, 1831, pp. 5-6. 212 Eugenio Piantanida, Orazione sopra la predestinazione, Ruggia e comp., Lugano, 1829. 213 Carlo Botta, Storia d’Italia, Ruggia e comp., Lugano, 1834.

144

alle frequenti ricerche che ci venivano fatte, siamo lieti di

offrirvele unite nei 2 volumi che seguono»214.

La sostituzione della lettera Agli amici in Italia con i

Ragguagli storici andava a collocarsi, dunque, nel modus

operandi tipico della tipografia. E tra l’altro, ben prima della

pubblicazione delle Fantasie, Ruggia aveva scelto di sopprimere

deliberatamente anche un’altra introduzione berchettiana,

quella dei Profughi di Parga . L’Avertissement de l’auteur

presente nell’edizione di Firmin Didot del ‘23, infatti, non

compare mai nelle varie raccolte di Poesie pubblicate a Lugano

con la falsa indicazione di Londra-Tipografia Taylor.

LE EDIZIONI SUCCESSIVE AL ‘29 E L’EDIZIONE RESNATI

Alla seconda edizione delle Fantasie del 1829 ne seguì

un’altra, nel 1831. Evidentemente la pubblicazione precedente

aveva riscosso un tale successo che qualche tipografo decise di

darla ancora alle stampe. La romanza passo , dunque,

nuovamente sotto i torchi e nel ’31 vide la luce quella che sul

frontespizio era annunciata come la 'terza edizione' delle

Fantasie.

Difficile fare considerazioni approfondite su questa edizione

dal momento che non se n’e conservato quasi nessun

esemplare215.

214 Prefazione a Melchiorre Gioia, Dettati politici, filosofici, statistici. Tratti dalle opere minori, Tipografia della Svizzera Italiana, Lugano, 1850, p. III. 215 L’unico esemplare individuato è conservato presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma (F₃Rm): esemplare in raccolta miscellanea (SEGNATURA: MISC.RIS.A.208/7/2).

145

Tuttavia una prima osservazione che si puo fare a tal

proposito e che l’edizione in questione, certamente non

autoriale, potrebbe non essere della tipografia di Ruggia. La

veste grafica e infatti abbastanza simile a quella dell’edizione

del ’29, eppure manca sul frontespizio la xilografia della

lampada ad olio, generalmente presente nelle pubblicazioni

ruggiane delle opere di Berchet. Altro aspetto insolito riguarda

la tiratura, solitamente sempre molto alta, delle edizioni

ruggiane. Di questa edizione, invece, come si e detto, non si e

conservato quasi nessun esemplare. Possibile quindi si trattasse

di un’edizione contraffatta di qualche altra tipografia svizzera o

italiana (questo spiegherebbe l’assenza della xilografia sul

frontespizio). Probabilmente la stamperia in questione ne

produsse solo pochi esemplari, ma la mancanza di testimoni

potrebbe essere imputabile anche a un possibile sequestro

dell’edizione (con conseguente distruzione).

Ad ogni modo, dall’aspetto Le Fantasie del ’31 sembrerebbero

riconducibili alla Tipografia Elvetica di Capolago (nata nel

1830). Non si tratterebbe dunque di un’edizione di Giuseppe

Ruggia, e cio troverebbe conferma anche nel fatto che alcune

lezioni scorrette presenti nell’edizione luganese del ’29 sono poi

state corrette nelle raccolte di poesie di Berchet degli anni ’30

stampate da Ruggia, mentre in questa edizione sono rimaste

immutate.

In ogni caso, si tratta di un’edizione molto simile a quella del

1829, per contenuto e impostazione editoriale. Dall’osservazione

146

dell’unico testimone trovato, infatti, risultano solo poche e

irrilevanti differenze tra le due pubblicazioni.

Il frontespizio citava: LE FANTASIE | ROMANZA | DI | GIOVANNI

BERCHET | PRECEDUTA | DA RAGGUAGLI STORICI | – | TERZA EDIZIONE | – |

LONDRA | NELLA STAMPERIA TAYLOR | MDCCCXXXI. | e alla pagina 3

iniziava la prefazione: RAGGUAGLI | STORICI.

L’introduzione occupava le pagine dalla 3 alla 29 ed era

firmata 'Gli Editori'. L’occhietto, nella pagina precedente l’inizio

della romanza, specificava: LE FANTASIE | ROMANZA e alla pagina 33

cominciava la poesia: LE FANTASIE | (piccolo fregio). La romanza

terminava a pagina 66. Il piccolo fregio, differente rispetto a

quello dell’edizione ruggiana del 1829, era ripetuto anche a fine

volume.

Dal punto di vista del contenuto, come si e detto, l’edizione

risulta del tutto identica alla seconda edizione di Ruggia. Per

quanto riguarda i Ragguagli storici sono presenti solo

pochissimi ritocchi di tipo ortografico e grammaticale (alla

forma «in una unica», F₂ p. 12, si preferisce, ad esempio, «in

un’unica», F₃ p. 12). Mentre, per quanto riguarda la romanza, il

testo ricalca abbastanza fedelmente quello dell’edizione

ruggiana del ’29. L’edizione, tra l’altro, pare essere stata allestita

senza particolare attenzione dal momento che delle Fantasie del

1829 riprende anche gli errori (v. 133 «importami;», v. 379

«veduto.», v. 400 «ancor.», v. 728 «se,»). E tuttavia fa propri

anche i miglioramenti al testo inseriti da Ruggia (v. 226

«deserto,», v. 309 «Sì,», v. 555 «fu?»). Non c’e dubbio, dunque,

147

che il testo di riferimento sia stato quello di un esemplare

luganese. Ad ogni modo, anche questa edizione conferma il

grande interesse per Le Fantasie di Berchet. Negli anni

successivi al ’29, del resto, il successo delle Fantasie presso il

largo pubblico porto alla loro ristampa in numerose raccolte di

poesie, solitamente con la falsa indicazione Londra-Tipografia

Taylor.

L’opera di Berchet ebbe in questo modo ampia diffusione,

specie nel nord e centro Italia. In queste raccolte (che

generalmente contenevano oltre alle Fantasie anche I profughi di

Parga e le poesie dell’esilio), la romanza figurava preceduta dai

Ragguagli storici; in alcuni casi, invece, era priva di

introduzione.

Dal 1840 Le Fantasie presero a circolare anche in altre

edizioni. In quell’anno la Stamperia Italiana Mompalao e comp.

di Malta, ad esempio, scelse di darle alle stampe in un volume

dal titolo Poesie di Giovanni Berchet piemontese . Nella raccolta

Le Fantasie comparivano a pagina 83; prima dell’inizio della

romanza, tra due fregi, si trovava l’indicazione: VEDETE AL FINE LE

NOTIZIE STORICHE.

In questa raccolta, infatti, i ragguagli ruggiani erano stati

spostati al termine della poesia. A pagina 119 si trovava

l’occhietto: Le fantasie. | – | NOTIZIE STORICHE | – | e alla pagina

successiva una citazione tratta da un’orazione di Ugo Foscolo216,

216 Si tratta di Ugo Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, Stamperia reale, Milano, 1809.

148

citata anche da Ruggia all’interno della sua prefazione. A pagina

121 cominciavano invece i ragguagli veri e propri: LE FANTASIE. |

(piccolo fregio) | NOTIZIE COMPILATE DALLA STORIA DELLE

REPUBBLICHE ITALIANE AL MEDIO EVO , DEL SIGNOR SISMONDO DE

SISMONDI. | (piccolo fregio). Il testo dei ragguagli era fedelmente

ripreso dall’edizione di Ruggia, e al termine si specificava: «Gli

editori (segnati nell’edizione impressa in Londra, 1830, per A.

Taylor)»217.

Nel 1841, inoltre, uscì a Parigi dall’editore Baudry la raccolta

Rime scelte di L. Carrer, J. Vittorelli, G. Berchet, G. Perticari e G.

Marchetti218. In apertura di volume l’editore precisava le

intenzioni della pubblicazione:

«Come una scintilla puo suscitare vasto incendio anche dove pareva

non fosse esca, così talvolta accade nella mente umana il destarsi per

lievi cause un genio a se stesso sconosciuto, e grandeggiare. […]

Vengono in seguito nel presente volume I profughi di Parga e le

Romanze di Berchet da Milano, che possiam chiamare, quanto allo

intento di svegliare, di nutrire amor di patria e d’odio contro gli

oppressori il Be ranger dell’Italia, con maggior impeto pero di verso e di

sdegno. Men fortunato egli del vate francese va da vent’anni esulando in

terre straniere, e pare gli sia tocco dell’amaro retaggio di tanti poeti

italiani cui la carita del suol natio fu seme che frutto esiglio. Il Berchet

217 Come si è visto questa introduzione compariva già nell’edizione delle Fantasie del 1829. Evidentemente la stamperia Mompalao e comp. utilizzò invece come testo di riferimento un’edizione delle Poesie del 1830. Quanto all’indicazione «A. Taylor», invece, si tratterebbe solo di un refuso di stampa. Il riferimento corretto è R. Taylor. 218 AA. VV., Rime scelte di L. Carrer, J. Vittorelli, G. Berchet, G. Perticari e G. Marchetti, Baudry, Parigi, 1841. Il volume consultato per questo studio è conservato presso la Biblioteca Comunale Centrale di Milano (F₄₁Baudry): SEGNATURA: DSIC.B.20.-5.

149

nel permetterci la ristampa delle sue rime fu grazioso di rivedere

l’esemplare che ci serve di testo, e del doppio dono gli mostriam qui

vivissima riconoscenza»219.

Nonostante Berchet si trovasse effettivamente a Parigi

attorno al 1841, non e facile affermare con certezza che il poeta

mise nuovamente mano alle Fantasie per questa edizione. Il

testo della romanza dato alle stampe in questa raccolta (privo

della lettera introduttiva) presenta, infatti, delle varianti che

non ritornano nell’edizione Resnati del 1848 (e in nessun’altra

edizione); e presenta altresì le stesse varianti dell’edizione di

Ruggia del 1829. Dunque la sensazione e che Baudry abbia

utilizzato come testo di riferimento per questa raccolta

un’edizione di poesie di Berchet contraffatta (probabilmente

qualche edizione svizzera), e che su questo testo,

eventualmente, sia intervenuto il poeta. Ad ogni modo delle

varianti introdotte (non molte, e per lo piu di natura ortografica

e grammaticale) il poeta si dimentico ben presto, e non le inserì

affatto nell’edizione delle Fantasie ed I profughi di Parga del ’48.

