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GIANCARLO ANGELOZZI – CESARINA CASANOVA
La giustizia dei burocrati. La Restaurazione nella Bologna pontificia.
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Indice
Parte I. Gli ordinamenti giudiziari
1. L’organizzazione della giustizia criminale in antico regime.
1a Il Torrone e l’ostilità bolognese alla centralizzazione giudiziaria.
1b Echi del riformismo giuridico settecentesco: il pontificato di Benedetto XIV
2. Bologna negli anni della dominazione francese: un laboratorio politico.
2a Una rivoluzionaria ed effimera restaurazione della libertà bolognese.
2b La giustizia delle Repubbliche e del Regno: il controllo dell’esecutivo.
3. La Restaurazione giudiziaria..
3a Il ripristino delle autonomie di Bologna: una speranza di breve durata
3b Una riforma parziale: il Regolamento giudiziario del 1831.
4. Le criticità del sistema.
4a Inseguendo il miraggio della procedura rapida: un ossessivo controllo burocratico
4b Un organico di indolenti e fannulloni?
Parte II. Dal giudice monocratico ai travet della giustizia.
1. La continuità delle carriere giudiziarie nel passaggio tra Sette e Ottocento.
1a. Nobili e avvocati ai vertici dell’apparato giudiziario.
1b. Mansioni e compensi degli impiegati della giustizia.
2. I governatori nelle comunità.
2a. La giustizia in provincia.
2b. Governatori e notabilato locale
2c. Il declino del conte Boselli.
3. Il protagonismo politico degli avvocati: successi e insuccessi tra ancien régime e
Restaurazione.
3a. Onore e utili.
3b. Tra nostalgie del Regno e rivendicazioni autonomistiche
3c. Contro i“vizi” e i “difetti” dei regolamenti giudiziari.
Conclusioni
3
Parte I. Gli ordinamenti giudiziari
1. L’organizzazione della giustizia criminale in antico regime.
1a. Il Torrone e l’ostilità bolognese alla centralizzazione giudiziaria. Dall’inizio della dominazione
pontificia fino all’arrivo dei francesi nel 1796, l’amministrazione della giustizia a Bologna presenta
i tratti caratteristici del sistema giudiziario degli stati italiani d’antico regime, contraddistinto da
quello che è stato sinteticamente definito “particolarismo giuridico”. Una pluralità di giurisdizioni e
fori, laici ed ecclesiastici, con competenze non ben definite che spesso si sovrapponevano, e una
pluralità di fonti normative, spesso contraddittorie, che costituivano un autentico ginepraio 1. Nel
caso di Bologna il quadro era reso ulteriormente complesso dalla situazione di particolare
autonomia e privilegio di cui la città godeva nell’ambito dello Stato della Chiesa 2: alcuni tribunali
dipendevano dai rappresentanti del potere centrale, altri dal governo cittadino; non esisteva il
fiscale 3, anche perché non si applicava la pena della confisca dei beni dei condannati; le stesse
costituzioni papali, valide per tutto il resto dello stato, non lo erano per Bologna se non recepite in
un bando ad hoc firmato dal legato e dal gonfaloniere in rappresentanza del Senato. Tutti tratti di
distinzione cui il governo cittadino teneva moltissimo e che difese sempre strenuamente 4, ma che
non furono mai riconosciuti pienamente e incondizionatamente dai rappresentanti del potere
centrale, dando luogo a continue frizioni e contestazioni che rendevano ancora più incerti i confini
giurisdizionali e costantemente conflittuale l’amministrazione della giustizia criminale.
Semplificando – e non poco – si può comunque dire che dagli anni Trenta del XVI secolo la
giustizia civile era esercitata in primo grado da un uditore del legato e in secondo da una Rota
formata da cinque giudici nominati dal papa entro una rosa proposta dal Senato, quella commerciale
da un tribunale chiamato Foro dei Mercanti e quella penale da un giudice monocratico,
comunemente noto come uditore del Torrone, perché risiedeva nella torre del palazzo pubblico
dove erano ubicati anche gli uffici giudiziari e le carceri 5.
1 Sul concetto di “particolarismo giuridico”, G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e
codificazione del diritto, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 28-34. Un quadro generale della situazione europea in Lo Stato
moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari, Laterza, 2002; per l’Italia, M. Bellabarba,
La giustizia nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2008; per lo Stato pontificio, G. Santoncini, Il groviglio
giurisdizionale dello Stato ecclesiastico prima dell’occupazione francese, in “Annali dell’Istituto Storico Italo
Germanico in Trento”, XX (1994), pp. 82-102 e I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio
in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2007. 2 Durante l’età moderna Bologna fu governata da un legato, quasi sempre un cardinale, diretto rappresentante del papa –
coadiuvato o, in sua assenza, sostituito da un vicelegato – e da un Senato, composto da quaranta membri, portati a cinquanta da Sisto V, appartenenti alle casate più cospicue per ricchezza e aderenze politiche della città; il Senato era
affiancato da altre magistrature, fra cui rilevavano, per rappresentatività e importanza delle funzioni svolte, Anzianato e
Tribunato della Plebe. Sul governo di Bologna in età moderna, A. De Benedictis, Il governo misto, in Storia di Bologna,
vol. 3. Bologna nell’età moderna, I. Istituzioni, forme del potere, economia e società, a cura di A. Prosperi, Bologna,
Bononia University Press, 2008, pp. 201-269, cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. 3 Era il pubblico ufficiale che in sostanza svolgeva il compito dell’attuale pubblico ministero o dell’avvocato erariale. 4 Sull’autonomismo e “repubblicanesimo” bolognese, A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città
europea nello Stato della Chiesa, Bologna, il Mulino, 1995. 5 A Bologna esisteva anche un tribunale vescovile che aveva competenza sui delitti commessi da ecclesiastici, ma anche
su alcune materie civili e penali riguardanti i laici. Sulla complessa organizzazione della giustizia a Bologna in età
moderna manca ancora uno studio approfondito. Un utile quadro d’insieme da cui partire per ulteriori indagini in M. Cavina, I luoghi della giustizia, in Storia di Bologna, pp. 367-411. Sul tribunale civile del legato non ci sono studi
specifici. Sulla Rota, si vedano A. Gardi, Tecnici del diritto e Stato moderno nel XVI-XVII secolo attraverso documenti
della Rota di Bologna, in “Ricerche storiche”, XIX (1989), pp. 553-584 e i saggi di F. Boris, A. De Benedictis, T. di Zio
e A. Gardi in Grandi tribunali e Rote nell’Italia di antico regime, a cura di M. Sbriccoli e A. Bettoni, Milano, Giuffrè,
1993. Sul Foro dei Mercanti, A. Legnani, La giustizia dei mercanti. L’Universitas mercatorum, campsorum et artificum
di Bologna e i suoi statuti del 1400, Bologna, Bononia University Press, 2005; Id. Diritto particolare e modelli
universali nella giurisdizione mercantile (secoli XIV-XVI) a cura di P. Bonacini e N. Sarti, Bologna, Bononia University
Press, 2008. Sul tribunale del Torrone fino alle riforme lambertiniane G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale
in una città di antico regime. Il tribunale del Torrone di Bologna (secc. XVI–XVII), Bologna, Clueb, 2008.
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L’uditore del Torrone era nominato direttamente dal papa al quale rispondeva del proprio operato,
ma di fatto la sua attività era costantemente sottoposta alla supervisione del legato pro tempore i cui
poteri erano amplissimi, soprattutto in materia di giustizia criminale, tanto che comunemente, anche
se non del tutto propriamente, ci si riferiva a quello criminale come a uno dei tribunali del legato 6.
Inizialmente la giurisdizione del Torrone aveva come confine le mura della città, mentre nel
contado giustizia civile e criminale erano esercitate da ufficiali estratti a sorte fra i diversi ordini cui
erano ascritti gli abitanti di Bologna che godevano della cittadinanza – senatori, gentiluomini,
dottori, mercanti, semplici cittadini 7. Presto però il Torrone si sostituì agli ufficiali di nomina
cittadina, assorbendone le competenze più importanti e lasciando loro solo le cause civili di più
lieve entità. Questo processo, iniziato negli anni Trenta del XVI secolo, ebbe un andamento
piuttosto discontinuo nei decenni seguenti, ma alla fine del secolo era ormai compiuto e definitivo,
nonostante le proteste del Senato.
In seguito all’estensione della giurisdizione del Torrone su tutto il territorio della Legazione, i
massari 8, che amministravano le comunità minori prive di un consiglio, erano tenuti a denunciare
tutti i delitti avvenuti nel territorio della propria comunità ai notai del tribunale criminale. L’uditore,
spesso consultandosi con il legato, decideva poi quali lasciar cadere – in quanto troppo lievi, o
perché le notitiae criminis fornite dal massaro apparivano sin da subito troppo labili rispetto al
lavoro e al costo necessari per avviare un procedimento formale con qualche speranza di successo –
e quali invece perseguire inviando sul posto una cavalcata, cioè una sezione itinerante del tribunale
composta da un sottuditore e/o un notaio con alcuni sbirri, i quali avevano il compito di svolgere le
indagini preliminari e individuare i testimoni del reato. Il processo, qualora nel corso della cavalcata
fossero stati raccolti indizi o prove sufficienti, veniva poi proseguito e concluso nella sede
bolognese del tribunale presso la quale venivano convocati i testimoni.
Il funzionamento del Torrone era regolamentato dalle costituzioni del legato Carlo Borromeo del
1566 9 le quali, sia pur ripetutamente ritoccate, soprattutto per quanto riguardava i compensi dei
notai e la disciplina delle cavalcate, rimasero in vigore fino alla riforma di Benedetto XIV del 1744.
