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La macchina del libero arbitrio I Era una mattina scintillante di sole. Durante la notte un violento temporale aveva sconquassato l’atmosfera, ma quando uscii di casa il cielo era azzurro e tutto appariva come lavato dalla pioggia: l’aria pulitissima, i contorni delle cose più netti, definiti. Era una di quelle giornate nelle quali sentivi il privilegio di poter essere fra i tre miliardi di uomini che ancora vivono sulla Terra. La luce e il clima mi avevano messo di buonumore, nonostante avessi passato una notte agitata. Mi sentivo leggero, mentre mi dirigevo a passo deciso verso il centro della città con una borsa pesante, piena di lavori in corso. Quando entrai nel mio laboratorio, dopo aver salutato alcuni colleghi ed essermi chiuso la porta alle spalle, vidi che Robert era già alla sua scrivania e notai anche uno scatolone verde appoggiato sul tavolo delle novità. Il colore insolito attirò la mia attenzione. Hai già visto di cosa si tratta? Mai prima di te, Alec. Comunque tutto il lavoro arretrato che abbiamo non mi sembra molto interessante, quindi propenderei per aggredire subito il lavoro nuovo. Pienamente d’accordo. Apri tu? Ma certo. Le mani paffute di Robert scivolarono velocemente sull’involucro che in breve fu aperto, rivelando quattro pezzi da assemblare, tutti in materiale lucido, nero, probabilmente zirconio riciclato, di cui tre avevano un aspetto abituale: una tastiera, un monitor piatto, un casco bioelettronico. La novità doveva quindi risiedere nel quarto pezzo, il cui aspetto, un parallelepipedo il cui lato più lungo misurava circa sessanta centimetri, sembrava innocuo. Il manuale di istruzioni aveva più l’aspetto di un libro che di un fascicolo. Scrollai la testa. Quando si decideranno a capire che la gente vuole istruzioni brevi, oltre che semplici e chiare? Queste sono veramente esagerate… 220 pagine! disse Robert sfogliando il manuale.

La macchina del libero arbitrio

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La macchina del libero arbitrio

I

Era una mattina scintillante di sole. Durante la notte un violento temporale aveva sconquassato l’atmosfera, ma quando uscii di casa il cielo era azzurro e tutto appariva come lavato dalla pioggia: l’aria pulitissima, i contorni delle cose più netti, definiti. Era una di quelle giornate nelle quali sentivi il privilegio di poter essere fra i tre miliardi di uomini che ancora vivono sulla Terra. La luce e il clima mi avevano messo di buonumore, nonostante avessi passato una notte agitata. Mi sentivo leggero, mentre mi dirigevo a passo deciso verso il centro della città con una borsa pesante, piena di lavori in corso.

Quando entrai nel mio laboratorio, dopo aver salutato alcuni colleghi ed essermi chiuso la porta alle spalle, vidi che Robert era già alla sua scrivania e notai anche uno scatolone verde appoggiato sul tavolo delle novità. Il colore insolito attirò la mia attenzione.

− Hai già visto di cosa si tratta? − Mai prima di te, Alec. Comunque tutto il lavoro arretrato che abbiamo non mi

sembra molto interessante, quindi propenderei per aggredire subito il lavoro nuovo. − Pienamente d’accordo. Apri tu? − Ma certo. Le mani paffute di Robert scivolarono velocemente sull’involucro che in breve fu

aperto, rivelando quattro pezzi da assemblare, tutti in materiale lucido, nero, probabilmente zirconio riciclato, di cui tre avevano un aspetto abituale: una tastiera, un monitor piatto, un casco bioelettronico. La novità doveva quindi risiedere nel quarto pezzo, il cui aspetto, un parallelepipedo il cui lato più lungo misurava circa sessanta centimetri, sembrava innocuo. Il manuale di istruzioni aveva più l’aspetto di un libro che di un fascicolo. Scrollai la testa.

− Quando si decideranno a capire che la gente vuole istruzioni brevi, oltre che semplici e chiare?

− Queste sono veramente esagerate… 220 pagine! − disse Robert sfogliando il manuale.

Ogni pezzo era avvolto dal cellophane, ma prima di stracciarlo e iniziare il montaggio, guardai la scheda di produzione. Lessi ad alta voce: «MACCHINA DEL LIBERO ARBITRIO (nome provvisorio)». Guardai Robert con aria perplessa; notai che le sue pupille si stavano ingrandendo, ma anche lui aveva un’espressione interrogativa.

− Che roba può essere, secondo te? − gli chiesi. − Conviene leggere almeno la scheda, Alec. Capisco tu abbia fretta, ma… − Va bene, va bene. Lessi oltre:

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO: la macchina è in grado di aumentare, a diversi livelli e in diverse modalità, il libero arbitrio di chi la sta usando, ovvero aumenta la capacità di compiere scelte liberamente, in modo indipendente da ogni forma di necessità. Contiene inoltre dispositivi che consentono di verificare se scelte già compiute erano libere o no.

DATI TECNICI: la macchina combina l’ingegneria neuronica con la biopsicologia applicata. Sfrutta inoltre le leggi psicotemporali di Civita, il campo logico di Piana, la recente teoria matematica dei flussi di realtà (cfr. Slatansky-Frisk, Realtà, iporealtà, iperrealtà, metarealtà, in «Iconica», VIII, 2) e il teorema delle possibilità frazionate di Goffkenshi. Il modello di mente utilizzato è il n. 8934, nella versione corretta dall’ipotesi Blank-Keller-Rogarshami (cfr. «Encyclemata», CLXXXI, 34)

− È strano − disse Robert − il contrasto fra la raffinatezza degli elementi scientifici utilizzati e l’uso dell’espressione “libero arbitrio”…

− Già… è un concetto che ha come un sapore antico. Mi ricorda cose studiate alle scuole medie… Tu lo usi mai?

− Se devo essere sincero credo di averlo usato solo durante l’esame di Storia delle Culture Terrestri dell’Era Pre-Esodo…

Guardai Robert con ammirazione. Provavo un po’ di affettuosa invidia per la sua vasta preparazione umanistica, che spaziava anche verso le culture aliene. Ogni tanto mi ero chiesto se coloro che avevano scelto lui come mio assistente avessero ragionato sul fatto che la sua formazione potesse integrare la mia. Robert aveva studiato nella Comunità Euroafricana, io nelle maggiori università asiatiche, e mi ero presentato alla Hoekk con una laurea in ingegneria biochimica e una specializzazione in logica dei circuiti neurali.

− … ricordo che una delle domande riguardò i caratteri peculiari della cultura greco-cristiana rispetto a quella indo-cinese delle origini, e che citai con successo questo concetto fra quelli caratteristici.

− Ma sei d’accordo con me che non fa parte del linguaggio comune, anche se sia tu che io ne conosciamo il significato?

− Direi di sì… Ti spiace se dò solo un’occhiata all’inizio del manuale di istruzioni? Sono curioso…

– Fai pure. L’inizio delle istruzioni era questo, come appresi dalla voce di Robert:

Nella sezione nona dell’«Antinomia della ragion pura», poco dopo l’inizio della terza delle «soluzioni» ivi contenute, Kant rileva che, se per «libertà» si intende «la

facoltà di incominciare da sé uno stato», la libertà è allora un’idea pura trascendentale. E di questo asserto dà una duplice giustificazione. Infatti, l’idea trascendentale della libertà «in primo luogo non contiene nulla di derivato dall’esperienza» (prima giustificazione), «e, in secondo luogo, il suo oggetto non può nemmeno esser mai dato come determinato in una esperienza» (seconda giustificazione).

– Ma questo – commentò Robert – più che l’inizio di un manuale di istruzioni sembra l’inizio di una saggio filosofico particolarmente erudito! Bisognerà sicuramente dare il suggerimento di accorciare e semplificare…

− Ad ogni modo, Robert, direi di procedere come al solito. Generalmente il mio modo di provare i nuovi prodotti della Hoekk era molto

rapido, e questo era certamente uno dei motivi per cui avevo passato la selezione. Invece di leggere con calma le istruzioni e poi cominciare dal principio, io preferivo buttarmi seguendo l’intuito, cominciare subito a usare la macchina e vedere cosa succedeva (del resto era convinzione dell’azienda che questo fosse anche l’atteggiamento della maggioranza dei clienti che compravano e usavano i prodotti di avanguardia, generalmente giovani fra i quindici e i venticinque anni terrestri); poi, se qualcosa non andava o se c’era qualcosa che non capivo, consultavo le istruzioni come fossero un dizionario o ricorrevo alla pazienza di Robert, che le affrontava con la calma di un decifratore di documenti in lingue aliene.

Seguito dagli occhi attenti di Robert, cominciai col montare il monitor sulla tastiera, mi infilai in testa il casco, collegai il tutto al quarto pezzo. Non restava che accendere. Il pulsante generale era su un lato del casco. Lo schiacciai e diedi un occhiata al video.

Compariva un riquadro con un’opzione fra due possibilità

1. Aumento della capacità di scegliere liberamente

2. Verifica della libertà di scelte già compiute

Scegliendo la prima, che costituiva il menù principale del prodotto, vidi che si diramava a sua volta in altre opzioni. Decisi quindi, dopo un cenno d’intesa con Robert, di cominciare con la seconda, che, almeno apparentemente, sembrava la più semplice.