Di seguito sono riportate le varianti piu significative presenti

nell’edizione Baudry.

F₁Mi F₄₁Baudry

v. 46 Come d’un’alta speme; v. 120 Vitale ancora il sol. v. 181 Onde le cupide v. 297 Dove son le tre nunzie de’ santi, v. 311 Nel suo giorno ei solleva gli oppressi , v. 349 Se un rettor, se un de’ consoli falla, v. 367 È il dolor che n’ha fatto concordi:

spene; Sol. Donde le cupide Santi, Ei Consoli Il dolore n’ha fatto concordi:

219 AA. VV., Rime scelte di L. Carrer, J. Vittorelli, G. Berchet, G. Perticari e G. Marchetti cit., pp. 1-4.

150

Altre varianti sono relative alla punteggiatura e agli accenti.

Si inseriscono, infatti, dieresi, accenti e accenti circonflessi, ma in

modo piuttosto casuale e senza un intervento sistematico come

sara per l’edizione Resnati.

In ogni caso, la variante che merita piu attenzione e «spene»,

l’unica ad essere recuperata anche nell’edizione del ‘48. Forse il

poeta, se davvero intervenne sul testo, scelse di sostituire

«speme» al v. 46 con il piu raro «spene», per necessita di rima,

richiamando così il verso 43.

F₁Mi F₄₁Baudry

v. 41 Dato ha il cappuccio agli omeri, Indosso ha il lucco antico, Cinto è di cuoio, e viene Grave, ma in atto amico; Trasfuso agli occhi ha il giubilo Come d’un’alta speme; La sua parola è folgore: Dirla oggimai chi può?

Dato ha il cappuccio agli omeri, Indosso ha il lucco antico, Cinto è di cuoio, e viene Grave, ma in atto amico; Trasfuso agli occhi ha il giubilo Come d’un’alta spene; La sua parola è folgore: Dirla oggimai chi può?

Nel resto della romanza, invece, non essendoci ulteriori

necessita di rima, resta la lezione «speme» (v. 370, «un fior mai

dalla speme promesso!»).

I pochi esemplari rimasti dell’edizione parigina di Delaforest

portano tutti «speme», ma forse gia in quel caso si tratto di un

errore e il manoscritto (che non possediamo) portava la lezione

«spene» mal interpretata in tipografia.

Nella sua produzione precedente e successiva alle Fantasie,

Berchet mostra sempre di preferire la lezione «speme» (Amore v.

39, «Della speme vivrò, che a me pietosa»; I profughi di Parga v.

66, «Le travaglia la speme nel cor.»; Clarina v. 16, «Della speme; –

e Dio ‘l creò:»; Matilde v. 34, «Chi speme non ha .»; Vecchie

151

romanze spagnuole. L’infanta schernitrice v. 7, «Ponsi, a speme di

compagni,»;). Tuttavia il poeta aveva gia usato la forma «spene»

in passato, e anche in questo caso per necessita di rima. Nella

traduzione del vicario di Wakefield220 del 1810 si legge:

v. 199 M’era caro saperlo fedele; ma superba godea di sue pene, e gioiva in udir sue querele L’infelice, perduta ogni spene, del mio lungo disprezzo affannato, ruppe alfine le dure catene:

Ma stabilire con sicurezza che la variante «spene» sia stata

inserita dall’autore nell’edizione di Baudry non e possibile.

«Spene», infatti, circolava gia prima del ’41 in un’edizione

contraffatta di poesie221 del poeta, stampata nel 1832. L’edizione

del ’32 non e certamente autoriale; la variante fu probabilmente

causata da un errore di stampa. In alternativa potrebbe esser

stata introdotta dal tipografo, accortosi della possibilita di

migliorare i versi con una rima.

Il testo dato alle stampe da Baudry potrebbe essere di questa

edizione del ’32, o di un’edizione derivata da quest’ultima. In tal

caso la variante non sarebbe stata inserita dall’autore, ma

trovata nel testo fornito da Baudry e accettata.

La variante «spene» ricorre naturalmente anche nelle edizioni

precedenti al 1848 che fecero riferimento alla Raccolta delle

poesie del ’32. Ad esempio nella raccolta uscita a Bastia nel 1847,

la quarta edizione della Raccolta delle poesie di Giovanni Berchet ,

220 Si veda p. 19. 221 Giovanni Berchet, Raccolta delle poesie. Terza edizione, s.n., Londra, 1832 (da non confondere con Giovanni Berchet, Poesie. Terza edizione riveduta dall’autore coll’aggiunta di altre nuove romanze, Taylor, Londra, 1832, che invece porta «speme»).

152

edita dalla tipografia di Cesare Fabiani, che riportava Le

Fantasie precedute dai Ragguagli storici (firmati 'Gli Editori').

Nella prefazione all’intera edizione si legge:

«Un’edizione a buon mercato delle Poesie di Berchet mancava. Noi

abbiamo creduto che non mai piu che adesso essa fosse divenuta

necessaria. Se infatti i patriottici CARMI di questo nostro novello

TIRTEO, valsero gia a conservare nel petto ai forti la sacra fiamma del

patrio amore 'alere flammam' valere oggi possono e denno a farla e piu

ardente e piu viva, or che per ogni dove divampa, sì che invano abbiano

a valere per rattenerla e comprimerla i nemici esterni, e gli interni,

soffogatori . Ne credasi, noi, questi poetici illustri componimenti oggi

riprodurre in odio di re Carlo Alberto. In odio no; ma ben perche

apprenda coi nobili fatti intrapresi necessario essere alla sua gloria

cancellare i vituperj del passato: ed affinche i vecchi biasimi gli sian di

stimolo a nobilissima emenda»222.

In ogni caso fu soprattutto il 1848 e gli importanti eventi di

quell’anno a rinnovare l’interesse per la poesia berchettiana e a

giustificare le numerose edizioni di poesie che si susseguirono

l’una dopo l’altra in tutta Italia.

Nel ‘48, infatti, scoppiarono una serie di moti in tutta la

penisola tali da riaccendere seriamente le speranze

d’indipendenza e d’unita nazionale. A dare inizio a questa fase di

rivoluzioni, che avrebbe preso piede anche in Europa, fu la

rivoluzione siciliana del 12 gennaio che diede inizio al processo

di sgretolamento del regno dei Borbone nelle Due Sicilie. Al

222 Giovanni Berchet, Raccolta delle poesie, Cesare Fabiani, Bastia, 1847, p. 3.

153

centro, invece, estromesso il papa Pio IX dal potere temporale, si

vide la nascita della Repubblica Romana.

Anche il Lombardo-Veneto visse un’intensa stagione di

rivolte, culminata con le cinque giornate di Milano e la prima

guerra d’indipendenza, che duro dal 23 marzo 1848 al 22 agosto

1849 e termino con il ritorno degli Austriaci nel nord Italia.

Nel 1848 Giovanni Berchet si trovava a Milano. Conclusasi

intorno al ’30 l’infelice parentesi londinese, il poeta aveva

passato gli anni seguenti in giro per l’Europa, facendo

interessanti esperienze culturali (a Bonn frequento per diverso

tempo dei corsi universitari, ebbe poi occasione di conoscere

Niebuhr, Schlegel e Naumann; a Edimburgo fece la conoscenza

del filologo Pillans, del filosofo Hamiltonn e di lord Jeffrey,

fondatore della «Edinburgh Review»)223. Per molto tempo era

stato anche ospite degli Arconati a Gaasbeek dove, in perfetta

tranquillita , aveva lavorato alle traduzioni delle Vecchie

romanze spagnuole224, tanto incoraggiate dalla marchesa

Costanza e a lei dedicate.

Nel 1838 l’Austria concesse l’amnistia a tutti i proscritti

lombardi e molti amici di Berchet, tra cui gli stessi Arconati,

fecero dunque rientro in Italia. Il poeta, invece, continuo a

girare l’Europa per diverso tempo finche , accolta dal Piemonte

la sua richiesta di rientro, torno in patria il 15 novembre 1846.

Una volta tornato Berchet prese subito parte ai dibattiti

223 Si veda Alberto Cadioli, Introduzione a Berchet, Laterza, Bari, 1991, pp. 135 e 145. 224 Giovanni Berchet, Vecchie romanze spagnuole, Hauman, Cattoir e Compagni, Bruxelles, 1837.

154

sull’unita d’Italia mostrando, in realta , quanto fossero cambiate

negli ultimi anni le sue idee politiche. Non passo molto infatti

che, con vivo sdegno, i militanti mazziniani presero a chiamarlo

'traditore', disprezzando l’eclatante passo indietro compiuto dal

poeta nei confronti della casata sabauda. Berchet, infatti, nei

lunghi anni dell’esilio, ma anche nei tanti confronti avuti con

esuli e patrioti italiani, si era sempre piu convinto

dell’impossibilita di veder andare a buon fine i tentativi

d’indipendenza portati avanti dai repubblicani. Pur a

malincuore, Berchet non credeva piu nelle sollevazioni che negli

ultimi anni avevano avuto il solo risultato di «compromettere

piu persone, e far piu esosi i governi presso la moltitudine»225.

La nuova idea di Berchet era dunque che l’unita , per essere

raggiunta veramente, dovesse passare prima dal Regno di Carlo

Alberto, e dunque dall’annessione del la Lombardia al Piemonte.

Scrive Berchet in una lettera ad Antonio Panizzi:

«L’unità assoluta dell’Italia verra col tempo; che in politica come in

natura nulla si fa di un tratto, d’un solo sbalzo. Intanto qui, nella vallata

del Po, da Alpi ad Alpi, noi vogliamo uno Stato (e dì pure un Regno)

costituzionale, forte, compatto, di un dodici milioni almeno di abitanti, il

quale ci salvi adesso e in futuro da qualunque irruzione straniera, sia

ch’ella venga da Germania, sia ch’ella venga da Francia»226.

