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Gabriele Bizzarri La rappresentazione del sovrannaturale nelle letterature ispaniche tra Ottocento e Novecento Tradizioni, leggende, racconti fantastici, assurdità surrealiste e “realismi magici”

La rappresentazione del sovrannaturale nelle letterature ispaniche tra Ottocento e Novecento (libro)

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Gabriele Bizzarri

La rappresentazione del sovrannaturale nelle letterature ispaniche tra Ottocento e Novecento

Tradizioni, leggende, racconti fantastici, assurdità surrealiste e “realismi magici”

Prima edizione: settembre 2008Ristampa: settembre 2012

ISBN 978 88 6129 258 1

© 2008 Cleup sc“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”via G. Belzoni, 118/3 – Padova (t. 049 8753496)www.cleup.it

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresele copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Impaginazione e grafica di copertina: Cristina Marcato.

In copertina: particolari da Francisco Goya, “Los Caprichos”, Se repulen;Carlo Carrà, L’ovale delle apparizioni; Henri Rousseau, Le rêve.

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Indice

Introduzione 5

Capitolo 1Il sovrannaturale e la paura dell’Altro: il racconto fantastico 111.1 Che cos’è un racconto fantastico? 11 1.2 Embrioni fantastici tra Illuminismo e Pre-Romanticismo 201.3 Pie leggende e fantasie diaboliche: le due forme del fantastico romantico 281.4 Le leggende in prosa di Bécquer 451.5 Il fantastico realista 521.6 Tre variazioni: il fantastico modernista 73

Capitolo 2Il desiderio poetico dell’Altro: l’irrazionale surrealista 872.1 L’alterità come dogma 872.2 Verso una sintesi: il surrealismo “umano” di Lorca 962.3 Verso una sintesi: il realismo “ganglionare” di Sender 115

Capitolo 3Meticciati imperfetti e scomode espropriazioni:il sovrannaturale nella letteratura ispanoamericana del boom 1373.1 Tra surrealismo e mito 1373.2 Io e l’Altro: la sintesi naturale del realismo magico 1433.3 Io e l’Altro: la sintesi innaturale del nuovo fantastico 161

Bibliografia 179

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Introduzione

Quando nel 1925, ad un anno dalla pubblicazione del Primo Manifesto sur-realista, Louis Aragon infiamma gli animi dei giovani poeti della Residencia de estudiantes di Madrid con i suoi provocatori slogan di rivolta, profetizzando il sopraggiungere di una nuova cultura basata sulla liberazione delle forze irrazionali della psiche, non immagina quanto fertile e naturalmente predisposto sia il terreno in cui sta spargendo i semi dell’ultimo degli “ismos”. La generazione poetica che assistette a quella conferenza li farà germogliare, compenetrandoli in una miscela originale ed esplosiva con elementi profondi della tradizione autoctona, in una serie di opere che verranno a formare i capisaldi del canone di quel movimento, oltreché di quello della poesia spagnola novecentesca. Nel nutrito e contradditto-rio fuoco incrociato di dichiarazioni con cui i vari Federico García Lorca, Vicente Aleixandre, Luís Cernuda ecc. glosseranno la spinosa questione dell’influenza del surrealismo sulla loro scrittura di quegli anni – tra orgogliosi proclami d’indipen-denza, acrobatiche sfumature ed accettazioni “con riserva” – è interessante citare la posizione di Rafael Alberti:

[…] en España – si entendemos por surrealismo la exaltación de lo ilógico, lo sub-consciente, lo monstruoso sexual, el sueño, el absurdo –, existía ya desde mucho antes que los franceses trataran de definirlo y exponerlo en sus manifiestos. El surrealismo español se encontraba precisamente en lo popular, en una serie de maravillosas retahí-las, de coplas, rimas extrañas, en las que […] ensayé apoyarme para correr la aventura de lo para mí hasta entonces desconocido1.

Il poeta gaditano fa coincidere automaticamente “surrealismo” con “irrazio-nalismo” e rivendica una sorta di appartenenza culturale ispanica della “surrealtà”, sottolineando l’abitudine dell’immaginario autoctono a cimentarsi con l’espressio-

1 R. Alberti, Prosas encontradas, Ayuso, Madrid, 1973, pp. 127-128.

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ne degli elementi più enigmatici e sfuggenti del reale, a confrontarsi letteraria-mente con tutto ciò che eccede i canoni e le norme di una realtà dogmaticamente tracciata da inoppugnabili presupposti razionalistici, sfumando le frontiere tra il noto e l’ignoto, il possibile e l’impossibile, la legalità e la trasgressione. Il riferi-mento si sofferma, a questo proposito, esclusivamente sulla linea popolare della tradizione, segnalando uno dei percorsi di sintesi più praticati dai “surrealisti” della generazione del ’27, quello della stilizzazione avanguardista del folklore, che toccherà vertici suggestivi e conturbanti nel “gitanismo” lorchiano e nelle oscure istantanee dall’Andalusia profonda de El alba del alhelí dello stesso Alberti, ma è perfettamente applicabile anche ad una ricognizione della linea colta delle lettera-tura spagnola, alcuni dei cui testi guida, quasi degli archetipi antropologici dell’in-dole nazionale nella riflessione di quell’impavido indagatore della “raza” che fu Don Miguel de Unamuno, dal Quijote a La vida es sueño di Calderón de la Barca, funzionano sulla sistematica confusione dei parametri di realtà e meraviglia.

Il volume che qui si presenta – nato dall’esperienza didattica del corso di Let-teratura spagnola I da me tenuto presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Padova nell’anno accademico 2007-2008 per le lauree triennali di “Mediazione Linguistica e Culturale” e “Lettere moderne” – si propone di descrivere gli schemi e le forme della rappresentazione dell’irrazionale nelle letterature ispaniche tra Ot-tocento e Novecento, utilizzando questo ridotto ma privilegiato canale di indagine per osservare sinteticamente le correnti, le poetiche e i movimenti che si susse-guono sulla scena letteraria della penisola nei due secoli considerati, fino a creare un ponte che, nella seconda metà del secolo scorso, si protende verso l’America Latina dove, in tempi recenti, sembra maggiormente prosperare la naturale incli-nazione “meravigliosa” della cultura ispanofona.

Il percorso che tenteremo di tracciare si baserà essenzialmente su esempi nar-rativi che, a seconda delle epoche, delle mode e delle latitudini, codificheranno diversamente l’elemento incongruo rispetto ai parametri del reale – sottolinean-done il potere destabilizzante o, inversamente, la natura vitalistica e liberatoria – come “sinistro”, “grottesco”, “sublime”, “perturbante”, “inverosimile”, “assur-do”, “magico” ecc…, concretizzandolo in tipologie testuali che fluttuano tra la leggenda romantica, l’exemplum folklorico, il racconto fantastico tradizionale, la prosa surrealista, il romanzo magico-realista e la narrazione neofantastica, in un ca-leidoscopio assai sfaccettato di soluzioni espressive, ognuna delle quali, comunque, sembra rimandare al bisogno della scrittura di trovare una soluzione, una sistema-zione adeguata all’invadenza dell’Altro (fantasma, Demonio, révenant freudiano, emanazione del desiderio incoffessabile, seme della dissidenza sociale e politica, segno identitario indebitamente escluso ecc…). Ci riferiamo qui ad una vocazione intrinseca del testo letterario in genere – quella di farsi carico del rimosso, della faccia occulta o scartata di una determinata cultura – di cui i testi che si occupano direttamente di descrivere e caratterizzare l’invisibile verrebbero a costituire una sorta di privilegiata mise en abyme: tutte le tracce del rovescio inespresso di quella che, epoca dopo epoca, viene ad essere l’idea dominante dell’identità individuale

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e collettiva si raccolgono in questo canone alternativo che scavalca i movimenti e le tendenze classificandosi come trans-epocale e specifico e, al tempo stesso, ne segnala diacronicamente i marchi distintivi, funzionando come un negativo foto-grafico dell’ufficialità.

In generale, possiamo dire che il principale interesse di questo volume sia “l’oggetto letterario fantastico”, inteso, in senso ampio, come luogo privilegiato della manifestazione dell’irrealtà, e non soltanto, dunque, il genere specifico cono-sciuto come “racconto fantastico” – che giunge a perfezione nel secondo Ottocen-to e si lega a doppio filo con la forma della narrazione breve – di cui studiosi come Castex, Vax, Caillois e Todorov hanno tentato di definire le strategie diegetiche, coincidendo nella descrizione di un meccanismo compatto, nato dal drammatico scontrarsi, nelle sabbie mobili del testo, tra le resistenze razionali di un soggetto paziente che si erge a garante delle leggi del possibile in natura ed il manifestarsi di un evento inspiegabile che sembra contraddirle. Anzi, potremmo dire che tale modello – sintomatico di un’aderenza pressoché totale della cultura ufficiale alle leggi epistemologiche ed estetiche del positivismo, nonché legato alla “letteralità” dell’esperienza immaginaria evocata – rappresenta appena un momento della ca-sistica che qui si intende tracciare, in cui l’elemento immaginativo non mimetico e l’espressione del desiderio vietato divengono coerenti declinazioni – metaforiche e poetiche – dell’irreale, ed i “fantasmi”, provenienti da un Aldilà scientificamente, culturalmente o eticamente delimitato, divengono espressione ridondante dell’im-maginazione in esilio che, coerentemente, reclama il suo incontrastato dominio nel luogo deputato alla sua espressione: la letteratura. Non è un caso che Rosemary Jackson, in una prima ricognizione dei campi di applicazione del termine critico “fantastico”, riunisca in un unico calderone «miti, leggende, racconti popolari e favole, allegorie utopiche, sogni, testi surrealisti, fantascienza, racconti dell’orrore, tutti rappresentanti regni “diversi” dall’umano»2.

In questo senso, il racconto fantastico propriamente detto, avvenendo negli interstizi precariamente aperti da un unico, isolato fenomeno inconcepibile nello spazio garantito della normalità, tende a funzionare come un guardingo “chi-va-là!”, una struttura di difesa con cui la realtà comunemente accettata ribadisce le sue frontiere, ghettizzando l’Altro fuori dai propri parametri. Dall’altro lato dello spettro sta proprio l’opera surrealista da cui è partita la nostra riflessione, propo-nendo un ribaltamento a trecentosessanta gradi del punto di vista e partendo dal presupposto di una programmatica difesa dell’impossibile – inteso come rivelazio-ne privilegiata per “chi è disposto a vedere”, garanzia dell’effetto poetico – minato e svilito dai quotidiani processi di significazione, dalle castranti riduzioni mimeti-che e razionalistiche del pensiero comune.

Ma nuovamente, seppure al rovescio, la letteratura si codifica in un congegno di esclusione, per sua stessa natura contraddittorio rispetto alle pretese liberatorie

2 R. Jackson, Il fantastico. La letteratura della trasgressione, Tullio Pironti Editore, Napoli, 1986, p. 13.

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e libertarie delle sue premesse: l’Altro da emarginare e rimuovere diventa l’Io tra-dizionalmente definito sulla base dei pilastri della ragione e dello spirito, mentre l’unico principio responsabile del testo diviene la pulsione inconscia secolarmente consegnata alle zone d’ombra, all’indicibilità, ma ben poco cambia nella struttura immaginaria profonda che continua a basarsi sulla parcellizzazione delle compo-nenti dell’individuo, nuovamente sezionato nella sua rappresentazione dalla fe-rita profonda che lo scompone in un’identità accettata ed un’alterità rimossa. È soprattutto in questo senso che la rivendicazione di un’autoctonia popolare del-l’irrazionale surrealista pronunciata da Alberti ci sembra fruttifera e rivelatrice di importanti meccanismi specifici di naturalizzazione dell’assurdo in ambito ispa-nico, puntualmente verificabili nella prassi poetica della generazione del ’27 ma anche forieri di interessanti ricadute nella letteratura “realista” o, per lo meno, vistosamente anti-avanguardista degli anni ’30, nonché nella gestione narrativa del mito e della magia messa a punto dagli scrittori latinoamericani del boom a partire dalla metà degli anni ’40: diversamente da quanto avviene nei modelli bretoniani in voga che, come ricorda Remo Ceserani, «hanno messo a disposizione del fantastico strumenti di rappresentazione, linguaggi e una concezione della letteratura tutti nuovi»3, classificandosi come ineludibile punto di non ritorno per la visione so-vrannaturale del primo Novecento, le avventurose passeggiate sull’orlo dell’abisso intraprese dai poeti surrealisti spagnoli di bodiniana memoria si basano su quella che definirei una rivelazione contestuale della meraviglia, sul progetto di un’inte-grazione sincretica e avvolgente di tutte le possibilità espressive dell’essere umano – pensiero, emozione e immaginazione –, parimente coinvolte nella definizione senza tabù e senza riserve della sua esperienza esistenziale. La messa a punto di questa espressione antidogmatica e non escludente dell’inconoscibile sembra avve-nire, per molti, nella rivisitazione della cultura popolare e delle strutture cognitive non rigide del folklore, disponibili alla convivenza pacifica di strumenti intuitivi e “cartesiani” di lettura dell’universo, assimilate d’impatto – ma forse intuitivamente contrapposte – alle astrazioni sperimentali del surrealismo francese, che risultano fertilizzate dall’innesto, desumendone una sintomatica naturalezza, da molti asso-ciata al concetto di una distintiva “riumanizzazione”.

Le linee guida di questo modus operandi filtreranno nella visione della “sferi-cità” dell’animo umano ideata dal rappresentante di punta della successiva epoca del realismo impegnato, Ramón J. Sender che, nel delineare la complessa hombría dei suoi eroi tra gli inganni e i miraggi di una Storia sempre più oppressiva e ca-strante, non rinuncia alla possibilità di squarciare la loro maschera sociale, rivelan-do l’alterità che soggiace ad ogni definizione, il richiamo ancestrale di pulsioni e proiezioni resistenti ai parametri del senso comune, ma rilevanti in un’ottica più vitale e completa, profondamente ancorata ai fremiti magico-animistici della cul-tura popolare. In questo senso – secondo un’ipotesi che mi propongo di indagare

3 R. Ceserani, Il fantastico, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 133.

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nel dettaglio in lavori futuri –, l’esilio americano di Sender e, con lui, degli altri intellettuali repubblicani coinvolti nella diaspora del ’39, permetterà il travaso di una peculiare visione integrata dell’irrealtà nelle ex-colonie spagnole in cui, anche attraverso percorsi di contatto più diretti, la rivendicazione surrealista dell’imma-ginazione “pura” appare traghettata, ben oltre la fase sperimentale e provocatoria dell’avanguardia, verso una nuova era di vitalità e vigore che abbandonerà l’espe-rimento di alterità a favore di narrazioni fondanti, tese ad illuminare l’“e-normità” immaginifica della Storia e della geografia locale: negli spazi amniotici e dispersivi, inediti e mitici per eccellenza, del Nuovo Mondo, in cui persiste il ricordo rimosso dei sostrati culturali pre-ispanici, avverrà la rivelazione di una realtà contestual-mente mossa e commossa da correnti sotterranee extra-ordinarie, che rivelano la complessità di un’identità finalmente meticcia.

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Capitolo 1

Il sovrannaturale e la paura dell’altro:il racconto fantastico

1.1 Che cos’è un racconto fantastico?

In questo primo capitolo cercheremo di tracciare la storia, nella Spagna dell’Ottocento, di quella particolare forma o modalità di rappresentazione del sovrannaturale cui nell’introduzione ci siamo riferiti come “racconto fantastico”, partendo dalla preistoria recente di quello che, intorno alla metà del secolo, cristallizzerà in un vero e proprio genere letterario, seppure tipicamente instabile, in continua trasformazione. Come vedremo, infatti, in modo in apparenza paradossale, la narrazione di “fantasmi” riceve un importante impulso caratterizzante proprio dal Secolo dei Lumi, da alcune tendenze e ossessioni del Settecento razionalista, periodo storico-culturale su cui affondano le radici delle maggiori correnti ottocentesche.

Prima però, è necessario descrivere – soprattutto attraverso le importanti gri-glie tracciate da Todorov nel suo pioneristico studio del 1970 sulla letteratura fan-tastica, ma integrando e “correggendo” certe rigidità di quel testo con l’aiuto di contributi più recenti1– le principali coordinate teoriche con cui si è maneggiata, in sede critica, la forma compiuta, per valutare poi i tratti di “imperfezione” che caratterizzano le incursioni tardo-illuministiche e romantiche nel sovrannaturale. Il fantastico è un genere evanescente che vive “sulla soglia”, in equilibrio meta-morfico, passibile di scivolare in generi affini e collimanti come il “meraviglioso puro”, la favola, il mito, la fantascienza, l’allegoria religiosa ecc…: è estremamente difficile e pericoloso circoscriverne la formula, il codice genetico specifico che, in ogni caso, risente delle visioni del mondo dell’epoca e della corrente in cui viene ad inserirsi. Per questo motivo, il problema della “rappresentazione del sovran-naturale” in letteratura ci servirà anche come avamposto di osservazione, cartina

1 Mi riferisco soprattutto a R. Campra, Territori di finzione, Carocci, Roma, 2000, a R. Jackson, cit., e alla miscellanea La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa, 1983 (con particolare riferimento al saggio di Emanuela Scarano, «I modi dell’autenticazione»).

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tornasole, utile a tastare il polso dei movimenti artistici e delle rispettive concezioni epistemologiche che definiscono i due secoli che ci interessano e che riverbereran-no sulle tecniche e sui processi di significazioni dei singoli “racconti di fantasmi” di cui parleremo.

Il primo punto su cui è necessario interrogarsi riguarda i temi sovrannaturali, il repertorio di conturbanti trasgressioni tematiche che rivelano le evidenti paren-tele del racconto fantastico con testi di diversa natura e più remota origine come le leggende e i racconti folklorici tradizionali: la presenza in un testo di vampiri, spettri, inspiegabili sdoppiamenti di personalità, assurde alterazioni del tempo e dello spazio, prodigi e miracoli dai connotati benigni o malefici costituisce di per sé la natura “fantastica” dell’esperienza di lettura?

Chiariamo da subito che la comparsa di “presenze” extra-ordinarie (inquie-tanti o semplicemente magiche) non è sufficiente, giacché la narrazione fantastica necessita di una peculiare prassi narrativa, è più questione di modi del racconto che di avvenimenti. Di modi del racconto e di disposizione mentale o animica del-l’umano (personaggio e/o narratore) nel suo rapportarsi all’inspiegabile.

Partiamo da una definizione terminologica. Se cerchiamo la parola “fantasti-co” su un dizionario, uno dei primi significati ad essa connessi è quello di “rovescio del reale”, sinonimo di “irreale”. In questo senso, però, tutta l’attività immaginaria è fantastica, tutta la letteratura lo è. La frontiera chiamata in causa da questa de-finizione è già implicita nel concetto stesso di rappresentazione artistica che, per sua stessa natura, dà vita a fatti irreali, non necessariamente avvenuti nel mondo che autore e lettore condividono, bensì soltanto immaginati, sognati, creati ad hoc, dotati appena di un’esistenza vicaria, virtuale, fatta di parole, colori e forme incon-sistenti. Ogni oggetto artistico non è altro che un simulacro, il “fantasma”, in senso metaforico, di una presenza non verificabile, la proiezione virtuale di “un’assenza”. Non esisterebbe, stando così le cose, alcuna specificità “fantastica” in letteratura. Ho usato la parola simulacro non a caso: il progenitore di tutti i simulacri è la sta-tua della bella fanciulla che prende vita nel mito di Pigmalione, abile scultore che si innamora del proprio lavoro artistico, cui gli dèi concedono miracolosamente di veder trasformato l’oggetto della propria immaginazione in un’entità palpabile, dotata di vita autonoma2. Stiamo parlando di un mito estetico fondante, di un apologo sui meccanismi della rappresentazione artistica. Per non creare confu-sione, dunque, è necessario precisare che, all’interno del grande ambito “irreale” dell’arte, “fantastico” in senso lato, esistono modalità di rappresentazione aderenti alle leggi della realtà, “realistiche”, verosimili, ed evocazioni di un universo “al-tro”, alternativo – in senso utopico o distopico –, per definizione non verificabile o esperibile.

2 Su “copie” e “simulacri” come assi generatori paralleli e non concomitanti dell’immagine artistica cfr. V. I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Il Saggiatore, Milano, 2006.

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Prima puntualizzazione. Ma anche in questo senso, in questa accezione, il ter-mine fantastico potrebbe essere applicato ad un insieme così vasto e variegato di narrazioni – tutte quelle che non danno priorità a rappresentazioni schiettamente realistiche, dal mito classico all’allegoria dottrinale medievale ai “sogni” e alle vi-sioni care al Barocco – da perdere ogni garanzia di specificità. Noi cercheremo, invece, in questo capitolo, di delimitare ulteriormente il campo, definendo il fanta-stico come vero e proprio genere, dotato di peculiari convenzioni diegetiche, e dif-ferenziandolo dai testi che semplicemente trattano di eventi fantastici, tracciando un percorso di avvicinamento verso la forma piena che in Europa e negli Stati Uniti raggiunge il suo vertice con i racconti di Hoffmann, Edgar Allan Poe, Maupassant, Villiers de l’Isle Adam ecc... La nomina dei capisaldi del genere ci permette di sot-tolineare un’idiosincrasia importante, ovvero il legame dell’apparizione, della ma-terializzazione del sovrannaturale con il sentimento di paura, rispetto e terrore che suscita o dovrebbe suscitare nel soggetto coinvolto nell’esperienza e che, strategi-camente manipolata letterariamente, causa sconcerto ed inquietudine nel lettore.

La prima matrice del fantastico risiede, infatti, nella superstizione popolare, nella soggezione ingenua e timorosa, antropologicamente primitiva, dell’uomo di fronte all’Assoluto, nell’inquietudine dell’individuo di fronte al non umano, nel suo assorto interrogarsi sul proprio destino mortale che, in ogni cultura, chiama in causa la nozione di un nebuloso e vago Aldilà, quintessenza dell’alterità rispetto a ciò che è conosciuto. Le tradizioni folkloriche, le narrazioni orali e le leggen-de costituiscono, in questo senso, i primi veicoli narrativi del fascio di tematiche perturbanti che diventeranno il pane quotidiano del fantastico. Secondo H. P. Lovecraft, la letteratura fantastica nasce dallo sfruttamento letterario del terrore cosmico primitivo che è insito nella razza umana, opportunamente trasformato in piacere estetico e, dunque, neutralizzato3. In questo senso, costituirebbe una sorta di ricettacolo, di soffitta oscura dell’immaginario umano, in cui vengono tenute a bada certe spinte centrifughe della nostra psiche verso la dissoluzione e l’entropia che rischierebbero di disgregare il tessuto sociale e la parvenza armonica del no-stro mondo. Del timore istintivo insito nell’uomo si nutrivano le superstizioni del mondo occidentale pre-illuminista, rispetto alle quali proprio il Secolo dei Lumi venne ad imporre un rigoroso processo di demistificazione e chiarificazione logi-co-intellettuale. Ma la confutazione razionale e scientifica delle terrorifiche visioni dell’immaginario popolare produce caratteristici residui, lascia sedimentare alcuni pruriti irrisolti, ed intravedere delle crepe nelle monolitiche spiegazioni dell’uni-verso approntate dall’intelletto ordinatore, attraverso le quali si spia il sotterraneo operato di ciò che “non deve esistere” eppure continua ad esistere: per questa via si apre un varco per la riabilitazione letteraria dei vecchi timori e si diffonde il gusto per un terrore puramente letterario, per una sensuale e autocompiaciuta proliferazione di narrazioni sovrannaturali. A questo proposito, non mi sembra

3 Cfr. H. P. Lovecraft, The Supernatural Horror in Literature [1927], Dover Publications, 1973.

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inopportuno segnalare che, nell’ottica di un’interpretazione freudiana della lette-ratura, questo tipo di testi risponde all’esigenza collettiva di confrontarsi con le vit-time di un’epocale repressione, configurandosi come ambito ridotto e potenziato del fatto letterario in generale, che studiosi come Francesco Orlando descrivono come una sorta di immaginaria discarica di “oggetti” (pulsioni, tematiche ed idee) moralmente o socialmente condannabili, un limbo dove vengono “parcheggiati” – e trovano, dunque, un innocuo sfogo – le ipotesi problematiche “scartate” da una determinata cultura4.

In un certo senso, possiamo dire che non c’è narrazione fantastica prima del-l’Illuminismo: è proprio la confutazione razionale della superstizione a dare luogo alla specifica dialettica che caratterizza questi racconti. Prima della glorificazione della prova esperienziale (della necessità illuministica di toccare con mano e com-provare tramite i sensi la palpabile fisicità ed evidenza scientifica di un fatto come unica garanzia della sua esistenza), non si produce la tensione specifica del genere, e gli spettri (così come tutti gli altri fenomeni non riducibili a ragione) vivono stabilmente nello spazio venerando – e lontano – della superstizione religiosa (nei mondi paralleli del Paradiso e dell’Inferno), senza venire a mettere in discussione la logica accettata del reale percepito, senza infestare le “aree vuote” di questo mondo, trasformandolo in qualcosa di diverso da quanto ci è familiare.

Descriviamo allora il funzionamento del fantastico post-illuministico, che po-tremmo definire anche come la versione “secolarizzata” delle antiche fabulae di carattere pseudo-religioso o, comunque, devozionale, di cui dal Medioevo cristia-no fino all’epoca dei Lumi, la cultura popolare si è servita per placare le proprie inquietudini tramite il ricorso a irreali manifestazioni allegoriche del Bene e del Male: santi, diavoli o quant’altro.

Il sovrannaturale “moderno” non prende vita in mondi diversi e lontani, avulsi da quello a cui siamo abituati e che lettore ed autore possono riconoscere senza difficoltà come quotidiano teatro delle loro esistenze, bensì abita questa realtà, ci-bandosi letterariamente di un patto di lettura di tipo “realistico”. Su questo punto, riscontriamo un accordo pressoché assoluto tra i critici: «Il fantastico si caratte-rizza per un’intrusione brutale del mistero nella sfera della vita reale»5; «è solito presentare uomini come noi che abitano nel mondo reale dove noi siamo, posti all’improvviso in presenza dell’inesplicabile»6; «è rottura dell’ordine riconosciuto, irruzione dell’inammissibile in seno all’inalterabile legalità quotidiana»7. Il con-cetto fondamentale da tenere a mente è quello di soglia, o meglio quello di una muraglia che magicamente sembra sgretolarsi e si trasforma in soglia (mettiamo il caso di un vetro infrangibile che per un prodigioso istante diviene uno specchio, permeabile come quello di Alice nel paese delle meraviglie).

4 Cfr. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi, Torino, 1994.5 P.-G-, Castex, Le conte fantastique en France de Nodier à Maupassant, José Cortí, Paris, 1951.6 L. Vax, La natura del fantastico, Theoria, Napoli, 1987.7 R. Caillois, Nel cuore del fantastico, Feltrinelli, Milano, 1984.

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La situazione di partenza che ci si presenta è di normalità assoluta, anzi, di una normalità continuamente, ipertroficamente ribadita e circoscritta da un narratore che pare voler aggrapparvisi come ad una rassicurante scialuppa di salvataggio. Chi parla vive stabilmente nel quotidiano, nel mondo che noi tutti conosciamo, eppure, tale fondamentale premessa si rivela funzionale allo sfocato tratteggiarsi di un secondo spazio, assai meno sicuro ed abitabile, limitrofo al primo, ma inconce-pibile e, per certi versi, impronunciabile: il regno degli spettri e delle magie. Perché la comunicazione tra autore e lettore si realizzi bisogna che la demarcazione tra i due ambiti sia nelle premesse una barriera indistruttibile: c’è in gioco la credibilità della voce narrante, il patto di sospensione dell’incredulità che, in ogni testo lette-rario, lo scrittore deve stipulare con il suo pubblico, che si dimostrerebbe restio a concedere la sua fiducia ad un narratore che accettasse e promuovesse l’idea della sovrapponibilità non contraddittoria tra il mondo di qua ed il mondo di là. Nel testo fantastico, però, pur non venendo meno tale fondamentale presupposto di partenza, succede che dalle crepe della barriera immaginariamente tracciata s’in-filtri nell’ambito del reale un’entità o un fenomeno che sembra imporre l’evidenza della propria provenienza sovrannaturale. L’evento disomogeneo ed inspiegabile, sulla cui lettura ed interpretazione da parte di chi ne riceve e descrive la visita si giocherà l’effetto del testo, non porta all’instaurarsi di un nuovo pacifico ordine, in cui le frontiere del visibile e dell’invisibile si ridisegnano per includere in un uni-co, più ampio paese immaginario uomini, streghe cattive ed orchi mangiabambini (come nelle favole): il passaggio di un emissario dell’Aldilà nel mondo reale deve configurarsi, invece, come inaccettabile ed inammissibile, il travaso di materiali incongrui nel paradigma comunemente accettato come normale provoca un vero e proprio scandalo epistemologico, cui si risponde con una gamma di reazioni che va dalla diffidenza, al terrore, fino alla negazione. La barriera tra i due mondi, cioè, non crolla, bensì rivela una falla che fa tremare le ingenue certezze di chi, dietro a quel muro, credeva di poter racchiudere e controllare il suo rapporto con la realtà, adesso assai più incerto e sfumato, eppure, cocciutamente non disponibile ad una drastica riformulazione.

Secondo Todorov, l’effetto fantastico dipende dall’amplificazione retorica del-l’esitazione del protagonista e/o narratore del fatto assurdo, di fronte al quale si presentano due opzioni: una più rassicurante e comoda (il “fantasma” è un errore di percezione, un’illusione dei sensi ed, in tal caso, corretto l’equivoco e spiegatane la natura, nessun interrogativo inquietante permane a funestare la consuetudinaria lettura della realtà) ed una conturbante e potenzialmente distruttiva, a cui si lega il potere sovversivo e trasgressivo di queste narrazioni (il “fantasma” ha veramente valicato la soglia e si è annidato nelle trame del reale, che è dunque governato da leggi a noi ignote). La narrazione fantastica non si occupa di risolvere il dubbio e la cerimonia dell’esitazione deve contagiare, fuori dai confini del testo, anche il lettore, cui non vengono forniti dati sufficienti per assumere una posizione critica documentata in proposito. Arrivai quasi a credere, senza mai esserne certo: questa è la formula riassuntiva dell’esperienza fantastica: un “quasi-credere” che ci mette in scacco e ci lascia sospesi. Riassumendo:

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1) L’effetto fantastico si basa sull’esitazione irrisolvibile che il lettore deve prova-re tra una lettura naturale ed una sovrannaturale dell’esperienza narrata.

2) Tale esitazione deve essere tematizzata, ovvero deve appartenere, prima di tut-to, al personaggio che “patisce” la rivelazione, il quale viene a mediare con i suoi dubbi e le sue perplessità la ricezione del lettore.

3) Il testo deve essere preso alla lettera, rifiutando qualsiasi tipo di interpretazio-ne allegorica e poetica (il “fantasma” non deve, dunque, mai essere un’entele-chia, l’incarnazione metaforica di un’idea o una paura, ma deve contraddire le leggi della fisica, trasgredendo, ad esempio, la frontiera tra spirito e materia). Dalle leggi basilari della diegesi fantastica isolate da Todorov possiamo, ge-

neralizzando, desumere due indicazioni di fondo, utili al nostro percorso: innanzi tutto, il nervoso gioco di rimandi che si crea tra i due poli opposti ed inconciliabili di realtà e meraviglia, la tensione dialettica che, nel fantastico, si stabilisce tra le norme e le convenzioni della rappresentazione realistica (che ne costituiscono la premessa fondamentale) e la disturbante esigenza di rappresentare qualcosa che risulta ingestibile a partire proprio da quel paradigma assodato e concepito come univocamente valido e accettabile; poi, il ruolo centrale accordato non tanto al-l’evento in sé, bensì alla reazione che esso suscita nel soggetto che si trova nella scomoda circostanza di presenziarlo e – nella maggioranza dei casi – descriverlo: l’effetto fantastico è questione di percezione, di modi più che di temi, dipendendo quasi esclusivamente dagli effetti che un singolo evento inquietante produce sulla coscienza di un soggetto paziente e sulla rielaborazione narrativa di quel determi-nato vissuto che egli, in prima persona o attraverso la mediazione di un narratore esterno, produrrà a favore del lettore.

Come è stato notato dalla bibliografia successiva a Todorov, però, la formula dell’esitazione tra due letture contrapposte, quella normalizzante e quella desta-bilizzante, costretta ad ammettere l’impossibile, appare insufficiente per descri-vere i casi più conturbanti del canone fantastico, in cui la sospensione del lettore non si limita all’imbarazzo di una scelta difficile, bensì assume le proporzioni di una snervante impasse cognitiva, anch’essa pienamente tematizzata nel testo come ultimo, enigmatico anello della catena percettiva del soggetto paziente. Spesso e volentieri, infatti, chi vive e narra il fantastico, dopo essere passato attraverso le fasi dello stupore e dell’esitazione (ciò che ho visto è reale o non lo è?) si trova privato della possibilità di neutralizzare razionalisticamente ciò che è avvenuto ricorrendo alle infinite variazioni sul tema dell’inganno dei sensi (alcool, droga, impressiona-bilità di una mente debole ecc…) dall’inconcepibile evidenza di una o più prove incontrovertibili della realtà immaginaria dell’apparizione: il “fantasma”, imme-diatamente scomparso dopo il suo spettacolare manifestarsi, ha lasciato in questo mondo un segno tangibile, una traccia sensibile ed incancellabile del suo sconfi-namento nella sfera del reale, un “oggetto mediatore” che testimonia l’inquietante contiguità dei due regni che si volevano non intersecanti. Un esempio tratto da un celebre racconto di Gautier, «Vera»: un giovane ed innamorato conte, dopo l’ulti-

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mo straziante saluto alla sua bella e disgraziata amante, abbandona la sua tomba, richiudendo a doppia mandata il pesante portone del mausoleo a lei dedicato ed allontanandosi, dopo averne fatto scivolare la chiave all’interno attraverso una an-gusta feritoia. Tornato a palazzo, vive giorni di ossessione e nevrosi, segregato vivo nella camera da letto della defunta, convocandone con tanto amore il ricordo che i vestiti e gli accessori a lei appartenuti sembrano ricomporsi sul suo letto, tratteg-giandone la cara figura. Tutto lascerebbe presupporre un’allucinata sovrainterpre-tazione di indizi casuali provocata dal desiderio e dal dolore di un pazzo, sennon-ché il racconto si chiude sulla visione di un ultimo, assai più allarmante dettaglio: in un angolo della stanza, lucida e brillante, compare l’inconfondibile chiave del sepolcro che soltanto la morta di nuovo viva avrebbe potuto maneggiare. È ancora lecito esitare?

Lasciando da parte questo racconto specifico, che si disinteressa della reazio-ne di un soggetto paziente totalmente identificato con il suo “appetito di irreal-tà”, normalmente, neppure l’esperienza della trasgressione è sufficiente a far venir meno le solide delimitazioni marcate in sede preliminare: in questo mondo, tutto ciò che è contrario alle leggi naturali non può essere reale. Eppure, è la “realtà” stessa a produrre le prove della propria insufficienza e limitazione. Gli spettatori di questa tragica contraddizione vengono così ad essere degli scomodi pionieri, gli indesiderati depositari di una rivelazione di inconsistenza che né loro in prima per-sona né la società che li ospita e di cui si ergono a patetici difensori sono in grado di accettare. Sospesi in una scomoda terra di mezzo, tra la necessità di sconfessare la propria stabilità mentale o le certezze razionali su cui si basa il loro mondo, si trovano di fronte ad un paralizzante blocco conoscitivo (che eccede drammatica-mente la libertà dell’esitazione di cui parlava Todorov): «Non posso credere all’esi-stenza dei fantasmi, eppure ne ho le prove scientifiche. Non posso permettermi di credere a qualcosa cui non posso non credere»8.

Il paradossale equilibrio che stiamo descrivendo, in bilico tra l’impellenza co-municativa di un’esperienza unica ed individualizzante e le reticenze dettate dalla naturale propensione alla conservazione di un paradigma condiviso che garantisce l’accettabilità sociale del soggetto coinvolto, necessita di una sofisticata impalca-tura, fatta di trucchi, espedienti ed astuzie retoriche: teniamo presente che il rac-conto fantastico, narrando un avvenimento sovrannaturale da un’ottica naturale e tematizzandone, dunque, la non naturalità, si trova nella scomoda posizione – direi un unicum in letteratura – di dover provare e documentare continuamente la pro-pria verosimiglianza. Non rientrando negli obiettivi del presente volume spiegare nel dettaglio il funzionamento narratologico del genere, se ne citano di seguito solo alcuni dei meccanismi più significativi e ricorrenti, per poi permettere di valutarne l’utilizzo negli esempi spagnoli che prenderemo in esame:

8 Cfr. T. Scarano, «Raccontare l’assurdo», in T. Scarano, Modelli, innovazioni, rifacimenti: saggi su Borges e altri scrittori argentini, Baroni, Viareggio, 1994.

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a) Racconto a cornice. Sovente, la narrazione di fantasmi assume l’aspetto di una narrazione di una narrazione: la già più volte segnalata “difficoltà” di enun-ciare ciò che non è enunciabile porta alla tematizzazione dell’atto enunciativo come di per sé significante. Potremmo affermare che in un racconto fantastico i temi del narrato sono due: l’apparizione del fantasma e la perigliosa avven-tura di raccontarne i modi e le circostanze ad un uditorio, per definizione, scettico ed incredulo. Ebbene, quando non si sceglie di strutturare il racconto secondo la modalità di una narrazione-confessione-esorcismo in cui il protago-nista cerca sfogo e sollievo nell’orizzonte extra-testuale, assumendosi in prima persona la responsabilità di articolare verbalmente la sua esperienza (caso b), l’opera sceglie di rappresentare al suo interno un modello in scala del rapporto comunicativo che intende instaurare con il lettore, allestendo una cerimonia narrativa in cui qualcuno racconta a qualcun’altro (o di fronte ad un pubblico più vasto) lo scandaloso evento di cui è stato testimone. Il narratore vero e proprio può apparire come esterno ed onnisciente, oppure, assumere un ruolo testuale all’interno della cerimonia, figurando tra gli attoniti ascoltatori della voce narrante interna. Questo meccanismo, oltre a segnalare l’importanza esi-ziale della performance narrativa, sembra rimandare all’esigenza di distanziare il più possibile la “pietra dello scandalo”, creando filtri, diaframmi ed argini di contenzione atti ad evitare la responsabilità di un racconto diretto. Inoltre, favorisce l’identificazione del lettore, che vede legittimate le sue perplessità ed i suoi dubbi nella descrizione dettagliata dell’uditorio, di cui vengono rappre-sentate minuziosamente le reazioni.

b) Narrazione in prima persona. Come spesso la critica ha sottolineato, abbonda-no i casi di narratori omodiegetici del fantastico, il cui incontenibile, sovraec-citato e, a volte, sconnesso flusso verbale rivela conturbanti spie di nevrosi o, in ogni caso, l’effetto destabilizzante di un evento che ha marcato nelle loro vite un traumatico termine post-quem: attraverso questo espediente, si gioca sul filo dell’inaffidabilità della narrazione, lasciando al lettore la scappatoia di attribuire la stranezza del narrato alle probabili difficoltà psichiche di tali insufficienti, individualizzati garanti della verità testuale (secondo un proce-dimento che, invece, risulterebbe illegittimo nel caso di un racconto in terza persona, giacché il lettore non avrebbe altra opzione se non quella di fidarsi del responsabile ultimo, impalpabile e senza volto, del testo, materializzazione indiscutibile della voce autoriale).

c) Modalizzazione. Vista la problematicità di affermare l’impossibile, spostan-doci sul piano del discorso, quasi mai, chiunque stia narrando ed indipenden-temente dalla sua maggiore o minore saldezza di nervi, si permette di pronun-ciare con formula piena la natura dell’apparizione di cui è stato testimone. Si tende cioè a sfocare i tratti dell’oggetto impossibile, evitando di dargli un nome, fingendo (forse) di non riconoscerlo e di non riuscire a costringerlo in

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un termine impronunciabile. Proliferano, allora, le perifrasi, i giri di parole, lo sgomento e la costernazione dei punti di sospensione: si può soltanto alludere alla “presenza dell’assenza”, ma mai dirla pienamente. Un caso limite di questa tendenza generalizzata è rappresentato dal racconto «Le Horla» di Maupas-sant, il cui narratore in prima persona è ossessionato dall’arrivo, dall’avvento, di un ospite inatteso, di una creatura maligna e senza volto che, proveniente da chissà dove, instaurerà un regime di terrore nella nostra realtà: l’invenzione lessicale che dà il titolo al testo rimanda con precisione all’insufficienza del vocabolario degli uomini quando si tratta di riferirsi ad un’entità che ha come unica caratteristica la sua irriducibile estraneità (la parola coniata per l’occa-sione, d’altronde, ricrea la vertigine dell’alterità, pasticciando e storpiando i termini déhors e là, “là” e “fuori”).

d) Topoi. Indispensabile coadiuvante alle strategie del fantastico è l’accumulazio-ne di elementi descrittivi ad effetto che, in qualche modo, preparano la mani-festazione ambigua del sovrannaturale, situandolo in un’adeguata atmosfera, lugubre, gotica, sinistra o, semplicemente, misteriosa, enigmatica, stregata. Le ambientazioni intersecano luoghi deputati e momenti privilegiati, atti a susci-tare un’impressione di permeabilità: castelli in rovina, boschi impenetrabili, antichi manieri, crepuscoli, notti fonde dilatate all’infinito ecc… Bisogna però notare che il ruolo di un ambiente simbolicamente connotato tende a scemare man mano che il genere si avvicina alla sue espressioni più mature (in ambito positivista) e viene decisamente scartato nella maggior parte degli esempi no-vecenteschi.

Un’ultima osservazione è importante considerare prima di passare alla storia della narrazione di fantasmi in ambito spagnolo, poiché ci permette di riunire in un’impressione sintomatica i tratti salienti fin qui raccolti. Mi riferisco al rapporto, più volte scomodato dalla critica, tra il genere e la concezione freudiana del “per-turbante” (das Unheimliche): per il padre della psicanalisi – di cui alcune delle teorie sul funzionamento dell’inconscio rivelano una frequentazione assidua ed un’attenta analisi dei meccanismi della suspense fantastica –, a “perturbare” la coscienza vigile dell’uomo non sarebbe la paura dell’ignoto in senso assoluto, bensì il riaffiorare, sotto spoglie differenti ed irriconoscibili, di un fenomeno che non è del tutto estraneo a chi ne patisce gli effetti, ma che è stato rimosso e silenziato per permettere la costruzione di un’identità adulta, rimettendo in gioco certe zone d’ombra, paure ed indecisioni dell’infanzia. L’effetto disturbante di tale ritorno è descritto da Freud attraverso un’ambigua narrazione fantastica che, invece di scomodare visioni scopertamente terrorifiche, svela la trama psicologica profonda del genere, la cui forza inquietante dipende dal timore della “de-realizzazione del reale”, dal sinistro proiettarsi di una luce obliqua e deformante su di un panorama notorio: poniamo il caso che un uomo si sieda alla sua scrivania, confortevolmente collocata nella stanza dove ogni giorno è abituato a svolgere le sue mansioni – una

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situazione di assoluta tranquillità, dunque, di perpetrazione naturale di una norma –, e che, improvvisamente, la lampada che da sempre illumina le sue carte si sol-levi in volo e cominci a volteggiare in aria. Come si può facilmente comprovare, il sentimento del perturbante si pone sul discrimine tra il noto e l’ignoto, nasce dalla confusione indebita tra queste due categorie che si uniscono caratteristicamente a creare uno spazio grigio e sfumato di precaria abitabilità. Se volessimo riassumere l’atteggiamento dei narratori fantastici nel loro rapportarsi con il sovrannaturale, dovremmo parlare di una sorta di sindrome della “cittadella assediata”, di una distintiva, allarmata tendenza a proteggere il perimetro circoscritto di una stanza chiusa, più che da conturbanti presenze foranee, da indebiti spostamenti ed ine-dite risistemazioni, capaci di trasformarla, come per magia, in un luogo che, pur rimanendo lo stesso, è divenuto pericolosamente altro. Anche prima dell’avvento della psicanalisi, l’alterità più temuta e scongiurata è senz’altro quella che si anni-da tra le pieghe di ciò che è familiare ed identico: vampiri, spettri, lupi mannari e quant’altri emissari dell’Aldilà non sono che le infinite declinazioni metaforiche della snervante sensazione di una perdita di mordente delle armi che l’uomo ha a disposizione per continuare a vivere ciò che conosce come qualcosa di effettiva-mente conoscibile.

1.2 Embrioni fantastici tra Illuminismo e Pre-romanticismo9

Iniziamo la nostra ricognizione della traiettoria della forma fantastica nella letteratura spagnola con un esempio settecentesco che si installa agli albori del genere: proponendosi didascalicamente l’obiettivo di fare piazza pulita delle vec-chie superstizioni sovrannaturali del pueblo, divenute ormai incompatibili con le ambizioni di emancipazione intellettuale dell’Uomo dei Lumi, la micronarrazio-ne fantastica che riporto a seguire, intesa come exemplum e supporto retorico di un’argomentazione didattica e, dunque, almeno nelle intenzioni, priva di ogni au-tosufficienza narrativa, testimonia alla perfezione l’intuizione di Lovecraft da cui eravamo partiti, inserendo il sovrannaturale in un serrato dialogo esitante con il possibile in natura.

Nel 1726, il frate Benito Jerónimo Feijoo, che possiamo considerare il padre dell’Illuminismo spagnolo, comincia a pubblicare un’opera monumentale, il Tea-tro crítico universal, in cui si propone di impugnare razionalmente le vecchie cre-denze, le ingenuità incolte della società pre-ilustrada, demistificandole una dopo l’altra attraverso una serie di trattati dimostrativi dedicati praticamente ad ogni argomento dello scibile umano: la struttura di queste piccole monografie, raccolte in svariate serie secondo un criterio tematico, parte dall’imitazione del punto di

9 In questo paragrafo, rielaboro ed amplifico alcuni spunti contenuti in R. Sebold, «Hacia Bécquer: vislumbres del cuento fantástico», in G. A. Bécquer, Leyendas, Crítica, Barcelona, 1994, pp. IX-XXXII.

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vista impressionistico e antiquato con cui un determinato fenomeno veniva con-siderato nell’insoddisfacente paradigma precedente all’istaurazione della cultura della ragione, per poi sconfessarlo e rivelarne la puerilità giustapponendovi il mo-dello chiarificatore e scientifico della nuova Era, procedendo, dunque, tramite una sorta di sdoppiamento prospettico, che prevede l’esposizione, in parallelo, di due maniere di leggere ed inquadrare uno stesso oggetto. Il bipolarismo (o strabismo) argomentativo dei trattati, prova di una transizione ancora in fieri, di un’esigenza divulgativa che non può ancora prescindere dalla documentazione minuziosa del proprio bersaglio polemico, presto si risolve nella formula piena di una monolitica univocità interpretativa, e l’apparente dialogo si scioglie in un monologo trionfale.

Nella serie dedicata alla confutazione delle tradizioni religiose e consejas de viejas, colpevoli di contaminare l’ambito del sacro di impropri timori e favolistiche tinte fosche, il padre Feijoo si occupa anche della paura ancestrale degli stolti per le apparizioni ultraterrene, sviluppando quello che potremmo considerare un em-brionale racconto di fantasmi. L’entusiastico diffusore dell’Illuminismo spagnolo vuole dare prove scientifiche della non esistenza dei fantasmi e narra una sua espe-rienza diretta, mettendola prima a fuoco dal punto di vista del «tímido y crédulo», per poi sciogliere ogni ambiguità sottoponendo ad una minuziosa dimostrazione sperimentale le prove raccolte. Leggiamo da un’aggiunta al discurso intitolato «Re-gla matemática de la fe humana»:

Vi enfrente de mí un formidable espectro de figura humana, que representaba la altura de cuatro o cinco varas, y anchura correspondiente. A ser yo de genio tímido, hubiera huido al punto de la celda, para no entrar en ella hasta que viniese el día; y referiría a todos la visión del fantasmón, asegurándola con juramento, si fuese necesario, con que a nadie dejaría dudoso de la realidad.No llegó ese caso, por haberme mantenido en el puesto, aunque no sin algún susto, resuelto a examinar en qué consistía la aparición. […] como la sombra crece a pro-porción de su distancia del cuerpo que la causa, combinada con la pequeñez y la distancia de la luz respecto del cuerpo interpuesto, de aquí venía la estatura gigantea de mi sombra. Para acabar de certificarme hice algunos movimientos con el cuerpo, y vi que los mismos correspondían en la imagen. Pero ¡cuántos, aún cuando tuviesen valor para preservar en el puesto, por no hacer estas reflexiones, quedarían en la firme persuasión de haber visto una cosa del otro mundo10!

Ci troviamo in uno spazio familiare e quotidiano (la cella in cui il frate si ap-presta a coricarsi) – e non in un conturbante e misterioso scenario d’irrealtà – , quando, all’improvviso, complice il sopraggiungere dell’oscurità, la vista indivi-dua un oggetto inedito che perverte i contorni di una visione abitudinaria. Sen-za esitazione, la ricostruzione retrospettiva del narratore descrive un «formidable espectro de figura humana», addirittura misurandone scrupolosamente le propor-

10 B. J. Feijoo, Teatro crítico universal, nueva impresión, Joaquín Ibarra Impresor, 1769, tomo V, pp. 21-22.

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zioni. Contrariamente a quanto abbiamo detto in precedenza, la presenza estranea (o supposta tale) viene nominata direttamente, tra l’altro anche attraverso un le-zioso ipocoristico che lascia trasparire un velo d’ironia («fantasmón»). In effetti, la descrizione dell’impossibile e il fermo «juramento» con cui si attesta la veridicità dell’apparizione appartengono ad un periodo ipotetico, prontamente scartato, in cui il portatore della fiaccola chiarificatrice della ragione si mimetizza nei panni innocenti dell’uomo comune, la cui credulità intende rinnegare: «se io fossi stato di indole timorosa, sarei immediatamente fuggito dalla stanza…». Mantenendosi fer-mo sul posto e osservando più da vicino il fenomeno con occhio analitico, questo coraggioso e fiducioso prototipo di tanti soggetti pazienti di narrazioni più mature, apre la strada ad una seconda lettura dell’evento, l’unica seriamente autorizzata: quella “naturale”, che riconduce l’impressione iniziale ad un paradigma di realtà privo di fessure e turbamenti. Pur confessando un certo residuo di timore, il nostro narratore, mettendo a segno un compiaciuto ed ironico adynaton, dichiara di esser-si impavidamente soffermato ad esaminare la “consistenza” di quell’apparizione, sottoponendola ad alcune scrupolose e metodiche procedure sperimentali che, in effetti, daranno come risultato l’inconsistenza sensibile del fantasma, già peraltro presupposta per via teorica: l’ombra del frate proiettata sul muro ed accresciuta dalla luce tremolante della sua fiaccola ha prodotto un inganno ottico, in grado di spaventare soltanto chi ignora le leggi della fisica. Quasi prendendosi una rivincita nei confronti della sua indebita sovrainterpretazione iniziale, Feijoo si concede di giocare per un attimo alla “lanterna magica”, allestendo uno spettacolo di ombre gigantesche che certifica incontrovertibilmente la bambinesca stoltezza dell’inter-pretazione sovrannaturale: il bagliore dell’Aldilà è stato trasformato prima in un esperimento scientifico e poi in un fenomeno da baraccone.

Gli elementi basilari di quello che diverrà il genere fantastico sono tutti pre-senti, quasi inconsapevolmente inventati in questa sede impropria e deputata a finalità didattiche e razionalistiche. In primis, la tensione canonica tra realtà e ir-realtà, alla base del caratteristico “quasi credere”, del rimanere sulla soglia tipico di un’esperienza di lettura che presuppone, tra autore e pubblico, la condivisio-ne delle leggi inoppugnabili della natura. Da una parte, abbiamo la descrizione da brividi ed ad effetto del “fantasmón”, dall’altra, la resistenza della ragione che sa, preliminarmente, l’impossibilità di quanto affermato dalla scrittura. Le basi dell’esitazione ci sono tutte, ma decadono, così come le credenziali fantastiche di questa pseudo-narrazione, di fronte a quel perentorio «No llegó ese caso», che in-terrompe la dialettica tra i due poli sciogliendo ogni ambiguità, non solo impeden-do il propagarsi dell’esitazione oltre i confini del testo, a contagiare il lettore, ma addirittura elidendo la prima ipotesi di lettura e mettendola in ridicolo attraverso un vero e proprio elogio della ragione illuminante e ordinatrice.

Eppure, se il sovrannaturale ed i dubbi ad esso legati qui sono appena un appoggio retorico (un periodo ipotetico dell’irrealtà) funzionale all’esposizione dei vantaggi del metodo scientifico, l’evidente autocompiacimento narrativo che il frate si concede nella prima parte del relato rimanda alla possibilità di uno sfrutta-

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mento puramente letterario della paura e dei vecchi timori popolari, simile a quella che Lovecraft rintraccia alle basi della tradizione fantastica. Con l’Illuminismo, il sovrannaturale diviene letteratura, puro testo ed, al tempo stesso, comincia a pasticciare con la realtà, a confrontarsi con essa, tematizzando una relazione di reciproca incompatibilità: in questo senso, il testo di Feijoo è preludio importante al “realismo” serrato di cui il genere dovrà servirsi per dimostrare la propria cre-dibilità.

*

Il secondo testo che prendiamo in esame, di pochi anni posteriore rispetto a quello di Feijoo, ma figlio di una cultura di mezzo, già in transito verso le inquie-tudini del primo grande movimento letterario ottocentesco di cui anticipa alcune ossessioni tematiche ed alcune atmosfere, ci fornisce un interessante esempio del cocciuto persistere della retorica della ragione che illumina e sbugiarda i giochi d’ombra dell’apparizione sovrannaturale in un’ambientazione ormai totalmente infestata dalle tenebre, privata di ogni trasparenza intellettiva, bensì increspata da un insaziabile appetito di alterità, cucita a misura sull’insoddisfazione spirituale di un soggetto pienamente svincolato dall’autocompiacimento razionale della cultura da cui proviene, rispetto ai cui modelli e miti identitari si propone come malato e disilluso censore.

Il Romanticismo è il movimento letterario della liberazione estasiata dei sensi, dell’affrancamento dell’immaginazione dalle briglie della ragione, della semantizza-zione del lato passionale, istintivo e sentimentale dell’uomo, definito maggiormente dai suoi aneliti interiori, dalla sua volontà di sentire e comprendere intuitivamente l’Assoluto che dai rigori del ragionamento che seleziona e limita l’esperienza e la conoscenza possibile alla sfera del quantificabile e del verificabile. Letterariamen-te, si assiste ad una presa di posizione nei confronti delle leggi del Neoclassicismo (vero e proprio braccio artistico dell’Illuminismo, i cui presupposti creativi ten-devano ad un razionalistico incastro di modelli antichi, atto a replicarne il lumi-noso equilibrio tra contenuto e forma) alla ricerca di un’ispirazione più libera, in cui l’immaginazione possa correre libera, nelle parole di Gustavo Adolfo Bécquer, come «un caballo que se desboca»11. È anche il momento per antonomasia di una sensazione di disagio dell’artista, insofferente e castrato di fronte ad una realtà volgare e meccanica in cui le spinte dello spirito sembrano aver perduto ogni ca-nale di espressione, il momento, insomma, di una feroce disarmonia del poeta che, quando non impugna direttamente la Storia, assumendo un atteggiamento fattivo di critica e di denuncia rispetto alle ingiustizie ed alle limitazioni che la società gli impone, esprime il suo desiderio di alterità, non necessariamente legato all’utopia

11 G. A. Bécquer, Leyendas, Cátedra, Madrid, 1994, p. 197. Nell’espressione sembra risuonare il ricordo “violento” dell’ippogrifo de La vida es sueño, la cui inaccettabile furia è romanticamente riscattata come seducente vertigine dei sensi.

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ed all’ideale, bensì, più sovente, a pulsioni oscure, compiaciutamente autodistrut-tive, in cui la paura e l’orrore possono essere funzionali all’esaltazione dei sensi indebitamente atrofizzati. La possibilità di flirtare con il sovrannaturale, dunque, diviene una delle strade percorse dagli artisti per esprimere il loro disincanto, ed il fantastico traccia una delle vie della “letteratura d’immaginazione”, proponendosi come momento di decisa frattura e provocazione, teso ad ampliare – sino all’inve-rosimile – il perimetro di una realtà angusta e mortificante.

Tali germi di rinnovamento vengono incubati in modo assai problematico, quasi scandaloso, in una serie di opere di passaggio, profondamente iconoclaste e sintomaticamente marginali rispetto all’armonia classicista dominante, che si dif-fondono in tutta Europa negli ultimi trent’anni del diciottesimo secolo. Mi riferi-sco alla moda del romanzo gotico inglese che, ai fini del discorso che qui stiamo conducendo, non è illogico accostare alla poesia sepolcrale preromantica ed alla cosiddetta “letteratura del suicidio” – i cui modelli tematici e stilistici rimbalzano dal Werther all’Ortis, sino a toccare l’opera di Cadalso di cui stiamo per occuparci –, che vengono a riempire di inquieti significati esistenziali (legati, per l’appunto, alla disarmonia naturale che sarà caratteristica principale dell’individualità roman-tica) i segni arbitrari dell’immaginario gotico. In questo periodo, negli anni in cui inizia a delinearsi una crisi dei valori illuministi e si avvertono i segni di una nuova sensibilità, in un momento in cui il massiccio processo di industrializzazione co-mincia a presentarsi minaccioso per l’individuo, incapace di leggersi come anello integrato nella trionfale marcia verso il progresso, si fanno sentire con forza gli stimoli repressi dell’irrazionalità taciuta per un secolo in nome dell’ordine classico, del decoro pubblico e della limitazione ragionevole. Gli impulsi istintivi segregati cominciano a funzionare come un enorme serbatoio in ebollizione e pronto ad esplodere, riversando nei romanzi di Walpole, Lewis, Radcliffe ecc. (ma anche nel-le fantasie libertine di De Sade e negli inspiegabili “capricci” pittorici di Goya) un arsenale oscuro di personaggi malvagi, inquietanti, dissociati e di situazioni oscure e morbosamente violente che funzionano come negativo fotografico della cultura ufficiale, espressione schizofrenica degli impulsi antisociali che stanno per pren-dere il sopravvento. Questi testi realizzano una pulsione “negativa” verso l’ideale, disinnescando l’attrazione entropica dell’uomo per le situazioni limite, morbose, persino orride: monasteri notturni e castelli in rovina si popolano di sanguino-si delitti, scene di dolore e terrore, ghigni diabolici ed impronunciabili offese al decoro ed alla morale, che provocano, allo stesso tempo, sensazioni di attrazione e repulsione. È nell’ambito di questa proliferazione linguistica visibilmente auto-referenziale del lato oscuro che certo fantastico romantico metterà a punto le sue atmosfere e testerà la propria scandalosa funzione sociologica.

Le Noches lúgubres di Cadalso, pubblicate nel 1789 con in mente il modello dei canti sepolcrali di Ossian ma destinate ad un’immensa fortuna letteraria nei primi cinquant’anni del secolo che ci interessa, appartengono ad una fase prero-mantica, di passaggio tra Illuminismo e Romanticismo (passaggio, in Spagna, par-ticolarmente lento e travagliato) e rivelano al meglio il laccio genetico che unisce

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gli albori della letteratura fantastica alle atmosfere di terrore del romanzo gotico inglese cui ci siamo brevemente riferiti, nonché anticipano il motivo del disgusto dell’Io ribelle, con cui si legherà a doppio filo la rappresentazione del sovrannatu-rale nella fase del Romanticismo maturo.

Tediato è, a questo proposito, un personaggio esemplare, quasi il capostipite di tanti futuri eroi della poesia narrativa romantica. Possiamo considerare l’interazio-ne tra l’ambientazione notturna descritta dalle tre lettere fittizie che compongono il testo e la situazione psicologica di cui rappresentano l’accorata confessione come il frutto inedito del connubio tra il segno nero del gotico britannico e i travagli interiori – anticipatori di una dissonanza che toccherà il culmine nella letteratura degli anni ’40 – di un soggetto che non riesce ad adeguarsi alle leggi dell’Universo e lamenta la natura eccessiva del proprio desiderio.

Le circostanze dell’esile trama di Cadalso convergono verso l’amplificazione del comportamento antisociale dell’eroe che, disperato e disilluso per la morte dell’amata, ingaggia un becchino per scavare la sua bara, dissotterrarne il cadave-re, trafugarlo dal cimitero ed, infine, suicidarsi al suo fianco, facendo consumare il proprio corpo vicino a quello di lei da un fuoco purificatore. Ombre ambigue, inquieti cigolii, lampi improvvisi, corpi in putrefazione che fuoriescono da tombe scoperchiate, lugubri prigioni, perfettamente in tono con la febbrile sovreccitazio-ne nervosa del protagonista, basterebbero ad inserire il testo nella nostra prospet-tiva “prefantastica”, visto che, rispetto al breve frammento di Feijoo, qua il reper-torio descrittivo del sovrannaturale si presenta in tutto il suo notturno splendore, ma attenzione, sul piano degli eventi, neppure in questo caso avviene alcunché che metta in crisi il paradigma di realtà di chi legge che, tutt’al più, può sentirsi offeso moralmente dal sacrilegio della profanazione e scioccato dal comportamento ne-vrotico di Tediato. Potremmo dire che, nelle Noches lúgubres, si stanno incuban-do le strutture collaterali dell’architettura fantastica, ma non le sue fondamenta: compare, forse per la prima volta nelle lettere ispaniche, il conturbante effettismo della futura narrazione di fantasmi, si crea un’atmosfera propizia al traumatico passaggio, se ne prepara discorsivamente il caratteristico orizzonte di permeabilità, disponendo il lettore ad un avvento che non si produrrà. L’arsenale di immagini crepuscolari e l’avventura in equilibrio instabile tra vita e morte hanno, infatti, un valore prettamente allegorico, esprimendo il rifiuto di un’individualità “malata” nei confronti dei suoi simili e dei pilastri della convivenza civile. Il corteggiamento delle tenebre di questo disincantato amante (in cui si esasperano sino al paradosso i tratti della malinconia barocca) si risolve nello svelamento della danse macabre che sbugiarda e nullifica ogni progetto ed ogni aspirazione umana, tradendo, in con-troluce, la verità ultima dell’esistenza come mascherato «pozo de horrores infer-nales». La prima delle tre disperate missive in cui Tediato descrive il suo satanico progetto – piena zeppa di lunghe tirate filosofeggianti sull’inconsistenza della vita e dei presupposti (gloria, ricchezza, affetti ecc.) in cui dimostrano di credere gli altri –, non a caso, si conclude con il caratteristico riverberare di un classicheggiante pulvis eris. Così Tediato al cadavere della sua bella:

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Objeto antiguo de mis delicias… ¡hoy objeto de horror para cuantos te vean! Montón de huesos asquerosos… ¡En otros tiempos conjunto de gracias! ¡Oh tú, ahora imagen de lo que yo seré en breve12!

A rivelare l’esclusivo interesse metaforico (e poetico) per il sovrannaturale di quest’opera, due micronarrazioni di fantasmi (questa volta potenzialmente opera-tivi), incastonate nel racconto dell’avventura nel cimitero alla mezzanotte: la dia-lettica dell’esitazione si produce, ma il colto e raffinato protagonista si comporta, di fronte agli ingenui timori del suo accompagnatore – il becchino che si presta ad aiutarlo –, esattamente come il padre Feijoo nei confronti delle credenze popolari, rilegate nei meandri dell’oscurantismo pre-illuminista. Ecco la reazione contrap-posta dei due personaggi di fronte al sospetto di una vera e propria infrazione fantastica:

LORENZO. […] ¡ay, nuevo espanto! ¿Qué es aquello? Presencia humana tiene… Crece conforme nos acercamos… Otro fantasma más le sigue… ¿Qué será? Vol-vamos mientras podamos; no desperdiciemos las pocas fuerzas que aún nos quedan… Si aún conservamos algún valor, válganos para huir.

TEDIATO. ¡Necio! Lo que te espanta es tu misma sombra con la mía, que nacen de la postura de nuestros cuerpos respecto de aquella lámpara. Si el otro mundo abortase esos prodigiosos entes, a quienes nadie ha visto, y de quienes todos hablan, sería el bien o el mal que nos traerían siempre. Nunca los he hallado; los he buscado.

LORENZO. ¡Si los vieras!TEDIATO. Aún no creería a mis ojos. Juzgara tales fantasmas monstruos producidos por

una fantasía llena de tristeza. ¡Fantasía humana, fecunda sólo en quimeras, ilusiones y objetos de terror13!