Comparve sullo schermo la domanda

Quale scelta intende verificare?

Cominciai a pensare a situazioni e a momenti della mia vita passata, e vidi che mentre pensavo sul video balenavano immagini e scritte con date, orari, frasi, ma scorrevano velocemente. Poi capii che seguivano fedelmente l’andamento dei miei ricordi, esibendo immagini e, in basso, scritte e cifre che contenevano dati e informazioni relative alle immagini stesse. La cosa era sorprendente. Una riproduzione così fedele del flusso di coscienza non l’avevo mai vista. C’erano stati dei tentativi precedenti, che ora mi tornavano in mente (una macchina della GBE che però

riproduceva un’immagine ogni cinque secondi, e spesso sfuocate), ma mai visto niente di simile.

Con la coda dell’occhio notai che anche Robert spalancava gli occhi e restava come inebetito di fronte a quel prodigio: aveva infatti intuito che stava osservando in tempo reale il contenuto della mia mente nel suo fluire incessante.

Mi resi ben presto conto che ai fini del nostro lavoro era meglio non guardare lo schermo in quella fase: infatti se mi concentravo su di esso il flusso di immagini e dati rallentava fino a fermarsi.

Ripresi quindi a pensare senza guardare il monitor, e subito mi si impose una questione preliminare. Che interesse poteva avere il verificare la libertà di una mia scelta passata? Avevo mai avuto dubbi in proposito su qualche scelta? Ma, innanzitutto: che significato preciso aveva il termine “libertà” applicato a una scelta?

Decisi che si imponeva un chiarimento. Tolsi il casco, naturalmente dopo avere effettuato la procedura standard di scollegamento temporaneo durante l’accensione, onde evitare la bruciatura di alcuni circuiti bioneuronici.

Guardai Robert. Non fu necessario dirgli quali fossero i miei dubbi, perché li aveva letti sul monitor un attimo prima. Sul monitor, infatti, comparivano proposizioni che seguivano fedelmente l’andamento del pensiero. Il volto di Robert era visibilmente animato da una forte eccitazione intellettuale.

− Prima di parlarne… accidenti, Alec! Ma hai visto che roba? Altro che le carabattole per “leggere il pensiero” della GBE, qui c’è un balzo in avanti! La definizione delle immagini e il numero di “istantanee” della tua mente… saranno circa 23 al secondo… Sembra di vedere un film!

− Calma, Robert. Ricordati che stiamo lavorando e dobbiamo andare all’obiettivo. Ancora non abbiamo capito a che cavolo serve questa macchina. Cosa rispondi alle mie domande di prima?

− In senso generale, inteso come una facoltà umana, il “libero arbitrio” è ciò che consente all’uomo di sentirsi responsabile delle proprie azioni, padrone di se stesso, degno di approvazione per le cose buone che ha fatto e colpevole per i propri errori. In particolare, se non sbaglio, si definisce libera una scelta se è contingente e se dipende unicamente dal soggetto stesso.

− Con “contingente” intendi “indeterminata”? − No, perché una scelta dev’essere determinata dal soggetto che la compie. − E allora? − Scusa Alec, ma abbiamo qui un bel manuale di istruzioni. Non potremmo… − Non vorrai adesso metterti a leggere il manuale dal principio! − No, ma ci sarà pure un glossario… Vediamo se c’è la definizione di

“contingente”. − Ok, vai, ma veloce. Robert carpì il volumotto delle istruzioni. Lo aprì come se avesse a che fare con

un istrice. Dai movimenti che fece con le pagine capii che per prima cosa aveva

guardato i nomi degli autori, il copyright, l’indice. Dopo qualche secondo mi guardò raggiante.

− Trovato! − Ebbene? − Dice: “Una scelta si definisce contingente se, alle identiche condizioni in cui si

è verificata, avrebbe potuto essere diversa”. Ma scusa, − aggiunse Robert − se questa macchina è in grado di verificare la contingenza di una scelta significa che… − e si fermò a pensare.

Robert era di statura media, grassoccio, biondo e di carnagione chiara. Il viso largo era dominato da grandi occhi griogioverdi, che mentre pensava diventavano particolarmente acquosi.

− Che? − lo incalzai − … beh, che è in grado di superare una sorta di barriera metafisica legata

all’irreversibilità del tempo. Nella realtà, l’istante in cui si compie una scelta non può più ripresentarsi identico, quindi non possiamo mai essere nelle identiche condizioni in cui abbiamo compiuto una certa scelta e verificare la sua contingenza!

− Senti caro, credo tu sappia che questo modo di intendere il tempo è stato superato scientificamente già da secoli!

− Sì, ma io non sto parlando del tempo fisico, sto parlando del tempo vissuto! Il tempo vissuto è irreversibile, non credi?

− E allora i ricordi cosa sono, buchi nel tempo vissuto? − I ricordi sono eventi mentali che accadono comunque nel presente, si svolgono

nel flusso unidirezionale del tempo vissuto. − Sì, d’accordo, ma torniamo a noi. Ti ricordo ancora che stiamo lavorando. Quale

può essere l’utilità di questa opzione 2: “verifica della libertà di scelte già compiute”? − Mi consenti un’altra occhiata al manuale d’istruzioni? − D’accordo, ma nella mia relazione scriverò innanzitutto che se per capire una

macchina devo prima leggere le istruzioni allora voglio istruzioni lunghe al massimo venti pagine, non duecento!

− Allora vediamo… Precauzioni, Montaggio… Ecco: Scopi e utilità del prodotto! Dunque…

Robert scorreva velocemente le pagine, in cerca dell’informazione che in quel momento ci serviva. Come avrei fatto a lavorare, senza il suo aiuto?

− Qui pone due domande che mi sembrano cruciali. − Dài, leggi. − “Vi sono stati casi in cui avete sostenuto di non aver avuto scelta, mentre altri

affermavano che avreste potuto benissimo scegliere diversamente? Vi sono stati casi in cui credevate di aver potuto scegliere diversamente mentre

altri sostenevano che non avevate scelta?” Queste domande furono come un sasso gettato in uno stagno: cominciarono a

venirmi in mente vaghi ricordi di accuse subite, di scuse e giustificazioni, di sensi di colpa, di pietà e comprensione ricevute. Da questo groviglio emotivo emerse pian piano

un ricordo, un fatto che si era verificato da poco ma che già stavo cominciando a dimenticare. Riemerse e si impose alla mia attenzione in tutta la sua chiarezza. Mi rinfilai subito il casco. Sul monitor appariva la scritta

Quale scelta intendi verificare?

Cercai di concentrarmi. Mi trovavo in casa di amici. La serata si era svolta piacevolmente, fino a quel momento. La coppia che ospitava me e la mia fidanzata Renate era formata da persone deliziose. Avevano preparato una cena a base di pesce importato direttamente dal pianeta Vertigalio, cibo costosissimo oltre che squisito. La conversazione era molto fluida e piacevole, ma gradualmente, forse per effetto del vino africano, fra Renate e i nostri ospiti si era creata della tensione. A un certo punto era scoppiata una lite furibonda, Renate era bersagliata da un fuoco incrociato di critiche sprezzanti e reagiva attaccando a più non posso. Io ero completamente paralizzato. Ero perfettamente presente nella situazione, ma non riuscivo a spiccicare parola. Il mio imbarazzo era stato fortissimo quando Renate mi aveva lanciato un’occhiata profonda. In quel momento mi stava chiedendo, pur senza dirmelo, di intervenire, di parlare, di dire qualcosa in sua difesa, di mostrare di essere dalla sua parte. Ma io niente, pur avendo capito benissimo cosa mi stava implicitamente chiedendo. In generale, reggo male le situazioni in cui si sprigiona aggressività. Dopo poco Renate aveva preso la sua roba ed era andata via. Era infuriata e lo era, a quel punto, anche con me. In seguito, quando ci eravamo rivisti lei e io, c’era stata una discussione fra noi dove lei diceva che le era sembrato incredibile quel mio atteggiamento. «Come hai potuto startene zitto!», mi aveva detto, e io cercavo di spiegarle come in quel momento, quando lei mi aveva guardato, io non riuscissi, pur essendo dalla sua parte, a fare altro che star lì, penando, senza dir niente. A lei questo sembrava inconcepibile: «Avresti potuto benissimo dire per lo meno che non eri daccordo con quel modo di fare! Anzi, avresti dovuto, visto che lo pensavi, dirlo!».

Ricordare quella serata e questa recente discussione con Renate mi turbava non poco, ma mi sembrava che il tutto si prestasse al gioco che la macchina del libero arbitrio mi proponeva. Infatti adesso, usandola, avrei potuto finalmente sapere se aveva ragione Renate o se avevo ragione io, cioè se quando lei mi aveva guardato quella sera io avessi avuto realmente la possibilità di scegliere e quindi di comportarmi diversamente da come avevo fatto oppure no. Potevo assolvermi dalle sue accuse o ero realmente colpevole di vigliaccheria, di scarsa generosità? («Sei avaro di te stesso!» mi aveva detto.)