Un drastico cambiamento, insomma, quello di Berchet, che al

realismo politico e al perseguimento di obbiettivi concreti

225 Lettera datata Wiesbaden, 31 agosto [1833]. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., p. 16. 226 Lettera datata Milano, 26 aprile [1848]. Citazione tratta da Luigi Fagan, Lettere ad Antonio Panizzi di uomini illustri e di amici italiani (1823-1870), Barbera, Firenze, 1882, pp. 154-55.

155

sacrificava volentieri i vecchi rancori del passato («Ma

periscano tutte le private simpatie, periscano tutt’i rancori

privati in faccia alla salute della patria. Tanto piu splendida sara

la nostra liberta , se avvalorata da sagrifici individuali»227),

rimproverando di non fare lo stesso a Mazzini che per le sue

«private utopie»228 stava rallentando la salvezza collettiva.

Naturalmente tutti questi cambiamenti nella vita di Berchet

ebbero significative ripercussioni sulla sua attivita poetica.

Negli anni ’30 e ’40, infatti, la sua produzione letteraria si fece

sporadica. Dopo le Romanze spagnuole sono ben pochi i lavori a

cui l’autore scelse di dedicarsi: L’amore illecito (il rifacimento di

un canto popolare), l’Elegia rabbiosa nel 1837, una poesia

scherzosa229 indirizzata all’amica Costanza nel 1838 e, nel ’42, i

versi liberi A Giuseppe Gando230. Ma in nessuna di queste opere e

piu riconoscibile «il poeta dell’odio allo straniero». Al contrario,

le aspre invettive che avevano caratterizzato le opere precedenti

lasciano il posto alla speranza. Nei versi A Giuseppe Gando si

legge: «Dille per nome mio che cuor non perda; / dille che la

sventura / quaggiú immortal non dura»231.

La possibilita di lavorare davvero alla tanto sognata

indipendenza, con un impegno politico in prima persona , finì

per minare le fondamenta stesse della produzione letteraria di

227 Giovanni Berchet, Ai lombardi, allocuzione politica del 14 maggio 1848. Citazione tratta da G. Berchet, Opere. Scritti critici e letterari, vol. II, a c. di E. Bellorini cit., p. 231. 228 Lettera datata Milano, 11 maggio 1848. Citazione tratta da L. Fagan, Lettere ad Antonio Panizzi cit., p. 159. 229 Si veda G. Berchet, Opere. Poesie, vol. I, a c. di E. Bellorini cit., p. 417. 230 Ivi, p. 418. 231 Ibidem.

156

Berchet. Non era piu tempo per una poesia sofferente e

disperata, e neppure per una poesia impregnata di desiderio di

rivalsa. Berchet aveva l’occasione di lavorare concretamente per

quella patria che, molto prima di essere argomento letterario,

era un desiderio, un bisogno reale. In risposta a Giuseppe

Massari che chiedeva le ragioni del suo silenzio, il poeta aveva

precisato: «Sono stato il poeta del dolore, dell’ira e della fede, e

mi basta. Oggi voglio servire la mia patria diversamente»232.

Del resto, la poesia di Berchet non era mai stata, ne avrebbe

mai potuto essere fine a se stessa: «Non posso, non voglio, non

debbo fare come Monti che avea la Musa pronta a cantare di

tutti e di tutto»233. Scriveva Massari:

«Il senso della realta non lo abbandonava mai: il carattere

soggiogava la fantasia. 'Io', soleva spesso dire, 'non ho scritto di critica

letteraria, non ho dettato componimenti poetici per il gusto di scrivere,

di mostrare che sono poeta: ho scritto sempre con un determinato

scopo, e quando uno scopo pratico non mi si parava dinanzi agli occhi

della mente, ho preferito tacere. Invece di scrivere ho letto '»234.

E a tal proposito e emblematico come nel 1848 Berchet

rifiuto di scrivere dei versi commemorativi per i caduti delle

232 Giovanni Berchet in una testimonianza di Giuseppe Massari. Citazione tratta da Ettore Li Gotti, G. Berchet. La letteratura e la politica del risorgimento nazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1933, p. 473. 233 Ibidem. 234 Giuseppe Massari, Giovanni Berchet. Ricordi dell’esilio, in «Fanfulla della Domenica», 26 settembre 1880, p. 1.

157

cinque giornate di Milano235, ma fu attivissimo sul fronte politico

lavorando alla sollevazione (poi fallita) che avrebbe dovuto

liberare Milano dagli Austriaci.

Il ’48 fu dunque un anno importante tanto per Berchet che

per l’intera nazione, ecco quindi spiegato il ritrovato interesse

di tipografi e librai per le raccolte di poesie dell’autore. A Bastia,

dalla tipografia di Cesare Fabiani, uscì , proprio nel ’48, la quinta

edizione della Raccolta delle poesie di Giovanni Berchet, anche in

questo caso contenente Le Fantasie precedute dai Ragguagli

storici. A Venezia, invece, dalla Tipografia Repubblicana di

Teresa Gattei usciva nello stesso anno la Raccolta completa delle

poesie di Giovanni Berchet scritte fino ad ora . Anche qui Le

Fantasie comparivano precedute dai ragguagli storici (firmati

'Gli Editori'). A pagina 1, infatti, l’introduzione ruggiana era

preceduta dall’occhietto: LA LEGA LOMBARDA | FANTASIE | (PICCOLO

FREGIO) | RAGGUAGLI STORICI mentre a pagina 19 iniziava la

romanza: LA LEGA LOMBARDA | FANTASIE.

Sempre precedute dall’introduzione ruggiana, Le Fantasie

comparivano anche nel volume di Poesie raccolte da Pietro Zen

edite dalla tipografia Sicca di Padova. L’edizione, tra l’altro, in

235 Berchet fu invitato a scrivere dei versi commemorativi per la rivoluzione milanese del ’48 da Gabrio Casati. Il poeta tuttavia rifiutò, come si legge in una lettera del 3 aprile 1848 indirizzata a Casati: «Amico onorevolissimo, sono davvero dolentissimo di non essere in istato di secondarvi nel desiderio vostro. La mia salute mi ha distolto da un pezzo dal far versi; e per di più sono travagliato adesso da tante commozioni che non so più come potrei trovare la pacatezza di pensare a cosa degna di tanta solennità. Milano la riveggo dopo 27 anni, e in che tempi! Vogliatemi, ve ne scongiuro, scusarmi e non augurare male di me per questo primo rifiuto che pesa anche a me moltissimo». Citazione tratta da Emilio Sioli Legnani, Il 'Saluto a Milano il 6 Aprile 1848' non è del Berchet in AA. VV., Studi sul Berchet cit., pp. 421-27.

158

apertura di volume criticava aspramente alcune edizioni di

poesie berchettiane uscite a Venezia:

«Nel presente volumetto il Collettore si attenne strettamente a dare

in luce le sole Poesie dell’illustre Berchet, senza frammischiarvi, come

altri di recente fece in Venezia (e certo con dispiacere di lu i, che grande

per se sdegna vestirsi delle altrui penne), l’Ode di Bazzoni per la

creduta morte di Silvio Pellico, Luna romita aerea; ed il Componimento

poetico per la rivolta di Napoli , d’autore diverso. Le Illustrazioni

storiche poi premesse alle Fantasie, le quali hanno una immediata

relazione con queste, e ne chiariscono il concetto, compariscono

stampate per la prima volta in queste Province»236.

Sempre nel ’48, nella Raccolta di poesie liriche relative ai

presenti successi d’Italia pubblicata a Macerata dalla tipografia

Spada, Le Fantasie comparivano prive di introduzione; così come

nella raccolta Poesie liberali di Berchet, Borghi e Giusti 237 uscita

nello stesso anno a Palermo dalla stamperia di Francesco Lao.

Le poesie di Berchet riscossero un certo successo anche a

Napoli. Una raccolta di Poesie di Berchet uscì presso Tramater e

un’altra dalla Stamperia costituzionale238. In entrambi i casi Le

Fantasie erano precedute dai Ragguagli storici .

236 Giovanni Berchet, Poesie raccolte da Pietro Zen, Sicca, Padova, 1848, p. 3; non è chiaro di quale edizione veneziana si parli. Ad ogni modo è da escludere si tratti della raccolta edita da Teresa Gattei, dal momento che non conteneva i componimenti qui citati. 237 L’edizione era dedicata a Pietro Riso, barone di Colobria e comandante generale della guardia nazionale. Si legge in apertura di volume: «La Sicilia deve anche a Voi la sua rigenerazione. Rinunziando agli agi ed alle delizie, di cui potete godere per lo splendore della vostra fortuna, avete manifestato alla patria di che tempra sia l’affetto che sentite per Essa […]. È per questo che ci animiamo a dedicarvi una scelta delle poesie di Berchet, Borghi e Giusti scrittori altissimi e della libertà caldissimi». 238 L’edizione riproduceva anche la prefazione dell’edizione di Poesie uscita a Bastia nel 1847.

159

Il proliferare di così numerose edizioni delle sue opere, porto

probabilmente il poeta a scegliere di affidare allo stampatore

Resnati di Milano un’edizione curata personalmente. La

differenza tra questa edizione e le altre diffusesi in tutta Italia e

evidente gia a partire dal contenuto. Di tutte le romanze, infatti,

Berchet scelse di ridare alle stampe unicamente Le Fantasie e I

profughi di Parga . Restavano escluse da questa pubblicazione,

invece, tutte le romanze dell’esilio. Una scelta non da poco

considerando che un’edizione delle romanze del periodo

londinese curata dall’autore continuava a mancare, e

componimenti come Clarina, Il romito del Cenisio etc.

circolavano unicamente nelle edizioni allestite da Giuseppe

Ruggia, o da altri stampatori che a Ruggia avevano fatto

riferimento. Ma la scelta del poeta e in verita abbastanza

comprensibile. Se il messaggio contenuto nei Profughi di Parga e

nelle Fantasie era ancora attuale nel 1848, certo non lo era piu

quello delle romanze dell’esilio. Specialmente considerata la

nuova posizione di Berchet, ora militante nelle file dei

sostenitori di Carlo Alberto. Se infatti il poeta non aveva

rinnegato il versi terribili scritti contro il sovrano, tanto piu che

amici e nemici glieli rammentavano in continuazione, Berchet si

era detto altresì disposto ad accantonare il passato in nome del

bene comune: «E Carlo Alberto che noi vogliamo a Re dell’Italia

superiore; e se son io che predico per questo, tu che sai quello

che io mi sia, puoi ben credere che la necessita imperiosa e

160

l’amor disinteressato della mia patria me lo consigliano, e non

altro»239.