I vincoli razionali imposti dalla dottrina illuminista impediscono a questo suo insoddisfatto epigono di cedere fino in fondo alla seduzione dell’Aldilà e la ten-tazione di burlarsi dell’ingenuità popolare del suo accompagnatore, banalizzando l’estremismo immaginifico del suo comportamento, ha la meglio sulla disponibilità (continuamente corteggiata in potenza) a vivere compiutamente una conturban-te esperienza di alterità: Tediato torna a rivestire i panni dell’esponente integrato della cultura del suo secolo, replicando quasi letteralmente l’esperimento ottico di Feijoo. Eppure, l’impossibilità naturale dei «prodigiosos entes» viene constatata, in modo tutt’altro che trionfale, con una certa amarezza e malinconia, primo se-gnale di un terrore per l’Altro che si sta trasformando in inquieto desiderio, di una ragione vissuta come gabbia costrittiva per i bisogni immaginari dell’Io. Il secondo esempio è ancor più sintomatico in tal senso, insediando il dato di una ormai matu-ra consapevolezza della fruibilità artistica della narrazione sovrannaturale, che vie-

12 J. De Cadalso, Cartas marruecas/Noches lúgubres, Cátedra, Madrid, 2002, p. 386.13 Ibid., pp. 371-372.

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ne introdotta come un divertito racconto nel racconto, in cui il narratore (Tediato) gioca maliziosamente con i meccanismi della suspense e il suo ascoltatore (Loren-zo) attende impaziente l’esito del sapido aneddoto, catalizzando l’apprensione e la curiosità del lettore implicito. Per una volta, tra l’altro, i due poli dell’esitazione non si ripartiscono tra due interlocutori (coinvolti in un dialogo sapienziale e didat-tico come nel caso precedente) o tra due punti di vista gerarchicamente concepiti secondo l’asse cultura/ignoranza, ma convivono problematicamente nell’orizzonte percettivo e narrativo di un unico soggetto, che ammette, anche se solo per un mo-mento, la sua titubanza di fronte all’apparente inspiegabilità di un fenomeno. Te-diato racconta di essere rimasto chiuso nel cimitero il giorno del funerale della sua amata, non notato dai guardiani che se ne vanno lasciandolo solo al sopraggiungere del crepuscolo. Ad un certo punto della notte, «rodeado de sepulcros, tocando imágenes de muerte, envuelto en tinieblas»14, con i sensi eccitati e, forse, ingannati dal dolore, dalla stanchezza e dalla suggestione, si trova d’avanti ad un’imprecisata sagoma opalescente che mette in scacco le sue certezze:

TEDIATO. […] yo vi, no lo dudes, yo vi salir de un hoyo inmediato a ése un ente que se movía, resplandecían sus ojos con el reflejo de esa lámpara, que ya iba a ex-tinguirse. Su color era blanco, aunque algo ceniciento. Sus pasos eran pocos, pausados y dirigidos a mí… Dudé… me llamé cobarde… Me levanté…, y fui a encontrarle… El bulto proseguía, y al ir a tocarle yo, y él a mí…, óyeme…

LORENZO. ¿Qué hubo, pues?TEDIATO. Óyeme… Al ir a tocarle yo y él horroroso vuelto a mí, en aquel lance de tanta

confusión… apagóse del todo la luz.LORENZO. ¿Qué dices? ¿Y aún vives15?

Il dubbio del soggetto paziente sembra protrarsi e non cede immediatamente il passo alla necessità di ristabilire un ordine illuminato: sintomaticamente, la fiac-cola si consuma e la scena sprofonda nell’oscurità, con modalità così repentine che, nella narrazione retrospettiva, vengono sfruttate come un vero e proprio coup de théâtre che fa rabbrividire il povero becchino. A tentoni, Tediato prova a toccare con mano la presenza dell’assenza, che resiste alla prova e sembra acquisire una sfuggente e paradossale consistenza tattile che provoca lo svenimento del sinora coraggioso indagatore dell’occulto:

TEDIATO. […] Procurando tentar, conocí que el cuerpo del bulto huía de mi tacto. Mis dedos parecían mojados en sudor frío y asqueroso, y no hay especie de monstruo, por horrendo, extravagante e inexplicable que sea, que no se me presentase16.

14 Ibid., p. 376.15 Ibid., pp. 376-377.16 Ibid., p. 377.

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Sulle sue dita, funzionando come qualcosa di molto simile ad un oggetto me-diatore, permane la sgradevole, agghiacciante impressione del contatto con ciò che si presuppone immateriale, ma proprio mentre l’ectoplasma sembra aver dato dimostrazioni tali della sua esistenza da far cadere il testimone in un irrisolvibile blocco conoscitivo, attraverso un repentino abbassamento del registro, la scenetta risolve la sua tensione in una risata liberatrice. Uno dei mastini del guardiano del ci-mitero, addormentatosi tra i sepolcri insieme a Tediato, risulta essere l’assai prosai-co responsabile dell’esperienza orrorifica: l’appiccicoso tocco spettrale è semplice bava di cane! E, nuovamente, l’esitazione di fronte al sovrannaturale è sconfessata come innocuo errore dei sensi prima che riesca a toccare, fuori dal testo, le certezze del lettore, lasciando campo libero all’ennesimo, normalizzante – ed ormai fuori posto, in un’opera così piena di trasgressioni e di pruriti irrazionali – elogio dell’in-telletto ordinatore, di fronte al quale trovano un’adeguata giustificazione anche i timori iniziali, ricondotti a circostanziali e circostanziate debolezze passeggere («la falta de alimento», «el frío de la noche», il dolore del lutto):

¿qué es la razón humana si no sirve para vencer a todos los objetos y aun a sus mismas flaquezas? Vencí todos estos espantos17.

1.3. Pie leggende e fantasmagorie diaboliche: le due forme del fantastico romantico

Feijoo e Cadalso sono ancora troppo imbevuti di retorica illuministica (quella che, d’altronde, abbiamo visto essere un ingrediente fondamentale della tensione dialettica tipica del genere) per poter dare luogo a racconti fantastici maturi, in cui l’equilibrio tra atteggiamento scettico e febbre dei sensi non penda necessaria-mente verso un’analisi induttiva e rigidamente risolutiva del fenomeno strano, ma costituiscono interessanti precedenti della grande fioritura fantastica che avviene proprio nell’Ottocento. Una grande spinta, come dicevamo, viene data dalla ri-valutazione romantica dell’immaginazione come ingrediente fondamentale della creazione.

In Spagna, il Romanticismo si suddivide in due fasi, periodi o correnti che danno luogo a tipologie di testi molto diverse, anche per quanto riguarda il rap-porto con il sovrannaturale.

Dopo la fine della guerra di indipendenza e la cacciata dei francesi, con la restaurazione del potere monarchico di Ferdinando VII, tra il 1814 ed il 1837, assi-stiamo al cosiddetto primo romanticismo (storicista e tradizionalista, nonché ideo-logicamente più conservatore), caratterizzato da un forte sentimento patriottico e dall’interesse per ripercorrere le tappe di un passato glorioso da anteporre alle pro-ve di un’incipiente decadenza e sensazione di vicarietà, alla ricerca dell’elemento

17 Ibid.

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autoctono, del genuino carattere di una nazione cui l’Europa settentrionale affib-biava impropriamente (viste le pesanti risacche classiciste) connotazioni “intrinse-camente” romantiche, costruendo il mito pittoresco ed esotista di un Sud religioso e passionale, ricettacolo naturale di suggestive rivelazioni spirituali, miracolosa-mente preservate dai rigori del secolo filosofico: la Spagna diventa, soprattutto at-traverso la fortunata immagine della sua letteratura aurea, “tema romantico” prima di scoprire il romanticismo. Ed è proprio intorno a queste proiezioni mistificanti che prendono le mosse i primi fermenti di rinnovamento, che traggono forza dalla contrapposizione tra le rigide norme dell’imitazione neoclassica (associate all’im-portazione violenta della cultura dell’invasore francese) e l’esempio cavalleresco, “sentimentale” e cristiano della tradizione rinascimentale e barocca.

Quest’attenzione al passato, oltre che al riverberare nella Penisola del roman-zo storico alla Walter Scott, porta ad un’imponente produzione di narrazioni in versi, legate al concetto basilare del recupero della memoria storica e tradizionale: i romances, benché le demarcazioni risultino sovente assai sfumate, cantano episodi storici nodali per la costruzione della grande Spagna, spesso riferiti ai tempi glorio-si (e spesso favolosi) delle lotte contro i mori e dei Re Cattolici, mentre le leyendas ripescano ed amplificano poeticamente proprio quelle pittoresche consejas, legate alla tradizione orale, in cui il volgo esprimeva ingenuamente la propria devozione attraverso mirabolanti storie di peccatori puniti o virtuosi eroi premiati da qual-che appropriato prodigio, afferenti, dunque, a quella che potremmo definire una mitologia cristiana, grande bersaglio dell’illuminata cultura religiosa settecentesca. È quest’ultima tipologia di testi quella che ci interessa più da vicino, giacché fa sovente ricorso ad una rottura dell’ordine del reale, utilizzata però, in modo tut-t’altro che perturbante, bensì rassicurante ed aproblematico, per esaltare l’inno-cenza ed il potenziale poetico dell’immaginazione popolare ed, insieme, diffondere edificanti exempla di virtù, secondo una tendenza che, seppure in senso inverso, risulta altrettanto incompleta ai fini del perfezionamento della forma fantastica di quanto non lo fossero le ferme prese di posizione razionaliste dei testi illuministici. Ciononostante, il recupero poetico della superstizione popolare ad opera della cul-tura alta testimonia, almeno a livello tematico, un’importante impennata del tasso di interesse della letteratura spagnola per il sovrannaturale, nonché una volontà di svincolarsi, valida soltanto nel recinto protetto e giocoso della consapevolezza poetica, dai limiti del raziocinio, arbitro non più così imprescindibile almeno in ambito estetico.

Nei testi di questo tipo, bisogna notare, intanto, l’uso del verso, quando in futuro il fantastico prenderà rigorosamente la strada della prosa. E poi la program-matica assunzione di una prospettiva storiografica e “antropologica” che, pruden-temente, funge da filtro ed allontana in un passato remoto, innocente ed esotico, il potere dirompente dell’infrazione, possibile e giustificabile solo nello spazio dop-piamente protetto – e disinnescato – della rievocazione antichistica e della curiosi-tas popolareggiante dello scrittore romantico. Tale distanza non è sempre ironica e scettica, anzi, nella maggior parte dei casi è nostalgica: l’autore colto che si prende

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la briga di conservare e trasmettere una determinata tradizione rimpiange, dinanzi al materialismo ed alla prosaicità del presente, l’epoca e la stratificazione sociocul-turale dei “miracoli quotidiani”, considerati come una parte fondamentale della storia e del paesaggio nazionale. In ogni caso, l’atteggiamento del narratore tende a mummificare le superstizioni popolari in una sorta di necessario museo della me-moria che ne neutralizza completamente ogni potenziale destabilizzante e le esime da ogni imbarazzante confronto con il reale.

Spesso, un racconto sovrannaturale è chiamato ad arricchire l’incanto “ro-mantico” di un luogo, un castello arabo, una cattedrale romanica o un giardino in cui le rovinose vestigia di un distrutto monumento innescano il ricordo culturale di un’era preterita. È il caso de «El alcazar de Sevilla» di José María Blanco White, il quale, tra l’altro, è autore del primo saggio teorico sulle narrazioni sovrannaturali conosciuto in lingua spagnola. «Sobre el placer de las imaginaciones inverosímiles» compie un deciso passo in avanti nella rivalutazione estetica della superstizione sovrannaturale rispetto alla pressoché esclusiva intenzione didattica che sovrain-tendeva la loro introduzione nel Teatro crítico universal: per Blanco White, l’uomo può salvarsi dal potenziale destabilizzante della paura dell’alterità non solo rifu-giandosi tra le braccia della ragione, ma anche ricorrendo all’immaginazione dei poeti, in grado di provocarne un’adeguata catarsi rappresentativa:

Es verdad que la superstición tiene su origen en la imaginación, y que cuantos orrores y males ha causado en la tierra procedieron de la imaginación exaltada con los sueños terroríficos a que naturalmente está expuesta. Pero ningún peligro hay, a mi entender, en divertir a la imaginación con sus propios sueños; por el contrario, al punto que sus más terribiles aprehensiones caen por fortuna en manos del poeta o del trovador pierden su odioso aspecto y poco a poco hacen que las gentes se familiaricen con lo que antes les hacía temer18.

Le narrazioni “inverosimili” offrono l’opportunità di un innocuo divertimen-to immaginativo, addomesticando gli incubi ancestrali dell’uomo in una sorta di recinto ludico. «El alcazar de Sevilla», una prosa giornalistica che anticipa la codi-ficazione letteraria del sovrannaturale tipica delle leggende romantiche, funziona come una sorta di grande cornice “turistica”, atta a decantare la suggestività del castello moresco della città andalusa, raccogliendo gli echi delle svariate tradizioni circolanti su quel luogo ricco di storia. L’autore, biograficamente riconoscibile, mediatore adeguato tra passato e presente, si siede su di una panchina del giar-dino a contemplare le vecchie mura del forte, impregnate delle tracce di sostrati culturali desueti e seducenti, e decide di fare qualche domanda ad un anziano del posto per farsi raccontare, attraverso un punto di vista più “autorizzato”, le mira-bolanti avventure che quei venerandi recinti un tempo ospitarono. La sua credula ingenuità (al pari delle innumerevoli variazioni sulla formula del “testimone loca-

18 J. M. Blanco White, «Sobre el placer de las imaginaciones inverosímiles», citato in R. Sebold, «Hacia Bécquer», cit.

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le”, individualizzato o collettivamente riassunto in un imprecisato coro popolare, a cui ricorrono ossessivamente i collezionisti romantici di tradizioni in numerosi testi coevi: contadini e bambinette di grande bontà intervistati in qualità di fonti dell’indagine folklorica del narratore principale19), seppure sottoposta ad una cer-ta deformazione ironica, è introdotta come garanzia di autenticità, per squarcia-re il velo del tempo ed illuminare contestualmente lo spirito di un’epoca troppo lontana dal gusto e dalla sensibilità moderne: il nostro curioso “archeologo”, pur ritagliandosi il margine di una certa moderazione contrappuntistica, si dimostra dotato di «espíritu romancesco bastante»20 per abdicare al proprio scetticismo e lasciarsi sedurre e provocare dal potenziale suggestivo del racconto incorniciato, indirizzando in tal senso la ricezione del lettore. Tra le succose stranezze e le curio-sità raccolte attraverso questo espediente, l’unica compiutamente sovrannaturale riguarda il segreto di un tesoro incantato sotto il pavimento del castello, nel ten-tativo di dissotterrare il quale rimane per sempre prigioniera un’avida principessa araba, mal consigliata dalla sua cupidigia e convenientemente punita dal magico duende che protegge la preziosa arca. Una notazione al margine doverosa, in pro-posito, riguarda l’evidente transfert culturale su cui l’aneddoto sembra poggiare: la catastrofe sovrannaturale si accanisce su chi sta al di là di un’altra, forse meno conturbante ma ugualmente rigida, frontiera di estraneità, assolutamente non in-taccata dall’accondiscendenza erudita del divulgatore.

Un ruolo di spicco nell’ambito del romanticismo storicista è senz’altro occu-pato da José Zorrilla, drammaturgo di successo e autoproclamato “cantore della nazione”, impegnato nella missione di far rivivere, con i suoi diffusissimi poemi narrativi, la genuinità del tiempo viejo nella prosaica e fredda temperie culturale post-illuminista:

La edad de los prodigios,la edad de las hazañas,sin duda fue: nosotros,de corazón sin fe,sus crónicas leemosllamándolas patrañas,y en ella es do el dedodel Criador se ve21.

La disponibilità ad eccedere i limiti del comprovabile in natura attraverso una sorta di spirituale fiducia nell’operato della Provvidenza, che non ammette scettici-smi di sorta, è tratto agglutinante di gran parte delle sue rievocazioni passatiste, sia a livello tematico che in relazione con le evidenti intenzioni moraleggianti, in senso

19 Cfr. R. Sebold, «Hacia Bécquer», cit.20 J. M. Blanco White, «Sobre el placer de las imaginaciones inverosímiles», cit.21 J. Zorrilla, «La azucena silvestre», Obras completas, ed. de Narciso Alonso Cortés, Librería San-tarén, Valladolid, 1943, t. I, p. 787b.

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cristiano, della sua scrittura. In effetti, nelle leggende di Zorrilla, un atteggiamento più aperto nei confronti del sovrannaturale e la volontà di riscattare la fede delle origini sembrano legate da un caratteristico doppio laccio che viene a problematiz-zare le credenziali fantastiche di questi testi. Se per il moderno “trovatore”

No hay cosa que Alguien no pueday nadie en la tierra sabe lo que en lo posible cabelo que en lo imposible queda22,

la giustificazione della formula dell’esitazione su basi religiose (con quel “Qualcuno” -Alguien- con maiuscola che campeggia a garantire l’accettabilità fi-deistica di una realtà miracolosa) priva queste incursioni negli spazi dell’alterità di qualsiasi tensione. Le leggende in versi di Zorrilla, pur presentando un vasto reper-torio di temi sovrannaturali – forse il più variopinto e composito della prima metà del secolo – mostrano un atteggiamento contrario rispetto a quello su cui si baserà la moderna narrazione di fantasmi che, ricordiamo, non può prescindere dal dog-ma illuministico dello scandalo della ragione. Oltre all’atteggiamento nostalgico e “museografico” che anima la penna del poeta (il quale cerca un’integrazione totale con il mondo lontano ed innocente dei prodigi quotidiani, tendente più al meravi-glioso che al fantastico, e, al contempo, vi si accosta con un interesse prettamente poetico e spirituale che ne disinnesca ogni possibile, seria ricaduta sull’attualità), è anche l’ossessione per un sovrannaturale di esclusiva ed incontestabile provenien-za cristiana che segna una netta barriera tra il fantastico maturo e le sue leggende “a lo divino”23. Tale impostazione provoca, tra l’altro, importanti effetti sull’artico-lazione narrativa, che suole prevedere tre momenti fondamentali:

a) Come nei suoi romances históricos, si comincia quasi sempre con la creazio-ne di un’ambientazione propizia, l’affresco di un’epoca remota (Medioevo o Siglo de oro), descritta con un’abbondanza incredibile di pittoreschi dettagli dove, in assenza di un meraviglioso “operativo”, si registra, a livello discorsivo, quella che potremmo definire una strabordante «apetencia de lo siniestro»24 (es: «Todo eran apariciones /raros acontecimientos, /secretas conversaciones, /todo ruidos y visiones / y diabólicos portentos»25).

b) Poi, ci troviamo immersi, in medias res, in una circostanza di disordine: è stata compiuta da qualche incallito peccatore o da qualche titubante e tiepido os-

22 J. Zorrilla, «La pasionaria», Obras Completas, cit., t. II, p. 640.23 Per l’uso della formula e per l’articolazione delle fasi diegetiche delle leggende di Zorrilla che presento a seguire, rimando al brillante articolo di R. Sebold, «Zorrilla en sus leyendas fantásticas a lo divino», in Una nueva lectura: actas del congreso sobre José Zorrilla, Valladolid, 18-21 de octubre de 1993. 24 R. Sebold, «Zorrilla en sus leyendas fantásticas a lo divino», cit., p. 209.25 J. Zorrilla, «Honra y vida que se pierden no se cobran, mas se vengan», Obras completas, cit., t. I, p. 185a.

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servatore della fede una trasgressione sacrilega dell’ordine divino o del codice cavalleresco (spesso le due cose vanno di pari passo), nella descrizione della quale si impiega quasi il novanta per cento dello spazio disponibile alla narra-zione.

c) Finché all’improvviso, «en el último momento», preparato solo dal descritti-vismo possibilista di cui parlavamo, assistiamo al ricomponimento dell’ordi-ne (alla punizione del peccatore ed alla restituzione del maltolto alla vittima del sopruso), tramite il verificarsi di un portento sovrannaturale che coincide sempre con l’intervento della suprema giustizia divina. Possiamo parlare di un desenlace sovrannaturale meccanicamente utilizzato secondo la modalità del deus ex-machina.

Insomma, lasciando da parte la macchinosità dell’espediente sovrannaturale, ci troviamo di fronte ad un’architettura narrativa che ribalta completamente quella che abbiamo associato al fantastico: se lì la descrizione riconoscibile e serena di un ordine veniva funestata da un evento irrazionale che introduceva i semi del disordi-ne, in queste leggende l’intervento innaturale riaggiusta gli equilibri di un quadro violento ed offensivo (dal punto di vista morale e religioso). Anche l’atteggiamento del narratore è caratteristicamente opposto, giacché Zorrilla non si dimostra mai titubante o sconcertato nel momento di pronunciare l’infrazione, non ponendosi affatto il problema della verosimiglianza, bensì simulando candidamente l’emo-zione con cui il devoto del pueblo riceve l’avvento dei giusti miracoli del suo Dio. La leggenda zorrillesca recupera lo spirito compatto e letterale della superstizione, non occupandosi di acclimatarlo e secolarizzarlo per i contemporanei che, al con-trario, abdicando alle insidie dell’incredulità ed alle minacce della filosofia, merita-no di ritrovare un’innocenza che «se convierte en poética aspiración del espíritu a elevarse a la suprema inteligencia, a la atmósfera divina de su Creador»26. Se, quasi sempre, la responsabilità del racconto viene delegata alla voce del popolo, ad una qualche antica testimonianza anonima che il narratore in prima persona finge di raccogliere e diffondere («Tal es la tradición; así la cuenta el pueblo por doquier y así la escribo»27), si può affermare che Zorrilla sottoscriva, complice, la massima vox populi, vox Dei, realizzando una crociata atta a preservare «la delicadeza de la fe y la poesía que encierran estas piadosas leyendas, que nos encantan a los poetas creyentes, quien con fe sincera y fruición íntimas, las consignamos en nuestros libros, para que no se pierdan entre la grosera ignorancia y la inconsciente indife-rencia de las multitudes vulgares. ¡Loado sea Dios, que ha conservado en el alma de quien estas líneas borrajea, la fe de la memoria por el cínico positivismo que la jerga filosófica inocula en nuestra generación»28.

26 J. Zorrilla, «Ruidos, miedos y supersticiones caseras», Obras completas, cit., t. II, p. 2145.27 J. Zorrilla, «Apuntaciones para un sermón sobre los novísimos», Obras completas, cit., t. I, p. 676b.28 La citazione deriva da un interessante e significativo saggetto sui fantasmi intitolato «Espectros caseros», in J. Zorrilla, Obras Completas, cit., t. II, pp. 2149-2154.

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Con ogni evidenza, le leggende di Zorrilla equivocano, moralizzandola, l’in-quieta dialettica tra il credere ed il non credere tipica dell’avventura fantastica, raccomandando una pia disposizione spirituale ad accettare senza questioni un mistero che solo la fede può spiegare. Il poeta, del resto, si dimostra perfettamente cosciente del cammino differente da lui intrapreso rispetto alla moda del moderno racconto fantastico che in Europa sta già dando dei frutti maturi (le traduzioni dei racconti di Hoffmann cominciano a circolare anche in Spagna proprio in questo periodo): nell’introduzione alla sua leggenda «La pasionaria, cuento fantástico» (che racconta della trasformazione di una fanciulla sedotta ed abbandonata in uno scarlatto fiore rampicante sul balcone del suo ex-amante, che si è prontamente risposato), fingendo un sapido dialogo con sua moglie, il poeta dichiara che sotto i brillanti soli di Spagna non possono trovare spazio gli spaventosi spettri che si annidano nelle tenebre e nelle nebbie tedesche. Ed allora a che genere apparter-rebbero i tuoi racconti sovrannaturali? – gli chiede, burlona, la moglie. La risposta suona come una sintomatica dichiarazione di poetica: «Entendámonos. Margarita la tornera es una fantasía religiosa, es una tradición popular y este tipo de fantástico no le repugna a nuestro país, que ha sido siempre religioso hasta el fanatismo. Las fantasías de Hoffmann, sin embargo, no serán en España leídas ni apreciadas sino como locuras y sueños de una imaginación descarriada»29.

Vista la prossimità tematica con la narrazione fantastica più importante del se-condo romanticismo, «El estudiante de Salamanca» di Espronceda, in cui lo stesso motivo riceve un trattamento poetico diversissimo, rivelatore di un approccio al sovrannaturale profondamente mutato, consideriamo brevemente due variazioni zorrillesche sul tema antichissimo del burlador, dell’incallito dongiovanni, vera e propria ossessione delle riscritture poetiche e teatrali del primo Ottocento: la leg-genda «El capitán Montoya», che possiamo considerare una sorta di embrione del più famoso dramma di Zorrilla, ed, appunto, Don Juan Tenorio. In entrambi i casi, la gestione discorsiva e diegetica della trasgressione sovrannaturale illustra alla per-fezione l’importanza della legge todoroviana della letteralità del “fantasma”, giac-ché l’intenzione edificante annacqua il potere conturbante dell’Altro, risolvendone l’ambiguità in una ferrea allegoria religiosa.

Il capitano è un cavaliere spregiudicato e beffardo, un solitario «dominado por el hastío vital»30 ed uno scettico contestatore dell’autorità (istituzionale e divina), tutti tratti che non lo farebbero sfigurare nella galleria dei “ribelli” del secondo romanticismo, senonché la penna del poeta gli riserva il destino di un’esemplare conversione. Proprio mentre questo scellerato provocatore sta per compiere il suo malato proposito di «robar a Dios la mejor prenda al casarme» (rapire una monaca e farne la sua sposa), nello spazio deputato del convento, invito alla penitenza, funzionale alla rivelazione della grazia, riceve una chiarissima visione dell’Aldilà che ne confonde per sempre le aspirazioni criminali: il motivo usato è quello, assai

29 J. Zorrilla, Obras completas, cit., t. II, p. 617a.30 R. Navas Ruiz, La poesía de José Zorrilla, Gredos, Madrid, 1995, p. 75.

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ricorrente nella tradizione rinascimentale e barocca – e, dunque, testualmente ri-conoscibile per il lettore, che può comodamente decodificarne il significato –, del peccatore messo al cospetto del proprio funerale. Il narratore, dopo aver attestato con il consueto espediente l’affidabilità del suo racconto («El pueblo me lo con-tó/sin notas ni aclaraciones:/con sus mismas expresiones/se lo cuento al pueblo yo»31) ed aver ripercorso le avventure secolari del gagliardo cavaliere, giunge al fulcro concettuale della vicenda nella settima parte del suo lungo poema, intito-lata «Una aventura inexplicable» ed adotta un tono sintomatico nel presentare al lettore il materiale irrazionale che ha in serbo per lui. Innanzi tutto, prepara, con evidente maestria e gusto beffardo, uno scenario adeguato, percorso da notturne inquietudini e sinistri presagi, che appaiono, comunque, già compiutamente let-terari, come copiati da una cartolina gotica. Già nella prima parte della leggenda, che descriveva l’ambiente solitario e lugubre in cui sorge il convento, solcato da due cavalieri incappucciati (Montoya ed il suo scudiero), il beffardo cronista aveva giocato d’effetto “alla narrazione di fantasmi”, mettendo a fuoco il brutto ceffo dell’accompagnatore del capitano, che si staglia nella notte impenetrabile come una tremula “apparizione”:

Ni incrédulo faltaríaque, si cerca dél pasara,se santiguaradudando de lo que sería32.

Eppure, anche questo páramo sinistro è dotato di opportuni segnali metaforici atti a disinnescarne il potenziale perturbante, essendo presieduto – ed ordinato semanticamente – da un’imponente croce di ferro: a conferma dell’univocità orto-dossa e cristiana del sovrannaturale zorrillesco, le ambigue figure non riconducibili a questo paradigma scompaiono con un semplice segno della croce.

Assai tipico è poi il dialogo con il lettore, quasi una rassicurante chiacchierata, che il poeta instaura in un momento cruciale del racconto, lasciando significa-tivamente bloccato il suo personaggio sulla soglia del fatidico convento in cui si produrrà l’inquestionabile rottura dell’ordine naturale:

Y aquí, ¡oh mi lector amigo!,fuerza será que convengasen que es preciso que vengashacia el convento conmigo.Sigue mi camino, pues, […]Sube tres gradas, si puedes;da un paso más, y con él

31 J. Zorrilla, Leyendas, Cátedra, Madrid, 2000, p. 161.32 Ibid., p. 165.

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tocarás en el cancel,donde es fuerza que te quedes.¿Ves un hombre que embozado,encorvando la figura,por la estrecha cerraduraen mirar está ocupado?Acércate sin temor,que lo que alcanzas por dentrono hace temible el encuentrodel capitán reñidor.[…]pero hazte un poquito atrás.Porque, levantando el brazo, empuja a espacio la puerta.Entró, y, dejándola incierta,sopló el aire y dio un portazo.Mas veo, lector, que dices,sin que pueda replicarte,que esto es, llamándote, dartecon la puerta en las narices.Mas tu impaciencia sosiega;todo lo presenciarás,que del poeta a eso y másel poder mágico llega33.

Si può parlare di un’ammanierata ricerca di complicità, nonché di un gioco metaletterario che svela il patto che lo scrittore intende stipulare con il suo pub-blico. L’idea è quella di un rilassato accompagnamento del «lector amigo» oltre un limite proibito di cui la voce narrante si dichiara imprescindibile garante. Una porta è socchiusa ed il poeta vi indugia prima di invitare il suo ospite a sbirciare i segreti che si nascondono al suo interno, quando, all’improvviso, una folata di ven-to, segno, forse, del divieto delle leggi della fisica, richiude violentemente i battenti dalle cui fessure si sta ipotizzando il profilarsi di una seducente rivelazione vietata. Ma niente paura: la vista – o l’immaginazione – del poeta è capace di andare oltre gli ostacoli naturali, autoproclamandosi magica e divina e, dunque, scavalcando, a beneficio dell’insegnamento che ha da impartire, i filtri della verosimiglianza. Nel racconto fantastico moderno, la complicità tra lettore e narratore si basa sul comune spaesamento di fronte all’assurdo, mentre qui il poeta, dotato quasi di un’investitura di onnipotenza visionaria, tranquillizza il suo pubblico invitandolo a seguirlo oltre i limiti del possibile. Ciò che avverrà all’interno del recinto poeti-camente tracciato grazie a questo peculiare, fideistico, patto narrativo prevede una sintonizzazione verticale del lettore con il “magico” e privilegiato sentire del Poeta: l’unico ad esitare – a tentare di razionalizzare – di fronte all’oscena bara che lo

33 Ibid., pp. 191-192.

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contiene cadavere sarà il protagonista, cocciutamente ancorato al suo scetticismo, ai suoi limiti secolari, ma autore e lettore sono ormai altrove, in un luogo panora-micamente e moralmente più alto, dal quale, senza dimostrare alcuna solidarietà, si prendono gioco dello stupore e delle resistenze razionali del capitano, contem-plando il saggio, portentoso operato divino. Inutile dire che, alla fine, convenien-temente turbato da una visione necessaria al suo cammino di redenzione, Monto-ya svestirà i suoi scellerati panni cavallereschi e diventerà altro da sé, cambiando nome ed identità ed intraprendendo una vita di penitenza e mortificazione.

Su presupposti identici si basa l’introduzione di materiali fantastici negli ultimi tre atti della Seconda Parte del Don Juan Tenorio, dramma scaturito, nelle parole dell’autore, dalla refusione di due opere dei Secoli D’oro, il Burlador de Sevilla di Tirso ed El convidado de piedra di Zamora: il libertino, concepito con nuova sensi-bilità romantica, amplifica ed approfondisce i tratti disordinati e violenti del «capi-tán reñidor», nella fattispecie, dongiovannismo, ovviamente, e blasfemia religiosa, legati in lui come due facce della stessa medaglia. Se la Prima Parte dell’opera, de-dicata alle provocazioni amorose e cavalleresche di Tenorio, rientra alla perfezione nel genere della commedia de capa y espada, i titoli ad effetto della Seconda segna-lano lo scivolare dell’azione nel terreno dell’allucinazione dei sensi, presieduta, nuovamente, da un’intenzione moraleggiante ed esemplare: «La sombra de doña Inés» e «La Estatua de Don Gonzalo» alludono, infatti, a due fenomeni sovranna-turali di cui è testimone deputato l’incallito peccatore, l’apparizione dello spirito della bellissima dama che aveva sedotto ed abbandonato provocandone la morte e l’animazione sinistra del monumento funebre di suo padre, falcidiato dalla spada di don Juan. L’ultimo atto, «Misericordia de Dios y apoteosis del amor», ristabili-sce gli equilibri infranti, sul piano morale ed evenemenziale, rivelando la struttura allegorica soggiacente all’operazione immaginifica descritta.

Concepita come prova dell’esistenza di Dio ed invito al ravvedimento per chi ha vissuto come se l’Aldilà non esistesse, l’esperienza fantastica del Tenorio è orien-tata verso uno scioglimento dell’esitazione funzionale al riconoscimento di quello che potremmo definire un “meraviglioso cristiano”. La catena percettiva tracciata dalle reazioni al fenomeno irrazionale del soggetto paziente viene usata come una serie di segni codificati da riempire di convenienti significati religiosi. Lo spettatore – da una posizione privilegiata e sicura, guadagnato alla grazia dalla complicità del poeta, mediatore del divino – partecipa, dapprima, allo stupore di don Juan, che assiste con gli occhi sgranati ad una serie di prodigi in un mausoleo allestito per ri-cordargli le vittime della sua vita dissoluta (anticipando, di per sé, l’ambientazione, il topos del memento mori), ma la specularità dell’esperienza ricettiva si interrompe bruscamente al secondo anello, nel momento in cui il disgraziato protagonista, pur ormai intaccato dal dubbio, tenta in ogni modo di far prevalere il peso della realtà, rinnegando i suoi timori e razionalizzando, sino all’inverosimile, la natura di un’esperienza irresistibilmente irreale. Mentre don Juan si aggrappa con tutte le sue forze agli effetti allucinatori del buon vino di Jerez ed, anzi, si prende gioco delle emanazioni dell’altro mondo, sfidandole in modo blasfemo a dargli prove più

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certe della loro veridicità, il lettore sa che sta sprecando un’esiziale opportunità di ravvedersi e che il suo scetticismo è moralmente riprovevole. Il culmine di questa scissione si tocca nel momento in cui Tenorio invita burlescamente la statua del Commendatore a cenare al suo desco, sicuro che l’apparizione ingannevole non possa giocargli per una seconda volta il brutto scherzo di tornare a “consistere”. È interessante notare che, nella realtà immaginaria di questa scena, si scelga di segnalare l’inverosimiglianza delle verosimili resistenze razionali del protagonista, che risultano puerili e macchinose di fronte all’evidenza. Quando il “fantasma” si presenta puntuale suonando alla porta di casa sua, don Juan sogghigna beffardo ai suoi compari di gozzoviglia:

DON JUAN. ¡Señores! ¿A qué llamar? Los muertos se han de filtrar por la pared; adelante34.

Come un genitore accondiscendente ai capricci di un bambino, il morto scivo-la attraverso la porta «sin abrirla y sin hacer ruido»35. Dopo aver parlato, mangiato e bevuto, dopo essere concretamente esistito, ed aver dato convenienti lezioni di catechismo al padrone di casa, è costretto a dare un’ulteriore prova di sé, prestan-dosi a imbarazzanti dimostrazioni teatrali, di fronte alle quali, si presuppone, lo spettatore non può che abbandonare Tenorio al di là della lente critica dell’ironia:

DON JUAN. Mas me quiero convencer de lo vago de tu ser antes que salga de aquí. (Coge una pistola).ESTATUA. Tu necio orgullo delira, don Juan; los hierros más gruesos y los muros más espesos se abren a mi paso; mira36.

Insomma, secondo un rovesciamento prospettico codificato nel modello, il burlatore risulta burlato e la petulante persistenza del suo scetticismo costituisce uno dei fondamentali meccanismi comici della scena, finché, dopo aver comprova-to che la statua di don Gonzalo è effettivamente sparita dalla sua tomba, di fronte ad un inspiegabile vuoto del reale, don Juan pronuncia la prima formula della sua conversione, retoricamente accostabile ad un’esitazione, vicina al blocco conosci-tivo, dal sapore compiutamente fantastico:

34 J. Zorrilla, Don Juan Tenorio, Cátedra, Madrid, 2007, p. 203.35 Ibid.36 Ibid., p. 205.

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DON JUAN. Dudo… temo… vacilo… en mi cabeza siento arder un volcán… muevo la planta sin voluntad y humilla mi grandeza un no sé que de grande que me espanta. Jamás mi orgullo concibió que hubiere nada más que el valor… Que se aniquila el alma con el cuerpo cuando muere creí… mas hoy mi corazón vacila. ¡Jamás creí en fantasmas…! ¡Desvaríos! Mas del fantasma aquel, pese a mi aliento, los pies de piedra caminando siento por doquiera que voy detrás de los míos37.

L’indeciso “quasi credere” del personaggio gli restituisce un volto umano e au-torizza una parziale identificazione del lettore, che vede rappresentato e perdonato il momentaneo titubare della sua fede, il temporaneo smarrimento del giusto cam-mino, ma la verità del dramma confluisce verso un totale scioglimento del dubbio di Don Juan, che arriva ad accettare con formula piena la meravigliosa realtà di un mondo oltre la morte, raggiungendo il lettore e l’autore sul piedistallo della loro illuminata superiorità:

DON JUAN. Concibo que me engañé, no son sueños… ¡ellos son! (mirando a los espectros)38.

La pace del cuore turbato del protagonista deriva, in un sintomatico sovverti-mento dello schema, dal dissiparsi della nebbia razionalistica, moralmente condan-nabile come peccato contro la Divina Provvidenza, dalla persistenza delle appari-zioni spettrali e non dalla riconferma della loro inconsistenza. Ovviamente, si gioca sul filo della metafora: Don Juan è passato da una peccaminosa cecità materialista ad un fantastico esitare ed, infine, ad una piena accettazione di un ordine mera-viglioso, perfettamente coerente con le intenzioni esemplarizzanti dell’allegoria. Anche qua i fantasmi fungono da mediatori tra due territori liminari, ma il loro operato è perturbante solo per il peccatore irredento, la cui esistenza materiale vie-ne funestata dal monito di un infernale castigo; per il “buon credente”, gli spettri non possono essere che benefici emissari del divino, arricchenti rivelazioni para-disiache, come si evidenzia nella descrizione del bianco fantasma di Doña Inés, immagine dell’intercessione amorosa come garanzia di un buen morir, che ribalta con il suo rassicurante splendore l’iconografia nera dell’Altro. Compiuta la loro funzione di fronte ad un Don Juan convertito che pronuncia, come una litania, le parole del Credo («yo, santo Dios, creo en tí»), sarà proprio lei a confondere

37 Ibid., p. 212.38 Ibid., pp. 213-214.

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le ombre inquietanti che hanno invaso la scena, a dimostrazione del fatto che la realtà può continuare tranquillamente a scorrere, senza necessità alcuna di essere sottoposta a drammatiche riformulazioni. La “meravigliosa” favola della Salvezza Eterna non perverte l’ordine del reale ma ne sostiene l’aproblematica conservazio-ne, contenendone gli appetiti trasgressivi:

DOÑA INÉS. Fantasmas, desvaneceos: su fe nos salva… volveos a vuestros sepulcros, pues39.

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«El estudiante de Salamanca» di José de Espronceda è la narrazione in versi più emblematica della cosiddetta seconda generazione romantica, giacché il suo eroe, alle prese con un’avventura sovrannaturale dotata di una polisemia scono-sciuta ai cattolicissimi fantasmi di Zorrilla, nella sua relazione ambigua e, per certi versi, trasgressiva, con l’irrazionale sembra catalizzarne alla perfezione le inquietu-dini e le paradossali ambizioni, delineando una perfetta sintonia della scena spa-gnola con i modelli più avanzati e maturi del romanticismo inglese, Lord Byron in primis. L’ossessione per il passato tradizionale dei primi romantici, recuperato in seno ad un progetto di vistoso conformismo ideologico, subisce un forte scossone dal ritorno in Spagna alla morte del tiranno Ferdinando VII degli scrittori costretti all’esilio nelle principali capitali del romanticismo europeo, dove covano evidenti semi di dissidenza nei confronti dello status quo ed “imparano” i lineamenti titanici di un ribelle per destino o scelta, internamente scisso da un dissidio che lo avvelena ed annerisce, impedendogli ogni conciliazione ed accomodamento con l’ordine precostituito. Un’insoddisfazione iconoclasta è il tratto che lo definisce, insieme al maestoso isolamento di cui si compiace, irriducibile ad ogni precetto ed autorità, dilaniato tra l’aspirazione ideale di un desiderio di realizzazione totale e senza vin-coli e la cinica consapevolezza dell’impossibile, di un vincolo iniquo che castra e avvilisce la natura umana. La letteratura diventa il suo campo di battaglia ed il suo palcoscenico, cassa di risonanza di un animo in subbuglio che nessuna struttura ragionevole di senso può più ricondurre a norma alcuna, se non quella del male, come necessità di espressione a tutto tondo di una disarmonia ontologica.

Intorno all’eroe disarmonico si costruiscono nuovi canoni di bellezza e si “in-venta” una nuova aspirazione estetica, in grado di coglierne il rovello: il sublime romantico è da intendersi come il corteggiamento di un limite, l’incerto indugiare sui confini dell’umanamente assimilabile, spingendosi col desiderio ad abbracciare forme e contenuti enormi ed eccessivi ed, al contempo, patendone la vertigine e lo spaesamento. Accanto a tanti mari in tormenta, abissali profondità e cime tempe-stose, di cui si compiace l’immaginario del periodo, parimente attratto e repulso in

39 Ibid., pp. 217-218.

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una dialettica tra gli opposti in cui i margini fra gloria e castigo si toccano sino ad elidersi, trovano un’adeguata nicchia le tematiche sovrannaturali a noi familiari, da sempre espressione di una problematizzazione della frontiera suprema. Possiamo affermare che in questa fase del romanticismo la paura dell’ignoto si confonde, o si ibrida in modo caratteristico, con una sete violenta, secondo i contraddittori presupposti della tensione epocale verso il sublime. Prova di ciò è il vistoso pro-cesso di umanizzazione di cui diviene protagonista nelle opere del periodo – come notato da tanti studiosi, Mario Praz in primis40 – una delle figure più spaventose dell’Aldilà, il Demonio che, seguendo un percorso di riscatto già iniziato, in Spa-gna, da Tirso e Mira de Amescua e perfezionato da Milton nel Paradise lost, viene ad essere il grande modello mitico che traspare, in controluce, dietro i lineamenti dei più celebrati campioni del “maledettismo” romantico. Come a dire che, per una volta, alterità ed identità coincidono e sono accomunate dallo stesso destino: la necessità dell’insubordinazione e della caduta41.

Il poema narrativo di Espronceda – o, secondo la dicitura preferita dall’auto-re, il cuento in versi – condivide con la moda delle leggende romantiche appena l’ambientazione medievalista e notturna, ma in realtà è un pasticcio di stili, toni, strutture metriche e generi differenti (oltre alla narrazione ed all’esternazione li-rica, è dato riconoscervi anche tracce dialogiche di tipo teatrale) che reinventa la trattazione del sovrannaturale da esse messa a punto cucendola addosso alle inquietudini del suo sciagurato protagonista, un cinico ed irresponsabile “amante fatale” che, tra abbondanti libagioni e sanguinosi duelli, calpesta con caratteristico compiacimento sadico una delle sue tante conquiste, provocandone la morte. L’ir-responsabilità del comportamento erotico di Don Félix si specchia, come già avve-niva per il Tenorio, nella sua blasfemia religiosa, provocando un disordine violento che coinvolge parimente l’umano ed il trascendentale. Ma la gigantesca persona-lità dell’antieroe si realizza pienamente soltanto nella quarta ed ultima parte del componimento in cui, da aproblematica e superficiale incarnazione del cavaliere impenitente, lo studente di Espronceda svela compiutamente le sue credenziali lu-ciferine, accettando con fiera malinconia il ruolo di deputato sfidante dell’Autorità massima, come segnala questo convincente ritratto:

40 M. Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze, 1976.41 Gli eroi maledetti dietro cui si cela l’inquietudine dell’io autoriale sono tratteggiati sulla falsariga di un doppio canovaccio “luciferino”: il fiero volo rivoluzionario dell’Angelo più Bello del Paradiso che, insofferente ad ogni gerarchia, vuole spodestare il trono dell’Altissimo e la sua rovinosa, malinconica sconfitta, due facce di una stessa medaglia, ugualmente attraenti e significative per l’uomo romantico che desume dalle complementari parabole dell’Angelo ribelle e dell’Angelo caduto coerenti strutture di riferimento per la sua ansia metafisica. L’impresa fallimentare di Satana, tutt’altro che stigmatizzata come segno di suprema alterità, risulta elevata a paradigma del paradosso della condizione umana, in cui l’Altissimo ha seminato i germi infestanti di un desiderio di grandezza che le leggi dell’universo impediscono di colmare: il Colpevole per antonomasia diventa vittima “del suo fatale desiderio”, parafrasando una celebre formula de El diablo mundo di Espronceda.

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Grandiosa, satánica figura,alta la frente, Montemar camina,espíritu sublime en su locura,provocando la cólera divina:fábrica frágil de materia impura,el alma que la alienta y la ilumina,con Dios le iguala, y con osado vuelose alza a su trono y le provoca a duelo.

Segundo Lucifer que se levantadel rayo vengador la frente herida.Alma rebelde que el temor no espanta,hollada sí, pero jamás vencida:el hombre en fin que su ansiedad quebrantasu límite a la cárcel de la vida,y a Dios llama ante él a darle cuenta,y descubrir su inmensidad intenta42.

Questa proiezione metafisica della violenza amorosa iniziale è provocata dal ritorno spettrale della vittima delle sue angherie terrene, fatto che, diversamente da quanto avviene nel dramma di Zorrilla, funziona per don Félix non da provvi-denziale memento mori (come sembrerebbe segnalare la riproposizione dei topoi canonici del ravvedimento, tra cui, anche qui, la visione macabra del proprio fu-nerale), bensì da trampolino di lancio per una messa in discussione ontologica e senza quartieri dei presupposti dell’esistenza umana, in cui il rifiuto sdegnoso della conversione e, dunque, il dischiudersi delle porte dell’Inferno, sembra coincidere con l’unica possibilità di realizzazione del potenziale dell’eroe. Come vedremo, se assolutamente distintiva è la reazione al sovrannaturale del soggetto paziente, il fantasma della bella Elvira, dal canto suo, dimostra tratti assolutamente inediti rispetto a quelli canonici del suo ruolo codificato nell’allegoria, abilmente compen-diati nella Inés del Tenorio.

Tenendo presente che, anche in questo caso, i “fantasmi” del testo espronce-diano si incaricano metaforicamente di indagare il rapporto dell’uomo romantico con il piano del divino, proviamo a sottoporre i luoghi cruciali del testo e le funzio-ni attanziali dei suoi protagonisti ad una disamina fantastica di tipo letterale.

Dopo il cooperare nelle prime tre parti dell’opera di tendenze descrittive di stampo inoffensivamente gotigheggiante e, all’opposto, quasi costumbriste, nella quarta parte, sia la caratterizzazione dei personaggi che i tratti dell’ambientazione accompagnano coerentemente quella che si va definendo come una sublime av-ventura ultraterrena: spazio e parametri di riconoscibilità delle figure umane si tra-sformano, progressivamente, in senso perturbante. Possiamo ravvisare una spinta convergente alla de-realizzazione dell’ambiente, alla “disumanizzazione” di Elvira

42 J. De Espronceda, Poesías (1840), Octaedro, Barcelona, 2004, pp. 288-289.

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ed alla “luciferizzazione” dello studente. Nel momento in cui la salamantina calle del ataud immersa nelle tenebre riceve la visita della «fatídica figura, / envuelta en blancas ropas», «flotante y vaga»43, don Félix è ancora l’impenitente burlador del-l’inizio che, razionalizzando il suo stupore, non può esimersi dal corteggiare con fare galante quella che crede essere una devota dama, propiziamente sola in una strada oscura. Il fantasma dell’amore profanato risponde alle improvvide solleci-tazioni del cavaliere con inviti al ravvedimento sintomaticamente partecipativi, in cui risuona l’eco lontano dell’affetto di Elvira per il suo antico amante. Lo studente è ancora troppo aderente al modello del testardo peccatore e lo spettro ha troppo in comune con il volto rassicurante della sua ultima vittima erotica per scardina-re l’univocità semantica dell’allegoria della redenzione. Ma da un certo punto in avanti, la sovrapposizione comincia a non quadrare, sia per il comportamento del-l’uomo – il quale, già in partenza, rovescia il canone: non viene perseguitato dalle scomode emanazioni della sua cattiva coscienza, ma insegue liberamente le sedu-centi sembianze di un’alterità che prova a sfuggirgli, intento a corteggiare un limite che si presuppone vietato –, sia per l’elusività del fantasma che, man mano che si procede con la narrazione, varca un’ulteriore soglia nel suo processo di trasfor-mazione, divenendo, da compassionevole proiezione immateriale della sventurata Elvira, impassibile incarnazione della Morte senza nome e senza volto, generica belle dame sans merci che, senza batter ciglio, traghetta l’anima dannata verso la magione infernale. Ciò che comincia a mutare rispetto alle premesse è l’intenzione che l’autore imprime al racconto, assolutamente avulso da ogni connotazione cri-stiana. L’eroe esproncediano si misura con una manifestazione del divino assai più enigmatica e sinistra di quelle del Tenorio, quasi neutra dal punto di vista morale e, forse proprio per questo, più conturbantemente attraente per il suo smodato de-siderio. Ben lontana dallo svolgere attivamente la sua funzione di mediatrice della grazia tra l’uomo e Dio – concetto che, in quest’epoca, entra visibilmente in crisi –, la dama bianca si limita, dopo alcune resistenze, a lasciarsi inseguire, fungendo da esca nella folle corsa di Montemar verso l’autodistruzione. Dal momento in cui, al v. 829, con un «gemido de muerte»44 assai diverso dal «gemido de amargo recuerdo pasado» con cui si era inizialmente manifestata a Don Félix, pronuncia solenne e rassegnata l’inizio della folle – e consapevole – corsa prometeica45 del-l’uomo («¡Cúmplase en fin tu voluntad, Dios mío!»46), si perdono le coordinate spazio-temporali della città castigliana e si entra in uno scenario fantasmagorico cambiante, prima di grottesca capricciosa fattura (con gli edifici che danzano con-fondendosi con le loro ombre) e poi di minimale e gelida astrazione («campos de

43 Ibid., p. 267.44 Ibid., p. 273.45 In questa fase del Romanticismo, è dato accostare e confondere le due figure classiche e cristiane dell’«osado vuelo», accomunate dall’esigenza – trasgressiva ed eroica – di varcare un limite metafisi-co, in risposta all’hybris personale o alla sete di conoscenza insita nella condizione umana: Lucifero e Prometeo. 46 J. de Espronceda, op. cit., p. 277.

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soledad», «un yermo y silencioso/melancólico arenal»47). La soglia su cui si conti-nuava ad indugiare, attraverso i meccanismi dell’esitazione ed i chiaroscuri morali di un dialogo piuttosto convenzionale tra lo studente e la proiezione fantasmale del suo comportamento mondano, viene definitivamente varcata e, anche in que-sto caso, si sconfina in un meraviglioso accettato ed, anzi, consapevolmente scelto come sfida edonistica ai limiti della percezione.

«Seguid, señora, y adelante vamos:tanto mejor si sois el diablo mismo,y Dios y el diablo y yo nos conozcamos,y acábese por fin tanto embolismo.Que de tanto sermón, de farsa tanta,juro, pardiez, que fatigado estoy:nada mi firme voluntad quebranta,sabed en fin que donde vayais voy.Un término no más tiene la vida:término fijo; un paradero el alma; ahora adelante»48.

Don Félix abbraccia pienamente la “sovrannaturalità” della sua avventura e sembra volerne scardinare sia i residui allegorizzanti (dichiarando lucidamente di disinteressarsi agli esiti punitivi che ha ormai intuito) che i freni razionali (nella spregiudicata indifferenza con cui, pur usando termini “illuministici” come «far-sa» ed «embolismo», riconosce l’enormità del confine che sta attraversando: le colonne d’Ercole della propria morte). Attivando un’eroica confusione tra coppie di opposti fondanti nella cultura del periodo – e in tutte le culture, a ben guardare: realtà/irrealtà, bene/male –, si dispone a godere della sublime gratuità di un’espe-rienza ultraterrena che, seppur filtrata dai modelli della ribellione luciferina tanto di moda, recupera un’inquieta polisemia in virtù della rimozione dell’“etica” della paura a favore dell’“estetica” del desiderio, come rivela, tra l’altro, il rapporto “ga-lante” dell’eroe con la sua oscura «señora», tendente alla soddisfazione erotica di uno “sposalizio” contro natura. Nella «mansión infernal» in cui andrà a parare, ul-tima fantasmagorica trasformazione dello spazio avventuroso, tra le macerie di una duplice architettura allegorica ostensibilmente ecceduta dallo smodato afán entro-pico del protagonista (non solo quella della condanna eterna del peccatore, ma an-che quella dell’inconsistenza o mendacità “indiavolata” di ogni ideale perseguito), lo scapestrato studente, vittima deputata e moralmente sconfessata dalla sua storia, è discorsivamente segnalato come vittorioso e caparbio re nel suo proprio regno quando, circondato da un coro di cadaveri in festa, scopre il volto della sua guida e, tra attrazione e repulsione, orrore e delizia – paradossale equilibrio del sublime romantico –, si stende con lei su di un letto in un irripetibile abbraccio mortale.

47 Ibid., p. 279.48 Ibid., p. 286.

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Con le sue contraddizioni e le sue precarie alchimie, il cuento di Espronceda, pur non funzionando che in apparenza secondo le costanti diegetiche della narra-zione fantastica – giacché il peso della convenzione su cui si basa (quella del so-vrannaturale come monito di ravvedimento) e la stessa statura sovrumana dell’eroe disinnescano ben presto il meccanismo dell’esitazione nell’orizzonte di lettura –, mi sembra testimonianza di un interessante passo in avanti nella rappresentazione dell’irreale (tutto romantico e, non a caso, recuperato e perfezionato dal surreali-smo) che, per la prima volta, si ricollega ad una pulsione interiore irreprimibile, ad un desiderio di espressione globale e libertaria, prontamente e “correttamente” stigmatizzato come errore fatale, nonché metaforicamente nominato come diabo-lico.

1.4. Le leggende in prosa di Bécquer

Valutare l’equilibrio narrativo pressoché perfetto che lo scrittore più significa-tivo dell’epoca tardo-romantica – tracciando un ponte tra la vistosa spinta imma-ginativa che il fatto letterario riceve durante il romanticismo e la messa a punto di un’estetica dell’osservazione che sta per essere attuata dai romanzieri realisti – con-segue con i suoi più smaliziati e maturi racconti di fantasmi, significa misurarsi con il ruolo strategico che il sovrannaturale in genere riveste nella concezione poetica di Bécquer, rispetto alla quale la delineazione di un territorio fantastico viene a costituire una sorta di deputato banco di prova.

Con Gustavo Adolfo Bécquer, gli stilemi del romanticismo ribelle e scapigliato che visse una stagione di grande fervore nelle opere degli esiliati, le pose titaniche e le inconcepibili avventure metafisiche dell’Io disarmonico, perdono la loro forza e la poesia si concentra sull’espressione di conflitti più privati e “specifici” del mestiere del poeta, il quale cessa di guardare all’abisso della condizione umana e di ambire a ritagliarsi un paradossale spazio contestuale all’interno del piano divino, e si limita a sondare le possibilità del linguaggio dinanzi alla sfuggevolez-za del sentire individuale ed interiore. L’arte si discosta dalla missione epocale di esprimere la dissonanza tra microcosmo e macrocosmo, di documentare lo slancio ideale dell’uomo verso l’altro da sé, verso il superamento impossibile dei confini dell’esistenza, e si dedica ad una scommessa di diversa natura: l’estrinsecazione poetica dei “mostri” della coscienza, dell’idea opaca, nuda ed amorfa che cova nel-le profondità dell’animo creativo. Nel più noto “manifesto” bécqueriano, la «In-troducción sinfónica» alle sue Rimas (1871), la descrizione dell’oficio poetico, pre-cariamente in bilico nella terra di mezzo tra materia e forma, tra ispirazione oscura e meridiana comunicatività, offre un’adeguata premessa all’esplosione di temati-che sovrannaturali che contraddistinguerà l’altra sua opera maggiore, le Leyendas, giustificando criticamente dall’interno di una poetica specifica l’esigenza di una gestione narrativa compiutamente fantastica, senz’altro la più “moderna” in lingua spagnola prima dell’avvento del positivismo e della circolazione dell’opera di Poe.

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Riflettendo ossessivamente sul mestiere dell’artefice, sul mistero della creazione, Bécquer sonda l’abisso tra irreale e reale, tra vertigine immaginativa e necessità espressiva, scoprendo l’agonia caratteristica di chi si propone di dire l’indicibile, di far consistere un fantasma, operazione cui sembra associare l’attività letteraria in genere. Citiamo un passaggio celeberrimo, prestando attenzione al tasso altissimo di metafore dell’alterità:

Por los tenebrosos rincones de mi cerebro, acurrucados y desnudos, duermen los ex-travagantes hijos de mi fantasía, esperando en silencio qu el arte los vista de la palabra para poderse presentar decentes en la escena del mundo.[…] mi musa concibe y pare en el misterioso santuario de la cabeza, poblándola de creaciones sin número […].Y aquí dentro, desnudos y deformes, revueltos y barajados en indescriptible confu-sión, los siento a veces agitarse y vivir con una vida oscura y extraña, semejante a la de esas miríades de gérmenes que hierven y se estremecen en una eterna incubación den-tro de las entrañas de la tierra, sin encontrar fuerzas bastantes para salir a la superficie y convertirse al beso del sol en flores y frutos.Conmigo van, destinados a morir conmigo, sin que de ellos quede otro rastro que el que deja un sueño de la media noche, que a la mañana no puede recordarse. En algunas ocasiones, y ante esta idea terrible, se subleva en ellos el instinto de la vida, y agitándose en terrible, aunque silencioso tumulto, buscan en tropel por donde salir a la luz, de las tinieblas en que viven. Pero, ¡ay, que entre el mundo de la idea y el de la forma existe un abismo que sólo puede salvar la palabra […]49!

La inventio poetica è assimilata, in prima istanza, ad un «sueño de la razón» che, come recita il motto dell’incisione di Goya, «produce monstruos». I figli del-l’aspirazione creativa sono «extravagantes», nudi, muti, deformi, strani o estranei, confusi in un ammasso indistinguibile ed irriconoscibile, rivoltosi e ribelli, ed abi-tano una regione misteriosa che si presta ad essere rivestita di connotazioni sacrali: in altre parole, à la lettre, rispondono ai tratti definitori del non umano. Eppure, giustificando l’associazione psicanalitica ante litteram che molti studiosi realizzano della sua definizione dell’ispirazione, Bécquer fa scaturire tali germi d’irrealtà dai risvolti della mente creatrice, costretta a confrontarsi con un Altro che le appartie-ne e che costituisce l’anima del suo genio, gestito su premesse stranianti e, per così dire, inconsce. Ma lo stadio latente dell’idea deve tradursi in termini di concretezza comunicativa (la poesía deve diventare poema) e le larve scandalose dell’immagina-zione devono essere guadagnate alla luce: dopo aver frugato tra le pieghe nascoste della psiche a caccia di seducenti – ed incandescenti – stati di coscienza, fremiti impalpabili, inspiegabili sensazioni annidate in anfratti irraggiungibili, il poeta, tramite il filtro dell’intelletto ordinatore, deve estrinsecare, estroflettere i propri mostri, rendendoli presenze significanti nel piano della realtà. Il buio, insomma, è visibile solo se giustapposto alla luce e, in Bécquer, il caos della coscienza non

49 G. A. Bécquer, Rimas, Castalia, Madrid, 1982, pp. 81-82.

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può vivere di vita propria, secondo un’aspirazione che sarà dei surrealisti, ma deve confrontarsi con le esigenze dell’ordine: si innesca, così, l’instabilità fantastica del-l’immaginario creativo becqueriano, che riformula il vaticinio poetico come scom-messa del confronto problematico tra il reale e l’irreale (in generale, tra coppie di opposti inconciliabili) e lotta senza quartiere contro il rischio dell’afasia; rientran-do in metafora, il poeta tardoromantico è un inquieto ed introverso cacciatore di fantasmi – simulacri ideali del sottosuolo della mente –, animato dall’aspirazione di concretizzare l’impalpabile.

Portando alle estreme conseguenze l’analogia, potremmo allora affermare che il poema, l’oggetto verbale dell’ispirazione passata al vaglio della ragione, è l’incon-cepibile oggetto mediatore tra mondi collimanti e contraddittori secondo multiple direttrici (dentro/fuori, io/altro, caos/cosmos ecc…), “l’errore” sconcertante in una norma di impermeabilità cui è affidata l’essenza ultima della poesía, sintomati-camente coincidente con un impossibile: la sua ineffabilità.

Sulla base di quanto appena affermato, non possiamo non segnalare la dispo-nibilità della logica narrativa del fantastico a divenire essenziale metaforizzante della concezione estetica becqueriana, di modo che, quando ci troviamo a leggere le Leyendas, pubblicate in modo sparso sui giornali dell’epoca, sarà ovvio accosta-re l’interesse del sivigliano per i racconti della superstizione folklorica e popolare che, come un “archeologo” del primo romanticismo, afferma di voler tramandare e salvare dall’oblio, ad un esclusivo obiettivo metapoetico che, di nuovo, viene a screditare la letteralità dell’operazione. Se poesia è «fantástica existencia», vago ed informe protoplasma covato nel buio della coscienza prima che la Ragione apra le dighe e proclami il fatidico “fiat lux”, quale migliore rappresentazione simbolica dell’apparizione di un fantasma per mettere alla prova la genialità del poeta, nel suo utopico tentativo di dire l’indicibile, di afferrare l’inconsistenza, di illuminare la trasparenza?

Eppure, chiarita la funzione strategica del sovrannaturale di Bécquer, dob-biamo dire che alcune delle sue leggende in prosa, proprio a causa della scissione vocazionale di un Io poetico onnipresente, che filtra le sue ossessioni estetiche nei ritratti di gran parte dei suoi soggetti pazienti, sulla “soglia” tra seduzione subli-me dell’ispirazione e lucida adesione alle leggi della verosimiglianza, compiono un importante passo in avanti verso l’esatta trasposizione della tensione dialettica del racconto fantastico maturo, mantenendo il lettore in bilico sul filo del “quasi credere”50. Ben al di là dell’etichetta che le inserisce nella tradizione dei recuperi folklorici ancora in voga, in queste articolatissime narrazioni, che cominciano ad acclimatare in Spagna la smaliziata gestione della suspense del terrore europeo e nordamericano, si mantengono essenzialmente solo due tratti del racconto leggen-dario romantico, incarnazione imperfetta del fantastico letterario: l’ambientazione

50 È Sebold ad associare la formula todoroviana della perfezione fantastica alle leggende di Bécquer, le quali vengono così riscattate ad un ambito di totale originalità rispetto alla moda tradizionalista di inizio secolo. (Cfr. R. Sebold, Bécquer en sus narraciones fantásticas, Taurus, Madrid, 1989).

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medievalista, esotizzante, che circoscrive la trasgressione in un passato lontano e operativamente smantellato, in apparenza, fonte appena di innocue suggestioni estetiche, e una seconda modalità di distanziamento, evidente nell’attribuzione della responsabilità di affermare l’impossibile ad una fonte popolare preesisten-te, innocente e incolta, di cui il narratore-autore, in prima persona, si dichiara il casuale e irresponsabile trasmettitore (potremmo dire quasi il curatore testuale o l’editore). Un ulteriore elemento che va nella medesima direzione riguarderebbe la semantizzazione dell’espressione del sovrannaturale come punizione di una tra-sgressione o disattenzione rispetto ad un determinato divieto (in qualche modo, questo meccanismo, moralizzando il concetto di Aldilà, ne disinnesca la carica conturbante, spiegando come evitarlo), ma la natura punitiva di certo fantastico becqueriano riguarda non tanto l’ordine del divino come in Zorrilla, quanto i mec-canismi stessi della percezione fantastica, venendo a stigmatizzare come cinico e inadeguato il monolitico razionalismo di alcuni personaggi che non concepiscono l’ipotesi di una sovrapposizione repentina del passato culturale del prodigio con la realtà quotidiana, peccando così di superbia ed eccessiva sicurezza.