Decisi dunque che quello sarebbe stato il caso che avrei sottoposto ad esame con la macchina. Guardai il video. L’immagine di Renate che mi scoccava la sua occhiata profonda, implorante aiuto, campeggiava nettissima, al punto che mi turbò rivederla. Sotto erano riportati i dati relativi a quella serata, e in particolare l’ora precisa, al decimo di secondo, in cui avevo scelto, se di scelta si trattava, di restare zitto.

Era incredibile la fedeltà con cui quella macchina riusciva non solo a seguire il flusso dei miei pensieri, ma anche a tradurlo in immagini, parole e cifre.

Un’altra cosa mi stupiva. Evidentemente la macchina mi avrebbe ora riportato a quel momento, l’occhiata di Renate. Ma dato che gli spostamenti temporali, per quanto perseguiti instancabilmente dalla ricerca scientifica, non erano – e come sapete non sono tuttora – accessibili all’uomo, la macchina doveva basarsi su una riproduzione esatta del mio vissuto di quel momento passato, andando a ripescarne la traccia nei meandri delle spirali neuroniche. Ciò rappresentava una novità assoluta sul piano tecnologico.

Sul monitor compariva ora una scritta che mi invitava, se volevo procedere all’esperimento, a premere il tasto rosso sul casco. La scritta mi avvertiva anche che, per la durata della verifica, avrei perso ogni memoria di quanto accaduto dal momento prescelto al presente, e che l’avrei riacquistata allo scadere del periodo di verifica. La cosa era un po’ inquietante, ma, fiducioso nei test di innocuità che sempre venivano fatti sui propri prodotti dalla Hoekk, e dopo aver scambiato un cenno con Robert, che annuì con fare rassicurante, schiacciai il fatidico tasto.

Immediatamente ripiombai nella tempestosa situazione emotiva di quella serata, riprovai esattamente la stessa sensazione penosa di paura mista a vergogna e angoscia, e rividi, come fossi stato lì, la stessa scena. Gli occhi di Renate si puntarono su di me penetrandomi... Dopo pochi secondi ritornai alla realtà.

Sul video compariva la scritta:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta.

Ero un po’ scombussolato dall’esperienza appena trascorsa; il cuore mi batteva ancora forte, come allora, e avevo ancora la bocca un po’ secca, ma ero contento per l’esito dell’esperimento.

Tolsi il casco e mi girai di scatto verso Robert. Ero sicuro, conoscendolo, che avesse seguito tutta la vicenda nei minimi dettagli, leggendo quello cha era accaduto e seguendo l’esperimento attraverso il monitor. Saltando ogni preambolo gli dissi:

− Dunque avevo ragione io, nella discussione con Renate! Era vero che non avrei potuto, in quel momento, fare altro! Era al di fuori della mia portata, quindi non ero imputabile di alcuna colpa. La macchina parla di scelta, ma visto che si è ripetuta identica significa che era in realtà una “scelta obbligata”… Insomma, non ho, in realtà, fatto una vera scelta!

Robert sembrava imbarazzato. Arrossì, e non capivo il motivo di questo suo stato d’animo. Cercai di calmarmi e gli chiesi nel tono più normale e neutro possibile:

− Che c’è? Qualcosa non va? Non sei convinto? − Devo essere sincero, Alec, ma tutta la faccenda e anche il modo che hai tu di

interpretare l’esito dell’esperimento non mi quadrano. − Non capisco… Cosa c’è che non quadra? − Beh, insomma. Innanzitutto: tu dici che non si è trattato in realtà di una scelta,

che non potevi agire diversamente da come hai agito, ma stai considerando proprio quell’episodio come esempio di una scelta che ti interessava verificare fosse stata libera o no. E soprattutto: il fatto che nell’esperimento tu ti sia comportato nello stesso modo

si potrebbe interpretare in maniera diametralmente opposta a come lo interpreti tu. Si potrebbe dire che in quella circostanza, quando Renate ti chiedeva implicitamente manforte, avresti potuto agire diversamente ma non l’hai fatto, ed ora nell’esperimento hai confermato la tua scelta, quindi sei proprio tu che hai scelto di non agire come voleva Renate.

− Oddio, Robert, vai piano perché sto perdendo le tracce del senso di tutto questo problema. Calma. Ragioniamo. Io dico: il fatto che nelle identiche condizioni, riprodotte artificialmente dalla macchina, mi sono ora comportato nello stesso modo prova che in quel momento non potevo fare diversamente!

− Sì, ma come ti ho appena spiegato si tratta secondo me solo di una possibile interpretazione. È possibile anche l’altra, che ti ho detto prima… che potevi agire diversamente, ma hai confermato la tua scelta passata.

− Ma allora questa macchina a che cazzo serve!!?? − sbottai, ma subito ripresi il controllo − Scusa, Robert, mi sono un po’ irritato perché rivivere tutta quella situazione con Renate mi ha scosso.

− Non proccuparti. Piuttosto, guarda un po’ cosa c’è ora sul monitor… − Robert stava puntando il suo indice grassottello verso la macchina.

Campeggiava questa scritta:

vuole riprovare?

Robert ed io ci girammo contemporaneamente uno verso l’altro. Gurdandoci negli occhi, ci veniva da ridere.

− Ma che vuole ancora? − dissi. Robert, con la sua infinita pazienza, tirò un sospirone e cominciò a pensare.

Trascorse un minuto di silenzio, nel quale sia lui che io cercammo di metabolizzare il significato di quella nuova scritta.

Poi Robert disse, ma c’ero arrivato anch’io: − Dato che puoi rivivere quel momento del passato senza nessuna memoria delle

tue esperienze successive, niente impedisce che tu possa riviverlo una seconda volta! − Già. Diedi un’occhiata all’orologio e considerai i tempi di lavoro. Era ancora

abbastanza presto. Dal momento che la cosa era molto breve (evidentemente la macchina limitava l’esperimento al tempo utile per compiere la scelta) decisi di riprovare, anche se mi costava un po’ rivivere quelle emozioni sgradevoli.

Rimesso il casco, schiacciai di nuovo il tasto rosso. Le sensazioni furono identiche. Rividi gli occhioni di Renate che mi scrutavano, e riemersi dopo pochi secondi. Il monitor diceva ancora:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta.

Dopo un paio di secondi comparve di nuovo la scritta:

vuole riprovare?

Stavo cominciando ad irritarmi di nuovo: − Dài, Robert, ma è pazzesco! Ma quante volte dovrò provare, secondo te, per

essere sicuro che avevo ragione io? − Sempre ammesso, ribadisco, che la tua interpretazione sia quella corretta! − Sì, sì. Ma lasciamo perdere per ora quella complicazione. Ora mi interessa

sapere cose dice la macchina sulla quantità di volte necessarie per avere una risposta definitiva.

Robert riprese in mano il manuale di istruzioni. Questa volta la consultazione fu più laboriosa, ma dopo qualche minuto, mantre io facevo esercizi di rilassamento, Robert mi lesse quanto segue:

− “Non ci sono limiti alla possibilità di ripetere un esperimento di verifica sulla libertà di una scelta passata.”

− E sulla questione di come interpretare gli esisti degli esperimenti non dice? − Sì, dice, ma entra in questioni matematiche troppo complesse per essere

affrontate così sui due piedi… tira in ballo il calcolo delle probabilità modali basato sui numeri immaginari… un casino… È pieno di formule astruse… Da una lettura veloce ti confesso che non capisco dove vada a parare.

− Ci vorrebbe Stakowsky, oppure dovremmo andare a chiedere ai cervelloni che hanno progettato questa macchina. No, entrambe le cose sono troppo lunghe da fare. Non abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Sui tempi di consegna delle relazioni sono rigidissimi, ormai l’abbiamo capito. Via, dobbiamo cavarcela da soli. Del resto mica possono pretendere che un comune mortale ne sappia così tanto di matematica… Ma insomma, continuo a dire che questa manìa delle istruzioni difficili deve finire! Credo che inizierò la mia relazione proprio da questo.

− E allora che si fa? − Vabbè, senti, riproviamo un po’ di volte. Per farla breve: riprovai per otto volte, sempre con lo stesso esito. Cominciavo a

essere stanco. Rivivere le emozioni di quella serata, e in particolare le emozioni di quel momento così penoso e difficile, mi stava stressando. Avevo i battiti del cuore sempre alti, la bocca completamente asciutta e iniziavo a sudare. Ma la curiosità era più forte, e provai ancora.

La nona volta accadde qualcosa di diverso. L’occhiata di Renate scoccò verso di me e io reagii venendomene fuori con una frase nei confronti dei nostri ospiti: “Ma insomma, io sono stufo! Non vi accorgete che la state tormentando? Non mi importa niente della cena che ci avete offerto, se poi vi comportate così!!”. Feci appena in tempo a vedere le facce stupite della coppia e il sorriso grato di Renate (tutte cose simulate dalla macchina in base ai dati reali in suo possesso, evidentemente), quando l’esperimento ebbe fine. Sul video campeggiava la scritta:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto una scelta diversa.

Si affollarono subito nella mia mente una serie di pensieri. “Allora aveva ragione lei... Era vero che avrei potuto comportarmi diversamente, che avrei potuto aiutarla, dire qualcosa!” Il senso di colpa tornò a farsi sentire.