Le costituzioni disponevano che non fosse possibile avviare un procedimento se non su querela di
parte o denuncia di un pubblico ufficiale, tranne per i delitti più gravi, come lesa maestà, assassinio,
incendio doloso, avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai
pubblici ufficiali, per i quali il giudice poteva procedere ex officio, ma sempre previo accertamento
della sussistenza di ragionevoli indizi. Nel primo caso la causa doveva essere interrotta qualora il
querelante decidesse di desistere, ma anche nel secondo l’uditore, d’accordo con il legato, poteva
interrompere in ogni momento il procedimento, anche per delitti gravi come l’omicidio,
6 Sulla figura e sui poteri in temporalibus e in spiritualibus del cardinal legato, A. Gardi, Il cardinal Enrico Caetani e la
legazione di Bologna (1586-1587), Roma, Fondazione Camillo Caetani, 1985; Id., Il cardinal legato come rettore
provinciale, in “Società e Storia”, VIII (1985), pp.1-36; Id., Lo Stato in provincia. L’amministrazione della Legazione
di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1994, pp. 195-239; Id., Il
mutamento di un ruolo. I legati nell’amministrazione interna dello Stato pontificio dal XIV al XVII secolo, in Offices et
Papauté (XIV-XVII siècle). Charges, Hommes, Destins, sous la direction d’A. Jamme et O. Poncet, École Française de
Rome, Roma 2005, pp. 371-407; Id., Cardinale e gentiluomo: le due logiche del legato di Bologna Alessandro Sforza
(1570-1573), in “Società e Storia”, n. 76 (1997), pp. 285-311; U. Mazzone, “Con esatta e cieca obbedienza”. Antonio
Pignatelli cardinal legato di Bologna (1684-1687), in Riforme, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo
XII (1691-1700), a cura di B. Pellegrino, Galatina, Congedo, 1994, pp. 45-94; Id., “Evellant vicia…aedificent virtutes”: il cardinal legato come elemento di disciplinamento dello Stato della Chiesa, in Disciplina dell’anima, disciplina del
corpo e disciplina della società, a cura di P. Prodi, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 691-731. 7 Sugli ufficiali di contado e sullo svuotamento della loro giurisdizione durante la prima età moderna, A. De Benedictis,
Patrizi e comunità. Il governo del contado bolognese nel ‘700, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 57-65 e G. Angelozzi, C.
Casanova, “Una legge ben molte volte vulnerata”. Alcune considerazioni sugli uffici bolognesi dal XVI al XVIII secolo,
in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a cura di A. Prosperi, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 665-704 e La
giustizia criminale, pp. 111-134. 8 Sulle funzioni del massaro A. De Benedictis, Patrizi e comunità, pp. 78-85. 9 Recentiores Turroni Bononiae Constitutiones, Bononiae, Stamperia di Alessandro Benacci, 1566.
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ammettendo l’imputato a “onesta composizione”, cioè al pagamento di una somma pattuita, purché
questi avesse ottenuto la “pace”, cioè il perdono e il ritiro della denuncia, dalla parte lesa.
Il processo del Torrone era di tipo prettamente inquisitorio: gli inquirenti raccoglievano senza
restrizioni le prove a carico dell’imputato e lo interrogavano senza informarlo del capo
d’imputazione, a meno che non decidessero di rivelargli, in parte o tutte, le accuse e le risultanze a
suo carico, per farlo crollare e confessare. Se gli indizi erano abbastanza consistenti, il giudice
poteva disporre che l’accusato fosse sottoposto a tortura, peraltro secondo una procedura che ne
definiva le modalità e ne limitava la durata. Solo alla fine delle indagini, quando cioè gli inquirenti
ritenevano di aver raccolto prove sufficienti per una condanna, il processo veniva pubblicato, cioè
portato a conoscenza dell’imputato e del suo difensore che aveva ben poco tempo – tre giorni, ma
spesso il tribunale concedeva una dilazione – per esaminarlo, fare le sue controdeduzioni e chiedere
di interrogare eventuali testimoni a discarico. La sorte dell’imputato veniva poi decisa, a porte
chiuse ed esclusivamente sulla base delle risultanze delle carte del processo, dalla Congregazione
criminale, di cui facevano parte l’uditore, i sottuditori, il legato e il vicelegato. La sentenza veniva
poi scritta dall’uditore.
Le costituzioni contenevano alcune prescrizioni di sapore “garantista”, come quella di limitare al
massimo la durata della carcerazione degli imputati in attesa di giudizio – la libertà su cauzione
veniva concessa molto raramente – e di evitare gli interrogatori suggestivi, sia dell’accusato che dei
testimoni, ma si trattava solo di raccomandazioni, per di più generiche e senza l’indicazione di
sanzioni per i contravventori. Tutta la procedura era decisamente sbilanciata a favore dell’accusa:
basti pensare che solo raramente la richiesta di interrogare testimoni a discarico dell’imputato
avanzata dall’avvocato dei poveri veniva accolta e comunque, nello stile del Torrone,
contrariamente a quanto disposto dalle costituzioni, sin dagli inizi era invalsa la prassi che ad
interrogarli fosse lo stesso uditore, o comunque il sottuditore che aveva condotto la fase istruttoria.
Inoltre l’appello al papa e a un tribunale romano, teoricamente possibile, era concesso solo in casi
eccezionali, mentre la grazia, gratuita o, più spesso, a titolo oneroso, era in genere concessa dai
legati pro tempore con una certa larghezza 10.
In teoria l’uditore avrebbe dovuto amministrare la giustizia, in prima persona e in tutte le sue fasi,
in un territorio che aveva una superficie di quasi 4000 km quadrati, in buona parte montuoso e
confinante con il ducato di Modena, il granducato di Toscana e le Legazioni di Ferrara e di
Ravenna, abitato da una popolazione che nel corso dell’età moderna passò da poco più di 150.000
abitanti a poco meno di 300.000, distribuiti in circa 150 comunità, alcune di poche decine di anime,
altre che per popolazione, ricchezza e articolazione socio-economica costituivano dei veri e propri
centri urbani. Era evidentemente un compito proibitivo e, nonostante le costituzioni non ne facciano
menzione, almeno dalla metà del XVI secolo il giudice si fece affiancare da uno o due aiutanti, detti
sottuditori, cui affidava l’istruzione dei processi più gravi in contado o l’espletamento delle prime
fasi istruttorie di quelli in città, a meno che non si trattasse di delitti particolarmente efferati o di
cause che rivestivano una certa rilevanza politica. La direzione generale dell’iter processuale, così
come la valutazione delle risultanze e la stesura delle sentenze, sia interlocutorie che definitive,
rimasero tuttavia sempre compito esclusivo dell’uditore.
La scrittura degli atti processuali spettava ai notai attuari, che passarono gradualmente da due a
otto (spesso però coadiuvati da altrettanti aiutanti o sostituti), coordinati da un caponotaio. Ai notai
le costituzioni assegnavano esclusivamente il compito di raccogliere le denunce per sottoporle poi
al giudice, che avrebbe deciso a quali dare corso e quali invece lasciar cadere, e di trascrivere nei
propri registri i verbali degli interrogatori condotti dall’uditore o dai sottuditori. In realtà, a causa
della mole di lavoro che incombeva sul tribunale, molto spesso i notai procedevano essi stessi agli
interrogatori nei processi per delitti poco rilevanti, soprattutto in contado, o agli interrogatori
preliminari nei casi più gravi, sostituendo in tale compito non solo l’uditore ma anche i
10 Sul tema delle grazie concesse dai legati nel XVII e XVIII secolo, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna.
Reati, condanne e grazie, in corso di pubblicazione.
6
sottuditori.Tuttavia il lavoro dei notai era costantemente sottoposto al controllo dell’uditore o di un
sottuditore.
L’uditore criminale, i due sottuditori e il caponotaio ricevevano un salario mensile rispettivamente
di 50 scudi il primo e 20 gli altri, ma per ogni atto processuale eseguito spettava loro un compenso,
detto “propina” o “sportula”– che per i notai era l’unica fonte di remunerazione – quantificato da
un tariffario 11, più volte ritoccato nel corso del XVII e XVIII secolo, e ricavato dalle somme a vario
titolo versate da inquisiti e condannati, il cui ammontare complessivo poteva anche superare di tre o
quattro volte il salario fisso.
Il compito di mantenere l’ordine, dare la caccia a banditi e contumaci, arrestare i sospetti e i
testimoni recalcitranti ed eseguire le perquisizioni, spettava al bargello che veniva nominato dal
legato ma che nel suo operato quotidiano eseguiva gli ordini di uditore e sottuditori. Fino al 1579 il
bargello disponeva di 36 uomini, 16 a cavallo e 20 a piedi che, negli anni Ottanta del XVI secolo,
per far fronte alla piaga del banditismo dilagante, furono portati complessivamente a 150, 100 a
cavallo e 50 a piedi, per essere poi di nuovo ridotti rispettivamente a 30 e 40 alla fine dello stesso
decennio. Bargello e sbirri erano stipendiati dalla Camera di Bologna e anche la loro paga subì
diversi aumenti nel corso del tempo. Al pari di uditore, sottuditori e notai, anche bargello e sbirri,
oltre al salario, ricevevano un compenso per ogni arresto o esecuzione di decreto, cui si
aggiungevano le taglie poste sui contumaci che, nei casi di criminali famosi, potevano ascendere a
somme anche notevoli.
Meno di 100 uomini per mantenere l’ordine e coadiuvare gli inquirenti del Torrone, in una città e
in un territorio popolosi ed esteso come quello della Legazione di Bologna che, come abbiamo
detto, comprendeva anche una vasta e aspra zona montuosa di confine, erano veramente pochi 12. Si
deve però ricordare che il tribunale criminale era validamente supportato dai massari delle comunità
di contado e dai loro compagni – cioè i contadini eletti per affiancarli nelle loro mansioni, di solito
poche unità – che avevano funzioni di polizia piuttosto rilevanti. Quando la cavalcata arrivava sul
luogo del delitto, molto spesso il massaro aveva già raccolto a caldo le testimonianze e le voci più
importanti e, non di rado, arrestato gli indiziati 13.