L’esempio forse più maturo di narrazione fantastica becqueriana è «El monte de las ánimas», in cui il modello folklorico viene decisamente scavalcato attraverso un raffinato gioco narrativo che, inopinatamente, impone il contatto trasgressivo, in prima istanza rimosso dal solito procedimento della stratificazione storico-cul-turale, tra la materia sovrannaturale e il mondo attuale in cui vivono – e vengo-no insidiati – autore e lettore. Possiamo dire che il racconto, non coincidendo esattamente con una leggenda romantica, ne ingloba una, articolandovi intorno un’architettura a cerchi concentrici e non impermeabili che tendono a riprodursi all’infinito, ipotizzando una problematica persistenza infestante della maledizione superstiziosa evocata che, per contagio, oltrepassa le diverse frontiere di conten-zione create dalle varie performance narrative di cui vive il testo, elidendo i confini rassicuranti tra ciò che si racconta o ci viene raccontato e ciò che potremmo vivere in prima persona. Al centro del congegno troviamo un nucleo storico amplificato in leggenda sinistra dall’immaginazione popolare (secondo un meccanismo che esemplifica il procedimento canonico della nascita delle superstizioni che, come la madreperla intorno ad un corpuscolo infinitesimale di realtà, creano convincenti perle dalla natura tipicamente mista): una sanguinosa battaglia avvenuta durante la notte di Ognissanti, svariati secoli addietro, tra i monaci templari ed i nobili cavalieri della città di Soria per il possesso del famigerato monte provoca un’in-dimenticabile carneficina, le cui vittime, anime in pena assetate di vendetta, ogni anno in quella data segnalata si ripresentano sul teatro della loro morte, facendo strage dei malcapitati ignari del prodigio. Giacché il fantastico suole essere più una questione di “rema” che non di “tema”, risulta fondamentale segnalare che il lettore viene a conoscenza del nocciolo duro della vicenda non attraverso il rac-conto diretto del primo narratore, bensì come parte integrante di una narrazione nella narrazione di cui i due principali protagonisti fungono rispettivamente da narratore e da narratario, occupando e rappresentando testualmente i ruoli dei

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due estremi della comunicazione letteraria: l’emittente ed il destinatario. Durante una battuta di caccia che si svolge precisamente alla vigilia della notte delle ap-parizioni, ormai prossimo il tramonto, Alonso suggerisce alla cugina Beatriz, di cui è segretamente innamorato, un rapido rientro al castello, giustificando la sua fretta proprio raccontandole la terribile storia dei cavalieri e dei templari. Dopo cena, davanti al fuoco, mentre il vento fa tremare i vetri delle finestre, le campane rintoccano lugubremente e le vecchie della servitù, nel pieno rispetto della tra-dizione, celebrano un apparentemente infinito esorcismo narrativo della paura, scambiandosi «cuentos tenebrosos en que los espectros y los aparecidos repre-sentaban el principal papel»51, il galante cavaliere regala alla cugina un pegno del suo amore, invitandola a contraccambiare il suo gesto, mettendone così a nudo la natura beffarda, nonché l’ironico scetticismo con cui l’ospite forestiera ha ricevuto il racconto della sinistra storiella locale. Ricordandosi di aver perduto il suo nastro azzurro proprio nell’infausto monte, Beatriz, con «una sonrisa imperceptible», in-vita Alonso ad andare a cercarlo, smascherando «con amarga ironía» i timori pre-razionali del suo ardente corteggiatore, perfettamente solidale con le suggestioni della leggenda di cui è stato narratore. Ovviamente, indotto dalla sua maliziosa incredulità, Alonso, trasgressore di un divieto suo malgrado, varcherà il confine delle tenebre per non fare mai più ritorno. Ma la vittima deputata della punizione sovrannaturale sarà proprio Beatriz, “lettrice” empia e superficiale del racconto a lei diretto, destinata non solo a morire di orrore di fronte alla prova inconfutabile dell’operatività reale del materiale leggendario che aveva indebitamente supposto “puro testo” – l’oggetto mediatore del suo nastro azzurro che compare coperto del sangue del cugino, al mattino, sul suo letto – ma a divenire una disgraziata prota-gonista “aggiunta” della materia folklorica di cui si era presa gioco: qualche anno più tardi, un cacciatore che smarrisce la strada in quei boschi spettrali, arricchen-do la vicenda di un ulteriore tassello narrativo, racconterà di aver visto la povera anima di Beatriz vagare piena di orrore intorno alla tomba del cugino, inseguita dai terribili fantasmi da lei banalizzati. Si tratta, dunque, di un castigo per “lette-rarizzazione”, che le fa varcare i confini vietati del testo di cui era stata semplice ascoltatrice, confondendo le basi del codice leggendario romantico, basato sulla disattivazione estetica della superstizione. Con ogni evidenza, Bécquer, lavorando di ironia, ne sta rivoluzionando i presupposti comunicativi dall’interno, ambendo alla costruzione di una differente, più ambigua ed inquietante forma di gestione narrativa del sovrannaturale, che necessita di un lettore implicito più disponibile al confronto perturbante con l’Altro e meno sicuro delle basi razionalistiche del “se-colo filosofico”. Potremmo dire che è proprio il lettore reale a venire ammonito in tal senso attraverso quello che definirei un apologo sui meccanismi della ricezione fantastica di grado zero. In effetti, l’interessante prologo che precede la narrazione chiama direttamente in causa i due referenti extratestuali della storia, sia lo scrit-

51 G. A. Bécquer, Leyendas, Cátedra, Madrid, 1994, p. 200.

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tore Gustavo Adolfo Bécquer – che rievoca le circostanze della composizione de «El monte de las ánimas», identificandosi almeno parzialmente con l’instabilità percettiva del suo alter-ego narrante (Alonso) –, che lo scettico e smaliziato let-tore de «El Contemporáneo» (il giornale su cui, effettivamente, viene pubblicata la leyenda in questione), ironicamente ritratto nella sua inattaccabile normalità, «después de almorzar bien y con un cigarro en la boca»52. Il proliferare di “effetti di realtà”, di riferimenti diretti all’attualità in cui vivono gli autori ed i lettori, serve ad autenticare l’esperienza immaginifica contenuta nella cornice o, per lo meno, a suggerire l’inadeguatezza degli argini, giacché un inquietante travaso di materiali, tra il dentro ed il fuori del testo, è esplicitamente segnalato, secondo un’evidente mise en abyme, dalla morale della storia di Alonso e Beatriz: chi garantisce, in-fatti, che quanto avvenuto all’incauta damigella, lettrice inopportuna, non possa ripetersi, a raggera, negli anelli più esterni del congegno, venendo a perturbare la tranquilla e soddisfatta colazione del lettore comune? I prologhi becqueriani sono tutti strutturati come ironiche e compiaciute soglie di passaggio, venendo a costi-tuire i “portali” testuali dell’impossibile travaso tra passato e presente, razionale e irrazionale, suggestione letteraria e realtà materiale: sono le sedi privilegiate della mediazione poetica dello scrittore, intento a rendere oggettivamente credibili i fan-tasmi della sua immaginazione.

Se ne «El monte de las ánimas», le presenze sovrannaturali, pur messe diret-tamente in relazione con i meccanismi della produzione e della ricezione creati-va, svolgono alla lettera il loro ruolo infestante, più evidentemente collegate alle emanazioni sconnesse dell’ispirazione poetica ed alla loro percezione sociale – e, dunque, meno funzionali all’attuazione di un’adeguata tensione fantastica – sono quelle de «El rayo de luna» e «Los ojos verdes», in cui il bagliore suggestivo dell’as-senza si ricollega con tutta chiarezza ad una ricerca dell’ideale inconsistente, per-petrata da soggetti pazienti ipersensibili e ossessivamente disponibili alla rêverie, che si configurano come vere e proprie maschere autoriali, protagonisti-poeti che non possono fare a meno di inseguire il “fantasma” della poesia – pur intuendone l’evanescenza o la pericolosità –, ergendosi a patetiche incarnazioni del letterato tardo-romantico, cui non rimane più neppure il conforto del gesto esemplarmente ribelle, ma solo la malata, introversa fábula triste di un’emarginazione corteggiata dai percorsi del raziocinio e delle imperanti logiche comunicative. Sulla base di ciò, ci sono prove sufficienti per esautorare in toto la credibilità fantastica di entram-bi i racconti, che prendono una strada diversa rispetto allo svecchiamento della leggenda romantica in senso todoroviano ravvisato ne «El monte de las ánimas», giacché la credibilità razionale del “fantasma” non è minimamente in discussione (tragicomicamente ricondotta ad una banale sovrainterpretazione desiderante in un caso, gestita secondo lo schema autosufficiente ed egocentrico dell’attrazione fatale nell’altro), bensì accettata come bellissima realtà vicaria. L’esitazione fanta-stica decade nel momento in cui Bécquer cessa di far interagire la propria imma-

52 Ibid., p. 197.

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ginazione con il reale, drammaticamente consapevole dell’essenziale ineffabilità della poesia, rifiutando il proprio ruolo di incantato mediatore e rifugiandosi nel-l’incomunicabilità della follia o del morboso autocompiacimento estetizzante, ed anticipando, così, certi percorsi del meraviglioso modernista.

Benché non esistano prove empiriche di tale legame genetico, Bécquer sembra rifondere in due testi separati ma gemellari i motivi di un racconto, di pochi anni anteriore, della poetessa e drammaturga cubana Gertrudis Gómez de Avellane-da53, la quale, ispirandosi al folklore pirenaico, si immagina coinvolta in un viaggio turistico per le romantiche vette del versante francese, durante il quale le viene narrata la vicenda de «La ondina del lago azul»: visione immateriale dell’Amore e della Poesia, la bellissima ninfa acquatica attrae ed ossessiona un animo introverso e scelto, vittima deputata dell’inseguimento delle proprie «necesidades misterio-sas»54, che lo allontanano dal gruppo sociale cui appartiene (un’operosa e sem-plice comunità montana) in virtù di quello che potremmo chiamare un disordine artistico dei sensi, segnalato contemporaneamente come dono e colpa (il giovane Gabriel è un musicista che sente di vivere davvero solo nelle «éxtasis inefables de mis sueños solitarios»55). Bécquer sottrae mordente leggendario e suggestività sovrannaturale all’apologo della “malattia” del poeta (riservandosi di riutilizzare il tema dell’ondina dall’incanto maledetto in un altro racconto), improntando la pa-rabola del Manrique de «El rayo de luna» – uno schizofrenico cavaliere insensibile alle armi e alle galanterie, «presa su imaginación de un vértigo de poesía»56 –, sulla netta sconfessione di ogni residua possibilità di consistenza delle «quimeras» di un «loco soñador»57. Non solo il testo, narrato in forma diretta, senza il consueto mec-canismo del confronto tra punti di vista differenti, la “staffetta ermeneutica” tra il credere ed il non credere, rifugge gli effetti di lettura tipici del fantastico, ma anche a livello tematico sceglie di non confrontarsi con il sovrannaturale, appena sco-modato dall’appetito ideale del protagonista – che scorge nella notte una brillante apparizione femminile – ma tristemente nominato nell’alfabeto comune dell’uomo sin dal titolo, malinconicamente risolutivo: accostato agli altri testi leggendari be-cqueriani, questo luogo deputato della metapoiesis funziona come un’architettura fantastica sintomaticamente priva di fondamenta, un segno vuoto che evoca per poi distruggere, riducendo la consistenza dell’irreale all’inganno di un raggio di luna. Pura inventio del delirio di un disadattato, come del resto ci svela questa suggestiva descrizione dell’inconsistenza “meravigliosa”58 della poesia:

53 La redazione del racconto di Gómez de Avellaneda è del 1859, mentre la scrittura di entrambe le leggende becqueriane che sembrano trarne l’ispirazione («El rayo de luna» e «Los ojos verdes») risale al 1862. 54 G. Gómez de Avellaneda, Novelas y leyendas, Atlas, Madrid, 1981, p. 186.55 Ibid.56 G. A. Bécquer, Leyendas, cit., p. 238.57 Ibid., p. 239.58 Non uso il termine “fantastico” perché, nel discorso di Todorov, implicherebbe un’esitazione pos-sibilista circa il mordente della poesia nella realtà, una forma di comunicazione tra due ambiti che invece, qui, si codificano come del tutto impermeabili.

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Amaba la soledad, porque en su seno, dando rienda suelta a la imaginación, forjaba un mundo fantástico, habitado por creaciones extrañas, hijas de sus delirios y sus ensueños de poeta59.

Il tema dell’ondina, forse preso in prestito da Bécquer anche dal suo mae-stro dichiarato, Heine, compare invece nel racconto «Los ojos verdes», anch’es-so costruito intorno al simulacro di una «fantástica hermosura»60, per la quale lo scrittore torna a sperare nella collaborazione di uno sforzo immaginativo da parte del suo pubblico: «cuento con la imaginación de mis lectores para hacerme com-prender»61. Qui, il brivido del sovrannaturale torna a percepirsi nell’immagine del «espíritu, trasgo, demonio o mujer»62 che abita la sacra Fonte dei Pioppi, ma la paura dell’Altro risulta completamente riassorbita nell’atteggiamento desiderante del protagonista che instaura con la liquida dama dagli occhi verdi un dialogo che ha tutte le caratteristiche di un monologo: quando l’innamorato Fernando, nel tentativo di abbracciare l’oggetto della sua ossessione, viene attirato ed inglobato nelle acque della sorgente stregata da «unos brazos delgados y flexibles que se liaban a su cuello»63 è dato chiedersi se il suo fatale annegamento non sia frutto del rischioso sporgersi di un nuotatore tutt’altro che provetto oltre il bordo meramen-te naturale di un innocuo specchio d’acqua. La verità testuale è comunque altrove, prescindendo visibilmente dalla problematica interpretazione dell’evento luttuoso, e scegliendo, piuttosto, di tornare a segnalare la vocazione vittimaria di chi vota la sua esistenza al culto del Bello, svincolato dall’apparir del vero.

1.5 Il fantastico realista

Se ritorniamo alle nostre considerazioni iniziali sull’assoluta funzionalità del pensiero illuminista nell’instaurazione di un dialogo perturbante con l’alterità, non sarà difficile comprendere l’apparente paradosso della raggiunta perfezione del-la forma fantastica in un’epoca, come quella del secondo Ottocento, dominata dai presupposti filosofici del positivismo che, riacutizzando ed acclimatando alle nuove circostanze l’elogio della razionalità settecentesca, diffonde il “racconto” di un’assoluta trasparenza del reale, sgretolando ogni ostacolo di residua problemati-cità interpretativa sulla base di una sintomatica fiducia nei nuovi strumenti che la scienza e la tecnica hanno messo a disposizione dell’uomo. Se mai come in questo momento l’inquietudine superstiziosa dell’irreale viene relegata ai margini della corsa collettiva verso il progresso – diventa colpevole alterità e rimosso necessario

59 G. A. Bécquer, Leyendas, cit. p. 236.60 Ibid., p. 215.61 Ibid., p. 208. 62 Ibid. 213.63 Ibid., p. 215.

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dei percorsi di definizione dell’identità visibile –, quanto più trionfalisticamente salda si presuppone la mano di chi traccia i perimetri di riconoscibilità dell’Io, tanto più sconvolgente risulterà l’ipotesi della capziosità dell’operazione e tanto più destabilizzante apparirà il malizioso ammiccare del Caos esiliato dal campo del possibile. Nei racconti fantastici composti in un periodo di trionfante realismo – in cui la letteratura è affaccendata nella riproduzione oggettiva e verosimile di modelli in scala di una realtà mai così rivelatrice, complessa e “poetica” (nel suo variopinto e composito divenire) –, il ritorno di circostanze, oggetti ed agenti dell’inspiegabile provoca un impatto di inusitata violenza con il paradigma dominante, impossibi-le da riassorbire per via estetica, che fa tremare dalle fondamenta i presupposti dell’abitabilità del nostro mondo, semantizzando la suggestione dell’Altro come incompatibile con la vita dell’Io. Quelli coltivati (in parallelo rispetto al filone prin-cipale della loro ispirazione) dai romanzieri realisti saranno i racconti più sinistri e terribili del canone fantastico spagnolo giacché, adesso, i presupposti possibilisti dell’immaginazione non sono più responsabili del fatto letterario, minuziosamente concepito a partire da stringenti basi mimetiche, del tutto intransigenti rispetto ad ingiustificabili apparizioni prive di dimostrabili referenti reali. Se non si può “fotografare” un fantasma, da dove proviene la sua immagine? Non solo le basi scientifiche della realtà vengono messe in scacco, ma anche i presupposti estetici del realismo, confluendo questi due impossibili in un effetto di lettura basato su di un blocco conoscitivo disturbante a tutti i livelli: in questi testi instabili e pre-cari, lo scrittore, giocando di cesello letterario e di raffinatezza tecnica, trovandosi di fronte alla necessità paradossale di provare la verosimiglianza di un racconto inverosimile, darà sovente l’impressione di cimentarsi cocciutamente con un vero e proprio agone compositivo, atto a dimostrare la propria abilità realistica in con-dizioni estreme. Sarà il racconto di Alarcón «La mujer alta» a darci la possibilità di comprovare quanto l’impostazione razionalistica e verificabile della scrittura dia finalmente luogo all’equilibrio massimo tra i due poli contrapposti (e ugualmente fondamentali per il fantastico) del credere e del non credere, equilibrio adesso centrale nelle gerarchie di senso di una narrazione problematizzata da una vistosa incompatibilità tra forma e contenuto.

Ad un livello più profondo, andando a scavare cosa si nasconde dietro l’ar-tificio del manufatto, gli scrittori realisti del fantastico sembrano quasi ribellarsi contro la ghettizzazione dell’attività immaginativa provocata dal dogma imperante dell’osservazione dal vero che se, da un lato, porta ad un prodigioso allargamento del campo visivo dell’arte – che apprende a rappresentare il contingente e si arric-chisce di succosi dettagli descrittivi tratti dalla spregiudicata acquisizione estetica del mondo vivo con tutte le sue gamme e modulazioni (contemporaneo, social-mente variegato, chiassoso e in fieri) –, dall’altro, fa cadere in secondo piano le pul-sioni individuali della fantasia e dell’invenzione, da sempre legate ad un’ipertrofia dei bisogni espressivi del singolo rispetto agli spazi che il collettivo predispone alla sua realizzazione, codificando il suo ruolo in una conveniente maschera sociale. Tra l’altro, la presunta obiettività con cui la letteratura si cimenta nella descrizione

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di una “commedia umana” perfettamente esemplificata dalla “libera” dialettica tra le classi all’interno del “cosmo” di una società che si sta svincolando a fatica dalle risacche dell’Ancien Régime, nasconde l’aproblematica accettazione di un punto di vista e di un’ideologia univoca che ordini e gestisca la rappresentazione di una transizione tutt’altro che pacifica, silenziando le voci fuori dal coro sull’altare di una prospettiva agglutinante. Mi riferisco, ovviamente, al riconoscibile “monolo-go borghese” che gestisce la descrizione armoniosa dell’attualità nei più compiuti esempi di romanzo realista e che, in alcuni casi, viene “squarciato” dall’inserzione di “inverosimili” casi di stonatura, inconcepibili espressioni di ideali dissidenze rispetto al modello proposto come vincente, provenienti, nella maggior parte dei casi, dalle classi inferiori e schiacciate che si rifiutano di parlare la lingua che loro corrisponderebbe nella casella sociale assegnata e, attraverso la lente deforman-te della follia, dell’amoralità, della malattia o, in ogni caso, dello straniamento, si configurano come moniti fantasmali rispetto alla repressiva violenza della formula della “verosimiglianza”, sempre più coincidente con un’accettabilità ideologica e sociale piuttosto che estetica e/o ontologica. In questo senso, letteratura fantastica è, in genere, ogni tipo di discorso eccessivo rispetto all’espressione pseudo-oggetti-va dello status quo, voce del dissenso e dell’ideale contraddittorio, tendente a per-turbare le certezze e i presupposti del modello dominante ed acquisendo, dunque, i tratti conturbanti dell’Altro.

Se le specifiche sembianze dello spettro di Alarcón, nell’ottica di una lettura simbolica e storicizzata, potranno suggerire un utilizzo veicolare, nel senso sopra descritto, di un sovrannaturale, peraltro, perfettamente operante à la lettre – ma anche associabile ad una stigmatizzazione sinistra della cattiva coscienza sociale del “borghesissimo” protagonista –, nelle opere di Galdós di cui parleremo si renderà patente il caratteristico funzionamento “fantastico” di alcuni semi della discordia – relativi all’impostazione estetica in un caso, a problematiche limitazioni di genere e classe, nell’altro –, fatti filtrare con nonchalance all’interno di un modello realisti-co convenzionale, a rivelare il superamento, da parte di chi, in Spagna, aveva con-tribuito ad inventarli e legittimarli, dei rigidi modelli letterari e di comportamento del realismo borghese64.

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64 R. Jackson, riferendosi al romanzo vittoriano inglese, segnala l’ambiguità ideologica dell’inclusio-ne di trame e personaggi secondari di taglio vistosamente antirealista all’interno di un’architettura globale complessivamente gestita su base realista: è difficile, infatti, stabilire i confini e le intenzioni di tale operazione di “apertura” nei confronti dell’Altro, giacché, quasi sempre, si resta sospesi tra l’impressione di una magnanima concessione di rappresentatività per le rivendicazioni degli “invisi-bili”, magari intuitivamente presentite come legittime e necessarie, e il ruolo vicario e di contorno che si riserva loro nel progetto generale dell’opera, tendente, peraltro, a deputarle al fallimento ed alla tragedia, segnalandone l’intima pericolosità. L’intuizione della fissità del paradigma di realtà stabilito non è sufficiente a rimuovere del tutto la paura di soluzioni alternative e di rottura.

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Come dicevamo, oltre le limitazioni tematiche e prospettiche che ne sono con-seguenza – e che poi sono sentite come dei veri e propri inviti al rispetto di una moralità collettiva che si sta affermando con forza (credere nella necessità di rap-presentare senza fughe la nuova società successiva alla Gloriosa revolución, basata sul trionfo del modello borghese) –, il dogma della verosimiglianza e l’ossessione per la riconoscibilità fotografica dell’affresco artistico, in cui il lettore deve poter reperire gli oggetti del proprio vissuto (nomi di strade, caratteristiche dell’arre-do urbano, dettagli dei suoi percorsi quotidiani), canalizza in Spagna una lettura esemplare e smaliziata dell’opera di Edgar Allan Poe, le cui Histoires extraordinai-res, tradotte per la prima volta al castigliano attraverso la mediazione del francese (Historias extraordinarias), provocano un vero e proprio caso letterario nel 1858, in un periodo, dunque, di costruzione e fermento realista, fortemente preparato dalla didascalica novela de costumbres di Fernán Caballero (in aperta polemica con gli “amorali” e smodati voli della fantasia romantica).

Pedro Antonio de Alarcón appartiene a quella fase di passaggio tra i due gran-di movimenti letterari dell’Ottocento in cui coloro che si dedicano a descrivere la realtà sociale spagnola non possono fare a meno di prendere una posizione a favore o contro l’avvento delle forze borghesi e, nel suo caso, di schierarsi, sovente, dalla parte della tradizione, rimpiangendo l’identità culturale della Spagna aristocratica, gli usi e i costumi dei bei tempi andati, ricchi di straordinari e pittoreschi “tipi” e “caratteri”, contro la prosaica e scialba uniformità dell’uomo nuovo, nonché di difendere la permissività inventiva dell’autoctono costumbrismo contro il confor-mismo di un “realismo d’importazione”. Nonostante queste sue dichiarazioni e lo statuto instabile dei suoi romanzi, la lezione del realismo maturo risulta, para-dossalmente, del tutto assimilata nelle sue Narraciones inverosímiles, il cui titolo si propone, comunque, come una sorta di polemica dichiarazione di inconformidad rispetto alle censure dell’estetica imperante. D’altronde, com’è evidente nella sua recensione sotto forma di lettera privata «A un amigo» del più influente narratore fantastico dell’Ottocento, per Alarcón non c’è incompatibilità alcuna tra l’esteti-ca ragionata dell’osservazione dei “fenomeni” e l’evocazione del controcampo del non-reale, anzi, l’uso matematico dell’intelligenza offre la propizia opportunità di svecchiare un repertorio superstizioso divenuto inattuale e di produrre un’esplosi-va alchimia di elementi contrapposti che si configuri contemporaneamente come «alarde de la inteligencia»65 e «ataque implícito a su presunción»66. Dopo aver trat-teggiato, piuttosto convenzionalmente, la biografia di Poe, facendone un emulo dei grandi ribelli romantici (esempio di disgraziata malinconia, di incompatibilità tra indole individuale e accettabilità collettiva), assimilandolo ad un Lord Byron del Nuovo Mondo, si dedica ad analizzare le ragioni del successo dei suoi racconti inquietanti secondo presupposti di netta innovazione “realista”, sintomatici di uno storico cambiamento di rotta nella percezione letteraria del sovrannaturale nelle

65 P. A. de Alarcón, «Edgar Poe», Juicios literarios y artísticos, Linkgua, United States, 2007, p. 65.66 Ibid., p. 64.

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lettere ispaniche, perfettamente confermata, del resto, dalla produzione fantastica dell’illuminato interprete. Alarcón definisce l’americano “poeta fantastico”, ma si guarda bene dall’assimilarlo agli stilemi – finora gli unici, Bécquer a parte, coltivati in Spagna per rappresentare l’irrealtà – del recupero letterario della «mitología católica»67, dello sfruttamento romantico delle leggende e dei racconti folklorici popolari:

Creo que debe clasificársele entre los poetas fantásticos, dado que coloca sus crea-ciones lejos del mundo real y propende a exaltar y turbar la mente de sus lectores; pero hay que advertir que su fantasía busca lo imposible y lo sobrenatural fuera de las regiones ya visitadas por la fe de los místicos, por la inventiva de los impostores o por la imaginación de los poetas.Hasta aquí se habían visto (prescindiendo de los cultivadores de la fábula griega, de los autores de Vidas de Santos y de los orientalistas por naturaleza o por afición) otros poetas fantásticos que, para conmover y asombrar a sus lectores, invadían los verda-deros reinos de la Muerte, o el campo tenebroso de las imaginaciones enfermizas, poblado de cadáveres y aparecidos, de almas en pena y espectros ensangrentados. Es hija esta poesía de la Edad Media, de la fe religiosa y de la barbarie, del ascetismo de unos y de la superstición de otros, y forma parte de la mitología católica, entendiéndo-se por esta frase todo lo puramente imaginativo que las beatas de cien años refirieron a la luz del hogar, en noches de Diciembre, al son del viento y de la lluvia, para dormir a los niños… Duendes, brujas, resucitados, gatos negros, tentaciones del demonio, metamorfosis de este revoltoso espíritu y otras invenciones que moralizaban por el miedo, dieron asuntos a mil cuentos y consejas que todos hemos oído en nuestra niñez […]68.

Il poeta fantástico moderno per antonomasia viene nettamente svincolato dagli autocompiacimenti dell’immaginazione sfrenata e senza briglie del primo Ottocen-to, d’ispirazione medievalista e cattolica, ed è guadagnato ad una nuova temperie culturale, ben al di là del maledettismo del suo ritratto esistenziale. Con un deciso colpo di forbice, Alarcón fa piazza pulita del vecchiume sinistro di superficie ed “effettista”. Riconoscendo, con Lovecraft, la matrice superstiziosa del sovrannatu-rale artistico, ne sconfessa l’utilizzo anacronistico e di maniera, incapace ormai di produrre emozioni di lettura inedite ed adulte, segnalando con estrema lucidità i difetti di una narrazione fantastica unicamente basata sui temi: nella fattispecie, la tendenza alla moralizzazione dell’irreale (Zorrilla) e la deformazione fantasmago-rica (ancora oggi pienamente e lucrosamente coltivata, nel filone paraletterario del fantasy), nata da una frequentazione esclusiva ed autosufficiente de «los verdade-ros reinos de la Muerte, o el campo tenebroso de las imaginaciones enfermizas», disinteressata ad attuare rischiose contaminazioni tra regni puramente immaginari e quello gestito dalle consuetudini ed automatismi convenzionalmente coinvolti

67 Ibid.68 Ibid., pp. 63-64.

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nella definizione della “realtà”. Senza un’attenta enunciazione dell’interferenza, «todo lo puramente imaginativo» vive un’aproblematica vita parallela, senza di-sturbare il limite segnato della sfera quotidiana.

Ahora bien: Edgar Poe no es nada de esto; ni el corazón ni la imaginación son su teatro; no es fantaseador ni místico; es naturalista, es sabio, es matemático. Quiero decir que su campo de batalla es la inteligencia; que lo que en todo tiempo fue amparo, defensa, arma de la verdad, lo que siempre sirvió para combatir todo linaje de fantasmas; la piedra de toque de la idolatría y del miedo; la luz que redujo a sus formas lógicas y naturales todo afecto loco y devastador, como toda creencia febril y extravagante; la razón, para decirlo de una vez, […] fue el apoyo que buscó el poeta angloamericano para probar lo imposible, lo extraordinario, lo extranatural, lo inverosímil69.

Per Alarcón, Poe ha il coraggio di partire sempre da «lo vulgar y admitido», di non lasciarsi romanticamente sedurre dalla vertigine febbrile dell’Altro, ma di costruire («con un lenguaje técnico»70) un ferreo reticolo razionale, una «para-dojal argumentación»71 logica per suggerire perversamente un influsso deforman-te: l’elemento centrale della sua poetica del fantastico è, dunque, l’intelletto («no es fantaseador ni místico, es naturalista, es sabio, es matemático»), utilizzato come punto di appoggio per saggiare «lo extraordinario, lo extranatural, lo inverosí-mil». Il devoto ed entusiasta padre Feijoo avrebbe di che lamentarsi: proprio lo strumento che lui raccomandava di utilizzare per illuminare gli anfratti oscuri del reale e ridurre per sempre al silenzio il timore dell’ignoto, risulta pervertito in uno scandaloso congegno di manipolazione delle coscienze, portate a dubitare e tremare proprio attraverso l’uso della logica più stringente. Riformulando la sua impressione iniziale e suggerendo la conturbante reversibilità di una delle parole simbolo dell’epoca del positivismo, Alarcón arriva a definire poesía científica quella che aveva etichettato, ad una prima ricognizione, come poesía fantástica.

«La mujer alta» è l’esempio più alto delle imitazioni alarconiane da Poe, non solo perché è il più “scientifico” dei suoi racconti inverosimili – tra cui compaiono anche bei casi di sovrannaturale meraviglioso («El año en Spitzberg») o di sovran-naturale ricondotto alla norma, tramite l’espediente del sogno (il romanzo breve «El amigo de la muerte») –, tanto da poter essere utilizzato come un vero e proprio muestruario di tecniche ed artifici tipici del genere, ma anche perché il bagliore sovrannaturale intorno a cui si struttura, l’ennesima incarnazione femminile della Morte, risponde ad una felice intuizione immaginifica che naturalizza ed “ispaniz-za” la visione eterea ed austera della Parca (pensiamo ad Espronceda), dandole il volto di una caricaturale ed orripilante moza-vieja del madrileno quartiere di Lava-piés, scoprendo, tangenzialmente, un’interessante metamorfosi grottesca e casera della paura.

69 Ibid., p. 64.70 Ibid., p. 65.71 Ibid.

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Intanto, traendo spunto da quel manifesto del fantastico realista che viene ad essere la recensione appena presa in esame, c’è da fare una considerazione gene-rale, valida per tutti o quasi tutti gli esponenti contemporanei del genere: dopo anni – e pagine – di sinistre ricostruzioni medievaleggianti, l’avvento del fenomeno sovrannaturale avviene, adesso, proprio all’interno di uno scenario quotidiano e contemporaneo, perfettamente evocato agli occhi del lettore come del tutto ricon-ducibile alla sua esperienza personale. L’ambientazione del fantastico è la stessa dei grandi romanzi realisti: le strade delle città spagnole, i mercati, le piazze (evocate con i loro nomi reali e la loro precisa topografia) e non qualche antico castello o qualche impenetrabile bosco, collocato in chissà quale dimensione parallela. Non c’è alcun filtro di distanza, alcuna mediazione, bensì un’irruzione invasiva, violenta e scioccante che minaccia il tranquillo microcosmo della fotografia realista. Anche i fantasmi stessi, del resto, sono assai meno riconoscibili come tali: non si vestono di lenzuola, bensì suggeriscono la loro alterità mascherandola sotto spoglie sner-vantemente banali. Inoltre, remando nella stessa direzione, l’espediente della dele-gazione della responsabilità di raccontare ad un narratore interno, testimone totale o parziale – effettivo o ideale – della vicenda irrazionale, pur ancora ossessivamen-te presente, sveste i panni della necessaria stigmatizzazione dell’inaffidabilità della fonte (suggestionabile, credulona, appartenente ad un gruppo sociale o culturale presentito come inferiore ecc.) giacché, quasi sempre, si sceglie di segnalare l’omo-logazione trasversale delle distinte voci narranti ai parametri condivisi ed accettati nell’epoca del positivismo. È questo il caso del narratore interno de «La mujer alta», Gabriel, che non è né un nostalgico, superstizioso vecchio aldeano, né un incolto sempliciotto, bensì un «distinguido ingeniero»72, epitome della mentalità scientifica e sperimentale, che, durante una scampagnata (momentanea abdicazio-ne vacanziera ai presupposti della normalità cittadina?), di fronte ad una sontuosa merenda innaffiata da buon vino, racconta ai suoi amici una «rara y peregrina historia»73, anche in questo caso, non vissuta in prima persona, ma frutto di un ulteriore passaggio narrativo. Il racconto è concepito come prova argomentativa di una “tesi” scettica, in controtendenza vistosa rispetto a quella che potremmo de-finire l’etica professionale del narratore, sconsolatamente esclamata nell’incipit, in cui risuona una sensazione epidermica di sostanziale ignoranza delle leggi che go-vernano il reale, evidentemente provocata da un “caso” che ha imposto a Gabriel l’esigenza di riformulare o mettere sotto processo le sue credenze positiviste:

¡Qué sabemos! Amigos míos… ¡qué sabemos! […] en el globo terráqueo ocurren to-davía cosas sobrenaturales: esto es, cosas que no caben en la cuadrícula de la razón, de la ciencia ni de la filosofía, tal y como hoy se entienden (o no se entienden) semejantes palabras, y palabras y palabras, que diría Hamlet74.

72 P. Antonio de Alarcón, Narraciones inverosímiles, Clan, Madrid, 2000, p. 91.73 Ibid.74 Ibid., pp. 91-92.

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I postulati della modernità scientifica e filosofica potrebbero, dunque, essere mere sovrastrutture immaginarie, segni convenzionali con cui l’uomo cerca di te-nere a bada la vertigine di una sostanziale, ultima inconoscibilità del mondo? Di fronte al rischio di essere tacciato di «oscurantismo», il narratore sente il bisogno di ricordare all’uditorio la sua più completa affidabilità:

– Creo que no me tacharéis de visionario… Por fortuna o desgracia mía, soy, digá-moslo así, un hombre a la moderna, nada supersticioso, y tan positivista, como el que más75.

È a partire da dei presupposti totalmente condivisi (una novità assoluta nella nostra cronistoria) che Gabriel si permette di affermare l’indole extranatural di ciò che si predispone a narrare, configurando la sua performance come una sfida aperta alla razionalità moderna, che coinvolge interpreti alla pari:

oíd lo que yo he oído y ved lo que yo he visto, aun sin ser el verdadero héroe de la singularísima historia que voy a contar; y decidme en seguida qué explicación terre-stre, física, natural, o como queramos llamarla, puede darse a tan maravilloso aconte-cimiento76.

Come dicevamo, l’incandescente sapere narrativo del nostro maestro di ceri-monie deriva da un altro racconto che lo ha coinvolto, qualche anno prima, in qua-lità di ascoltatore, giacché il protagonista dei fatali incontri con la donna alta – l’in-gegnere Telesforo x, adesso deceduto –, bisognoso di confrontarsi con una «opi-nión serena y fría como la ciencia»77, gliene aveva a suo tempo confidato il segreto. Dopo aver localizzato lo scenario dell’incontro con esattezza millimetrica (almeno nelle intenzioni: «calle del Lobo… No recuerdo el número, pero sí que era muy cerca de la Carrera de San Jerónimo»78), Gabriel introduce – testimonianza dentro la testimonianza – la confessione diretta di Telesforo, che inizia con una circospetta preparazione, del tutto speculare a quella cui abbiamo assistito fuori dalla cornice, utile ad instaurare una complicità razionale (o razionalistica) con il suo confidente. Anche Telesforo è un discepolo del positivismo, del tutto restio – ci assicura – a credere «en duendes, ni en brujas, ni en aparecidos»79. Eppure, ammette e nomi-na una sua debolezza, un difetto congenito della sua immaginazione, sensibile e suscettibile all’effetto suadente degli antichi «cuentos de vieja», da sempre capaci di innescare nel suo animo una caratteristica regressione a modalità superstiziose di approccio al fenomenico. Telesforo è, dunque, un personaggio schizofrenico e dilaniato, uno che, parafrasando una celebre massima di Unamuno, crede una cosa

75 Ibid., p. 92.76 Ibid.77 Ibid., p. 95.78 Ibid., p. 94.79 Ibid., p. 96.

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con il cuore ed un’altra con la mente. Ci sono zone così profonde ed ignote nella coscienza dell’uomo che neppure un ferreo allenamento positivista può lambire ed illuminare: nella fattispecie, niente terrorizza di più questo scomodo testimone del-la vocazionale doppiezza dell’indole umana che incontrare una donna sola di notte che passeggia per strada80. Tale circostanza, non immediatamente ricollegabile ad alcun timore codificato dall’immaginario collettivo, ai suoi occhi, si presta a veico-lare associazioni ed «invenciones supersticiosas» di ogni genere che, per sua stessa ammissione, lo avrebbero fatto sorridere «en cualquier otra circunstancia» tranne che in quella specifica. Come a dire che la razionalizzazione, che pure Telesforo è solito praticare, è utile solo come principio teorico generale ma dimostra tutte le sue debolezze di fronte ad ossessioni private che, con ogni evidenza, procedono su diversi binari, paralleli ed intangibili rispetto a quelli dell’intelletto.

Ma questa intuizione, che sfiora problematiche psicanalitiche, non è sufficien-te ad innescare un meccanismo fantastico, che invece si dispiega nel momento in cui il timore irrazionale profondo si materializza e chiama direttamente in causa l’intervento della ragione. In una notte precisa e tutt’altro che brumosa («la noche del 15 al 16 de noviembre de 1857»81), nei pressi della centralissima calle de la Montera, di ritorno dal casinò in cui il giovane rampollo di una famiglia bene ha dilapidato una fortuna, Telesforo si trova ad incrociare per strada l’immagine viva dei suoi più terribili incubi:

estaba de pie, inmóvil y rígida, como si fuese de palo, una mujer muy alta y fuerte, como de sesenta años de edad, cuyos malignos y audaces ojos sin pestañas se clavaron en los míos como dos puñales, mientras que su desdentada boca me hizo una mueca horrible por vía de sonrisa…82

Per diluire o mascherare una tensione di cui, per adesso, è l’unico a parteci-pare (giacché al di là di una sintomatica sgradevolezza estetica, questo “fantasma” fatica a provocare convincenti effetti stranianti), il narratore, sconvolto anche re-trospettivamente, si concede una pausa:

Pero me excito demasiado, ¡aunque no sin motivo, como verás más adelante! Descui-da, sin embargo, por el estado de mi razón… ¡Todavía no estoy loco83!

È il caso di entrare nel merito della descrizione strisciantemente inquietante della donna alta, per valutare l’abile attivazione, da parte di Alarcón, di un codice piuttosto innovativo di definizione della paura, che si avvicina molto al prototipo del perturbante freudiano:

80 Intorno a questo motivo, come vedremo, si articolerà anche l’unico episodio compiutamente fanta-stico del romanzo di Ramón J. Sender El lugar de un hombre.81 P. A. de Alarcón, Narraciones inverosímiles, cit., p. 97.82 Ibid., p. 98.83 Ibid.

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Lo primero que me chocó en aquella que denominaré mujer fue su elevadísima talla y la anchura de sus descarnados hombros; luego, la redondez y fijeza de sus marchitos ojos de bujo, la enormidad de su saliente nariz y la gran mella central de su denta-dura, que convertía su boca en una especie de agujero oscuro, y, por último, su traje de mozuela de Lavapiés, el pañolito nuevo de algodón que llevaba a la cabeza, atado debajo de la barba, y un diminuto abanico abierto que tenía en la mano, y con el cual se cubría, afectando pudor, el centro del talle.¡Nada más ridículo y tremendo, nada más irrisorio y sarcástico que aquel abaniquillo en unas manos tan enormes, sirviendo como centro de debilidad a giganta tan fea, vieja y huesuda84!

Un’immagine che ha tutte le credenziali per appartenere al nostro mondo si presta ad un mostruoso e repentino processo di de-realizzazione, come segnala l’uso della perifrasi straniante: mujer è termine troppo diretto e chiaro per riferirsi ad un’entità cui si attribuisce una collocazione incerta e il cui ritratto riverbera una pronunciata e disturbante ambiguità; ci si serve, allora, di un giro di parole canonico nel caso in cui i narratori del fantastico si trovano a catturare discorsi-vamente i tratti evanescenti del non umano ma che, in questo caso, risulta fuori posto, non lottando per nominare ciò che non ha nome, ma per sfumare il nome di una presenza riconoscibile che, tuttavia, si stenta a riconoscere. La difficoltà del ritratto deriva dalla rilevazione di un incastro disarmonico e contraddittorio di dettagli incongruenti ed offensivi, che feriscono la vista come in uno schizoide collage espressionista. I tratti fisici e comportamentali di questa anziana che si veste da giovinetta, di questo energumeno che esibisce gracilità, appartengono ad insie-mi incompatibili che si contaminano a vicenda sull’orlo del grottesco: maschile/femminile, vecchiaia/adolescenza, debolezza/vigore, innocenza/malizia, pudore/esperienza ecc… L’elemento che esemplarmente catalizza tali irrisolvibili contrasti interni è senz’altro il minuscolo ventaglio dietro al quale il volto inverecondo della manola invecchiata ostenta una maliziosa timidezza, quasi attivando il canale di un adolescenziale corteggiamento “contro natura”, la cui inopportunità e sgradevo-lezza è segnalata anche dall’attribuzione ultima di «hombre disfrazado».

Anche di fronte a questo peculiare fantasma dell’Aldilà si innescano i consueti meccanismi dell’esitazione («o mi terror tiene fundamento», dice Telesforo, «o es una locura»85), ma ogni dubbio circa l’orrenda disumanità dell’incontro sembra dissiparsi di fronte alla concatenazione di eventi luttuosi che sembra provocare. Sfuggito all’apparizione, infatti, il giovane torna a casa, dove l’aspetta la terribile notizia della morte del padre. Se in un racconto fantastico, secondo il meccanismo della pansignificazione, l’operare capriccioso del Caso non è riconosciuto come tale ed innesca catene causali improprie e non dimostrabili, non sarà difficile seguire lo sgomento di Telesforo il quale, pur tentando di normalizzare l’accaduto, «no podía separar en mi mente tres ideas distintas, y al parecer heterogéneas, que se empeña-

84 Ibid.85 Ibid., p. 100.

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ban en formar mostruoso y tremendo grupo: mi pérdida al juego, el encuentro con la mujer alta y la muerte de mi honrado padre!»86. Il logos (ragione e parola) si sforza di separare e discernere gli anelli di una concatenazione impossibile eppure esemplare, in cui l’attribuzione di una causa sovrannaturale al decesso di una per-sona amata (che si basa su di un’identità presupposta e mai scopertamente nomina-ta: donna alta=Morte) si ricollega, tra l’altro, ad una sintomatica materializzazione del senso di colpa di Telesforo per i suoi bagordi notturni. Ma la catena di “stra-nissime coincidenze” letali si ripete, implacabile, dopo pochi mesi: un’altra notte “colpevole” (passata da Telesforo tra le braccia di un’antica amante alla vigilia del suo matrimonio)87, un nuovo agguato della donna alta e la notizia della repentina scomparsa della promessa sposa. Il blocco conoscitivo, quasi un rictus isterico, non potrebbe essere espresso in modo più spiazzante:

¿Es mujer? ¿Es criatura humana? ¿Por qué la he presentido desde que nací? ¿Por qué me reconoció al verme? ¿por qué no se me presenta sino cuando me ha sucedido alguna gran desdicha? ¿Es Satanás? ¿Es la Muerte? ¿Es la Vida? ¿Es el Anticristo? ¿Quién es? ¿Qué es?...88

Intanto, nella cornice, nello spazio di mezzo tra la storia di Telesforo e la nor-

malità dell’orizzonte extratestuale, Gabriel sta saggiando la pazienza e la resistenza del suo uditorio:

Vosotros diréis que mi amigo estaba medio loco; que lo estuvo siempre; que, cuando menos, padecía la enfermedad moral llamada por unos terror pánico y por otros delirio emotivo, que, aún siendo verdad todo lo que refería acerca de la mujer alta, habría que atribuirlo a coincidencias casuales de fechas y accidentes; y, en fin, que aquella pobre vieja podía también estar loca, o ser una ratera o una mendiga, o una zurcidora de voluntades […]– ¡Admirable suposición! – exclamaban los camaradas de Gabriel en variedad de formas89.

Alarcón è abile lettore del Bécquer più moderno e meno sognante, mostrando di utilizzare quasi didascalicamente questo spazio liminare come scenario privile-giato della tematizzazione dell’orizzonte di lettura. Ma la gabbia di contenimento è incrinata e la cornice si dimostra permeabile alla contaminazione del racconto, dal momento che Gabriel, che sta per confessare una sua partecipazione diretta alla vicenda, segnala che la ragione, in alcuni casi, è appena un inutile diversivo, una scappatoia per codardi che, tra l’altro, si basa su di un discriminante esercizio di emarginazione:

86 Ibid., p. 102.87 Alarcón sembra intuire alla perfezione le radici inconsce della paura dell’alterità.88 P. A. de Alarcón, Narraciones inverosímiles, cit., p. 106.89 Ibid. L’allusione al ricucimento di verginità infrante attiva per il ritratto una diffusa rimembranza quevediana.

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¡Es mucho más fácil pronunciar la palabra locura que hallar explicación a ciertas cosas que pasan en la Tierra90!

Chi ha visto ed è disposto, seppur ambiguamente, a raccontare l’esperienza del limite è un comodo capro espiatorio su cui si riversano distanzianti stimmate di diversità, ma Gabriel sa di non potersi permettere tale confortante scorciatoia giacché, durante l’inevitabile e previsto funerale del disgraziato amico, ha visto «la mujer alta» che, con «infernal coquetería»91 gli punta gli occhi addosso come riconoscendolo.

Il narratore di mezzo, stritolato tra il suo ruolo di “affidabile” trasmettitore, di garante della credibilità del relato, ed il suo parziale protagonismo in una vicen-da cui non può più riferirsi come puro testo, ne demanda al suo uditorio l’ardua interpretazione. Significativamente, conclude il suo compito con una richiesta di collaborazione ermeneutica: «¡Conque vamos a cuentas! ¡Decidme vuestra opi-nión acerca de tan curiosos hechos! ¿Los consideráis todavía naturales?»92. Am-miccamento da consumato performer o reale richiesta di aiuto, il lembo estremo della cornice afferma l’impasse, stimolando il lettore a misurarsi con l’incongruità di un duplice enunciato di irrealtà affidato ad un’enunciazione pervasa da una pro-liferare di “effetti di realtà” e meccanismi di autenticazione. Se Gabriel autentica il racconto di Telesforo, fornendo una prova della contaminazione sovrannaturale del “contenitore” ad opera del “contenuto”, sconfessando una lettura meramente ricreativa dell’innocente scampagnata del gruppo di ingegneri, «La mujer alta» potrebbe aver innescato un irrefrenabile meccanismo a catena che, come ne «El monte de las ánimas» di Bécquer, problematizza il confine tra finzione e realtà ri-mandando al sospetto di una sintomatica pericolosità della “narrazione dell’Altro”, in quanto scandalosa pietra angolare dell’incertezza. Creando un ulteriore recinto, un narratore anonimo, appartenente ad un piano di realtà superiore – presumibil-mente lo stesso dei lettori extra-testuali –, prende per la prima volta la parola per un’ironica postilla “autoriale”:

Ocioso fuera que yo, el autor del cuento o historia que acabáis de leer, estampase aquí las contestaciones que dieron a Gabriel sus compañeros y amigos, puesto que, al fin y a la postre, cada lector habrá de juzgar el caso según sus propias sensaciones y creencias…Prefiero, por consiguiente, hacer punto final en este párrafo, no sin dirigir el más ca-riñoso y expresivo saludo a cinco de los seis expedicionarios que pasaron juntos aquel inolvidable día en las frondosas cumbres del Guadarrama93.

90 Ibid., p. 107.91 Ibid., p. 109.92 Ibid.93 Ibid.

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Di fronte al sospetto, subdolamente suggerito, della morte “segnata” di Ga-briel, il margine di libera interpretazione del lettore risulta davvero drasticamente ridotto.

Concludendo la disamina di questo calibratissimo esempio di “fantastico ra-zionalista”, vista l’attenzione dimostrata da Alarcón nel segnalare le matrici psi-cologiche profonde dell’esperienza di irrealtà, non si può non accennare all’im-pressione che l’apparizione de la mujer alta funzioni, a livello sociologico, come materializzazione esemplare di uno spettro dell’immaginario collettivo della socie-tà spagnola post-rivoluzionaria, secondo una tendenza, se non anti-borghese, che rimanda, quantomeno, alla necessità di un confronto irrinunciabile di quella classe con le “vittime” della sua ascesa: il racconto è del 1881 e la morte-mendicante che si aggira e colpisce per le strade del quartiere operaio di Lavapiés non può non suggerire una variazione, convenientemente ed orrendamente derealizzata, sul tema della sempre più incombente minaccia marxista a destabilizzare il privilegio del ceto medio94.

*

Nella sua lunga carriera, Benito Pérez Galdós ha descritto vizi e virtù della società spagnola con un piglio cronachistico ed un’attenzione viva all’attualità che rende i suoi romanzi più riusciti dei tableaux vivants popolati da personaggi in-dimenticabili, parlate ed accenti, echi della moda del tempo, succosi dettagli che restituiscono l’impressione di un’osservazione dal vero delle viuzze e dei mercati della metropoli madrilena e dell’incrociarsi di tipi umani svariati e compositi. Con-vinto sostenitore delle idee liberali e rivoluzionarie, scrive un saggio, Observación de la novela española contemporánea, in cui consacra la sua arte alla disamina del fenomeno borghese come ideale avamposto di osservazione per una comprensione globale, a trecentosessanta gradi, del tessuto sociale. Poi, nel momento in cui i moti del ’68 si traducono in una fase di stallo ideologico e politico e gli ideali di rispetto reciproco ed uguaglianza sbandierati dall’avvento dell’uomo nuovo s’impaludano in un triste scimmiottamento da parte dei nuovi ricchi dei vizi della vecchia classe dominante, Galdós, deluso e tradito, riduce il ruolo del borghese nei suoi romanzi ed assume un atteggiamento critico, guardingo, animato da una tolleranza pos-sibilista e da una compassione ideale nei confronti delle differenze, delle disfun-zioni spirituali del diverso, creando dissonanti fabulae di “disintegrazione” in cui si passano al vaglio le storture castranti dell’ingranaggio sociale, così come le im-posizioni culturali del realismo che, limitandosi all’osservazione del nuovo status quo, considera irrappresentabili le spinte dell’ideale. I suoi ultimi romanzi, dentro un’apparente quadro realista, dissolvono dall’interno i presupposti della scrittura realista, scegliendo di documentare il percorso velleitario – fantasmale, perché non

94 Sintomatica in tale prospettiva risulta l’apertura del Manifesto Comunista (1848) di Marx: «Uno spettro perseguita l’Europa».

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realisticamente codificato – di personaggi il cui progetto individuale crea frizione rispetto al quadro collettivo e facendo vedere come le loro manifestazioni espressi-ve vengano mortificate e ricondotte al silenzio da una società che reprime tutto ciò che non riesce a spiegare ed assorbire. Una scrittura sperimentale, immaginativa e sovrabbondante rispetto ai canoni razionalistici dell’osservazione e conveniente-mente affidata dalla voce autoriale, come nel fantastico puro, alla prima persona del trasgressore, tenta di farsi carico della voce del singolo e delle sue aspirazioni irrealizzabili, producendo un codice dentro il codice, una lingua dentro la lingua, alla base, in questi testi, di una sintomatica ferita letteraria, una disomogeneità di stili che mima la frammentazione di un referente sbugiardato come mera con-venzione. È interessante riscontrare come l’insoddisfazione etica di Galdós per i contenuti ideologici borghesi impliciti nel modello realista vada di pari passo con una progressiva insofferenza estetica per la forma che li contiene – tra l’altro, si-lenziandoli in un’obiettività di facciata –, secondo un’impostazione che gli impone il confronto, se non proprio con l’espressione dell’alterità metafisica, per lo meno con forme di rappresentazione meno costrittive, meno vincolate ad una mimesi del reale che si presenta, ai suoi occhi, come sempre più illusoria, storicizzata e parzia-le. Si commette dunque un errore se si crede che, con l’avvento del realismo, non ci siano più spazi per una letteratura inverosimile, se non come forma alternativa e secondaria, condotta secondo i presupposti di una paradossale verosimiglianza: il gotico, il melodramma, a volte anche il fantastico vero e proprio, infrangono il monologo trasparente del romanzo borghese, fratturandone l’affresco armonico con sequenze spiazzanti che rompono l’idiosincrasia del “reale”, producendo un caratteristico dialogo tra forme incompatibili, tra l’Io e l’Altro, tra conservazione e trasgressione, in cui la paura della metamorfosi smaschera la nozione dominante di realtà e la sua riproducibilità narrativa; un dialogo che, comunque, non rimanda mai alla possibilità di un’auspicabile integrazione, ma che bensì ipotizza una strut-tura oppressiva che tenta di disinnescare la spinta trasgressiva straniante95.

Lasciando da parte le grandi architetture dichiaratamente fantastiche dell’ul-timo Galdós (nello specifico, il romanzo meraviglioso El caballero encantado), tra il 1865 ed il 1897, lo scrittore canario pubblica su varie riviste, quasi dei divertisse-ment eruditi, dodici cuentos fantásticos (meno chiaramente riconoscibili secondo i paradigmi di Todorov rispetto a quelli di Alarcón), recentemente raccolti in volume da Alan E. Smith, il quale prova a contestualizzare, per la prima volta, quest’inte-resse secondario nel piano generale della sua copiosa produzione. In uno di questi, «La novela en el tranvía» (1871), il modus operandi dell’inserzione, all’interno di un filone realista, di una modalità letteraria differente, disomogenea e scanzonata-mente inverosimile, crea un effetto di lettura dichiaratamente mutuato sul modello fantastico: grazie ad una fine ironia, ancora immune alle connotazioni drammatiche e alle tinte fosche dei romanzi della dissonanza spirituale (frustrata dal castrante

95 Cfr. R. Jackson, op. cit., pp. 117-118.

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confronto con il possibile “in natura” o “in società”), il rappresentante esemplare del realismo spagnolo, implicato in prima persona come protagonista del racconto, ci rivela l’insoddisfazione, quasi romantica, della propria immaginazione “in sec-ca” di fronte all’ossessione epocale per il reale, il suo “appetito” di estraneità, la disposizione della sua fantasia ad andare oltre il panorama urbano dell’osservabile e ristorarsi in scenari letterari di orientamento contrapposto rispetto al genere da lui normalmente praticato, riscattando la funzione stuzzicante di una novela goti-ca ed ad effetto, testualmente riconoscibile come tale ma destinata a sovrapporsi al quotidiano itinerario del suo lettore, come bisogno e diritto inderogabile della mente umana uniformata nel grigiore quotidiano e volgare del trantran moderno. La letteratura irrompe per sovrapposizione fantastica sul piano del reale, provo-cando l’umoristica discrasia di un peculiare viaggiatore metropolitano, destinato a molestare e scompigliare caratteristicamente la concentrata e seriosa comunità dei passeggeri del tram che lo sta portando da un capo all’altro di Madrid.

L’alter-ego dell’autore sale «a la extremidad del barrio de Salamanca, para atravesar todo Madrid, en dirección al de Poza»96 con un pacchetto di libri sotto il braccio legati insieme, per comodità, da fogli di giornale. Incontra un amico espansivo e ciarliero, un dottore, che comincia a raccontargli la vicenda di una sua paziente, un’innominata contessa ricattata da «un hombre abominable»97, il suo maggiordomo, che la tiene in scacco, imponendole le sue ignobili avances giacché in possesso di un «secreto que la compromete». Un intrigo avventuroso condito di colpi di scena ed espressioni sensazionalistiche che, se trattato come “letteratura”, si allontana di molto dagli austeri canoni della mimesi realista, chiamando in causa, semmai, la moda coeva dei folletines, i novelones a puntate, romanticheggianti e rocamboleschi, che si pubblicavano copiosi sui giornali dell’epoca, seducendo let-tori e lettrici di cultura medio-bassa e provocando le tuonanti diffide di amoralità ed inverosimiglianza dell’intelligentia realista. Proprio sul più bello, lasciando il nostro viaggiatore insoddisfatto ed a bocca asciutta, pervaso da una curiosità os-sessiva, il medico chiacchierone scende dal tram, alla fermata di Cibeles. Patendo un brusco ritorno alla realtà, il protagonista si mette ad osservare e descrivere i profili degli altri passeggeri, giocando però non solo di osservazione, ma anche di immaginazione, tentando di indovinarne gli indecifrabili segreti, pronti a far esplo-dere la pacifica normalità del vagone, che subisce, nelle sue riflessioni, una sorta di proiezione straniante: il veicolo tecnologico, rappresentazione in scala delle nuove forme di convivenza civile, diventa un «cajón» magico, contenente «un mundo chico de pasiones en miniatura»98. Mentre il tram continua la sua corsa topogra-ficamente definita, gli occhi del passeggero si soffermano sul lembo di uno dei giornali che impacchettano i suoi libri e, macchinalmente, cominciano a leggere…

96 B. Pérez Galdós, Cuentos fantásticos, Madrid, Cátedra, 2004, p. 71.97 Ibid., p. 75.98 Ibid., p. 77.

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il seguito della truculenta storia della Contessa99! L’infrazione fantastica si eviden-zia nell’impossibile contiguità tra vita e letteratura, giacché sospesa tra i due poli si dipana, tassello dopo tassello, la torbida vicenda di quella seduzione satanica100. In quella che adesso è la trama di un folletín che si intitola El complot – che rimane incompleto alla fine del capitolo XI, secondo un’ironica imitazione dei meccani-smi della suspense così tipici di quelle narrazioni –, si aggiungono nomi e dettagli, nonché si segnala la natura metaforicamente fantastica dell’oscura minaccia del maggiordomo Mudarra, definito, nella sua brutalità e abiezione, con il linguaggio più tipico dell’alterità: «hombre siniestro»101, «aquel monstruo»102, responsabile di effetti di «horror y repugnancia», e deputato ad infestare i sogni della sua vittima con la sua «fatídica imagen».

Il nostro narratore-lettore si interroga esitante di fronte ad una coincidenza inspiegabile del tutto assimilabile all’apparizione di un fantasma, tanto più che il passaggio impossibile di oggetti e persone tra i due spazi contrapposti dell’imma-ginativo e del reale si ripete più e più volte, in entrambe le direzioni. Interrottosi il folletín su di uno strappo che si dimostra del tutto funzionale all’eccitazione partecipativa del lettore, Mudarra in persona, corredato dalla sua inconfondibile «sonrisa de demonio»103 e mostrando un borsello su cui è impressa un’inequivo-cabile M, sale sul tram con in mano la lettera che, come raccontava il romanzetto, farà scattare la sua terribile trappola, innescando un incontro compromettente tra l’onorata contessa, dura e resistente al suo ricatto, ed un suo giovane corteggiatore, che l’iracondo e gelosissimo marito sarà opportunamente invitato a sorprendere. Un chiaro esempio di oggetto mediatore, che permette al viaggiatore di riconosce-re stupefatto «al proprio Mudarra, novelesco, inverosímil, convertido en un ser vivo y compañero mío en aquel viaje»:

Seguía yo contemplando aquel hombre como se contempla un objeto de cuya existen-cia real no estamos seguros104.

Se, citando Bécquer, «una vez aguijoneada la imaginación es un caballo que se desboca», quella di questo emotivo e curioso lettore ha ormai perso ogni freno e comincia a proiettarsi febbrile sullo spazio riconoscibile della città realista e dei suoi transeunti, non più osservata dai finestrini di un tram ma sognata e riscritta at-

99 Qui Galdós “cita” il Quijote, confermando la sua a più riprese dichiarata passione cervantina.100 D’altronde, le possibilità di normalizzazione potrebbero essere infinite. Segnalo solo la più eviden-te: l’amico medico del protagonista potrebbe aver spacciato per reale, per mitomania o altro, quella che era una semplice esperienza di lettura. Ma a noi lettori non è dato spingerci tanto oltre, bensì dobbiamo vivere la vicenda condotti per mano dalle sensazioni di lettura del personaggio che si con-figura come nostro modello testuale. 101 B. Pérez Galdós, Cuentos fantásticos, cit., p. 76.102 Ibid., p. 79.103 Ibid., p. 83.104 Ibid., p. 84.

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traverso la lente deformante dell’espressionismo fantastico. Il viaggiatore si addor-menta e dai volti degli altri passeggeri spuntano propaggini animalesche, fiorisco-no ghigni satanici e «horrendos visajes», mentre tutt’intorno «iban desapareciendo las casas, las calles, Madrid entero»:

Por un instante creí que el tranvía corría por lo más profundo de los mares: al través de los vidrios se veían los cuerpos de cetáceos enormes, los miembros pegajosos de una multitud de pólipos de diversos tamaños. Los peces chicos sacudían sus colas resbaladizas contra los cristales, y algunos miraban adentro con sus grandes y dorados ojos. Crustáceos de forma desconocida, grandes moluscos, madréporas, esponjas y una multitud de bivalvos grandes y deformes cual nunca yo los había visto, pasaban sin cesar. El coche iba tirando por no sé qué especie de nadantes monstruosos, cuyos remos, luchando con el agua, sonaban como las paletadas de una hélice, tornillaban la masa líquida, con su infinito voltear105.

Questa vorticosa visione marina cancella le sembianze del teatro abituale del-l’interazione sociale realista, de-realizza la città trascrivendola in privato teatro del-la fantasticheria bohemien, secondo una linea che andrà affermandosi in epoca modernista: tutto ciò in virtù di un brano di letteratura scadente che si dimostra capace di scardinare l’apparentemente armoniosa compenetrazione tra singolo e gruppo, utopia, neppure troppo innocente, del modello sociale borghese. Ed, in effetti, il passeggero dall’immaginazione ribelle, stanata e liberata dai gotici esercizi del folletín, causa scompiglio, diffidenza e scandalo all’interno del vagone, stracol-mo del perbenismo austero di passeggeri, ahimè, fin troppo “reali” per apprezzare i benefici di una contaminazione letteraria di portata e natura così irriducibilmente “altra”:

En la agitación de mi sueño había cambiado de postura y me había dejado caer sobre la venerable inglesa que a mi lado iba.– Aaah! Usted… sleeping… molestar… me, -dijo con avinagrado mohín, mientras rechazaba mi paquete de libros que había caído sobre sus rodillas106.

Il racconto prosegue nell’irresistibile alternarsi dei voli smodati della fantasia del protagonista che tenta di ricostruire i vuoti mancanti del truculento intrigo passionale e le apparizioni, tra i seggiolini del tram o per le strade cittadine fuori dal finestrino, di segni, oggetti, personaggi e situazioni che, inspiegabilmente, sem-brano farvi riferimento, anche se la tensione fantastica inizialmente innescata viene meno nel momento in cui ci accorgiamo che la realtà cessa ben presto di risponde-re in modo coerente agli stimoli immaginativi del fantasioso passeggero, rivelando le strane coincidenze da lui vissute come illegittime sovrainterpretazioni che inne-

105 Ibid., pp. 86-87.106 Ibid., p. 92.

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scano, tra l’altro, gustosi ed esilaranti scontri burleschi tra il piano ideale dell’aspi-razione letteraria di questo moderno donchisciotte e i ben più banali movimenti della scacchiera cittadina. Quando, spiando un frammento di conversazione in cui si descrive un incidente di caccia, il nostro narratore intuisce e grida a gran voce la morte violenta della Contessa per mano del marito geloso, viene preso ovviamente per pazzo e rischia una cervantina paliza. Del resto, la sua percezione di realtà e finzione si è, ormai, praticamente invertita, tanto che – per risultare narrativamente sostenibile – viene ghettizzata nel recinto del ridicolo:

Tengo mucho interés por conocer el fin de esa horrorosa tragedia. ¿No es verdad que parece cosa de novela107?

La vicenda si converte nella burla scanzonata ai danni di un nevrotico che, nel tentativo di consegnare alla giustizia un assassino letterario che, ai suoi oc-chi, deambula per le strade di Madrid, finisce per passare una notte in gattabuia, accusato di aggressione: si sceglie, dunque, di segnalare la pericolosità delle nar-razioni inverosimili, colpevoli di irretire l’intelletto con un infestante «ejército de sombras»108, di provocare un’infausta «borrachera moral» o «enajenación»109 della coscienza. Ma la scelta di sciogliere l’esitazione fantastica e di risolvere moralmente l’accaduto in una normalizzante autocritica esemplare contro i rischi dell’immagi-nazione sfrenata, agli occhi del lettore, coincide con un mero «pretexto», che nulla toglie e nulla aggiunge ad una corsa fantastica la cui indiavolata fruibilità è andata ben oltre le possibilità offerte dai binari paralleli di un realistico tranvia.