Mi rivolsi a Robert, cercando di respirare con calma per prendere un po’ di distacco.

− Ma allora secondo te questa volta, questo nono esperimento, annulla i precedenti otto?

− Beh, se rimaniamo nella tua interpretazione direi di sì, nel senso che ora, con questo nono esperimento, abbiamo la prova… diciamo “empirica” che la tua scelta era contingente: effettivamente avresti potuto scegliere di comportarti diversamente.

− Quindi aveva ragione Renate? − Sì, anche se il fatto che per otto volte tu abbia ripetuto la stessa scelta dovrà

pure significare qualcosa… − Il fatto che non ci siano limiti alla possibilità di ripetere l’esperimento mi

inquieta. A questo punto vorrei una risposta. Ancora una volta calcolai i tempi di lavoro. Potevamo concederci ancora un po’ di

ricerche. Decisi che avrei riprovato ancora ventuno volte, in modo da arrivare a trenta esperimenti. Mi ci volle mezz’ora. Esito complessivo: per cinque volte la mia scelta si rivelò diversa da quella che si era realmente verificata (andando sempre, con qualche variante, nella direzione di un’espressione liberatoria, che mi faceva uscire dall’imbarazzo); per venticinque volte fu identica.

Mi sentivo come un eroe, alla fine di quei trenta esperimenti, ma come un eroe che ha compiuto una grande impresa per poi perdere la strada. Mi rivolsi a Robert con aria stanca ma decisa.

− Io a questo punto vorrei trarre delle conclusioni, se no la macchina, almeno nell’opzione 2, è perfettamente inutile. Ma ti assicuro, Robert, che ho le idee piuttosto confuse e mi rifiuto di ricorrere a quelle terribili istruzioni zeppe di formule matematiche!

− Va bene, cerchiamo di ragionare con calma. − Sì, ma cerchiamo anche di andare al sodo. Robert si mostrò infastidito da questa mia ultima battuta: − Allora, Alec, siamo alle solite: tu vuoi una risposta, vuoi trarre delle conclusioni,

hai questa ossessione di stare nei tempi di lavorazione su un prodotto, vuoi stringere, e vuoi stringere in fretta, ma tu stesso devi riconoscere che qui non c’è modo di fare in fretta, dato che affermi di avere le idee confuse e non abbiamo tempo di decifrare il manuale della macchina!

− Ok, ok, frena. Hai ragione tu. Intanto senti, che ne dici di prenderci una pausa? − Mi sembra un’ottima idea. Usciti dal laboratorio, andammo a prendere un po’ d’aria fresca nel giardino che

circondava il palazzo della Hoekk. Il rumore dei nostri passi sulla ghiaia e il ronzare di un’ape mi fecero tornare il senso della realtà. La giornata era così bella che era molto

difficile non essere distratti dai colori e dalle forme. Ci fermammo a guardare i pesci rossi nella grande vasca del giardino. Sentivo il calore del sole sulla pelle.

Fu Robert a rientrare in argomento, con grande cautela: − Dunque senti, cercando di stare coi piedi per terra… − Sì, ma sentiti libero di dirmi anche tutti i tuoi dubbi. − Va bene, ma partiamo da una cosa molto semplice. Il caso che tu hai voluto

sottoporre alla macchina è un caso nel quale a te era sembrato di non essere stato libero, giusto?

− Sì, in quella situazione il mio restare zitto mi era sembrata l’unica cosa che fossi in grado di fare.

− Bene. Ora arriva questa macchina e ti dice che in realtà dentro di te c’era anche la possibilità di agire diversamente.

− Sì. − Ma ti dice anche che questa possibilità non era tanto possibile. Era possibile ma

era poco possibile… − Intendi il fatto che per un sesto delle volte, su trenta, ho agito diversamente. − Infatti. Quindi volendo trarre una conclusione si potrebbe dire: il tuo restare

zitto non era una necessità assoluta, ma era la cosa più alla tua portata in quel momento. Per agire come voleva Renate avresti dovuto fare un sforzo particolare. Resta il fatto che era nelle tue possibilità agire diversamente.

− E perché non l’ho fatto? − Evidentemente la motivazione che c’era per spingerti a ciò non era abbastanza

forte, oppure potremmo dire che tu non le hai assegnato abbastanza forza in quel momento.

− È per questo, quindi, che dopo Renate ce l’aveva con me: perché non ho tenuto abbastanza conto del suo bisogno di aiuto in quella circostanza… Sì, mi sembra una conclusione plausibile, però adesso mi viene un altro dubbio. Dopo dieci tentativi la contingenza della mia scelta era 1 su 10. Dopo trenta tentativi era 5 su 30. Quindi da un decimo siamo passati a un sesto. Chi ci dice che proseguendo, riprovando 100, 300, 1000 volte la proporzione non si riduca sempre più? Da un sesto si potrebbe passare a un quarto, a un terzo, fino ad arrivare a un mezzo. E addirittura le cose potrebbero capovolgersi, cioè si potrebbe verificare che a un certo punto risultino più le volte in cui agisco diversamente di quelle in cui ripeto la stessa scelta.

− È vero, non c’è nessuna garanzia in proposito. − Sai cosa? Resta il fatto che per ora continuo a non capire tanto l’utilità o il

divertimento di una macchina come questa. Forse l’uso principale, quello che dà il senso a tutto quanto, è l’opzione 1, l’aumento della capacità di scegliere liberamente.

− Penso anch’io − disse Robert − però mi piacerebbe fare un altro esperimento con l’opzione 2, prima di passare alla 1.

− Si può fare… − Ti spiace se uso io la macchina, questa volta?

In teoria avrei dovuto essere sempre io a usare le macchine. Robert aveva il ruolo di assistente, ma ormai lo conoscevo bene e sapevo che potevo fidarmi delle sue capacità. Non sarebbe stata la prima volta che gli lasciavo fare il mio lavoro e io diventavo assistente.

− D’accordo, non c’è problema. Cosa intendi verificare? − C’è stato un momento importante nella mia vita… una svolta, della quale mi

piacerebbe conoscere il grado di libertà… sapere se era in mio potere scegliere diversamente.

− È una cosa riservata? Sai che per regolamento non posso lasciarti solo con la macchina…

− No, Alec, non c’è problema. Riguarda il mio orientamento affettivo. Ci conoscevamo già bene Robert ed io. Due anni prima mi aveva presentato il suo

compagno, con cui stava da sei anni, Willy. Ogni tanto Renate ed io uscivamo con loro a cena, o si andava a passeggiare lungo il fiume.

− Forse non te l’ho ancora raccontato − riprese Robert − ma prima di mettermi con Willy ho passato un periodo di confusione, riguardo all’orientamento del desiderio, e prima ancora ho avuto alcune storie etero.

− Me ne avevi accennato. − Beh, nel periodo di confusione mi ero rivolto a un terapeuta, il quale mi aveva

proposto un percorso per diventare decisamente etero. − E perché mai? − Credo fosse un espediente per mettermi di fronte alla necessità di una scelta. In

effetti, di fronte a questa prospettiva terapeutica ho dovuto prendere una decisione, e ho capito quello che veramente volevo.

− È questa decisione, che intendi verificare? − Sì, ma non vorrei che mi fraintendessi. Sappiamo benissimo che l’orientamento

affettivo e sessuale non è questione di scelta. Nessuno può scegliere l’orientamento del proprio desiderio. Sappiamo anche che l’orientamento può cambiare nel corso della vita, o che può agire sotterraneamente per un periodo e poi emergere, all’improvviso o gradualmente. Nel mio caso, in quel momento, quando ho deciso di non intraprendere un percorso per “diventare” eterosessuale, si è trattato della scelta di realizzare un desiderio che sentivo, ma che sentivo in maniera confusa, problematica. Nel momento in cui ho deciso di realizzarlo, ho anche capito che quello era, per me, il desiderio prevalente, forte, il vero desiderio.

− Capisco. In effetti mi sembra un caso interessante. Ma sei sicuro che provare la macchina su una cosa del genere non possa crearti qualche problema?

− No, anzi. Ormai sulla questione del mio orientamento non ho più dubbi. Mi interessa sapere quanto fossi libero, in quel momento, di scegliere di realizzarlo.

Rientrammo in laboratorio. Seguii Robert con molto interesse, affascinato soprattutto dal poter “vedere” sul monitor il suo flusso di coscienza. Anche Robert decise di ripetere lo stesso esperiemento per trenta volte. Il risultato, nel suo caso, fu sempre lo stesso:

nelle identiche condizioni, lei ha compiuto la stessa scelta.

Alla fine Robert era abbastanza stanco. Evidentemente anche per lui rivivere quel momento, che sicuramente non era stato facile, comportava un notevole dispendio di energia, per quanto ogni volta la cosa durasse poco più di un minuto.

Questa volta toccò a me cercare di aiutarlo a interpretare il risultato. A tutta prima Robert appariva costernato: − Ma allora, Alec, che significa? Non avrei potuto scegliere diversamente… Ciò

vuol dire che non avevo scelta? Quindi la mia scelta non è stata libera? Ma allora non posso neanche chiamarla una scelta…

− Innanzitutto calma. Bevi qualcosa e rilassati. Gli porsi una bottiglietta di succo di frutta fresco, presa dal distributore

automatico. Accettò volentieri, e vidi che mentre beveva, piano piano il suo viso si distendeva e riacquistava la luce consueta.