Il tribunale del Torrone, che aveva sostituito quello del podestà 14, giudice anch’esso monocratico
che aveva amministrato la giustizia in età tardo comunale e durante la signoria dei Bentivoglio,
ma che era nominato dagli organi del governo cittadino, rappresentò agli occhi del Senato
bolognese, almeno fino agli anni delle riforme lambertiniane di metà ‘700, la manifestazione più
odiosa del dispotismo romano e una grave minaccia per gli spazi di autonomia e i privilegi più
preziosi di cui godeva – o pretendeva di godere – la città anche dopo la sua annessione allo Stato
della Chiesa 15.
11 Salarii sì del magnifico signore auditore del Torrone, et suo sottouditore, come anco del caponotaio, et suoi sustituti
et notarii cavalcanti, et lor mercedi, et altri ordini per detti notari da osservarsi, Bologna, A. Benacci, 1580. 12 Un’esilità che peraltro non era un tratto peculiare di Bologna e neppure, in generale, dello Stato pontificio. Sulla
consistenza, fama e presunta inefficienza delle forze di polizia nell’Italia moderna, La polizia in Italia nell’età moderna,
a cura di L. Antonielli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.), a
cura di L. Antonielli e C. Donati, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; per lo Stato pontificio, Criminalità e polizia
nello Stato pontificio (1770-1820), a cura di L. Cajani, numero monografico di “Archivi e Cultura”, XXX, nuova serie,
1997. 13 Tuttavia i rapporti fra massari e sbirri raramente erano cordiali. I casi di diverbio erano frequenti e spesso sfociavano
in atti di violenza. I massari, che costituivano una sorta d’interfaccia fra autorità centrale e comunità, inevitabilmente
condividevano, almeno in parte, l’ostilità della popolazione contadina nei confronti delle forze di polizia. 14 Sul tribunale del podestà, M.Vallerani, L’amministrazione della giustizia a Bologna in età podestarile, in “Atti e
Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, n.s., vol. XLIII, 1992, pp. 291-316 e Id., La
giustizia pubblica medievale, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 113-166. 15 La natura del governo di Bologna e dei suoi rapporti con il potere centrale, anche in tempi recenti, è stata oggetto di
un vivace dibattito, caratterizzato da opinioni fortemente divaricate. Ci limitiamo a ricordare i contributi più
significativi: P. Colliva, Bologna dal XIV al XVIII secolo: “governo misto” o signoria senatoria?, in Storia della
Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, vol. II, Bologna, Bologna University Press, 1977, pp. 13-34; P. Prodi, Il sovrano
pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2006 (prima
edizione 1982); A. Gardi, Lo Stato in provincia; A. De Benedictis, Repubblica per contratto; N. Reinhardt, Quanto è
7
In ogni caso, sin dagli anni Trenta del XVI secolo, era evidente che, almeno in un ambito del
governo di grande rilevanza politica, economica e sociale e di altissimo valore simbolico come
l’amministrazione della giustizia criminale, i poteri legatizi e quelli del Senato e delle magistrature
cittadine non erano affatto paritari. Il Torrone era la dimostrazione concreta di come i Padroni
romani, pur disposti a concedere alla seconda città dello stato privilegi ed esenzioni anche rilevanti,
non condividessero affatto l’interpretazione senatoria secondo cui il rapporto fra Santa Sede e
Bologna era simmetrico e di carattere contrattuale e avessero nella capacità di autogoverno del
patriziato della città suddita una fiducia non incondizionata.
Di fatto il tribunale criminale fu l’istituzione su cui si scaricavano gli umori antiromani e le
nostalgie “repubblicane” di parte non piccola del ceto senatorio e cittadino, anche quando le
frustrazioni e le tensioni non erano originate da questioni strettamente legate all’amministrazione
della giustizia. Per tutto il XVI e XVII, e fino agli inizi del XVIII secolo, l’imponente carteggio fra
Senato e ambasciatore bolognese residente a Roma 16 è in rilevante misura occupato dalle proteste,
sempre le stesse, reiterate con toni ora supplichevoli, ora esasperati, ora aggressivi, contro il
comportamento del Torrone e degli sbirri. Un flusso continuo di rimostranze e accuse che,
soprattutto nei decenni centrali del XVII secolo, non di rado chiamavano in causa, talora con toni
tanto espliciti da scandalizzare la corte romana e suscitare la reazione sdegnata e minacciosa di
pontefici e Segretari di Stato, la corresponsabilità dei legati.
I componenti del tribunale criminale, dall’uditore all’ultimo dei notai, erano accusati soprattutto
di corruzione ed avidità e di costruire processi anche per i reati più lievi, che a norma delle
costituzioni avrebbero dovuto essere liquidati con un non luogo a procedere, per moltiplicare le
proprie propine; di prolungare artificiosamente la detenzione degli imputati per costringerli a
“comporsi”; di adottare – contro quanto prescritto dalle costituzioni – tecniche di interrogatorio
suggestive per indurre imputati e testimoni a confessare o a testimoniare il falso; di ricorrere con
troppa facilità ed eccessiva brutalità alla tortura.
Le accuse più frequentemente rivolte al bargello e agli sbirri erano invece quelle di dimostrarsi
vili e inefficienti quando si trattava di contrastare banditi e criminali incalliti e inutilmente brutali
nei confronti invece di poveri disgraziati colpevoli di reati di lieve entità o del tutto occasionali e
involontari; di estorcere con la violenza o le minacce, e sotto i più vari pretesti, indebite
contribuzioni in denaro o in generi alimentari, soprattutto dai contadini delle zone montuose o di
confine, meno capaci degli abitanti della città di far giungere la propria voce al legato o al governo
cittadino; di esercitare, in proprio o in combutta con altri, contrabbandi, frodi e malversazioni di
ogni genere; di assicurare l’impunità ai peggiori farabutti in cambio di denaro o favori.
Tuttavia, nei confronti del preteso dispotismo del Torrone il governo cittadino non era del tutto
privo di strumenti di difesa. Tutti gli imputati, purché non contumaci, avevano diritto al patrocinio
gratuito. La figura dell’avvocato dei poveri, istituita stabilmente nel 1599, godeva di un grande
prestigio; scelto dal papa all’interno di una terna proposta dai dottori dei Collegi canonico e civile di
Bologna, era sempre un cittadino bolognese. Insieme al procuratore dei poveri, egli aveva il diritto
di prendere visione di tutti i processi, una volta conclusasi la fase istruttoria, con un congruo
anticipo rispetto all’emissione della sentenza, di adire senza restrizioni all’uditore per chiedergli
chiarimenti o per segnalargli eventuali irregolarità, lacune o incongruenze del procedimento e di
partecipare, senza diritto di voto, alla Congregazione criminale. Nessun imputato poteva inoltre
essere sottoposto a tortura senza aver ascoltato il parere dell’avvocato.
Inoltre il Senato aveva la facoltà, concessa da Gregorio XIII, e confermata da Gregorio XV, di
partecipare con due propri rappresentanti, accompagnati da altri magistrati cittadini, alla periodica
visita delle carceri fatta da legato e vicelegato e dai loro giudici civili e criminali, durante la quale si
differente Bologna? La città tra amici, padroni e miti all’inizio del Seicento, in “Dimensioni e problemi della ricerca
storica”, n. 2/2001, pp. 107-146. 16 Bologna godeva dell’ambito privilegio di avere un proprio ambasciatore a Roma che poteva adire direttamente al
pontefice nelle udienze ordinarie e straordinarie, così come al Segretario di Stato e agli altri ufficiali della burocrazia
romana, rappresentando perciò in maniera particolarmente efficace le istanze e le rimostranze della città.
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decideva, con procedura abbreviata, la sorte degli imputati per i delitti meno gravi e si ascoltavano
eventuali richieste o lamentele dei carcerati.
Lo strumento “istituzionale” di controllo della giustizia criminale, teoricamente veramente
efficace, che il governo cittadino possedeva era però il “sindacato” dell’uditore, dei sottuditori del
Torrone e del bargello, l’esame cioè del loro operato allo scadere della carica da parte di un collegio
giudicante designato dal Senato. In realtà, tuttavia, i limiti della giurisdizione dei sindacatori
rimasero sempre incerti e oggetto di contenzioso, e tutti i tentativi di estenderne le competenze in
direzione di un vero e proprio scrutinio del modo in cui il tribunale e il bargello avevano esercitato
il proprio ufficio – che inevitabilmente avrebbe chiamato in causa le responsabilità del legato,
quanto meno per non aver esercitato una attenta vigilanza sull’operato dei propri sottoposti – si
scontrarono con la intransigente opposizione della curia romana e si conclusero con cocenti
sconfitte.
1b. Echi del riformismo giuridico settecentesco: il pontificato di Benedetto XIV. Fino al secondo
decennio del Settecento la conflittualità fra governo cittadino e legati in materia di giustizia
criminale continuò ad essere acuta, riproponendo tutti i motivi di scontro che si erano manifestati
nei due secoli precedenti. In seguito però si attenuò fino a che, durante il pontificato di Benedetto
XIV, fu possibile varare una riforma complessiva della giustizia civile e criminale 17 che incontrò la
piena soddisfazione del Senato, tanto che esso chiese ed ottenne che nel preambolo delle
costituzioni stesse si esplicitasse che si trattava di provvedimenti pienamente condivisi.
In realtà si può usare il termine riforma per qualificare l’intervento operato da Benedetto XIV
sulla giustizia, quanto meno su quella criminale, solo con qualche cautela. Le costituzioni
lambertiniane complessivamente non introdussero, né volevano farlo, particolari novità. Esse
miravano piuttosto a riportare in vigore norme, usi e garanzie che erano cadute in desuetudine o
erano state svuotate dagli “abusi” di legati e uditori del Torrone. In questo senso esse erano la
risposta, finalmente positiva, a molte – non tutte – le proteste e le richieste avanzate dal Senato
bolognese nei decenni precedenti e rimaste in massima parte inascoltate e insoddisfatte, ma non
costituivano tanto la traduzione a livello normativo delle idee del protoriformismo giuridico
settecentesco, quanto la ricezione di una raccomandazione alla moderazione e alla mitezza ben
presente nella cultura giuridica dello stato pontificio 18.