E dunque, in nome del bene comune, le romanze dell’esilio

dovevano essere in qualche modo accantonate. Le Fantasie e I

profughi di Parga , invece, non solo vennero ripubblicate, ma il

poeta approfitto per rivedere il testo apportandovi numerose

modifiche, per lo piu formali. Naturalmente in questa edizione,

per la prima volta, Le Fantasie comparivano introdotte

dall’originale lettera Agli amici in Italia , anch’essa ritoccata.

L’edizione Resnati si presentava come un volumetto non

troppo elegante ma ben curato, stampato in 16°. Contava 141

pagine, e la copertina riportava, al centro di una cornice ricca di

numerosi decori: LE FANTASIE | ED | I PROFUGHI DI PARGA | ROMANZE |

DI | GIOVANNI BERCHET | MILANO | Presso Giovanni Resnati Libraio |

MDCCCXLVIII. Sulla seconda di copertina si elencavano, invece, le

altre opere presenti nella libreria di Resnati e il prezzo

corrispondente. L’elenco continuava in ordine alfabetico anche

sulla terza di copertina. Mentre sulla quarta di copertina,

sempre al centro di una ricca cornice, si trovava una xilografia

raffigurante un’arpa (che, pur diversa, richiamava quella di

Delaforest).

Il frontespizio citava: LE | FANTASIE | ED | I PROFUGHI DI PARGA |

ROMANZE | DI | GIOVANNI BERCHET | IN MILANO | Presso Giovanni

239 Lettera datata Milano, 26 aprile [1848]. Citazione tratta da L. Fagan, Lettere ad Antonio Panizzi cit., p. 155.

161

Resnati Libraio | MDCCCXLVII |, mentre al verso della pagina era

presente l’indicazione: Tip. Ronchetti e Ferreri.

Alla pagina seguente si trovava l’occhietto: ROMANZE | DI |

GIOVANNI BERCHET| mentre al verso della stessa pagina c’era

un’importante precisazione di Resnati: «Questa edizione venne

eseguita dall’Editore con grazioso permesso del chiarissimo

Autore, il quale non intende percio di pregiudicare ai suoi diritti

di proprieta che le Leggi gli garantiscono».

Seguiva l’occhietto della romanza: LE FANTASIE | ROMANZA |

mentre dalla pagina 3 iniziava la lettera introduttiva, preceduta

dal titolo : AGLI AMICI MIEI | IN ITALIA | (piccolo fregio),

contrassegnato da un asterisco che precisava: «Prefazione

dell’Autore posta innanzi alla edizione del Libraio Delaforest.

Parigi, 1829, in 12».

Dalla pagina 3 alla 47 c’era dunque l’introduzione, mentre a

pagina 49 iniziava la romanza preceduta dal titolo: LE FANTASIE |

(piccolo fregio). Lo stesso piccolo fregio era anche in chiusura di

poesia, e il testo si concludeva a pagina 102. Seguiva l’occhietto

dei Profughi di Parga e i versi privi dello scritto introduttivo del

’23.

Per l’impaginazione delle Fantasie, Resnati mise

un’attenzione particolare nel riprodurre il testo come

nell’edizione originale. Se la lettera Agli amici in Italia ha infatti

numerazione casuale, le ottave delle Fantasie, invece, sono

disposte nel volume esattamente come nell’edizione di

Delaforest.

162

Anche per questa edizione la tiratura non doveva essere

particolarmente alta, e infatti oggi risulta piuttosto rara240.

Come si e detto, nel ridare alle stampe le sue opere Berchet

introdusse diverse modifiche. Alcune andavano semplicemente a

correggere gli errori dell’edizione di Delaforest, ma per la

maggior parte si trattava di piccoli ma numerosissimi interventi

in ambito ortografico e grammaticale241. Il poeta ritocca, ad

esempio, la punteggiatura, soprattutto quella in chiusura di

verso. Ma mostra attenzione in particolar modo per gli accenti (Int. p.

13, «vivi» → Int. p. 12, «vì vi»; Int. p. 38, «dalle dalle» → Int. p. 39, «da lle

da lle»; v. 59, «sorta» → «sórta»; v. 113, «sopito» → «sopìto», che tuttavia

resta «sopito» nelle ottave successive; v.138, «pampini» → «pàmpini»; v.

354, «pudica» → «pudìca»; v. 375, «volto» → «vólto»; v. 429, «seguito» →

«séguito»; v. 742, «albore» → «albóre»). Inoltre viene inserito

graficamente l’accento grave della vocale tonica i all’interno delle

parole terminanti in -ia o in –ie.

240 Gli esemplari consultati per questo studio sono conservati presso: Biblioteca Comunale Centrale di Milano (F₄Mi): esemplare singolo. SEGNATURA: SG.F.4.-3.

Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (F₄MiB): esemplare singolo, con copertina originale (privo della terza e quarta di copertina). SEGNATURA: SALA.FOSC.05.0114.

Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano (F₄MiA): esemplare singolo con copertina originale. SEGNATURA: S.C#.G.II.67. 241 Nel 1843, qualche anno prima della stampa delle Fantasie ed I profughi di Parga, era uscita a Milano, presso Branca (e anche presso Bianchi di Giacomo), la Lessigrafia italiana di Giovanni Gherardini. L’opera conteneva un confronto tra la forma di scrittura di alcune parole voluta dalla Crusca e quella proposta dall’autore. Queste indicazioni non sembrano esser state adottate in modo sistematico nelle edizioni di Resnati; né tutte le indicazioni date da Gherardini sono accolte dal poeta. Ma è possibile che l’interesse generato da questa lessigrafia spinse Berchet ad una maggiore attenzione di tipo ortografico-grammaticale nel testo delle Fantasie dato alle stampe nel ’48.

163

F₁Mi F₄Mi Lettera Agli amici in Italia p. 5 pedanteria p. 8 soperchierie p. 10 villania p. 11 ipocrisia p. 25 anomalie p. 30 soperchieria p. 31 apologia p. 31 diavolerie p. 33 gofferia p. 35 tirannia p. 35 simpatia p. 43 angherie

p. 4 pedanterì a p. 7 soperchierì e p. 9 villanì a p. 10 ipocrisì a p. 25 anomalì e p. 30 soperchierì a p. 32 apologì a p. 32 diavolerì e p. 34 gofferì a p. 35 tirannì a p. 36 simpatì a p. 45 angherì e

Romanza:

v. 18 obblia v. 236 venia v. 265 languia v. 324 uscia v. 615 reddia

obblìa venìa languìa uscìa reddìa

Mentre per le forme contratte si sceglie di inserire l’accento

circonflesso.

F₁Mi Romanza:

v. 87 fer v. 164 concepìr v. 209 giuràr v. 244 riposar v. 298 uscìr v. 300 salìr v. 456 dier v. 695 ver

F₄Mi

fêr concepîr giurâr riposâr uscîr salîr diêr vêr

Altro aspetto che sembra interessare il poeta riguarda il segno

grafico della dieresi, che viene sistematicamente inserito la dove la

struttura metrica lo richiede.

164

F₁Mi Romanza:

v. 184 Trionfator! v. 222 Col trionfal concento v. 252 Cercando impazienti v. 290 Si stringe al cor; l’aita, v. 315 Saldi, eretti, riarsi di voglie, v. 588 D’italiana aurora. v. 602 Ei genial lo spira; v. 622 A circuirgli il passo, v. 662 Dell’inquieto esiglio?

F₄Mi

Trïonfator trïonfal impazïenti aïta rïarsi italïana genïal circuïrgli inquïeto

In due casi Berchet sceglie di abolire l’apocope (Int. p. 9, «saldo ne’

petti» → Int. p. 8, «nei petti»; Int. p. 15, «ne’ boschi» → Int. p. 14, «nei

boschi»), ma viceversa preferisce «amor» ad «amore» (Int. p. 37,

«all’amore della patria» → Int. p. 38, «all’amor della patria») e «Signor»

a «Signore» (v. 559, «Nei dì del Signore,» → «Nei dì del Signor,»). Altri

interventi riguardano invece le maiuscole. A tal proposito e curiosa la

scelta del poeta circa il titolo di imperatore in una frase che, tuttavia, ne

ridicolizzava il valore. Nell’introduzione a p. 9 della prima edizione si

legge infatti: «Federigo Hohenstaufen, soprannominato il Barbarossa e

facente il mestiere d’imperatore». Nell’edizione Resnati a p. 7 si trova

invece «Imperatore». In altri contesti, invece, la scelta della maiuscola e

piu comprensibile (Int. p. 20, «obbedientissimi a’ governi» → Int. p. 19,

«obbedientissimi a’ Governi»). Caricato di maggiore importanza, va

maiuscolo anche l’aggettivo «italo» (v. 195, «Nenie per l’italo / Defunto

onor;» → «Nenie per l’Italo / Defunto onor;»), e anche «lombarda»

accanto a Lega (Int. p. 22, «gran promotore della Lega lombarda» → Int.

p. 22, «gran promotore della Lega Lombarda», ma a p. 24 e ancora

«Lega lombarda»). Al v. 628 la maiuscola va invece a personificare il

sole («…e la salita / Del sol piena sospira,» → «…e la salita / Del Sol piena

165

sospira,»), come anche al v. 641 («Eccolo, il sol!...» → «Eccolo, il Sol!...»)

conferendo maggior grandezza all’immagine del sorgere dell’alba che

tra l’altro coincide con la felicita rinata (e presto delusa) nel cuore

dell’esule.