− Allora, Robert. Qual è il problema? − Io credevo di aver avuto un ruolo, nella storia dell’evoluzione del mio

orientamento affettivo. Credevo di essere stato bravo, in quel momento difficile, quando ero in confusione. Credevo insomma di aver fatto la scelta giusta, e adesso scopro che non posso neanche chiamarla “scelta”, dal momento che non avevo alternative.

− Ma tu stesso prima, dicevi che in materia di orientamento affettivo e sessuale non si tratta di scegliere.

− Sì, ma io a un certo momento ero confuso fra orientamento “etero” e “omo”, e ho dovuto scegliere quale realizzare.

− E come hai fatto a scegliere? − Ho considerato l’ipotesi del terapeuta, e mi sono reso conto che rinunciare ai

miei desideri verso gli uomini significava rinunciare a una parte importante del mio io. era come rinunciare a un lato fondamentale del mio carattere… sarebbe stata come una auto-mutilazione… mi spaventava, mi dispiaceva, mentre invece l’altra ipotesi, che poi si è profilata, cioè rinforzare e realizzare quei desideri, pur se mi appariva difficile, mi sembrava più fattibile e mi ridava il buonumore.

− E perché ti appariva “difficile”? − Per il fatto che sapevo per certo che avrebbe implicato la rinuncia al poter

concepire biologicamente un figlio all’interno della coppia che avrei formato. − Però vivevi questa ipotesi, di realizzare una relazione con un uomo, come quella

meno pericolosa per la tua identità. − Sì, Alec. − Ma allora, scusa, si può dire che non avresti potuto scegliere diversamente. No? − In che senso? − Nel senso che non ti era indifferente diventare, diciamo così, “omo” o “etero”. − Infatti. Percepivo le due prospettive in maniera anzi molto differente, molto

sbilanciata. − Quindi avresti potuto scegliere diversamente solo se tu fossi stato un altro! − Ma se la mia scelta era necessaria…

− Necessaria ma libera, cioè corrispondente alla tua natura. Necessaria nel senso che condotta sulla base di un motivo, il desiderio affettivo e sessuale, che di per sé è vincolante e non è oggetto di una possibile scelta, ma libera nel senso che solo tu potevi riconoscere questo desiderio e decidere di realizzarlo, nessun altro al posto tuo poteva farlo. Il terapeuta ti ha solo spinto a uscire dalla confusione in cui ti trovavi.

Robert rimase per un po’ a pensare, con i suoi occhi chiari che vagavano acquosi nella stanza. Poi disse:

− Sì, credo tu abbia ragione… Si trattava anche qui di un problema di interpretazione dei risultati della macchina.

Mi resi conto che mi ero sforzato di tranquillizzare Robert con argomenti che lui stesso, in circostanze più tranquille, e soprattutto se non lo avessero riguardato in prima persona, avrebbe prodotto senza difficoltà. Ero riuscito ad imitare il suo stile argomentativo, e mi complimentai con me stesso per esserci riuscito in modo così efficace.

Decidemmo che, per quel giorno, ci saremmo dedicati ad altri lavori e l’indomani avremmo provato l’opzione 1.

Quella sera, a casa, raccontai a Renate della macchina. Lei non aveva voglia di tornare sull’episodio che avevo scelto per il primo esperimento, ma ascoltò con molta attenzione il mio racconto. Mi resi conto che mi sentivo molto stanco, alla fine di quella giornata. Entrammo presto nella camera antigravitazionale. Prima di addormentarmi, ripensai ancora a quanto era successo la mattina. Quella macchina aveva risvegliato in me alcuni dubbi che forse non si sarebbero mai manifestati, non solo sui singoli casi che gli avevamo sottoposto: più in generale su come noi umani arriviamo ad agire, su ciò che sta alla base del nostro comportamento, e anche su come ne parliamo e ci pensiamo. La sensazione complessiva, comunque, non era di maggiore chiarezza riguardo a tutto ciò, ma di maggiore confusione. Mi immaginai Robert di fronte a quest’ultima mia constatazione. Avrebbe probabilmente risposto: “Per arrivare a una maggiore chiarezza devi passare attraverso una maggiore confusione”. Il sonno sopraggiunse, pesantissimo.

II

Il giorno successivo, al contrario del precedente, era burrascoso. Il cielo si presentava come un’immensa coltre di nubi bluastre che rotolavano velocemente su se stesse. In lontananza, da uno squarcio, filtrava qualche raggio di luce.

Incontrai Robert fuori dal palazzo della Hoekk, e salimmo insieme in ascensore. − Come va? − gli chiesi. − Bene, anche se quella macchina mi inquieta un po’. Sono comunque curioso di

vedere cosa farà nell’opzione 1, quella principale. − Anch’io sono curioso, Robert, ma entro oggi voglio liquidare la questione.

− Ma perché tutta questa fretta? Abbiamo come minimo una settimana, prima di dover consegnare la relazione su un prodotto come quello, data la sua indubbia complessità.

− È vero, ma sento che con una macchina così potremmo essere tentati di allungare indefinitamente i tempi.

− Bah, fossi in te non sarei così sulle difensive. Ad ogni modo sei tu che decidi i tempi, quindi…

− Vedremo. Arrivati in laboratorio, ci sdraiammo innanzitutto nelle comodissime poltrone da

relax, per riordinare le idee prima di iniziare. − Sai cosa? − dissi mentre mettevo a fuoco uno dei dubbi che mi giravano in testa

− c’è una questione emersa dagli avvenimenti di ieri che non riesco ad affrontare, troppo sottile per una mente dura, come la mia, ma forse tu, che hai una mente morbida…

− Dimmi pure. − Per sapere se una mia scelta è stata libera, devo, tornato nella stessa situazione,

poterla ribadire identica, o devo poterne fare una diversa?! Robert rabbrividì. − Credo tu abbia messo proprio il dito sulla piaga, Alec. Stanotte sono stato

sveglio a lungo, a pensare proprio a questo problema. Un tuono spaventoso ci distolse per un momento dalla nostra conversazione.

Iniziò una pioggia scrosciante. Era bello starsene all’asciutto a conversare, comodamente rilassati nelle straordinarie poltrone della Hoekk, mentre fuori ogni cosa veniva colpita da miliardi di gocce crepitanti.

Con un leggero sorriso sulle labbra, consapevole del fatto che quel tuono era sembrato sottolineare maggiormente le sue parole, Robert riprese:

− Ti dico cosa ho pensato, anche se purtroppo non ho una risposta risolutiva. Allora. Se fai una scelta diversa, confermi la contingenza della scelta, che è una delle componenti del concetto di “libero arbitrio”. Se rifai la stessa scelta, confermi invece che quella scelta dipendeva solo da te, e che quindi è in tuo potere ribadirla. Confermi che era proprio quello ciò che tu volevi… Quindi… Confermi in entrambi i casi una delle due componenti che sembrano richieste per poter definire libera una scelta, ma… una sembra in contraddizione con l’altra! Non puoi confermare entrambe le cose contemporaneamente! Ciascuna delle due altrenative ha infatti il suo rovescio negativo. Ovvero: se fai una scelta diversa, neghi che quella scelta dipendesse in ultima analisi da te stesso…

− Ma perché, scusa? − Perché la macchina ti fa tornare esattamente alla stessa situazione in cui ti

trovavi, e tu quindi torni ad essere esattamente quello che eri. − E allora? − Se tu sei identico, ma fai una scelta diversa, vuol dire che è intervenuto qualche

altro fattore, che non dipende da te… Giusto?

− Sì, diciamo di sì, anche se comincio a perdere le tracce del tuo ragionamento. − Concludo. Se ribadisci la stessa scelta, invece, neghi la contingenza, o meglio,

può restarti sempre il dubbio che la tua scelta fosse necessaria, dal momento che si è ripetuta uguale.

Qualcosa mi sfuggiva, anche se avevo notato lo sforzo di Robert per essere estremamente chiaro, e avevo ammirato la profondità del suo pensiero.

− In definitiva? – chiesi ancora. − Alla domanda secca, che hai posto prima che iniziasse a piovere, direi che non

c’è una risposta univoca, per due motivi: una è la questione che ho cercato di spiegarti, ovvero che il concetto di “libero arbitrio” può essere interpretato in due modi differenti, a seconda che si sottolinei una o l’altra delle due componenti di cui è formato. L’altra è la questione che la macchina consente di ripetere l’esperimento su una scelta infinite volte, e quindi diventa rilevante, ma mai concludente, la proporzione fra scelte ribadite e scelte mutate.

− Torno a dire, Robert, e confermo dopo aver ascoltato le tue lucide riflessioni, che non capisco l’utilità né il divertimento che può avere una macchina come questa, usata nell’opzione 2. Speriamo che l’opzione 1 ci riservi qualcosa di meglio.

Così dicendo, passai all’azione. Infilato con cura il casco, accesi la macchina. Robert, al mio fianco, si sedette anche lui per seguire meglio ciò che compariva sul monitor.