Tuttavia non si deve sottovalutare il fatto che le costituzioni, richiamando in vigore in un unico
testo, relativamente breve ma chiaro ed organico, tutta una serie di prescrizioni contenute in
costituzioni papali, bandi e decreti legatizi precedenti, spesso dimenticati, di difficile reperibilità e
fra loro contraddittori, o semplicemente affidate alla consuetudine e sempre soggette a
contestazione, realizzavano una almeno parziale razionalizzazione del sistema e chiarivano molti
punti controversi rimasti irrisolti nei decenni precedenti. Si deve inoltre sottolineare che le norme
recuperate e convalidate e le poche nuove misure introdotte andavano quasi tutte, cautamente ma
coerentemente, in una direzione che potremmo definire garantista.
17 I lavori della commissione incaricata dal pontefice, e da lui stesso presieduta, iniziarono nell’estate del 1742 e si
conclusero nella primavera del 1744 con la pubblicazione de Le cinque constitutioni del Santissimo Signor Nostro
Benedetto XIV, Sommo Pontefice sopra la riforma della Curia civile e criminale di Bologna, Bologna, Stamperia di
Clemente Maria Sassi successore del Benacci, 1744. Tre delle cinque costituzioni erano dedicate esclusivamente o
prevalentemente a materie riguardanti la giustizia criminale, in particolare la disciplina delle cavalcate, della visita dei
carcerati, della congregazione criminale e delle infrazioni alla normativa annonaria. Sulla riforma lambertiniana G.
Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo e le riforme di Benedetto XIV, Bologna,
CLUEB, 2010. 18 Ci limitiamo a ricordare il trattato di Giovan Battista Scanaroli De Visitatione carceratorum libri tres, pubblicato a
Roma dalla tipografia della Camera Apostolica nel 1655. Scanaroli, che per quarant’anni fu procuratore della
Congregazione della Carità di Roma, che si occupava principalmente dell’assistenza ai detenuti, nel contesto di una
appassionata difesa dei diritti degli imputati, fra l’altro esprime seri dubbi sulla liceità e utilità della tortura e
raccomanda di applicarla il meno possibile e comunque con regole e limiti ben precisi.
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Severe disposizioni furono infatti impartite per fare in modo che i cursori, incaricati di consegnare
le citazioni del Torrone, facessero scrupolosamente il proprio lavoro per evitare, come capitava
spesso, che un imputato si trovasse nella scomoda posizione di contumace, o un testimone risultasse
essersi rifiutato di comparire, solo perché non gli era stato notificata la convocazione del tribunale.
Non di rado infatti i cursori, soprattutto d’inverno e nelle zone di montagna, consegnavano le
citazioni con grande ritardo, o non le consegnavano affatto, pur intascandosi la mercede prevista. Fu
ribadito il divieto di infiltrare tra i carcerati sbirri o altre persone prezzolate dal Torrone che
suggerissero loro di confessare il delitto o, ai testimoni, “altre circostanze per la prova del delitto”,
in quanto contrario alle leggi e alla coscienza, precisando che se estorte in questo modo le
confessioni e le prove sarebbero state nulle e i trasgressori puniti ad arbitrio del legato.
Una delle accuse che più di frequente erano mosse al Torrone era quella di trattare i testimoni a
carico e a discarico in maniera non equa, infliggendo a quelli a favore dell’imputato, con i più
diversi pretesti, lunghe detenzioni per indurli a deporre nel senso desiderato dagli inquirenti. Su
questo punto la normativa preesistente era piuttosto generica e le costituzioni intervennero in
maniera energica, chiarendo che i testimoni a discarico potevano essere carcerati solo ove si fossero
raccolte prove o indizi sufficienti per incriminarli a loro volta per falsa testimonianza.
Un’altra accusa mossa ai notai che verbalizzavano i processi era quella di non rileggere le
deposizioni a imputati e testimoni e di non farle loro confermare e firmare col proprio nome o con
una croce convalidata da due testimoni. In questo caso si trattava di un evidente abuso, perché le
prescrizioni in materia erano chiare. Le costituzioni ribadirono tale obbligo, pena la nullità di tutte
le deposizioni e dichiarazione non convalidate. Infine fu confermato l’assoluto divieto di applicare
la tortura senza aver prima acquisito il parere dell’avvocato dei poveri, che doveva valutare se gli
indizi raccolti a carico dell’imputato erano sufficienti per sottoporlo ai torment i, e del perito
chirurgo che doveva accertare se era in grado di sopportarli senza riportare danni gravi o
permanenti.
Altre disposizioni riguardavano la condizione dei carcerati. Furono confermate le
raccomandazione già contenuta nelle costituzioni borromaiche di limitare al massimo la durata della
carcerazione preventiva e quindi di chiudere i processi al più presto possibile; di evitare qualsiasi
forma di maltrattamento o di violenza ingiustificata; di tenere le celle il più pulite e arieggiate
possibile; di provvedere al vitto dei carcerati che non potevano farlo a proprie spese. La prassi che
prevedeva l’assoluto isolamento in segreta durante tutta la fase dell’istruttoria fu mantenuta in
vigore, ma mitigata dalla possibilità per il carcerato di conferire con il procuratore dei poveri, o con
un parente stretto, per provvedere a interessi personali o familiari importanti e urgenti. L’incontro
doveva però avvenire alla presenza di un ufficiale del Torrone per evitare lo scambio
d’informazioni e istruzioni relative al processo.
Particolarmente importanti erano le prescrizioni riguardanti la visita dei carcerati. La visita, come
già accennato, era stata istituita da Gregorio XIII e avrebbe potuto costituire uno strumento
abbastanza efficace di controllo dell’operato del tribunale criminale, ma dalle fonti da noi esaminate
si ricava l’impressione che essa fosse caduta in desuetudine già dagli inizi del XVII secolo, in parte
per gli ostacoli frapposti da uditori e legati, in parte per lo scarso entusiasmo mostrato dalle autorità
cittadine per un compito impegnativo e poco gradevole. Le costituzioni la reintrodussero con
qualche modifica: ne resero più agile la composizione limitando la presenza dei rappresentanti della
città ai due senatori, ma la resero obbligatoria almeno una volta al mese e soprattutto concessero ai
detenuti la possibilità di conferire con i due senatori privatamente, lontano dagli occhi e dalle
orecchie degli ufficiali del Torrone, facilitando così la denuncia di eventuali abusi e irregolarità. La
possibilità di conferire con i due senatori fu estesa anche ai detenuti in regime d’isolamento, in
questo caso però il colloquio doveva avvenire alla presenza di un sottuditore o di un notaio. Dopo la
riforma lambertiniana la visita in effetti si svolse abbastanza regolarmente con la partecipazione dei
due senatori previsti dalle costituzioni, accompagnati da un notaio che redigeva un accurato verbale
in cui erano annotate le richieste e lamentele dei carcerati, e le criticità eventualmente riscontrate
nella gestione del carcere e nel trattamento dei detenuti.
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Di grande rilievo erano poi le misure riguardanti i diritti della difesa degli imputati e le modalità
con le quali doveva agire il collegio giudicante, ma anche in questo caso si trattava soprattutto del
ripristino di pratiche e norme cadute in desuetudine. Agli imputati fu riconosciuto il diritto di
scegliersi un difensore di propria fiducia, contro l’uso invalso ormai da lungo tempo di ammettere
alla difesa solo l’avvocato e il procuratore dei poveri. Fu ribadito però che solo i due difensori di
ufficio potevano presenziare alla Congregazione criminale, senza diritto di voto, ma fu altresì
precisato che essi avevano diritto di partecipare alla discussione dei casi all’ordine del giorno
dall’inizio alla fine. Alcuni legati avevano infatti preteso che i difensori si limitassero a presentare
le loro argomentazioni a favore degli imputati all’inizio della seduta per poi allontanarsi, senza
poter partecipare alla discussione e assistere alla decisione finale.
Per fare in modo che il collegio giudicante arrivasse preparato alla discussione in Congregazione,
furono inoltre definitivamente approvati il “ristretto” e la “congregazioncina”: si trattava di pratiche
che alcuni legati in anni recenti avevano adottato di propria iniziativa, ma che non erano previste
dalle costituzioni e dallo “stile” del Torrone. Benedetto XIV, ritenendole estremamente utili, pur
consapevole che avrebbero accresciuto notevolmente il carico di lavoro del tribunale, volle renderle
obbligatorie. Il ristretto era il riassunto scritto delle cause da decidere in congregazione che il capo
notaio doveva far pervenire a tutti i membri del collegio giudicante con un congruo anticipo; la
“congregazioncina” era una riunione informale, alla quale partecipavano l’uditore, i sottuditori,
l’avvocato e il procuratore dei poveri, in cui si discutevano i punti dubbi e controversi dei processi
da portare alla congregazione successiva.
Anche nei confronti dei contumaci, le cui cause venivano decise non in Congregazione, ma dal
solo uditore senza obbligo di consultarsi con l’avvocato dei poveri, fu introdotta una misura di
carattere garantista, l’obbligo cioè di giudicare anche i loro casi nella Congregazione criminale
qualora fossero imputati di reati passibili della pena capitale. In concreto la norma riguardava un
numero notevole di imputati perché secondo la legislazione bannimentale, in presenza di
circostanze aggravanti, ad esempio la recidiva, era possibile infliggere la pena di morte per una
gamma molto ampia di reati, anche se raramente, almeno nel XVIII secolo, tale possibilità veniva
utilizzata, e ancor più raramente le sentenze capitali, anche se pronunciate, venivano eseguite.19 In
realtà, nella prassi del Torrone già da tempo si era introdotto l’uso di sospendere l’esecuzione della
condanna a morte o alla galera nel caso di latitanti caduti nelle mani della giustizia, permettendo
loro di godere della difesa come tutti gli altri imputati, ma era la prima volta che una misura
chiaramente volta ad attenuare la sommarietà del giudizio in contumacia, riportandolo alla
procedura normale, veniva introdotta in una norma di legge.