Altri ritocchi sono ad esempio l’abbreviazione «Sr.» alla quale si

preferisce la forma estesa «signor» (Int. p. 8, «Sr. Sismondi» → Int. p. 7,

«signor Sismondi»). Mentre in alcune parole e eliminato il

raddoppiamento (Int. p. 29, «profferite» → Int. p. 29, «proferite»; v. 445,

«gottiche» → «gotiche») che viceversa e introdotto in altre occasioni

(Int. p. 18, «difinirla» → Int. p. 17, «diffinirla»). Berchet modifica inoltre

la forma di alcune parole (Int. p. 24, «malgrado» → Int. p. 24, «mal

grado»; Int. p. 29, «volentieri» → Int. p. 30 «volontieri»; Int. p. 43,

«mettevansi» → Int. p. 44, «metteansi»). Aggiunge, inoltre,

l’articolo indeterminativo «un» all ’interno di una frase

dell’introduzione (Int. p. 31, «non e posta tenue per uomo che…»

→ Int. p. 31, «non e posta tenue per un uomo che…»).

Come si e detto questa edizione accoglie definitivamente la

variante «spene» al v. 46. Sembra invece solo un refuso «pieghi»

al posto di «prieghi» al v. 179 («Sul labbro scocchino / Le oblique

arguzie, / I prieghi e il calido / Ghigno d’amor,»).

Non compaiono, dunque, modifiche sostanziali all’opera;

Berchet non reinserì neppure quella parte di testo che la

marchesa Costanza aveva cassato nell’edizione parigina del

1829242. L’autore confermo , quindi, con soddisfazione i versi

242 Si vedano pp. 77-79.

166

scritti vent’anni prima, mettendo fine con questa edizione alla

propria esperienza di poeta.

L’edizione Resnati ebbe il grande merito di ridare al le

stampe, dopo anni e anni, la vera introduzione alle Fantasie. La

lettera Agli amici in Italia , ormai dimenticata, torno quindi alla

luce e comincio ad apparire anche nelle raccolte successive al

1848. Tuttavia, almeno per un certo periodo, ai Ragguagli storici

proprio non si volle rinunciare. Ne e l’esempio una Raccolta

completa delle poesie di Berchet , uscita nello stesso anno con la

falsa indicazione di Londra. Qui, infatti, Le Fantasie vennero

fatte precedere dalla lettera Agli amici in Italia insieme ai

Ragguagli di Ruggia; entrambe le prefazioni, pero , erano

accompagnate da una nota a pie di pagina che ne specificava la

provenienza. Nel caso della lettera si legge, infatti: «Prefazione

dell’autore posta innanzi all’edizione di Parigi 1829» 243. Mentre

in calce ai Ragguagli si specificava: «Benche questi ragguagli

non escano dalla penna dell’illustre autore, tuttavolta crediamo

opportuno di riprodurli, sembrandoci necessarii a spiegare piu

diffusamente un fatto luminoso della storia italiana»244. E

qualche pagina piu avanti un’ulteriore nota ribadiva:

«Rammenteremo al lettore che questi ragguagli furono

pubblicati nel 1832, edizione di Londra»245.

A questo proposito e interessante osservare che, in generale,

solo pochi tipografi sentirono la necessita di specificare che la

243 Giovanni Berchet, Raccolta completa delle poesie, s.n., Londra, 1848, p. 7. 244 Ivi, p. 31. 245 Ivi, p. 41. Ma come si è visto, i Ragguagli comparivano già nell’edizione del 1829.

167

paternita dei Ragguagli non apparteneva effettivamente a loro.

La maggior parte degli stampatori, invece, riproponendo il testo

esattamente come lo aveva stampato Ruggia (un testo che, tra

l’altro, si rivolgeva al lettore in prima persona), e riportando

sotto anche la firma 'Gli Editori', davano a intendere di esserne

gli artefici.

Ad ogni modo Giovanni Berchet, fallite le sollevazioni

milanesi, riparo a Torino dove fu eletto deputato il 10 ottobre

1848. Continuo dunque il suo impegno politico, che finì per

assorbire tutte le sue energie. «E veramente per me una vita di

sagrificj, e n’ho fin sopra la testa. Non ho tempo di far nulla

nulla, neppure un passeggio la domenica»246, scriveva all’amica

Costanza. Ma con l’aggravarsi delle sue condizioni di salute,

Berchet scelse di lasciare la politica trasferendosi per un breve

periodo a Firenze e successivamente soggiornando in localita di

mare o lago per ristabilire la propria salute (trascorse, infatti,

lunghi periodi a Pallanza, Baveno, Nizza e Vichy). Tornato a

Torino morì il 23 dicembre del 1851, nel giorno del suo

sessantottesimo compleanno. Fu seppellito nel cimitero di

Torino, dove si sarebbe dovuto erigere un monumento in suo

onore, e Giovanni Prati ne onoro la memoria con un inno, In

morte di Giovanni Berchet247. Nel cenno introduttivo all’inno

Prati celebro il poeta come il cantore della patria, augurandosi

246 Lettera datata Torino, 14 dicembre [1848]. Citazione tratta da G. Berchet, Lettere alla marchesa, vol. II, cit., p. 224. 247 Giovanni Prati, In morte di Giovanni Berchet, Tipografia sociale degli artisti A. Pons e C., Torino, 1851.

168

che i suoi versi non cadessero mai nell’oblio nei cuori dei

posteri e che servissero, invece, a tenere sempre viva la fiamma

dell’«ira legittima» contro ogni forma di vessazione:

«E voi, Italiani, rileggete oggi piu che mai i canti di Giovanni Berchet;

e ritemprandovi nell’ira legittima contro ogni domestica e forastiera

oppressione, rifatevi degni degli antichi padri che furono i sacerdoti, i

poeti e i guerrieri di Dio e della patria, e che vi hanno lasciato nelle

mani un’eredita di gloria troppo bella perche gli estranei non ve

l’abbiano a invidiare, e troppo sacra perche voi non la dobbiate

coll’ingegno, coll’onore e col sangue difendere»248.

Un auspicio quello di Prati che si avvero almeno per tutto

l’’800. La fama dei versi di Berchet sopravvisse alla sua morte e

questo avvenne anche per Le Fantasie, tra le poesie piu celebri

del poeta, assunte come vero e proprio simbolo dell’orgoglio

patriottico e per questo ristampate in numerosissime edizioni

negli anni piu caldi della lotta risorgimentale.

LE FANTASIE NELLE EDIZIONI SUCCESSIVE ALLA MORTE DELL’AUTORE

Nel periodo precedente al 1861 le raccolte poetiche di

Berchet continuarono a circolare per lo piu in edizioni realizzate

alla macchia, prive di indicazioni tipografiche e soggette a

censure o sequestri. E ovviamente tutto cio si ripercuoteva sulla

correttezza del contenuto. Molte di queste pubblicazioni

248 G. Prati, In morte di Giovanni Berchet. Citazione tratta da G. Berchet, Opere edite e inedite a c. di F. Cusani cit., p. XXV.

169

comprendevano, infatti, anche componimenti erroneamente

attribuiti a Berchet, testi scorretti o contaminati.

Ad ogni modo sono numerose le edizioni che si susseguirono

dal 1851 in poi. A Bastia, nel 1859, senza l’indicazione

dell’editore (ma potrebbe essere lo stesso Cesare Fabiani che nel

’47 e ’48 aveva dato alle stampe la Raccolta delle poesie di

Giovanni Berchet249), uscì l’edizione delle Poesie complete di

Giovanni Berchet e d'altri autori italiani con aggiuntovi un cenno

storico. Al centro del frontespizio figurava la litografia della

lampada a olio con il motto alere flammam (come nelle edizioni

di Ruggia), mentre nella prefazione l’editore dedicava il volume

alla «Generosa Gioventu Italiana» che con i l suo impegno

patriottico si era resa «l’ammirazione dell’Europa, speranza e

palladio di liberta »250. Le Fantasie erano introdotte da un Cenno

storico, ovvero dai ragguagli ruggiani, privi di firma.

Un’altra edizione in circolazione nel ‘59 erano le Poesie di

Giovanni Berchet con aggiunte , stampate a Firenze dalla

tipografia di Eusebio Forti. L’edizione era introdotta dalla stessa

prefazione251 posta in apertura alla Raccolta di poesie edita dalla

stamperia di Cesare Fabiani nel 1847. Le Fantasie comparivano

invece precedute dai ragguagli di Ruggia, qui rinominati

Ragguagli storici intorno alle Fantasie e firmati 'Gli Antichi

Editori'.

249 Si vedano pp. 151-57. 250 Prefazione a Giovanni Berchet, Poesie complete, s.n., Bastia, 1859, p. 5. 251 Si veda p. 152.

170

Un’edizione di Poesie di Giovanni Berchet del 1860 con

indicazione Londra, ma senza ulteriori dati tipografici, portava

invece, in apertura delle Fantasie, sia la lettera che i ragguagli,

con una nota a pie di pagina per entrambe le prefazioni che ne

specificava la differenza, nelle stesse modalita gia viste252 in una

precedente edizione del 1848, sempre con l’indicazione di

Londra. Si trattava, ad ogni modo, dell’ultima edizione di poesie

berchettiane precedenti all’unita d’Italia. Dal 1861, finalmente

sottratta ai vincoli della censura253, la poesia di Berchet era

libera di diffondersi con maggiore forza e vigore. A Milano, ad

esempio, proprio nell’anno dell’unita , uscì dalla tipografia

Guigoni la raccolta Poesie di Giovani Berchet, ristampata anche

nel ’68 e nel ’77. Le Fantasie comparivano prive di qualsiasi

introduzione, mentre nella prefazione all’edizione Carlo Te ol i

celebrava il poeta con queste parole:

«I poeti furono i primi guerrieri della nostra indipendenza. Quando

non solo le leggi, ma la noncuranza e il silenzio codardo dei piu

vietavano e soffocavano la parola, il poeta […] scendeva in piazza, e co’

suoi carmi consigliava il racquisto della dignita e della potenza . […]

Questi versi, monumento della nostra insofferenza del servaggio, non

morranno; e se mai avvenga che, racquistata tutta la nostra terra,

252 Si veda p. 166. 253 È proprio per tutelarsi dalla censura che probabilmente il tipografo Antonio Spargella scelse di non includere Le Fantasie nella sua antologia destinata alle scuole. Si trattava di Cento sonetti, trenta canzoni e scelta raccolta di poesie italiane di Foscolo, Berchet, Manzoni ed altri ad uso delle scuole, con note, pubblicata a Vigevano nel 1851. Qui, infatti, le uniche poesie dell’autore inserite erano I profughi di Parga e Il Trovatore.