Come il giorno prima, comparve il seguente riquadro:

1. Aumento della capacità di scegliere liberamente

2. Verifica della libertà di scelte già compiute

Scegliendo la prima opzione, comparve un secondo riquadro:

Sotto, alcune scritte spiegavano:

campo delle motivazioni campo della personalità campo delle possibilità

0 0 0

1 1 1

2 2 2

3 3 3

4 4 4

5 5 5

Scegliere una combinazione di livelli nei tre campi. Livelli con numeri più alti corrispondono a gradi di libertà maggiore. La durata dell’effetto sul cervello è inversamente proporzionale all’altezza

del livello prescelto. Per avere effetti apprezzabili, il livello 0 è consigliato solo in un campo per

ciascuna combinazione. Vivamente sconsigliata ai principianti la combinazione 555. Combinazione consigliata ai principianti: 101.

− Quale combinazione sceglieresti, Robert? − Conoscendomi dovresti saperlo: la 101. − Io invece sono fortemente tentato dal puntare dritto dritto sulla 555, così

andiamo subito al cuore delle prestazioni della macchina. Robert reagì: − No, senti, se dice “vivamente sconsigliata” ci sarà un motivo! Vorrei evitare di

doverti soccorrere per una crisi confusionale. − Sì, ma non possiamo stare qui a fare le cose per gradi come i principianti.

Dobbiamo puntare all’essenziale, capire presto in cosa consiste, se c’è, il bello di questa macchina.

Percepii chiaramente lo sforzo di Robert per restare calmo. La questione dei tempi di lavoro era fra noi fonte di perenni scontri. La sua fronte era attraversata da rughe profonde e aveva gli occhi socchiusi. Dopo un lungo respiro disse, lentamente:

− Se consiglia 101 significa che il campo centrale, quello della personalità, è il più rischioso. Ti propongo un compromesso: imposta 505.

− E sia. Cliccai nelle caselle corrispondenti alla combinazione 505 e diedi l’invio. Adesso mi tornano in mente le parole di un grande scrittore argentino di molto

tempo fa, che sembrano fatte apposta per me, al punto in cui sono con questa storia: «Arrivo, ora,» scrive in uno dei suoi racconti più belli «all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gli interlocutori condividono». E prosegue domandandosi come trasmettere agli altri un’esperienza unica, irripetibile, che oltretutto, nel suo caso, implicava «l’enumerazione, sia pure parziale, d’un insieme infinito».

D’improvviso fu come se la mia mente si spalancasse. Avevo la sensazione di vedere un enorme ventaglio, un gigantesco albero dalle innumerevoli braccia: avevo di fronte tutte le cose che avrei potuto fare nel presente (molte più di quante non sospettassi un secondo prima), tutte le cose che avrei potuto vedere e sentire, immaginare e ricordare, pensare e volere; e da ognuna di esse si aprivano altre azioni e omissioni future e altre ancora più future. Da ogni azione sbocciava un fascio di altre azioni possibili e le ramificazioni si estendevano a perdita d’occhio, incanalandosi alcune in progetti eleganti e complessi, mentre altre proseguivano linearmente. Potevo spaziare con la mente su tutte le mie possibili azioni future, e sulle vite che di

conseguenza mi si preparavano davanti; ma contemporaneamente a ciò avevo la sensazione di poter vedere con chiarezza i miei pensieri, i sentimenti e le emozioni del passato, il perché avevo fatto una cosa e non quell’altra. Le ragioni dei miei comportamenti passati si esibivano con una limpidezza e una vivacità incredibili, e vedevo riaffiorare innumerevoli cose che mi erano successe ma che avevo dimenticato, cose minime, l’occhiata di un passante, la lieve freddezza di una risposta, una vaga sensazione di malessere dopo un gelato alla vaniglia, il sole sulla pelle, il vento in una passeggiata lungo il mare, musiche e frasi scritte su bigliettini stracciati e un tubetto di vernice rossa spiaccicato sul pavimento e un secchiello capovolto sul quale da bambino saltavo ridendo e pennarelli elettrici, astronavi affollate, lombrichi, gelsi e bachi da seta, banchi di scuola pieni di graffiti e assemblee fumose, un insetto verde dorato e odore di resina, riflessi colorati su una grande bolla di sapone, colla sulle dita, trucioli di legno chiaro ai piedi di una statua intagliata da un robot, gli occhi di un asino, capricci, rimproveri, partite a scacchi, ore passate al computer; ed era, insomma, come se potessi vedere il mio inconscio: una massa immane e infinitamente stratificata, in cui immagini, suoni, rumori, odori, erano intrecciati e collegati in una rete multipla pur non perdendo la loro singolarità. Mi sembrava di aver raggiunto, in così poco tempo, una visione unitaria della mia vita passata: la vedevo tutta, lì, con una sua forma precisa e inconfondibile, e avevo la sensazione di sapere esattamente chi ero e cosa volevo nel mondo.

Quando l’effetto fu terminato mi guardai attorno e ritrovai il laboratorio, Robert che mi guardava preoccupato, la finestra e il rumore della pioggia scrosciante. Mi rimaneva solo una sensazione di forte benessere, ma quella chiarezza sconcertante, quella visione così potente, erano perdute nella loro ricchezza: me ne restava la forma, ma non il contenuto. Mi sentivo benissimo ma completamente spossato, inerte.

Robert ruppe il silenzio. − Alec, non sono riuscito a seguire nulla sul monitor, perché il tuo flusso di

coscienza era troppo veloce. Immagino che l’esperienza sia stata molto intensa e molto bella, a giudicare dalla tua espressione. Credo però che… che ci sia un problema.

Quando Robert parlava di problemi con quel modo esistante mi metteva subito in allarme. Una scossa adrenalinica mi strappò dal mio torpore estatico.

− Problema? Quale problema? Ti assicuro, Robert, che è fantastico. Ora capisco il senso di questa macchina. Ti dà come un sensazione di… mi verrebbe da dire di onnipotenza, ma non è esattamente quello che vorrei dire.

Mi rendevo conto che spiegare a Robert sarebbe stato troppo difficile. L’unico modo per capire era provare su di sé.

− Sì, vedo, Alec, ma… − Dài, deciditi a parlare! Non muoio mica! − Hai effettuato quest’ultimo esperimento con la macchina senza avere nessuna

scelta particolare da compiere, senza avere una decisione da prendere. Come possiamo verificare se la tua capacità di scegliere liberamente era realmente aumentata, nei due

minuti in cui ha avuto effetto la macchina? Vedi? Il monitor ora è vuoto, non ti dà nessuna risposta, nessuna indicazione.

− Ti assicuro, Robert, che la macchina funziona. È qualcosa. Qualcosa di forte. In ogni caso… ma non potevano chiedermelo prima? Sarebbe bastata una scritta, come nell’opzione 2. Ti ricordi? “Quale scelta intende verificare?” Qui avrebbero dovuto chiedermi: “Quale scelta intende effettuare?”.

− È vero. Probabilmente lo davano per implicito, o forse era scritto sulle istruzioni e non hanno ritenuto necessario ripeterlo a video…

− Accidenti, questa è una manchevolezza che va sicuramente segnalata nella relazione. Stai prendendo appunti, vero, di tutto quello che succede?

− Certo, come al solito. − Bene, allora segna questa come una delle cose più importanti: le istruzioni

essenziali vanno messe tutte a video. − Subito. Mentre Robert scriveva, io mi sforzavo di ricordare cosa avevo visto e capito su

me stesso e sulle mie possibilità, ma non ci riuscivo. Mi sembrava, ora, di muovermi con la mente in uno spazio angusto: poche cose davanti, pochi pensieri e sempre uno per volta, qualche ricordo ogni tanto. “Come si fa a vivere così?” mi chiesi per un attimo.

− Beh, allora non c’è che riprovare − incalzai, deciso a ripetere prima possibile quell’esperienza.

− Sì, ma devi prima trovare una scelta da compiere con la quale rivolgerti alla macchina, se no è inutile…

− Inutile non direi proprio. Comunque sì, hai ragione. Dunque, vediamo. Una scelta da compiere… Oddio, così all’improvviso non è facile da trovare.

− Beh, una ce ne sarebbe, già bella e pronta: la scelta su quale scelta sottoporre alla macchina…

− Robert, cerchiamo di non complicarci la vita. Andiamo sul semplice. Ci serve una scelta semplice, non una meta-scelta… Se no poi impazziamo per capire quello che succede.

Robert sembrava un po’ deluso che la sua idea non fosse stata risolutiva, ma convenne con me che era meglio andare sul semplice. Ben presto ci rendemmo conto che scelte importanti, scelte di vita, né io né lui ne avevamo realmente davanti. Eravamo soddisfatti sia dal punto di vista affettivo, sia da quello professionale. Le scelte che, realisticamente, avremmo dovuto affrontare riguardavano cose meno importanti: dove trascorrere le vacanze? cosa scegliere come prossima lettura di svago? Alla fine, più che altro per tagliare corto, optai per sottoporre alla macchina una scelta che sapevo mi sarei trovato di fronte nel giro di pochi giorni: cosa regalare a Renate per il suo compleanno? Le alternative non erano molte. Conoscevo bene i suoi gusti. Era una scelta semplicissima, banale, che in realtà non mi poneva problemi anche perché ormai sapevo che Renate accettava volentieri, di anno in anno, regali dello stesso tipo; non si

aspettava sorprese, quindi in generale non mi dovevo scervellare per trovare cose nuove da regalarle.