La parabola dell’emarginazione del delirio immaginativo acquisisce tinte vi-sibilmente più cupe, ed anche meno letteralmente fantastiche, nel romanzo del 1892, Tristana. Niente di ontologicamente incompatibile con le leggi naturali sor-prende e infiamma la vita spirituale della sfortunata eroina, se non il paradosso, scandaloso ed irrazionale (solo nell’ottica di un’equazione del tutto storicizzabi-le, che fa coincidere il possibile con il socialmente adeguato), di una «libertad honrada», il miraggio di un percorso di indipendenza ed autonomia (fuori dalla struttura matrimoniale) per il soggetto femminile nell’immobilismo conservatore della Restaurazione. L’innocente “femminismo” di una donna di bassa estrazione sociale, sedotta e compromessa dal bavoso tutore che, dopo la morte dei genitori, l’ha accolta nella sua casa bambina, la sua volontà di riscatto ed intraprenden-za sono trattati letterariamente come inconcepibili “fantasmi”, che parlano una lingua incompatibile con quella, assai più trasparente e mimetica, utilizzata dal narratore della sua vicenda, garante supremo del realismo dell’operazione. Rive-lando implicite parentele romantiche, peraltro fondamentali alla sua caratterizza-

107 Ibid., p. 99.108 Ibid., p. 103.109 Ibid., p. 104.

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zione antirealistica, Tristana si “sveglia” dal suo torpore quando si innamora di un artista bohemien che la inizia alla pittura ed alla lettura, secondo un percorso che, dapprima, assomiglia alla costruzione condivisa di un castello di carte, di una cittadella murata di parole e possibilità in cui i due amanti siglano il loro illusorio dominio, porte chiuse dinanzi al mondo, ma poi si configura come isolata deriva della protagonista in un territorio tutto suo, tanto velleitario, smodato ed eccessivo da assomigliare ad una vita vicaria, che esiste soltanto in una dimensione ulteriore, prescindendo dal confronto con la realtà. Quando Horacio è costretto a lasciare Madrid ed a separarsi dal monstruum (di citazioni e maschere ideali, tutte mutuate dalla letteratura) che ha contribuito a creare, dandogli in mano gli strumenti della poiesis che le permettono di riscrivere e correggere gli impedimenti del suo vissuto, Tristana è pronta a divenire autrice del suo “personaggio”. Le lettere che scrive al suo amante, quasi un romanzo nel romanzo in cui il narratore onnisciente lascia alla penna della sua eroina il controllo totale della propria esistenza parallela, in cui tutto le è possibile ed ogni prospettiva di realizzazione personale le è concessa, secondo un evidente rovesciamento virtuale delle stroncature che il mondo reale le riserva, ci impongono il confronto con una scrittura idealistica e di rottura, scomo-da e trasgressiva, deputata alla libera espressione del desiderio che, agli occhi ester-ni, si risolve in minaccia, giacché perturba l’armonica riconoscibilità del realistico e borghese coincidere tra pulsioni spirituali dell’individuo e forme sociali della classe o del ruolo cui fa riferimento, lasciando intravedere un patrimonio intimo di “eccessività” e sedizione che cova silenzioso nell’interiorità di ogni uomo. Neppu-re il maestro può resistere al discorso “isterico” (ancora una malattia dell’animo a bollare il timore dell’Altro, questa volta, ritagliato ad hoc sulla volubilità metamor-fica ed inafferrabile dell’animo femminile) di una pupilla che sembra guadagnare autonomia a sue spese e riservargli un ruolo collaterale o, per lo meno, paritario, nell’entusiastica costruzione della propria “fantasmale” identità:

«No me hables a mí de altarito, porque te me empequeñeces tanto que no te veo de tan chiquitín como te vuelves. Esto será un delirio; pero nací para delirante crónica […]. No, dejarme, no; te retengo, te amarro, pues mis locuras necesitan de tu amor para convertirse en razón. Sin ti me volvería tonta, que es lo peor que podría pasar.Y yo no quiero ser tonta, ni que lo seas tú. Yo te engrandezco con mi imaginación cuando quieres achicarte, y te vuelvo bonito cuando te empeñas en ponerte feo, aban-donando tu arte sublime para cultivar rábanos y calabazas. No te opongas a mi deseo, no desvanezcas mi ilusión; te quiero grande hombre y me saldré con la mía. Lo siento, lo veo…, no puede ser de otra manera. Mi voz interior se entretiene describiéndome las perfecciones de tu ser… No me niegues que eres como te sueño. Déjame a mí que te fabrique…; no, no es ésa la palabra; que te componga…; tampoco… que te construya… tampoco… Déjame que te piense, conforme a mi real gana. Soy feliz así: déjame, déjame»110.

110 B. Pérez Galdós, Tristana, Alianza, Madrid, 2004, p. 175.

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Perturbanti “poetiche” fantastiche e castranti “politiche” femministe congiu-rano contro la tranquillità razionale e la rispettabilità sociale (in un’ottica patriar-cale) del povero Horacio, che non riesce a reggere il confronto e – oltre ad intra-prendere un percorso parallelo e contrario a quello idealistico della sua amante, rinunciando alla sua arte per una più rispettabile vita di campagna, come a segna-lare il suo rifugiarsi nelle braccia del “possibile in natura” – sceglie di chiamarsi fuori dal pericoloso carteggio, lasciando carta bianca a Tristana per imporre il suo alfabeto, senza più alcuna mediazione dialogica. L’evidente autoreferenzialità della “letteratura” epistolare di Tristana dipende dallo scollamento anti-realistico tra il piano immaginario e il piano referenziale, in seno al quale i segni inventati dall’au-trice risuonano a vuoto, non incontrando, o non cercando, confortanti presenze d’appoggio. Il processo semiotico, allora, può de-realizzare oggetti e situazioni in rispondenza alle volute capricciose degli stati d’animo, gulliverizzare o ingigantire, abbellire o imbruttire, “fabbricare” la realtà, “comporla”, “costruirla”, invece che copiarla. Glossando la penna della sua eroina in modo pressoché identico a quello con cui Bécquer chiosava, affascinato e intimorito al tempo stesso, il potere im-maginario di una leggenda di fantasmi («sin freno» «como corcel desbocado»), la voce dell’autore realista spia ambiguamente l’ultimo paradosso della sua persona-lità creativa, non potendo fare a meno di stigmatizzare i suoi eccessi nella formula consueta della malattia mentale111:

Siguieron a esta carta otras, en que la imaginación de la pobre enferma se lanzaba sin freno a los espacios de lo ideal, recorriéndolos como corcel desbocado, buscando el imposible fin de lo infinito sin sentir fatiga en su loca y gallarda carrera.Véase el género:

111 Se ambiguo è senz’altro il rapporto di Galdós con Tristana, giustificata ed appoggiata nella sua crociata antipatriarcale, ma anche oscurata, ricondotta al silenzio e orrendamente punita dalla storia, sostanzialmente irrisolta è anche la sua relazione con la letteratura di fantasmi, con i frutti ossessivi e trasgressivi di un’immaginazione che non si limita ad esplorare in tutte le sue variopinte espressioni il mondo che abitiamo, ma ne immagina un altro, potenzialmente incompatibile con il nostro. Con ter-mini che ricordano le riserve di Zorrilla rispetto al “tremendismo” dei racconti di Hoffmann, Galdós apprezza Bécquer ma deplora gli eccessi di Poe: «La alucinación que es el estado normal de Gustavo se diferencia tanto de la fiebre dolorosa y tétrica de Edgardo Poe, como se distingue la locura sublime y profunda de D. Quijote del disparatado desvarío de Orlando» (in G. Cazottes, «Un jugement de Galdós sur Bécquer», Bulletin Hispanique, 77, enero-junio 1975, p. 145). A quale delle due versio-ni allucinatorie (feconda e visionaria o rabbiosa e distruttiva) sia dato associare i vaneggiamenti di Tristana non ci è dato stabilire, ma in ogni caso, almeno in questa fase ed in relazione al problema specifico della donna “liberata”, pur accogliendone lo stile a beneficio di un impianto narrativo polifonico, lo scrittore pare mostrare pesanti riserve nei confronti dell’immaginazione smodata. Non dimentichiamo che Galdós fa morire in un eccesso folle e ridicolo di attaccamento alla materia, un “delirio di realtà” concepito come una sorta di beffardo contrappasso, la madre di Tristana, colpe-vole di un gusto letterario idealistico e essenzialmente romantico che le fa detestare «las modernas tendencias realistas»: doña Josefina, come in un girone dantesco, diventa una maniaca della pulizia, circondata da disinfettanti e antisettici, e costretta da «escrúpulos nerviosos» e «ascos hondísimos» a lavare persino il guscio di un uovo prima di cucinarlo.

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«Mi señor, ¿cómo eres? Mientras más te adoro, más olvido tu fisionomía; pero te in-vento otra a mi gusto, según mis ideas […]»112.

L’estremo più avanzato dell’antirealismo rappresentativo di Tristana consiste in questo manifesto di sovvertimento dei canoni mimetici, in cui l’eroina dimen-tica la presenza di Horacio e si rivolge alla sua “assenza”, si lascia alle spalle il modello reale e lo crea come una larva, un evanescente fantasma del desiderio. Sintomaticamente, nella sua trasposizione filmica del romanzo di Galdós (1970), Luís Buñuel assocerà la vocazione “fantastica”113 della scrittura di Tristana ai pre-supposti creativi dell’avanguardia in cui ha a lungo militato, quel surrealismo, di cui parleremo nel dettaglio nel prossimo capitolo, che deputa l’arte ad espressione della “surrealtà”, rovescio profondo e libertario di ciò che si vede in superficie che si erge a minaccia del patto sociale della borghesia. L’espediente epistolare è coerentemente sostituito nel film dalla spiazzante proiezione onirica dei desideri inconsci di una Tristana che, da vittima deputata, è ormai diventata un temibile angelo vendicatore, secondo un percorso rivoluzionario di rivendicazione della legittima residenza dell’irrealtà, non nel fumoso Aldilà dei fantasmi, ma nel vivo sottosuolo della mente umana.

La ferita nel testo (realismo/antirealismo) non potrebbe essere tracciata in modo più chiaro e troverà una tragica risonanza fattiva nel “taglio netto” di ogni velleità centrifuga che sarà imposto al corpo della sua responsabile. Perversamen-te, per ragioni difficili da giudicare – giacché la rappresentazione “realistica” del terribile contrattacco della società nei confronti di questa sua scheggia impazzita, la matematica scientificità con cui Tristana rientra nella maschera sociale prevista per una donna del suo tempo, si carica di un senso del grottesco e di un’ironia tragica che rende il quadro della ritrovata armonia ancor più destabilizzante del-l’eccentrica fuga –, Galdós interrompe il monologo idealistico della scapestrata protagonista attraverso la “naturale” amputazione fisiologica delle sue prerogative di movimento. I percorsi insondabili di una giustizia poetica che, ambiguamente, si allinea con il coro sociale della Restaurazione e si manifesta con il sintomo di una recrudescenza naturalista dei presupposti materiali e positivi dell’epoca, si abbat-tono sulla temporanea fuggiasca sotto forma di un cancro alla gamba sinistra che, vendetta letteraria contro le sue fantasticherie, le fa perdere l’arto, ancorandola alla terra e sprofondandola, parallelamente, nella rassegnazione e nel mutismo.

L’impressione ultima, ancora una volta, è quella di un divieto, ignorato e pu-nito: ogni volta che l’individuo si permette di immaginarsi come Alterità o in re-lazione all’Alterità, la collettività lo immola, lo emargina o lo “normalizza” per preservare i pilastri di un’identità condivisa.

112 B. Pérez Galdós, Tristana, cit., p. 175. 113 È forse necessario ribadire che nella corrispondenza di Tristana non si scomoda mai il sovrannatu-rale; la non plausibile retorica del desiderio liberato, tuttavia, sembra provocare effetti non dissimili, per chi la pronuncia e per chi la riceve, da quelli di un disturbante discorso d’Alterità.

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1.6 Tre variazioni: il fantastico in epoca modernista

A cavallo tra Ottocento e Novecento, in Spagna come in tutta Europa, la gran-de trama positivista si lacera, incapace di contenere le acute sporgenze del dubbio e le sempre più endemiche sensazioni di precarietà che proprio la scienza, com-piendo un vorticoso giro su sé stessa, comincia a propagare, leggendo il mondo così in profondità da sgranarne l’immagine, svelandone l’invisibilità, cogliendone i tessuti impalpabili ed i rovesci cambianti e metamorfici. La psicanalisi sta per rivelare una stratificazione sommersa ed oscura al di sotto degli impulsi razionali dell’Io cosciente, la fisica quantica scopre l’esistenza di infinitesimali particelle che si annidano dentro la materia e rendono problematica la definizione dello spazio, Bergson fa del tempo una questione di percezione, dipendente dalla risposta di chi ne prova gli effetti. Ogni possibilità di coordinare una definizione univoca del-le cose sembra fluttuare nel mondo, anche senza ipotizzare l’intervento di agenti esterni disturbanti; il territorio della norma consolidata si de-reallizza per forza propria, sulla base di precise spinte interne, e torna a coincidere con un ingoverna-bile rompicapo, disponibile all’azione di preilluministiche inquietudini: il cerchio si è concluso e si ritorna all’inizio. Se associamo a questa serpeggiante difficoltà ontologica la precisa sensazione del sostanziale fallimento del progetto sociale e collettivo che aveva animato le spinte idealistiche dell’uomo ottocentesco (le ri-voluzioni liberal-borghesi che, in Spagna, si rovesciano nell’immobilismo di una Restaurazione intrisa dagli ineludibili segnali di decadenza di un Impero letargico e agonizzante), otteniamo la formula di un millenaristico sgomento che giustifica pienamente l’idea di “crisi finisecolare”, nel senso etimologico di un discrimine, di una difficile “scelta”, di un conato di necessario rinnovamento da affrontare attraverso cammini ancora incerti.

Giacché una crisi della percezione non può che risolversi in una speculare crisi della rappresentazione, l’arte si farà carico di queste nuove tensioni, ponendosi il problema di come rappresentare una “sfocatura” di per sé significante: divarican-do prismaticamente la visione in una sorta di caleidoscopio cangiante di soluzioni espressive differenti, gli esperimenti modernisti sono accomunati da una distintiva insofferenza nei confronti del realismo e delle sue mistificanti pretese di oggettività, “venerando” relitto di un’epoca sconfessata come eredità scomoda e mendace. Le riformulazioni e le rimozioni che si produrranno, tra compiaciute e languide fughe in scenari visibilmente non mimetici ed ironiche, burlesche implosioni dall’inter-no della panoramica realistica, celeranno a fatica la nostalgia per una fermezza di punto di vista ormai perduta e necessariamente diffranta in opachi e destabilizzanti blow-up, fotogrammi parziali ed irrisolti che ingigantiscono mostruosamente una privata – e limitata – parcella di un reale che non restituisce più visioni d’insieme.

Se, dunque, la ricerca letteraria modernista si definisce all’insegna di un esa-sperato soggettivismo che proietta all’esterno le sue stimmate di irresolutezza e diffumina la riconoscibilità del rappresentato e del rappresentabile, non esiste più alcun accordo su ciò che è permesso e concesso all’interno di un reale che è uno,

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nessuno e centomila, ovvero che cambia, a seconda di chi lo guarda, di come lo si guarda e dall’angolazione da cui lo si guarda, venendo meno, in una prospetti-va fantastica, un presupposto fondamentale per il prodursi dell’esitazione, ovvero l’esigenza di un’immagine di realtà condivisa. Se ciò che adesso sta al centro della rappresentazione non è la realtà, ma una realtà, chi mi dice che, nell’eventualità dell’apparizione di un fantasma, essa non sia il frutto di una visione distorta? Da sempre, il racconto fantastico, come abbiamo detto, si serve dell’“escamotage” del-la percezione individuale per ghettizzare nella malattia o nell’errore l’incubo del-l’irreale, per razionalizzarlo, dunque; ma adesso, la “voce autoriale” non garantisce più una norma di lettura e si proclama parziale e inaffidabile quanto quella di un singolo folle: i fantasmi si mimetizzano tra le pieghe della visione sfocata, l’unica possibile e, almeno nelle premesse, non perturbano, giacché la ragione – ciò che agglutinava l’accettabilità collettiva del narrato – ha perduto il suo ruolo deputato e viene associata ad un anacronismo fuori tempo massimo. Le forme dell’irreal-tà modernista (di cui il sovrannaturale rappresenta la frangia più estrema) sono senz’altro meno spaventose e trasgressive di quanto non lo fossero quelle realiste, coincidendo spesso con metafore del desiderio di evasione – più o meno aproble-matico – in recinti fatati e torri d’avorio preziose ed esotiche o con parabole della tragicomica “cecità” di un osservatore ostinato alle prese con un mondo opaco ed assurdo, e sfociando, dunque, in un meraviglioso pienamente accettato o su base poetica o su base allegorica. Eppure, benché la sfuggevolezza sia diventata con-venzione generalizzata priva di un controcampo dialettico che la tenda e la dilati in inquietudine, il quadro modernista, come dicevamo, vive in nervoso dialogo retroattivo proprio con la pienezza di un prima raziocinante ed armonico, contem-poraneamente bersaglio e punto di riferimento, rispetto al quale l’attuale perdita di ogni sapere condiviso e velleità esegetica risuona come una patetica, conturbante deformazione.

La prima variante del riciclaggio di materiali sovrannaturali in ambito moder-nista è da contestualizzare proprio nel volontario esilio estetico di alcuni poeti che, con morbida malinconia e raffinato autocompiacimento, lavano le ferite del fine-secolo nella ricerca esaltata di altri mondi possibili, vere e proprie roccaforti pro-tette in cui l’arte vive nella purezza autosufficiente delle sue forme, in cui il Bello non ha alcuna necessità di confrontarsi con le leggi del verosimile. Le vie della fuga sono plurime ed intercambiabili: scenari esotici (raffinate cineserie o arabiche, stel-late mezzanotti), mitologie pagane popolate da ninfe e fauni, vagheggiamenti di un passato astratto ed a-storico, blasonato ed araldico, favolistici medievalismi abitati da principesse eteree e cigni bianchissimi ecc. Come si può intuire, proprio in que-sta ricerca eterogenea ed eclettica di spazi estetici alternativi, intesi come incantati sigilli di una bellezza irriducibile e ricreata ad hoc in una sorta di campana di vetro protetta dalla volgarità del presente, si disegna il terreno più propizio al dispiega-mento dell’arsenale di immagini fantastiche moderniste. C’è da osservare, però, che l’idea stessa di un’incursione nella meraviglia intesa come privato mito di separa-tezza, avulsa programmaticamente da ogni volontà di confronto con il quotidiano

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e le ragioni collettive del Vero e del Giusto, nonché l’esclusivo interesse poetico per scenari che, a volte, creano cortocircuiti di tipo sovrannaturale, non è affatto fa-vorevole all’innesco della tensione dialettica di cui abbiamo parlato. La stragrande maggioranza dei racconti di Ruben Darío, capo carismatico del modernismo par-nassiano e simbolista, può e deve essere giudicata sulla base di un patto di lettura puramente favolistico, in cui l’ossessione per la bellezza giustifica ogni infrazione senza provocare alcun tipo di sconcerto e senza registrare alcun legame apparente con l’inquietudine razionalistica che ordina i significati della narrazione fantastica vera e propria: la generalizzata sensazione di irrealtà che li caratterizza è alternativa propizia alle banali e notorie ricognizioni verosimili del quadro realista, in cui gli emissari di un mondo dimenticato – o mai esistito, o troppo lontano per essere sottoposto a verifica – sono presenze consustanziali al preziosismo dell’evocazio-ne, insofferente, semmai, ad intrusioni provenienti dal mondo comune. Possiamo parlare di prose poetiche, vicine al meraviglioso puro, nonché del tutto assimilabili alle raffinatissime composizioni in versi del nicaraguense, come dimostra il confine instabile che si stabilisce tra lirica e “narrazione lirica” nei suoi due libri più famosi (Azul e Prosas profanas). Nonostante che l’opera di Darío indugi morbosamente intorno ad atmosfere e vezzi tematici tendenti alla meraviglia, il sovrannaturale della sua musa risulta del tutto assimilato nel prezioso e nell’esotico di cui diventa una delle tante declinazioni possibili: quando in racconti come «El rubí» o «El sátiro sordo» ascoltiamo le voci di gnomi, ninfe e satiri, l’impressione trasgressiva evocata dal riapparire di creature mitologiche in un’epoca post-mitica si riassorbe nel riconoscimento di un codice iper-mediato che, invece di semantizzare come rilevante l’impossibilità naturale dell’evento, si sofferma esclusivamente sulla sua autosufficienza estetica, provocando un effetto del tutto accostabile all’apparizio-ne, tanto frequente nel macrotesto dariano, di un cigno albeggiante, perfettamente “naturale”, eppure, per altra via, allucinata e disomogenea inserzione ultraestetica in un contesto di volgarità e materialismo. Eppure, il trattamento vistosamente non fantastico della fantasia, riscontrabile nelle suggestive evasioni poetiche delle due raccolte maggiori, viene contraddetto da una manciata di racconti sparsi che ci rivelano il caratteristico interesse del raffinato parnassiano per le inquietanti articolazioni narrative di Edgar Allan Poe, al quale Darío dedica anche un impor-tante saggio teorico che, se accostato al “realistico” omaggio di Alarcón, ci svela un’interessante declinazione modernista della formula fantastica più pura.

Proclamare a gran voce la sconfitta del positivismo non significa proteggersi dal rovello intellettuale e dall’ansia di controllo che riformulano in paura la diffi-coltà di comprendere l’Altro. Il tarlo dell’indagine e la minaccia dell’inspiegabile continuano ad insistere anche nei più decadenti e bohemios sostenitori dell’enigma universale: oltre la posa anti-intellettualistica, restano evidenti le fondamenta in rovina di una roccaforte di difesa che delimita i confini del possibile, segnalando, forse con più ammirazione che stupore, l’esistenza di fenomeni “estranei” che in-curiosiscono ed affascinano come prove dell’umana incapacità di vedere e che pre-tendono di essere “studiati” attraverso specifici approcci paralleli. Nel momento

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esemplare dello sgretolarsi del mito razionalista, le zone d’ombra intorno alle quali gira a vuoto l’ostinazione della ragione, le soglie che chiamano in causa l’apertura verso l’ignoto, divengono deputati specchi della precarietà modernista, microco-smi dell’epoca. Caratteristicamente, si reagisce al problematico, non mediato ritor-no del terrore panico pre-illuminista attraverso un atteggiamento sfumato, tra il secolare ed il superstizioso, non tanto attraverso la messa a punto di fabulae tese ad illuminare, appena per un attimo, l’insufficienza della ragione, oramai sconfessata in toto nella sua impresa di lettura globale dell’universo, bensì sperimentando vie di comprensione ibride, saggiando sistemi di pensiero parascientifici e pararazio-nali, dalle maglie più ampie e permissive rispetto a quelle rigide del positivismo, in cui possano trovare sfogo e risposta anche i misteri dell’alterità. Insomma, non si suggerisce più il dubbio dall’interno di uno schema di pensiero saldo e uni-versalmente riconosciuto, bensì, partendo dall’accettazione dello smantellamento del polo razionale, si cerca paradossalmente di studiare e catalogare l’impossibile, ammettendo epistemologicamente la sovrapponibilità tra i todoroviani mondo A e mondo B e, metodologicamente, ipotizzando l’incontro inedito tra un approccio analitico (o suppostamente tale) ed un oggetto di studio che offende e contraddice la logica sperimentale. Tipicamente modernista è, in effetti, la curiosità per le scien-ze occulte, di cui molti scrittori divengono appassionati dilettanti, tanto da rifon-dere nei loro testi teorie ed esperienze provenienti da discipline di svariata natura e provenienza (filosofie orientali, dottrine ermetiche, spiritismo, teosofia ecc…), che si saldano in un pasticcio sincretico di approcci eclettici, spesso mal digeriti e citati approssimativamente come un grande calderone di appetitose “novità” culturali, attraverso cui, con caratteristico ed entusiastico snobismo, ci si propone il compito di aprire il terzo occhio al pavido uomo finisecolare o, per lo meno, di riempire l’inquietante voragine scavata dallo sprofondamento del pilastro razionale. Il rac-conto fantastico modernista inizia, quasi sempre, con una sorta di accumulazione caotica (in cui il nervoso affastellarsi di elementi eterogenei cela a fatica la vertigine del vuoto) di credenze esoteriche, atta ad approntare un’adeguata gabbia teorica che contestualizzi l’avvento del “fantasma”: il luogo testuale preliminare – occupa-to, nella leggenda romantica, dalla descrizione di un ambiente sinistro e misterioso pronto a ricevere la trasgressione, suggestionando poeticamente il lettore o, nel fantastico realista, dall’esposizione delle credenziali di affidabilità positivista del narratore – adesso è riservato ad una richiesta di complicità estremamente ambi-gua, che inserisce la tipologia testuale che presenta in una zona intermedia tra let-teratura e scienza, mostrando di voler “iniziare” il lettore ad un sapere innovativo, rivelandogli le chiavi di un necessario ampliamento dei parametri del reale. Ciò che seguirà sarà, dunque, uno “strano caso”, un esempio adeguato o, in alcuni casi, un apposito esperimento parascientifico utilizzato retoricamente per comprovare l’esistenza, nel reale, di leggi ancora ignote ma di cui le nuove dottrine di gran moda, ancora oscure ai più ed il cui funzionamento è avvolto da un conturbante alone sacrale, ci viene assicurato, si stanno convenientemente occupando114. Si am-

114 Come sarà facile notare, sfumando la scienza in parascienza, la funzione dell’esperimento nel testo

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bisce, dunque, ad un fantastico spiegato – contraddizione in termini sia dal punto di vista letterario che del senso comune – che non arriva ad essere meraviglioso puro a causa dell’aura enigmatica che fluttua attorno ai sistemi di studio dell’oc-culto, non in grado di produrre l’impressione di un sapere realmente condiviso, nonché a causa del distacco ironico che, oltre la posa iniziatica in cui si nascondo-no, gli autori modernisti spesso conservano rispetto alle scienze esoteriche, le cui “scoperte”, seppure irresistibili e culturalmente attraenti, si confondono con la più volgare ciarlataneria. Ciononostante, il fantastico modernista rappresenta senz’al-tro un primo momento di decadenza dell’equilibrio del genere, una strada senza uscita, preludio alla sentenza di morte novecentesca pronunciata da Todorov: una volta che queste teorie si saranno stabilizzate ed avranno raggiunto i loro obiettivi teorici, non ci sarà più di che esitare di fronte alle più impronunciabili alterazioni della realtà!

Ruben Darío, appassionato cultore e studioso di occultismo, nonché membro della Società Teosofica Universale di M.me Blavatsky, famosa spiritista che spes-so compare nei salotti degli artisti del modernismo internazionale che, tra l’altro, spesso e volentieri, la ritraggono e la citano nei loro scritti, nel saggio «Edgar Poe y los sueños», illustra alla perfezione l’incontro tra la narrazione di fantasmi, ormai divenuta patrimonio acquisito della letteratura universale, e i pruriti esoterici fini-secolari, trattando lo scrittore angloamericano, più che come un abile architetto di perfetti congegni della paura e del mistero (aspetto, per così dire, tecnico su cui si era soffermata quasi esclusivamente la lettura di Alarcón, concentrata sul parados-so della razionalistica gestione narrativa della suspense), come un visionario ed un “medium”, capace di trasporre in scrittura le rivelazioni enigmatiche e nebulose dello stato onirico, in cui l’uomo si troverebbe a contatto con significati segreti che gli sarebbero preclusi durante la veglia. Facendo di Poe, per certi versi, un precur-sore degli esperimenti automatici dei surrealisti e, al contempo, riconsegnandone l’ispirazione all’ambito della febbrili fantasticherie dei romantici, Darío disinnesca la tenzone immaginativo-razionale della formula fantastica, facendola coincidere con una cerimonia di rivelazione della conoscenza profonda e vietata, e descriven-do «lo fantástico» come un caso particolare de «lo onírico»:

El triunfo del gran yanqui […] es el haber logrado comunicar con los recursos de su idioma, algo de lo que aprendió a percibir en el reino místico y en los imperios de la sombra. Creeríase que bajo su cráneo lucía un firmamento especial. Y tiene expre-siones, modos de decir que solamente pueden compararse a algunos de los libros sagrados115.

modernista, contraddicendo l’assioma rigoroso ed estremamente fruttifero per la successiva evolu-zione della narrazione fantastica dell’elisione reciproca dei termini di “esperienza” e “meraviglia”, appare completamente ribaltata rispetto a quanto avveniva in epoca illuminista, tendendo non a confondere, bensì a giustificare l’esistenza dei fantasmi.115 R. Darío, Cuentos fantásticos, Alianza, Buenos Aires, 2001, p. 101.

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La gestione iniziatica della visione sovrannaturale, che rimane implicita nelle solide e sobrie narrazioni di Poe – qui sottoposte ad un falsificante processo di acclimatamento culturale –, diventa compiaciuta divulgazione salottiera in bocca ai narratori fantastici cui Darío è solito delegare – forse in un ultimo barlume di lucidità o di ironica civetteria – la rivelazione dell’assurdo. Sono sovente delle voci vicarie, infatti, ad occuparsi di narrare il “caso”, quasi una scusa per ingolfare l’enunciazione di continui e divaganti approfondimenti teorici “specialistici”, per compendiare ed ostentare enciclopedicamente i percorsi deliranti di una vita dedi-ta allo studio dell’occulto.

«El caso de la señorita Amelia» è un bell’esempio di questa tendenza. In un «precioso comedor rococó» in cui alcuni raffinatissimi ed annoiati intellettuali di fine secolo hanno appena salutato il nuovo anno stappando bottiglie di pregiato champagne, assistiamo ad un intersecarsi di due punti di vista più o meno suscet-tibili al fascino del sovrannaturale, al dialogo tra due voci più o meno “iniziate” delle quali, caratteristicamente, nessuna si prende la briga di difendere la bandiera di uno scetticismo razionalista decisamente demodé. Un primo anonimo narratore funge da testimone della cerimonia e media la narrazione incorniciata del dottor Z a favore del lettore extratestuale secondo la consueta architettura a cornice che abbiamo imparato a riconoscere. Se ne «La mujer alta», tra narratore e ascoltatori della narrazione incorniciata si polarizzavano le reazioni possibili di fronte all’as-surdo divaricandosi le possibilità di lettura esterna tra un riconoscimento, comun-que, inquieto e destabilizzante e una sconfessione ferrea, problematizzata da alcune prove inconfutabili, nel selezionatissimo salotto modernista, nessuno si permette di confutare l’enunciato sovrannaturale del dottor Z, che si presenta come una vera e propria autorità in ambito parascientifico. La scintilla del racconto si produce a partire da una frase innocente e languidamente pronunciata dal primo narratore, cui fa seguito la seriosa dimostrazione “sperimentale” dello studioso esoterico:

– ¡Oh, si el tiempo pudiera detenerse!La mirada que el doctor me dirigió y la clase de sonrisa que decoró su boca después de oír mi exclamación, confieso que hubiera turbado a cualquiera.– Caballero – me dijo saboreando el champaña – ; si yo no estuviese completamente desilusionado de la juventud; si no supiese que todos los que hoy empezáis a vivir estáis ya muertos, es decir, muertos del alma, sin fe, sin entusiasmo, sin ideales, cano-sos por dentro; que no sois sino máscaras de vida, nada más… sí, si no supiese eso, si viese en vos algo más que un hombre de fin de siglo, os diría que esa frase que acabáis de pronunciar: «¡Oh, si el tiempo pudiera detenerse!», tiene en mí la respuesta más satisfactoria.[…]– Sí, os repito que vuestro escepticismo me impide hablar, como hubiera hecho en otra ocasión116.

116 Ibid., p. 41.

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I tempi sono molto cambiati da quando il narratore di un fatto assurdo do-veva dichiararsi «positivista como el que más»117 per poter contare sull’attenzione di un pubblico: il racconto di un aneddoto che sarà fatto di accostare ad una di-mostrazione sul campo delle teorie di Bergson sulla relatività del tempo rischia di non prodursi a causa di una reticenza governata da una logica inversa, in cui è il narratore a diffidare dell’adeguata lungimiranza e “fede” del suo uditorio, che potrebbe non meritarsi la rivelazione, impaludato nelle risacche di un razionalismo attardato. Immediatamente, per non sfigurare in società, il primo narratore, che qui occupa il ruolo dell’ascoltatore, dell’adepto da condurre ad un nuovo stadio di conoscenza, si affanna a mostrare credenziali di empatia ricettiva tutte nuove:

– Creo – contesté con voz firme y serena – en Dios y su Iglesia. Creo en los milagros. Creo en lo sobrenatural118.

Dopo una topica dichiarazione di sfiducia nelle possibilità della scienza di risolvere l’enigma del reale («¿Quién es el sabio que se atreve a decir esto es así? Nada se sabe. Ignoramus et ignorabimus»119) – che tanto ricorda e quasi parafrasa, se non fosse per il sapore compiaciuto ed un po’ snob che qui sostituisce il sincero turbamento di tanti positivisti in scacco, l’esordio dell’ingegnere Gabriel nel rac-conto di Alarcón –, il dottor Z ci fa un ritratto di sé e dei suoi peculiari percorsi di conoscenza, indulgendo in un’egocentrica dissertazione parascientifica che mette alla prova l’attenzione e la pazienza delle signorine adagiate sui divani:

yo que he penetrado en la cábala, en el ocultismo y en la teosofía, que he pasado del plano de la materia del sabio al plano astral del mágico y al plano espiritual del mago, que sé como obraba Apolonio el Thianense y Paracelso, y que he ayudado en su labo-ratorio, en nuestros días, al inglés Crookes; yo que ahondé en el Kharma búdhico y en el misticismo cristiano, y sé al mismo tiempo la ciencia desconocida de los fakires y la teología de los sacerdotes romanos, yo os digo que no hemos visto los sabios ni un solo rayo de la luz suprema, y que la inmensidad y la eternidad del misterio forman la única y pavorosa verdad120.

Proprio tutto ha visto e mischiato questo indefesso studioso dei segreti del-l’umanità che ammette il suo fallimento affascinato ed intrigato dal sussistere del-l’enigma. Quasi intuendo – e segnalando testualmente – la diluizione della tensio-ne narrativa derivante da un approccio dimostrativo e filosofeggiante al racconto dell’Altro, il rappresentante del coro degli ascoltatori risponde con un invito ad arrivare al punto della questione:

117 P. A. de Alarcón, Narraciones inverosímiles, cit., p. 92.118 R. Darío, Cuentos fantásticos, cit., p. 41.119 Ibid.120 Ibid., p. 42.

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– Me parece que íbais a demostrarnos que el tiempo…– Y bien – dijo –, puesto que no os placen las disertaciones por prólogo, vamos al cuento que debo contaros […]121.

Ventitré anni fa, il dottor Z viveva a Buenos Aires in una casa confinante con quella di tre leggiadre fanciulle, di cui la più piccola, una bambinetta di appena dodici anni di nome Amelia a cui aveva l’abitudine di regalare ogni giorno dei bonbon, diviene l’oggetto prediletto del suo affetto. Per ragioni di “studio”, giac-ché «la amistad epistolar que mantenía con madama Blavatsky habíame abierto ancho campo en el país de los fakires»122, il sedicente dottore si reca in India, una delle mete mistiche per eccellenza dell’immaginario modernista, con l’intenzione di cercare «lo que mis ojos ansiaban contemplar», ed intraprende poi un viaggio febbrile intorno all’orbe dello scibile, grazie al quale dichiara di essere arrivato alle soglie più estreme della conoscenza, sull’orlo del «casi comprender y aún […] conocer íntimamente a Satán, Lucifer, Beelzebutt, Asmodeo, Belphegor, Mabe-ma, Lilith, Adrameleh y Baal»123. Di ritorno a Buenos Aires dopo più di vent’anni d’assenza, desidera rivedere le sue vecchie amiche. Giunge nella loro casa, dove viene accolto dalle due sorelle maggiori soltanto; all’improvviso, spunta nel salotto, salterellando, una bambina «cuyo cuerpo y rostro eran iguales en todo a los de mi pobre Amelia»:

Se dirigió a mí y con su misma voz exclamó:– ¿Y mis bombones124?

La conclusione è sbrigativa ed esemplarmente assertiva, perfettamente coe-rente con la personalità e le premesse di questo eccentrico iniziato, disponibile ad ammettere l’esistenza dell’ignoto e, forse, fiducioso nel “fantascientifico” rinveni-mento di più adeguate griglie di lettura:

Luego lo he sabido todo. La niña que yo creía fruto de un amor culpable es Amelia, la misma que yo dejé hace veintitrés años, la cual se ha quedado en la infancia, ha contenido su carrera vital125.

Il discorso fantastico, presto scartati i puerili palliativi di una spiegazione con-forme ai paradigmi del naturale, adesso pronuncia senza sfumature l’indicibile («la niña […] es Amelia») ed, anzi, si sofferma a spiegare, quasi tecnicamente, il mec-canismo dell’infrazione tramite le osservazioni a margine di un parascienziato, di un esperto, che si rifiuta di parlare la lingua dell’uomo comune e di assumerne

121 Ibid., p. 44.122 Ibid.123 Ibid.124 Ibid., p. 45.125 Ibid., pp. 45-46.

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il punto di vista. Toccherà allora al primo narratore non il compito di bloccare surrettiziamente – attraverso un malizioso suggerimento di irrealtà – i meccanismi razionalizzanti innescati all’interno della cornice (come avveniva nel racconto di Alarcón), bensì quello di sfumare ironicamente il delirio di sapienza ermetica del dottor Z, accostando il suo tentativo di relativizzare lo scorrere lineare del tempo all’impietosa visione del suo umano decadimento:

El doctor Z era en este momento todo calvo…126

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Potremmo affermare che l’unica riconoscibile variazione del fantastico puro in epoca modernista sia proprio quella, appena descritta, della deriva occultista e parascientifica, in cui l’enunciazione dell’inspiegabile perde vigore e tensione narrativa andando a parare nel vicolo cieco di un vistoso tentativo di desacralizza-zione dell’Aldilà – o dovremmo parlare di un’aura sacrale e mistica che viene ad ammantare proprio l’“aldiquà”, facendo perdere lucidità a chi vi abita? –, un tem-po innominabile bersaglio di scongiuri ed anatemi ed adesso divenuto improbabile oggetto di studio.

Prima di passare ad occuparci delle tragicomiche trasgressioni con cui l’al-legoria filosofica di Unamuno inculca nei lettori l’idea della nebulosa precarietà ed inconsistenza dell’esistere, consideriamo un caso particolare di fuga decadente in un paradiso estetizzante che, nel caso del racconto in questione, assomiglia ad un “bellissimo inferno”: in «Beatriz (Satanás)» (1907) di Ramón del Valle-Inclán, anche il Male viene riscattato letterariamente come meta privilegiata di un raf-finato esilio da un presente insulso e deludente. Contestualizzabile accanto alle favole mitologiche di Darío, quelle che abbiamo definito “meravigliose”, nel filo-ne della convocazione prettamente estetica di scenari e ambientazioni lontane nel tempo e nella stratificazione culturale, permeabili alla manifestazione contestuale del sovrannaturale, si fa notare per l’acquisizione dei “luoghi” testuali del sinistro e dell’inquietante alle mete privilegiate dell’evasione modernista. Il racconto è un rito, una cerimonia liturgica della parola arcana e connotata arcaicamente, atta a ri-costruire un mondo decaduto di nobiltà e rigore, a convocare testualmente il senso di un passato blasonato ed araldico. La scrittura crea una sorta di recinto incantato atto a mummificare, a conservare come una reliquia, uno scenario orgogliosamente antitetico rispetto alla volgarità del presente, in cui cerca ristoro l’esasperato este-tismo del poeta modernista, che consegna il significato dell’arte, l’unico possibile, alla melodiosità della prosa ed alla minuziosità descrittiva, miniata come su di un codice medievale con certosina meticolosità. Tale recinto dell’ideale, ovviamente, essendo evocato ad hoc dall’utopia dell’arte a partire dalla coscienza finisecolare

126 Ibid., p. 46.

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di una necessaria decadenza, non può che mostrarsi intimamente minato da una mortale insidia, da una malattia innominabile (tema modernista per eccellenza). Ne notiamo segni evidenti nell’ambientazione, la stessa delle celebri quattro Sona-tas dello scrittore gallego:

Cercaba el palacio un jardín señorial, lleno de noble recogimiento. Entre mirtos se-culares blanqueaban estatuas de dioses. ¡Pobres estatuas mutiladas! Los cedros y los laureles cimbreaban con angusta melancolía sobre las fuentes abandonadas. Algún tritón, cubierto de hojas, borboteaba a intervalos su risa quimérica, y el agua temblaba en la sombra, con latido de vida misteriosa y encantada127.

All’interno del vetusto, rovinoso palazzo, un’innominata Contessa vive «con los ojos vueltos hacia el pasado. ¡Ese pasado que los reyes de armas poblaron de leyendas heráldicas!»128, reclusa viva tra le reliquie del lontano prestigio della sua stirpe, mentre sua figlia si sta spegnendo, agonizzando tra terribili patimenti. I ritratti dei protagonisti, così come gli scenari in cui si muovono, non sembrano ri-prodotti dal vero, portano i marchi della sofisticazione, apparendo come copiati da cammei ed antichissime stampe. Risvegliando come da un incantesimo la Contessa adagiata «sobre el canapé de damasco carmesí» in una «tarde adusta e invernal» («sus dedos, lirios blancos aprisionados en los mitones de encaje»), la giovane Bea-triz viene introdotta dalle sue grida strazianti che penetrano nella stanza agitando l’oscurità, palpitando «en el silencio como las alas del murciélago Lucifer»129. Il cappellano di palazzo, Fray Ángel, si fa il segno della croce e attribuisce, senza alcun scrupolo razionale, una causa certa a cotanta sofferenza:

– ¡Válgame Dios! Sin duda el Demonio continúa martirizando a la Señorita Bea-triz130.

Non ci sono dubbi: si tratta di una possessione demoniaca. L’innocente Beatriz, pallidissima e morbidamente sensuale, languisce nel suo letto (viva incarnazione della finisecolare maladie del poeta modernista) per opera di Lucifero. L’impres-sione, però, è quella di un rigoglio ipertrofico del segno a sfavore del contenuto, per quanto trasgressivo e scandaloso possa quest’ultimo apparire:

La niña, con los ojos extraviados y el cabello destrenzándose sobre los hombros, se retorcía. Su rubia y magdalénica cabeza golpeaba contra el entarimado, y de la frente, yerta y angustiada, manaba un hilo de sangre. Retorcíase bajo la mirada muerta e in-tensa del Cristo: un Cristo de ébano y marfil, con cabellera humana, los divinos pies

127 R. del Valle-Inclán, Jardín umbrío: historia de santos, de almas en pena, de duendes y de ladrones, Espasa-Calpe, Madrid, 1979, p. 33.128 Ibid.129 Ibid., p. 35.130 Ibid.

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iluminados por agonizante lamparilla de plata. Beatriz evocaba el recuerdo de aquellas blancas y legendarias princesas, santas de trece años ya tentadas por Satanás131.

Beatriz è un’evocativa citazione arcaica all’interno di un quadro tristemente sbiadito. Alcuna infrazione naturale è dato percepire all’interno di un mondo così vistosamente fittizio. Ogni cosa, anche l’intervento del diavolo, avviene senza ce-sure all’interno dell’ordine supremo della cerimonia estetica: tutto è perfettamente contestuale alla preziosa liturgia della parola. Tant’è vero che quando ci rendiamo conto che l’infestazione diabolica asserita con formula piena non è altro che un infame inganno macchinato da un malefico, degenerato servo di Dio, gli equilibri del testo rimangono pressoché invariati. Proseguendo con la narrazione, si scopre che Fray Ángel ha ripetutamente abusato sessualmente della Contessina, provo-candone i naturali tormenti, e che il riferimento demoniaco deriva dall’esplosione – letterale e poi traviata – dell’accostamento di parole del titolo, che gioca con il topos dell’ambigua reversibilità dei canoni di innocenza e perversione. Se l’identità angelicata di Beatriz, il cui nome contiene il marchio della purezza, può ospitare l’alterità del demonio che – convenientemente alla sua natura e tradizione – si presenta sotto mentite spoglie, il titolo, come un sentenzioso motto araldico o un acertijo, ci rivela sì il simbolismo alla base del testo, ma offrendo una pista falsa, un indizio fasullo, alludendo, piuttosto, alla diabolica duplicità di un altro personag-gio “angelicato”: il fidato Fray Ángel, che violenta la contessina su istigazione di Satana. A conferma della gestione prettamente testuale del sovrannaturale vallein-clanesco – e dell’assoluta impassibilità con cui si segnala l’instabile confine tra Bene e Male e tra interpretazioni normative e trasgressive di una realtà così vistosamente mediata da pesanti filtri estetici –, scoperto l’orrendo tradimento, non si fa altro che ribaltare l’orazione devota dell’esorcismo in una formula inversa, pronunciata da una strega centenaria (anch’essa definita «una reliquia»), appositamente fatta chiamare a castello per maledire il frate criminale:

– ¡Satanás! ¡Satanás! Te conjuro por mis malos pensamientos, por mis malas obras, por todos mis pecados. Te conjuro por el aliento de la culebra, por la ponzoña de los alacranes, por el ojo de la salamantiga. Te conjuro para que vengas sin tardanza y en la gravedad de este círculo del Rey Salomón te encierres y en él te estés sin un momento te partir, hasta poder llevarte a las cárceles oscuras del infierno el alma que en este espejo agora vieres132.

Testo dentro il testo, liturgia dentro la liturgia, anche l’orribile litania demo-niaca è un locus protetto e preservato dentro una preziosa nicchia, testimonianza dell’assunzione modernista dei materiali dell’alterità spaventosa a patrimonio cul-turale di reazione con cui curare sdegnosamente l’orrenda malattia del presen-

131 Ibid., pp. 43-44.132 Ibid., p. 48.

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te. Come deve succedere, all’interno di un ordine perfetto e sicuro, pur nella sua estraneità, il mattino seguente, Fray Ángel verrà ritrovato annegato nel fiume con la testa staccata dal corpo.

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Senza alcuna pretesa di esaurire i significati di un’opera studiatissima e ricca di sfaccettature – né di riassumerne qui gli itinerari critici più praticati – vorrei proporre una lettura “fantastica” del trentunesimo capitolo di Niebla di Miguel de Unamuno, testo esemplare, oltreché della poetica “agonica” e della visione barocca del mondo del suo autore, della precaria posizione metafisica dell’uomo finisecola-re. Come dicevamo all’inizio, la caratteristica sfuggevolezza di un mondo in deca-denza e di nuovo opaco dopo il tramonto dei miti razionalistici della seconda metà dell’Ottocento ha ricadute letterarie non solo meramente centrifughe ma produce anche disarmanti fabulae allegoriche che, invece di evaderla, rovesciano carnevale-scamente l’immagine di realtà prodotta in ambito realista, svelandone cinicamente il carattere fittizio. Niebla è l’autoproclamato antiromanzo realista, un romanzo sghembo ed incerto, privo di eroi e di trame riconoscibili che fa della propria inconsistenza narrativa lo specchio ideale del proprio, comunque dubitativo, mes-saggio filosofico: la nebulosità ed endemica inconsistenza della condizione umana, di cui la letteratura, divenuta opaca ed autocosciente, non è più immagine fotogra-fica, bensì essenziale metafora. Riattivando il topos calderoniano del gran teatro del mundo, della vita come rappresentazione e farsa, il romanzo della niebla (nivola, e già non novela, secondo l’accorto neologismo unamuniano) sceglie di declinare la sua visione della precarietà segnalando il “fantastico” interagire su di un unico piano di personaggi letterari e persone suppostamente reali: mutatis mutandis, con scopi ben diversi e senza la rete protettiva di un accomodante “risveglio” finale, la stessa situazione narrativa de «La novela en el tranvía» di Galdós.

Un personaggio di nome Augusto, burattino incapace di districarsi nell’im-broglio della sua esistenza, matura l’idea di suicidarsi e decide di consultarsi in proposito con un esperto in materia, il saggio filosofo Don Miguel de Unamuno, il quale prende la parola in prima persona e assiste all’avvento inconcepibile del-l’eroe letterario da lui creato nel suo studio di Salamanca:

Cuando me anunciaron su visita sonreí enigmáticamente y le mandé pasar a mi despa-cho-librería. Entró en él como un fantasma […]133.

Inconsistente simulacro immaginativo, Augusto Pérez appare come un “fan-tasma”: viene a perturbare la routine quotidiana del suo autore, trasformando il suo ufficio in uno spazio vietato e sospeso, irrispettoso della ferma opposizione tra reale ed immaginario, della convenzione dell’assoluta non sovrapponibilità della

133 M. de Unamuno, Niebla, Cátedra, Madrid, 1999, p. 277.

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vita e della letteratura. Il dialogo che si innesca fra i due è conseguenza di una vistosa trasgressione fantastica, ma l’esitazione del lettore viene immediatamente risolta grazie all’evidente intenzione allegorica che gestisce l’incontro, da leggersi come exemplum del supremo rendiconto finale di ogni uomo al cospetto dell’aut-rità suprema che ne gestisce l’istanza vitale (Dio, il destino ecc…). Unamuno riceve una visita inconcepibile, l’emissario di un altro mondo, che non si configura però come semplicemente parallelo a quello della realtà, ma che vi è legato da un rap-porto gerarchico, che vi è in qualche modo contenuto (costituendo la proiezione immaginaria di quello reale) e si trova, dunque, in una posizione di compiaciuta superiorità che lo rende un soggetto paziente del tutto non funzionale, cocciuta-mente ancorato a dogmi inoppugnabili. Tant’è vero che le cose si ribaltano, ed è il rappresentante della Realtà a configurarsi agli occhi di Augusto, ignaro della propria esistenza puramente fittizia, come una sorta di inconcepibile Entità, miste-riosa ed enigmatica:

[…] Me miró con ojos de verdadero terror y como quien mira a un ser increíble; creí notar que se le alteraba el color y traza del semblante y que hasta temblaba. Le tenía yo fascinado.– ¡Parece mentira! – repetía –, ¡parece mentira! A no verlo no lo creería… No sé si estoy despierto o soñando…134

È Augusto a patire gli effetti percettivi dell’esperienza d’irrealtà (stupore-esi-tazione-blocco conoscitivo), a vedersi sottratte le coordinate della propria norma vitale, costretto addirittura a palpare le sue carni per comprovare la veridicità della propria condizione, giacché Unamuno, cosciente del proprio sinistro ascendente, gioca con lui come il gatto col topo, sottraendogli una ad una le sue certezze e ren-dendo il suo mondo improvvisamente inabitabile: il lettore, per naturale empatia, si sintonizza con il legittimo dramma di un aparecido, parteggia per il “fantasma”, intuendo il paradosso dell’allegoria. Nell’ottica di un personaggio, rappresentando l’universo extratestuale, un autore proviene dall’Aldilà, da un confine vietato, la cui percezione fa tremare i suoi parametri di realtà. Questo meccanismo potrebbe ripetersi all’infinito secondo il meccanismo delle scatole cinesi: così come per i personaggi letterari esistono gli autori, i loro fantasmi di alterità, per le persone “reali” si può ipotizzare l’esistenza di un Dio impassibile che potrebbe avanzare le stesse pretese sulle sue creature, stancandosi di loro e smettendo di sognarli. Con rovello scopertamente romantico (che chiama in causa, come unica strategia di di-fesa, l’insubordinazione luciferina esproncediana), Unamuno sta rappresentando il Responsabile dell’esistenza umana come un’Entità perturbante che minaccia di de-realizzare il nostro vissuto.

Accettata la proiezione metafisica del gioco metaletterario, il lettore è educato circa la natura fantasmale della propria esistenza ed è pronto – direi quasi costret-

134 Ibid., pp. 277-278.

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to –, a difendere con Augusto le ragioni dell’irrealtà, schierandosi con l’agonica volontà, con «la pasión de vida» di un’ombra che il razionalismo cartesiano di un Autore cinico e bacchettone135 sta sconfessando senza esitazioni:

– […] Usted ha manifestado dudas sobre mi existencia…– Dudas no – le interrumpí – ; certeza absoluta de que tú no existes fuera de mi pro-ducción novelesca136.

Ridisegnando i giochi di forza e le simpatie percettive dell’esperienza fantasti-ca e suggerendo la maliziosa intercambiabilità di ruolo tra proiezioni spirituali e consistenze terrene, Unamuno sconfessa la definizione del limite dietro al quale la cultura del raziocinio post-illuminista ha difeso le proprie certezze, nascondendo nel racconto dell’inquietudine la vertigine della propria inconsistenza. E se l’Altro, il non reale, si dimostrasse più vitale, umano e persistente dell’Io che lo convoca e si prende l’arbitrio di basare la propria esistenza sulla sua esclusione?

Come in uno specchio rovesciato, scialbi assiomi naturali e trasgressive auto-nomie immaginative dialogano senza incontrare punti d’incontro:

– No, no existes más que como ente de ficción; no eres, pobre Augusto, más que un producto de mi fantasía y de las de aquellos de mis lectores que lean el relato que de tus fingidas venturas y malandanzas he escrito yo […][…]– No sea, mi querido don Miguel – añadió –, que sea usted y no yo el ente de ficción, el que no existe en realidad, ni vivo, ni muerto… No sea que usted no pase de ser un pretexto para que mi historia llegue al mundo…137

135 Il “personaggio” dell’Autore, in Niebla, non è da leggersi come autorizzato alter-ego dell’autore reale Don Miguel de Unamuno, bensì come dissacrante parodia dell’autore realista.136 M. de Unamuno, Niebla, cit., p. 279.137 Ibid.

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Capitolo 2

Il desiderio poetico dell’altro:l’irrazionale surrealista

2.1 L’alterità come dogma

Pernio centrale del presente capitolo è la ricognizione dei percorsi di accli-matazione culturale del surrealismo francese nella penisola iberica. Non ci si oc-cuperà tanto di valutare i profondi cambiamenti che la prassi e la teoria dell’arte surrealiste – come ampliamente segnalato, in ambito italiano ad esempio da Remo Ceserani e Angela Guidotti1 – hanno provocato nella narrazione fantastica di inizio Novecento, bensì di leggere il funzionamento immaginario del testo surrea-lista in genere come riscrittura inversa della struttura fantastica, intravedendovi un violento punto di svolta (o di non ritorno) per quanto riguarda la rappresentazione poetica dell’irrazionale2, prontamente sottoposto a riformulazioni e rifusioni tese a smussarne l’estremismo nei grandi libri “surrealisti” spagnoli. Se, a livello pro-fondo, benché ne suggerisse l’oscura percezione e ne segnalasse il fascino enigma-tico, era la paura dell’irreale a controllarne e gestirne l’articolazione letteraria nel racconto fantastico ottocentesco, nel testo surrealista assistiamo ad un completo ribaltamento di tale prospettiva: adesso, lo scrittore, portando alle sue estreme

1 Cfr. R. Ceserani, La narrazione fantastica, cit.; A. Guidotti, Surrealismo e fantastico nel Novecento, Marzorati Editalia, Roma, 1999.2 È necessario chiarire in sede preliminare che l’accostamento che qui propongo tra narrazione fan-tastica e scrittura surrealista si basa esclusivamente sulle rispettive ed opposte concezioni dell’im-maginazione – e della possibilità espressiva estrema che da essa deriva, ovvero quella di immagina-re “oggetti” realisticamente impossibili, sovrannaturali – e non sulle rispettive articolazioni testuali dell’esperienza della trasgressione che funziona a livelli assai differenti, non venendo mai, nel testo surrealista, a suggerire l’abbattimento di frontiere ontologiche. Infatti, occupandoci adesso, quasi esclusivamente, di testi non narrativi e non “letterali” (bensì poetici e metaforici), seguendo l’in-dicazione di Todorov di un’incompatibilità tra “modo fantastico” e convenzione della poesia, ogni rottura del “possibile”, ogni infrazione del confine tra reale e illusorio, risulta pienamente giustificata dalla natura polimorfica della lingua lirica, tendente, per definizione, non tanto a “rappresentare” ma a “significare”, più o meno arbitrariamente, nel codice specifico del singolo poeta.

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conseguenze la posa vaticinante e visionaria della linea romantico-simbolista, de-puta lo spazio testuale alla libera, autonoma interazione di immagini di irrealtà non controllate, mediate o giudicate a partire da alcun principio di controllo o di or-dine riconoscibile, “rappresentando”, dunque, un inammissibile aldilà semantico, adesso del tutto vietato alle incursioni normative e normalizzanti provenienti dallo spazio del noto (o del notorio), quello della ragione e dell’etica, che un tempo fun-zionava come teatro necessario e parametro contrastivo alla luce del quale valutare ogni proiezione dell’ombra, ma le cui funzioni e vessilli, adesso associate all’odiato catafalco del modello borghese, sono chiamati a rimanere fuori dal circolo imma-ginifico del veggente spiritista.

L’avvento dell’intransigente messaggio d’irrealtà del surrealismo – che, come vedremo a breve, si basa su di una paradossale, almeno nominale, rivendicazione della piena appartenenza dell’alterità non sopra od oltre, bensì infra o sotto le tra-me fitte di un’identità umana resa sfuggente ed enigmatica dalle recenti scoperte psicanalitiche – viene preparato da una serie di movimenti provocatori ed icono-clasti che, pur serbando profili definiti e peculiari, in questa prospettiva, possono essere intesi come altrettanti passi avanzati nella direzione della meta surrealista: mi riferisco ai differenti “-ismos”3 che nei primi due decenni del secolo sembrano susseguirsi senza soluzione di continuità sulla scena artistica europea, sfocando il fatto estetico sino ad una totale astrazione, escludendo in modo programmati-co dalla “rappresentazione” ogni barlume di riconoscibilità mimetica ed esiliando fuori dal recinto le “forme vive”, quelle che rimandano al contesto del reale ed alle pulsioni coscienti di chi vi abita. Per comprendere la differenza di programma tra prime avanguardie e surrealismo, è necessario prestare grande attenzione alle paro-le, alle formule di rottura in cui, manifesto dopo manifesto, si tenta di racchiudere la cifra del rinnovamento: la sfida antirealistica è la stessa, ma le declinazioni della matrice irreale adesso violentemente chiamata ad occupare il proscenio dell’arte cambiano sintomaticamente. In reazione a quella che Walter Benjamin definisce la “mercificazione dell’arte” (alla sensazione dell’illecito assorbimento dell’oggetto artistico nelle logiche del consumismo borghese), possiamo dire che, nei primi “-ismos”, l’accento è posto sull’opacizzazione dei codici comunicativi: senza più tentare di mediare in alcun modo l’impatto ricettivo a favore di un pubblico che non deve poter contare su alcun appiglio familiare nel suo vano e velleitario ten-tativo di decodifica, l’opera d’avanguardia si svincola dall’onere dell’espressione di un significato compiuto e vive della combinazione – astrusamente irrazionale o matematicamente guidata da logiche interne – di significanti che non “riferiscono” e che vivono di vita propria. È assolutamente sintomatica al riguardo la fortuna-ta etichetta coniata in Spagna nel 1925 da José Ortega y Gasset, nel suo celebre studio della nuova poesia intitolato La deshumanización del arte. Con in mente la

3 Il termine ha un’origine scherzosa nel libro Ismos (1931) di Ramón Gómez de la Serna, autore pila-stro del primo vanguardismo spagnolo, rappresentato alla perfezione dai suoi infaticabili découpages e riassemblaggi, animati da una scanzonata vena umoristica.

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prassi creativa e le teorie delle due avanguardie autoctone per il mondo ispanico, creacionismo e ultraismo, il fondatore de La Revista de Occidente (organo di diffu-sione tra i più importanti della generazione “disumanizzata”) sigla in cinque punti essenziali il modus operandi degli artisti nuovi: programmatica impopolarità (giu-stificata sulla base delle caratteristiche successive), rimozione dall’opera di inutili scorie di “realtà” (secondo un vistoso silenziamento della referenzialità del segno), disumanizzazione (rifiuto di accattivarsi l’attenzione del pubblico seducendolo, per immedesimazione, secondo il procedimento della “commozione” romantica: nell’opera è vietata ogni forma di partecipazione emotiva), mancanza di ogni vel-leità “trascendentale”4 (e, dunque, giocosità, gratuità, “arte sportiva”) e ricono-scimento di un ruolo fondamentale per l’immagine (la metafora d’avanguardia, veicolo di alcunché, autonoma proliferazione immaginifica) come essenziale stru-mento per «evitar realidades»5. Si spinge l’acceleratore sulla natura extra-humana dell’esperienza estetica, sulla necessità di far risiedere l’artista ed i suoi strumenti lontano dalla limitata sfera di competenza di chi abita il mondo, proteggendo l’as-soluta alterità del suo operato da meccanismi percettivi “normalizzanti” di matrice razionale, emotiva o etica: il segno poetico diviene, per definizione, inassimilabile ed irriferibile, immagine “pura” che non evoca o rappresenta, bensì consiste di una vita meramente testuale. L’idea di un’arte proiettata nell’asepsi di un laborato-rio d’irrealtà, in cui, per proteggerne l’autonomia, il miracolo della proliferazione immaginifica si lega a doppio filo ad un’inversamente proporzionale cloroformiz-zazione di ogni tratto di espressività, si imprime caratteristicamente negli slogan e nelle parole-chiave degli ultraisti e dei creazionisti che dominano la scena letteraria spagnola – in parallelo e secondo un’indicazione di gusto convergente con l’intel-lettualismo gongorino e la depurazione formale del magistero di Paul Valéry – fino alla seconda metà degli anni ’20: per Guillermo de Torre, la poesia non deve ripro-durre “oggetti”, ma produrre di prima mano “ultra-oggetti”, inedite “protocellule primordiali” incubate in sterilizzati e blindati laboratori plutonici, insensibili al terribile “contagio psichico” del mondo conosciuto (che potrebbe corrompere, infettare il sublime parto dell’immaginazione), voltando orgogliosamente le spalle alla volgarità dell’esistenza terrena e favorendo il passaggio del lettore in una real-tà ulteriore; Vicente Huidobro, nel suo Manifiesto creacionista, misconosce l’arte della copia e vota l’operato dell’artista moderno alla creazione pura di autonomi simulacri, rivendicando per il poeta il modello della Genesi assoluta – «crear como la naturaleza crea un árbol» –, secondo una similitudine nella quale è dato silenzia-re del tutto il depistante riferimento naturalistico e sottolineare, piuttosto, l’utopia di due mondi e di due procedimenti creativi separati (ed equiparati) per la Realtà e la realtà poetica.

4 Uso questo termine, dal significato alquanto problematico, ricalcando l’intrascendencia orteghiana, che sembra genericamente riferirsi ad una sintomatica inerzia del codice, alla mancata volontà del-l’arte nuova di andare oltre l’esperimento linguistico gratuito.5 J. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte y otros ensayos de estética, Espasa Calpe, Madrid, 1987, p. 37.

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Insomma, la rivendicazione della libertà di immaginare ciò che non esiste, così indissolubilmente legata ai timori ed alle instabilità identitarie dell’uomo nel fantastico (appena un sospetto o un’ombra da illuminare immediatamente con il faro della logica), nel testo d’avanguardia, diviene la parte visibile, l’unica ad aver diritto di figurare poeticamente, ma si sente il bisogno di segnalarne la contrap-posizione assoluta rispetto ai procedimenti della rappresentazione, quelli che si appellano ai consuetudinari percorsi percettivi: forse, mai come adesso, seppure abbia assunto pienamente il controllo dello spazio testuale, l’immagine d’irrealtà è stata tanto vistosamente contrapposta alle “forme vive”, prosperando in un’arte incompatibile con la vita.

Con il surrealismo, le porte dei laboratori dell’immagine disinfettata si spalan-cano e gli “scienziati pazzi” mostrano gli homunculi rattoppati del loro spropositato delirio disumanizzante: tra le righe del Primo manifesto di André Breton (1924)6 si legge, oltre al consueto impeto di provocazione ed alle arbitrarietà maudites del-l’ultimo degli avanguardisti, la netta percezione della necessità di radicare l’attuale predilezione artistica per l’immagine non referenziale – sostanzialmente, l’astratto e meccanico desiderio di alterità delle prime avanguardie – all’interno di un pro-getto di rinnovato “umanesimo”, rivendicando l’irrazionale come anima profon-da e naturale dell’individuo e non come percorso di evasione in una dimensione parallela e sovrumana. Il surrealismo, capitalizzando i traguardi di rottura degli “-ismos” che lo hanno preceduto, va oltre la distruzione della logica comunicativa tradizionale – da questi ultimi arbitrariamente rotta, scomposta e ricomposta in collages mostruosi – e mette a punto le basi per una nuova logica espressiva, quella dell’uomo nuovo, derivata dalla glorificazione dell’inconscio come unico ed esclu-sivo elemento essenziale alla definizione dell’identità, nonché come unico centro propulsore dell’attività creativa. Proteggendo l’intuizione profonda dai perniciosi “siluri” del controllo patriarcale dell’Ego razionale dominante, l’uomo surrealista entra in contatto con la sua parte più autentica: l’irrazionalismo espressivo che de-riva dalla trascrizione letterale del dettato psichico incurante di ogni volontà signi-ficativa (secondo il procedimento principe dell’arte surrealista: la scrittura automa-tica) non è più semplice provocazione fine a sé stessa come nel lemma orteghiano dell’intrascendencia dell’arte, bensì è funzionale alla cosiddetta “rivoluzione sur-realista”, che aspira alla creazione di un’indifferenziata zona franca, di un territorio infranto, senza barriere che traccino il confine tra il normale e lo straordinario, uno spazio cognitivo globale interamente percorribile, in cui l’uomo possa esprimersi (comprendere, comunicare, immaginare) senza catene nella libertà amniotica della vraie vie dei suoi istinti profondi.

Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti come contraddittorii. Ora, sarebbe vano cercare, alla base

6 Il Secondo Manifesto del Surrealismo, cui sovente mi riferirò, sarà pubblicato nel 1929.

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dell’attività surrealista, altro movente che non sia la speranza di determinare questo punto7.

Una delle ossessioni più caratterizzanti dei surrealisti è senz’altro la volontà di abbattere il principio di contraddizione tra gli opposti, faro ordinatore della cultura razionalistica (alla luce del quale se una cosa è questa non può essere anche quella, se io sono qui non mi trovo contemporaneamente anche là ecc…), scom-mettendo per un «linguaggio senza riserve»8, dal carattere «organico», che accosti e sovrapponga «realtà distanti»9, che restituisca l’immagine della «continuità as-soluta di quel flusso che ci occupa»10 e scavalchi l’illusorietà dei freni raziocinanti. L’esempio per antonomasia dell’immagine surrealista, insistente, infestante, lascia-passare magico verso il regno agognato del merveilleux, è la seguente: «C’è un uomo tagliato in due da una finestra». Un’immagine che, ci dice Breton, «bussava ai vetri» della sua finestra, imponendosi per la sua trascinante “verità poetica” alle resistenze della logica consuetudinaria, rimuovendo ogni esitazione.