Le costituzioni lambertiniane intervennero anche sul delicato tema del sindacato, e anche in
questo caso vennero incontro alle richieste avanzate dal Senato nei decenni precedenti, rimuovendo
alcuni degli abusi più frequenti commessi dai legati per proteggere i propri sottoposti dal giudizio
sul loro operato e sciogliendo una serie di punti controversi su cui fino a quel momento nessun
pontefice aveva voluto pronunciarsi in maniera netta 20.
Per tutti questi motivi non è dunque improprio parlare di riforma lambertiniana, e come tale
comunque la accolsero – con entusiasmo autentico – i ceti dirigenti bolognesi, per i quali, da quel
momento, il Torrone cessò di essere una presenza estranea, ostile e oppressiva e cominciò invece a
essere visto come il baluardo più rassicurante contro una micro criminalità diffusa, alimentata dalla
crisi dei settori produttivi tradizionali e dalla crescente povertà, che minacciava in modo sempre più
aggressivo le loro persone e i loro beni 21.
19 Le sentenze capitali eseguite a Bologna furono 57 dal 1700 al 1750, 27 dal 1751 al 1796. 20 Benedetto XIV era particolarmente sensibile al problema del sindacato. Molti anni prima della sua ascesa al soglio
pontificio egli infatti aveva coordinato il collegio legale che aveva difeso le ragioni di Bologna nel sindacato contro il
sottuditore del Torrone Bartolomeo Lotti, protetto e sostenuto da gran parte della curia romana. Il processo Lotti si era
concluso con una umiliante sconfitta per Bologna e per Prospero Lambertini. Su questo episodio G. Angelozzi, C.
Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 113-124. 21 Sul problema della povertà nel ‘700 bolognese F. Giusberti, Poveri bolognesi, poveri forestieri e poveri inventati: un
progetto di “rinchiudimento” nel XVIII secolo, in “Storia urbana”, n. 13, 1980, pp. 31-54 e Id., La città assistenziale:
11
Come abbiamo detto, la pluralità delle fonti normative era una delle caratteristiche del
“particolarismo giuridico” di antico regime che precedette l’età delle codificazioni. Per quel che
riguarda il criminale la situazione, apparentemente, era più semplice. Le norme statutarie – lo
statuto cittadino risaliva al 1454 – non erano mai state formalmente abrogate 22, neppure dopo
l’inserimento di Bologna nello Stato della Chiesa ma, di fatto, non avevano più alcuna validità. Il
ricorso al diritto comune rimaneva teoricamente possibile e a esso fece, raramente, riferimento
l’avvocato dei poveri per contestare decisioni del tribunale ritenute troppo rigorose o arbitrarie. In
concreto però l’unica fonte normativa, per quel che riguardava la definizione del reato e
l’applicazione della pena, era la legislazione bannimentale, ed esclusivamente ad essa facevano
riferimento le sentenze emesse dall’uditore del Torrone. Tuttavia il corpus bannimentale, a causa
del sistematico ricorso alla etero integrazione 23, costituiva un groviglio inestricabile. Ogni legato,
oltre a pubblicare una serie di bandi su materie particolari, al momento dell’assunzione della carica
emetteva un bando generale, in cui venivano elencate e sanzionate le diverse fattispecie criminali.
Ogni bando, particolare o generale, non sostituiva però quelli precedenti, cui anzi rimandava, per le
materie in esso non esplicitamente disciplinate. La legislazione criminale si costruiva perciò per
accumulo e sovrapposizioni, ingenerando inevitabilmente confusione e incertezza. Già agli inizi del
XVII secolo la situazione era ormai ingestibile e il legato Benedetto Giustiniani, senza però
abrogare il principio della eterointegrazione, procedette a un riordino della normativa criminale con
un bando generale 24 che costituì il riferimento della legislazione successiva fino alla metà del
XVIII secolo.
Tuttavia alla fine del XVII secolo la situazione era di nuovo critica, come il Senato denunciò più
volte chiedendo, invano, provvedimenti:
Conoscendosi per esperienza quanto sia dannosa l’introduttione di confermare nel principio d’ogni legatione con
una general confermatione li bandi precedenti [...] perché detti bandi sono di numero infiniti, altri fra di loro contrari, altri publicati per occasioni particolari, e terminate, altri antichissimi tanto che di loro se n’è appresso
tutti perduta la memoria, altri per la loro conosciuta impratticabilità posti affatto in disuso, altri concepiti con
equivoci intricatissimi, altri pieni di conditioni e cautele strettissime, in maniera tale che con tanta confusione
riesce impossibile ancora a chiunque camina con ogni rettitudine il non cadere in qualche leggiera
contraventione 25.
La richiesta di razionalizzazione e semplificazione della legislazione bannimentale fu finalmente
accolta durante il pontificato di Benedetto XIV che aveva già provveduto alla riforma di quella
romana nel 1754, a completamento di una serie di interventi riguardanti diversi aspetti del
funzionamento della giustizia 26. Nel 1756, il legato Fabrizio Serbelloni pubblicò un nuovo bando
generale redatto, in due anni di lavoro, da una commissione composta da alcuni senatori,
dall’uditore del Torrone Filippo Mirogli e dall’avvocato dei poveri Luigi Nicoli. Come nel caso
riflessioni su un sistema piramidale, in Forme e soggetti dell’intervento assistenziale in una città di antico regime,
Bologna, Istituto per la storia di Bologna, vol. 2, 1986, pp. 13-29; sui rapporti fra pauperizzazione, criminalità e politica
della giustizia criminale, G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 139-144. 22 A. De Benedictis, L’applicazione degli statuti bolognesi del 1454 nella pratica giudiziario-amministrativa del ‘600-
‘700, Bologna, Archivio di Stato di Bologna, 1989. 23 Sul principio di eterointegrazione, per cui un testo normativo non è esaustivo e autosufficiente, ma rimanda ad altri,
G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 515-517. 24 Bando generale dell’ill.mo e rev. mo signor Benedetto cardinal Giustiniani legato di Bologna, pubblicato alli 23
giugno e reiterato alli 24 luglio 1610, Bologna, Vittorio Benacci. 25 Archivio di Stato di Bologna (di seguito ASB), Ambasciata, Memoriali, vol. 3, 14 novembre 1676. 26 La portata complessiva delle riforme di Benedetto XIV in materia di giustizia è stata forse sottovalutata e attende
ancora di essere studiata con un’ottica più attenta alle dinamiche di lungo periodo. Di questa opinione sembra G.
Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia. La riforma dell’amministrazione della giustizia
criminale nei lavori preparatori del Motu Proprio del 1816, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 11-12.
12
delle costituzioni del Torrone, il nuovo bando generale era frutto della collaborazione fra governo
cittadino e rappresentanti del papa 27.
A esigenze di semplificazione, coerenza, chiarezza della norma ed equità e moderazione della
pena faceva riferimento il bando nel proemio, riconoscendo che il bando Giustiniani era ormai
abbisognevole di rimodernazione, perché alcune delle sue disposizioni erano troppo esorbitanti dal gius comune,
e non eseguibili giusta il presente sistema di giudicare nelli Tribunali supremi di questo Stato Ecclesiastico, altre
non corrispondenti alli posteriori Bandi, e Costituzioni Apostoliche, ed altre non adattabili al costume presente.28
Quello di Serbelloni era certo un bando generale, nel solco della tradizione dello Stato pontificio,
non certo un codice di cui non aveva l’autosufficienza – il principio di eterointegrazione rimaneva
in vigore – né la sistematicità 29, e tuttavia per certi aspetti esso può essere considerato un passo
significativo in direzione della codificazione e una cauta apertura nei confronti di alcuni principi
che possiamo genericamente qualificare come riconducibili al riformismo giuridico settecentesco 30,
Si trattava infatti di un testo che, malgrado lo spazio ancora attribuito all’arbitrium 31 del giudice,
in qualche misura risentiva delle suggestioni contemporanee «vers l’idée du renforcement des
principes de légalité dans l’incrimination des delinquants, afin que l’exécution de leurs peines soit
le moins possible marquée par l’arbitraire de leurs juges» 32 e, a tal fine, si sforzava di definire con
la massima precisione possibile, più di quanto non avesse fatto il bando Giustiniani 33, la tipologia
dei reati, le circostanze attenuanti ed aggravanti e le pene relative, riducendo così di fatto i margini
di discrezionalità del giudice. L’impressione che se ne ricava è quella di una concezione della
giustizia meno incline alle pene draconiane ed esemplari del secolo precedente, suggerita dalla
convinzione che quella bolognese – quanto meno negli strati medio alti – fosse ormai una società
generalmente meno violenta rispetto a quella governata centocinquanta anni prima dal cardinal
Giustiniani 34.