Robert convenne che proprio per il suo carattere di estrema semplicità e banalità questa scelta si prestasse a verificare senza problemi l’effetto della macchina. I problemi con Robert vennero invece quando gli comunicai che intendevo procedere impostando la macchina sul 545.

− Ma Alec, si tratta di un grado meno dell’opzione 555, quella sconsigliata ai principianti! Coinvolgere subito il campo della personalità, e ad un livello così alto… Perché non provi con 515?

Forte della meravigliosa esperienza provata con l’opzione 505, riuscii a superare tutte le remore di Robert, e imposi che il prossimo esperimento si sarebbe svolto con l’opzione 545.

Infilai il casco, digitai 545 e mi concentrai sul problema di cosa regalare a Renate. Diedi l’invio. Il tutto si svolse nello spazio di un minuto. Di nuovo provai la sensazione di

spalancamento dello spazio mentale. Mi trovavo al centro. Davanti a me un ventaglio di possibilità, che certamente partiva molto più ristretto rispetto a quello dell’esperimento precedente, ma si estendeva indefinitamente investendo l’interezza delle mie vite possibili a partire da quelle poche alternative iniziali. Dietro di me la massa intricata delle esperienze passate, dalla quale emergevano alcune ragioni specifiche, alcuni motivi con i quali mi trovavo ad avere ora a che fare. Era come se dovessi manipolare le ragioni che emergevano e innestarle sul ventaglio delle possibilità. Avevo di fronte, chiarissimamente, una serie di cose che avrei potuto scegliere di regalare a Renate, innanzitutto quelle che sapevo avrebbero incontrato i suoi gusti: un profumo importato dal pianeta Micronesian, un nuovo programma da inserire nella camera nutrizionale, l’ultima novità in fatto di calzature autopulenti, un saggio sulla vita degli insetti sociali. Secondariamente, vedevo altri oggetti che avrei potuto regalarle facendole una sorpresa. Per ciascuna di queste cose, vedevo chiaramente quale sarebbe stata la sua reazione, che uso ne avrebbe fatto e come il nostro rapporto ne sarebbe stato leggermente modificato.

In quale direzione, dunque, volevo mandare Renate? In quale direzione intendevo spingere il nostro rapporto? La ragione principale, che emergeva dal mio passato, era la volontà di confermare a Renate il mio amore e mantenere il rapporto così com’era nel presente. Ma, mi chiesi, perché farlo? Perché consolidare questo rapporto? Era proprio questo, che volevo? Le ragioni della stabilità, della continuità, del valore di un rapporto ormai forte e sano, del valore di Renate come persona, mi apparirono sullo stesso piano di quelle del cambiamento, del rischio, dell’avventura, dell’ipotetico valore di un’altra donna. Vedevo chiaramente che stava solo a me decidere quali ragioni fossero le più importanti, le più valide. Stava solo a me assegnare un peso a queste diverse ragioni.

Questa volta, pensai rapidissimamente, voglio rischiare, gettare un ombra su questo rapporto con Renate, vedere come reagisce lei, e se reagisce male peggio per lei, continuerò a sottrarre, a minare la solidità del rapporto. O regge, e allora vuol dire che il

rapporto è veramente solido, o non regge, e allora sarò pronto per tentare una nuova relazione, lascerò Renate, senza paura…

L’effetto della macchina si interruppe bruscamente. Sul monitor campeggiava la scritta:

Lei ha scelto di non regalare nulla a Renate.

Ero di nuovo mentalmente scombussolato, ma questa volta di più e avevo anche un po’ di nausea. Durante il minuto trascorso sotto l’effetto della macchina mi ero sentito benissimo, con una grande forza mentale, con la strana sensazione che la grande potenza mentale che mi sentivo di avere fosse sprecata, sproporzionata per una scelta così piccola e semplice, ma adesso guardavo sbigottito il monitor e solo con grande fatica riuscivo a ricordare con quale ragionamento fossi arrivato a quella bizzarra decisione. Non riuscivo assolutamente a riconoscermi nella scelta di non fare nessun regalo a Renate. Immaginavo il suo volto deluso, e già solo questa immagine mi rattristava.

− No… non è possibile che io abbia pensato una cosa simile… − In effetti, Alec, − rispose prontamente Robert, che aveva cercato di seguire il

tutto restando incollato al monitor − non sarebbe da te. Spero tu non abbia intenzione di rispettare la decisone che hai preso sotto l’effetto della macchina!

− No, non credo, ma… − Ma…? − Mi fa però impressione il fatto che comunque questi pensieri li ho fatti io, a

questa scelta sono arrivato io… − Sì, tu, ma un tu modificato dalla macchina! − Ma la macchina non può aver cambiato la mia personalità, può solo aver reso

più libera la mia vera personalità… − Sì, Alec, ma secondo me questa macchina ha passato il limite oltre il quale non

ha più senso dire che tu potresti scegliere diversamente, ma occorre piuttosto dire che un altro potrebbe realizzarsi invece di te!

La frase di Robert mi fece piombare in uno stato di profonda riflessione introspettiva. Mi rendevo conto che dentro di me quella decisione bizzarra, per quanto la sentissi estranea, lentamente, mentre ne parlavo con Robert, stava prendendo piede, con tutto il capovolgimento di valori che si tirava dietro. “Perché restare attaccati alle sicurezze?” Questa domanda mi frullava in testa e non riuscivo a scacciarla, ma contemporaneamente provavo orrore e paura per questa specie di metamorfosi interiore di cui avvertivo i primi segnali. Il senso di nausea aumentava, accompagnato da paura e da una sorta di vertigine. Sì, era proprio come aveva detto Robert, mi sentivo come se un’altra persona stesse pian piano, nei miei pensieri più reconditi, facendosi strada dentro di me.

Improvvisamente provai un moto di disgusto e di rabbia verso la macchina ed esplosi:

− Ma questi sono matti! Questa è roba pericolosa!

− Alec, ricorda però che tu hai voluto saltare subito ai livelli più alti. Forse, se avessimo fatto le cose con calma, per gradi, come suggeriva la macchina…

− No! Sarebbe stato peggio! − urlai − Così sarei scivolato lentamente verso un’altra personalità senza neanche accorgermene. Adesso, invece, avverto chiaramente lo stacco, e posso difendermi. Il mio io originario sta reagendo!

Lo sfogo violento mi aveva fatto bene. Sentivo di stare tornando nella mia cara, vecchia identità. Mi presi dieci minuti di pausa, spiegando a Robert che avevo bisogno di ritrovare il mio equilibrio.

Adagiato in poltrona, lasciai che la nausea passasse naturalmente, e indugiai a lungo sul pensiero di Renate, che mi avrebbe accolto con il suo consueto abbraccio al ritorno dal lavoro. La mia Renate. Sì, l’amavo veramente, con tutte le sue paure, le sue incertezze. Amavo la sua enorme vitalità, il suo coraggio, la sua mente capace di sottili argomentazioni, l’attenzione e la presenza con la quale riusciva a vivere ogni situazione, il suo corpo caldo e avvolgente.

− Credo di sapere cosa scriverò nella mia relazione su questa macchina. Ne sentiranno delle belle. − dissi a Robert con calma e fermezza − Non resta che provare l’opzione 555.

Robert sgranò i suoi grandi occhi color salvia su di me: − Cosa?? Dopo quello che è successo vuoi ancora provare la macchina, e

oltretutto al grado di massima potenza!!?? − Diversamente, caro Robert, non potrei dire di conoscere a fondo la macchina, e

la mia relazione perderebbe valore. − Il tuo argomento non fa una piega, ma non potremmo, da quanto è già successo,

per induzione, capire cosa succede al livello 555? − Come sai meglio di me, Robert, con l’induzione non si va molto lontano. No,

data la complessità di questa macchina, nel passaggio da 545 a 555 possiamo aspettarci di tutto. L’unica è un duro impatto con la realtà: proverò subito cosa succede utilizzando l’opzione 2 al massimo livello.

− Mi arrendo. Tanto alla fine sei comunque tu che devi decidere e sei tu che ti assumi la responsabilità delle relazioni che escono da questo laboratorio.

Decidemmo che, per avere un riscontro oggettivo sulla differenza tra 545 e 555, avrei riproposto alla macchina la stessa scelta in merito al compleanno di Renate.

Rimesso il casco e tirato un lungo respiro, impostai la 555 e mi concentrai nuovamente sul problema di quale regalo scegliere.

Diedi l’invio. Anche qui il mio compito di scrittore è arduo, e riconosco con rammarico di aver

trovato una soluzione che tende ad allontanarsi dal registro narrativo per abbracciare quello saggistico, ma confido di rientrare prima possibile nella pura narrazione.