In verità, quella frase mi stupiva; […] ma non poteva ammettere equivoci, accom-pagnata com’era dalla debole rappresentazione visiva di un uomo che camminava, troncato a mezza altezza da una finestra perpendicolare all’asse del suo corpo. Senza dubbio, si trattava del semplice raddrizzamento nello spazio di un uomo che si sporge dalla finestra. Ma poiché quella finestra aveva seguito lo spostamento dell’uomo, mi resi conto che avevo a che fare con un’immagine di un tipo abbastanza raro, e ben presto decisi senz’altro di incorporarla nel mio materiale di costruzione poetica. Non appena le ebbi accordato questo credito, del resto, essa fece posto a una successione appena intermittente di frasi che mi sorpresero altrettanto e mi lasciarono sotto l’im-pressione di una tale gratuità, che il dominio che fino a quel momento avevo esercitato su me stesso mi parve illusorio, e non pensai più ad altro che a mettere fine all’inter-minabile contrasto che ha luogo in me11.

La consistenza prettamente poetica dell’apparizione descritta – lo sketch as-surdo e grottesco di un uomo in piedi attraversato da una lastra di vetro – non può impedirci di apprezzare e soppesare il funzionamento fantastico della “narrazio-ne” bretoniana. Dapprima, si registra una reazione di stupore, seguita però, da un divertito e curioso apprezzamento estetico basato proprio sulla travolgente “stra-nezza”, sull’inedito potenziale immaginifico di quel simulacro: il criterio poetico ha immediatamente la meglio sui più consueti meccanismi di valutazione logica. Tant’è che il sospetto di normalità – potrebbe trattarsi di una persona che si sta rialzando dopo essersi sporta e, rientrando in asse perpendicolare con il vetro della

7 A. Breton, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino, 2003, p. 64.8 Ibid., p. 37.9 Ibid., p. 40.10 Ibid., p. 34.11 Ibid., pp. 26-27.

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finestra in questione, ha prodotto l’illusione ottica di un’indebita compenetrazione – viene rapidamente scartato come inconsistente e banale e si concede totale cre-dito all’idea rara e preziosa di un’illecita passeggiata “condivisa”: «quella finestra aveva seguito lo spostamento di quell’uomo». La visione assurda, dal canto suo, gratifica la disponibilità e la complicità di questo peculiare soggetto paziente rag-gruppando in torno a sé una vera e propria catena di sublimi irrealtà, pronte ad essere trasposte di peso nel «materiale di costruzione poetica»12 di quest’ultimo. Inoltre, è da notare che la piena accettazione dell’esperienza d’irrealtà non ha alcun bisogno di prove e giustificazioni, bensì si fonda sull’esemplare, educativa, “gratui-tà” dell’Altro che diviene veicolo di destrutturazione degli schemi e dei preconcetti dell’Io diurno, che si proclama stanco e mortificato dagli “interminabili contrasti” che, tradizionalmente, sottopongono l’immaginazione ad implacabili certami di verosimiglianza. Il poeta surrealista si lascia, dunque, condurre – o si dispone a veder trasformata la sua esistenza – in un tutt’uno organico di pura meraviglia, non gestito dalla dialettica razionalistica dell’inquietudine, ma dal monologo di un’alterità che ci appartiene e che fa dell’opera surrealista la perfetta antitesi di un racconto fantastico tradizionale, al quale, comunque, Breton riconosce il merito di aver rappresentato «una tentazione continua»13. Non è affatto casuale che tra gli scarsi materiali narrativi del passato che si salvano dalle intransigenti epurazioni di Breton figuri un caposaldo della linea gotico-fantastica come Il monaco di Lewis, del quale si apprezza il potenziale destabilizzante e la “gratuità” immaginifica di alcune scene ed alcuni personaggi, l’innesto fertilizzante del meraviglioso che «è capace di fecondare opere appartenenti a un genere inferiore come il romanzo e in generale tutto ciò che ha a che fare con l’aneddoto»14, seppure continui a prevaler-vi «l’incurabile mania che consiste nel ricondurre l’ignoto al noto»15 e «il desiderio d’analisi»16 interferisca nel libero fluire dell’immaginazione. Dei due poli necessari all’equilibrio del genere fantastico, Breton ne salva solo uno, animato dalla volontà di «fare giustizia dell’odio per il meraviglioso che imperversa in certi uomini, del ridicolo sotto il quale vogliono farlo cadere»17:

Parliamo chiaro: il meraviglioso è sempre bello, qualsiasi meraviglioso è bello, anzi non c’è nient’altro di bello che il meraviglioso18.

L’idea estetica surrealista, al di là delle apparenze, ha però poco a che vedere con un gratificante desiderio di evasione, giacché si regge su di un ribaltamento a trecentosessanta gradi delle gerarchie su cui tradizionalmente si sono basati i

12 Ibid., p. 27.13 Ibid., p. 21.14 Ibid.15 Ibid., p. 16.16 Ibid.17 Ibid., p. 20.18 Ibid.

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rapporti tra realtà e meraviglia. Il meraviglioso surrealista non è soltanto bello, ma aspira ad essere considerato anche vero, più vero delle verità comunemente accettate, delle verità visibili. In un’ottica surrealista, sono i meccanismi irrazionali dell’inconscio, quelli che si rendono visibili attraverso gli automatismi psichici o attraverso l’attività onirica, a condurre il gioco del “reale”, a stabilirne i parametri, ed è rispetto a queste logiche altre che devono essere valutate – ed immediatamen-te escluse – le incursioni del senso comune e del raziocinio, pienamente sconfessate come indebiti fenomeni «d’interferenza», inconsistenti “fantasmi” di un’identità che deve essere accecata per imparare a guardarsi più a fondo.

Sulla scia delle scoperte della psicanalisi, il surrealismo riscatta programmati-camente la presenza non contraddittoria dell’Altro all’interno dell’Io, del fattore inspiegabile e immaginifico – che nel fantastico agiva come inquietante contro-campo della tensione intellettiva che aspirava a contraddirlo – all’interno o al di sotto dell’organo predisposto alla produzione di significati razionali. L’immagine visionaria risulta, dunque, pienamente riumanizzata: anzi, ciò che una volta veniva razionalmente escluso come irreale o, in epoca recentissima, appositamente evoca-to “a freddo” attraverso meccanismi disumanizzanti, diventa “super-reale”, gravita insistente intorno alla sfera del reale, o meglio, potremmo dire che diventa “infra” o “sub-reale”, giacché costituisce il sostrato nascosto e vivificante della percezione ordinaria, ed in tal senso viene poeticamente e politicamente spinto alla ribalta, ad insegnare all’intorpidito uomo borghese le inedite declinazioni del suo para-digma di realtà, le possibilità intatte e nascoste della sua mente atrofizzata che è abituata a cogliere solo gli aspetti più triviali ed evidenti dell’esistenza. Ed ancora, in questo senso, pur basandosi la creazione surrealista su visionari procedimenti di disconnessione della coscienza vigile, dei centri nevralgici della percezione diurna, proprio per evitarne i cortocircuiti snervantemente banali, potremmo parlare di una presunzione di osservazione “iper-realista”, di una ricognizione nell’umano e nel reale che si vuole più profonda ed oggettiva di quella del realismo tradizionale, poiché le strabilianti proiezioni visionarie prodotte dai seguaci di Breton ambisco-no ad essere percepite come “rappresentazioni” della parte più vera ed inalienabile dell’essere umano, non come trasgressioni o divagazioni ma come scoperta di una nuova norma di funzionamento della realtà19. Il capo carismatico del surrealismo insiste a lungo su questo aspetto, preoccupandosi di non far confondere i due prodotti per eccellenza della creazione surrealista (scrittura automatica e racconto onirico, che lui definisce «fantasmagorie interiori»20) con dei semplici giochi del rovescio, con dei meccanici «rovesci del reale»21:

19 Già E. Auerbach, nel suo fondamentale ed influente Mimesis (Einaudi, Torino, 1979), segnalava come l’idea di “realismo” sia mutata nel tempo a seconda delle differenti codificazioni del concetto di “realtà”.20 A. Breton, op. cit., p. 96, nota 1.21 Ibid.

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Questi prodotti dell’attività psichica, sottratti quanto è possibile alla volontà di signi-ficare, alleviati quanto è possibile dalle idee di responsabilità sempre pronte ad agire come freno, indipendenti quanto è possibile da tutto ciò che non sia la vita passiva dell’intelletto, questi prodotti che sono la scrittura automatica e i racconti dei sogni presentano insieme il vantaggio […] di proporre una chiave che, capace di aprire quella scatola a multiplo fondo che si chiama uomo, lo dissuada dal voltare le spalle, per ragioni di semplice conservazione, quando urta nell’ombra contro le porte ester-namente chiuse dell’«aldilà», della realtà, della ragione, del genio e dell’amore22.

Gli opposti deputati si toccano in queste orfiche passeggiate agli Inferi in cui non è dato stabilire dogmatiche direzioni d’orientamento giacché l’aldilà è l’al-diquà e la ragionevolezza si abbraccia fiduciosamente con “l’amore dell’ombra”: l’importante è non voltarsi, non rompere l’incantesimo di un reale riconciliato con le possibilità trasgressive della contraddizione.

Facendo provenire, dunque, la visione meravigliosa da un territorio organi-co all’essere umano (l’inconscio) e utilizzandola strumentalmente per un discorso trascendentale e rivoluzionario che si propone significative ricadute collettive, il surrealismo codifica l’alterità in modo sensibilmente differente rispetto alle pri-me avanguardie, delle quali, comunque, mantiene l’impostazione provocatoria e la funzionalità sperimentale dell’arte, tant’è che, senza conoscerne le premesse teo-riche e le intenzioni, non sarebbe così peregrino equiparare le bretoniane conca-tenazioni di associazioni illogiche provenienti dalle ragioni nascoste della psiche ai velleitari ritagli ed incastri dell’Ultra. Pensiamo, ad esempio, al gioco collettivo dei “cadaveri squisiti”, mutazione surrealista dei papiers collés dadaisti: il “compo-nimento” – il cui nome, esemplare anche semanticamente, è desunto dal risulta-to del primo esperimento – deriva dall’accostamento casuale di frammenti ideati da artisti diversi, ciascuno ignaro dell’operato degli altri. È ovvio che la funzione simbolica dell’oggetto testuale ne supera la valenza estetica specifica, così come la volontà di promuovere la logica libertaria dell’inconscio – in questo caso, potenzia-ta dall’operato del caso e dalla provenienza eterogenea delle immagini irrazionali accostate – prevale sulla creatività individuale, sull’ispirazione del singolo poeta. L’opera diventa così un “teorema”, corpo pulsante dell’uomo surrealista rivivifi-cato dal contatto con la propria parte irrazionale nelle premesse, ma “cadavere” rattoppato di membra inanimate (prive dell’anima di un’intenzione significativa) nella prassi. Il poeta surrealista proclama la «necessità di servirci d’oggetti del tutto nuovi, o considerati per sempre fuori uso»23 e giustifica la paradossale meccanicità delle sue creazioni (tutt’altro che libere, bensì comandate da quello che definirei il “dogma della libertà”, dell’illogico e necessario input di rinnovamento) per sman-tellare i luoghi comuni e le prassi secolarmente inculcate, rispetto alle quali l’opera

22 Ibid., pp. 95-96.23 Ibid., pp. 106-107.

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surrealista ha il dovere di presentarsi come alterità irriducibile, dotata di violenti e scioccanti presupposti di irriconoscibilità. Almeno in questa fase, l’immaginazio-ne, per essere, deve essere contro o essere altro. Si tratta, in sostanza, di permettere «all’immaginazione dell’uomo di prendere una rivalsa clamorosa sulle cose, e oggi di nuovo, dopo secoli di addomesticamento dello spirito e di folle rassegnazione, […] di affrancare definitivamente quell’immaginazione attraverso il «lungo, im-menso, ragionato sregolamento di tutti i sensi» e tutto il resto»24. Solo a missione compiuta, ci si potrà permettere di realizzare una sintesi e di restituire all’arte il suo volto umano, combinando, in un’operazione di libertà solo allora veramente totalizzante ed organica, i simulacri dell’inconscio con le “cose” della percezione e della rappresentazione ordinaria. Ma, per adesso,

l’operazione surrealista ha qualche possibilità d’essere portata a buon fine soltanto se si effettua in condizioni di tale asepsi morale che ancora pochissimi uomini vogliono sentirne parlare. Eppure, senza di essa è impossibile arrestare quel cancro dello spirito che consiste nel fatto di pensare troppo dolorosamente che certe cose «sono» mentre altre, che potrebbero benissimo essere, «non sono»25.

In maniera sintomaticamente contraddittoria, si sceglie di affermare il prin-cipio di non contraddizione degli opposti attraverso un programma di violenta, elitaria antitesi. Aspirando alla mortificazione delle immagini di realtà tradizional-mente accettate e non considerandole meritevoli di alcuna considerazione artistica, i prodotti estetici del surrealismo dogmatico finiscono per far coincidere l’uomo con l’altro da sé e “falliscono” nel tentativo di restituirlo alla vivezza e completezza delle sue composite ragioni profonde. Ovvero, i surrealisti indicano un cammino da seguire in sede teorica, guadagnando ciò che è irrazionale al campo gravitazio-nale dell’umano, ma continuano, nella prassi creativa, a farlo vivere nella sepa-ratezza di un mondo ad occhi chiusi, programmaticamente privo di contatti con quello reale, trasformando così l’uomo in una dogmatica “funzione” alternativa, in un “manichino” non più della ragione, bensì dell’inconscio: ed i manichini, in effetti, vengono a costituire i feticci del surrealismo, sospesi tra copia e simulacro, sublimi veicoli di trasformazione dell’umano in allucinante, futuristica marionet-ta, che porta a passeggio le sue «neutras sensualidades mecánicas y articulaciones turbadoras»26 – come dirà Salvador Dalí – in lungo e in largo per la produzione poetica dell’ultima delle avanguardie.

24 Ibid., p. 106.25 Ibid., p. 116.26 S. Dalí, «San Sebastián», gallo, 1, Granada, febrero 1928, p. 11.

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2.2 Verso una sintesi: il surrealismo “umano” di Lorca

Quando nel 1924 Fernando Vela recensisce sulle pagine de La Revista de Oc-cidente il Primer manifiesto surrealista, cominciano a delinearsi i tratti di una rice-zione tendente a rimuovere i residui dell’impostazione disumanizzante delle prime avanguardie dalla genuina “novità” estetica che il movimento capeggiato da Bre-ton, come abbiamo visto, prometteva idealmente, ammantando però la sua base umanistica nella retorica di una provocazione anti-umana ritenuta necessaria per scompaginare l’ancora imperante catafalco del senso comune. Sostanzialmente, Vela – come faranno anche Guillermo de Torre, José Bergamín ed altri – appiatti-sce la proposta surrealista sul «procedimiento de otras escuelas extremistas»:

destacar entre todos los elementos que juntos constituyen la obra de arte, uno solo […]. Su teoría es más entretenida que el resultado y, como tantas veces en Francia, estos incidentes de la vida literaria [son] más divertidos que la propia literatura27.

L’impressione è quella di una sintomatica incompletezza, che non si riferisce soltanto alla sproporzione tra propositi e realizzazioni, tra teoria e prassi, ma anche alla limitatezza ed inopportunità di un’impostazione artistica che, per liberare un aspetto della creatività umana a lungo ghettizzato, sceglie di silenziarne tutti gli altri.

Al di là delle riserve dei critici e delle schermaglie dei poeti interessati – che si affanneranno in ogni modo per chiarire il carattere estremamente mediato e perso-nale della loro esperienza “surrealista”, sconfessando una loro diretta affiliazione alla scuola parigina – il surrealismo attecchirà in Spagna in maniera profonda e duratura, come vedremo, non solo nella generazione di scrittori che ne vivono di prima mano l’ineludibile fermento – i poeti che, nel 1925, ascoltano nella madrile-na Residencia de Estudiantes, gli infuocati proclami rivoluzionari di Louis Aragon –, ma anche in alcuni esponenti della generazione successiva, quella civilmente impegnata degli anni ’30, vocazionalmente insofferente nei confronti delle conta-minazioni immaginifiche delle avanguardie e legata all’etichetta del “ritorno del reale”.

D’altronde, in entrambi i casi, è necessario fare dei distinguo. Per i “poeti surrealisti spagnoli”28 che integreranno nei loro versi il sogno e

l’inconscio (con le immagini d’irrealtà, i simulacri o “manichini” che da lì derivano) come un importante elemento di autenticità, l’input surrealista sembra costituire un veicolo ma non un traguardo, giacché permetterà loro di filtrare sulla pagina letteraria un’esigenza espressiva senza più pudori né dogmi costrittivi (nemmeno quello dell’irrazionale a tutti i costi) tendente alla rivelazione difficile dei conflitti

27 F. Vela, «El suprarrealismo», Revista de Occidente, vol. VI, num. XVIII, dic. 1924, pp. 428-434.28 Le virgolette da aggiungere al titolo dell’antologia italiana di Vittorio Bodini, con poesie di Lorca, Cernuda, Aleixandre ecc., sono d’obbligo.

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più intimi e nascosti dell’io lirico ed, in generale, dell’uomo moderno, attraverso un incontenibile desiderio di scavalcamento di ogni sovrastruttura o freno “esterno” (culturale, formale, etico) applicato alla stringente logica della rivelazione interiore. Si tratta di una piena comprensione, che va addirittura oltre le possibilità ammesse dalla matrice generativa, o di un coerente, organico sviluppo della portata storica “riumanizzante” del surrealismo che, potremmo dire, indulgendo in un paradosso, viene recepito dai poeti del ’27 in senso vistosamente antiavanguardista, secondo un percorso di acclimatazione che fa dell’ultima delle avanguardie il collante per-fetto o la cerniera tra le astrazioni disumanizzate dei primi anni ’20 e il “neoroman-ticismo” profetizzato da José Díaz Fernández con il saggio che, nel 1930, dà il via alla cosiddetta literatura de avanzada, guidata dallo slogan di «un arte para la vida, no una vida para el arte»29. Per comprendere come il surrealismo e l’espressione poetica dell’irrealtà che ci appartiene da esso rivendicata si svincolino dal ruolo di antitesi di una tesi realistica da sconfessare attraverso assurdi esperimenti di alterità e divengano sintesi dell’umano universale negli scritti dei poeti spagnoli che ne accolgono, guardinghi, il richiamo, è interessante analizzare la lettura che dell’influenza surrealista sui suoi compagni di generazione dà, a posteriori, Jorge Guillén, con sagge parole abilmente sfumate:

Entre diversas incitaciones convergentes, el superrealismo se les resolvió en una invi-tación al riesgo – al gallardo riesgo – de la libertad imaginativa. El antirrealismo de los años 20 condenaba la descripción. […] Los jóvenes de entonces se echaban, en efecto, al campo, y a campo traviesa desbandaban su imaginación30.

Il poeta di Cántico, uno dei pochi a rimanere immune al germe «casi inevi-table»31 inoculato dal manifesto dell’ultima avanguardia, in un primo momento, associa super-realismo ad anti-realismo, accomunando il surrealismo all’esperienza di violenta de-realizzazione del quadro artistico propugnata dalle prime avanguar-die, ma coglie la distintiva non gratuità dell’immagine bretoniana o, per lo meno, sottolinea l’utilizzo significativo che di essa si fece in Spagna :

Por una o por otra senda, aquel cultivo de la imagen, profunda hasta sus raíces irra-cionales, iba más allá del juego arbitrario y podía revelar al hombre, libre en su vraie vie – como quería Rimbaud –. Los ojos de hoy, miopes acaso, perciben mal aquellos poemas y los creen ejercicios formales. Si el lector se acerca, descubre lo que son: ir-rupciones de vitalidad. De ahí la eficacia superrealista, su valor de estímulo32.

29 J. Díaz Fernández, El nuevo romanticismo. Polémica de arte, política y literatura, Zeus, Madrid, 1930.30 J. Guillén, «El estímulo superrealista», in Homenaje universitario a Damaso Alonso, Gredos, Ma-drid, 1970, p. 205.31 Ibid.32 Ibid.

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Il concetto di un radicamento, di un “ancoraggio” in un sottosuolo di umana riconoscibilità della visione irrazionale ricorrerà ossessivo, come un leit-motiv, ad esempio nelle dichiarazioni lorchiane, a testimonianza dell’avvenuta maturazione comunicativa degli esercizi d’irrealtà praticati nella fase precedente alla ricezio-ne della moda surrealista, rispetto alla quale, comunque, si mantengono pesanti riserve. Nonostante l’iniezione di vitalità immaginifica possa costituire un valido lasciapassare per la ricostruzione di un’identità artistica totale e totalizzante, non si devono concedere attenuanti alla velleità di un automatismo creativo puro, ir-rispettoso della complessa, complicata alchimia su cui deve poter contare il poeta che si predispone a comporre:

Pero la vida, más compleja que la abstracción, no se desarrolla simplemente. En aquellos años, tan jugosos de experiencia literaria, los españoles sensibles al incentivo superrealista compusieron sin vacilación prudente obras donde intervenían, como es natural, subconsciencia y conciencia. A la intuición acompaña la razón en la gran poesía33.

Sintomaticamente, le “bestie nere” dell’immaginario surrealista – coscienza, ragione – vengono chiamate ad accompagnare i loro opposti speculari in un’unio-ne senza cesure, secondo un pacato ed armonico postulato di “naturalezza”, in cui si smussano le tensioni di un’extra-ordinarietà di maniera.

Sul tema della gestione più o meno dogmatica dell’ispirazione surrealista, in ogni caso, in Spagna, non c’è accordo perfetto, giacché, accanto ai poeti che ten-dono a mediarne l’influenza secondo il modello indicato da Guillén, integrando “naturalmente” l’immagine inconscia al proprio peculiare universo espressivo, si registra l’operato di poeti direttamente vincolati al gruppo di Breton ed alle sue di-rettive, come Hinojosa, Foix e Juan Larrea, il quale, tra l’altro, deciderà di scrivere una buona parte dei suoi versi proprio in francese. Tra l’altro, sulla scottante at-tualità del surrealismo e delle sue diverse declinazioni si creano fratture insanabili e si inaugurano dolorose separazioni all’interno di gruppi al principio compatti sul piano umano e nella comunanza d’intenti estetici: è il caso dei tre amici della Resi-dencia de estudiantes, Salvador Dalí, Luis Buñuel e Federico García Lorca, il cui sodalizio si sfalda nel momento in cui i primi due, completamente abbagliati dalla forza espressiva di un’immagine intesa come sadica violenza sul reale, abbandona-no il poeta andaluso all’apparente tradizionalismo ed all’emotività popolareggiante delle sue vignette folkloriche, classificando il suo Romacero gitano sotto l’etichetta della “putrefazione”34. Il titolo del primo film surrealista, firmato a quattro mani

33 Ibid., p. 206.34 Come ricorda Santos Torroella (Dalí residente, Publicaciones de la Residencia de Estudiantes, Ma-drid, 1982), los putrefactos erano vignette umoristiche con cui Lorca e Dalí giocavano a rappresentare i grandi nomi del vetusto establishment culturale precedente alle innovazioni degli “-ismos” sotto forma di cadaveri marcescenti, corrotti sino al midollo da un’implicazione realistica e sentimentale di mera superficie.

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dall’aragonese e dal catalano, sembra rimandare proprio alla volontà di stigmatiz-zare severamente l’“eterodossia” di un vecchio amico. Un chien andalou – che si apre con la scioccante visione di Buñuel che squarcia l’occhio spalancato di una donna con un rasoio, a condensare simbolicamente la necessità surrealista di acce-care i parametri della visione comune per lasciare sgorgare ininterrotte le intuizioni del profondo –, nelle parole del regista, nasce da un criterio “compositivo” acco-stabile alla più ferrea ortodossia sperimentale bretoniana, combinando la tecnica del racconto onirico con quella del cadavre exquis:

Esta película nació de la confluencia de dos sueños. Dalí me invitó a pasar unos días en su casa y, al llegar a Figueras, yo le conté un sueño que había tenido poco antes, en el que una nube desflecada cortaba la luna y una cuchilla de afeitar hendía un ojo. Él, a su vez, me dijo que la noche anterior había visto en sueños una mano llena de hormigas. Y añadió: «¿Y si, partiendo de esto, hiciéramos una película?»[…]Escribimos el guión en menos de una semana, siguiendo una regla muy simple, adop-tada de común acuerdo: no aceptar idea ni imagen alguna que pudiera dar lugar a una explicación racional, psicológica o cultural. Abrir todas las puertas a lo irracional. No admitir más que imágenes que nos impresionaran, sin tratar de averiguar por qué […]35.

Oltre ad accentuare l’assoluta casualità ed involontarietà dell’operazione, Buñuel segnala il perimetro del testo filmico come del tutto vietato ad ogni inter-ferenza significante, dimostrando di interpretare letteralmente l’ambito della crea-zione surrealista come un congegno di esclusione, rovesciato, ed ancor più violento di quello che articolava l’esperienza fantastica: basta il sospetto di una possibile de-codifica culturale, razionale o psicologica a sbugiardare l’indebito tradizionalismo dell’oggetto-immagine e ad espungerlo dalla catena. Se tutte le porte sono ormai aperte ad accogliere l’avvento dell’irrazionale ed il suo arsenale di immagini altre, in senso inverso, si sceglie di innalzare un’inattaccabile muraglia di difesa contro le forme ed i significati che rimandano alla banalità dell’esperienza terrena.

Il film è del 1929 e se sia Dalí che Buñuel negano che il titolo contenga un riferimento diretto a Lorca, la loro lettura di Romacero gitano denota la delusione di entrambi per un irrazionalismo di superficie, privo di coraggio e di genuini im-peti iconoclasti. Nel 1928 si pubblicava, infatti, il libro in cui Lorca reinterpreta visionariamente il folklore della sua terra in romances che paiono animati dalla vo-lontà di sintetizzare l’immaginario espressivo delle avanguardie con le radici fami-liari dell’intuizione popolare, leggendo nei racconti mitici dell’Andalusia profonda la possibilità di “naturalizzare” e codificare all’interno di una consolidata norma espressiva i geni irrazionali dell’esperimento surrealista. Salvador Dalí ne desu-merà l’impressione di un rischio immaginativo appena accennato, di un indebito compromesso con la “putrefazione” dei vecchi stereotipi:

35 L. Buñuel, Mi último suspiro, Plaza y Janés, Madrd, 1982, pp. 102-104.

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Tu quizás creerás atrevidas ciertas imágenes y encuentres una dosis crecida de irra-cionalidad en tus cosas, pero yo puedo decirte que tu poesía se mueve dentro de las ilustraciones de los lugares comunes más estereotipados y conformistas36.

In realtà, Lorca, nel vero e proprio tour de force di conferenze che darà, in giro per la Spagna, tra il 1928 ed il 1929, dimostra di intendere la sua ispirazione popularista – che accomuna il suo percorso di questi anni a quello di altri poeti andalusi come Alberti e Altolaguirre – come una via di evasión, questo sì, caratte-risticamente ancorata al suolo, come un esperimento estremo, se non estremista, di irrazionalismo poetico. I suoi continui omaggi alle manifestazioni più genuine del-l’autoctona creatività popolare – le sue esternazioni sul cante jondo, sulle esplosioni di vitalità tellurica e primitiva dei cantaores e bailaores dello scenario flamenco, le sue poetiche interpretazioni delle ninna nanne infantili della Spagna del sud, le sue entusiastiche menzioni di miracoli e leggende di santi codificate dalla tradizione popolare – rivelano un preciso percorso di assimilazione di due polarità appa-rentemente incompatibili, almeno agli occhi della più intransigente intelligentia avanguardista dell’epoca: volontà comunicativa ed irrazionalismo espressivo. Nella conferenza «Imaginación, inspiración, evasión», Lorca, limitandone visibilmente le potenzialità, associa implicitamente il primo termine alla matematica produzione seriale di immagini delle prime avanguardie – ai teoremi di purezza di ultraismo, creazionismo e cubismo, oltreché alla moda intellettualistica neogongorina – ri-spetto alle quali sembra invocare la necessità di misurarsi con il profondo mistero e la ricchezza di sfumature della realtà:

La imaginación es el primer escalón y la base de toda poesía… El poeta construye con ella una torre contra los elementos y contra el misterio. Es inatacable, ordena y es escuchado. Pero se le escapan casi siempre las mejores aves y las más refulgentes luces. Es difícil que un poeta imaginativo puro (llamémosle así) produzca emociones intensas con su poesía.[…]La realidad visible, los hechos del mundo y del cuerpo humano están mucho más llenos de matices, son más poeticos que lo que ella descubre37.

Rincarando la dose con precisa volontà di scandalo in un momento di pro-nunciata requisitoria antiscientifica ed antirazionalistica, Lorca arriva addirittura a sostenere che tra la spiegazione immaginifica e meravigliosa di un determinato fe-nomeno e la sua corretta interpretazione scientifica, il “racconto” più poetico sarà sempre e comunque il secondo: senza ricorrere a mitici giganti ed altri interventi prodigiosi di siffatta natura, l’esistenza di profonde grotte e caverne dalle forme al-lucinanti si carica di straordinario potere suggestivo proprio perché naturalmente provocata dallo stillare di innumerevoli gocce di acqua, pazienti ed eterne: «En este

36 S. Dalí, in A. Rodrigo, Lorca-Dalí, una amistad traicionada, Barcelona, 1981, p. 211.37 F. García Lorca, Obras Completas III, Galaxia Gutenberg, Barcelona, 1997, p. 99.

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caso, como en otros muchos, gana la realidad»38. Ciononostante, la constatazione della limitatezza della poesia “d’immagine” non porta Lorca a ristabilire la validità di una ricognizione aneddotica e fotografica nel reale («Todo menos quedarme quieto en la ventana mirando el mismo paisaje»39), bensì ad optare, liberando il verso dal «acertijo de la imagen»40, «de los academicismos […] del cubismo, que construye la más formidabile lección de disciplina del arte»41, per «una vuelta a la naturaleza»42, «a la bella realidad visible»43 che abbia il coraggio di trasfigurarne il genuino mistero. Il “fatto poetico” autentico coincide con un’evasione che, para-dossalmente, liberandosi dalle sue manifestazioni più visibili ed esteriori, appro-fondisce il senso enigmatico del reale e dell’umano. Il poeta è chiamato a bruciarsi nel fuoco della più totale libertà espressiva, ad «abandonar sus manos en las ascuas sin lógica y sin sentido […], sin cadenas»44, attraverso espressioni che chiamano direttamente in causa i propositi ed i metodi del surrealismo che, secondo il gra-nadino, usa il sogno – «el realísimo mundo de los sueños»45 – come garanzia di autenticità espressiva. È proprio nell’ambito della poesia evasiva appena tracciato che Lorca recita alcuni versi del suo Romancero, dimostrando di volerne incanalare la ricezione secondo modalità niente affatto contraddittorie rispetto agli esigenti parametri antitradizionali del movimento bretoniano, verso il quale, comunque, si sente di avanzare alcune riserve. Se il surrealismo costituisce un viabile mezzo di evasione poetica – ma, avvertiamo, i parametri di questa etichetta sono profonda-mente mutati rispetto a quelli tracciati da Ortega y Gasset –, su di esso permane il sospetto di una programmatica opacità comunicativa e rappresentativa:

Los españoles queremos perfiles y misterio visible, forma y sensualidades. En el norte puede prender el surrealismo […], pero España nos defiende con su historia del licor fuerte del sueño46.

Con quest’ultima esternazione – che ricorda la diffidenza con cui, quasi un secolo prima, Zorrilla stigmatizzava le nebbie sinistre del fantastico nordeuropeo come incompatibili con gli splendenti soli spagnoli –, Lorca sembra suggerire che esistono modi di poesia misteriosa e seducente che non devono necessariamente ricorrere ad un processo di narcotizzazione. Nelle forme dell’antichissimo floklore della sua terra, Lorca sta cercando proprio quest’equilibrio instabile e metamor-fico: una comunicazione poetica libera dai vincoli della rappresentazione e del-

38 Ibid., p. 100.39 Ibid., p.104.40 Ibid., p. 101.41 Ibid., p. 106.42 Ibid.43 Ibid., p. 107.44 Ibid.45 Ibid., p. 108.46 Ibid.

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l’espressione comune ma che, al tempo stesso, rifiuti di deprivarsi di quel fertile «anzuelo» che si chiama «realidad». Si stanno gettando le basi di quella curiosità con riserva che accompagnerà il suo rapporto tormentato con il surrealismo e che, dopo questo primo momento di intuitiva, naturale assimilazione delle sue presunte novità all’ambito della creatività popolare della Spagna profonda, lo porterà, in seguito all’ambiguo successo del suo libro sonnambulista (che si basò su di una let-tura limitatamente tradizionalista e, dunque, deludente, delle sue fabulae gitane), a cimentarsi, quasi controvoglia, con esperimenti di scrittura automatica pura ed, immediatamente dopo, a dichiarare a gran voce il suo non essere, non voler essere surrealista, tradito e sconfitto dalla sensazione di disumanità che la sua “nuova maniera” compositiva gli procura.

In questa prima fase, il più autorizzato tramite di evasión poetica è il duen-de spagnolo, declinazione tellurica e sanguigna dell’anemico onirismo surrealista, espressione di un mistero consustanziale all’esistere, le cui «raíces se clavan en el limo que todos conocemos, que todos ignoramos, pero de donde nos llega lo que es sustancial en el arte»47. La metafora naturalistica è assai significativa, giacché riscrive e perverte la creatività automatica e insofferente ad ogni laccio dei seguaci di Breton: il mistero poetico e la chiave della sua espressione risiedono nel sotto-suolo, nelle correnti di fluidi che fertilizzano la crosta terrestre e vivificano l’essere umano, e non in una regione aerea ed esterna in cui fluttuano gli spiriti di una seconda realtà, invisibile e diafana. L’operato del demone dell’evasione poetica, che condensa in immagini visionarie ed oscure la natura insondabile e tragica del-l’esperienza di vivere, è evidente in tutte le più genuine espressioni creative del genio spagnolo che, per Lorca, si differenzia da quello di altri paesi, proprio per l’abitudine a sporgersi sull’orlo dell’abisso (dell’indicibile per eccellenza: la morte, il dolore, la costernazione tragica) senza provare a razionalizzarne ed addomesti-carne gli effetti, ma semplicemente reagendo alla ferita inferta lasciando sgorgare il sangue, metaforizzante supremo della vis poetica lorchiana. Nella fattispecie, gli esempi magistrali di questo irrazionalismo tellurico affiorano alla mente di Lorca dal grande patrimonio del folklore andaluso. Animati dal duende sono i cantaores flamenchi che, affondando i piedi nudi nella terra, si lasciano penetrare dalle cor-renti profonde dell’ignoto ed usano il loro corpo come naturale cassa di risonanza del senso nascosto delle cose; gli anonimi narratori della variopinta ed ingenua devozione agiografica, riscattati in alcuni testi esemplarmente visionari del Roman-cero; ed infine, le madri andaluse che, attraverso le ninna nanne, instillano nel bambino per via immaginifica i segreti dolorosi dell’esistere. L’interesse di Lorca per le «Canciones de cuna españolas» – sull’argomento pronuncia una conferenza nel 1928 – sembra catalizzare simbolicamente lo statuto liminare e sospeso del so-nambulismo che caratterizza una significativa porzione del Romancero, una sorta di surrealismo “fatto in casa”, naturale e ancestrale, che, per preservare la vivacità del

47 Ibid., p. 151. Cito adesso dalla conferenza «Juego y teoría del duende».

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duende spagnolo, rifugge l’esperimento onirico, fermandosi a metà strada, in una dimensione di dormiveglia, in cui l’immagine sfocata suggerisce, senza pronun-ciarle, verità dolenti, umanamente riconoscibili. La velleità di trasfigurare poetica-mente la consuetudine attraverso una comunicazione subliminale ed impalpabile si lega, nell’arte del conferenziere così come nell’oggetto poetico della sua disamina, ad un’attenzione per il concreto, per lo spazio inviolabile dell’esistenza terrena, in cui quotidianamente si consumano avvenimenti misteriosamente rivelatori:

He querido bajar a la ribera de los juncos. Por debajo de las tejas amarillas. A la salida de las aldeas, donde el tigre se come a los niños. Estoy en este momento lejos del poeta que mira el reloj, lejos del poeta que lucha con la estatua, que lucha con el sueño, que lucha con la anatomía. He huido de todos mis amigos y me voy con aquel muchacho que se come fruta verde y mira cómo la hormigas devoran el pájaro aplastado por el automóvil48.

Inutile e superfluo lottare con la statua in sterili certami di purezza e perfezio-ne formale, inutile rimanere ancorati al quadro realista, scandito dalle opache leggi del tempo lineare, così come rifugiarsi nel denso liquore del sogno impenetrabi-le, somministrato come un narcotico: Lorca attribuisce all’espressività popolare la capacità di una sospensione del giudizio razionale che, tuttavia, si abbevera alle grandi fonti dell’umano universale. La sensazione d’irrealtà, in quest’epoca essen-ziale aspirazione del fatto poetico, dunque, non si “inventa” attraverso appositi procedimenti o comodi prontuari di disconnessione, ma si ricerca negli interstizi del noto, giacché la vita ne è costituzionalmente impregnata. Parlando dell’uso di creature sovrannaturali nelle ninna nanne popolari, Lorca disegna un aneddoto assolutamente esemplare:

El año de 1917 tuve la suerte de ver un hada en la habitación de un niño pequeño, pri-mo mío. Fue una centésima de segundo, pero la vi. Es decir, la vi… como se ven las co-sas puras, situadas al margen de la circulación de la sangre, con el rabillo del ojo, como el gran poeta Juan Ramón Jiménez vio a las sirenas, a su vuelta de América; las vio que se acababan de hundir. Esta hada estaba encaramada en la cortina, relumbrante como si estuviera vestida con un traje de ojo de perdiz, pero me es imposible recordar su tamaño ni su gesto. Nada más fácil para mí que inventármela, pero sería un engaño poético de primer orden, nunca una creación poética, y yo no quiero engañar a nadie. No hablo con humor ni con ironía; hablo con la fe arraigada que solamente tiene nel poeta, el niño y el tonto puro49.

Se il riferimento all’idiozia ed all’ingenuità infantile appare pienamente con-testualizzabile in ambito surrealista50, l’appetito di irrealtà delle avanguardie in ge-

48 Ibid., p. 113.49 Ibid., pp. 117-118.50 A tal proposito si esprimeva Breton (op. cit., p. 43): «Dai ricordi dell’infanzia e da alcuni altri si

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nere risulta sconfessato ed associato ad un’impostura, giacché i bagliori poetici dell’evasione dalla norma si colgono ai margini di un’osservazione vigile delle cose, dalla quale, con un po’ di fortuna, può scaturire il miracolo, sempre e comunque annidato nelle periferie della «circulación de la sangre», tra le pieghe della materia viva. L’ancestrale saggezza narrativa delle madri spagnole, del resto, suggerisce l’in-spiegabile a partire da una scena di assoluta, semplicissima quotidianità, in alcuni casi, senza neppure ricorrere ad interventi extra-umani51. È sufficiente instillare nell’ascoltatore l’inquietudine per la dolente inspiegabilità di un dramma che «no tiene, no tendrá consuelo posible»52, uno tra i tanti con cui il bambino dovrà im-parare a convivere, confrontandosi con la snervante banalità dei segreti più intensi che, sovente, restituiscono il senso di un necessario desencanto:

Por aquella calle a la largahay un gavilán perdíoque dicen que va a llevarsela paloma de su nío. A la nana, nana, nana,a la nanita de aquelque llevó el caballo al agua y lo dejó sin beber53.

L’Andalusia del Romancero – quella delle dolenti ninna nanne, dei misteri e miracoli dei suoi Santi ad altezza d’uomo, delle litanie flamenche che fanno sgorga-re “automaticamente” «el trino del primer pájaro muerto», dell’innocente sapere magico dei suoi gitani – non potrebbe essere più lontana dalla superficiale divul-gazione di un folklorismo a fior di pelle, ed assume, nel contesto teorico tracciato dalle conferenze, un taglio intrinsecamente avanguardista:

[…] el libro es un retablo de Andalucía, con gitanos, caballos, arcángeles, planetas, con su brisa judía, con su brisa romana, con ríos, con crímenes, con la nota vulgar del

sprigiona un sentimento di inaccaparrato, e quindi di fuorviato, che considero il più fecondo che esista. Ciò che più si avvicina alla “vera vita” è forse l’infanzia». Lorca sembra rispondergli entusiasta (Obras completas III, cit., p. 123): «Muy lejos de nosotros, el niño posee íntegra la fe creadora y no tiene aún la semilla de la razón destructora».51 Lorca ammira la perizia e la semplicità con cui le madri spagnole riescono ad infondere nei figli un’impressione misteriosa, per poi immediatamente scioglierla e riportarli stanchi e soddisfatti del-l’avventura vissuta nelle braccia di un sonno riconciliatore; a seguire, in contrappunto con il sug-gestivo flou dell’arte popolare, racconta gli effetti di un’esposizione d’arte contemporanea su una giovanissima spettatrice che, a causa dell’assoluta mancanza di appigli referenziali, associa i quadri cubisti all’Orco delle fiabe: «Yo conocí a una niña catalana que en una de las últimas exposiciones cubistas de mi gran compañero de Residencia, Salvador Dalí, nos costó mucho trabajo sacarla fuera del local porque estaba entusiasmada con los Papos, los Cocos, que eran cuadros grandes de colores ardientes […]» (ibid., p. 120).52 Ibid., p. 159 (a proposito del duende in «Juego y teoría»).53 Esempi di canciones de cuna spagnole, citate da Lorca nella sua conferenza omonima. Ibid., p. 120.

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contrabandista y la nota celeste de los niños desnudos de Córdoba que burlan a San Rafael. Un libro donde apenas si está expresada la Andalucía que se ve, pero donde está temblando la que no se ve. Y ahora lo voy a decir. Un libro antipintoresco, anti-folclórico, antiflamenco, donde no hay ni una chaquetilla corta, ni un traje de torero, ni un sombrero plano, ni una pandereta; donde las figuras sirven a fondos milenarios y donde no hay más que un solo personaje, un solo personaje que es la Pena, que se filtra en el tuétano de los huesos y en la savia de los árboles, y que no tiene nada que ver con la melancolía, ni con la nostalgia, ni con ninguna otra aflicción o dolencia del ánimo; que es un sentimento más celeste que terrestre; pena andaluza que es una lucha de la inteligencia amorosa con el misterio que la rodea y no puede comprender54.

Visibile ed invisibile, cielo e terra, reale e immaginario si toccano in questo spazio deputato dell’evasione artistica “con radici” che desume il suo caratteristico afflato irrazionale dalla presenza di un peculiare personaggio perturbante, caratte-risticamente partecipe dell’esperienza esistenziale del vivente: la Pena andalusa e universale che, come un canonico fantasma, appare per innescare una lotta irrisol-vibile tra l’intelligenza – adesso riscattata al perimetro dell’umano – ed il mistero delle cose. Le leggende o romanze con cui Lorca recupera la tradizione formale e la struttura metrica dell’antichissima narrazione in versi di cui, come abbiamo visto, si erano rimpossessati anche i romantici per catapultare nella distanza cronologi-ca ed antropologica il loro appetito immaginativo, adesso, in ambito avanguardi-sta, risultano esemplari della millenaria convivenza dell’uomo con i significati più segreti e, poeticamente, dialogando con esse sullo stesso piano, con equiparabili coefficienti di enigmaticità, si prestano a stigmatizzare come innecessarie le provo-catorie astrazioni e le automatiche alterità degli “-ismos”. Niente di più insondabi-le e, contemporaneamente, “terrestre” dell’inesorcizzabile Pena dell’esistere, con cui l’arte popolare, andalusa e non solo, da sempre ha instaurato un liberissimo ed inquieto dialogo espressivo. I romances di Lorca utilizzano l’aneddoto e la de-scrizione – violentemente espunte dall’arte d’avanguardia perché troppo compro-messe con i limiti del realismo, con la cecità della visione comune – per suggerire la «rara angustia misteriosa» del vivere, compenetrandone i tratti quotidiani con elementi di diversa natura in una miscela esplosiva che restituisce l’impressione di un’armonica interazione di piani intersecanti, certezze ed enigmi, in un’avventura poetica senza cesure né dogmi:

[…] el mito está mezclado con el elemento que pudiéramos llamar realista, aunque no lo es, puesto que al contacto con el plano mágico se torna aún más misterioso e indescifrable, como el alma misma de Andalucía […]55.

Se la critica è solita scomporre la traiettoria poetica lorchiana in un prima popularista, legato alla tradizione ed al folklore, ed un dopo surrealista, maggior-

54 Cito dalla «Conferencia-recital del Romancero gitano». Ibid. 179.55 Ibid., p. 181.

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mente implicato con la novità dell’irrazionalismo espressivo, possiamo affermare che il surrealismo viene già ampliamente scoperto e sondato dalla voce popolare di Lorca, giacché la sua arte trova una cifra unitaria proprio nella traboccante vitalità espressiva dell’uomo-natura e della sua energia profonda che, caratteristicamen-te, dà il meglio di sé di fronte ad insormontabili limiti ontologici. L’ossessione lorchiana per “l’impossibilità”, per la corrente che si blocca, per la lotta impari e votata al martirio dell’ansia vitale della creatura “di sangue” contro le forze oscure e castranti che, in ogni momento ed in ogni situazione, tentano di prosciugarne la linfa, di profanarne, circoscriverne o imprigionarne il libero scorrere, si incarna qui, in un’Andalusia secolare ed eterna trasfigurata in epico campo di battaglia, nell’enigmatica persecuzione patita dalle forze dell’innocenza immaginativa (i gi-tani “primitivi”, legati al mitos più che al logos) da parte del supremo antagonista della guardia civil, che «avanza sembrando hogueras,/donde joven y desnuda/la imaginación se quema»56. L’eroe “surrealista” lorchiano è, dunque, in questa fase, il gitano, archetipo di comprensione pre-razionale – più che irrazionale – dei se-greti dell’universo, homo imaginificus senza compiacimenti ed astrazioni, natural-mente imbevuto di una saggezza magica che lo dispone ad intuire senza catalogare, leggendo l’inspiegabile non come alterità ma come preciso ricordo di identità. Che l’emblema della vraie vie lorchiana non sia un inerte manichino, un futuribile mar-chingegno pseudo-umano, ma la viva incarnazione – benché rispondente ad un im-pulso chiaramente tipizzante – di uno stadio antropologico ancestrale, visibilmente rimosso dai percorsi e dalle prospettive identitarie dell’uomo comune e moderno, e che, per di più, tale emissario di una forma di conoscenza dimenticata sia trattato come vittima deputata dello spazio poetico, oggetto di un’evidente emarginazione e ghettizzazione culturale, è sintomatico della reductio ad se operata da Lorca ri-spetto ai fermenti provenienti dalla Francia.

Romance sonámbulo è forse l’esempio perfetto della tensione tra realtà ed ir-realtà che Lorca riscatta, quasi un manifesto di poetica, come correzione dell’esclu-sivismo “ad occhi chiusi”, della programmatica e sigillata oscurità del surrealismo dogmatico, fluttuando a metà strada tra l’aneddoto ed il mistero, o meglio, “fabu-lando” l’aneddoto del mistero per antonomasia:

El romance típico había sido siempre una narración, y era lo narrativo lo que daba encanto a su fisionomía […]. […] en algunos poemas de Romancero, como el llamado «Romance sonámbulo» […] hay una gran sensación de anécdota, un agudo ambiente dramático, y nadie sabe lo que pasa, ni aun yo, porque el misterio poético es también misterio para el poeta que lo comunica, pero que muchas veces lo ignora57.

Oltre ad affermare surrealisticamente l’“involontarietà” del processo creativo (l’autonomia – o l’automatismo – della poesia agisce all’insaputa del controllo del

56 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 444.57 F. García Lorca, Obras completas III, cit., p. 180.

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poeta che la genera), Lorca, appellandosi alla convenzione del genere romancesco, sottolinea l’esigenza di un calibrato e consapevole “ancoraggio” di tipo narrativo o drammatico. Il romance in questione, in effetti, funziona, forse più di tutti gli altri della raccolta, come un liberissimo ed antidogmatico racconto fantastico, in cui si glossa narrativamente l’irriducibile irrazionalità del dolore e della morte, solo oscuramente intuibili, percepibili appena per via “sonnambula”. Una gitana affac-ciata al balcone, incarnazione della pena irrazionale, dell’inspiegabile stimmate di un destino tragico, è protagonista di un’attesa che si caratterizza, sin dalle premes-se, come inutile e fatale. Emblema di una “passività attiva” che trafigge e perturba, di una vitalità naturale pungente ed all’erta ma condannata ad aguardar, ai margini della corrente, l’avvento di una promessa di pienezza che tarda all’infinito e si preannuncia come eternamente incompiuta, la donna andalusa prigioniera dietro una reja è una delle immagini più potenti e ricorrenti della fase neopopularista lor-chiana. In questo caso, la passività è assoluta così come archetipicamente sfumate le ragioni di un’inquieta ed indefinita speranza di riscatto («¿Pero quién vendrá? ¿Y por dónde…?»58). La gitana, quasi un fantoccio gestito dall’esterno da forze ignote e potenti che la manovrano “sonnambula”, si affaccia al balcone senza poter osservare, con gli occhi spenti come un metallo freddo («con ojos de fría plata»59), oggetto piuttosto della contemplazione assorta di un paesaggio umanizzato («las cosas la están mirando/y ella no puede mirarlas»60). Su di lei, una luna mortifera, immagine della predestinazione tragica, gioca di riflessi specchiandosi nello stagno sottostante e colorando la sua pelle ed i suoi capelli di verde, denaturalizzando la fertile promessa insita nella carnalità del corpo e richiamandola a sé con una lugu-bre litania che è variazione originalissima di un horror vacui perfettamente in linea con l’ordine insondabile delle cose:

Verde que te quiero verde.Verde viento. Verde ramas.El barco sobre la mary el caballo en la montaña61.

All’improvviso, quasi venuta ad incappare in un’impossibile voragine del sen-so, la messa a fuoco si sposta su di un camino, dove coglie e registra l’incontro ed il concitato dialogo tra due uomini: uno di loro, ferito a morte («Trescientas rosas morenas / lleva tu pechera blanca»62), chiede all’altro il permesso di «subir […] / hasta las verdes barandas» 63 per morire in pace, in un letto di fresche lenzuo-la d’Olanda. Lasciando una scia di sangue, i due sembrano salire le scale della

58 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 420.59 Ibid.60 Ibid.61 Ibid.62 Ibid., p. 421.63 Ibid.

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casa dell’inizio, da cui la «niña amarga» si sporgeva, chiamata dal desiderio e dal destino, sullo stagno verdastro. Non è dato stabilire un collegamento certo tra i due episodi, ma tutto lascia supporre che il condannato sanguinante fosse proprio l’oggetto dell’attesa anelante – e la causa della frustrazione erotica – della giovane gitana, la quale, preda di «un ansia sin objeto […] un amor agudo a nada, con una seguridad de que la muerte está respirando detrás de la puerta»64, apparirà anne-gata nello specchio d’acqua:

Un carámbano de lunala sostiene sobre el agua.La noche se puso íntimacomo una pequeña plaza.Guardias civiles borrachosen la puerta golpeaban65.

Senza il rischio di scandalizzare Todorov, trattandosi di una narrazione in ver-si, si potrebbe riscontrare nell’articolazione diegetica disarticolata ad arte di Ro-mance sonámbulo, un riferimento al meccanismo fantastico della supposizione di una causalità assurda (l’attesa di un moribondo potrebbe aver “provocato” la mor-te della fanciulla), oppure si potrebbe disquisire a lungo sulla natura irrazionale – surrealisticamente gratuita ed automatica o matematicamente decodificabile come nella poesia di “immaginazione” gongorina – delle metafore sonnambule ricorren-ti, ma l’immagine “sovrannaturale” su cui si sorregge la poesia, comandandone i significati, è senz’altro quella iniziale, al contempo misteriosa e tragicamente reale, della gitana già morta – o comunque visibilmente disumanizzata da una fatale in-coscienza onirica –, trasformata in un inerte manichino dagli occhi inorganici e dai colori tristemente cangianti ed innaturali, secondo un’iconografia di meccanicità e spersonalizzazione che perverte e sfuma sino all’irriconoscibile i doni biologici e tellurici dell’essere umano, unico baluardo, nella metafisica tutta carnale di Lorca, contro il terribile richiamo del pulvis eris. Il mistero supremo, rispetto al quale diviene vezzo innecessario ed accessorio ogni ricerca poetica ulteriore, è quello del corpo senza vita, trasformato in copia mostruosa di sé stesso.

Ancora la morte e il suo enigma, questa volta affrontati nella prospettiva di una visionaria resistenza e persistenza della vita, sono il fulcro del romance devozionale maggiore della raccolta, che celebra ed omaggia l’immaginifica religiosità popolare andalusa, rileggendo, in chiave moderna, niente affatto incompatibile con l’irrazio-nalismo espressivo dominante, il martirio di santa Eulalia. Lorca si era già espresso riguardo al potere ipnotico ed incantatorio dei miracoli dei santi tramandati dalla tradizione agiografica quando, nella conferenza «Inspiración, imaginación, eva-

64 F. García Lorca, Obras completas III, cit., p. 183.65 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 422.

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sión», si riferiva alla leggenda di Santa Brigida, evocandola come esempio poetico di un’evasione che continui ad affondare le radici nel segreto naturale:

El milagro es una forma de la emoción pura, la belleza inexplicable66.

Al secondo dei tre movimenti che compongono il testo, Lorca affida la descri-zione “irrazionale” della tortura della carne della «santa niña», in cui risuonano gli echi delle pie leggende, niente affatto parche in colpi ad effetto e truculenze: il taglio avanguardistico delle immagini appare pienamente giustificato dal limite ontologico, iconograficamente ed eticamente insopportabile, raggiunto dalle forze senza volto della violenza e della profanazione che assalgono il corpo inerme della vittima, ma anche saldamente controbilanciato, nella sua tendenza allucinatoria, dall’umanissima risposta carnale della santa, che palpita di emozione e di vita:

El Cónsul pide bandejapara los senos de Olalla.Un chorro de venas verdesle brota de la garganta.Su sexo tiembla enredadocomo un pájaro en las zarzas.Por el suelo, ya sin norma,brincan sus manos cortadasque aún pueden cruzarse en tenueoración decapitada.Por los rojos agujerosdonde sus pechos estabanse ven cielos diminutosy arroyos de leche blanca.Mil arbolillos de sangrele cubren toda la espalday oponen húmedos troncosal bisturí de las llamas67.

El romance de santa Olalla, e la santa stessa, vera e propria opera d’arte capace di ricomporre il proprio corpo mutilato in un’estrema posa di sentimento e senso compiuto, vincendo così le forze di una disumanizzazione che deve essere inter-pretata anche in senso poetico, divengono esempi imperfettibili del duende, «que se apoya en el dolor humano que no tiene consuelo», che è necessario svegliare «en las últimas habitaciones de la sangre»68. Il sistema di misura unico ed invariabile a cui Lorca dimostra di voler riferire la liceità del volo astronomico dell’immagine irrazionale sarà sempre e comunque l’uomo, ad esprimere la cui verità, ogni signi-

66 F. García Lorca, Obras completas III, cit., p. 105. 67 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 447.68 F. García Lorca, Obras completas III, cit., p. 152.

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ficante dovrà subordinare il suo alocado potere trasgressivo. Quando, nel terzo movimento, ogni resistenza sarà definitivamente bandita venendo meno il batta-gliero equilibrio tra umano ed extra-umano che aveva caratterizzato la descrizione della tortura, la versificazione si arrenderà alla contemplazione del cadavere inerte, all’orrore supremo della non-vita, lasciando campo libero ad un’armata di immagi-ni dell’alterità irriducibile, che sembra presa di peso da un prontuario surrealista. È il trionfo del manichino sull’uomo, dell’evasione assoluta, priva di ogni norma emotiva e svincolata da ogni criterio di riconoscibilità:

Olalla muerta en el árbol.Tinteros de las ciudadesvuelcan la tinta despacio.Negros maniquís de sastrecubren la nieve del campoen largas filas que gimensu silencio mutilado69.

Questi ultimi versi, forse gli unici della raccolta, soddisfano gli esigenti criteri di irrazionalismo assoluto cui si appellava Dalí70, ma si decodificano in controluce, come inquietante ed imperfetta deformazione di una norma di “amore ed allegria” condensata nell’umanissima vulnerabilità di quel corpo martoriato. Come a dire che il mistero di un corpo che sanguina, trasfigurato in naturalistica esplosione di vitalità, garantisce sublimi possibilità evasive che, tuttavia, non temono il confron-to con il significato.

Nel settembre 1928, in un’importante lettera al critico d’arte catalano Sebastià Gasch, forse già consapevole della lettura banalizzante ed incapace di coglierne la peculiare evasione poetica che si riserverà al suo Romancero, Lorca dichiara di sperimentare una nuova scrittura, ancor più slegata dalla realtà e dalle logiche della rappresentazione e, ad un primo sguardo, direttamente mutuata sul modello del surrealismo francese. Presentando all’amico i suoi «Poemas en prosa» – progetto di un libro mai pubblicato nei cui componimenti l’irrazionalismo lorchiano toc-ca, in effetti, nuovi vertici, tra l’altro mai più ripetuti, neppure in quello che sarà considerato il suo libro surrealista per antonomasia (Poeta en Nueva York) –, il poeta “flirta” con concetti inequivocabili per poi destituire risolutamente il corto circuito attivato:

Responden a mi nueva manera espiritualista, emoción pura descarnada, desligada del control lógico, pero, ¡ojo!, ¡ojo! con una tremenda lógica poética. No es surrealismo, ¡ojo!, la conciencia más clara los ilumina71.

69 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 448.70 Il pittore, tra l’altro, ha da poco pubblicato sulla rivista catalana d’avanguardia L’amic de les arts una delle sue prose poetiche più emblematiche che, in un significativo botta e risposta con Lorca, rilegge l’iconografia di un altro martire, San Sebastiano, senza alcuna concessione empatica e sentimentale, associando il suo corpo trafitto ad un meccanizzato ed astratto intersecarsi di superfici misurabili.71 F. García Lorca, Obras completas III, cit., p. 1080.

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Non è compito di questo studio valutare l’autorevolezza di una sconfessio-ne così netta alla luce dei testi in questione; ciò che importa è riscontrare che l’incontro tra Lorca ed il surrealismo, solitamente sbandierato dalla critica come verità ultima della sua seconda fase poetica, sembra destinato a restare un incontro imperfetto, o una prova di adattamento, gestita dalla lucida diffidenza per una consuetudine espressiva che, ai suoi occhi, non fa compiere rilevanti passi in avan-ti al fatto poetico rispetto alle tendenze disumanizzanti delle prime avanguardie. Significativamente, Lorca rilegge il surrealismo come spiritualismo, una delle tante variazioni terminologiche possibili su quella che definirei la ricezione neoroman-tica del surrealismo spagnolo, in cui l’impudicizia sentimentale ed emotiva si so-stituisce all’onirismo astratto e diafano come mezzo necessario di liberazione del-l’uomo nell’era delle macchine. Un precedente diretto della dichiarazione appena commentata è rintracciabile in una lettera, sempre diretta a Sebastià Gasch, datata 2 settembre 1927 (precedente, dunque, alla pubblicazione del libro cardine del-l’estetica neopopolarista lorchiana, ma successiva alla composizione dei suoi testi maggiori). Anche qui, Lorca si sente pronto per una rivoluzione metodologica, da riferirsi ad una serie di disegni:

Abandonaba la mano a la tierra virgen y la mano junto con mi corazón, me traía los elementos milagrosos. Yo los descubría y los anotaba. Volvía a lanzar mi mano y así, con muchos elementos, escogía los característicos del asunto o los más bellos e inexplicables y componía mi dibujo72.

Il processo creativo è assimilato ad una pesca miracolosa, condotta secondo il criterio di un ardente desiderio di irrealtà. I pesci meno belli – o più riconoscibili come tali – vengono ributtati a mare, come vorranno, qualche anno più tardi Dalí e Buñuel per Un chien andalou. Ma l’amo utilizzato, ci tiene a precisare Lorca, si chiama realtà:

Yo nunca me aventuro en terrenos que no son del hombre porque vuelvo tierras atrás en seguida, y rompo casi siempre el producto de mi viaje. Cuando hago una cosa de pura abstracción, siempre tiene (creo yo) un salvaconducto de sonrisas y un equilibrio bastante humano73.

L’evidente entusiasmo con cui il poeta esibisce la sua recentemente acquisi-ta giocosità e spregiudicatezza espressiva («Me siento limpio, confortado, alegre, niño cuando los hago»74), l’avventura dell’irrazionalità poetica assoluta, registra e teme il rischio dell’automatismo e, potremmo dire, si autocensura, cercando lega-mi, lacci, vincoli, punti d’appoggio per non soccombere alla tentazione del «per-petuo sueño», dell’arte “diretta”. Passeggiare sull’orlo del precipizio senza lasciarsi

72 Ibid., p. 1025.73 Ibid.74 Ibid., p. 1026.

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sedurre dalla vertigine del vuoto, nella convinzione che l’artista non possa e non debba divagare dal «seguro andamio de madera» che soltanto la riferibilità umana ed umanistica dell’immagine può garantire.

Con Poeta en Nueva York – l’opera di allucinazioni metropolitane che Lorca scrive nel 1929 durante un viaggio studio nella città statunitense e che viene pub-blicata solo dopo la sua la morte, nel 1940, in una temperie culturale ormai dichia-ratamente insensibile al fascino surrealista, in cui l’orrore estremamente reale della guerra civile e della dittatura franchista hanno ormai, almeno in apparenza, spento ogni appetito di irrealtà –, i suoi versi, rimosso l’intimo dialogo con i modelli della visionarietà popolare andalusa e confrontandosi, forse programmaticamente, con le inedite visioni della modernità, con l’ignoto di una cultura altra e, per tanti versi, inintelleggibile, si prestano ad associazioni capricciose ed illogiche e sem-brano faticare a rintracciare il freno umanistico che teneva assieme i viaggi poetici precedenti. Assorte litanie di oggetti inspiegabili, sintomaticamente deturpati, mo-struosi, metamorfici, incapaci di agglutinare un insieme riconoscibile, paralizzano l’osservatore che li riceve come in un prolungato, snervante trance onirico. Come in questo “panorama” portuale da «Paisaje de la multitud que orina»:

¡La luna! ¡Los policías¡ ¡Las sirenas de los transatlánticos!Fachadas de orín, de humo, anémonas, guantes de goma.Todo está roto por la nocheabierta de piernas sobre las terrazas.Todo está roto por los tibios cañosde una terrible fuente silenciosa75.

O in questa «Danza de la muerte»:

Era el momento de las cosas secas:de la espiga en el ojo y el gato laminado;del óixido de hierro de los grandes puentesy el definitivo silencio del corcho.Era la gran reunión de los animales muertosTraspasados por las espadas de la luz.La alegría eterna del hipopótamo con las pezuñas de cenizay de la gacela con una siempre viva en la garganta76.

Accanto all’enumerazione caotica di immagini di distruzione, trasformazione indebita, patetico martirio e parcellizzazione violenta di unità di partenza trasfigu-rate fino all’irriconoscibile (esemplare, a questo proposito, l’allucinante “bestiario” di cui segnaliamo l’infinito moltiplicarsi in altre poesie della raccolta), si percepisce la presenza drammaticamente vigile di un soggetto umano e poetico che contem-

75 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 529.76 Ibid., p. 124.

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pla il naufragio illogico della complessità significante del reale, giudicandola etica-mente come frutto di una disumanizzazione in cui ontologia e rappresentazione si specchiano quasi mimeticamente. L’io biografico e l’io lirico lorchiano divengono protagonisti di una strenua, difficilissima ricerca per non perdersi nell’alterità del senso assente, adesso plasmata come incubo di alienazione metropolitana:

Esta mirada mía fue mía, pero ya no es mía.Esta mirada que tiembla desnuda por el alcoholy despide barcos increíblespor las anémonas de los muelles.[…]Yo, poeta sin brazos, perdidoentre la multitud que vomita77.

La scrittura che saremmo tentati di definire “automatica”, lungi dal compia-cersi dei suoi illogici reperti, diventa ossessione schizofrenica dell’identità perduta. Espropriato del proprio contesto naturale e significativo, Lorca si lascia dolorosa-mente attraversare dal caos surrealista per “rappresentare” e denunciare la sterilità del contesto urbano e la disumanità dei suoi manichini («criaturas vestidas, sin desnudo»78), usando l’immaginario onirico dell’ultima delle avanguardie per espri-mere l’orrore dell’assenza di succhi tellurici, alla quale si contrappone con il suo terribile grido di non appartenenza, che reclama un’attività vigile e diurna della coscienza, pronta a testimoniare e denunciare. La tecnica surrealista non si attiva come un aproblematico automatismo, ma filtra “neoromanticamente” i sentimenti di sradicamento del poeta “assassinato”, in lotta dolorosissima per recuperare una visione sensata, nonché un contatto, un varco comunicativo tra sé e il mondo. Il viaggio onirico, il volo illogico dell’immaginazione, vengono a coincidere con un drammatico, castrante esilio della voce autentica, quella «antigua» con cui Lorca ristabilisce un intimo contatto meta-poetico in «Poema doble del lago Eden», in-vocandola, con tutti i suoi attributi di riconoscibilità umana – «¡Ay voz antigua de mi amor! / ¡Ay voz de mi verdad! / ¡Ay voz de mi abierto costado»79 –, a polveriz-zare «esta voz de hojalata y de talco»80, l’inautenticità “inorganica” di una sugge-stione onirica che chiude gli occhi sulle logiche metropolitane della sopraffazione del più debole e sull’emarginazione del diverso, traendone spunto per conturbanti, deliziosi “massacri” semantici.