171

un’empia mollezza torni a serpeggiare ne’ nostri animi e li corrompa ed

inchini di nuovo a servire, questi versi varranno a destarci»254.

Ormai lontani gli anni tristi in cui Berchet aveva composto le

sue opere, e raggiunta finalmente l’unita d’Italia, la poesia

dell’autore perdeva dunque il suo spirito militante

trasformandosi in un elogio al diritto della liberta e in un

monito alla sua salvaguardia.

Sempre nel 1861 circolava anche un’altra raccolta, Poesie di

Giovanni Berchet255 che riportava sul frontespizio l’orgogliosa

indicazione Italia-1861. Le Fantasie erano nuovamente

precedute da entrambe le prefazioni, accompagnate dalle note

descritte per le edizioni londinesi del 1848 e 1860 256. Ma la

lettera Agli amici e i Ragguagli figurano insieme anche

nell’edizione napoletana di Giuseppe Marghieri, sempre del

1861.

Proprio allo scopo di mettere ordine nel caos delle tante

edizioni scorrette in circolazione, Francesco Cusani decise di

curare nel 1863 la prima significativa raccolta delle opere di

Giovanni Berchet. L’edizione, che uscì a Milano per Pirotta e

comp., comprendeva l’intera produzione dell’autore (o almeno

tutto cio che il curatore era riuscito a reperire; mancavano,

infatti, i Versi infantili al padre , quelli per Giuseppe Gando e

diversi altri), includendo sia gli scritti di prosa che di poesia.

254 Prefazione a Giovanni Berchet, Poesie, Guigoni, Milano, 1861, pp. 3-6. 255 Secondo Marino Parenti si tratterebbe di un’edizione Pagnoni, pubblicata a Milano. Si veda M. Parenti, Dizionario dei luoghi di stampa cit., p 232. 256 Si vedano pp. 166 e 170.

172

Inoltre, si dava al pubblico anche il materiale del tutto inedito

che era stato messo a disposizione di Cusani dai coniugi

Arconati. La raccolta, quindi, dopo un saggio biografico

introduttivo si divideva in due parti: Poesie e prose edite e Poesie

e lettere inedite .

In verita , pur nello sforzo di dare alle stampe un’edizione di

riferimento per la produzione berchettiana, Cusani cadde in un

errore significativo. Inserì , infatti, tra i componimenti inediti,

anche il Saluto a Milano il 6 Aprile 1848 , attribuito invece da

Emilio Sioli Legnani257 a un certo Odoardo Castellano, soldato

napoletano autore di un volumetto di poesie Canti italiani , nel

quale figurava appunto anche il Saluto a Milano. Ad ogni modo

l’intento di ordinare la produzione del poeta era certamente

lodevole258. A tal proposito scrive Cusani in apertura di volume:

«Resta ch’io dica brevemente del perche ho intrapresa questa

edizione, e come la condussi. Dal 1823 al 1859 le romanze furono

257 Si veda a tal proposito G. Berchet, Opere edite e inedite a c. di F. Cusani cit., p. 446 e Emilio Sioli Legnani, Il 'Saluto a Milano il 6 Aprile 1848' non è del Berchet in AA. VV., Studi sul Berchet cit., pp. 421-27. 258 In realtà, altra scelta non del tutto corretta di Francesco Cusani riguardava la xilografia inserita nel frontespizio dell’edizione. Si trattava di un’incisione raffigurante la stessa lampada a olio, accompagnata dal motto alere flammam, che compariva nelle edizioni londinesi delle poesie (ripetuta, come si è visto, anche nella raccolta di Bastia). Scrive Cusani nella prefazione al suo volume: «La costanza in tener viva ne’ propri concittadini la fiamma dell’amor di patria venne adombrata da Berchet coll’emblema che adottò d’una lucerna di forma antica, entro la quale una mano misteriosa versa l’olio col motto alere flammam» (G. Berchet, Opere edite e inedite a c. di F. Cusani cit., p. XVIII). E in effetti, per molto tempo si continuò ad attribuire questo stemma al poeta, immaginando che Berchet lo avesse in qualche modo assunto a simbolo della propria poesia. Ma ciò è piuttosto improbabile. Berchet non utilizzò questo simbolo in nessuna delle pubblicazioni precedenti all’esilio né in quelle successive al suo ritorno in patria. Il simbolo non compariva nell’edizione dei Profughi di Parga né in quella parigina delle Fantasie. La litografia pare dunque trovarsi solo nelle edizioni delle Poesie e delle Fantasie che portano indicazione di stampa Londra-Taylor. Ma come si è visto probabilmente tutte queste edizioni furono opera delle tipografie del Canton Ticino. Simbolo e motto, dunque, che pure potevano rappresentare benissimo la poesia di Berchet e per questo trarre in inganno, non sarebbero invece da attribuire a una precisa volontà d’autore.

173

stampate e ristampate tante volte che mal se ne potrebbero contare le

edizioni; pero eseguite quasi tutte alla macchia e per speculazione sono

scorrette o mutilate; perfino alla bella introduzione delle Fantasie si

sostituirono certi Ragguagli Storici male abboracciati dal Sismondi; ne

alcuno penso di riprodurre gli scritti anteriori al 1823, probabilmente

per l’unica ragione che gli speculatori o non li conoscevano o non

sapevano trovarne copia. Invece vi univano a capriccio altri versi

erroneamente attribuiti al Berchet. Visto che dopo quattr’anni che v’ha

liberta di stampa nessuno occupavasi di raccogliere le opere sparse di

questo egregio scrittore, io me ne diedi pensiero»259.

Per Le Fantasie , dunque, Cusani si preoccupava di restituire

una versione fedele alla volonta dell’autore, dichiarando di

rifarsi alla prima edizione. In una nota alla pagina iniziale della

romanza e , infatti, precisato: «Dall’edizione di Parigi, Delaforest

1829». Tuttavia non e del tutto chiaro quale fosse realmente

l’edizione di riferimento per Francesco Cusani. Il testo, che in

molti casi sembra effettivamente seguire la prima edizione, in

altri casi accoglie invece le lezioni presenti in quella milanese di

Resnati. La sensazione e che forse il curatore si sia avvalso di

entrambi i testi scegliendo di volta in volta (probabilmente in

modo arbitrario) la lezione migliore, e tuttavia con una certa

propensione a seguire l’edizione Resnati. Compare, ad esempio,

la lezione «spene», presente nell’edizione Resnati. Al contrario si

segue l’edizione parigina per «imperatore», «governi», « italo» e

«sol» (che nell’edizione Resnati portano tutti la maiuscola). Ma

l’oscillazione tra le due edizioni di riferimento si fa piu evidente

259 Prefazione a G. Berchet, Opere edite e inedite a c. di F. Cusani, pp. XXVII-III.

174

per quanto riguarda gli aspetti interpuntivi e ortografic i del

testo, in particolare in riferimento agli accenti. Nel testo si

legge, ad esempio, «fer» ma anche «concepîr», «giuràr», «uscîr»,

«salir», «diêr» etc. Anche la dieresi e accettata solo in alcuni

casi. Si trova, infatti, «Trionfator», «trionfal», «aita», «riarsi»,

«circuirgli» ma allo stesso tempo «impazïenti», «italïana»,

«genïal», «inquïeto». Il risultato e dunque un testo piuttosto

eterogeneo.

In qualche caso, inoltre, Cusani interviene sul testo

personalmente, per lo piu a proposito della punteggiatura e

della forma della parola. Ad esempio, scartando la lezione

«difinirla» (Delaforest) e «diffinirla» (Resnati), inserisce

«definirla». Mentre potrebbe essere solo un errore la scelta di

«surta» al posto di «sorta» (Delaforest) e «sórta» (Resnati).

Tra l’altro, l’edizione di Cusani porta un significativo refuso

di stampa. Al v. 14, si trova infatti « ignari» invece di «ignavi».

Insomma, anche se l’edizione delle Opere edite e inedite di

Cusani aveva il grande merito di aver raccolto e ordinato per la

prima volta tutta la produzione di Berchet, almeno per Le

Fantasie il testo riprodotto non era del tutto privo di

scorrettezze e contaminazioni. Tuttavia l’edizione ripristinava

quantomeno in modo definitivo l’introduzione originale. A parte

rare eccezioni (ad esempio la raccolta di Poesie stampata da

Oreste Ferrario a Milano nel 1878, che conteneva sia i Ragguagli

che la lettera, con le stesse note dell’edizione Londra-1848,

175

Londra-1860 e Italia-1861260), i Ragguagli storici smisero, infatti,

di comparire nelle edizioni successive a quella di Cusani.

Se il testo della prefazione si stabilizzava, non si puo dire lo

stesso, invece, di quello della romanza, che continuava a

risultare piuttosto contaminato. Nel 1864, ad esempio, la

tipografia di Francesco Manini pubblico a Milano l’edizione

Prose e poesie di Giovanni Berchet, dove si celebrava l’autore

come «apostolo della nazione» e «maestro di virtu civile»261. Si

legge nella prefazione: «Le poesie del Berchet, non saranno

forse mai modello ad una scuola. Nate dalle sofferenze della

patria, restano nella storia come un monumento isolato

dell’arte»262. Molto probabilmente Manini non si appoggio ne

all’edizione Resnati ne a quella di Cusani dal momento che ne

ignoro molti cambiamenti, tra cui la lezione «spene».