La rete delle motivazioni e l’albero delle possibilità esistevano, così come le avevo “viste” nell’esperimento precedente, ma ero io, che non esistevo più. Non che la volta precedente mi fossi visto, personificato, tra le motivazioni e le possibilità, ma avevo avuto la netta sensazione di essere “localizzato” tra passato (motivazioni) e futuro

(possibilità). Mi ero sentito lì, in un luogo preciso, un luogo mentale, un punto nel mio spazio mentale. Adesso invece ero come svaporato. Non era la sensazione di essere disincarnato, puro spirito, o cose del genere. Molto di più: non mi sentivo più da nessuna parte… ero, se così posso dire, lo spazio entro cui esistevano motivazioni e possibilità. Non ero localizzato in alcun punto, ero lo spazio in cui esisteva una molteplicità indefinita di punti. Un’emozione paradisiaca pervadeva questo spazio. Se un’entità, per esistere, deve avere un’identità, allora non ero più un’entità. Esistevo ancora, ma come potenzialità di modifica in relazione alle motivazioni e alle possibilità che contenevo: ero, per cercare di essere precisi, una struttura, non una sostanza… Una sensazione stranissima e affascinante. Durò pochi secondi. Il tempo però di osservare con infinito distacco la varie possibilità che avevo di fronte…

Al termine, ero troppo stralunato per poter fare qualsiasi cosa e mi ci vollero dieci minuti di respirazione profonda ad occhi chiusi per riprendermi.

Quando mi riebbi, vidi Robert seduto in poltrona con gli occhi lucidi persi nel vuoto. Evidentemente aveva letto il monitor ed ora stava pensando. Con grande curiosità lo guardai anch’io. La scritta diceva:

la scelta è stata trascesa ovvero

qualsiasi opzione è indifferente ovvero

non c’è realmente bisogno di scegliere

− Come ti senti, ora? − mi chiese Robert, ansioso. − Ora sto bene, ma è stato sconvolgente. Sperimenti un altro modo di esistere… − Con un’identità fluida? − azzardò Robert − Senza identità. E hai visto che bel risultato? Sarebbe come dire che qualsiasi

regalo va bene? Mi sa che è lo stesso tipo di risposta ogni volta che imposti il 555. Comunque, Robert, ti assicuro che un conto è leggere quella scritta, che sembra banale, un conto è vivere l’esperienza di ciò che ci sta dietro. In ogni caso credo che l’opzione 555 vada gustata senza avere nessuna scelta particolare da sottoporre alla macchina, oppure con scelte veramente importanti. Solo così si può apprezzare veramente l’equivalenza delle possibilità, se osservate da un punto di vista… superiore, esterno a qualsiasi individualità.

− Tu parli di “equivalenza delle possibilità” come se si trattasse di una risposta generale della macchina, se impostata sul 555. Ma ricordiamoci che ti sei rivolto alla macchina proprio con una scelta semplice. Cosa sarebbe accaduto se ti fossi sottoposto all’esperimento, con 555, avendo di fronte una scelta morale?

− Intendi una scelta fra bene e male? Non credo che si possano considerare equivalenti, nemmeno dopo averli considerati con l’opzione 555. Già, non ci avevo pensato…

− Azzardo un’ipotesi, anche perché non credo che noi potremmo fare, qui e ora, un esperimento su vere scelte radicali, come quelle fra un progetto di vita buona e uno

di vita scellerata. Dovremmo, per poterlo fare, trovarci realmente di fronte alla scelta se infrangere o no la legge, ad esempio, e dovremmo avere motivazioni forti, per essere di fronte ad una scelta di questo tipo, non trovi?

− Sì, non saprei proprio, ora, cosa farmi venire in mente. − Quindi non possiamo che avanzare ipotesi. Ne azzardo una: forse, nell’opzione

555, automaticamente le strade “cattive”, “malvagie”, sarebbero messe fuori gioco. − Perché? − Perché se è vero che si prova un’assenza di identità e si è in grado di osservare

con distacco totale le varie alternative non si può andare verso il male. Il male voluto, scelto, implica, credo, un forte, fortissimo senso di sé, il considerare le proprie ragioni più importanti e superiori a quelle della comunità, e più forti di quelle di coloro contro i quali si compie l’azione malvagia o criminosa. Un criminale, un individuo che scelga coscientemente di perseguire il proprio interesse ai danni degli altri, sfruttandoli e opprimendoli o addirittura sopprimendo la loro vita, non può sentirsi privo di identità.

− Ma allora, specularmente, non potremmo dire che anche il buono, il giusto, devono avere un forte senso di sé? Il sentirsi capaci di migliorare il mondo… Te lo immagini un Gesù senza senso di identità?

− Un Gesù no, ma un Buddha nel momento dell’illuminazione sì. Uscire dalla propria identità, dal proprio io, era uno degli obiettivi delle religioni orientali, e si traduceva, nella prassi, in un atteggiamento di piena accettazione della realtà. Chi accetta la realtà così com’è non può fare del male a nessuno.

− Ma nemmeno, mi verrebbe da dire, può fare del bene… − Se riesce a convincere anche gli altri ad accettere la realtà si va verso

l’eliminazione radicale del male. − Ma se la realtà fosse malvagia, almeno in parte? Non ci sarebbe il bisogno di

agire, di fare il bene contro il male, di cambiare le cose? Come si può accettare tutto, se nel tutto è compreso il male?

− Alec! Mi stupisci! Hai una vena metafisica che non mi aspettavo proprio di trovare, in te!

− Oddio, Robert, mi rendo conto che stiamo allontanandoci dall’obiettivo. Voglio scrivere al più presto la mia relazione su questa macchina.

− Ti dirò che avrei molta curiosità di provarla ancora io, ma… mi rendo conto che il lavoro è tanto… Oggi, hai visto, c’è un altro scatolone verde su tavolo delle novità…

Non l’avevo visto. Ma non mi meravigliai più di tanto. Sapevo che i ritmi di produzione della Hoekk erano pazzeschi.

− … Vedrò − concluse Robert − di comprarmene una quando verrà messa in vendita.

La mia relazione fu per molti aspetti decisamente negativa. A parte gli enormi difetti delle istruzioni, sia quelle cartacee (troppo lunghe e difficili) sia quelle in video (incomplete), restava indubitabilmente pericolosa l’opzione 1: l’uso del campo della personalità poteva generare, sostenevo basandomi sulle mie esperienze, stati

confusionali, crisi d’identità. Ma anche nell’ipotesi di eliminare completamente dalle possibili opzioni il campo della personalità restava un problema di fondo: scelte compiute sotto l’effetto della macchina sarebbero state realmente più libere? L’incredibile aumento di consapevolezza delle proprie reali possibilità e motivazioni non generava di per sé una variazione nella personalità? A compiere una scelta enormemente più consapevole rispetto a quella che avrebbe compiuto senza far uso della macchina, non sarebbe quindi stato comunque un altro io?

Quanto all’opzione 2, la presentavo come inconcludente: qualsiasi risultato, argomentavo, era interpretabile in modi diametralmente opposti e restava sempre il dubbio su cosa sarebbe successo iterando l’esperimento molte altre volte.

Nella conclusioni della mia relazione volli però rivalutare la macchina. Se andava scartato, per la pericolosità e la paradossalità dei risultati, il suo utilizzo in relazione all’azione, la ritenevo invece utilissima in relazione alla conoscenza. Uno strumento potentissimo per la conoscenza di sé. Se usata con le dovute cautele avrebbe potuto sostituire egregiamente, suggerivo, un percorso di psicoterapia. E in fondo, mi chiedevo in chiusura, l’aumento della conoscenza di sé, se adeguatamente rielaborata, digerita dal soggetto, non produce forse scelte realmente più libere? In definitiva il problema restava l’accelerazione artificiale di un naturale processo di progressiva presa di coscienza di sé. Acquisire troppo velocemente questa coscienza ne rendeva gli effetti non realmente padroneggiabili dal soggetto. Tutta la potenziale positività sarebbe dunque dipesa dalla capacità di moderazione e gradualità nell’uso della macchina.

Né Robert né io abbiamo avuto notizia che la macchina del libero arbitrio sia mai stata messa sul mercato terrestre. Apparentemente, fu la mia relazione finale a bloccare ogni produzione e ogni vendita. Ma sia io che Robert siamo sicuri che versioni modificate di tale macchina, magari con altri nomi, siano state messe in vendita su altri pianeti, pur non avendo notizie certe in proposito. Forse vogliono provarla su piccoli gruppi sociali prima di immetterla in un mercato umano globale come quello terrestre. Temono, probabilmente, che una sua diffusione massiccia in società standardizzate come quelle attuali possa provocare rivoluzioni, guerre civili, gravi crisi sociali.

Pensano che individui decisamente aperti all’avventura, al cambiamento, alla sperimentazione, alla novità, alla ricerca dell’originalità, al rischio, siano tutto sommato ingovernabili, e che una società composta tutta di individui di questo tipo sia esplosiva. Ma, mi chiedo, hanno ragione? Non possiamo pensare che invece una società di persone con un libero arbitrio spinto ai massimi livelli possa evolvere verso forme politiche sempre più complesse e sempre migliori? Come si può crescere se non si rischia mai? D’altra parte anche rischiare soltanto, senza mai costruire qualcosa di solido e sicuro, finisce per essere logorante e autodistruttivo.

Non escludo, comunque, di vedermi ricomparire davanti, nella vetrina di qualche negozio di bioelettronica, da un giorno all’altro, quella strana macchina, e spero di non aver esagerato con la negatività della mia relazione, togliendo ai dirigenti della Hoekk il coraggio di provare a venderla.