Concludo questa breve ricognizione con una poesia che condensa simbolica-mente l’ossessione lorchiana per l’utilizzo coatto dell’immagine surrealista all’in-terno di un contesto, quello metropolitano, in cui l’ordinaria irriconoscibilità delle “forme pure”, traviate e corrotte dal morbo dell’alienazione, sfuma sino all’invero-

77 Ibid., p. 528.78 Ibid., p. 512.79 Ibid., p. 537.80 Ibid., p. 538.

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simile la distinzione tra sogno e veglia, e il regime notturno dell’immagine illogica e libertaria permane, caratteristicamente, anche quando i nostri occhi rimangono aperti:

No duerme nadie por el cielo. Nadie, nadie.No duerme nadie.Las criaturas de la luna huelen y rondan las cabañas.Vendrán las iguanas vivas a morder los hombre que nosueñany el que huye con el corazón roto encontrará por las esquinasal increible cocodrilo quieto bajo la tierna protesta de losastros81.

In «Ciudad sin sueño», Lorca sembra stigmatizzare l’incubo dell’invadenza diurna delle visioni dell’alterità inconscia, disegnando un notturno dell’insonnia, della veglia necessaria, da intendersi come estremo tentativo di testimonianza e volontà di senso, che comunque non riesce a liberarsi dei terribili fantasmi della visione onirica che ha ormai intaccato e reso irriconoscibile ogni dato di superficie. Non sembra esserci più scampo per una città che, con gli occhi sbarrati ed iniettati di sangue, riesce a cogliere solo emanazioni sconnesse, ossessive ed “incredibili”. Sovente, si sono letti questi versi come un manifesto di agitazione e provocazione surrealista, con riferimento alle creature notturne pronte a mordere, pungolare e “svegliare nel sonno” l’inautentica non-vita del soggetto metropolitano, sintoma-ticamente incapace di sognare, di aprirsi ai misteri della vraie vie. L’impressione iniziale non può comunque che rovesciarsi, non solo se accostata ad altri loci del macrotesto lorchiano, in cui il poeta, come abbiamo visto, tende a rimuovere da sé l’amaro calice del liquore denso del sogno, sconfessandone le potenzialità sapien-ziali, ma soprattutto in relazione alla strofa che citiamo a seguire, vera e propria chiamata alle armi per l’uomo contemporaneo, stimolato a impegnarsi attivamente con la ricerca del senso e della dignità del suo ruolo nel mondo:

No es sueño la vida. ¡Alerta! ¡Alerta! ¡Alerta!Nos caemos por las escaleras para comer la tierra húmedao subimos al filo de la nieve con el coro de las dalias muertas.Pero no hay olvido ni sueño:carne viva. Los besos atan las bocasen una maraña de venas recientesy al que le duele su dolor le dolerá sin descansoy al que teme la muerte la llevará sobre los hombros82.

81 Ibid., p. 532.82 Ibid., p. 532.

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Invertendo la celebre formula calderoniana, Lorca sembra anticipare con questi versi il manifesto teorico con cui, nel 1930, José Díaz Fernández, chiamerà a raccolta gli scrittori della generazione de avanzada, traghettando il fatto poeti-co definitivamente fuori dai compiacimenti irrazionalistici dell’avanguardia: con perfetta coerenza rispetto alle premesse che abbiamo tracciato, Lorca difende la rappresentazione naturale dell’uomo di sangue a discapito del simulacro onirico, imponendo al manichino surrealista l’insonne visione della «carne viva», il con-fronto eticamente ineludibile con le storture ed i «crímenes diminutos» di una so-cietà disuguale ed ingiusta, rivendicando così, per Poeta en Nueva York, un livello di lettura “politico” e militante83 in senso ampio, che si incrocia magistralmente ed entra in caratteristica tensione dinamica con il livello espressivo, marcato da una “scrittura automatica” quasi acquisita per citazione in un sistema più vasto che la contiene e la supera.

Riassumendo, quando Lorca incontra il surrealismo, lo ascrive immediatamen-te alle proprie esigenze comunicative ed alle convenzioni rappresentative del suo uomo-natura, riconoscendovi le ragioni della sua crociata a difesa degli istinti pro-fondi e dell’espressione autentica ed immediata. Più avanti, quando vi si accosterà direttamente, forse per compiacere un gusto o una moda trascinante ed inevitabile, tenderà sempre a correggere ed a integrare le limitazioni di una prassi creativa e di una visione del mondo tendente a separare e a scomporre, privando l’uomo della propria composita verità naturale. Se per i surrealisti, l’anima irrazionale, fonte esclusiva ed escludente di inedite rivelazioni poetiche, esaurisce il ritratto dell’in-dividuo, e vieta ogni interferenza di tipo morale, emotivo o ideologico, per Lorca è un tassello indispensabile ma non sufficiente attraverso il quale si può tentare di ristabilire la completezza significante dell’essere umano nella sua integrità.

2.3 Verso una sintesi: il realismo “ganglionare” di Sender

Lo que se llamó vanguardia literaria en los últimos años no era sino la postrera etapa de una sensibilidad en liquidación. Los literatos neo-clasicistas se han quedado en literatos a secas. La verdadera vanguardia será aquella que ajuste sus formas nuevas de expresión a las nuevas inquietudes del pensamiento. Saludemos al nuevo roman-ticismo del hombre y de la máquina que harán un arte para la vida, no una vida para el arte84.

Il libro manifesto della letteratura impegnata degli anni ’30, El nuevo romanti-cismo di José Díaz Fernández, sorta di risposta teorica all’altrettanto fondamentale,

83 È necessario ricordare che proprio sotto la pressione dell’urgenza politica il surrealismo francese entra in crisi agli inizi degli anni ’30, come testimoniano le “crepe” e le contraddizioni del Secondo Manifesto bretoniano. Solo se riferita a questa temperie di revisione interna al gruppo resta pertinen-te l’associazione “surrealista” di Poeta en Nueva York. 84 J. Díaz Fernández, El nuevo romanticismo, cit., p. 50.

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per la generazione precedente, La deshumanización del arte di Ortega y Gasset, registra un’immorale scollamento tra il fatto artistico e la vita comune, di cui gli avanguardisti sarebbero gli ultimi, esecrabili esempi. Senza concedere al surrea-lismo alcuna attenuante e associandolo senza demarcazioni allo sperimentalismo elitario e fine a sé stesso degli altri “-ismos”, il neoromanticismo auspicato da Díaz Fernández è storicamente accostabile ad un ritorno della “vita” in letteratura, ad una ripresa di modalità rappresentative di stampo realistico, insofferente ad ogni fuga immaginifica – borghese e mistificante – fuori dai binari di una rinnovata at-tenzione critica da tributare allo sfondo sociale, questo sì, animata da una passione ed un fervore ideologico che non cela il proprio punto di vista dietro stantie pre-sunzioni di obiettività ma, sin dalle premesse, pretende che l’artista, conveniente-mente riscattato dal suo isolamento e radicato in una realtà collettiva, diventi voce della massa, camminando battagliero al fianco delle classi disagiate ed attaccando i soprusi in atto in una Spagna intenta nella difesa del latifondo e del capitale, a discapito del popolo contadino e proletario.

Il “nuovo romanticismo” è, dunque, un realismo sociale o “socialista” che denuncia il sistematico sfruttamento della più debole tra le “due Spagne”, metten-do il dito nella ferita aperta che porterà, nel 1936, alla deflagrazione della guerra civile. A questo clima antipurista ed antiavanguardista, a questo vistoso processo di riumanizzazione, che adesso coinvolge non più soltanto il lato privato ma anche quello pubblico e politico dell’uomo-artista, parteciperanno, in modo diverso ma convergente, oltre ai giovani del gruppo de avanzada85 (riuniti intorno alla rivista Nueva España), anche alcuni letterati simbolo della vecchia scuola, tra cui Rafael Alberti che nel 1931, qualche anno dopo il surrealismo di Sobre los ángeles, si iscri-ve al Partito Comunista e mette la sua penna al servizio della rivoluzione86, a con-ferma della teoria, che qui si tenterà di sostenere, di un’insistenza fertilizzante, non sempre consapevole ma in ogni caso attiva, dell’eredità culturale della generazione anteriore, soprattutto del legato surrealista, sui percorsi creativi della novela social degli anni ’30. Tale presupposto acquisirà corpo attraverso lo studio del pensiero e dell’opera di Ramón J. Sender, lo scrittore che Pío Baroja, in un suo articolo del 1933, accosterà a Lorca – il rappresentante per antonomasia di un’avanguardia, come abbiamo visto, piena di sfumature –, eleggendolo a caposcuola della pro-sa socialmente impegnata dell’avanzada87. Se la critica tende a contrapporli mani-

85 La metafora bellica è praticamente la stessa di quella in cui si celava l’elitarismo dell’avanguardia, ma adesso il riferimento sprezzante nei confronti delle “retrovie” si rovescia in un anelito di batta-gliera rappresentanza.86 Non dimentichiamo che verso un’apertura alla necessità storica di una rivoluzione non più mera-mente interiore, ma chiaramente marxista si indirizza anche il Breton del Secondo Manifesto (1929), sbandierando «un’adesione totale, senza riserve, al principio del materialismo storico» su cui si spac-cherà la compattezza del movimento, tra i dogmatici difensori di un irrazionalismo puro e i nuovi, pe-culiari, “surrealisti-comunisti” trattati, comunque, con diffidenza dai vertici del Partito «come strani animali destinati ad esercitare nelle sue fila la svagatezza e la diffidenza» (A. Breton, op. cit., p. 79).87 Così Baroja su La Nación di Buenos Aires: «Entre los jóvenes un poeta: García Lorca. Y un nove-lista: Sender».

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cheisticamente come espressioni contraddittorie, rispettivamente, dell’evasione e dell’adesione, vedremo come sarà possibile rimuovere le etichette, riconducendo i due autori ad una sostanziale comunione di intenti, basata sul rispetto di una visione integrale dell’uomo che rifiuta ogni dogma ed ogni definizione settoriale, armonizzandone i vincoli di responsabilità collettiva con le libere espressioni indi-viduali. Nella messa a punto di tale ideale, su entrambi gli scrittori sembra agire la ricognizione ed il recupero di una definizione primitiva, tellurica dell’essere uma-no, implicita nella saggia spontaneità della cultura popolare.

Francisco Ayala, scrittore che inizia il suo percorso letterario con i modi del-l’avanguardia per poi diventare una delle voci più significative della nuova era, nel proemio alla sua raccolta di racconti sulla guerra civile spagnola (La cabeza del cor-dero, 1949), ricorda la sua personale transizione verso forme espressive di impegno ideologico e ricognizione storico-sociale come un penoso taglio netto («El tajo» è il titolo emblematico di una di queste narrazioni) imposto dall’urgenza problematica di avvenimenti e circostanze che, all’improvviso, resero inattuale «aquella sensual alegría que jugaba con imágenes, con metáforas, con palabras, y se complacía en su proprio asombro del mundo»88 e ne seccarono la vena:

puse tregua a mi gusto de escribir ficciones, y acudí con mi pluma al empeño de dilu-cidar los temas penosísimos, oscuros y desgraciados que tocaban a nuestro destino, al destino de un mundo repentinamente destituido de sus ilusiones89.

Delucidare, indagare e riflettere (nella doppia accezione dell’attività del pen-siero e dello specchio) come dolorosa necessità di destituire la semantizzazione “fittizia” dell’arte precedente, terreno di gioco ed officina alchimistica dell’artefice, intento a fabbricare, “fingere”, dare vita a sorprendenti fantasmi d’irrealtà, piena-mente sconfessati come muti ed inespressivi emblemi di un colpevole egocentri-smo, di una fuga individuale dalle ragioni storiche della responsabilità collettiva dell’intellettuale, che ha il dovere di “sintonizzarsi”, sul piano della rappresenta-zione così come su quello della comunicazione, con il gruppo sociale, con la conge-rie dei viventi, appellandosi, per creare, ai tratti accomunanti e non differenzianti della natura umana: l’immedesimazione della ragione e dell’emozione più che l’ec-centricità dell’immaginazione. In contrasto con queste nette e drammatiche esi-genze polarizzanti, Sender, forse per il fatto di non aver vissuto in prima persona il processo di intorbidamento e sclerotizzazione dell’arte dell’immagine, nell’articolo «El novelista y las masas» (1929), pur non risparmiando dure critiche all’irrespon-sabilità purista dell’esperimento d’avanguardia, lascia intravedere una disposizio-ne al sincretismo ed alla sintesi che si realizzerà pienamente soprattutto nella sua scrittura dell’esilio, quando, definitivamente fallito il progetto rivoluzionario cui la scrittura era chiamata a contribuire, costernato di fronte alla terribile circostanza

88 F. Ayala, La cabeza del cordero, Alianza, Madrid, 1998, p. 9.89 Ibid.

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dello straniamento ambientale e dello sradicamento affettivo e politico, mette a punto le sue opere forse più originali e rappresentative, in cui la ricognizione rea-listica di un’ormai insanabile ingiustizia ed imperfezione della Storia trova ristoro e completamento nella rivalutazione sapienziale e spontanea dell’istinto profondo, dei moti anarchici dell’individuo a-storico ed eterno.

Quando Sender comincia a pubblicare, in parallelo, scottanti réportages gior-nalistici ed i suoi primi romanzi sociali (Imán, accusa antimilitarista alle guerre in Marocco, è il primo di una lunga serie, cui si aggiungeranno, in questa prima fase, la lotta contro il regime poliziesco di O.P., l’ambigua descrizione della crociata anarcosindacalista di Siete domingos rojos ecc.), l’accento cade vistosamente sul valore educativo di una letteratura proletaria, mutuata sull’esempio della Russia rivoluzionaria, animata da «una profonda considerazione del ruolo sociale dell’arte ed una sincera preoccupazione per il destinatario»90. Ciononostante, alcune di-chiarazioni dello scrittore sembrano rivelare una certa insofferenza o, comunque, una diversa interpretazione, del rigido schema di osservazione ideologicamente manovrata dell’esempio sovietico:

Afortunadamente cada día van ganando terreno en arte el instinto y la suboncien-cia91.

¡No queremos los sucesos compuestos por inteligencias enfermas de mentira burgue-sa, sino los sueños originales – de origen – de las mentes nuevas a través de un sentido multitudinario de la emoción92!

L’impostazione razionalistica ed ordinata che, insieme alla passione umanisti-ca insita nell’intenzione rivoluzionaria, sembra essere presupposto fondamentale della nuova letteratura comincia ad essere sconfessata come una gabbia oppressi-va, inadeguata a canalizzare il libero fluire del fervore “neoromantico” ed, a suo discapito, si cominciano a valorizzare poli creativi apparentemente incompatibili con il compromiso e la denuncia, dal sapore inequivocabilmente regressivo, surrea-listicamente connotato: «subconciencia» e «sueños». Al secondo di questi due ter-mini viene applicata una specificazione emblematica – etimologicamente ribadita entre guiones: sogni “originari” o di origine. Si comincia a delineare la visione del mondo di questo peculiare “scrittore per le masse”, legato alla saggezza “magica” dell’archetipo primitivo ed al valore corroborante dell’istinto naturale così come alle esigenze della critica rivoluzionaria, ed ad intravedere la caratteristica ambigui-tà –o il perfetto equilibrio – del fondamentale «El escritor y las masas», precedente più compiuto della teoria senderiana della “sfera”, tratteggiata nel primo romanzo dell’esilio, Proverbio de la muerte, e perfezionata successivamente nella sua riscrit-tura (La esfera, 1953).

90 D. Pini, Ramón José Sender tra la guerra e l’esilio, Edizioni Dell’Orso, Alessandria, 1994, p. 130.91 R. J. Sender, Teatro de masas, Orto, Valencia, 1932, p. 18.92 Ibid., p. 115.

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Nell’articolo del ’29, Sender definisce il presupposto basilare di ogni genuina espressione artistica attraverso la formula del «principio vital»93: i nuovi romanzie-ri “impuri” – implicati nella missione di «un arte para la vida» – non dovrebbero tentare di dominarlo, catalogarlo o reprimerlo, bensì lasciarsi «invadir o dominar por él como el pájaro por la selva o el piloto por el mar, seguros de los límites de su pericia en medio de la gran emoción de los árboles o de las aguas»94. Ciò che si cri-tica delle avanguardie precedenti non è tanto l’impostazione irrazionalistica della scrittura, che non fa altro che riprodurre, secondo un presupposto marcatamente lorchiano, il saggio mistero della natura, in cui gli animali ed i tipi umani dell’anar-chia antintellettualista, della ferinità senza sovrastrutture – «ladronzuelo», «guer-rero», «lazarillo»95, emblemi di vitalità spontanea non poi così dissimili dal “gita-no” del Romancero – si muovono tra le cose dell’esistere con il solo orientamento del loro istinto, quanto la velleità di controllare e riprodurre a tavolino, per astra-zione, ciò che è organico in vita, svincolando i richiami inconsci dell’individuo che sogna e immagina dalle esigenze della responsabilità collettiva. Il principio vitale, indefinibile midollo dell’esperienza dell’uomo e dell’artista, così dotato di evidenti connotazioni misteriose ed inspiegabili, al contrario, «solo puede manifestarse en relación con las necesidades y las aspiraciones colectivas»96, ovvero incontra la sua espressione più nobile ed armoniosamente umana in una proiezione solidale degli istinti individuali, la cui stessa inclinazione naturale dispone spontaneamente al confronto dinamico con la comunità, riscattando così il rischio implicito di un’au-tosufficienza egocentrica, antisociale, di tutto ciò che non è razionalizzabile. Si sta dunque ipotizzando una revisione riumanizzante – che compie un ulteriore passo in avanti rispetto a quella tutta privata già attuata dai poeti del ’27, a comprendere, adesso, anche la faccia pubblica dell’umano – di un’eredità culturale surrealista, o meglio, di un surrealismo naturale che è esperienza consustanziale alla vita e che viene ad integrare, nel progetto sincretico del nuovo scrittore delle masse, gli im-pulsi più ovviamente implicati nel suo impegno critico, quelli dello spirito e della ragione. Tutt’altro che incline alle facili contrapposizioni ed alle etichette d’acca-demia, lontano dalla volontà iconoclasta di reprimere le conquiste immaginarie dell’ultimo degli “-ismos”, che ha insegnato a sfruttare letterariamente l’irrazionale senza aver paura del suo potenziale trasgressivo, della sua apparente irriducibilità significativa, Sender propone una visione dell’uomo – e della sua rappresentazione artistica – funzionante come un prisma a più facce in cui si abbracciano super-fici che si presuppongono complementari e individualmente insufficienti, capaci di restituire un’immagine soddisfacente e degna solo funzionando all’unisono, in virtù del loro naturale abbracciarsi, implicito, peraltro, nella naturale complessi-

93 R. J. Sender, «El novelista y las masas», in J. Esteban y G. Santonja, Los novelistas sociales españoles (1928-1936), Ayuso/Peralta, Madrid/Pamplona, 1977, p. 160.94 Ibid., p. 159.95 Ibid., p. 161.96 Ibid.

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tà dell’essere. Ma andiamo per gradi ed approfondiamo l’idea fondamentale del saggio, che si basa su di un tentativo di risemantizzazione dell’inconscio come vi-gile custode della responsabilità solidale dell’uomo e del compromiso sociopolitico dell’intellettuale engagé. L’idea della rivoluzione proletaria non deriva, come nel manifesto di Díaz Fernández, dalla censura, dall’amputazione morale e razionale delle radici profonde del comportamento umano scoperte dalla psicanalisi e riven-dicate artisticamente dal surrealismo, bensì si inserisce in un solco di continuità e naturale prosecuzione di quelle fondamentali esperienze, che bisognerà ritracciare a partire dalla volontà di correggere un’aporia di base del tutto insostenibile nella nuova circostanza: quella della forzosa tendenza antisociale degli istinti.

Se escribe dejándose llevar por un elemento preponderante, que en unos escritores es el espíritu, en otros la razón, en otros la subconsciencia. A estas palabras pueden corresponder otras de parecido sentido: al espíritu, la imaginación; a la razón, la re-flexión; a la subconsciencia, la sensación y su sordo eco durante el sueño. Con diez cifras se pueden hacer combinaciones aritméticas infinitas. Con estos tres elementos, también97.

Perché si possa parlare di una “moralità surrealista” sarà necessario smettere di pensare agli istinti come ad una costruzione aliena e separata dall’unità del-l’essere, di trattarli come una categoria a parte e rappresentarli, finalmente, nel loro fruttifero interagire con gli altri elementi che definiscono la natura umana. Il peccato mortale che Sender rimprovera al gruppo di Breton, oltre a riconoscergli il merito non di poco conto di «añadirle un ángulo al polígono intelectual y de abrirle al mundo otra ventanita secreta»98, è il «miedo a la responsabilidad»99, de-rivante da una gestione escludente del subconscio, asetticamente depurato da ogni implicazione morale e da ogni possibile incanalamento razionale. Se l’istinto, Sen-der riconosce, «representa un hito del hombre», celebrarlo letterariamente nel la-boratorio sigillato della norma inconscia, svuotandolo di ogni possibilità dialettica, presuppone un paradossale, caratteristico tentativo di moralizzazione alla rovescia, speculare a quello portato avanti dall’arte tradizionale nella sua ostinata rappresen-tazione dell’uomo spiritualmente e razionalmente definito, la simulazione cinica di una pazzia consapevole ed autocompiaciuta che si estasia dinanzi alla «zona fácil y brillante de la abstracción, de la nebulosa, del símbolo ináudito»100, senza avere il coraggio di misurarsi con gli ibridi impuri che si danno in natura. All’alterità come dogma, all’irreale per precetto e provocazione, Sender accosta una serie di nuove proposte che, piuttosto che polarizzare la sua istanza creativa verso il lato opposto dello spettro, si limitano a correggere ed integrare quelle del surrealismo: in questo modo, la «videncia» risponde alla «clarividencia», «el orden dialéctico»

97 Ibid, p. 164.98 Ibid., p. 166.99 Ibid., p. 168.100 Ibid., p. 167.

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alla «locura consciente», ed i diritti inalienabili del «delirio» sono sostituiti dalla ricerca di una “nuova ragione”, «esa “nueva razón” que el verdadero artista alcan-za nutriéndose del delirio como de un alimento más»101. Guidato dalla bussola di un «encuentro comprometido», Sender, pur nel pieno rispetto delle sue conquiste immaginarie, attribuisce al surrealismo un ruolo meramente veicolare, sminuendo drasticamente la sua trascendenza storica:

Cumplido ese destino [el de incorporar su esencia a la «corriente general»], el sur-realismo debió disolverse como escuela y esperar que sus conclusiones se realizaran fuera de sí102.

Non mi sembra azzardato leggere in queste parole un implicito invito ai gio-vani artisti contemporanei, chiamati a disegnare nuove rotte proprio a partire da un’adeguata interiorizzazione di basi surrealiste, con lo scopo di svilupparne il potenziale inespresso: l’irrazionale deve divenire anima integrata nella sferica com-plessità dell’uomo, compenetrandosi con lo spirito e la ragione in un’armonica e fluente circolazione continua di rimandi e riflessi naturali, svincolandosi dal suo ruolo marginale di negativo tenebroso dell’identità civilmente accettabile e, al tempo stesso, da quello di irresponsabile agente provocatore dello scandalo nelle astruse seconde realtà delle avanguardie.

In questa fase, ancora animata dalla speranza di un’incidenza attiva dell’arte nel processo di rivoluzione sociale, gli obiettivi di Sender sono univoci e gli stru-menti, seppure caratteristicamente tendenti all’integrazione di impulsi di prove-nienza difforme, appaiono ben definiti: la letteratura si lascia guidare dal principio vitale che, più che da ogni altro organo e funzione (il cervello che è sede dell’intel-letto e lo spirito che agisce in assenza di un organo di irradiazione specifico) viene percepito per via subliminare attraverso i “gangli”, i centri nevralgici dell’istinto e degli impulsi automatici che restituiscono all’uomo, verticalmente ed a ritroso nel-le ere preterite dell’evoluzione, un volto fuori dalla Storia, una struttura basica ed elementare che lo imparenta con gli animali, la vegetazione ed i minerali, sorpren-dendo le sue sovrastutture civilizzate con reminescenze potenti, e suggestivamente irrazionali, provenienti dalla sua preistoria, «sueños de carbonato de calcio y de fosfato de magnesio» dirà lo scrittore. Ciononostante, l’insistenza sulla natura gan-glionare dell’esperienza artistica, la ridefinizione atavica e organica del subconscio surrealista in cui l’intelligenza malata si prostra di fronte a convincenti e rivelatori “sogni dell’origine”, non produce meccanismi di fuga ed evasione dalla concretezza della circostanza, dall’impellenza della missione: il volto privato ed il volto pubbli-co dello scrittore si compenetrano naturalmente, giacché proprio i gangli ed il loro richiamo all’autenticità elementare impongono la solidarietà e la lotta come fine ultimo della creazione, agendo di comune accordo con gli altri organi per garantire

101 Ibid.102 Ibid., p. 166.

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il fluido avanzamento della sfera. Oltre a raccomandare il funzionamento integrato del potenziale irrazionale e immaginifico (ricordiamo: alterità tenebrosa in lotta con la ragione nel fantastico o escludente identità alternativa nel surrealismo dog-matico), che adesso si rende disponibile a cooperare con gli altri centri irradianti della natura umana dando luogo a «combinaciones aritméticas infinitas»103, ed a sottolineare la sua intrinseca vocazione sociale (rovesciando la disturbante ten-denza alla disgregazione cui si legava nel fantastico e la programmatica, liberatoria distruzione del noto delle avanguardie), la formula dei gangli messa a punto da Sender ne naturalizza l’operato, giustificandolo addirittura su base organica ed associando l’immagine e la visione inspiegabile ad una vivencia ancestrale, ad una rivelazione d’identità sotterrata dagli strati e sovrastrutture della convivenza civile. La ragione si coniuga con l’istinto, il cervello con i gangli in un modello esemplare di umanità (autenticamente individuale e al tempo stesso moralmente proiettato verso il collettivo) ed in un modello esemplare di nuova letteratura “umanistica”, in cui campeggia una realtà «retta dal principio oggettivo della causalità, […] in-terpretabile e modificabile con criteri di tipo razionale» ed al tempo stesso abitata, pervasa «da forze irrazionali e magiche, provenienti dall’ambito vitale dell’uomo arcaico che agiscono in lei come veri e propri principi attivi»104.

Tuttavia, il meccanismo sferico, il congegno calibratissimo e meravigliosamen-te naturale della creazione umana, è destinato ad incepparsi nel momento in cui entra in crisi l’ideale politico senderiano e l’invadenza violenta della Storia squilibra l’armoniosa dialettica individuo-società, rivelando l’anello debole della catena: con l’inarrestabile naufragio del progetto della Spagna Repubblicana per il quale Sen-der si prodiga e lotta attivamente sino alla conclusione della guerra civile, diventa più difficile incanalare la dirompente spontaneità delle visioni ganglionari nelle trame superficiali, grottesche ed oppressive di una realtà sociale troppo degradata e compromessa per garantire all’uomo la conduzione di una vita autentica. Alla ricerca di un principio vitale che appare sempre più latente nel gruppo, lo scrittore ganglionare ed i suoi eroi si vedono costretti ad abbandonare il campo, approfon-dendo la loro individuale hombría smettendo quella che comincia a coincidere con una maschera troppo stretta, sostanzialmente falsa: quella della persona, dietro cui l’hombre media le ragioni autarchiche della propria natura profonda a beneficio della convivenza civile. Nasce così la fuga ganglionare, il viaggio nell’incoscienza dell’individuo isolato che tenta di sottrarsi al peso opprimente della circostanza, ri-fugiandosi in un’irrazionale ed “immorale” (dal punto di vista del compromiso sto-rico-sociale invocato, in sede preliminare, come necessaria responsabilità di ogni creatura) evasione onirica, in cui i sensi di colpa e il perseguimento di una salvezza che comincia a delinearsi come necessariamente ed esclusivamente individuale si saldano in un tutt’uno inestricabile che è il metaforizzante precario ed ambiguo dell’esilio biografico dello scrittore dalla sua Spagna. Il fatto che la via irrazionale

103 Ibid., p. 164. 104 D. Pini, Ramón José Sender tra la guerra e l’esilio, cit., pp. 137-138.

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dei gangli appartenga al nostro patrimonio immemoriale ed, anzi, costituisca la nostra espressione più vera – che non evade dall’umano ma, anzi, ne pervade le strutture di fondo – certamente aiuta, ma non è sufficiente a redimere del tutto la sensazione terribile di un fatale scollamento dalla Storia che, da un certo punto di vista, si prova a trascendere attraverso l’unione amniotica con tutta la materia, viva ed inerte, che i gangli ci restituiscono attraverso il sogno della sfera primordiale, ma che dall’altro ci ha imposto l’implacabile suicidio di una delle nostre nature: quella sociale. Proverbio de la muerte è il significativo titolo del primo frutto di queste in-quietudini: romanzo filosofico che lo scrittore redige durante la traversata transo-ceanica che lo porta in salvo verso le Americhe dalla ritorsione franchista, si serve del primo fra i tanti alter ego autobiografici che, da ora in avanti, cominceranno ad impossessarsi della pagina senderiana (Federico Saila, palindromo di “Alias”), per riflettere sul funzionamento imperfetto della esfera nella società contemporanea che, adesso, pare appiattirsi verso un irrazionalismo senza quartieri, mascherando la delusione del singolo per l’espulsione patita dalla collettività dietro una nauseata insofferenza per ogni forma di convivenza civile e per ogni sovrastruttura etica ed intellettiva tesa ad addomesticare il saggio operato dei gangli. Accanto ai primi vagiti di una vena memorialistica soffocata a fatica, che sarà approfondita nei ro-manzi successivi, Sender rivendica il proprio desiderio di alterità, metaforizzando il suo viaggio come un salto nel vuoto, una risposta autarchica alla privazione che lo porta a mollare gli ormeggi della razionalità e della responsabilità, ristorandosi nelle ipnotiche visioni del sottosuolo ganglionare:

Yo tengo a veces sueños de carbonato de calcio o de manganeso y sobre todo de lava, de roca volcánica. Me veo vivir yo, con mi cuerpo de piedra esponjosa, de piedra flotante, en un paisaje gris oscuro donde la luz, el agua y los sonidos son absorbidos ávidamente por unos árboles también de piedra pómez105.

Il collegamento tra questo utilizzo consolatorio dell’evasione onirica e poetica e l’etichetta di scuola più conveniente a nominarlo non si fa attendere:

En la poesía más moderna, en la que el atavismo animal puebla de imágenes una conciencia apenas latente, donde la noción vegetal de sí mismo es clara y neta a veces como el alga salada o la hierba húmeda, aparece también el atavismo de lo mineral. Y sobre todo en la pintura. Los surrealistas lo saben bien106.

Ma l’intranscendencia umana del surrealismo non può che essere invocata amaramente, a partire dalla consapevolezza del naufragio di un sogno di integrità ed integrazione in cui si era ardentemente sperato, ed il gesto ribelle dell’inconscio che, di nuovo, agisce in libertà e separatezza, è controbilanciato dalla pulsione ni-

105 R. J. Sender, Proverbio de la muerte, Quetzal, México, 1939, p. 58.106 Ibid., p. 51.

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chilista, giacché l’esule recalcitrante si consegna alle acque con questa sintomatica espressione: «Yo voy a la muerte. Estoy seguro de ir»107.

¿Lo social y lo vital en contra? Sí, por ahora. Tan en contra, mientras las condiciones de relación no se modifiquen, como los ganglios y el cerebro en el hombre108.

Lo scollamento tra vita interiore e vita collettiva, il sensuale, gratuito sprofon-damento negli abissi dell’incoscienza non può che costituire una soluzione mo-mentanea, un drastico, estremo tentativo di ritrovare il principio vitale nell’assen-za, passo previo alla costruzione di un nuovo equilibrio. Dalle condizioni disperate dell’attualità, incompatibili con la vita autentica del singolo, Sender sembra aver imparato che il naturale sodalizio tra verità profonde e verità sociali è mera utopia. Da ora in avanti, la ricerca nell’irrazionale ganglionare, la fuga nell’inconscio (che è, in realtà, ritorno ad uno stadio di pre-coscienza, antecedente ad ogni nozione acquisita) costituirà un’indispensabile esperienza preparatoria, un’immersione nel profondo in cui si lavano le ferite e si depongono le aderenze improprie con cui una società malsana ha violato ed imbrattato il profilo eterno dell’hombre, da intra-prendere nella speranza di un auspicabile ricongiungimento.

Tra mille sfumature, incertezze ed ambiguità, sembra essere questa la con-quista o, per lo meno, la ricerca del libro successivo di Sender, che si basa su di un maggiore, seppure precario equilibrio, tra più o meno liberi atti di sottrazione personale dalla Storia e più o meno coscienti rivendicazioni di un ruolo contestuale all’interno di essa, nonché, dal punto di vista letterario, sul connubio tra una solida fabula realistica e di denuncia, in perfetta linea con le prove di novela social della tappa spagnola dell’autore, e una seconda trama (peraltro magistralmente saldata alla prima) più sfuggente ed incatalogabile, disposta a ricevere e rappresentare i sogni (o ricordi identitari) dell’attività ganglionare. Secondo una tendenza tipica-mente senderiana, che rivela interessanti confluenze con il percorso poetico di Lor-ca e, al contempo, svela la pulsione nostalgica dell’esiliato lontano dalla sua terra d’origine109, questa seconda anima del romanzo associa l’inconscio ganglionare ed i suoi sogni dell’origine alla cultura primitiva e magico-animista dell’Aragona pro-fonda, di cui un nuovo alias autobiografico dell’autore, l’adolescente Pepe Garcés che della vicenda è narratore, dischiude il valore affettivo, oltreché sapienziale110.

107 Ibid., p. 37.108 Ibid., p. 75.109 Ancora lorchianamente, se pensiamo alla vera e propria sindrome dello straniamento che in Poeta en Nueva York si affida ad una pseudo-scrittura automatica; solo che qui, i materiali onirici ed illogici, invece di fungere da cronaca degradata e degradante di un contesto trasfigurato ed irriconoscibile, favoriscono un rincontro, vanno nel senso di un anelato ritorno e sono funzionali al recupero di un’umanità che sembra essere negata dalla disamina critica ed oggettiva della circostanza.110 A questo proposito, c’è da dire che Sender – il quale si era già occupato nel suo primo libro in as-soluto, El problema religioso en México, di alcuni aspetti della cultura della sua “nuova patria” – vive in Messico una sorta di riconoscimento, giacché sente questa terra spiritualmente vicina, soprattutto

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La «Breve noticia» che precede l’edizione del 1939 ci restituisce l’impressione di un doloroso tentativo di definizione filosofica dello “spazio” inviolabile dell’indi-viduo, sospeso tra due soluzioni che, solo nel migliore dei casi possono arrivare a ricongiungersi:

En este libro está mi sentimento de lo humano y quizá la raíz del único humani-smo revolucionario posible. Sobre hechos históricos tramados sin artificio el lugar del hombre aparece vacío y ese vacío determina el valor de la ausencia, lo que no es en definitiva más que el contravalor de la presencia111.

Si può contare di colmare, un giorno, il vuoto umano che lasciamo quando una Storia violenta ci costringe ad una ricerca centrifuga della nostra identità o la presenza del singolo è condannata a significare soltanto in forma negativa, come controvalore, quando la vittima dell’espulsione si è ritagliata un innocuo margine di attuazione nell’assenza, nella fuga dei gangli? Il valore sapienziale dell’assenza che, in principio, è tale solo per l’individuo che la intraprende, ha qualche speranza di risuonare e ripercuotersi collettivamente? I movimenti centrifughi e centripeti, le espulsioni ed i ritorni che, secondo Donatella Pini112, definiscono nel romanzo le traiettorie attanziali, restituendo l’impressione di una circolazione sferica piuttosto fluida tra dentro e fuori, sembrano, in ultima istanza, riscrivere in modo possibilista la fabula dell’esilio a senso unico di Proverbio de la muerte.

L’anima realista del romanzo si basa su di un caso giudiziario – il “crimine di Cuenca” – che fece molto scalpore nella Spagna di metà anni ’20 ed a cui Sender aveva già dedicato uno scottante réportage di denuncia, teso a rivelare la violenza del regime poliziesco e le strumentalizzazioni politiche all’ordine del giorno so-prattutto nei centri rurali, dove i contadini erano letteralmente in balia dei grandi latifondisti: due poveri braccianti di fede politica liberale – i personaggi che nel romanzo prendono il nome di Juan e Vicente – vengono accusati di un omicidio che non hanno mai commesso, divenendo i comodi capri espiatori della trama elettorale del cacique conservatore che prende spunto dall’orrendo fatto di san-gue per rovesciare a suo favore l’opinione pubblica del paese in vista delle vo-tazioni. In realtà, la presunta “vittima”, che si era semplicemente allontanata di sua spontanea volontà, dopo svariati anni, fa ritorno, sbugiardando la farsa di un processo kafkiano, in assenza di reato. Nella trasposizione romanzesca, Sender, che ha evidentemente ritrovato gran parte della sua battagliera vis polemica, non

per le profonde radici tradizionali della sua anima primitiva ed indigena, tanto simile a quella della sua Aragona natale.111 La «Breve noticia» scompare dall’edizione definitiva del romanzo e fa riferimento ad una prima versione, originariamente intitolata El lugar del hombre (1939). L’edizione attualmente diffusa ripro-duce la seconda redazione, pubblicata per la prima volta a Città del Messico nel 1958. Cfr. D. Pini, introduzione a R. J. Sender, El lugar de un hombre, Instituto de Estudios Altoaragoneses, Huesca, 1998, p. XVII.112 Ibid.

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risparmia dettagli efferati e sarcastici, tragicomici paradossi, tracciando passo per passo il calvario delle due vittime reali della vicenda, picchiati a sangue e torturati, costretti a confessare un delitto inesistente ed addirittura ad inventarsi un “alibi” per l’irriperibilità del cadavere, che permetta loro di restare tranquilli nelle loro celle senza ulteriori, brutali “verifiche”: come in un racconto dell’orrore e nelle più conturbanti leggende di paese113, Juan e Vicente racconteranno di aver fatto a pezzi il corpo della loro vittima e di averlo dato in pasto ai maiali. Tutto questo, mentre i “potenti”, i capi politici e le guide religiose conniventi, dimostrano fasulli pruriti filantropici, invocano un trattamento giusto ed una pena clemente, rivelando il marciume che si nasconde dietro ai sepolcri imbiancati dello Stato “di diritto” (è il 1926 ed, in Spagna, Primo de Rivera è a capo di una prima, più blanda, dittatura). L’impegno politico che sostiene questo nucleo ed il realismo testimonial che ne condensa la formula non scadono mai in un convenzionalismo di maniera: il pam-phlet di denuncia è evitato attraverso una continua sottolineatura dell’assurdità grottesca della situazione, spesso registrata da un’espressione disposta ad aprirsi in tragicomici paradossi o in squarci visionari di magistrale “tremendismo”, come nelle descrizioni di alcuni momenti della tortura, o in questa simbolica immagine della “guardia civil”, oscura ascia pronta ad abbattersi, all’improvviso, senza spie-gazione plausibile, sui poveri e gli indifesi:

Por allí pasaba dos veces cada día «la pareja», el tricornio negro, de charol, y el cor-reaje amarillo, la guardia civil iba dejando en el camino las huellas de sus zapatos como si con cada tacón sellara el camino con un sello judicial114.

L’autorità tirannica dell’istituzione, senza volto e senza nome, introdotta solo dai funesti attributi che ne preannunciano la violenza e il tirannico arbitrio, è quasi incarnazione sinistra di un destino fatale per chi ha la sfortuna di incrociarla sul suo cammino. Sender avrebbe raggiunto un effetto non troppo dissimile intro-ducendo direttamente nel testo i versi incipitari del Romance de la guardia civil española di Lorca:

Los caballos negros son.Las herraduras son negras.Sobre las capas relucenmanchas de tinta y de cera.Tienen, por eso no lloran,de plomo las calaveras.Con el alma de charolvienen por la carretera.Jorobados y nocturnos,

113 In effetti, la macabra vicenda verrà declamata per le vie dell’aldea sotto forma di truculento roman-ce de ciego, accompagnata dalla chitarra e venduta in pliegos sueltos da cinque centesimi.114 R. J. Sender, El lugar de un hombre, Destino, Barcelona, 2003, p. 78.

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por donde animan ordenansilencios de goma oscuray miedos de fina arena.Pasan, si quieren pasary ocultan en la cabezauna vaga astronomía de pistolas inconcretas115.

La disumanizzazione del potere, messa a fuoco dalla prospettiva della povera gente, mi sembra un saliente punto di contatto – uno tra i tanti – dell’immaginario di due scrittori troppo sovente contrapposti.

Ma concentriamoci adesso sull’anima ganglionare del romanzo, quella “evasi-va”, nel senso duplice di ricognizione di una “fuga” e di minore aderenza realista, di disponibilità magico-onirica, paradossalmente riscattata come tentativo di più profondo attaccamento al vero universale ed eterno, spesso viziato dal peso falsifi-cante di circostanze storicizzabili. Questo secondo “racconto” tratteggia la figura e la storia del fuggitivo, appena una funzione, tragicamente cruciale ma senza volto e senza rilevanza narrativa specifica nella vicenda di Juan e Vicente. Sender sceglie di amplificare il rovescio del “caso” di attualità, incrociando i materiali giornalisti-ci relativi al crimine di Cuenca con il ricordo sepolto della storia di un contadino aragonese – forse una semplice conseja popolare – che abbandonò il suo villaggio per vivere in solitudine sulle montagne, in mezzo alle fiere. Nasce così il nucleo narrativo di Sabino, il presunto assassinato, al quale si dedicano i primi sei capitoli del romanzo, prima della lunga “digressione” realistica sulla sventura giudiziaria dei falsi criminali e del meccanismo di cospirazione che si stringe intorno a loro, e prima del finale ricongiungimento delle due storie sulla figura immaginaria di tre paralleli, e dagli esiti difformi, movimenti di reintegrazione, che equiparano i destini dei “morti” e degli “assassini”.

Da questo punto di vista, El lugar de un hombre è un racconto di fantasmi e di implausibili ritorni dall’Oltretomba. Nella fattispecie, è il racconto di un “fanta-sma” in vita, reso traslucido dall’oppressione di una società iniqua che lo depriva di ogni tratto di umanità, il quale recupera paradossalmente le proprie sembianze, la propria consistenza di individuo, attraverso un volontario viaggio nell’alterità, in un’Aldilà di assoluta estraneità rappresentativa ma di profonda verità epistemo-logica, da cui trionfalmente “ritornerà” a perturbare e sconvolgere i consuetudi-nari, oppressivi automatismi di una società disumana, in cui spargerà i semi della rivoluzione e della dissidenza. Se Rosalba Campra riconosce nella trasgressione della frontiera umano/non umano una delle infrazioni più ricorrenti nel fantasti-co116, potremmo dire che Sender utilizza, più o meno consapevolmente, tale asse in modo metaforico per servire la riflessione esistenzialista contenuta nel titolo e

115 F. García Lorca, Obras completas I, cit., p. 441.116 Cfr. R. Campra, Territori di finzione, Carocci, Roma, 2000.

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approfondita nella «Breve noticia» del ‘39: dove risiede ed in che cosa consiste l’identità autentica dell’uomo?

Come segnala Mary Eide O’Brien nell’unico articolo a me noto sul “fanta-stico” in Sender117, l’introduzione di elementi di irrealtà, comprensibili non per via razionale ma attraverso l’intuizione magica delle culture ancestrali o, generi-camente, attraverso i gangli, lungi dal costituire dei giochi o dei passatempi del-l’immaginazione, vengono ad integrarsi con il piano della realtà visibile a formare una “realtà multidimensionale”; anche quando i vari piani di un reale sfuggente e viziato dalle circostanze faticano a saldarsi insieme in una sfera coerente di signi-ficati, è sovente proprio il contatto con l’invisibile a restituire agli eroi senderiani l’appagante sensazione di uno spontaneo compenetrarsi con l’ordine segreto delle cose. Ebbene, è proprio per rispondere ad un “automatico” imperativo interiore di misteriosa soddisfazione individuale che Sabino si allontana dal microcosmo perversamente ordinato dell’aldea, alla ricerca di un luogo di privilegiata suggesti-vità ganglionare, andando a parare nell’ambito deputato del magico senderiano: il paesaggio nudo ed ancestrale dei Pirenei aragonesi, il deserto roccioso del saso, disponibile all’amplificazione leggendaria ed animistica della superstizione popo-lare118. Il primo capitolo della narrazione, attraverso l’occhio disposto a vedere dell’adolescente narratore, instaura un dialogo, un colloquio di sguardi, tra i due ambiti, i due spazi contrapposti e complementari dell’ordine e del disordine, della Storia e del Mito, della ragione e del caso: l’aldea ed il saso.

El pueblo estaba dominado por una montaña cortada a cuchillo que se alzaba junto a las últimas casas. Era una rompiente natural de doscientos metros de altura en cuya cima, presidiéndolo todo, había una plataforma de granito sosteniendo una gran cruz de hierro. […]En la rompiente, que venía a ser como una cortina de roca arenisca, hacían sus nidos las águilas y los esparveres. Sus gañidos llegaban al atardecer al balcón de mi cuarto repetidos por el eco que les daba una extraña profundidad. En ese eco sentía yo la inmensidad de la noche que se acercaba. Cuando era niño (lo recordaba con emoción) en mis soledades hablaba con las «ripas», con los esparveres y con aquella oquedades negras en donde localizaba todo lo irreal de mi infancia119.

Presupponendo da parte di Sender una niente affatto scontata frequentazio-ne della narrazione fantastica, dei suoi trucchi e meccanismi, si può apprezzare una descrizione non perturbante dell’irreale, su cui potrebbe aver influito la bru-

117 Cfr. M. E. O’Brien, «Fantasy and the Ideal in Sender’s Fiction», in Marshall J. Schneider, Mary S. Vásquez (coord.), Ramón J. Sender y sus coetáneos: homenaje a Charles L. King, 1998, pp. 145-162.118 Ad esempio, nel primo romanzo della serie di memorie Crónica del alba, quello dedicato all’in-fanzia aragonese del narratore autobiografico per antonomasia del macrotesto senderiano – Pepe Garcés, lo stesso di El lugar de un hombre –, un vecchio pastore racconta al giovane protagonista che sotto le rovine di un antico maniero esiste un passaggio che conduce direttamente all’Inferno e che, in generale, su quelle montagne, circolano indisturbate creature mitologiche come le lamias. 119 R. J. Sender, El lugar de un hombre, cit., pp. 7-8.

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ciante sete di alterità dei surrealisti, giacché le montagne misteriose con le loro «oquedades negras» accentrano gli sguardi curiosi ed emozionati del protagonista bambino, che vi legge la possibilità di un’avventura irriducibile. La croce di ferro che, come ne «El capitán Montoya» di Zorrilla, presiede lo scenario enigmatico e suggestivo, benché presupponibile relitto di un tentativo superstizioso di addome-sticare uno spazio presentito come vietato, adesso serve appena da naturalissimo e prosaico parafulmine e contenzione contro le frane («protegía la aldea […] contra el rayo y el pedrisco»), coincidendo con un oggetto assolutamente desueto dal punto di vista simbolico. «Aquel desierto gris oscuro», quella distesa disabitata e apparentemente senza fine nell’immaginazione del giovane Garcés («era como si terminara en otro planeta»120) riceve, nelle pagine successive, un’adeguata conno-tazione sepolcrale che, pur non trasgredendo le leggi della verosimiglianza, ne fa la sede autorizzata dell’estraneità ontologica:

Yo recordaba que un día, yendo con mi padre por el saso encontramos a flor de tierra, asomando entre arbustos raquíticos, un cráneo humano. Mi padre lo acabó de cubrir de tierra, nos quitamos el sombrero y rezamos un «padrenuestro»121.

Come segnala il titolo del capitolo proemiale, il saso è il regno della «casua-lidad dormida», del Caso insensibile alle razionalizzazioni ed agli anatemi, il cui stato letargico potrebbe destarsi all’improvviso, facendo piazza pulita del suo ro-vescio, la causalità, con cui l’uomo da sempre cerca di spiegare gli eventi secon-do definite concatenazioni consequenziali: sintomaticamente, vi si incontrano il timore dell’ignoto e il potere rinvigorente di un significato “altro”, non trasmissi-bile per via razionale e che, a volte, valica il limite, la frontiera del ridotto ambito d’azione del nostro mondo con emanazioni scomode e sconnesse, destinate ad una sistematica sottovalutazione o riduzione all’assurdo se approcciate attraverso le categorie della logica causale, incapace di leggerne l’oscura profezia. È il caso della “strega” Ana Launer, sorta di materializzazione aldeana dell’indomabile estraneità del saso, cui Sender dedica un aneddoto che funziona come mise en abyme di uno dei motivi fondamentali del romanzo: il valore arricchente, rivelatore – oltreché potenzialmente distruttivo – del contatto con l’inspiegabile. Pepe Garcés, prima di cominciare a narrare il caso del «monstruo», l’avvistamento sulle montagne da parte di alcuni pastori di una strana creatura che sembra trasgredire la stabilità definitoria delle categorie umano/non umano, ricorda una conversazione con il nonno, in cui questa voce autorizzata del coro tradizional-popolare affida al futuro narratore una precoce ed ancora immatura chiave di lettura degli eventi a seguire. Il discorso con cui il vecchio racconta al nipote le strane abitudini di Ana Launer è tutto teso ad inculcargli un rispetto sacrale per il mistero, secondo le modalità di un “quasi credere” necessario, che cita e riscrive – nel senso dell’integrazione e

120 Ibid., p. 17.121 Ibid., p. 18.

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della sovrapposizione e non della divaricazione canonica tra ragioni dell’Io civiliz-zato e suggestioni dell’Io incolto – l’atteggiamento ingenuo, tutt’al più riscattabile poeticamente, dei testimoni floklorici di tante leggende romantiche. Trattasi qui di un dialogo sapienziale da cui l’interlocutore “moderno”, in prima istanza scettico e burlone, ha molto da imparare:

– En el pueblo dicen que es bruja. Yo no creo en estas tonterías, pero… – se encogió de hombros –. Ve tú a saber.– Cree usted que puede hacer daño?– Nuestro vecino Antón – explicó mi abuelo con aire intrigado – se quiso burlar de Ana Launer un día, y poco después se le murieron dos vacas.– Una casualidad – dije yo.Mi abuelo se encogió de hombros otra vez.– Ya te digo que no creo en eso, pero más vale decir amén a todo. No hay necesidad de provocar a la casualidad. Es bueno que duerma122.

Pepe Garcés, un narratore in “formazione”, che sta per compiere un percorso di comprensione dell’anima ganglionare, verso la quale, comunque, dimostra una spontanea disponibilità, in questa fase, cerca di incasellare la natura dissonante di questa donna che ride di notte «al lado de las chimeneas» e danza nell’oscurità sulle rive del fiume, invocando nozioni di medicina apprese sui libri:

Yo, que había leído en Madrid algo sobre histerismo y sexualidad (las cosas de Freud, que estaban de moda), trataba de identificarla y preguntaba a mi abuelo incansable-mente123.

Quasi sconfessando il postulato di riducibilità psicanalitica del fantastico de-cretato qualche decennio più tardi da Todorov, Sender impone a Pepe Garcés un esemplare incontro con l’Altro che gli permetterà, in seguito, di sintonizzarsi ganglionarmente con le ragioni del «monstruo». In una notte di luna, il giovane esce dal perimetro del villaggio per irrigare i campi ed, in un’atmosfera misteriosa e permeabile alla materializzazione dell’enigma, vive un’esperienza perturbante, in cui il terrore del fantastico canonico è da rileggersi come cerimonia di introduzione nel regno affascinante e rivelatorio della «casualidad dormida»:

Yo comenzaba a sentirme impresionado y me puse a cantar. Pero me callé en seguida, porque al fondo del campo apareció una forma blanca que avanzaba entre los cuadros de mis legumbres, con movimientos mecánicos y rígidos. Era una mujer. Su falda, su chambra y sus medias eran blancas. Bajo la luna, toda aquella blancura tenía destellos azules. Venía de puntillas y por eso parecía que venía sobre rueda. Al mismo tiempo tuve la sospecha de Ana Launer y la certidumbre. Llevaba los codos pegados al talle

122 Ibid., p. 10.123 Ibid.

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y las manos en alto y se balanceaba estupídamente a un lado y otro. […] hacía gro-tescos movimientos. Su rostro tenía una gravedad casi religiosa. Aquello era idiota, pero había tal seguridad en los movimientos, tal despreocupación de sí misma, que comenzaba a ser alucinante124.

Ana Launer è descritta come una «muñeca mecánica» che si muove in modo automatico ed assurdo, suggerendo, al contempo, i tratti sinistri di un’apparizio-ne fantasmale ed i canoni di bellezza del surrealismo, non solo per il riferimento alla sensualità extra-umana del manichino ma per quello all’idiozia ed alla malat-tia mentale che, per Breton, non sono altro che forme superiori di conoscenza. Sintomaticamente sfumata tra convenzione fantastica e convenzione surrealista, l’immagine dell’alterità senderiana sembra riunirle e sintetizzarle, giustificando la paura della prima ed il desiderio della seconda nella formula intermedia del rispet-to, misto di ammirazione e timore, che la saggezza magico-animista delle culture popolari è solita tributare ai fenomeni che non riesce a spiegare. D’altronde, come Sender affermava ne «El novelista y las masas», nei gangli non risiede né il Bene assoluto né il Male esecrabile – così come, del resto, nel polo complementare della ragione: la sfera in cui si intersecano le differenti anime dell’uomo non si presta a superficiali tentativi di moralizzazione, in nessuno dei due sensi possibili125.

Pepe Garcés, forse condizionato dal senso del ridicolo della sua maschera “personale”, non accetta l’invito a ballare e riceve, per questo peccato di bana-lizzazione, una punizione che la sua voce narrativa più adulta dimostra di aver convenientemente interiorizzato:

La lógica se rompe y nos reímos o nos indignamos. En aquella ocasión yo me reía. Pero cuando el orden natural se invierte del todo no basta con la risa ni la indignación126.

Il tono sentenzioso della lezione ben appresa, lontano da facili timori come da entusiasmi occultisti o compiacimenti poetici di sorta, è sintomatico di un tentativo di naturalizzazione filosofica dell’inspiegabile mai come adesso, nei testi affrontati, così equilibrato. Una «cabeza de mulo, negra, de grandes ojos inmóviles»127, come

124 Ibid., p. 12.125 Nell’articolo, un’altra delle accuse che Sender lanciava al surrealismo riguardava proprio il trion-falismo con cui si ipotizzava, dopo secoli di letteratura dominata da una concezione dell’uomo razio-nalmente e moralmente definito (di cui il racconto fantastico potrebbe rappresentare la più ambigua, forse, ma anche la più contundente prova), la nascita di un’arte dominata dalla vittoria dell’Altro. Dice lucidamente Sender: «Lo de menos es que en la lucha surrealista gane el diablo. Nunca hemos tomado partido en ese deporte. Además, si el diablo —masa de instintos, sentido ganglionar de la vida — gana con los surrealistas, también ganaba antes. No hay en su triunfo novedad ninguna» (R. J. Sender, «El novelista y las masas», cit., p. 167). Il vero passo in avanti consisterebbe, piuttosto, in una drastica riformulazione delle dicotomie, nel destabilizzante meticciato di Bene e Male, di Ragione e Mistero.126 R. J. Sender, El lugar de un hombre, cit., p. 13.127 Ibid., p. 14.

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convocata dai poteri della “strega” burlata, sorprende con il suo caldo respiro il giovane alle spalle, da dietro un muro. L’animale, che Pepe decide di montare per ricondurlo in paese, inspiegabilmente, comincia a correre all’impazzata verso il cancello del cimitero, tentando di scavalcarne il perimetro: lasciandosi cadere per evitare danni maggiori, il ragazzo si frattura un braccio. Il dolore dissolve pron-tamente «el miedo a lo irreal»128, ma Garcés, costretto al riposo nella sua camera, comincia ad osservare «las ripas con codicia»129, come in attesa di un’altra manife-stazione della «casualidad» che, «por lo visto», «estaba despertando»130, abbando-nando l’infantile esigenza di «descifrar sus misterios»131.

Le prime manifestazioni del caso contrario e speculare rispetto a quello di Ana Launer (incongruente emissaria del regno magico del saso nell’aldea), Sabi-no, scomparso per quindici anni oltre i confini della ragionevolezza e della civiltà, vengono filtrate attraverso quella che definirei una fuga collettiva ed incontrollata di notizie imprecise e mistificanti, che ricorda i modi dell’amplificazione leggenda-ria. Riuniti nella casa dei Garcés, i membri più rispettabili e potenti della piccola comunità organizzano una vera e propria spedizione nell’ignoto per intrappolare e neutralizzare «el monstruo». Chiunque, più o meno liberamente, scelga di sot-trarsi alle leggi ed alle strutture della società non viene più “riconosciuto” come un suo membro, perde la sua dignità di “persona” ed, intorno a lui, si instaurano i meccanismi consueti, nervosi ed escludenti (nonché, in questo caso, ridicoli) della percezione fantastica dell’alterità. Nell’immaginazione avventurosa del fratellino di Pepe Garcés, che assiste entusiasta ai preparativi, l’illuminato progetto di com-prensione e verifica razionale dell’estraneo da parte della coscienza civilizzata di-venta una «caza mayor»132, «contra fieras»133. Sender indugia a lungo sull’irricono-scibilità umana della creatura che si scoprirà essere l’umile Sabino. Descritto da chi lo ha scorto sulle montagne come «una pieza» «con las uñas largas como un tigre y el hocico y la cabeza cubiertos de pelo»134, quando il capofamiglia dei Garcés lo identifica come «un hombre», l’alone misterioso che lo circonda, per un attimo, si dissipa, provocando una sorta di delusione:

[…] para mi hermano pequeño un hombre monstruoso, un ogro por ejemplo, se po-día cazar sin grandes escrúpulos, e incluso asarlo y comerlo135.

Ma l’immaginazione – parallela alla necessità di dare un nome terribile al-l’ignoto – continua a correre come un alato destriero e coinvolge anche gli adulti che, tra il serio ed il faceto, continuano a parlare di un mostro:

128 Ibid., p. 15.129 Ibid.130 Ibid., p. 14.131 Ibid., p. 15. 132 Ibid., p. 20.133 Ibid., p. 21.134 Ibid.135 Ibid.

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El mayordomo decía muy serio que el «monstruo» tenía dos cabezas. Tomaser […] frunció las cejas, un poco incrédulo:– ¿Y rabo? ¿Tiene rabo?[…]Porque lo que yo creo es que se trata de un orangután136.

Antropologicamente, la sfocatura dell’immagine e del nome sono destabiliz-zanti sintomi di una discrasia che innesca il pericolo di un controllo imperfetto, da arginare ad ogni costo per la conservazione ordinata del gruppo. La filantropica missione di riscatto («es un deber de conciencia reintegrar a la sociedad humana a ese pobre hombre»137) cela a fatica la natura di una spedizione punitiva e violenta:

En la plaza se convocaban los chicos. Unos decían:– Van a matar al hombre-oso138.

Il riconoscimento sociale di Sabino è lento e graduale. Anche in presentia, nel «paisaje lunar»139 di quello che è diventato il suo regno, «el pobre hombre» stenta ad esibire le sue credenziali di umanità e appare per un attimo dinanzi ai cacciatori come un «algo, entre gris y amarillo, cubierto de pelos»140 prima di scomparire nuovamente in un anfratto, da cui è necessario stanarlo a colpi di fucile:

Llevaba el pelo tan largo y tan enredado sobre la espalda y los hombros, donde se unía con la barba, que su cara desaparecía casi por completo. Las aletas de su nariz tenían escamas brillantes, mineralizadas. Sus ojos (que apenas habíamos visto, porque no nos miraba de frente) se hundían bajo una cejas abundantes y había en todo él algo polvoriento y reseco que le daba un aire más ausente todavía141.

Sono ravvisabili i tratti di un processo di cosificazione inquietante solo dal-l’esterno, giacché nelle «durezas mineralizadas» del suo corpo, dalle quali «parecía no circular la sangre»142, è evidente il saggio operato dei gangli, che paiono aver re-stituito quello che prima era (o avrebbe voluto essere) un uomo alla pace primitiva ed autosufficiente della sfera, attraverso il richiamo inconscio di rivelatori «sueños de carbonato de calcio […]». Significativamente, mentre gli emissari di una verità esclusivamente “personale”, incapace di approcciarsi ai segreti dell’hombría, si in-terrogano sul modo più adeguato di «reintegrarlo», in modo forzato, alla società, Pepe Garcés comincia a parteggiare per il «pobre monstruo», ad identificarsi con la sua alterità, leggendovi un bagliore, un ricordo di ancestrale trascendenza, quasi

136 R. J. Sender, El lugar de un hombre, cit., p. 23.137 Ibid.138 Ibid., p. 25.139 Ibid., p. 33.140 Ibid., p. 34.141 Ibid., p. 40.1420 Ibid.

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invidiando il suo libero peregrinare nel controcampo deformato del cosmo sociale (il saso viene definito «una aldea encantada»143), dove «podía hablar con las rocas, con las nubes, con los animales salvajes»144. Agli occhi degli altri cacciatori, è solo questione di scegliere il nome più adeguato per anatemizzare l’estraneità: in una sconcertante ed ironica catena di declinazioni speculari e ghettizzanti, il mostro non è più un mostro e diventa un pericoloso criminale, in fuga da chissà quale de-litto ed, in seguito, quando si comincia ad associarlo all’uomo assassinato da Juan e Vicente, non già Sabino ma «el fantasma de Sabino», inspiegabilmente ritornato dall’Oltretomba. In una sorta di esibizione fieristica, con la gente che si accalca intorno al fenomeno, il paese lo accoglie come una visitazione straordinaria, che Sender descrive occhieggiando ironicamente al sovrannaturale:

Tomaser contestaba alegremente a los que le preguntaban por «el fantasma»:– Ponerle un dedo entre los dientes y veréis si es persona o no.Pero a fuerza de oír hablar del fantasma, no teniendo a Sabino delante, Tomaser pa-recía comenzar a dudar. Iba diciendo que «si no se equivocaba» Sabino era de carne y hueso. […]– Si es fantasma o no, el señor cura, que tiene poder para eso, podrá decirlo145.

Le virgolette sistematicamente applicate ad ogni ricorrenza di termini come fantasma e mostro segnalano l’improprietà, o lo statuto metaforico, della significa-zione fantastica ingenuamente attivata, ma l’effetto perturbante di questo peculiare révenant non potrebbe essere più letterale, giacché l’apparizione di Sabino produ-ce una serie di reazioni a catena che portano ad una drammatica ridefinizione degli equilibri politici del villaggio, la cui molla principale è, ovviamente, lo svelamento dell’innocenza e dell’ingiusta condanna di Juan e Vicente. «Todo iba alterándose poco a poco»146, registra inquieto Pepe Garcés.

Tuttavia, i parametri di umanità spartiti ed arbitrati dalla linea di confine tra l’aldea e il saso, tra l’aldiqua reale e l’aldilà meraviglioso nell’ingabbiatura fantastica che Sender pare utilizzare per la fabula di Sabino, nella semantica profonda del te-sto (e del macrotesto senderiano), si polarizzano in senso inverso rispetto a quanto ci aspetteremmo. Il capitolo dedicato alla preistoria di Sabino nel villaggio, prima del suo viaggio all’altro mondo, risulta rivelatore. Sbeffeggiato sin dall’infanzia per le origini umili e l’estrema povertà della sua famiglia (quasi un lazarillo drammati-camente attuale), è un uomo «sin oficio», a cui si dà saltuariamente lavoro per pietà e si concede di sposarsi per commiserazione, secondo un meccanismo che segna-la come, in società, l’invisibilità della “persona” (il mancato incasellamento negli schemi della ritualità collettiva) mini fino all’osso e arrivi tragicamente a coincidere con l’invisibilità totale e profonda dell’hombre, con la disumanizzazione violenta

143 Ibid. p. 44.144 Ibid., p. 28.145 Ibid., p. 58.146 Ibid., p. 54.

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della riconoscibilità individuale, viziata e resa impossibile dagli sguardi di esclusio-ne del gruppo:

Pasaba por los lugares como un perro extraviado. Las mujeres se burlaban de él […]. Poco después ni siquiera se burlaban, lo desconocían. Sabino no existía147.