La tendenza a introdurre elementi di garantismo e di attenuazione degli aspetti più arbitrari e
feroci della legislazione preesistente, evidente nel bando, non si traduce però in una significativa e
sistematica mitigazione delle pene che anzi, per alcuni delitti che destano particolare riprovazione o
allarme sociale, risultano addirittura aggravate. Le pene corporali, così come la pena di morte,
anche con modalità atroci, come il tanagliamento con ferri roventi, il mazzolamento e lo
squartamento del cadavere, per i delitti più gravi come il parricidio o l’assassinio proditorio,
vengono confermate. Rispetto al bando Giustiniani, in quello Serbelloni c’è però una più precisa e
minuta classificazione dei reati di sangue, delle circostanze aggravanti ed attenuanti e delle relative
pene, il cui scopo evidente è quello di circoscrivere l’arbitrio del giudice. Tuttavia è anche evidente
l’intento di sanzionare con durezza ogni forma di violenza contro la persona, riducendo il peso di
circostanze attenuanti come l’ira, l’ubriachezza, l’umore e l’intelletto alterato che, nella prassi del
27 Bando generale della legazione di Bologna e suo contado fatto publicare li 12 ottobre 1756 dall’Eminentissimo e
Reverendissimo sig. Cardinale Fabrizio Serbelloni, Legato a latere di detta Città, in Bologna, per Clemente Maria
Sassi Successore del Benacci per la Stamperia Camerale. Per una più puntuale trattazione dei lavori preparatori del
bando Serbelloni e dei suoi contenuti, G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale in una città di antico regime,
pp. 219-246. 28 Bando Serbelloni, pp. 1-2. 29 Per una definizione di codice e una sintetica storia della codificazione, G. Tarello, Storia della cultura giuridica
moderna, pp. 18-47. 30 Sul riformismo giuridico settecentesco, Beccaria et la culture juridique des lumières, études historiques éditées et présentées par Michel Porret, Genève, Librairie Droz, 1997. 31 Sul principio della discrezionalità del giudice e sulla sua importanza nel diritto medievale e moderno, M. Meccarelli,
Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, Giuffré, 1998. 32 M. Porret, Une peine en «juste proportion du crime»: le rôle du procureur général de Genève dans la limitation de
l’arbitraire (1760-1790), in Beccaria et la culture juridique des lumières, p. 253. 33 Il bando Giustiniani consta di 38 capitoli, quello Serbelloni di 68. 34 Sulla pacificazione della società bolognese nel XVII e XVIII secolo, G. Angelozzi, C. Casanova, La nobiltà
disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, Bologna,
Clueb, 2003.
13
Torrone, avevano in molti casi risparmiato i rigori delle pene ordinarie a colpevoli anche di delitti
efferati 35.
Ancora più evidente è l’adozione di una linea rigorista nei confronti del furto, per il quale, in caso
di circostanze aggravanti quali la recidiva, l’effrazione, o l’elevato valore dei beni rubati, si arrivava
a comminare la pena capitale. Pene tanto dure, che il legato sentì il bisogno di giustificarle:
non v’è paragone fra la gravezza dell’omicidio, e quella del furto [...] perché non proporzionata è al valore di
pochi bajocchi la vita di un suddito [...] ma se così lo è, per qual motivo dunque il furto forza il Principe egualmente, che l’omicidio ad esercitar contro di esso ogni rigore, ed in alcune circostanze a punirlo con egual
pena di morte?
A questa domanda retorica Serbelloni risponde che il furto rispetto all’omicidio “è di sua natura
reiterabile” e “seguendone la frequenza” diventa perniciosissimo.36 Sono norme che vogliono
evidentemente dare una risposta rassicurante all’allarme sociale determinato dal problema di una
diffusa microcriminalità provocata dalla disoccupazione e dalla miseria, che in quegli anni si stava
facendo sempre più acuto. Vanno nella stessa direzione, tenere la città “purgata” da tutti gli
elementi indesiderabili, le disposizioni relative all’espulsione di oziosi e vagabondi e di questuanti
troppo aggressivi e molesti, che peraltro non fanno che confermare i tanti inutili bandi emanati in
materia nei due secoli precedenti.
Non è però opportuno valutare il bando Serbelloni esclusivamente con il metro della severità delle
pene e della riduzione dello spazio riservato alla discrezionalità del giudice. In esso, rispetto al
bando Giustiniani, è possibile rintracciare rilevanti elementi di “modernità” che sembrano anticipare
tematiche che avranno ampio sviluppo nella legislazione criminale del XIX secolo. In primo luogo
la trattazione di alcune fattispecie di reati economici che, definiti e trattati molto genericamente nel
bando Giustiniani, sono affrontati da Serbelloni con un’analiticità che denota la volontà di normare
una sfera divenuta sempre più complessa e sfuggente, e la capacità di maneggiare con padronanza
l’imponente trattatistica che si era misurata con i diversi aspetti tecnici, giuridici e morali delle
profonde trasformazioni intervenute nell’economia e nella società nel secolo e mezzo che
intercorreva fra i due bandi 37. Il notevole spessore tecnico e culturale del bando Serbelloni si ricava
ad esempio dalla puntuale analisi di reati come truffa, ricettazione, monopolio, concussione e
falsificazione.
Per molti aspetti tuttavia il bando Serbelloni rimane ancorato ai valori e alla cultura di una società
aristocratica in cui anche la giustizia ha connotazioni cetuali. Nel trattare, minutamente, i reati
contro l’onorabilità delle persone si precisa ad esempio che le offese contro i nobili o contro le
donne oneste sono più gravi e meritano pene più severe di quelle che colpiscono le persone comuni
o le prostitute. Al furto, alla truffa, al danneggiamento commesso dai servitori o dai contadini
contro i loro padroni, si dedica un capitolo a parte, nonostante si tratti di fattispecie già trattate
ampiamente in altri capitoli del bando. Tuttavia, è soprattutto per la volontà di disciplinare in ogni
più minuto aspetto i comportamenti individuali e sociali che il bando Serbelloni si situa in una sorta
di terra di confine fra le disposizioni pontificie dei decenni precedenti volte a imporre a tutte le
classi sociali una sorta di galateo cristiano e gli asfissianti regolamenti di polizia della
Restaurazione ossessivamente preoccupati di prevenire e reprimere qualsiasi atto suscettibile di
turbare l’ordine pubblico.
35 Bando Serbelloni, pp. 29-30. 36 Ivi, p. 55. 37 Su tale trattatistica, P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna, il Mulino,
2009 cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.
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2. Bologna negli anni della dominazione francese: un laboratorio politico.
2a. Una rivoluzionaria ed effimera restaurazione della libertà bolognese. Il 18 giugno 1796 le
truppe francesi entrarono in Bologna e il 20 il generale Bonaparte, con un discorso pubblico tenuto
nella sala in cui si riuniva il Senato, promise che avrebbe restituito alla città la sua antica libertà
repubblicana.
Informato anche prima del suo arrivo delle antiche prerogative e privilegi lasciati alla città e provincia quando
venne in potere dei Pontefici e come questi erano stati in ogni tempo lesi affermò inoltre che avrebbe restituito alla città stessa la sostanza del suo antico governo; laonde restava abolita ogni autorità vigilante sin qui e
concentravasi per ora tutto il potere legislativo e governativo nel Senato onde dar luogo a più matura
deliberazione per ridonare alla città, dipendentemente anche dall’opinione pubblica, quella forma di governo che
si approssimasse all’antica.38
Parole che riecheggiavano, e accoglievano, le rivendicazioni dell’antica libertas che per due secoli
il Senato bolognese aveva tenacemente avanzato contro il dispotismo pontificio. Per alcuni mesi in
effetti il governo cittadino, sia pure sotto il controllo delle truppe francesi, tornò nelle mani del
Senato che nominò una giunta con il compito di redigere una costituzione che, non senza qualche
vivace polemica riguardante soprattutto l’eccessiva dipendenza da quella francese del 1795, il
ruolo della chiesa cattolica e quello delle corporazioni di mestiere, fu approvata il 4 dicembre del
1796 39.
La Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino con cui essa si apriva, ricalcava
alla lettera quella della Costituzione francese del 1795 in cui il tema del rapporto del cittadino con
la giustizia criminale trovava ampio rilievo: si affermava infatti che “niuno può essere citato,
accusato, arrestato, o detenuto, fuorché nei casi, e giusta la forma prescritta dalla legge” (art. VIII);
che “ogni rigore men che necessario per assicurarsi della persona dell’imputato deve essere
severamente vietato dalle legge” (art. X); che “niuno può essere condannato senza prima essere
ascoltato, o legalmente citato” (art. XI); che “la legge non deve determinar pene che non siano
rigorosamente necessarie e proporzionate al delitto” e che “qualunque rigore diretto ad aggravare la
pena decretata dalla legge è un delitto” (art. XI e XII); che nessuna legge può avere effetto
retroattivo (art. XV).
Solenni affermazioni di principio che, nel testo costituzionale del 1795, dopo la drammatica
esperienza del Terrore, ripetevano quelle della costituzione del 1789 e avevano un significato
preciso di rottura rispetto alla tradizione giudiziaria dell’antico regime francese 40. Si trattava
tuttavia di prescrizioni che, nella sostanza, non rappresentavano una vera discontinuità rispetto alle
costituzioni e alla prassi del tribunale del Torrone, né al bando generale di Serbelloni, tranne forse
per la nettezza con cui si prescriveva di ridurre al minimo necessario le pene, e non solo di
adeguarle alla gravità del delitto, richiamo chiaro all’opera di Beccaria e più in generale a temi dell’
“illuminismo penale” 41 che nella cultura giuridica dello Stato pontificio non avevano mai trovato
piena accoglienza 42.
38 Il discorso di Napoleone e i successivi provvedimenti presi per conferire al Senato il potere esecutivo e legislativo in
Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’ingresso delle truppe francesi accaduto il XVIII
giugno MDCCXCVI, in Bologna, nella stamperia camerale, parte I. 39 Sulla costituzione bolognese del 1796, A. De Benedictis, Bologna nello Stato della Chiesa secondo il diritto delle
genti e il diritto pubblico (1780-1831), in Storia di Bologna, vol. 4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, a cura di A. Berselli e A. Varni, Bologna, Bononia University Press, 2010, pp. 150-156. Una ricostruzione dei lavori preparatori
in A. Fantazzini, Le istituzioni giudiziarie bolognesi nell’età rivoluzionaria e il sistema della cassazione nella
procedura civile cispadana, tesi di laurea discussa nell’a.a. 2002-3 presso la Facolta di Lettere e Filosofia di Bologna,
relatrice F. Sofia, pp. 56-70. Il testo della costituzione bolognese, così come di quelle successive, è in Le costituzioni
italiane, a cura di A. Aquarone, M. D’Addio, G. Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1958. 40 Una sintetica e chiara esposizione della organizzazione giuridica della Francia di antico regime in G. Tarello, Storia
della cultura giuridica moderna, pp. 69-84. 41 L’espressione “illuminismo penale” è adottata da G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 383-484. 42 G. Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, p. 10.