Sempre nel capoluogo lombardo, nel 1883, uscì la raccolta

Ballate e romanze di Sonzogno che ebbe numerosissime

ristampe sia nell’’800 (1891 e 1898) sia nel ‘900 (1901, 1905 e

1910). La raccolta comprendeva Le Fantasie , I profughi di Parga ,

le romanze del periodo londinese e le Vecchie romanze spanuole .

Comparivano, inoltre, l’ode All’armi! All’armi! scritta in

occasione delle rivoluzioni di Bologna e Modena del 1830 e

L’invito all’Italia nel 1848 (ovvero i versi che nell’edizione di

Cusani prendevano il titolo di Saluto a Milano e che, come si e

260 Si vedano pp. 166, 170, 171. 261 Prefazione a Giovanni Berchet, Prose e poesie, Tipografia di Francesco Manini, Milano, 1864, p. 8. 262 Ibidem.

176

visto, non appartenevano al poeta). Il testo sia della romanza sia

della lettera Agli amici , fatta eccezione per qualche differenza,

sembra riprodurre abbastanza fedelmente l’edizione Resnati.

A Venezia, invece, nel 1884 uscì dallo stabilimento tipografico

dei fratelli Visentini, una nuova raccolta comprensiva di tutta la

produzione edita e inedita del poeta milanese: Poesie e prose di

Giovanni Berchet. Si trattava, in verita , della semplice ristampa

dell’edizione del ’63 curata da Cusani (come specificato al verso

del frontespizio: Dall’edizione fatta da Francesco Cusani |

Milano, Pirotta 1863). Il contenuto e infatti perfettamente

identico, e impaginato nello stesso modo; in calce alle prefazioni

e alle note di Cusani e sempre specificato il suo nome.

L’edizione era un omaggio di Federico Berchet alle nozze

delle nipoti, Angelina e Leopoldina, figlie di Guglielmo

Berchet263. La copertina portava, infatti, al centro di un’elegante

cornice: AUSPICATISSIME NOZZE | CUCCHETTI-BERCHET | ALLEGRI-

BERCHET. Nel mezzo della pagina seguente si trovava invece la

dedica: ALLE | MIE CARE NIPOTI | ANGELINA E LEOPOLDINA | NEL FAUSTO

GIORNO | DEL LORO MATRIMONIO | AFFINCHE | NELLE NUOVE FAMIGLIE |

LE TRADIZIONI AVITE | EDUCHINO I FIGLI | FEDERICO BERCHET. Il volume

conteneva lo stesso ritratto del poeta inserito nella raccolta di

Cusani; non figurava invece la litografia della lampada. Al centro

del frontespizio, trattandosi di un omaggio celebrativo, era

specificato: EDIZIONE FUORI DI COMMERCIO.

263 Guglielmo Berchet (Venezia 1833 – Mestre 1913), nipote di Giovanni Berchet, fu intellettuale, storico e politico, ed ebbe parte attiva nella lotta risorgimentale.

177

Questa raccolta, rifacendosi in modo del tutto fedele al testo

di Cusani, ne riproduceva naturalmente le scelte e gli errori264.

Fedele invece all’edizione Resnati era la raccolta Le romanze

di Edoardo Perino uscita a Roma nel 1892.

Con questa pubblicazione si concludevano le edizioni

ottocentesche contenenti Le Fantasie . Ma naturalmente nuove

edizioni sarebbero uscite nel corso del ‘900 presso i principali

editori; Berchet entrava a poco a poco nel canone della nostra

letteratura.

La prima raccolta poetica novecentesca dell’autore, ovvero Le

poesie di Giovanni Berchet , uscì a Firenze, nel 1906, da Sansoni, a

cura di Giovanni Targioni-Tozzetti (con ristampe nel 1907 e

1922). Scrive il curatore nella prefazione:

«Se oggi la gioventu nostra, leggendo le facili strofe di Giovanni

Berchet, non potra provare tutto quello che i padri provarono quando, o

nelle veglie operose, o nelle adunanze politiche, o nelle carceri, o per le

lunghe ed aspre vie dell’esilio, primamente conobbero o ripeterono i

canti del profugo lombardo; pure, riandando colla memoria i fortunosi

casi del nostro riscatto, dovra , rileggendo le Fantasie e i Profughi di

Parga e gli altri canti, sentire qualcuno dei nobili fremiti che agitarono i

martiri del Risorgimento, e pensando quanto sia costata l’unita della

patria fara certo proposito, con forte e tenace volere, di renderla quale

264 In un esemplare di questa edizione la lezione scorretta «ignari», ereditata da Cusani, è corretta a penna. Si tratta dell’esemplare conservato presso l’Archivio del Risorgimento-Civiche Raccolte Storiche di Milano: Giovanni Berchet, Poesie e prose, Stabilimento tipografico dei fratelli Visentini, Venezia, 1884 (SEGNATURA: MPP.383).

178

la sognarono e la vollero quelli che, in cinquant’anni, sacrificarono alla

nobile idea, vita ed averi»265.

Ad ogni modo, l’intento della raccolta era quello ambizioso di

ordinare gli scritti del poeta, completando il lavoro fatto da

Cusani:

«E strano che in tanta fioritura di raccolte e di antologie, non si sia

pensato di riunire i versi di Giovanni Berchet, del quale, se sono ben

note Le Fantasie, I profughi di Parga , e sei Romanze, sono altrettanto

mal conosciute gran parte delle rime e traduzioni. Sul frontespizio delle

molte ristampe delle su citate operette, e apparsa piu volte la scritta:

Poesie complete , pure solo il Cusani nel 1863 ha raccolto quasi tutti i

versi originali di colui che ben fu detto il Tirteo italiano; ma l’accennato

volume non ebbe gran diffusione, prova ne sia che un erede di Lui,

Federico Berchet, ha potuto, ventun’anni dopo, ristampandone solo la

copertina e il frontespizio, pubblicare per nozze la medesima edizione

milanese, figurando che fosse una ristampa veneziana . Accolsi dunque

con vivo piacere l’invito fattomi dall’on. Ditta G. C. Sansoni di ordinare

tutte le poesie del Berchet»266.

Il volume e introdotto da una ricca (ma non esaustiva)

bibliografia del poeta. Targioni-Tozzetti non cita pero ,

nell’elenco delle opere consultate, la prima edizione parigina

delle Fantasie, limitandosi a dare conto solo dell’edizione

Resnati e delle tante raccolte di Poesie nelle quali compariva

265 Prefazione a Giovanni Berchet, Le poesie, a c. di Giovanni Targioni-Tozzetti, Sansoni, Firenze, 1906, pp. V-VI. 266 Ivi, pp. III-IV. In verità non si tratta effettivamente di tutti i versi del poeta. Mancano anche qui, come nell’edizione di Cusani, i Versi infantili al padre, quelli per Giuseppe Gando e altri.

179

anche la romanza267. Ma sostanzialmente il curatore sembra

riprodurre il testo di Cusani, preferendogli talvolta le lezioni

presenti nell’edizione Resnati. La romanza e introdotta dalla

prefazione dell’autore ma porta un titolo leggermente

modificato (senza apparenti motivi): Ai miei amici, in Italia!

La piu nota pubblicazione novecentesca della produzione del

poeta e , comunque, la voluminosa raccolta di Opere di Giovanni

Berchet uscita a Bari nella collezione «Scrittori d’Italia» di

Giuseppe Laterza & Figli. Si trattava di due volumi pubblicati nel

1911 e 1912 (Poesie e Scritti critici e letterari) a cura di Egidio

Bellorini. L’intento era evidentemente dare alle stampe

un’edizione il piu possibile completa delle opere dell’autore

edite e inedite, pubblicando, a differenza dell’edizione Sansoni,

anche gli scritti di prosa. Per quanto riguarda Le Fantasie ,

Bellorini precisava:

«Mi limitero a dar notizia delle sole edizioni piu importanti, che

servirono di base alla presente ristampa dei versi del Berchet,

omettendo pur di accennare alle innumerevoli ristampe […] che furono

fatte dal 1830 fino al 1870 circa, in Italia e fuori; ristampe per lo piu

scorrettissime, ma che valgono ad attestare la grandissima popolarita di

questi versi»268.

L’intento era certamente ottimo, ma anche Bellorini finì per

farsi ingannare dalle contraffazioni luganesi delle Fantasie, non

267 Si dava conto, inoltre, di un’altra raccolta: Giovanni Berchet, Le Fantasie ed I profughi di Parga, Ronchetti e Ferreri, Milano, 1848. Di questa edizione, però, non si è trovata nessuna traccia. Salvo non si tratti di un semplice errore; la tipografia Ronchetti e Ferreri aveva infatti stampato per Resnati l’edizione del ‘48. 268 Nota bibliografica a Giovanni Berchet, Opere. Poesie, vol. I, a c. di E. Bellorini cit., pp. 421-22.

180

facendo distinzioni tra le edizioni conformi al volere dell’autore

e le altre non autoriali. Nell’elenco fatto dal curatore circa le

edizioni consultate figurano, infatti, l’edizione Delaforest, quella

Resnati ma anche quella di Ruggia269. Anche in questo caso,

dunque, il testo non si rifa a nessuna edizione nello specifico,

attingendo liberamente e arbitrariamente da queste tre.

Tuttavia il testo risulta piu omogeneo di quello di Cusani,

cercando almeno uniformita ortografica (si sceglie di non

riportare nessun accento non distintivo e neppure le dieresi;

l’unico segno ortografico a conservarsi e l’accento circonflesso

per le forme contratte).

L’edizione di Bellorini (ma solo il primo volume, Poesie) ebbe

una seconda edizione nel 1941, che almeno per Le Fantasie non

inserì nessun cambiamento (fatta eccezione per qualche segno

d’interpunzione).