In queste circostanze, si produce l’emergenza di una risposta istintiva che, attraverso il suicidio della persona, tenta di recuperare la pienezza significativa dell’uomo. Muore e varca il confine dell’Aldilà la veste sociale di Sabino ma il colpo di testa incontrollabile ed irrazionale che porta il poveruomo alla fuga – che lui definisce «un barrunto», secondo una riformulazione terruña dell’automatismo surrealista – non ha un semplice valore negativo, bensì si dimostra funzionale alla riacquisizione della consistenza umana che la vita sociale gli ha sottratto. Uno spet-tro ambulante in vita, traslucido per sé e per gli altri, nello spazio vietato della morte civile, Sabino riscopre per sé la concretezza della materia viva, può toccare con mano le escrescenze dure della vita che resiste ed, imperterrita, disegna le sue trame, insensibile agli ambigui riconoscimenti dello “specchio” collettivo, per i quali, dopo sedici anni di assenza, è diventato un mostro, a due teste forse, ma fi-nalmente tangibile, opaco e naturale come una roccia. Tralasciando le implicazioni morali della vicenda – tecnicamente, è Sabino a rovinare le vite dei due presunti colpevoli della sua “morte” –, il suo gesto ganglionare non solo risulta pienamente giustificato, ma acquista lo statuto di autorizzato esempio dell’«único humanismo revolucionario posible». Mentre nel finale, sullo sfondo, brillano i fuochi della guerriglia politica che con il suo ritorno ha contribuito ad innescare, i suoi com-paesani «veían en Sabino al triste héroe de todo aquello»:

– ¿Qué hiciste, Sabino? – le preguntó el cabo.– Lo menos que puede hacer un hombre. Marcharme. ¿Es que no tengo las piernas para irme a donde quiera? Un día me dio el barrunto. Y me fui148.

La psicanalisi e il surrealismo hanno da tempo insegnato l’inapplicabilità di criteri di valutazione morale alla vita inconscia dell’individuo ed ai suoi diritti, evi-dentemente, tornati ad essere, anche per l’intellettuale engagé costretto all’esilio, incompatibili con i doveri della vita pubblica, ed il vecchio Garcés, con il suo sag-gio buon senso ganglionare, sembra confermare questa biforcazione in un’ultima, riassuntiva conversazione con il nipote:

– ¿Te acuerdas de lo que hablamos el día que íbais al saso a buscar el «monstruo»?Yo me acordaba muy bien. Mi abuelo sonreía y con los ojos perdidos en el aire re-petía:

147 Ibid., p. 64.148 Ibid., p. 184.

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– Ya ves cómo es malo despertar la casualidad.– ¿Aunque sea para bien de los demás? – decía yo, acordándome de Juan y Vicente.Mi abuelo hacía un gesto de gran reserva:– Esa es otra cuestión149.

Se, però, mettiamo a fuoco la vicenda unicamente dal punto di vista di Sabino, la sua fuga inconscia, diversamente dall’arbitrio iconoclasta del viaggio marittimo di Federico Saila, viene a coincidere con un gesto intoccabile di grande responsa-bilità e profonda trascendenza individuale, capace di risuonare, comunque, anche nella società, dove la sua non plausibile, rinnovata umanità assume caratteristiche perturbanti. Forse, il gesto rivoluzionario per antonomasia è il ritorno del capro espiatorio indebitamente espulso, nel pieno controllo delle sue integre, complete facoltà umane.

Nel linguaggio della tradizione contadina, immemoriale ed eterna, sospesa tra cultura e natura, Sender ha trovato un modo per riconciliare, seppure nel segno destabilizzante della fantasia trasgressiva, la sua vena realistica e la sua vena “evasi-va”, entrambe coinvolte nella problematica dialettica della definizione del ruolo e del posto dell’uomo nel mondo. Nei romanzi successivi, Sender approfondirà que-sto percorso di integralità, radicandolo nella cultura mitica delle terre che adesso lo ospitano, in cui l’alterità surrealista, dalla cui revisione “umanistica” dipende una parte importante del suo immaginario poetico, sembra mutare nel ricordo di un’identità sotterranea e violentemente estirpata: quella degli indigeni preispanici che, in Mexicayotl ed Epitalamio del prieto Trinidad, divengono le nuove incarna-zioni esemplari de “lo ganglionar”150.

149 Ibid., pp. 177-178.150 A questo proposito, cfr. il mio articolo «En la colonia penal de Sender: el rescate de los impulsos antisociales», Alazet, 19 (2007), Boletín senderiano 16, Centro de Estudios Senderianos, pp. 217-244.

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Capitolo 3

Meticciati imperfetti e scomode espropriazioni:il sovrannaturale nella letteratura

ispanoamericana del boom

[I pazzi] sono persone di scrupolosa onestà,la cui innocenza è pari soltanto alla mia.

Colombo dovette partire con dei pazzi per scoprire l’America.E vedete come ha preso corpo quella follia, quanto è durata.

André Breton

3.1 Tra surrealismo e mito

È nella letteratura latinoamericana di “mezzo secolo” – in parallelo, peraltro, con altri percorsi di ricerca periferici, parimente ricollegabili a problematiche di stampo postcoloniale – che la rappresentazione della meraviglia torna ad essere un nodo estetico vitale, ossessivo e carico di ripercussioni ontologiche e culturali di grande portata. La generazione di scrittori consegnata alle storie della letteratura con l’etichetta critica di generación del boom, tendendo a rimuovere definitiva-mente l’insistenza della tradizione europea e sperimentando nuove possibilità di osservare e di dire che tendono a farsi percepire, anche fuori dal fatto letterario, come i segni finalmente maturi di un’autoctonia a lungo silenziata, affida ad un catalogo variegato e cangiante di inedite formule di gestione estetica dell’alterità – revisioniste, carnevalesche, o sintomaticamente ibride – la possibilità di codifica-re in modo originale la diversità culturale dell’America Latina. Esprimere la diffe-renza, dunque, attraverso l’alterità, ma non nel senso della diffusione di antinomici archetipi dell’autoctonia – l’indigeno come cristallizzazione culturale dell’ “altro uomo”1 –, bensì in quello, molto più sottile e sfumato, di una gestione innovativa

1 Di questo si era già occupata la letteratura latinoamericana di primo Novecento che, attraverso un taglio naturalistico e, dunque, d’importazione, si era impegnata a diffondere, a scopo di denuncia, stereotipi culturali di sfruttamento: Carlos Fuentes, uno degli autori impegnati nel rinnovamento del romanzo di mezzo secolo, pur riconoscendo l’importanza di tale fase nel risveglio delle lettere locali,

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del “fantasma” (e delle sue infinite declinazioni possibili) che rompa dall’interno le convenzioni dei due grandi tronconi rappresentativi che articolano in modo dif-forme, eppure convergente, la potente matrice razionalistica del pensiero occiden-tale – narrazione realistica e narrazione fantastica –, i cui dictat vengono adesso segnalati come meramente interni e cogenti soltanto nel perimetro circoscritto di una determinata tradizione. Le nuove strategie di descrizione della meraviglia si as-sociano, in modo più o meno vistoso, all’idea di una relatività culturale dei parame-tri che tracciano la frontiera tra reale e immaginario, sconfessando la presunzione delle sistematizzazioni europee. Nascono, così, i filoni convenientemente sfumati, pasticciati e “riformulati” di realismo magico e neo-fantastico, due tra le strade più fortunate aperte dagli scrittori latinoamericani di metà Novecento: del realismo tradizionale, il primo eredita la voracità onnicomprensiva, la vocazione alla rap-presentazione totale, all’affresco collettivo, funzionante come doppio speculare del vissuto storico-culturale di un determinato gruppo, ma non i ferrei presupposti di verosimiglianza, mentre il secondo riceve – per adattarla ad un “regno”, oltreché ad un’epoca, in cui la frammentazione e la fuggevolezza delle definizioni univoche è divenuta una necessità – la dissonanza fortemente individualizzante della narra-zione fantastica tradizionale, smettendo i meccanismi della razionalizzazione e del rifiuto ghettizzante dell’inconcepibile. Entrando più nello specifico della distinzio-ne terminologica proposta, è necessario sottolineare che, nel dibattito critico, non c’è affatto accordo sulla legittimità delle due formule, né sui parametri di specifi-cità che ne definiscono gli ambiti. Scegliendo tra i vari orientamenti possibili, as-socerò il realismo magico all’asse Carpentier-García Márquez, all’interno del quale lo scrittore cubano, con la scoperta di un real maravilloso americano, costruisce la base teorica che sorreggerà il trattamento estetico della saga di Macondo: riferi-mento mitico-antropologico, assoluta aderenza al tema della ricerca di un’identità collettiva e vocazione post-avanguardista – nel senso di un ritorno al reale che non ricada nei limitanti schemi del realismo tradizionale, ma provi ad osservare «obje-tos ordinarios con ojos maravillados»2 – mi sembrano i tratti caratterizzanti su cui è

ne stigmatizza i limiti e le chiusure. «Se los tragó la selva», afferma ne La nueva novela hispanoame-ricana (Joaquín Mortiz, México, 1976), riferendosi al proliferare di novelas indianistas, indigenistas, de la revolución ecc. che, dal suo punto di vista, erano sprofondate nelle aporie del perseguimento di un localismo esasperato che non faceva che ribaltare la prospettiva di uno sguardo escludente, senza proporre una nuova maniera di guardare, un nuovo linguaggio capace di rendere “specifiche” le diversità del Nuovo Mondo.2 E. Anderson Imbert, «”Literatura fantástica”, “realismo mágico” y “lo real maravilloso”», in D. A. Yates (ed.), Otros mundos, otros fuegos: fantasía y realismo mágico en Iberoamérica, Memoria del XVI Congreso Internacional de Literatura Iberoamericana, Latin American Studies Center, Michigan State University, p. 39. Il riferimento va alla formula coniata per le arti figurative dal critico tedesco Franz Roh, destinata ad un’ampia fortuna in ambito letterario latinoamericano, anche a racchiudere fenomeni difformi e solo marginalmente ricollegabili alla suggestione iniziale. Come segnalava Luís Leal («El realismo mágico en la literatura hispanoamericana», Cuadernos Americanos, año XXVI, vol. CLIII, No. 4, México, julio-agosto, 1967), prima di rifluire nell’esperienza del Novecentismo italiano di Massimo Bontempelli, e prima di essere applicato alla letteratura latinoamericana, il ter-

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necessario strutturare la categoria. Per il neofantastico3, visto il riferimento ad una forma narrativa piuttosto ben codificata (e su cui agisce la revisione), è più facile ci-tare gli scrittori argentini dell’area rioplatense come capisaldi del genere (la triade Borges-Bioy Casares-Ocampo e Julio Cortázar): la gestione straniante dell’Altro, non sempre o non solo di matrice antropologica, la riflessione sulla precarietà del soggetto contemporaneo e sui misteriosi criteri su cui si cimenta l’identità privata del singolo, ed un’etica più legata al rupturismo nichilista dell’avanguardia ne trac-ciano, a mio avviso, i margini di applicabilità.

Il percorso che qui si intende intraprendere, lungi dalla volontà di esaurire i significati di due fenomeni tra i più studiati delle lettere castigliane in genere, proverà a mettere a confronto due possibili letture, solo apparentemente contrap-poste, ma niente affatto aproblematicamente coincidenti, del dirompente prota-gonismo dell’irreale che caratterizza entrambi questi stili, derivandone la matrice genetica o dalla diffusione postuma e persistentemente vitale in ambito americano dell’esperienza surrealista (il cui dna appare, in ogni caso, abilmente mutato e ri-conciliato con esigenze rappresentative specifiche, tendenti a rileggere l’alterità immaginifica come identità ancestrale), o dal programma antropologico di risco-perta del segno represso delle culture magico-animistiche preispaniche, intrapreso come liberatoria dismissione di una maschera civilizzata ed inautentica e, dunque, come salto immaginifico nel vortice di una rigenerante vraie vie. Come è possibile comprovare, le due spinte generative si toccano e si compenetrano, ma evasione surrealista e ricognizione primitivista, pur aspirando entrambe all’incontro con le merveilleux, non solo attingono a scenari differenti (la deviazione eccentrica, la malattia, l’alterazione psichica la prima, la centralità, la pienezza antropologica pre-civilizzata la seconda) – e questo sarebbe problema di poco conto, ricollegabile al vitale polimorfismo dell’Altro, del simulacro d’irrealtà, disponibile, a seconda delle epoche e delle culture, a variegate ed intercambiabili ricodificazioni possibi-

mine nasce per definire il percorso degli artisti post-espressionisti che, dopo la fantastica apocalisse dell’avanguardia, tentano di tornare ad una visione mimetica del reale, senza però incappare di nuovo nella logica stringente della cattura fotografica, bensì contemplando la magia di una seconda Crea-zione. La realtà non deve essere trascesa, ma campeggiare al centro della rappresentazione; eppure, il pittore del «paisaje real» del quadro, che ammicca ad «algo corriente y familiar […] pretende que sea un mundo mágico, es decir, que […] hasta la última hierbecilla pueda referirse al espíritu» (F. Roh, «Realismo mágico», Revista de Occidente, año V, No. XLVIII, Madrid, junio 1927, p. 290). Possiamo parlare, dunque, di un tentativo di cogliere la magia intrinseca nel nostro mondo, che l’artista deve riuscire ad “indovinare”, senza negare poeticamente ciò che conosciamo ed accettiamo come realtà. Questo sospetto del magico che si annida tra le pieghe del mondo comune si può osservare in azione, ad esempio, nelle selve iperrealiste eppure incantate di Rousseau Il Doganiere. Il saggio del 1925 di Franz Roh, tra l’altro, verrà pubblicato, nel 1927, nella collana della Revista de Occidente di Ortega y Gasset, offrendosi ad un’assai probabile lettura da parte di autori “di sintesi” come Lorca e Sender. 3 La paternità dell’etichetta appartiene ad Alazraki, che la applica unicamente all’opera di Cortázar. Cfr. J. Alazraki, En busca del unicornio: los cuentos de Julio Cortázar. Elementos para una poética de lo neofantástico, Gredos, Madrid, 1983.

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li4 – ma gestiscono in modo estremamente differente i reperti del loro “viaggio”: come lasciapassare per uno scioccante e rivitalizzante desencuentro il surrealismo, che aspira a portare con sé il lettore in un «altrove» pregiudiziale ed eterno, e come gratificante esperienza di riunificazione e ricongiungimento l’esplorazione antro-pologica, tendente a restituire al soggetto moderno la dimensione sacra del con-tatto perduto con il magico. Sintesi o antitesi. Di questo si tratta, in fondo. Ricerca di un’integralità o di un’antifrastica sostituzione del noto con l’ignoto. Se teniamo conto di queste differenze, ci accorgiamo che non basta constatare la diffusissima patina onirica, la superficie meravigliosa di tanta narrativa latinoamericana di que-sti anni per invocare il magistero dei bretoniani, giacché quest’ultimo rappresentò, nelle intenzioni e nella prassi, una violenta codificazione inversa dell’Altro come sostituto autorizzato dell’Io e non soltanto un generico fenomeno di suggestive, generiche interferenze irrazionali nel terreno deputato della rappresentazione rea-listica. E giacché di ricerca dell’identità, privata o collettiva, i testi latinoamericani di portenti e meraviglie quasi ossessivamente si occupano, sarà bene tener conto, oltre che delle intenzioni, delle ricadute dell’apparizione magica sull’identità del soggetto che vi entra in contatto: nonostante le generalizzazioni del linguaggio co-mune su cui, a volte, sembra incepparsi anche la critica, l’aggettivo “surreale” e l’aggettivo “surrealista” non sono affatto sinonimi.

Secondo M. Rössner, che riassume la distintiva propensione antropologica del romanzo ispanoamericano del boom, «esta literatura nos introdujo […] en el mundo mágico detrás, antes, más allá de la Historia, al que se llega desandando el camino de la humanidad»5 secondo un orientamento che facilita «la incor-poración de una perspectiva no-racional, a menudo asociada con el indígena»6. La chiave di questo schema di lettura della vena irrazionalististica della finzione latinoamericana è senz’altro il Mito, un sistema integrale di lettura della realtà, alternativo a quello della Storia e delle storie realisticamente inquadrate, il cui pos-sibilismo immaginifico rivela, comunque, una natura fortemente rappresentativa ed un’intenzione sapienziale specifica, dotata di profonde ricadute collettive, giac-ché, tramite il suo alfabeto, l’uomo ancestrale si confronta organicamente con il mistero, apprendendo a concepire ed a dire non solo il verosimile ma anche ciò che evade dalle possibilità del raziocinio. L’incorporazione di linguaggi e sistemi pre-civilizzati sembra ampliare il paradigma di realtà comunemente accettato e non sostituirlo e destrutturarlo, correggerlo casomai, attraverso il recupero di una

4 Lo stesso Breton (op. cit., p. 22) afferma che «il meraviglioso non è uguale in tutte le epoche; parte-cipa oscuramente di una specie di rivelazione generale di cui cogliamo soltanto il particolare: le rovine romantiche, il manichino moderno o qualsiasi altro simbolo atto a mobilitare per un certo tempo la sensibilità umana». Dovremmo aggiungere al breve catalogo anche la contemplazione di un’alluci-nante cerimonia voodoo come variazione autoctona sul tema del meraviglioso surrealista?5 M. Rössner, «De la búsqueda de la propia identica a la desconstrucción de la “historia europea”», in K. Kohut (ed.), La invención del pasado. La novela histórica en el marco de la posmodernidad, Ibe-roamericana/Vervuert, Madrid/Frankfurt, 1997, pp. 167-168.6 Ibid., p. 171.

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dimensione identitaria rimasta sepolta dall’invadenza di una maschera culturale troppo aderente.

Viceversa, se consideriamo il riferimento mitico come una mera variazione sul tema del merveilleux surrealista, si sceglie di insistere, in senso avanguardista, sull’elemento di rottura, sulla disintegrazione necessaria, sul valore sostitutivo ed autonomo dell’immagine non plausibile, il cui scopo principale – da qualunque aldilà essa provenga (oltre, prima, sopra o sotto la realtà che conosciamo) – è l’ac-cecamento violento di quest’ultima.

Nel suo libro El surrealismo en la ficción hispanoamericana, Langowski affer-ma senza sfumature che la maggior parte degli scrittori latinoamericani di questo periodo «han demostrado una concepción surrealista del mundo, es decir, una creencia en la fusión de los elementos realistas y fantásticos de la existencia hu-mana»7. L’interpretazione del surrealismo del critico nordamericano si presenta come del tutto opposta a quella che abbiamo registrato nelle pagine critiche di Sender le quali, pur da contestualizzare in un’atmosfera di ricostruzione, motivata dalla volontà di sanare le ferite che le avanguardie in generale avevano volontaria-mente inferto al concetto di realtà e, dunque, da storicizzare in un pregiudiziale pa-radigma di rifiuto, realizzava, a mio modo di vedere, una più veridica disamina di quell’esperienza fondamentale per le arti del ventesimo secolo, preoccupandosi di incrociarne gli obiettivi con le ricadute pratiche. L’argomentazione di Langowski sembra basarsi unicamente su questo passo – uno dei più antologizzati, peraltro – del Secondo Manifesto bretoniano:

Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti come contraddittorii. Ora, sarebbe vano cercare, alla base dell’attività surrealista, altro movente che non sia la speranza di determinare que-sto punto. Basterebbe questo a chiarire quanto sarebbe assurdo attribuirgli un punto unicamente distruttivo, o costruttivo: il punto in questione è a fortiori quello in cui costruzione e distruzione cessano di poter essere invocate l’una contro l’altra8.

Identificando le merveilleux surrealista con la «fusión […] de la realidad y la irrealidad»9, si ha gioco facile nello stabilire una correlazione diretta tra l’ul-tima avanguardia e le esplosive miscele di convivenza pacifica tra “fantasmi” ed esseri umani che si danno copiosi, ad esempio, nella letteratura magico-realista – il principale oggetto di analisi del libro in questione, che non affronta il genere neofantastico –, ma si dimentica che quest’ultima è basata sulla stabilizzazione di una realtà pluridimensionale, convenientemente aperta alla rivelazione contestuale di un irreale di antica provenienza mitica che perverte l’idea fantastica di trasgres-

7 G. J. Langowski, El surrealismo en la ficción hispanoamericana, Gredos, Madrid, 1982, p. 12.8 A. Breton, op. cit., p. 64.9 G. J. Langowski, op. cit., p. 12.

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sione nell’accettazione aproblematica di un elemento estraneo che non ambisce ad occludere e negare la riconoscibilità collettiva del mondo che visita, bensì a permetterne una lettura più profonda, naturale e meno culturalmente viziata. Vice-versa, l’immagine onirica surrealista costituisce una rivelazione esclusivamente pri-vata e violentemente accecante, che tende a semantizzare la discrasia io/gruppo ed io/mondo, disinteressandosi sistematicamente ai secondi termini delle antinomie, predicando la destituzione dello «stucchevole turbinio di quelle rappresentazioni vuote di senso» che si solleva nella realtà delle apparenze:

Che cosa potrebbero dunque aspettarsi dall’esperienza surrealista quelli che conti-nuano a far caso del posto che occuperanno nel mondo? In quel luogo mentale da cui non si può intraprendere se non per sé stessi una rischiosa ma, pensiamo, suprema ricognizione, non è neppure pensabile dare la minima importanza ai passi di chi arriva e ai passi di chi esce, poiché questi passi si effettuano in una regione in cui, per defini-zione, il surrealismo non ha orecchi10.

Questo genuino disinteresse per la riconoscibilità della visione come parte integrante del mondo, la rimozione dei tessuti connettivi che dovrebbero saldare, ibridandole, le ragioni dell’Io con quelle dell’Altro ed, in sostanza, la collocazione del punto supremo della meraviglia in un luogo mentale irriducibilmente extra-rea-le, verso il quale, in modo isolato ed a espaldas del gruppo, il singolo intraprende il suo solitario viaggio, non possono essere taciuti quando si ipotizza una filiazione immediata tra onirismo surrealista e “magia del reale” nel romanzo ispanoamerica-no del boom, soprattutto in considerazione del fatto che la visione magico-realista, come vedremo a breve, viene a coincidere con un tentativo di definizione sincretica e meticcia dell’identità collettiva dell’America Latina. Nel realismo magico, lungi dal coincidere con un caso specifico del sogno, il mito è strumento pre-razionale di “stabilità” identitaria, che ha già superato la fase della destabilizzazione necessaria, dell’oscuramento programmatico, ed ordina semanticamente la ricerca latinoame-ricana della meraviglia verso una “progettualità regressiva” che, se è insensibile alla distruzione, non lo è affatto alla costruzione (i due termini antinomici venivano significativamente sovrapposti da Breton), giacché, «desandando el camino de la humanidad», si ritrovano le radici rimosse di una cultura silenziata per ipotizzare un nuovo corso, forse meramente utopico, di reale mediazione delle antinomie.

Nei prossimi paragrafi, ci occuperemo separatamente delle due tipologie lati-noamericane di gestione letteraria della meraviglia, destituendo il surrealismo dog-matico come forza gravitazionale centrale dell’orbita magico-realista e della sua vocazione regressivo-progettuale e, al contrario, affermandolo come pienamente valido per spiegare la vocazione trasgressiva del neofantastico, in cui l’assurdo e la logica inversa ed antifrastica dell’ultima avanguardia sembrano contribuire in modo determinante alla profonda revisione del fantastico tradizionale operata da

10 A. Breton, op. cit., p. 65.

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scrittori come Cortázar e Silvina Ocampo, nei cui testi l’incontro tra le ragioni dell’Io e le sinrazones dell’Altro – che, verità generale della “fantasia d’irrealtà” latinoamericana, si dà in uno spazio vergine, non ordinato da alcuna frontiera on-tologica – mantiene i tratti di un’imposizione violenta, di un’espropriazione in-quietante, ordinata semanticamente dalla volontà di ferire con il brusco risveglio in una realtà inversa. In questa seconda, fertile, vena narrativa, la spinta trasgressiva repressa dalla tradizione fantastica ottocentesca, abilmente innestata con le teorie e le pratiche della “surrealtà”, rifiuta le formule razionalistiche dell’esitazione to-doroviana in quello che potremmo chiamare un “fantastico d’avanguardia”, dove prolifera sistematicamente la volontà di straniamento: anche quando l’irreale ricor-re alle formule dell’alfabeto autoctono del mito precolombiano, simultaneamente ai percorsi della letteratura magico-realista, esso si sovrappone brutalmente alle certezze dell’Io moderno, impedendogli qualsiasi forma di riconoscimento, ma favorendo un disconoscimento senza appigli che, di per sé, esaurisce il senso del testo. Al contrario, i sostenitori della matrice surrealista del realismo magico – in cui il riconoscimento identitario, non solo del singolo ma di un’intera cultura, nella sintesi indigeno/europeo, Mito/Storia, realtà/magia presiede ed ordina la semiosi del sovrannaturale – possono, a mio avviso, solo ricorrere alla mediazione del-l’esperienza del “surrealismo spagnolo”, riscritto come fertile abbraccio tra natura e cultura nel duende di Lorca e nei gangli di Sender, per non rendere troppo pro-fondo il divario tra ricerca delle radici disperse del Continente e statutaria pratica dell’incoscienza e dello straniamento predicata dai surrealisti tout court11.

3.2 Io e l’Altro: la sintesi naturale del realismo magico

Se già nel realismo “ganglionare” di Sender abbiamo osservato come l’ele-mento di irrealtà si infiltrasse nelle trame del reale seguendo lo schema di un in-nesto fertilizzante12, animato dalla volontà di reintegrare all’interno del naturale e dell’umano le manifestazioni sovrannaturali secolarmente consegnate all’alterità

11 Tale difformità è pienamente accettata anche in ambito latinoamericano. G. J. Langowski nota che tra i poeti surrealisti peruviani, colombiani, messicani, cileni ecc. degli anni ’20 e ’30, alcuni «querían seguir la versión hispanizada del surrealismo, tal como se halla en la poesía de Lorca, Alberti, Salinas, Aleixandre, etc.; pero otros preferían imitar las normas de la escuela francesa» (op. cit., p. 26). Colgo l’occasione per chiarire che, in questa sede, non mi riferirò alle peculiarità dell’avanguardia poetica latinoamericana che, effettivamente, raggiunge anche una precisa fase surrealista, ma cercherò di valutare se e fino a che punto concezioni e pratiche surrealiste si siano infiltrate ed abbiano condi-zionato la gestione del sovrannaturale nella prosa romanzesca della generazione del boom. È solo ed esclusivamente in questo senso che invoco la mediazione del surrealismo spagnolo, secondo un’ottica che mi pare non essere stata sinora esplorata.12 Non a caso, F. Carrasquer parla per lui di «realismo mágico», rendendo ancor più interessante l’in-vito a leggere i suoi romanzi di ambientazione americana e affezione antropologica come altrettanti passi tracciati verso una nuova gestione, caratteristicamente ibrida, del sovrannaturale, destinata a sfociare nello stile che conosciamo come realismo magico ispanoamericano.

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perturbante, con il realismo magico13, la gestione integrata di realtà e meraviglia diventa rivelazione privilegiata appannaggio dei detentori di una tradizione altra, insofferente alle sovrastrutture ed ai dualismi, abituata al rispetto dell’inspiegabile come parte integrante della sua specifica esperienza di vita.

Come dice Rosalba Campra, «la definizione dell’America Latina come terra del possibile non è un fatto recente, essa appare anzi come un antico destino»14. Già i Diari di Colombo e le Crónicas de Indias, i resoconti dei primi viaggiatori castigliani che, tra i secoli XV e XVI, esplorano i nuovi possedimenti dell’Impe-ro, raccontano di meraviglie e di prodigi, scenari allucinanti, creature improbabili ed abitudini ignote, in sostanza, di una naturale “mostruosità” delle nuove terre, secondo uno schema che rilegge la difformità culturale come alterità ontologica. Mancando di nomi adeguati per dire una realtà che non si presenta come tale, vista la sua irriducibile separatezza rispetto ad ogni parametro di riferimento conosciu-to, si ricorre, per descrivere, a punti di riferimento esterni, di derivazione dichia-ratamente immaginaria, cui appoggiarsi per similitudine. Nello spazio americano si materializzano gli incantesimi e le diavolerie dei libri di cavalleria, la cui extra-ordinarietà risulta, a volte, più familiare e verosimile di quanto gli occhi sbarrati dell’esploratore possono adesso comprovare dal vero. Racconta il soldato di Cor-tés Bernal Díaz del Castillo nella sua Historia verdadera (1632):

[…] nos quedamos admirados, y decíamos que parecía a las cosas de encantamiento que se cuentan en el libro de Amadís, por las grandes torres y edificios que tenían dentro del agua, y aún algunos soldados decían que si aquello que veían era entre sueños, y no es de maravillar que yo escriba aquí de esta manera, porque hay mucho que ponderar en ello que no sé como lo cuente; ver cosas nunca oídas ni aún soñadas como veíamos15.

13 Torno a precisare che userò la formula “realismo magico” per riferirmi allo stile letterario con cui Gabriel García Márquez racconta la saga di Macondo, abilmente definito, tra gli altri, dall’ancora attuale saggio di Mario Vargas Llosa, Historia de un deicidio. Accetto, dunque, piuttosto aproblemati-camente, riconoscendole peraltro alcuni meriti, la “vulgata” contro la quale la critica spagnola e ispa-noamericana ha cominciato a sollevare pesanti riserve. In effetti, l’etichetta è stata applicata, piuttosto indiscriminatamente, a espressioni letterarie diversissime e relative anche a generazioni differenti di scrittori (Borges, Asturias, Rulfo, Carpentier, oltre che, ovviamente, Márquez ed i suoi imitatori), ve-nendo a coincidere con una formula astratta e generalizzante. Rodríguez Monegal («Realismo mágico versus literatura fantástica: un diálogo de sordos», in D. A. Yates (ed.), cit., pp. 27-37) ricostruisce con minuziosa dovizia di particolari la storia critica del termine nelle lettere latinoamericane. Fu lo scrittore venezuelano Arturo Uslar Pietri, proveniente, come Carpentier, da un’esperienza parigina tra le file dei surrealisti, a parlare per primo, nel 1948, di una tendenza magico-realista della prosa del Nuovo Mondo, seguito da un influente articolo di Ángel Flores che ne trae addirittura spunto per stipulare un pindarico parallelismo tra Borges e Kafka. Senza entrare nel merito di questioni di parentela ampliamente dibattute ed ancora controverse, accetto per Márquez la piena funzionalità del termine, di cui ritengo interessante sottolineare la genesi post-avanguardista, perfettamente fun-zionale alla mia lettura di Cien años de soledad.14 R. Campra, America Latina: l’identità e la maschera, Meltemi, Roma, 2000, p. 69.15 B. Díaz del Castillo, Historia verdadera de la Conquista de la Nueva España, Espasa Calpe Mexicana, México, 1950, t. 1, p. 330.

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Nonostante che la natura prodigiosa dello spazio latinoamericano dipenda, in modo così vistoso, dallo sguardo del colonizzatore, è proprio questo segno esterno che i romanzieri della generazione del boom, animati dalla volontà di conquistare una visuale autoctona – a partire dalla quale definirsi oltre i plurimi mascheramenti dell’imposizione coloniale e della parimente castrante tipizzazione alternativa della risposta culturale post-indipendentista16 – scelgono di ergere a manifesto della loro ricerca, citandolo, più o meno ironicamente, come garanzia di un’essenza segreta, capitalizzando, per così dire, il mito imposto dell’estraneità “mostruosa” della lo-cale consuetudine.

Mentre in Spagna si fanno i conti con un lungo dopoguerra che, letteraria-mente parlando, si cimenta con strumenti di ricognizione cocciutamente realisti e, dalle Americhe, la generazione dell’esilio si confronta in maniera più duttile ed immaginifica con il dolore della memoria troncata o scopre lo spazio vergine del nuovo continente, lasciandosi sedurre dalle sue culture ancestrali (secondo interes-santi formule ponte che meriterebbero di essere studiate più da vicino come anello sepolto di una catena di scambio di intuizioni e soluzioni tra Europa e America ricollegabili a viaggi o “soggiorni” forzati che si realizzano nei due sensi di marcia), gli scrittori latinoamericani del boom scoprono la meraviglia quotidiana come trat-to caratterizzante della loro realtà.

Nel 1949, il cubano Alejo Carpentier che, per alcuni anni, aveva partecipato a Parigi all’esperienza surrealista, di ritorno nelle sue terre, scrive il romanzo El reino de este mundo, nel cui prologo, riflettendo sui tratti dell’identità locale, getta le basi della percezione real-maravillosa dell’irrazionale. Sebbene Langowski affermi che «la experiencia surrealista le había hecho capaz de mirar a Hispanoamérica con una nueva perspectiva»17, non ci sembra questione di poco conto che la teo-ria del real-maravilloso – che informerà lo stile appositamente creato da Márquez per la cronaca di Macondo – nasca sulla base di un viaggio di riappropriazione dell’autoctono che è anche distacco gridato dalla modalità surrealista praticata da Carpentier sotto l’egida di Breton.

Cito dalla rielaborazione di quel primo seminale scritto, apparsa nella rac-colta di saggi del 1967, Tientos y diferencias, con il titolo «De lo real maravilloso americano». Innanzi tutto, Carpentier si premura di sottolineare, in generale, le limitazioni di un approccio “straniero” – potremmo dire turistico – alla specificità di un determinato territorio:

Cada vez más se afirmaba la convicción de que la vida de un hombre basta apenas para conocer, entender, explicarse, la fracción del globo que le ha tocado en suerte habitar —aunque esta convicción no le exima de una inmensa curiosidad por ver lo

16 Cfr. R. Campra, America Latina: l’identità e la maschera, cit., con particolare riferimento al capitolo intitolato «Gli archetipi dell’emarginazione».17 G. J. Langowski, op. cit., p. 91.

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que ocurre más allá de la línea de sus horizontes. Pero la curiosidad no es premiada, en muchos casos, con un cabal entendimiento18.

Stabilito che la comprensione dell’alterità è un miracolo, il latinoamericano, dopo aver appagato la sua curiosità culturale con un grand tour di sprovincializza-zione per i luoghi deputati del Vecchio Mondo, «vuelve a lo suyo y empieza a en-tender muchas cosas»19. Quasi replicando idealmente lo sbarco cognitivo dei suoi antichi colonizzatori, comincia a mettere meglio a fuoco, grazie alla lente critica acquisita con la distanza, le peculiarità che l’abitudine e la convivenza quotidiana avevano appiattito, rinvenendo tracce di «un estilo propio» nelle pagine frenetiche e concitate con cui i cronisti spagnoli proiettavano, stupefatti, i loro insufficienti paradigmi di comprensione su di una realtà smodata ed eccessiva:

[il latinoamericano] abre la gran crónica de Bernal Díaz del Castillo y se encuentra con el único libro de caballería real y fidedigno que se haya escrito —libro de cabal-lería donde los hacedores de maleficios fueron teules visibles y palpables, auténticos los animales desconocidos, contempladas las ciudades ignotas, vistos los dragones en sus ríos y las montañas insólitas en sus nieves y humos. Bernal Díaz, sin sospecharlo, había superado las hazañas de Amadís de Gaula, Belianis de Grecia y Florismarte de Hircania. Había descubierto un mundo de monarcas coronados de plumas de aves verdes, de vegetaciones que se remontaban a los orígenes de la tierra, de manjares jamás probados, de bebidas sacadas del cacto y de la palma, sin darse cuenta aún que, en ese mundo, los acontecimientos que ocupan al hombre suelen cobrar un estilo propio en cuanto a la trayectoria de un mismo acontecer20.

La sistematica riformulazione della meraviglia in realtà, affidata allo scivolare di sfumate attribuzioni immaginative (desconocidos, ignotas, insólitas) in altrettante concretezze esperienziali (visibile y palpables, auténticos, contempladas, vistos) stig-matizza come ingenuo lo stupore dell’europeo, imponendo un rinnovato contatto del latinoamericano con i propri territori e le loro “naturali meraviglie”, il cui sta-tuto sospeso e allucinatorio, in passato codificato come “mostruoso”, sembra recla-mare a gran voce una gratificante riscoperta interna, soprattutto in considerazione del fatto che le mode culturali del Vecchio Continente, in maniera drammatica con l’esperienza delle avanguardie storiche, stanno da tempo tentando di svincolarsi da un limitante paradigma razionalistico e, con ogni artificio, si adoperano per ricrea-re a tavolino ciò che è presenza comprovabile nel “regno di questo mondo”:

Después de sentir el nada mentido sortilegio de las tierras de Haití, de haber hallado advertencias mágicas en los caminos rojos de la Meseta Central, de haber oído los tambores del Petro y del Rada, me vi llevado a acercar la maravillosa realidad recién

18 A. Carpentier, Tientos y diferencias, Calicanto, Buenos Aires, 1976, pp. 83-99.19 Ibid.20 Ibid.

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vívida a la agotante pretensión de suscitar lo maravilloso que caracterizó ciertas lite-raturas europeas de estos últimos treinta años. Lo maravilloso, buscado a través de las viejos clisés de la selva de Brocelianda, de los caballeros de la mesa redonda, del encantador Merlín y del ciclo de Arturo. Lo maravilloso, pobremente sugerido por los oficios y deformidades de los personajes de feria —¿no se cansarán los jóvenes poetas franceses de los fenómenos y payasos de la fête foraine, de los que ya Rimbaud se había despedido en su Alquimia del Verbo? Lo maravilloso, obtenido con trucos de prestidi-gitación, reuniéndose objetos que para nada suelen encontrarse: la vieja y embustera historia del encuentro fortuito del paraguas y de la máquina de coser sobre una mesa de disección, generador de las cucharas de armiño, los caracoles en el taxi pluvioso, la cabeza de león en la pelvis de una viuda, de las exposiciones surrealistas. O, todavía, lo maravilloso literario: el rey de la Julieta de Sade, el supermacho de Jarry, el monje de Lewis, la utilería escalofriante de la novela negra inglesa: fantasmas, sacerdotes emparedados, licantropías, manos clavadas sobre la puerta de un castillo21.

L’esperienza centrifuga di un viaggio di evasione richiama la necessità di un iti-nerario di approfondimento nel patrimonio locale (ad Haiti nella fattispecie, dove Carpentier reperisce la documentazione storico-paesaggistica opportuna per il ro-manzo che sta prologando), a tal punto ricco di «advertencias mágicas» da imporre al viaggiatore uno schiacciante paragone con il suo apprendistato surrealista, che desume, dal confronto, un brusco ridimensionamento delle sue ambizioni imma-ginifiche. Accostato alla desmesura del paesaggio tropicale ed agli echi mitologici che lo pervadono ad ogni passo, senza alcuna necessità di un’intenzione di ricerca specifica, il merveilleux dei bretoniani si configura come un truffaldino trucco di prestigio, un fenomeno da baraccone, un vecchio ed usurato cliché incapace di in-cantare: snervante pretesa di suggerire inventando, di trafficare con immagini im-plausibili appositamente create e meccanicamente incollate a freddo, senza alcuna prospettiva di ottenere una rivelazione organica e significante. Carpentier cita uno dei capisaldi del credo surrealista, rivelandone la macchinosità: la stantia pratica della de-contestualizzazione oggettuale – che si rifà a Lautréamont ed al suo poema proto-surrealista I canti di Maldoror – attraverso la quale si aspira a creare panora-mi di seducente surrealtà attraverso la giustapposizione caotica di reperti di realtà incongruamente appoggiati su di uno scenario che non ne giustifica la presenza, re-stituendo l’impressione di una composizione aliena, basata sul principio del collage che, nelle intenzioni, svincolerebbe gli oggetti dalle pratiche d’uso, trasformandoli in presenze autonome, macchinari surrealisti di chissà quale trasgressiva utilità. Ma se l’obiettivo principale della polemica del cubano sembrano essere proprio le magie da quattro soldi dell’ultima avanguardia, significativamente, abbiamo la possibilità di osservare riuniti in un unico calderone di inautenticità anche le ver-sioni terrorizzanti della meraviglia letteraria europea, le formule fantastiche qui rappresentate dal sinistro riferimento al romanzo gotico inglese ed all’ormai logoro repertorio tematico dell’alterità che viene ad inaugurare. Il percorso fin qui con-

21 Ibid.

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dotto, del resto, ci ha abituato a leggere narrazione fantastica e poesia surrealista come due facce della stessa medaglia, contrapposte, eppure, in filigrana, del tutto speculari: declinazioni antitetiche – e, per questo, fondamentalmente riconducibili ad un immutato schema di fondo – della paura/desiderio dell’Altro, entrambe ba-sate sulla logica di un’incompatibilità assoluta tra manifestazioni di realtà e visioni d’irrealtà, che giustifica la formula carpertieriana di un «maravilloso invocado en el descreimiento».

[…] a fuerza de querer suscitar lo maravilloso o todo trance, los taumaturgos se hacen burócratas. Invocado por medio de fórmulas consabidas que hacen de ciertas pinturas un monótono baratillo de relojes amelcochados, de maniquíes de costurera, de vagos monumentos fálicos, lo maravilloso se queda en paraguas o langosta o máquina de coser, o lo que sea, sobre una mesa de disección, en el interior de un cuarto triste, en un desierto de rocas22.

Formule magiche (tecniche deputate alla convocazione artificiale dell’Altro) ed anatemi di rifiuto – desiderio surrealista e terrore fantastico – si sovrappongono all’insegna di una sterile “burocrazia” della meraviglia, nient’altro che un codice appreso a memoria, che si auto-genera e si riproduce all’infinito in catene di imma-gini intercambiabili che barattano la ricerca del mistero composito della vraie vie con riproduzioni di “sterili deserti di rocce” o souvenir raccattati in improbabili mercatini dell’usato. Ma niente di tutto ciò può, in alcun modo, preparare alla rivelazione contestuale della meraviglia:

[…] obsérvese que cuando André Masson quiso dibujar la selva de la isla de Martinica, con el increíble entrelazamiento de sus plantas y la obscena promiscuidad de ciertos frutos, la maravillosa verdad del asunto devoró al pintor, dejándolo poco menos que impotente frente al papel en blanco. Y tuvo que ser un pintor de América, el cubano Wilfredo Lam, quien nos enseñara la magia de la vegetación tropical, la desenfrenada creación de formas de nuestra naturaleza – con todas sus metamorfosis y simbiosis –, en cuadros monumentales de una expresión única en la pintura contemporánea. Ante la desconcertante pobreza imaginativa de un Tanguy, por ejemplo, que desde hace veinticinco años pinta las mismas larvas pétreas bajo el mismo cielo gris, me dan ganas de repetir una frase que enorgullecía a los surrealistas de la primera hornada: Vous qui ne voyez paz pensez à ceux qui voient23.

L’adynaton di una «maravillosa realidad» “divora” il pittore surrealista che si accosta all’incredibile abbraccio (di immagini ontologicamente separate nella sua tradizione: disponibili alla copia alcune, altre imprendibili simulacri) della selva vergine, sconfessando l’apparente disponibilità sincretica dell’ultima avanguardia come mera inversione di un presupposto razionalistico, ahimè, oscuramente in-

22 Ibid.23 Ibid.

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troiettato e divenuto sintomo di una paralizzante «pobreza immaginativa». Car-pentier sembra prendere coscienza proprio dell’incapacità surrealista all’ibrida-zione tra forme della vita e forme dell’immaginazione esasperata, registrando la contraddizione tra teoria e prassi che sembra costituirne il nervo scoperto, quando scaglia contro i bretoniani lo stesso slogan con cui questi ultimi si compiacevano di rimproverare la cecità dell’uomo comune.

È su queste basi vistosamente anti-surrealiste che si costruisce lo sguardo real-maravilloso che, rivendicato come privilegio specifico dell’osservatore autoctono, tanta fortuna è destinato a ricevere nei romanzi latinoamericani del boom:

Hay todavía demasiados “adolescentes que hallan placer en violar los cadáveres de hermosas mujeres recién muertas” (Lautréamont), sin advertir que lo maravilloso estaría en violarlas vivas. Pero es que muchos se olvidan, con disfrazarse de magos a poco costo, que lo maravilloso comienza a serlo de manera inequívoca cuando surge de una inesperada alteración de la realidad (el milagro), de una revelación privile-giada de la realidad, de una iluminación inhabitual o singularmente favorecedora de las inadvertidas riquezas de la realidad, de una ampliación de las escalas y categorías de la realidad, percibidas con particular intensidad en virtud de una exaltación del espíritu que lo conduce a un modo de “estado límite”. Para empezar, la sensación de lo maravilloso presupone una fe. Los que no creen en santos no pueden curarse con milagros de santos […]24.

Lo stato limite, l’anelato punto di frattura delle categorie antinomiche si dà “in vita”, nella naturalezza di un’inaspettata alterazione, per così dire, in una crepa della realtà e non nella simulazione sterile di una “messa inversa” che, si presup-pone, possa squarciare il velo della coscienza civilizzata: si tratta di tenere gli occhi ben aperti, disponibili a ricevere «las inadvertidas riquezas de la realidad», confi-dando nella natura prodigiosa delle cose.

[…] lo maravilloso invocado en el descreimiento – como lo hicieron los surrealistas durante tantos años – nunca fue sino una artimaña literaria, tan aburrida, al prolon-garse, como cierta literatura onírica “arreglada”, ciertos elogios de la locura, de los que estamos muy de vuelta. No por ello va a darse la razón, desde luego, a determina-dos partidarios de un regreso a lo real – término que cobra, entonces, un significado gregariamente político –, que no hacen sino sustituir los trucos del prestidigitador por los lugares comunes del literato “enrolado” o el escatológico regodeo de ciertos exi-stencialistas. Pero es indudable que hay escasa defensa para poetas y artistas que loan al sadismo sin practicarlo, admiran el supermacho por impotencia, invocan espectros sin creer que respondan a los ensalmos, y fundan sociedades secretas, sectas literarias, grupos vagamente filosóficos, con santos y señas y arcanos fines – nunca alcanzados – , sin ser capaces de concebir una mística válida ni de abandonar los más mezquinos hábitos para jugarse el alma sobre la temible carta de una fe25.

24 Ibid.25 Ibid.

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L’autentica ricerca del meraviglioso presuppone una fiducia nell’essenza ma-gica della natura di cui i surrealisti dimostrano di essere sprovvisti, ricorrendo ad «artimañas literarias», apposite tecniche di straniamento, per provocarla nello spa-zio altro del testo, supponendola del tutto latente nella realtà. Senza una coerente mistica della meraviglia, che sostenga una proiezione immaginifica per altro verso ingiustificata, il surrealismo è un credo filisteo in assenza di fede, paragonabile ai prontuari ideologici, di matrice opposta, del giudizioso letterato impegnato. In questo dialogo tra sordi, nella guerra di aporie dogmatiche su cui dimostra di este-nuarsi l’ispirazione occidentale, biforcata tra automatiche irriverenze d’avanguar-dia e battaglieri proclami di un tradizionalissimo «regreso a lo real», l’intellettuale latinoamericano si sente in grado di incamminarsi per un sentiero ancora vergine, direttamente scaturito dalla “novità” aurorale del suo “regno”, per riferirsi al qua-le, a quasi quattro secoli dalla sua Scoperta, sembrano ancora mancare adeguati alfabeti. L’imbarazzo delle tradizioni europee nell’approcciarsi all’esperienza spe-cifica del lado de acá sembra proprio derivare dall’incompiuta sintesi tra i due poli opposti tra i quali, per due secoli, nei testi che sin qua abbiamo preso in esame, ha rimbalzato nervosamente la ricerca del sovrannaturale in letteratura, non trovan-do mediazioni possibili. La sigla pradossale di un «real maravilloso» in cui i due termini coinvolti non si elidano l’uno con l’altro condensa mirabilmente la nascita di un nuovo stile, in grado di ribaltare la direzione di flussi trainanti fra centro e periferia. Immergendosi nelle leggende e nelle mirabolanti avventure della storia haitiana, oltreché nelle ipnotiche voragini delle sue selve, su cui sembra ancora brillare la rugiada di una creazione appena terminata, non ancora stabile, sospesa tra caos e cosmos, Carpentier afferma entusiasta:

A cada paso hallaba lo real maravilloso. Pero pensaba, además, que esa presencia y vigencia de lo real maravilloso no era privilegio único de Haití, sino patrimonio de la América entera, donde todavía no se ha terminado de establecer, por ejemplo, un recuento de cosmogonías. Lo real maravilloso se encuentra a cada paso en las vidas de hombres que inscribieron fechas en la historia del continente […]26.

Nell’ultimo paragrafo del suo influente saggio, l’intellettuale cubano chiarisce due aspetti importanti del “sovrannaturale” latinoamericano27: la sua derivazione mitologica, legata ai saperi “faustici” dell’elemento indigeno ed africano e, dun-que, la sua funzionalità esplicativa, a favore della leggibilità del mondo, come nelle cosmogonie, ed il suo funzionamento “meticcio”, la tendenza all’ibridazione di tratti provenienti da diverse culture animistiche differenti, che non esclude mo-struosi, naturali connubi anche con la tradizione razionalistica europea – adesso divenuta “altra”, ospite di un regno in cui la sua supremazia è tutt’altro che scon-

26 Ibid.27 Si noti come i termini che sin qui abbiamo usato per nominare l’Altro risultino impropri ed imper-fetti nella trasgressione assoluta della sintesi naturale.

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tata. La «crónica de lo real maravilloso» – che è la cronaca dell’America Latina – è la storia della lenta fermentazione concomitante di radici culturali ed ontologiche disomogenee, ammassate l’una sull’altra e messe a reagire sotto il potere miracolo-so e fertilizzante del calore tropicale:

Y es que, por la virginidad del paisaje, por la formación, por la ontología, por la presencia fáustica del indio y del negro, por la revelación que constituyó su reciente descubrimiento, por los fecundos mestizajes que propició, América está muy lejos de haber agotado su caudal de mitologías28. È ovvio che una volontà di stile rintracciata in una miscela “genetica” di tratti

e caratteri dispari sovrapposti su di un territorio vergine che li raccoglie alla rin-fusa, non sempre comprendendoli a fondo – per quanto alcuni di essi dovrebbero comandare semanticamente l’insieme, essendo preesistenti, agendo da unificante sostrato –, «puede engendrar verdaderos monstruos»29, dando adito ad equivoci culturali, reciproci fraintendimenti e maliziosi mascheramenti in cui si insidiano sottesi, brutali giochi di forza ed, al contempo, letterariamente, si presta a codifi-cazioni affini al pastiche carnevalesco. Entrambi questi aspetti, oltre a costituire un importante lasciapassare per l’approccio a Cien años de soledad di Gabriel García Márquez, si presentano, in nuce, in una sintomatica descrizione di una strada della capitale coloniale haitiana del «Cabo francés», sovente citata come esempio della filiazione surrealista dell’immagine real-maravillosa carpentieriana30. Il protagoni-sta Ti Noel, uno schiavo negro, accompagna il suo padrone dal barbiere e si intrat-tiene osservando la vetrina del negozio, nella quale fanno bella mostra di sé quattro teste di cera, appena arrivate dalla Francia per servire da improbabile modello di acconciatura:

Los rizos de las pelucas enmarcaban semblantes inmóviles, antes de abrirse, en un remanso de bucles, sobre el tapete encarnado. Aquellas cabezas parecían tan reales – aunque tan muertas, por la fijeza de los ojos – como la cabeza parlante que un char-latan de paso había traido al Cabo, años atrás, para ayudarlo a vender un elixir contra el dolor de muelas y el reumatismo. Por una graciosa casualidad, la tripería contigua

28 A. Carpentier, Tientos y diferencias, cit.29 Ibid.30 In una sua intervista romana del 1976, Carpentier sembra svelare la genesi della potente descrizione iniziale de El reino de este mundo, accostandola all’«incontro fortuito di un ombrello e una macchina da cucire su di un tavolo di dissezione», ed alla volontà di riformularlo organicamente: «Guardando verso l’America, mi sono reso conto che in America Latina era sufficiente passeggiare per una strada di un quartiere popolare, per trovare che nelle vetrine di venti negozi si realizzavano quegli incontri poetici, fortuiti, favolosi, molto più interessanti di quelli di Lautréamont. E che erano lì a portata di mano. C’era una vegetazione barocca, c’erano delle arti popolari, così straordinariamente singolari che trovandosi di fronte ad esse per la prima volta, nel suo viaggio in Messico, André Breton disse: “Ma il Messico è la terra d’elezione del surrealismo”» (in R. Campra, America latina: l’identità e la maschera, cit., p. 150).

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exhibía cabezas de terneros, desolladas, con un tallito de perejil sobre la lengua, que tenían la misma calidad cerosa, como adormecidas entre rabos escarlatas, patas en gelatina, y ollas que contenían tripas guisadas a la moda de Caen. Sólo un tabique de madera separaba ambos mostradores, y Ti Noel se divertía pensando que, al lado de las cabezas descoloridas de los terneros, se servían cabezas de blancos señores en el mantel de la misma mesa […] No les faltaba más que una orla de hojas de lechuga o de rábanos abiertos en flor de lis. Por lo demás, los potes de espuma arábiga, las botellas de agua de lavanda y las cajas de polvos de arroz, vecinas de las cazuelas de mondongo y de las bandejas de riñones, completaban, con singulares coincidencias de frascos y recipientes, aquel cuadro de un abominable convite31.

Sulla stessa tovaglia scarlatta, la visione panoramica ci serve un inusuale ban-chetto, fatto di sottili scivolamenti e violenti impatti tra gli “oggetti” della vetrina del barbiere e quelli della vicina macelleria, che attraggono semanticamente i primi ed accentrano l’insieme. Le indebite commistioni tra gli uni e gli altri, provocate dalla «graciosa casualidad» dell’accostamento e dall’evidente debolezza simbolica dello sdrucito separé di legno che dovrebbe delimitare i perimetri di due composi-zioni difformi da tutti i punti di vista (funzione alimentare/funzione ornamentale, animale/umano, organico/inorganico, natura/cultura, colonia/madre patria, rusti-cità/eleganza, miseria/ricchezza ecc.) svincolano gli elementi coinvolti dalle loro aderenze consuetudinarie e ne riformulano il profilo in modo inedito, secondo il paradigma dell’incontro fortuito lautreamontiano che, nell’allucinante colonia, si dà in natura e viene catturato da un’attività meramente rappresentativa. Tra-lasciando il fatto, di non poco conto, che la “singolare coincidenza” stimola la grottesca fantasia trasgressiva dello schiavo (che immagina di vedersi servita per cena la testa dei suoi padroni), mi sembra importante sottolineare che rispetto ai collage surrealisti, in questa allucinazione ordinaria, gli oggetti del quadro non in-traprendono percorsi di liberazione separati e paralleli, alla maniera dell’ombrello e della macchina da cucire sul tavolo di dissezione, ma si compenetrano l’un l’altro in una miscela esplosiva ed esilarante che simula «el increíble entrelazamiento […] y la obscena promiscuidad» della selva tropicale e che diviene cifra specifica e ca-ratterizzante, ricollegabile ad un ambiente di macerazione e fermentazione impu-dica degli opposti inconciliabili. Tra l’altro, il lavoro specifico compiuto sui singoli oggetti dalla visione real-maravillosa, nella fattispecie sull’emblema razionalistico di queste teste pomposamente settecentesche, rivela un’implicita destabilizzazione della dialettica coloniale. Amplificando carnevalescamente la distanza tra prove-nienza d’origine ed esito attuale – improbabili decapitati di cera che si liquefanno accanto ad interiora di animali sbudellati –, Carpentier segnala criticamente l’inau-tenticità della scimmiottamento culturale e la natura posticcia ed inappropriata dell’importazione – si veda la maliziosa allusione alla ciarlatanesca “testa parlante” del medico/mago che pubblicizza un elisir contro il mal di denti, che viene a conta-

31 A. Carpentier, El reino de este mundo, Seix Barral, Barcelona, 1986, p. 10.

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giare anche queste “vive” incarnazioni della presunzione europea di arbitrare il gu-sto locale –, semantizzando la dissacrante “incomprensione” culturale del modello come parte integrante della visione autoctona, disposta ad assimilare ogni radice al promiscuo, solo apparentemente acritico, calderone real-maravilloso. Insomma, se la «mesa de disección» è uno scenario asettico, meramente funzionale alla logica della decontestualizzazione, su cui gli oggetti vengono appoggiati distrattamente senza sperare in alcuna reazione associativa, la vetrina del “regno di questo mon-do” è un caotico melting pot dove ogni seme sembra ricevere una precisa spinta caratterizzante, questo sì, sovente rassomigliante ad una deriva che ne perverte la natura trasfigurandola nell’allucinazione.

Cien años de soledad è il romanzo dell’ibridazione, della mescolanza di catego-rie ontologiche e culturali opposte nello spazio deputato di un microcosmo lette-rario appositamente creato come doppio metaforico ridotto dell’esperienza lati-noamericana: a Macondo, i fantasmi convivono con gli uomini, la magia si attiva nei più banali interstizi della realtà, l’autoctono si incrocia col foraneo, avvenimen-ti storici e privati di una cronaca collettiva che è anche saga privata di una famiglia si intersecano senza attrito con materializzazioni quotidiane di un animismo a fior di pelle depurato di qualsiasi inquietudine; fondamentalmente, il Mito dell’origine preispanica si abbraccia con la Storia della Colonizzazione nelle sue più svariate manifestazioni, senza che si registri alcuna reattività reciproca tra ambiti generativi di tale evidente disomogeneità. Il punto di vista è quello dei macondinos che, dopo un’era di autosufficiente isolamento, cullati dall’assordante canto degli uccelli di una selva primordiale impenetrabile, popolata da creature mitologiche addormen-tate nel sopore di un paesaggio che sembra precedere ogni cosmogonia («lirios sangrientos y salamandras doradas»32, «cetáceos de piel delicada con cabeza y torso de mujer»33 ecc.), ricevono la visita di plurime ondate successive di forestie-ri, dalla più semplici e disorganizzate (le fiere ambulanti dei gitani che, tramite spregiudicati connubi di scienza e magia, introducono nel villaggio le “invenzioni” della modernità), fino alle attestazioni più sistematiche dell’invadenza di una cul-tura d’importazione: un corregidor, un prete, un manipolo di militari, le istallazioni dello sfruttamento economico. Ogni elemento, però, nella coscienza dei macondi-ni e nell’ottica del narratore che ne imita il funzionamento, sembra interagire senza cesure con le caratteristiche allucinatorie dell’ambiente che lo ospita, in alcuni casi, scendendo a patti con la magia ed, in altri, venendo semplicemente assimilato a quest’ambito dall’incomprensione popolare. Ecco che per predicare i misteri della fede a gente tanto “smaliziata”, abituata a convivere con gli spiriti dei defunti, a osservare oggetti che si spostano con la forza del pensiero o a contemplare l’assun-zione in cielo di una fanciulla che sta piegando delle lenzuola, il padre Nicanor, reinventando il rituale dell’eucarestia, si beve una tazza di cioccolato e si eleva «de

32 G. García Márquez, Cien años de soledad, Cátedra, Madrid, 1996, p. 92.33 Ibid., p. 91.

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doce centímetros sobre el nivel del suelo»34. Il grammofono, a Macondo, è un «mo-lino de sortilegio»35 in cui vive un’orchestra in miniatura, e le file ordinate dei ba-nani della piantagione statunitense sono un bosco incantato in cui realizzare pas-seggiate mitologiche. Per non parlare del ghiaccio che, in un episodio da antologia, viene contemplato dal fondatore del villaggio e dai suoi due figli in «una tienda que, según decían, perteneció al rey Salomón»36, custodito in un pesante baule che innesca memorie di pirateschi tesori e promette il contatto con il «misterio»: derea-lizzato a dovere da una teoria di lenti distanzianti e cornici iniziatiche, l’enorme «bloque transparente»37 è un prodigio fra i tanti, animato da uno spirito glaciale. Più che soffermarmi sull’ironico ribaltamento prospettico che presiede le descri-zioni di Márquez – il quale, come ampiamente notato dalla critica, gioca maliziosa-mente con la relatività culturale dei parametri di gestione della verosimiglianza, trattando il sovrannaturale come ordinario e ammantando i fenomeni riconducibi-li a plausibili sviluppi della tecnica di un alone sacrale – mi interessa sottolineare come, nello spazio di Macondo, magie naturali e “magie” culturali formino un unico ammaliante coacervo, sintomo di un processo di assimilazione deformante dell’estraneo che si dà come tratto caratterizzante dello spazio latinoamericano. Superficialmente, l’impressione è quella di un testo fantastico rovesciato, sulla base di una sistematica inversione dei parametri che, in quella tipologia di gestione del-la meraviglia, definivano il mondo A ed il mondo B: gli “altri” che arrivano e stu-piscono sono i portatori di fenomeni di matrice razionale e verosimile, mentre gli abitanti della norma sono creature magiche che basano la loro esistenza sulla fre-quentazione di “fantasmi” e quant’altri portenti. Ma lo spazio della rappresenta-zione magico-realista non è antitesi della roccaforte realisticamente definita che, nel testo fantastico, viene messa in tensione dall’avvento dell’inspiegabile – né, dunque, immagine speculare dell’impenetrabile assurdo surrealista – bensì, rifiu-tando ogni ghettizzazione dell’ospite razionale che ha varcato i suoi confini, lo ac-coglie acclimatandolo, per così dire, alle abitudini del luogo, trasformandone i li-neamenti; anche se, come vedremo, la linea di confine tra rilettura e pericoloso fraintendimento è molto sottile. Per adesso, è importante constatare che se Macon-do, a volte, sembra funzionare come un mondo capovolto, carnevalescamente de-finito, tale spazio, a contatto con l’Altro, reagisce in modo sintomaticamente diffe-rente da quanto abbiamo visto avvenire nella sua immagine speculare, non repli-cando i meccanismi di esclusione dell’inspiegabile su cui si basa la prosecuzione della norma “diritta”, bensì reagendo con una sintomatica, forse ingenua, curiosi-tà. Del resto, Cien años de soledad, ancor prima di essere il romanzo della possibi-lità mancata o dell’impossibilità, è davvero il romanzo della “possibilità”, dell’ibri-dazione di mondi normalmente destinati ad incontrarsi soltanto per contraddirsi a

34 Ibid., p. 178.35 Ibid., p. 340.36 Ibid., p. 100.37 Ibid., p. 101.

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vicenda – ed elidersi violentemente; il romanzo della logica sincretica, magico-rea-listica, da realizzarsi nello spazio vergine e senza preconcetti di un Mondo Nuovo, «tan reciente, que muchas cosas carecían de nombre, y para mencionarlas había que señalarlas con el dedo»38. La natura progettuale della fondazione testuale di Macondo non deve essere appiattita sulla constatazione – che ovviamente saremo costretti a fare – del suo funzionamento come tragica summa del desencuentro cul-turale tra colonizzatori e colonizzati. Per ora, è necessario registrare il velleitario progetto della scrittura di creare un nuovo alfabeto per l’accostamento tra reale e immaginario, di “inventare” un perimetro di fertili commistioni. In questo senso, i due (tragici, perché sconfitti) eroi della mediazione sono José Arcadio Buendía e Melquíades. Entrambi dotati di un profilo sfumato – uomo del mito esasperato da un vorace desiderio di conoscenza e da un’innegabile spinta progressista il primo, alchimista e scienziato, “saggio” alla maniera medievale il secondo –, si incontrano e cimentano la loro collaborazione ed amicizia nei due luoghi deputati della “co-noscenza meticcia”: la stanza delle invenzioni e la stanza delle pergamene, rispetti-vamente, luogo incontrastato degli esperimenti liminari del fondatore della cittadi-na, ed eclettico compendio bibliotecario del sapere di sintesi ermetico-scientifica importato a Macondo dal capo dei gitani. Melquíades –primo “colonizzatore” del-la cittadina e primo morto ad inaugurarne il cimitero –, rappresenta il volto umano della Scienza e della Storia, essendo dotato dell’adeguata disposizione mentale e sensibilità per introdurre il nuovo della civiltà senza imporne i paradigmi generati-vi, bensì mascherandolo sotto le sembianze di un’attraente fiera magica, di un circo di inaudite esperienze paranormali39. José Arcadio ne rimarrà tanto colpito da al-lestire, col suo aiuto, un apposito laboratorio di sperimentazione da cui scaturiran-no esilaranti engendros pseudo-scientifici. Il rischio di una comunicazione tra sordi è sistematicamente segnalato come costante umoristica, ma le innocenti incom-prensioni e gli aborti concettuali e materiali del fondatore di Macondo rimangono esemplari di un reciproco rispetto tra le parti e di una sostanzialmente innocua volontà di apertura che, seppure frustrata, è destinata ad acquisire lo statuto mitico di un’occasione mancata per le disincantate generazioni successive. Di fronte ad una dimostrazione con un magnete, José Arcadio ha l’impressione che gli oggetti siano dotati di vita propria ed intraprende un’estenuante caccia all’oro sepolto nelle profondità della crosta terrestre; gli effetti ottici di una lente di ingrandimen-to gli fanno fantasticare la costruzione di un’arma da guerra che sperimenterà sulle sue carni, provocandosi dolorose bruciature e rischiando di incendiare la casa; in-fine, cercando di “fabbricare” la pietra filosofale, fonde in un pentolone i dobloni

38 Ibid., p. 79.39 Quando Melquíades – davanti ai cui «relatos fantásticos» «los niños se asombraban» – dà a José Arcadio i primi rudimenti di alchimia e rompe per errore nel laboratorio «un frasco de bicloruro de mercurio», la moglie di quest’ultimo scongiura la paura dell’ignoto secondo una formula di antica provenienza occidentale: «Es el olor del demonio». Significativamente, lo zingaro, correggendola, risponde dall’interno del paradigma superstizioso evocato: «En absoluto […]. Está comprobado que el demonio tiene propiedades sulfúricas […]» (ibid., p. 86).