15
Notevoli novità troviamo invece nel capitolo IX che disciplinava l’ordinamento giudiziario della
neonata repubblica bolognese, seguendo anche in questo caso le linee guida del modello francese,
ma con non pochi adattamenti alla tradizione locale. Rispetto al passato costituivano una decisa
cesura l’introduzione della separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; la collegialità
del tribunale 43, composto di giudici eletti dal potere legislativo e non dall’esecutivo; la pubblicità
del dibattimento e il diritto dell’imputato di conoscere il capo di accusa, farsi assistere da un
difensore e chiedere di ascoltare testimoni a discarico fin dall’inizio del procedimento; la
distinzione del giudizio in tre fasi nettamente distinte – sulla fondatezza o meno dell’accusa, sulla
natura e qualità del delitto, sulla pena da applicare – la abolizione dell’arbitrium del giudice, la
previsione infine dell’ istituto dell’appello che, nel criminale, era praticamente sconosciuto nella
prassi giudiziaria dello Stato pontificio. Di notevole rilievo era infine la creazione, nei centri più
importanti del territorio della Repubblica, di una figura nuova, il giudice di pace, incaricato di
esperire la conciliazione fra le parti e, in caso di fallimento, di giudicare sommariamente i reati più
lievi. Anch’essa derivava dal modello rivoluzionario francese, ma non era del tutto estranea a
pratiche e istituzioni precedenti 44.
Appartenevano invece piuttosto al passato la conservazione dell’obbligo per i giudici di sottoporsi
a sindacato alla fine del mandato; la perpetuazione delle cavalcate, di cui si aboliva l’odiato nome,
ma non la sostanza, prevedendosi, nei casi in cui il tribunale lo ritenesse necessario, l’invio di un
processante e un notaio per svolgere le prime indagini sul luogo del delitto in collaborazione con il
locale giudice di pace; l’obbligo per il difensore pubblico – che aveva ereditato le funzioni
dell’avvocato dei poveri – di difendere indifferentemente tutti gli imputati, anche quando si fossero
scelti un difensore di propria fiducia. La costituzione bolognese infine mantenne in vigore la pena di
morte, mentre dichiarò abolita la tortura, che peraltro, nella prassi del Torrone nella seconda metà
del ‘700, era divenuta molto rara 45. Quanto alla legislazione penale, in attesa di redigerne una
nuova, veniva confermata, “compatibilmente coll’attuale governo”, quella in vigore sotto il
precedente 46 e infatti, in perfetta continuità con le disposizioni in materia previste dal bando
Serbelloni, nel luglio si ingiungeva a “forestieri oziosi, vagabondi e questuanti che non siano in
grado di mantenersi” di lasciare la città entro tre giorni, pena un mese di carcere o addirittura tre
anni di lavori forzati per coloro che, una volta espulsi, vi fossero tornati 47.
La repubblica bolognese durò pochi mesi e la sua costituzione non entrò mai in vigore.
Nonostante le resistenze dei suoi delegati al congresso di Modena, Bologna dovette entrare a far
parte della Repubblica cispadana, la cui costituzione fu promulgata il 19 marzo del 1797 48. Come
quella bolognese, la costituzione cispadana riprendeva integralmente la Dichiarazione dei diritti e
doveri dell’uomo e del cittadino e nel titolo X, riguardante il potere giudiziario, trattando della
giustizia correttiva e criminale, dedicava ben undici articoli – tutti di univoca ispirazione garantista
– alla disciplina dell’arresto e detenzione dei sospettati, introducendo fra l’altro l’istituto della
libertà provvisoria su cauzione che poteva essere concessa solo per i reati minori che erano però i
43 Il tribunale era composto da un presidente, un pubblico censore (accusatore), dodici giudici del fatto, tre del diritto,
tre processanti, tre assessori, un pubblico difensore, un procuratore e un sollecitatore (art. 150) 44 Il giudice di pace è figura importata dalla Francia: e tuttavia le funzioni attribuitegli, ad esempio quella di collaborare
alle indagini svolte dalla sezione itinerante del tribunale, sono in parte riconducibili a quelle dei massari di antico
regime, mentre quella di conciliazione appare come l’istituzionalizzazione di pratiche di pacificazione e negoziazione
ben presenti nella tradizione, non solo bolognese, di antico regime. La storiografia su queste tematiche è ormai molto
vasta, ci limitiamo perciò a rimandare al bilancio e alla messa a punto metodologica di M. Sbriccoli in, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessione su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in
Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età
moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Schwerhoff e A. Zorzi, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 345-364, e Giustizia
criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, pp. 163-205, e a Stringere la pace. Teorie e pratiche
della conciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII), a cura di P. Broggio e M. P. Paoli, Roma, Viella, 2011. 45 Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 152-153. 46 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte II, pp. 19-20. 47 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte III, pp. 4-5. 48 G. De Vergottini, la costituzione della repubblica cispadana, Firenze, Sansoni, 1946.
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più numerosi. Si trattava di una norma di rilevante impatto perché consentiva di rendere meno
drammatico il problema della durata del processo, limitando la carcerazione ai casi più gravi, ma
che non rappresentava un’assoluta novità rispetto alla prassi del Torrone 49. Si ribadivano inoltre i
principi della netta separazione fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario e della pubblicità del
dibattimento e della sentenza – che doveva essere motivata – nei tribunali collegiali, già presenti
nella costituzione bolognese, e si introduceva quello della gratuità della amministrazione della
giustizia. L’amministrazione della giustizia era decentrata e articolata sul territorio, suddiviso
secondo il modello francese in dipartimenti, cantoni, circondari e sezioni e demandata a giudici
monocratici o a tribunali collegiali, a seconda della gravità del delitto e della pena prevista,
adottando uno schema organizzativo dell’apparato giudiziario che sarà mantenuto anche durante la
Restaurazione.
L’istituto dell’arbitrato fra le parti, inappellabile, era previsto solo per le cause civili, ma non per
quelle penali come nella costituzione bolognese. I delitti che comportavano una pena non superiore
ai tre giorni di prigione erano di competenza dei giudici di pace, uno o più per cantone, eletti dai
cittadini per due anni e immediatamente rinnovabili, che decidevano anche le cause civili di più
lieve entità. I delitti per cui erano previste pene non superiori a due anni di carcere erano invece di
competenza di tribunali correzionali, composti da un presidente, eletto ogni anno dai cittadini del
cantone e rinnovabile, due giudici di pace, un commissario rappresentante il potere esecutivo e un
cancelliere, tribunali di cui si prevedeva l’erezione in ogni dipartimento, e il cui numero e
ubicazione sarebbe stata decisa con apposita legge. Le sentenze pronunciate dal correzionale erano
appellabili presso il Tribunale criminale, mentre non lo erano quelle dei giudici di pace 50.
Per i delitti più gravi, era prevista la costituzione di due giury presso ogni tribunale correzionale:
il primo, detto di accusa, doveva giudicare sulla ammissibilità, il secondo, detto di giudizio e
composto di almeno dodici membri, sulla fondatezza della accusa. L’accusato aveva il diritto di
ricusare un certo numero di giurati, senza doverne addurre i motivi. La determinazione della pena
spettava però al tribunale criminale, che deliberava in segreto, istituito in ogni capoluogo di
dipartimento e composto da almeno tre giudici del tribunale civile, da un accusatore pubblico, da un
commissario dell’esecutivo e da un cancelliere. Compito del commissario era di vigilare sulla
regolarità formale di tutto il procedimento e di sollecitare l’esecuzione delle sentenze.
La costituzione prevedeva anche l’istituzione di un tribunale di cassazione con la facoltà di
annullare, per vizi di forma o contravvenzione della legge, le sentenze inappellabili, e di decidere
sulle richieste di rinvio del giudizio da un tribunale a un altro per legittimo sospetto o motivi di
sicurezza pubblica; non si specificava però se le sue competenze si estendessero anche alle cause
criminali.
La costituzione cispadana recepiva dunque in molti punti lo spirito garantista e democratico delle
costituzioni francesi del 1789 e 1793, introducendo norme precise e rigorose volte a proteggere i
cittadini da ogni abuso, stabilendo i principi della elettività dei giudici, del pubblico dibattimento e
della motivazione della sentenza, introducendo la doppia giuria popolare e prevedendo
l’appellabilità dal tribunale correzionale a quello criminale. Con palese contraddizione non era
49 Era nella facoltà del legato e dell’uditore del Torrone concedere, previa fideiussione, gli arresti domiciliari oppure
scarcerare l’imputato con “precetto de se representando”, di ripresentarsi cioè a ogni richiesta del tribunale. In genere
tale trattamento era riservato a imputati eccellenti che potevano permettersi fideiussioni consistenti, ma non di rado lo
abbiamo trovato applicato anche a persone comuni e certo non ricche. 50 Bologna fu divisa in quattro cantoni – S. Maria Maggiore, S. Domenico, S. Francesco e S. Giacomo – ciascuno con
un giudice di pace. Il territorio del dipartimento fu diviso in nove circondari: Castel San Pietro; Medicina con Castel
Guelfo e Villa Fontana; Budrio, con Molinella e Bagnarola; San Giorgio, con Minerbio e Baricella; Bisenzo, con
Castiglione e Mercatale; Bazzano e Crespellano; Vergato e Venola; Porretta e Silla; Loiano e Scaricalasino, ciascuno
con un giudice di pace. Il tribunale criminale del dipartimento del Reno aveva sede a Bologna, i quattro tribunali
correzionali a Bologna, Medicina, Vergato e Loiano, cfr. Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XVIII, pp. 12-13
e Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica
Cisalpina, in Bologna, eredi Sassi, parte XV, pp. 110-115 e parte XXII, pp. 12-13.