Attorno al ’25 invece uscì a Firenze270, nella collana delle

edizioni della «Voce», la raccolta Prose critiche e poesie di

Giovanni Berchet, introdotte da un saggio di Gino Saviotti. Qui

269 Nella bibliografia Bellorini cita: «Le Fantasie, romanza di G. B. preceduta da Ragguagli storici. Seconda edizione (Londra, nella stamperia di B. Taylor, 1829)». Si tratta naturalmente di un refuso di stampa, il riferimento corretto è «R. Taylor», come riportato anche nelle successive ristampe dell’edizione di Bellorini. Il secondo volume dell’edizione, tra l’altro, ebbe anche qualche problema in corso d’opera. Benedetto Croce si lamentò con Laterza della scarsa cura usata in fase di produzione e di errori presenti nelle bozze di stampa, in una lettera del 23 gennaio 1912: «Carissimo amico, purtroppo non si tratta soltanto di uno sbaglio accaduto pel Berchet […]. Sentite a me: create un reparto di correttori, e fatelo rigorosamente disciplinare e sorvegliare». Ma ancora nel luglio dello stesso anno l’edizione non aveva visto la luce (lettera del 1° luglio 1912): «Se vede Nicolini La prego di fargli la solita raccomandazione, perché si va ricadendo nel torpore che inceppa tutto. Baretti e Berchet non si riesce a metterli fuori e l’altro giorno ebbi a telegrafare a Fausto che non si poteva andare avanti in tipografia per mancanza di caratteri». Citazioni tratte da Benedetto Croce-Giovanni Laterza, Carteggio (1911-1920), vol. II, a c. di Antonella Pompilio, Laterza, Bari, 2005, pp. 111 e 187. 270 Stampata a Pistoia, dalla ditta A. Pacinotti e comp..

181

compariva qualche brano estratto dalle Fantasie, corredato di

note critiche. Mancava, invece, la lettera introduttiva.

Altra importante edizione delle opere di Berchet uscì nel

1926 per Vallecchi, a Firenze, a cura di Attilio Momigliano:

Liriche. Nell’edizione non si dava conto della bibliografia di

riferimento, tutto l’interesse del curatore era infatti rivolto a

dare alle stampe la prima edizione commentata delle opere di

Giovanni Berchet271. Per quanto riguarda le Fantasie, infatti, non

si tratta d’altro che della fedele riproduzione del testo

dell’edizione curata da Bellorini per Laterza (quella del 1911).

La romanza era introdotta dalla lettera Agli amici in Italia per la

quale, tra l’altro, Momigliano non riservava un giudizio troppo

felice:

«Questa lettera, che ha pensieri notevoli, e prolissa, e piu spesso

goffa che efficace. Ma non puo sfuggire a nessuno l’interesse che offrono

queste pagine come quadro della coscienza e della schiavitu

contemporanea, e come testimonianza dell’energica tempra morale del

Berchet»272.

Un’altra edizione commentata delle Fantasie uscì , nel 1927, a

Milano, nelle Poesie scelte. Originali e tradotte curate da Natale

Caccia per Signorelli (l’edizione ebbe ristampe nel ’36 e ‘48). Qui

pero Le Fantasie figuravano prive della loro lettera introduttiva.

Nella prefazione al volume Caccia celebrava il poeta, in 271 Si legge nella prefazione: «Non abbiamo ancora un commento delle Romanze e delle Fantasie. Durante la stampa di questo libro esce la raccolta di G. De Robertis, Poeti lirici dei secoli XVIII e XIX, con l’interpretazione (Firenze, Le Monnier), che contiene le Fantasie con note precise. Ma i miei intenti sono del tutto diversi». Citazione tratta da Giovanni Berchet, Liriche, a c. di Attilio Momigliano cit., p. 5. 272 Ivi, p. 92.

182

particolare in riferimento alle Fantasie, riconoscendogli «il

pregio e il vanto di averne [della patria] cantata la storia con

una commozione lirica e traverso la meraviglia di una visione

epica, che non era stata d’altri prima di lui, e dopo di lui sara

solo del Carducci»273. Sempre nel ’27, a qualche anno dall’ultima

ristampa delle Poesie curate da Targioni-Tozzetti, Sansoni a

Firenze metteva sul mercato una nuova edizione dedicata a

Berchet: Romanze e fantasie , a cura di Liborio Azzolina. Le

Fantasie erano precedute dalla lettera Agli amici .

Nel 1931 anche Treves, a Milano, diede alle stampe una

raccolta dedicata al poeta: Le più belle pagine di Giovanni

Berchet, scelte da Alfredo Galletti , uscita nella collana «Le piu

belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi»,

diretta da Ugo Ojetti. Ma Le Fantasie , ancora una volta, venivano

private del loro scritto introduttivo.

Per Vallardi, invece, Gerolamo Lazzeri curo l’edizione

commentata delle Poesie. Seguite dalla lettera semiseria di

Grisostomo al suo figliuolo , uscita a Milano nel 1936.

Nell’introduzione al volume si legge:

«A piu di un secolo di distanza dai dì che sbocciarono e corsero

rapidi dall’un capo all’altro della Penisola, ripetuti di labbro in labbro,

mandati a memoria da giovani o da vecchi, da quanti avevan nel cuore la

religione del Risorgimento Nazionale, i canti del Berchet sono ancora

vivi, e da noi, tardi nepoti, non posson esser letti senza un fremito di

commozione. […] Chi dice: – Il Berchet, se avesse coltivato, sviluppato,

273 Prefazione a Giovanni Berchet, Poesie scelte. Originali e tradotte, a c. di Natale Caccia, Signorelli, Milano, 1927, p. 21.

183

educato le qualita epiche del suo ingegno, o quelle elegiache, avrebbe

potuto essere o questo o quello –, insegue chimere. Il Berchet non

poteva essere diverso da quello che fu»274.

La bibliografia citata per questa edizione mostra in modo

abbastanza chiaro come nel ‘900 si smetta a poco a poco di fare

riferimento alle prime edizioni delle opere di Berchet, per rifarsi

solamente alle piu recenti raccolte poetiche. Si legge in apertura

di volume:

«La presente edizione e stata condotta sul raffronto delle seguenti

stampe delle opere del Berchet: Opere edite e inedite , pubblicate da

Francesco Cusani (Milano, Pirotta e C., 1863); Le poesie originali e

tradotte a cura di G. Targioni-Tozzetti (Firenze, Sansoni, 1907); Opere: I,

Poesie , a cura di Egidio Bellorini (Bari, Laterza, 1911), tenendo

particolarmente presente quest’ultima. […] Ci siamo valsi,

naturalmente, anche dell’opera de’ precedenti commentatori e tra

questi in modo particolare del buon volume delle Liriche del B., scelte e

commentate da Attilio Momigliano (Firenze, Vallecchi, 1926)» 275.

Nel 1937 anche l’editore Giuseppe Carabba di Lanciano diede

alle stampe un’edizione delle opere del poeta: Romanze e

fantasie, a cura di Luigi de Filippo. Le Fantasie comparivano

precedute dalla lettera Agli amici.

L’ultima edizione commentata delle opere di Giovanni

Berchet e , invece, quella Bur curata da Alberto Cadioli nel 1992,

Lettera semiseria. Poesie. Qui, tuttavia, Le Fantasie sono

riprodotte sulla base di una delle raccolte di Poesie allestite con 274 Prefazione a Giovanni Berchet, Poesie. Seguite dalla lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, a c. di Gerolamo Lazzeri, Vallardi, Milano, 1936, pp. 1-8. 275 Ivi, p. 9.

184

falsa indicazione Londra-Stamperia di R. Taylor276, e portano

dunque lezioni differenti sia dall’edizione parigina di Delaforest

che da quella milanese di Resnati.

Negli ultimi decenni, invece, Le Fantasie , come in generale

tutta la poesia dell’autore, cedono il passo alla «valorizzazione

della Lettera semiseria (per la quale lo scrittore e ancora

ricordato nelle aule scolastiche)»277. I versi invece, penalizzati

da quel legame fortissimo che avevano avuto con un contesto

storico ormai svanito, appaiono per lo piu dimenticati. Nel vano

tentativo di confrontare il poeta con altri autori della nostra

letteratura, cercando per lui una collocazione tra i «grandi» o i

«minori», si tralascia quasi sempre la considerazione piu

importante. Quanto, cioe , la poesia di Berchet incarni l’essenza

stessa del romanticismo italiano nei suoi aspetti piu innovativi

quanto in quelli piu contraddittori. Di questo sono ancora

testimonianza i pur pochi brani delle Fantasie che qualche volta

tornano a comparire nelle antologie della poesia italiana278.

L’impegno e l’amore di Giovanni Berchet per l’Italia finì per

consegnare alla storia l’immagine di Berchet patriota, prima che

poeta. A scapito del suo importante contributo, nella scrittura

saggistica come in quella poetica, per una lingua e una

letteratura 'moderna', ben in anticipo sui tempi. Un prezzo che

forse Berchet avrebbe comunque pagato volentieri, anche in

276 Si veda la prefazione a Giovanni Berchet, Lettera semiseria. Poesie, a c. di Alberto Cadioli, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1992, pp. 52-53. 277 Ivi, p. 6. 278 Ne è un esempio AA. VV., Il Settecento. L’Ottocento, a c. di Giovanna Gronda e Maurizio Cucchi, Garzanti, Milano, 1993.

185

questo caso sacrificando la gloria poetica a «una buona azione»

(F₁, p. 37).

186

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* Si è omesso di citare le numerosissime raccolte di poesie di Giovanni Berchet uscite prive di indicazioni tipografiche o con l’indicazione Londra-Tipografia Taylor.

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INDICE

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I. Giovanni Berchet e l’esperienza risorgimentale e

romantica Romanticismo e risorgimento: la Lombardia dopo il congresso di Vienna I moti del ’21: le fughe e gli arresti Giovanni Berchet

II. La prima edizione delle Fantasie La stesura delle Fantasie Disavventure editoriali Giovita Scalvini La marchesa Costanza Arconati La stampa della prima edizione

III. La seconda edizione delle Fantasie Il Canton Ticino e il risorgimento italiano Tipografie ticinesi e tradizione liberale La militanza politica e culturale di Giuseppe Ruggia La seconda edizione delle Fantasie L’accoglienza delle Fantasie in Italia e la recensione di Mazzini

IV. Confronto tra prima e seconda edizione, e le edizioni successive Prima e seconda edizione delle Fantasie a confronto Le edizioni successive al ‘29 e l’edizione Resnati Le Fantasie nelle edizioni successive alla morte dell’autore Bibliografia

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