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d’oro della dote della moglie «con aceite de ricino hasta obtener un jarabe espeso y trasparente más parecido al caramelo vulgar», che rimane incollato come «un chicharrón carbonizado que no pudo ser desprendido del fondo del caldero»40. Il ridicolo residuo alchemico è conveniente simulacro del destino di deformazione allucinante e disattivazione operativa che sembra toccare ad ogni elemento del mundo de allá che giunge alla deriva in questo strampalato contesto, ma José Arca-dio, con l’aiuto «del astrolabio, la brújula y el sextante» e di «una apretada síntesis de los estudios del monje Hermann»41, dopo lunghi mesi di studio, riesce a dimo-strare che «la tierra es redonda como una naranja», nonché la possibilità «de regre-sar al punto de partida navegando siempre hacia el Oriente»42: in altre parole, gioca Márquez, l’indigeno scopre le modalità della sua scoperta e ne trae spunto per intraprendere una burlesca “colombiade” alla rovescia, che metta finalmente in contatto Macondo con le altre civiltà. È durante questo conato di curiosità ed apertura che si svela il primo, inquietante monito della “solitudine” che, in una delle tante accezioni possibili che nel romanzo ne innescano la polisemia, è con-danna al desencuentro tra opposti che non riescono (o non vogliono) leggersi reci-procamente, immagine inversa del patto sincretico che sorregge la scrittura (reali-smo magico) e contraddizione fatale dell’illuminato progetto di mediazione di José Arcadio e Melquíades:

Cuando despertaron, ya con el sol alto, se quedaron pasmados de fascinación. Frente a ellos, rodeado de helechos y palmeras, blanco y polvoriento en la silenciosa luz de la mañana, estaba un enorme galeón español. Ligeramente volteado a estribor, de su ar-boladura intacta colgaban las piltrafas escuálidas del velamen, entre jarcias adornadas de orquídeas. El casco, cubierto con una tersa coraza de rémora petrificada y musgo tierno, estaba firmemente enclavado en un suelo de piedras. Toda la estructura parecía ocupar un ámbito propio, un espacio de soledad y de olvido, vedado a los vicios del tiempo y a las costumbres de los pájaros. En el interior, que los expedicionarios explo-raron con un fervor sigiloso, no había nada más que un apretado bosque de flores43.

Il possibilismo magico-realista si scontra con i relitti della Storia, l’utopia del “potrebbe essere” con gli avvertimenti paralizzanti di ciò che è stato: il galeone spagnolo incagliato in un letto di sassi, ricoperto di polvere e ragnatele, percorso trasversalmente dai segni della desuetudine, è un inquietante fantasma regressivo, la solenne rovina della Conquista delle Americhe indisponibile a qualsiasi riscatto. Le forme di una natura anarchica ed immune ad ogni innesto hanno strappato le vele e popolato con deliziosa astrusità le carcasse di un viaggio senza ritorno, di uno sbarco cognitivo sedimentatosi in un’eterna paralisi. Parallelamente, come in un collage surrealista, l’omogeneità semantica della selva appare come violata dalla conturbante presenza di un oggetto inassimilabile. L’impressione d’irrealtà che lo

40 Ibid., p. 87.41 Ibid., p. 82.42 Ibid., p. 84.43 Ibid., p. 94.

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avvolge, tra le più solide e persistenti in un romanzo in cui proliferano situazioni d’irrealtà perfettamente integrate nella normalità del luogo, sembra dipendere dal funzionamento monitorio dell’immagine, che viene ad imporre ai fautori dell’inte-grazione il disturbante révenant di un vero storico che sconfessa il dialogo tra gli opposti come mero miraggio. Sintomaticamente, anche la spedizione di José Ar-cadio fallisce, restituendo l’impressione di uno snervante isolamento perpetuo, di una comunicazione impossibile; ma l’illuminato tentativo entra nella leggenda del luogo, insieme ai «maravillosos inventos de los gitanos», ugualmente improbabili ed ugualmente suadenti. La visione di Márquez appare sospesa tra la progettualità identitaria di Carpentier, per la quale il colombiano inventa un adeguato codice rappresentativo, e la volontà di raccogliere la memoria della Conquista, stigmatiz-zando gli errori commessi da entrambe le parti coinvolte: in un sintomatico scol-lamento tra piano della narrazione e piano del narrato, il realismo magico della scrittura si occupa di abbattere con originalità assoluta e con esiti profondamente innovativi l’ontologica barriera tra aldiquà degli uomini ed aldilà dei “fantasmi”, mentre gli eventi, che “riferiscono” la storia dell’America Latina dalle origini al-l’attualità, riassumono la ben più ardua impresa di un felice meticciato culturale tra colonizzati e colonizzatori. È quando l’ontologia si storicizza in cultura che lo scanzonato possibilismo della rifusione nella terra della naturale meraviglia svela l’endemica passività delle vittime e la cinica violenza dei carnefici: così, può suc-cedere che gli ibridi mostruosi derivati del contatto perdano l’umoristico candore dell’esperimento alchemico abortito e divengano oscuri araldi dell’Apocalisse. La sintesi allucinata tra realtà e meraviglia attraverso cui la letteratura del boom stabi-lizza un immaginario postcoloniale specifico, in Cien años de soledad, dove l’idea-lismo della proposta viene messo a confronto con il corso effettivo della Storia, assume i tratti della condanna dell’America Latina alla solitudine ed al martirio. Nel discorso che pronuncia nel 1982 davanti all’Accademia di Svezia, accettando il premio Nobel, lo scrittore colombiano stabilisce un collegamento diretto tra «esta realidad descomunal», tanto effettiva che la letteratura si scontra con «la insufi-ciencia de los recursos convencionales para hacer creíble nuestra vida», e la fatale vocazione al desencuentro che essa sembra implicare:

Pues si estas dificultades nos entorpecen a nosotros, que somos de su esencia, no es difícil entender que los talentos racionales de este lado del mundo, extasiados en la contemplación de sus propias culturas, se hayan quedado sin un método válido para interpretarnos. Es comprensible que insistan en medirnos con la misma vara con que se miden a sí mismos, sin recordar que los estragos de la vida no son iguales para to-dos, y que la búsqueda de la identidad propia es tan ardua y sangrienta para nosotros como lo fue para ellos. La interpretación de nuestra realidad con esquemas ajenos sólo contribuye a hacernos cada vez más desconocidos, cada vez menos libres, cada vez más solitarios44.

44 G. García Márquez, «La soledad de América Latina», Discurso de aceptación del Premio Nobel, http://www.ciudadseva.com/textos/otros/ggmnobel.htm.

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Sembra dato registrare un’ineludibilità del dato allucinatorio, che deve entrare a far parte degli schemi di interpretazione dell’autoctono, ma anche una presa di coscienza del destino di emarginazione perpetua implicito in una norma identitaria che si definisce su sfuggenti ed inaccettabili basi di extra-ordinarietà. Da qui l’inco-municabilità tra le due sponde di un Oceano che sembra farsi, con gli anni, sempre più ancho y ajeno: l’imposizione presuntuosa dell’europeo e dei suoi parametri li-mitatamente razionalistici e la risposta difettosa del Nuovo Mondo che persiste, di fronte a nuovi, più subdoli sdoganamenti culturali, nell’incauta riduzione del peri-colo dell’invasore alle dimensioni familiari di un caso particolare della “magia”.

Peccati di superiorità culturale e di mancata mediazione che, nel romanzo, si attribuiscono, anche alla gente di Macondo, incapace di interpretare coeren-temente la logica stringente della violenza e della sopraffazione – la mera realtà – , rimanendo attonita e stupefatta di fronte ai colpi d’artiglieria come di fronte ai trucchi di un abile prestigiatore, «deslumbrada por tantas y tan maravillosas invenciones»45. Quando i militari al servizio dei mister della compagnia bananiera iniziano a sparare sulla folla inerme dei lavoratori in sciopero per le condizioni disumane cui vengono sottoposti, l’impressione è quella di «una farsa»:

Era como si las ametralladoras hubieran estado cargadas con engañifas de pirotecnia, porque se escuchaba su anhelante tableteo, y se veían sus escupitajos incandescentes, pero no se percibía la más leve reacción, ni una voz, ni siquiera un suspiro, entre la muchedumbre compacta que parecía petrificada por una invulnerabilidad instantá-nea. De pronto, a un lado de la estación, un grito de muerte desgarró el encantamien-to: «Aaaay, mi madre»46.

Lo scudo magico sconvenientemente ed illusoriamente attivato si infrange fra-gorosamente con il grido di dolore del primo ferito, a testimonianza di una com-mistione, questa volta tragica, tra magia e realtà che ricorda – e Márquez attiva in assoluta coscienza il riferimento – la paradossale accoglienza trionfale che, secon-do le cronache, le popolazioni indigene tributarono agli implausibili invasori che stavano per far crollare le loro civiltà, assimilando l’irriducibilmente estraneo ad una manifestazione del divino e tributando i più alti onori a quelli che consideraro-no i sacri nunzi degli dèi locali. Se il segno europeo in America è sottoposto ad un processo di deformazione che, sovente, lo riduce all’inoperatività o lo sottopone alla parodia, assai più inquietanti appaiono le conseguenze del desencuentro sul-l’autoctono, violentato e sconvolto dall’imposizione di un ordine esterno che non può contraddire perché non riesce a semantizzare come diverso nel possibilismo assoluto che è sua caratteristica definitoria.

Non si può però ipotizzare che il doppio legame che si stabilisce tra identità autoctona e magia costituisca, per Márquez, un’accecante barriera, un’evasione

45 G. García Márquez, Cien años de soledad, cit., p. 339.46 Ibid., p. 428.a

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irresponsabile che tradisce la debolezza dei meccanismi di autoconservazione del-lo specifico latinoamericano, incapace di un confronto serio con l’alterità. Alcuni episodi del romanzo sembrano consegnare quest’immagine, ma è sintomatico che, al contempo, proprio alla magia ed ad un testo magico come le pergamene di Mel-quíades sia affidato il compito di conservare la memoria dell’origine paradisiaca di Macondo, nonché la storia delle violenze subite. Quando José Arcadio Segundo, unico superstite del massacro dei lavoratori, salta giù da un treno carico di cada-veri che stanno per essere gettati in mare e «la versión oficial, mil veces repetida y machacada en todo el país por cuanto medio de divulgación encontró el gobierno a su alcance, terminó por imponerse: no hubo muertos»47, è nella stanza magica del gitano – chiusa per anni eppure inviolata dalla polvere e dalla distruzione, ancora immersa nell’aria diafana dell’incipit paradisiaco («todo era tan reciente…») – che trova rifugio il suo sovversivo desiderio di testimonianza: i militari spalancano la porta e non lo vedono, «protegido por la luz sobrenatural, por el ruido de la llu-via, por la sensación de ser invisible»48. Da questo momento, ad opera di questo scomodo custode di un ricordo trasgressivo, inizia il sistematico e cocciuto pro-cesso di decifrazione delle oscure scritture su cui Melquíades ha profeticamente cifrato la cronaca di cent’anni di storia di Macondo. Magia, memoria e dissidenza (rispetto alle falsità delle versioni ufficiali) s’incrociano in questo manufatto di rea-lismo magico testualizzato che, come si scopre nelle ultime pagine del romanzo, “coincide” con Cien años de soledad. La realtà della magia – o la conformazione magica del reale – è, dunque, ricordo identitario dell’origine ancor prima di essere anatema di solitudine, patrimonio specifico da preservare fuori dalla Storia, nel possibilismo della scrittura che scorre parallelo all’utopia di un’altra colonizzazio-ne, improntata al dialogo curioso e paritario tra un intraprendente uomo-natura assetato di conoscenza ed uno scienziato-stregone che, dopo aver fondato l’era mi-tica di Macondo (un’era mitica che non c’è mai stata), ad un certo punto, vengono superati dalla versione ufficiale, si arrendono e muoiono nella desolata solidarie-tà del fallimento. La scrittura del sincretismo magico-realista, dunque, suggerisce l’utopia ma, al contempo, ne rappresenta la contraddizione da parte della Storia, rifiutando di funzionare nell’autonomia assoluta dell’evasione trasgressiva e rita-gliandosi, piuttosto, un ruolo ed una funzione equiparabili a quelli del Mito, con cui le civiltà antropologicamente definite si confrontano con i luoghi problematici del vissuto collettivo, tracciando i segni deputati della propria identità. Il tempo di questa civiltà è, però, già scaduto. Colui che, nelle ultime pagine del romanzo, decifrerà le pergamene mentre, tutto intorno, un’era sta completando il suo ciclo, avrà l’impressione di confrontarsi con «un espejo hablado»49, che lo folgora con l’ultima e più totalizzante delle magie: il riconoscimento della propria storia. Ma piuttosto che consegnare un aproblematico lasciapassare per la terra del merveil-

47 Ibid., p. 433.48 Ibid., p. 437.49 Ibid., p. 559.

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leux, il completo dischiudimento dell’oggetto magico di Melquíades – il libro che il lettore ha tra le mani e la cui interpretazione ci viene ironicamente segnalata come problematico percorso di conoscenza ermetica – offre una chiave inservibile, irripetibile «desde siempre y para siempre»50, destinata a sgretolarsi nelle mani di un interprete cui si nega ogni possibilità di sfruttarla a suo beneficio, giacché la rivelazione dell’origine coincide con quella della fine («las estirpes condenadas a cien años de soledad no tenían una segunda oportunidad sobre la tierra»51). Cien años de soledad, testo liminare e sospeso, al contempo utopico e desueto, costretto al gesto sclerotico di prevedere il passato, veggenza del sodalizio tra magia e realtà votata alla memoria di un incontro abortito, assomiglia ad una patetica profezia postuma.

Nel discorso su «La soledad de América Latina», Márquez dà libero sfogo ad un finale alternativo che si configura come finale ideale, magico senza essere realistico, utopicamente trasgressivo, che ha il sapore di un’autonoma, falsificante riscrittura:

Ante esta realidad sobrecogedora […], los inventores de fábulas que todo lo creemos, nos sentimos con el derecho de creer que todavía no es demasiado tarde para empren-der la creación de la utopía contraria. Una nueva y arrasadora utopía de la vida, donde nadie pueda decidir por otros hasta la forma de morir, donde de veras sea cierto el amor y sea posible la felicidad, y donde las estirpes condenadas a cien años de soledad tengan por fin y para siempre una segunda oportunidad sobre la tierra52.

Nella sintesi significativa del romanzo però, rispetto al quale quest’altra ver-sione, sottotesto evasivo visibile in controluce, funziona, quasi surrealisticamente, come autonoma fantasia del desiderio liberato dai vincoli della realtà, la cronaca realistica, vincendo la sua battaglia, ci consegna un tragico aborto che è esemplare metafora della scrittura di Márquez, della sua sconfitta e della sua suggestione. Il bambino-maiale con cui si conclude la stirpe dei Buendía, ultimo colpo di coda del possibilismo delle origini, nel cui incanto si poteva ancora sperare che non tutto fosse già scritto, rammenta, stravolgendole in tragedia, le mirabolanti commistioni magiche antecedenti all’arrivo dello straniero: anche adesso, mentre le formiche lo portano via cadavere nell’ultima alba di Macondo, l’inoffensiva bestia mitologica, vittima deputata della Storia, continua a sembrare più plausibile e più viva della perturbante visione di un galeone incagliato che ha violato l’armonia primordiale della selva.

50 Ibid.51 Ibid.52 G. García Márquez, «La soledad de América latina», cit.

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3.3 Io e l’Altro: la sintesi innaturale del nuovo fantastico53

Sulla base delle prove raccolte nel paragrafo precedente, la differenza tra testi magico-realisti e testi fantastici tradizionali dovrebbe apparire piuttosto chiara: ben-ché entrambi propendano fortemente per la rappresentazione del sovrannaturale, la visione estetica dei primi si basa, più o meno dichiaratamente, sul presupposto ontologico della meravigliosa realtà del Nuovo Mondo, che rende inadeguata, non aderente al contesto culturale specifico che sono chiamati a leggere, la semantizza-zione dell’irrazionale come pericolosa alterità54. Come segnala Anderson Imbert, il realismo magico suggerisce «un clima sobrenatural sin apartarse de la naturaleza»55, o meglio, ritornando alla natura, al fango primordiale d’America, per plasmare “fan-tasmi” di solida concretezza e profonda, intuitiva riconoscibilità. Il critico allude al fatto che, idealmente, la grande stagione del fantastico latinoamericano – di spic-cata matrice avanguardista56, aggiungerei io – “precede” l’era della narrazione ma-gico-realista, con esperimenti di forte astrazione e spiccata tendenza de-realizzante che sembrano preparare la ricostruzione sincretica di cui abbiamo avuto prova nel romanzo di García Márquez, agendo come un’adeguata pars destruens (rispetto alle tendenze naturaliste imperanti nella prosa latinoamericana delle prime decadi del secolo), passo previo alla rappresentazione allucinante del cuore genuino del reale americano, che sembra rispondere, in senso compiutamente post-avanguardista, all’ideale di una restituzione del mondo alle sue origini magiche.

Ora però, differentemente da quanto avviene, in modo inverso ma paralle-lo, nel trattamento del sovrannaturale che caratterizza il fantastico tradizionale e l’esperimento d’alterità avanguardista – dove l’Altro, temuto o desiderato, appar-tiene saldamente ad un altro mondo –, sia nel realismo magico che nel neofanta-stico latinoamericano, l’elemento irrazionale è parte integrante dell’unica realtà possibile e gli scrittori sono animati dalla missione di dissotterrare la magia occulta del reale, nel tentativo di restituirne all’uomo una versione più piena. Per non in-correre nell’ingenuità della novità assoluta, bisogna concordare con Nelly Martí-nez, quando afferma che:

53 Chiarisco fin da adesso che tra le varie declinazioni possibili del fantastico rioplatense, scelgo di riferirmi unicamente all’opera di Julio Cortázar, il quale raggiunge la piena maturità letteraria una quindicina di anni più tardi rispetto ai fondatori del genere: Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casa-res.54 Riferendosi esclusivamente ai rispettivi effetti di lettura, A. B. Chanady (Magical Realism and the Fantastic: Resolved and Unresolved Antinomy, Garland Publishing, New York, 1985), sintetizza così lo spartiacque tra i due generi: «In contrast to the fantastic, the supernatural in magic realism does not disconcert the reader, and this is the fundamental difference between the two modes». 55 E. Anderson Imbert, «”Literatura fantástica”, “realismo mágico” y “Lo real maravilloso”», cit., p. 42.56 La rivista Sur, fondata a Buenos Aires nel 1931 e diretta da Victoria Ocampo con la collaborazione della futura triade maggiore della letteratura fantastica argentina (Borges, Bioy Casares e S. Ocampo) funziona, in parallelo, come organo di diffusione di ardite sperimentazioni d’avanguardia (Borges aveva importato da Madrid l’ultraismo) e come ricettacolo di narrazioni fantastiche, genere privile-giato dai suoi vertici editoriali; come privilegiato luogo di sintesi, dunque.

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Ni el realismo mágico ni lo fantástico en la Hispanoamérica contemporánea pueden entenderse, sin embargo, fuera del contexto de la tradición cultural moderna de Occi-dente, determinadas éstas por actitudes poéticas que se afianzan en el Romanticismo y culminan en el surrealismo57.

Il riferimento alla «reacción contra un exceso de racionalización ante la reali-dad»58 riunisce abilmente in un’unica vena le quattro tipologie testuali di cui que-sto libro si occupa: il racconto fantastico, che abbiamo visto ricevere un impulso fondamentale proprio nell’orbita degli smodati voli della fantasia romantica, ed in cui la reazione anti-razionalistica si attiva per essere immediatamente respinta ed esorcizzata, secondo il meccanismo della doppia negazione; il testo surrealista ortodosso dove, invece, l’elemento di trasgressione ha campo libero e, consegna-tegli le chiavi dello spazio testuale, provvede all’annichilimento statutario della rappresentazione comune; infine, il romanzo magico-realista e la narrazione neo-fantastica, che condividono un’interessante vocazione sincretica, la quale, di per sé, li guadagna ad una categoria a parte.

Qual è, dunque, la frontiera che demarca la peculiarità di questi ultimi due generi, giacché entrambi sembrano basarsi sulla costatazione del funzionamento magico della realtà e della natura “anche altra” dell’Io razionalmente definito?

[…] el universo meramente animado de la ficción mágico-realista se convierte en el cosmos devastado del género fantástico. […] Participan de lo fantástico sólo aquellas obras en que se imponen los poderes asoladores de la realidad. Estos alejan y extrañan el mundo alrededor; lo deforman, tornándolo grotesco59.

Come abbiamo notato in precedenza, la vocazione mitica – e non onirica – del realismo magico deriva dalle credenze pre-razionali del sostrato ancestrale indige-no una «visión analógica del orbe»60, l’idea di una sostanziale, organica unità tra spirito e materia, soggetti ed oggetti, fenomeni concreti e forze incorporee, tenden-te a spiegare il funzionamento complesso del cosmo, la cui leggibilità non appare mai franta da zone di opacità, deformata da inquietudini perturbanti riferibili alle remore dell’uomo civilizzato, costernato da ciò che non riesce a leggere razional-mente. Il punto di vista è sempre quello dell’uomo naturale inserito nell’organicità del quadro o, comunque, quello di un emissario della civiltà che raggiunge la terra della meraviglia per essere folgorato da una rivelazione di integralità che è disposto ad accettare, riconoscendola come chiave di un ritorno alle sue radici perdute61.

57 N. Martínez, «Realismo mágico y lo fantástico en la ficción hispanoamericana contemporánea», in D. A. Yates (ed.), Otros mundos, otros fuegos: fantasia y realismo mágico en Iberoamérica, cit., p. 46.58 Ibid.59 Ibid., p. 48.60 Ibid., p. 45.61 Sommo esempio di questo funzionamento è il romanzo Los pasos perdidos (1951), di Alejo Carpen-tier. È interessante notare che quando C. Santander («Lo maravilloso en la obra de A. Carpentier»,

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Quando prevale il disordine e la visione diventa grottesca ed abortita, come in Cien años de soledad, la perversione è sempre causata dall’impropria ingerenza della Storia e della Cultura che interrompono lo sferico, saggio funzionamento dell’orbe naturale. Se la sintesi magico-realista si dimostra imperfetta e si inceppa, lo fa sol-tanto nella pratica, ma non nell’ontologia, dove tutto funziona senza violenze nella pace ritrovata della restituzione di una naturale pienezza.

La magia del neofantastico è invece imposizione del disordine, di un disordine necessario, di cui deve far le spese l’imperfetto soggetto contemporaneo, cocciu-tamente impegnato nella perpetrazione di un ordine, di una forma vuota, che la sostanza poetica si occupa di sconfessare. L’ottica su cui si basa il testo è ancora quella dell’“impossibilità”; i presupposti di fondo che scatenano gli effetti di let-tura sono ancora quelli, razionalisticamente definiti, del fantastico tradizionale e l’orizzonte di ricezione (il lettore implicito, potremmo dire) su cui, si presuppone, venga ad infrangersi l’assurdità del testo è grettamente comune ed ordinario. Non mi riferisco al punto di vista interno, alla voce dei narratori che, sovente, propon-gono una straniante riformulazione della catena percettiva tradizionale, dicendo il “fantasma” senza registrarne lo scandalo, senza riconoscerlo in alcuni casi, sempre e comunque rifiutando le formule della razionalizzazione come incompatibili con la “vita vera” di cui l’estraneo viene ad essere uno scomodo emissario: a livello del discorso, gli autori del fantastico argentino non potrebbero pervertire più pro-fondamente le timide fabulazioni dell’alterità del fantastico ottocentesco. Alludo, piuttosto, alla significazione trasgressiva che i nuovi racconti fantastici, immuni alla propensione meticcia del romanzo magico-realista, continuano ad attribuire all’avvento dell’Altro. Se autori come Cortázar basano la loro opera su di una fede assoluta nel funzionamento magico-realista dell’universo, i loro testi sembrano ri-ferirsi ad una realtà letargicamente ancorata ad un’ontologia razionalista, di cui adesso lo scrittore non viene più a fare le veci – segnalando i pericoli dell’estraneo e proteggendone i confini – bensì si compiace di mostrare la sistematica deva-stazione, la logica e necessaria profanazione da parte di agenti che sono esterni solo apparentemente ma che, in realtà, ne permeano l’illusoria trama di superficie, squarciando l’occhio di un lettore troppo comune come un sadico cerimoniere surrealista.

Rosalba Campra sembra attribuire la cocciuta insistenza di un codice «di con-trasto» di gestione del sovrannaturale nella letteratura argentina all’impossibilità degli scrittori locali di riferire la loro percezione misterica del mondo ad un con-veniente sostrato mitico che ne contestualizzi armonicamente l’irrazionalità, come avviene in altri paesi in cui l’eredità indigena, almeno come ricordo e represso,

Atenea, 409, 1965, p. 100) tenta di associare, senza mediazioni, l’opera al surrealismo, si trova davanti all’esigenza di pasticciare i due grandi avversari della scena letteraria francese della prima metà del Novecento: «Por otra parte, Los pasos, siendo a la vez su novela más conocida, resulta quizá la que más aproxima su autor a la generación «superrealista» a que pertenece por sus contactos con el sur-realismo y el existencialismo».

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ha mantenuto una persistenza immaginaria considerevole. Lo fa citando lo stesso Cortázar:

A rendere perplessa la critica, che non ne trova una spiegazione soddisfacente, la letteratura rioplatense annovera una serie di scrittori la cui opera è basata, in mag-giore o minor misura, sul fantastico, inteso in un’accezione molto larga, che va dal soprannaturale al misterioso, dallo spaventoso all’insolito, e dove la presenza dello specificamente “gotico” è percettibile con frequenza […]. Neanche io posso spiegare perché noi rioplatensi abbiamo prodotto tanti autori e lettori di letteratura fantastica. Il nostro polimorfismo culturale, derivato dai molteplici apporti immigratori, la nostra immensità geografica come fattore di isolamento, monotonia e tedio, con il conse-guente ricorso all’insolito, a un anywhere out of the world letterario, non mi sembrano ragioni sufficienti per spiegare la genesi de Los caballos de Abdera, de El almohadón de plumas; de Tlön, Uqbar, Orbis tertius, de La invención de Morel62.

Il riferimento al «polimorfismo culturale» tipico di una nazione la cui identità si è costruita sull’immigrazione e, dunque, sulla consuetudine alla riformulazio-ne di parametri mai stabilmente definiti, mi sembra di grande efficacia, ma meno giustificato, almeno pensando alla produzione fantastica dello stesso Cortázar, il riferimento (utopico o distopico) all’evasione in un “altrove fuori dal mondo”, giacché uno dei tratti sostanzianti dell’Altro cortazariano è proprio il suo insistere in – e coesistere innaturalmente con – l’ambito d’azione dell’Io nella sua espe-rienza ordinaria. Insomma, da una parte, l’Io e l’Altro sono la stessa cosa e con-dividono quotidianamente gli stessi spazi, la realtà è anche altra da sé, sfuggente, contraddittoria e polimorfa senza alcun bisogno di rimandare ad un Aldilà irreale che, contraddicendola, aiuta a definirne il perimetro; dall’altra, la rivelazione del rovescio delle cose non avviene tramite un aproblematico riconoscimento, bensì passa attraverso la sensazione di un sopruso, ancor più inquietante ed ingestibile per il fatto che l’agente provocatore dell’espropriazione appartiene alla mia natura, oscuramente sono anche io, è un’altra parte di me, impossibile da espellere. Non è difficile, riunendo le fila del discorso fin qui tracciato, accostare l’innaturale sintesi dei testi neofantastici cortazariani ad una formula che potremmo così riassumere: sui dubbi e le inquietudini circa i comuni parametri di realtà che riverberavano nell’antica narrazione di fantasmi sembra essere collassata, con effetti dirompenti, una prepotente moralità surrealista che rende velleitario ogni tentativo di raziona-lizzazione, stabilendo un collegamento diretto tra le declinazioni sinistre dell’Altro tradizionalmente definito ed i demoni interiori dell’individuo, i timori ed i desideri inconsci che ci appartengono come e più della nostra parte visibile, e che adesso, invece di vivere nella separatezza della fantasmagoria poetica, si materializzano concretamente nella nostra realtà, divengono oggetti operativi che sostituiscono le immagini dello specchio, trasferendo sulla nostra psiche un terrore non esorciz-

62 J. Cortázar, «Notas sobre lo gótico en el Río de la Plata», Caravelle, 25, 1975, citato in R. Campra, America latina: l’identità e la maschera, cit., p. 79.

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zabile. In più, il responsabile del testo sembra parteggiare per loro, presiedendo all’operazione come l’elusivo spettatore (a volte impassibile, a volte inaffidabile ed incompetente, altre volte coinvolto in uno stupore che non sottopone ad alcun processo di verifica razionale) di un rito necessario ed annunciato. Al di là delle varie declinazioni possibili della voce narrativa cortazariana, al di là dei modi della narrazione, su cui ha brillantemente lavorato Tommaso Scarano63, è da registrare, a mio avviso, un’interessante, generalizzata implicazione surrealista dell’autore im-plicito nei racconti fantastici dello scrittore belga-argentino.

Cortázar, l’autore reale, profondamente intriso di cultura francese a causa delle sue origini scisse, nello stesso anno in cui Carpentier, il grande transfuga latinoamericano del surrealismo, inventa il real-maravilloso ed in Europa si respi-rano le atmosfere dell’esistenzialismo che portano scrittori come Sartre e Camus, animati da urgenti preoccupazioni umanistiche, a lanciare contundenti attacchi contro quello che adesso sembra essere il venerando relitto di un’epoca lontana ed insensata, pubblica a Buenos Aires un articolo intitolato «Un cadáver viviente», in cui difende, a spada tratta ed attraverso una retorica pienamente accostabile a quella dei manifesti bretoniani, l’intatta vitalità di quell’esperienza:

Todos conocemos la disolución del equipo espectacular del surrealismo francés; Ar-taud ha caído, y Crével, y hubieron cismas y renuncias, mientras otros retornaron profesionalmente a la literatura o a los caballetes, a la utilización de las recetas efica-ces. Mucho de esto huele a museo, y las gentes están contentas porque los museos son sitios seguros donde se guardan bajo llave los objetos explosivos; uno va el domingo a verlos, etc. Pero conviene acordarse que del primer juego surrealista con papelitos nació este verso: «El cadáver exquisito beberá el vino nuevo». Cuidado con este viví-simo muerto que viste hoy el más peligroso de los trajes, el de la falsa ausencia, y que presente como nunca allí donde no se lo sospecha, apoya sus manos enormes en el tiempo para no dejarlo irse sin él, que le da sentido. Cuidado, señores, al inclinarnos sobre la fosa para decirle hipocríticamente adiós; él está detrás vuestro, y su alegre, necesario empujón inesperado puede lanzaros dentro, a conocer de veras esta tierra que odiáis a fuerza de ser finos, a fuerza de estar muertos en un mundo que ya no cuenta con vosotros64.

Parafrasando il gioco dell’assemblaggio casuale, la produzione seriale di “frakenstein” poetici che aveva definito la prima era surrealista, Cortázar, attraver-so un appello alla reversibilità dei parametri di vita e morte, ipotizza che l’attuale stasi vegetativa del gruppo sia in realtà lo stadio latente di un’energia ben allerta, appena camuffata nell’immobilismo dell’estrema dimora, da cui si sta macchinan-do un ritorno ad effetto ancor più conturbante, come conviene ad ogni trascinan-

63 Cfr. T. Scarano, «Raccontare l’assurdo. Il fantastico di S. Ocampo, Cortázar e Bioy Casares», in T. Scarano, Modelli, innovazioni, rifacimenti: saggi su Borges e altri scrittori argentini, Baroni, Viareggio, 1994. 64 J. Cortázar, «Un cadáver viviente», Realidad, vol. V, citato in G. J. Langowski, op. cit., p. 134.

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te manifestazione dello spirito sottoposta ad una troppo frettolosa repressione. Significativamente, il secondo avvento del révenant, sembra dire l’argentino, non si accontenterà della deliziosa non-vita dei suoi esperimenti poetici, ma agirà diret-tamente sulla nostra realtà, spingendo l’uomo comune “nella fossa” ed imponen-dogli un brutale incontro con la dimensione oscura, con il buio del rovescio, che è poi l’unica realtà possibile. I “fantasmi” di Cortázar saranno tutti riferibili a questo surrealismo di nuovo conio, dei cadáveres vivientes che, una volta evocati (dal de-siderio, dalla fantasia, dalla scrittura), cambieranno per sempre la fisionomia del nostro mondo.

In un’intervista rilasciata a Mario Vargas Llosa, Cortázar afferma di appoggia-re «una concepción surrealista del mundo»:

Entendámonos primero sobre la noción misma del surrealismo: para mí es sencilla-mente una vivencia lo más abierta posible sobre el mundo, el resultado de esa apertu-ra, de esa porosidad frente a las circunstancias, se traduce en la anulación de la barrera más o menos convencional que la razón razonante trata de establecer entre lo que considera real (o natural) y lo que califica de fantástico (o sobrenatural), incluyendo en lo primero todo aquello que tiende a la repetición, acepta la causalidad y se somete a las categorías del entendimiento, y considerando como fantástico y sobrenatural todo lo que manifiesta como carácter de excepción, al margen insólitamente. Desde luego, siempre ha sido más fácil y frecuente encontrar un caballo que un unicornio, aunque nadie negará que el unicornio proyecta en la vida significativa del hombre una imagen por lo menos tan intensa como la del caballo65.

Ibridare la cosmovisione e la dissidenza surrealiste con le logiche di un genere come il fantastico che, per funzionare, per proiettare la sua ombra inquietante, deve obbligatoriamente servirsi dei presupposti della realtà razionalmente definita, significa preoccuparsi, molto più di quanto fecero i surrealisti di scuola, dell’ope-ratività concreta dei segni d’irrealtà invocati come emissari della realtà profonda, divulgando, per così dire, la “surrealtà” tra gli uomini, che non potranno che su-birla – pavidi schiavi delle imposizioni culturali e dell’abitudine – come sottrazione sovrannaturale di un ordine confortevole. Registrare gli effetti ed i contraccolpi di uno scontro necessario: questa sembra essere la sadica strategia dello scrittore surrealista di nuova generazione, per il quale la revisione degli stilemi fantastici viene a rappresentare il più adeguato terreno di gioco. Se Carpentier, per criticar-ne i limiti, si dimostrava aderente alla base dogmatica ed astratta del movimento, Cortázar riceve il surrealismo come un invito ad aprire gli occhi «sobre el mundo», un percorso di disponibilità e “porosità” «frente a las circunstancias». Del resto, la volontà di Cortázar di precisare i termini della propria autoproclamata filiazione surrealista – nella direzione di un tentativo di sintesi effettiva ed impattante del materiale immaginario con le forme della realtà condivisa – si specchia in quello

65 «Preguntas a Julio Cortázar», Expreso, Lima, 7/2/1965, citato in G. J. Langowski, op. cit., p. 135.

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che definirei un utilizzo maieutico, sapienziale della narrazione fantastica66, che diventa altra da sé, piegandosi a veicolare una mistica della realtà disponibile alla confusione delle normali antinomie: se il fantastico tradizionale si basa su un’oppo-sizione che non potrebbe essere più ferrea tra reale ed irreale, Cortázar dichiara di partire dal presupposto dell’abbattimento di tale barriera strutturante, inventando un fantastico “d’apertura”67, o meglio di rivendicazione delle ragioni dell’Altro, dell’eccezione consegnata ai margini, a discapito della notorietà delle manifesta-zioni che, per consuetudine, si è portati a definire come depositarie della nostra identità, qui, surrealisticamente associate a caratteristiche incompatibili con l’etica cortazariana, come la sottomissione e la meccanica ripetitività. Ovviamente, l’istan-za autoriale parteggerà ardentemente per la trasgressione e la sorpresa.

Se anche le più canoniche declinazioni terrorizzanti dell’incomprensibile (fan-tasmi, apparizioni demoniache, vampiri ecc.), attraverso una lettura psicanaliti-ca, potevano ricondurci alle inquietudini inconsce del soggetto che ne riceveva la visita, nei tre racconti cui sto per riferirmi, il testo segnala espressamente che la presenza inquietante è convocata per via diretta dall’attività psichica dell’Io, le cui spinte immaginarie si materializzano venendo ad occupare – ed esaurire – lo spazio di abitabilità cosciente: l’ossessione visiva di un osservatore curioso, il sogno involontario e persistente di un uomo addormentato ed i giochi linguistici di una fanciulla che scrive il suo diario aprono la strada all’arrivo del doppio (l’Altro che, paradossalmente, sono anche Io), della larva latente consegnata all’invisibilità, che viene a reclamare il suo diritto all’esistenza fuori dal rovescio. I primi due racconti appartengono alla raccolta Final del juego (1964), mentre «Lejana» li precede in Bestiario (1951), ma le parentele sono evidentissime, riconducibili, a mio avviso, all’utilizzo quasi sistematico di affezioni tipicamente surrealiste, intorno alle quali si strutturano inquietanti esperimenti di invasione dell’inconscio nella realtà comu-ne. Per «Axolotl» e «La noche boca arriba», tra l’altro, sarà dato ravvisare anche un riferimento al mito precolombiano, del quale si dovrà registrare un trattamento immaginario completamente differente rispetto alle ibridazioni naturali del reali-smo magico.

L’incipit di «Axolotl» trasgredisce ogni regola della narrazione fantastica tra-dizionale, pronunciando direttamente, senza perifrasi né esitazioni, la verità sco-moda di un accadimento sovrannaturale non sottoposto – o non sottoponibile – ad alcuna verifica o mediazione:

66 Tale impressione è confermata dalla ripetuta insistenza con cui Cortázar reclama per i suoi testi la partecipazione attiva di un lettore che non deve aspettarsi di ricevere significati preordinati e maturi e che, in ogni caso, deve rifiutare di accettarli, collaborando alla costruzione di un senso costituzio-nalmente instabile e metamorfico, un lector macho secondo la sua dicitura, l’unico a non rischiare di essere la vittima deputata delle violente sottrazioni e delle brutali espropriazioni cui l’atteggiamento passivo, attaccato alla parvenza di un ordine che non esiste, viene sistematicamente sottoposto nelle sue narrazioni. Esemplare al riguardo è il racconto «Continuidad de los parques» in cui, quasi precet-tisticamente, un lector hembra comodamente sprofondato sulla sua poltrona con un feuilleton a tinte fosche viene pugnalato a morte dall’assasino del libro.67 Cfr. R. Campra, Territori di finzione. Il fantastico in letteratura, Carocci, 2000, p. 46.

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Hubo un tiempo en que yo pensaba mucho en los axolotl. Iba a verlos al acuario del Jardin des Plantes y me quedaba horas mirándolos, observando su inmovilidad, sus oscuros movimientos. Ahora soy un axolotl68.

Il narratore in prima persona – che coincide con il soggetto paziente del pro-digio – prima di raccontare retrospettivamente le circostanze di un’attrazione fa-tale verso un elemento estraneo che, tuttavia, per via oscura e misteriosa, riesce a riconoscere come “proprio”, stranamente partecipe della sua stessa natura, ne dischiude le strabilianti conseguenze, invertendo contemporaneamente sia la for-mula della lenta, circospetta preparazione con cui tanti narratori ottocenteschi si aprivano un varco ricettivo nel lettore prima di rivelare il manifestarsi del portento, sia la reattività razionale con cui tentavano di mediarne l’impatto. Questa voce – che afferma senza sfumature di essere divenuta un pesce – risulta assolutamente aliena, non preoccupandosi di farsi riconoscere come appartenente ad un membro integrato di una civiltà di cui, ovviamente, ha smesso da tempo di condividere i presupposti e le categorie. Eppure, l’assurdità dello straniamento si rovescia nella stringente logica del riconoscimento, secondo un principio di reversibilità che si ambisce a comunicare al lettore e su cui, quasi esclusivamente, ricade l’attenzione di un testo che sottrae ogni importanza al fatto sovrannaturale in sé, giocandosene l’effetto nelle prime quattro righe. La narrazione dell’alterità viene gestita, per la prima volta, da una prospettiva ambigua e scissa: quella dell’Io che sa di essere ormai anche l’Altro. Nell’«húmedo y oscuro edificio de los acuarios», un uomo non riesce a staccare gli occhi dal conturbante pesce-anfibio che dà il titolo al rac-conto, un essere doppio in sé, capace di vivere dentro e fuori dall’acqua, nonché rassomigliante ad una sorta di roccia viva, la cui immobilità occulta pazientemente in un’apparente inorganicità i fremiti dell’energia biologica. Comunque, ciò che catalizza lo sguardo ossessivo dell’osservatore, imponendogli reiterate visite quo-tidiane al giardino zoologico, non è la “mostruosità” della creatura, bensì l’oscura impressione di un’arcana prossimità: riscattabile da «una profundidad insondable que me daba vértigo»69, sembra ardere la scintilla di un’anamnesi, paradossalmen-te nascosta sotto le sembianze del massimo grado di diversità:

No hay nada de extraño en esto, porque desde un primer momento comprendí que estábamos vinculados, que algo infinitamente perdido y distante seguía sin embargo uniéndonos70.

La possibilità di riconoscersi nell’estraneo, nell’opposto, nell’Altro irriduci-bilmente tale, è la peculiare, vertiginosa declinazione dell’inquietudine evocata da questo racconto. Inquietudine che, sintomaticamente, è riscattata dal suo ruolo

68 J. Cortázar, Los relatos 1. Ritos, Alianza, Madrid, 1994, p. 200.69 Ibid., p. 202.70 Ibid., p. 201.

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meramente disturbante come esigenza sapienziale, invito all’apprendimento di «otra manera de mirar»71. Il colloquio di sguardi, l’ardente desiderio di compren-sione, crea un ponte di permeabilità tra i due spazi del contenuto e del contenitore, la vasca dei pesci e lo spazio degli uomini: il vetro diviene specchio ed il passaggio di coscienza si attua, invertendo la prospettiva osservatore/osservato. La barriera trasparente ed infrangibile che delimitava l’esperienza del possibile da quella del-l’impossibile ha ospitato per un attimo un riflesso identitario, un desiderio o un dubbio di sostanziale similitudine, e si è squarciata per un attimo prima di richiu-dersi definitivamente, come il coperchio di una bara, ad imprigionare la coscienza dell’Io nell’angusto perimetro dell’Altro. Significativamente, il soggetto folgorato dalla rivelazione della natura doppia delle cose subisce la perdita delle formule standardizzate di controllo dell’identità, smarrisce la possibilità di essere Io:

Él volvió muchas veces, pero viene menos ahora. Pasa semanas sin asomarse. Ayer lo ví, me miró largo y se fue bruscamente72.

In tali circostanze, seppure la voce innaturale del protagonista-narratore con-tinui a ribadire l’assoluta naturalità della sua esperienza («no hubo nada de ex-traño en lo que ocurrió»73), il riferimento al linguaggio armonico del mito e, so-prattutto, alla rete protettiva di una mitologia d’erudizione74, si dimostra del tutto insufficiente a sostenere e giustificare la dirompenza di una sostituzione violenta, indisponibile ad ogni meticciato: «parecía fácil, casi obvio, caer en la mitología»75, dice Cortázar. Ma la nuova leggibilità del mondo devasta la leggibilità tradizionale. Non ci sono sintesi, rassicuranti (seppure abortiti) ibridi mitologici, solo inquie-tanti espropriazioni dell’Io, crudelmente invocate come garanzia di un’identità più profonda, proprio perché altra.

In modo meno mediato, il repertorio del folklore preispanico viene evocato anche dall’attività onirica del protagonista de «La noche boca arriba», racconto basato sull’alternarsi di momenti di veglia e stati di sopore di un motociclista che sta recuperando le forze in ospedale dopo un incidente. I limiti che separano la coscienza dall’incoscienza sono destinati, però, a cadere, rivelando la forza trasci-nante del sogno come terribilmente più vera del suo rovescio diurno. Gli spazi del vissuto vigile e di quello onirico sono segnalati in modo netto come non sovrap-ponibili: il primo riferito ad una città moderna, con il suo variegato inventario di semafori, automobili, hotel, e farmacie, registrato dal narratore – questa volta

71 Ibid., p. 202.72 Ibid., p. 205.73 Ibid., p. 204.74 Gli axolotl sono bestie divine dell’immaginario azteca, associate a Xolotl, il dio codardo della du-plicità che, per non sottoporsi alla prova del fuoco, garantendo così la rinascita quotidiana del sole, si nasconde metamorficamente in tutte le creature portatrici di una natura doppia, le quali, in lingua nahuatl, contengono la radice del suo nome. 75 J. Cortázar, Los relatos, 1, cit., p. 203.

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onnisciente ed esterno – con una dovizia di dettagli descrittivi che si rivelerà fun-zionale all’effetto straniante del finale; il secondo all’era remota della guerra florida, la cerimonia rituale in cui gli aztechi liberavano, in tempo di pace, i loro prigionieri per braccarli nella selva e, successivamente, sacrificarli ai loro dèi. Il motociclista si reinventa, per la prima volta, nello spazio altro del rito primordiale durante l’ope-razione, nel momento in cui un uomo vestito di bianco gli si avvicina «con algo que le brillaba en la mano derecha»76, oggetto “misterioso” facilmente decodificabile come un bisturi ma che, sfocato ad hoc dal sopore dell’anestesia, sta già alludendo al suo terribile doppio onirico: il coltello sacrificale. Da questo momento in avanti, la narrazione si struttura su di un, cadenzato prima, sempre più concitato man mano che ci si avvicina alla conclusione, andirivieni tra lo spazio quotidiano di una camera d’ospedale ed il «tiempo sagrado» di una notte atavica e piena di insidie, illuminata dalle fiaccole dei “cacciatori” e resa allucinante dall’odore dolciastro dell’incenso e del sangue versato. La natura perturbante dell’incubo, nient’altro che il sonno inquieto di un malato dopotutto, è resa innocua dalla certezza che a comandare l’alternanza sia l’attività diurna, l’unica “reale”, ma la consistenza immaginaria del doppio onirico si va imponendo con forza, quasi “braccando” a sua volta la matrice che l’ha generata, la quale, invano, tratta di rifugiarsi e trovare conforto tra le pieghe della “sua” realtà:

Cada vez que cerraba los ojos las veía formarse instantáneamente, y se enderezaba aterrado pero gozando a la vez del saber que ahora estaba despierto, que la vigilia lo protegía, que pronto iba a amanecer, con el buen sueño profundo que se tiene a esa hora, sin imágenes, sin nada…77

Ma, come voleva Breton, «lo stato di veglia» non può che essere «un fenome-no d’interferenza»78: ci sono immagini, come quella dell’uomo tagliato a metà da una lastra di vetro, che “bussano alle finestre” dello spirito con tale insistenza da rendere «illusorio» il dominio che l’uomo comune tenta di esercitare su di sé per contrastarle. Quasi didascalicamente, Cortázar struttura un racconto fantastico di esasperante crudeltà sul teorema dell’irresistibile vitalità delle immagini oniriche bretoniane: adesso, molto più che suggestivi lasciapassare di una poesia che si ac-contenta di disegnare uno spazio di vistosa antirealtà, si istallano nell’adeguato scenario di contrasto che, con totale dedizione, lo scrittore neofantastico si pre-mura di costruire, non disprezzando quello che Breton chiamava «il nulla delle descrizioni» e tracciando la circostanza, l’aneddoto realisticamente definito in cui esse possono agire come dei veri e propri angeli sterminatori. Il momento supremo in cui il motociclista, cercando di passare dall’altro lato a quello che crede essere il proprio, apre gli occhi e si ritrova nell’incubo della guerra florida, sigla il rovescia-

76 Ibid., p. 215.77 Ibid., p. 220.78 A. Breton, op. cit., p. 19.

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mento delle gerarchie che, incautamente, crediamo gestiscano i rapporti tra realtà e immaginazione (qui, nella sua declinazione surrealista più pura: il sogno), ed il sognatore si scopre sognato, sistematicamente espropriato delle garanzie di ordine e riconoscibilità su cui si basava la sua esistenza dalla vivissima materializzazione della sua attività inconscia:

[…] el sueño maravilloso había sido el otro, absurdo como todos los sueños; un sueño en el que había andado por extrañas avenidas de una ciudad asombrosa, con luces verdes y rojas que ardían sin llama ni humo, con un enorme insecto de metal que rumbaba bajo sus piernas79. La descrizione straniante, perifrastica, con cui una volta ci si riferiva ai fanta-

smi è adesso applicata all’«asombrosa» consuetudine di ciò che chiamiamo nor-malità, osservata con gli occhi dell’Altro, che adesso comanda il sistema bipolare del testo fantastico, permettendosi di definire «maravilloso» e «absurdo» lo spazio che ha visitato e colonizzato. L’onnipotenza del sogno ed, in genere, della «crea-zione pura dello spirito»80, sconfessa la debolezza simbolica delle mere apparenze di realtà, rivelando che la vita vera è altrove.

La trasgressione – che in Cortázar ambisce ad essere percepita, quasi peda-gogicamente, come norma – è manifestazione profonda di un fenomeno spirituale che parte dall’uomo e dall’oscuro presentimento di un’alterità che ci appartiene anche in «Lejana», dove il riferimento surrealista è ravvisabile nella giocosa asso-ciazione libera di fonemi ed immagini con cui si trastulla la signorina Alina Reyes, la quale, inconsciamente, rifiuta l’ordine prestabilito della sua sfavillante esistenza borghese (balli delle debuttanti, corteggiamenti, tazze di tè, «pulseras y farándulas, […] pink champagne»81) in un desiderio d’evasione che trova sfogo proprio nella tecnica incantatoria di accostare parole non legate da nessi logico-causali:

Tengo que repetir versos, o el sistema de buscar palabras con a, después con a y e, con las cinco vocales, con cuatro. Con dos y una consonante (ala, ola), con tres consonan-tes y una vocal (tras, gris) y otra vez versos, la luna bajó a la fragua con su polisón de nardos, el niño la mira mira, el niño la está mirando. Con tres y tres alternadas, cábala, laguna, animal: Ulises, ráfaga, reposo82.

L’impressione è che i meccanismi dell’“automatismo psichico puro” si siano indebitamente infiltrati – trascurabile svista – tra le pagine sentimentali e cronolo-gicamente ordinate del diario privato di una comunissima “reginetta” della classe media bonaerense la quale, ingenuamente, applica alla lettera i precetti di Breton:

79 J. Cortázar, Los relatos 1, cit., p. 221.80 A. Breton, op. cit., p. 25.81 J. Cortázar, Los relatos 3, cit., p. 90.82 Ibid., pp. 90-91.

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Scrivete rapidamente senza un soggetto prestabilito, tanto in fretta da non trattenervi, da non avere la tentazione di rileggervi. La prima frase verrà da sola, tanto è vero che ad ogni secondo c’è una frase estranea al nostro pensiero cosciente, che chiede solo di esternarsi. […] Di seguito alla parola la cui origine vi sembra sospetta, mettete una lettera qualsiasi, per esempio la lettera l, e tornate ad introdurre l’arbitrario imponen-do questa lettera per iniziale alla parola che seguirà83. Significativamente, è quando il gioco si svincola dall’automatico meccanismo

combinatorio e pasticcia i termini dell’identità personale che la suggestione del significante in libertà spalanca il varco adeguato per un effettivo stravolgimento della realtà, per una rivoluzione surrealista di inquietanti ricadute concrete. Dopo aver incastrato versi, assonanze, palindromi, anagrammi, esercitando quella che Lorca, in un conato di rifiuto dell’esperienza avanguardista, aveva definito a New York «la burla y la sugestión del vocablo»84, dopo aver giocato al gioco del rove-scio con una delle personalità di maggior spicco del pantheon surrealista spagnolo («Salvador Dalí, Avida Dollars»85), Alina s’imbatte nella disponibilità all’alterazio-ne del suo stesso nome:

Alina Reyes, es la reina y… Tan hermoso, éste, porque abre un camino, porque no concluye. Porque la reina y…No, horrible. Horrible porque abre camino a esta que no es la reina, y que otra vez odio de noche86. L’innocua risistemazione dei segni – come il casuale, primo “cadavere squisi-

to” dei bretoniani, che produsse un riconoscibile simulacro di dissidenza – sem-bra convocare un significato, capace di proiettarsi dai nomi alle cose, dal discorso all’essenza, “dicendo” un tratto caratterizzante della vita agiata e spensierata di Alina e lasciandolo in balia del caos, come in attesa di un finale imprevisto ed im-prevedibile. In modo sintomatico, la giovane, quasi comprendendo l’ambivalenza inconscia di termini normalmente antitetici come paura e desiderio, piacere e do-lore, costruzione e distruzione, registra la bellezza e l’orrore di un cammino incerto svelatole dalle parole, incluso in lei, ma che, tuttavia, l’attrae verso l’estraneo, la porta a riformularsi nel suo doppio “lontano”. Agendo come delle interferenze, litanie di immagini che non riesce a contestualizzare nel suo vissuto cominciano ad interrompere il monologo ordinato della sua mondana esistenza, componendo, quasi per via medianica, il profilo dell’Altra, di colei che «no es reina y anda por ahí»87, patendo il freddo e le percosse di un uomo che lei, Alina, non conosce, per le strade di una città che non ha mai visitato. Quello che all’inizio era un gioco si

83 A. Breton, cit., p. 34.84 F. García Lorca, Obras completas 1, cit., p. 538.85 J. Cortázar, Los relatos 3, p. 91.86 Ibid.87 Ibid., p. 91.

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trasforma nell’esorbitante progetto di partire per Budapest, «ir a buscarme»88. Ma la percezione di una vita invisibile che scorre parallela alla nostra, l’impressione che l’uomo è contemporaneamente sé ed altro da sé, giacché cova nel suo incon-scio i semi della contraddizione della sua stessa personalità, inizialmente, gestita dalle fatue certezze che gerarchizzano il rapporto dell’individuo con il negativo dell’ordine (ciò che è vivo comanda su ciò che è morto, ciò che è reale comanda su ciò che è immaginario, ciò che è noto su ciò che è ignoto) produce appena filantro-pici impulsi di riscatto, “opere di bene” che mettono a tacere il rimorso del rifiuto su cui si basa la costruzione di un’identità unitaria:

Me gustaría mandarle un telegrama, encomiendas, saber que sus hijos están bien o que no tiene hijos – porque yo creo que allá no tenga hijos – y necesita confortación, lástima, caramelos89.

L’accondiscendente «ternura» con cui Alina si rapporta alla lejana smaschera lo smisurato complesso di superiorità che definisce l’Io diurno in una civiltà razio-nalmente definita. Quando la giovane ipotizza un incontro, nel luogo deputato al “passaggio” di un ponte sul Danubio ghiacciato, la versione vicaria si inchina alla reina:

En el puente la hallaré y nos miraremos. […] Y será la victoria de la reina sobre esa adherencia maligna, esa usurpación indebida y sorda. Se doblegará si realmente soy yo, se sumará a mi zona iluminada, más bella y cierta; con sólo ir a su lado y apoyarle una mano en el hombro90.

In realtà, sarà l’ordine a doversi inchinare al disordine attraverso un passag-gio di coscienza non traumatico, “minuscolo”, solo nel discorso sadico del nuovo difensore della surrealtà (niente affatto disponibile a scomparire al cospetto della «zona iluminada, más bella y cierta»), che si riprende la parola e, in un’inconte-stabile focalizzazione esterna e panoramica, osserva due donne che si abbracciano in un gesto di «fusión total»91: il grido di orrore di colei che un tempo era Alina Reyes ed adesso osserva ad occhi sbarrati «Alina Reyes lindísima en su sastre gris» allontanarsi in direzione contraria, conclude il racconto con l’ennesima figura di una sintesi innaturale e perturbante, che sembra non poter prescindere dal piacere perverso di sbugiardare le presunzioni della «razón razonante»92.

Alla raccolta del 1959 Las armas secretas appartiene un racconto che attiva una stringente logica narrativa di tipo fantastico attorno all’assenza di un fantasma, ad un fantasma meramente testuale, perfettamente neutralizzabile giacché privo di

88 Ibid., p. 93.89 Ibid.90 Ibid., p. 97.91 Ibid., p. 98.92 J. Cortázar, «Un cadáver viviente», cit.

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ogni trascendenza ontologica, eppure talmente insinuante, allusivo di tali scottanti repressi nell’inconscio dei due protagonisti da infestare la loro casa ed il loro vissu-to con un’incombenza che non si può non riconoscere come reale. Se nei tre rac-conti analizzati precedentemente degli astratti fenomeni psichici (sguardi, sogni, gioghi linguistici) “producevano” il concreto di un’infrazione che agiva nella realtà materiale e ne stravolgeva le categorie, in «Cartas de mamá», l’avvento dell’Altro si accontenta di manifestarsi nella scrittura e nella sua mise en abyme: una coppia di fidanzati argentini trapiantata a Parigi (Luis e Laura) riceve periodicamente, da Buenos Aires, le lettere dell’anziana madre di lui, in un dialogo fluido – seppure pieno di inquietanti reticenze – con il passato, finché le inoffensive ma stranamente destabilizzanti missive dalla zona che ci si è voluti lasciare alle spalle – banale con-fusione di nomi? Inizio di demenza senile? Malizioso rancore per una solitudine imposta? – cominciano a “dire”, ed a far concretamente “agire” nelle vite dei de-stinatari, il ritorno di Nico, il fratello defunto di Luis, che manda saluti e progetta una visita ai parenti in Europa. Il testo si presta a molte interpretazioni metaforiche parallele, nessuna delle quali sembra comunque in grado di disinnescarne la carica trasgressiva, che aderisce paradossalmente ai presupposti di “letteralità” definiti da Todorov come vincolanti per la riuscita dell’esperienza fantastica, pur rimanen-do, l’emissario dell’Aldilà, un mero inspiegabile del discorso. Innanzitutto, si se-gnala con chiarezza l’insistenza sui due protagonisti – e soprattutto su Luis che è il vero soggetto paziente dell’esperienza disturbante, nonché la coscienza attraverso cui il narratore esterno ne filtra la percezione – di una sorta di dilemma identitario, che fa funzionare la loro vicenda come paradigma della condizione dell’espatrio, sorta di luogo comune dell’immaginario collettivo degli argentini, cui le dittature e l’instabilità economica hanno sovente imposto l’abbandono della loro terra d’ori-gine, con i rimorsi e gli arbitrari contraccolpi del rifiuto che un taglio netto con le origini porta forzosamente con sé. Luis riassume la sua rutinaria e apparentemen-te spensierata vita parigina nell’espressione «libertad condicional»93, rispetto alla quale ogni lettera della madre, con le banali notizie domestiche, le malinconiche riflessioni sui suoi acciacchi di anziana e i riferimenti d’obbligo alla situazione del Paese, rappresenta la condizione, il vincolo, l’obbligo di tornare a «franquear el puente» che «lo devolvía al pasado»:

las cartas de mamá eran siempre una alteración del tiempo, un pequeño escándalo inofensivo dentro del orden de las cosas que Luis había querido y trazado y consegui-do […] Cada nueva carta insinuaba por un rato (porque después él las borraba en el acto mismo de contestárlas cariñosamente) que su libertad duramente conquistada, esa nueva vida recortada con feroces golpes de tijera […] cesaba de justificarse, perdía pie, se borraba […]94.

93 J. Cortázar, Los relatos 1, p. 7.94 Ibid., pp. 7-8.

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L’illusoria garanzia di un ordine precariamente ritagliato a colpi di repressio-ne, nei racconti di Cortázar, è sempre invito esplicito al ritorno punitivo delle forze inespresse e sacrificate, che possono servirsi dei supporti più umili e quotidiani per manifestarsi, come nel caso di queste inopportune missive, testo dentro il testo che segnala la scrittura, anche la più inoffensiva, come medium atto a ristabili-re un flusso indebitamente interrotto, una riconnessione dell’uomo anestetizzato dall’inautenticità con le correnti profonde della sua vita psichica, stigmatizzando «la irrisión de vivir a la manera de una palabra entre peréntesis, divorciada de la frase principal»95. Inoltre, lo scandalo mascherato delle lettere di mamma, oltre a rimandare alla costante argentina dell’abbandono delle origini, insiste anche su un nodo irrisolto della vicenda privata di Luis e Laura, mettendo il dito nella piaga di un senso di colpa dal sapore compiutamente freudiano (oltreché archetipico): la ragazza era infatti la promessa sposa del fragile e taciturno Nico, quasi il doppio diminuito e smorzato del fratello – «tan poca cosa, tan fácil, tan verdaderamente brillantina y corbata rayón»96 –, il quale avrà gioco facile nel sottrargliela. Morto Nico, consumato dalla malattia, il viaggio verso l’Europa della nuova coppia si configura come il tentativo di chiudere per sempre una porta su di un passato scomodo, che adesso riaffiora nella patetica svista, nel banale pasticcio di un inciso seminato distrattamente nel ponte discorsivo sospeso rappresentato dagli oggetti – di per sé disturbanti – con cui il titolo del racconto segnala l’assoluta funzionalità trasgressiva dei manufatti più quotidiani e consuetudinari:

El párrafo venía después de un breve acuse de recibo de una carta de Laura. Un punto apenas marcado con la débil tinta azul comprada en el almacén del barrio, y a que-marropa: «Esta mañana Nico preguntó por ustedes.» El resto seguía como siempre, la prima Matilda se había caído y tenía una clavícula sacada, los perros estaban bien. Pero Nico había preguntado por ellos97. «Era perfectamente absurdo pero estaba ahí»98, osserva il narratore, mentre

Luis cade in una spirale vertiginosa di resistenze razionalizzanti e scappatoie ve-rosimili, intraprese, d’altronde, senza convinzione e senza speranza: nonostante la tutto sommato evidente disponibilità della circostanza a lasciarsi riassorbire nei parametri del possibile, il soggetto paziente sembra “citare” come per dovere i procedimenti con cui, nel fantastico tradizionale, si cercava una spiegazione plau-sibile ad un evento improbabile, arreso in partenza al dirompente potere di una suggestione che sembra non aver bisogno di alcuna prova di realtà per “esistere”. Da un certo punto in avanti, le lettere – il testo en abyme – cominciano a seguire le tecniche ed a provocare gli effetti di una rivoluzione surrealista. Nel bel mezzo

95 Ibid., p. 8. 96 Ibid., p. 17.97 Ibid., pp. 10-11.98 Ibid., p. 9.

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del normale resoconto di una vita di provincia compare una voragine, un vuoto di significato, che comincia a disgregare la natura convenzionale del discorso che lo circonda: la menzione di Nico in vita – che Luis, negandola e negandosi, continua a definire, con tragica ironia, «este absurdo error ridículo» – produce uno strania-mento non troppo dissimile da quello delle burlesche distorsioni della conversa-zione comune con cui si trastullavano i surrealisti, per i quali l’assurdo, assunto a poetica, costituisce il veicolo supremo della liberazione delle coscienze99:

Después había como una estrellita azul […] y entonces unas reflexiones melancólicas sobre lo sola que se quedaría si también Nico se iba a Europa como parecía, pero ése era el destino de los viejos, los hijos son golondrinas que se van un día, hay que tener resignación mientras el cuerpo vaya tirando. La señora de al lado…100

L’esperienza maiuscola che accentrava su di sé i costernati ed imperfetti ten-tativi affabulatori dei narratori fantastici dell’Ottocento è divenuta un asterisco sbiadito che dissemina la sua inquietudine per via omeopatica. Senza che alcuna barriera ontologica venga infranta, senza che nulla imponga ai due coniugi di ri-conoscere l’effettivo ritorno di Nico dall’Oltretomba, l’erosione della normalità testuale contagia, per osmosi, la vita di coppia di Laura e Luis, che cominciano a compiere azioni insensate, manovrate da una presenza che è sempre stata tra loro, attendendo solo un pretesto banale per riaffiorare nella pienezza dell’accezione freudiana. Quando l’ultima lettera si smarca dall’allucinato, insinuante sottinteso delle precedenti e contestualizza nello spazio e nel tempo il profilo dell’Altro («El barco llegaba efectivamente al Havre el viernes 17 por la mañana, y el tren especial entraba en Saint-Lázare a las 11,45»101), lo scomodo appuntamento cui entram-bi accorreranno senza dirselo sarà una superflua conferma, un “effetto di realtà” inutile per un fantasma che non ha alcun bisogno di divenire concreto. Di nuovo uniti, con gli spettri dei rimorsi e del loro “non-detto” coltivato ad arte, perfetta-mente soli, nel silenzio saturo di voci del loro appartamento, Laura e Luís tornano a comunicare:

– ¿A vos no te parece que está mucho más flaco? –dijo.Laura hizo un gesto. Un brillo paralelo le bajaba por las mejillas.– Un poco – dijo –. Uno va cambiando102.

Il teorema dell’ineludibile vitalità delle emanazioni profonde dello spirito qui si offre “in purezza”: quasi una dimostrazione per assurdo della verità surrealista, «Cartas de mamá» prescinde addirittura dalla logica fantastica del passaggio, del

99 Cortázar ne fa ampio uso nel libro, deliberatamente surrealista, Historia de cronopios y de famas (1962), dove l’assurdo sveste i panni dell’inquietudine ed acquisisce toni umoristici.100 J. Cortázar, Los relatos 1, p. 15.101 Ibid., p. 21.102 Ibid., p. 25.

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cambiamento di stato, della prova del nove della realtà, giacché i fantasmi della mente rimangono tali, nell’incubazione del subconscio, perfettamente sufficiente, del resto, a saturare e stravolgere l’illusorio spazio abitato dell’uomo comune con l’ombra lunga di un oscuro presentimento.

Concludo con quest’immagine di un fantasma che, chiaramente, non è mai apparso, ma la cui assenza ha condizionato a tal punto la vita affettiva dei protago-nisti da aver loro imposto un’assurda autenticazione condivisa, che ribalta di tre-centosessanta gradi i testardi tentativi con cui nell’Ottocento si cercava di negare la sconvolgente presenza di un simulacro che si era manifestato con tanto di prove. A volte, parafrasando un’espressione già citata che ho volutamente tralasciato di commentare, l’immagine di un unicorno può essere più intensa e, dunque, più vera, di quella di un cavallo, almeno nel recinto, magico per se, della letteratura.

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