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prevista l’appellabilità, se non per vizi di forma alla Cassazione, per le sentenze del tribunale
criminale che pure poteva irrogare le pene più gravi fino a quella capitale, ma in questo caso l’
inappellabilità era in larga misura bilanciata dai due giudizi preventivi delle giurie.
Come la costituzione bolognese, anche quella Cispadana rimase sulla carta a causa della creazione
della Repubblica Cisalpina la cui costituzione fu fatta approvare da Napoleone in fretta e furia l’8
luglio 1797 e fu poi sostituita da un’altra, di impronta decisamente più autoritaria, imposta dal
ministro francese Trouvé con la minaccia delle armi il 1 settembre 1798. Entrambe, peraltro, in
materia di giustizia criminale non introducevano novità rilevanti rispetto al testo costituzionale
cispadano.
Subito dopo l’approvazione della nuova costituzione della Cisalpina, con apposita legge
pubblicata il 2 settembre del 1798 fu però meglio definita l’organizzazione dei tribunali e della
polizia giudiziaria 51. Si stabiliva che in ogni distretto, comprendente diversi comuni, in cui erano
divisi i dipartimenti, ci dovesse essere un giudice di pace, con quattro assessori, due dei quali
dovevano coadiuvarlo nel disbrigo della giustizia criminale per i reati più lievi, costituendo il
tribunale di polizia. Si prevedeva però la possibilità di suddividere i comuni con una popolazione
superiore ai 15.000 abitanti in diverse circoscrizioni ciascuna delle quali con un proprio giudice di
pace. I giudici di pace e i loro assessori criminali, per lo svolgimento delle indagini, potevano
contare sull’assistenza della polizia giudiziaria, alle dipendenze degli agenti municipali nei comuni
con meno di 10.000 abitanti e di un commissario in quelli con popolazione superiore. In ogni
dipartimento dovevano esserci tre tribunali correzionali composti ciascuno da un presidente, da due
giudici di pace del comune in cui era insediato il tribunale – o dal giudice di pace e un suo assessore
nei comuni in cui c’era un solo giudice di pace –, un commissario del Direttorio e un cancelliere.
Le sentenze dei tribunali correzionali erano appellabili su istanza del condannato, della parte
querelante, o del commissario. Le istanze di appello venivano decise dal presidente del tribunale
criminale e da due giudici di quello civile che potevano rigettare l’istanza o annullare la sentenza
del correzionale. In tal caso, se l’annullamento era deciso per motivi di merito, il giudizio veniva
rinviato al correzionale che l’aveva pronunciato; se invece l’annullamento era motivato da vizi di
forma la causa veniva affidata ad un altro correzionale dello stesso dipartimento che doveva rifare il
procedimento a partire dal primo atto dichiarato nullo. Anche dopo il giudizio di appello era
comunque prevista la possibilità del ricorso in cassazione.
In ogni dipartimento c’era infine un tribunale criminale, composto da un presidente, da due
giudici del tribunale civile presi a turni di tre mesi e da un accusatore pubblico. Il compito del
tribunale era esclusivamente quello di applicare le pene previste dalla legge per i delitti di cui il
giury di giudizio aveva riconosciuto colpevole l’accusato. In ciascun dipartimento erano previsti tre
giury di accusa, ciascuno composto da otto giurati e presieduto dal presidente del corrispondente
tribunale correzionale. I giurati dovevano assistere al processo pubblico tenuto presso il
correzionale e decidere, in segreto e a maggioranza semplice, se l’accusa mossa all’imputato era
ammissibile o meno. Nel caso il verdetto fosse sfavorevole all’imputato, un nuovo dibattimento
pubblico aveva luogo presso il tribunale criminale alla presenza del giury di giudizio composto da
dodici membri, che si pronunciava, sempre in segreto e a maggioranza semplice, sulla colpevolezza
o meno dell’accusato. I giurati erano estratti a sorte ogni tre mesi all’interno di tre liste, ciascuna
comprendente cento nomi scelti dall’amministrazione dipartimentale, e gli imputati avevano il
diritto di ricusare fino a venti giurati di giudizio, senza addurne i motivi, rendendo così necessarie
più estrazioni successive. Si trattava di una norma decisamente garantista, ma come abbiamo detto
l’istituto della giuria rimase sulla carta.
2b. La giustizia delle Repubbliche e del Regno: il controllo dell’esecutivo. D’altra parte anche
l’organizzazione dei tribunali e della polizia giudiziaria, previsto dalla legge del settembre 1798,
rimase praticamente inattuata a causa della disastrosa situazione finanziaria della giovane
51 Legge sull’organizzazione de’ Tribunali, in Raccolta delle leggi, editti, proclami pubblicati in Bologna, anno VI,
parte I, pp. 32-68.
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repubblica, dissanguata dalle esorbitanti contribuzioni di guerra imposte dalle autorità militari
francesi, e dei drammatici avvenimenti del 1799. Assunto il controllo della Cisalpina, gli austriaci
infatti smantellarono immediatamente quel poco del sistema giudiziario costituzionale che era stato
realizzato, ripristinando la situazione precedente l’arrivo dei francesi 52.
Napoleone riprese il controllo dell’Italia settentrionale nel giugno del 1800, ma la guerra
continuava e la situazione nei territori della Cisalpina, il cui governo provvisorio fu affidato a una
commissione straordinaria, che aveva fra l’altro il compito di avviare la riorganizzazione del
sistema giudiziario, rimase ancora confusa e incerta fino alla pace di Lunéville del 9 febbraio 1801.
Alla fine del 1800 l’amministrazione della giustizia versava ancora in una situazione di sostanziale
paralisi 53.
La costituzione della Repubblica italiana approvata dalla Consulta di Lione il 26 gennaio 1802 54,
e la successiva legge relativa alla organizzazione, giurisdizione, competenze e funzioni dei tribunali
emanata il 22 luglio dello stesso anno 55, introdussero rilevanti elementi di novità. Nella
costituzione l’istituto del giury veniva confermato, ma se ne fissava la attivazione “non più lontana
di dieci anni” 56; in realtà le giurie, come abbiamo detto estranee alla tradizione giuridica italiana,
non entrarono mai in funzione e nella costituzione del Regno di Italia del 1805 non se ne fece più
menzione. In quanto ai giudici, sia civili che criminali, continuavano ad essere formalmente elettivi
quelli dei tribunali di cassazione e di revisione, ma da parte dei tre collegi elettorali dei dotti, dei
possidenti e dei commercianti, un corpo composto di appena settecento persone per tutta la
Repubblica; tutti gli altri erano invece nominati dalla Consulta all’interno di una lista di nomi
fornita dai presidenti dei tribunali di cassazione, di revisione e di appello. La loro carica, la cui
durata nelle costituzioni cisalpine era stata fissata in sei anni, diveniva vitalizia, ma si prevedeva
che i giudici potessero essere sospesi o destituiti per mancanze relative al loro ufficio, a giudizio
insindacabile del gran giudice nazionale, cioè il ministro della giustizia, nominato a vita dal
presidente della Repubblica. L’amministrazione della giustizia, dopo le aperture democratiche del
periodo giacobino, tornava a essere monopolio di un corpo di professionisti nominati da un corpo
elettorale molto ristretto e controllati dal potere esecutivo 57 e tale linea di tendenza venne in seguito
ribadita e rafforzata dalla costituzione del Regno che demandava la nomina dei giudici direttamente
al sovrano 58.
52 A Bologna ad esempio furono aboliti i giudici di pace e il tribunale criminale e ripristinati gli antichi uffici da utile,
l’uditore del Torrone e il tribunale arcivescovile, cfr. Serie degli editti, bandi e leggi promulgate in Bologna dopo il
felice ingresso delle regie truppe di S.M.I.A seguito il giorno 30 giugno 1799, t. I, p. 8; t. III, pp. 48-49; t. V, pp. 40-43;
t. VI, pp. 57-59; t. XI, p. 42. 53 Collezione delle leggi, proclami ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi seguito il 28
giugno 1800, per le stampe del Sassi, parte X, p. 17. 54 Sulla Consulta di Lione A. Varni, La Consulta di Lione e la Costituzione del 1802, in “Rivista di Studi Napoleonici”,
n. 28-29, 1971, pp. 16-43. 55 Legge relativa alla organizzazione, giurisdizione, competenze e funzioni dei Tribunali, in Bollettino delle leggi della
Repubblica Italiana, 1802, pp. 157-160. 56 I problemi della giustizia criminale, a differenza di quella civile, non furono molto dibattuti dai deputati della
Consulta. Una delle questioni più discusse fu appunto quella delle giurie. Molti deputati, fra cui Marescalchi, Aldini,
Melzi e Serbelloni si dichiararono sempre piuttosto scettici sull’opportunità di introdurle nella costituzione,
argomentando che era necessario procedere prima alla uniformazione e codificazione della legislazione dei diversi
territori che erano confluiti nella Repubblica italiana. Alla fine però si convenne di inserire nel testo costituzionale le due giurie rimandandone però di fatto sine die l’attivazione e aumentando semmai il numero dei componenti dei
tribunali in modo che potessero dividersi in sezioni per sveltire i procedimenti. Della giuria si fece menzione solo “per
risvegliare nel popolo un’idea di questa istituzione”, come annotarono i deputati del Piemonte e della Valtellina, cfr. I
Comizi nazionali in Lione per la Costituzione della Repubblica italiana, a cura di U. Da Como, Bologna, Zanichelli,
1934-38, vol. 1, pp. 254, 261, 295, 571; vol. 2, p. 170. 57 A. Varni, La Consulta di Lione, pp. 41-42. 58 G. Alessi, Il processo penale, pp. 151-163 e P. Alvazzi del Frate, Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari, pp.
41-42. In genere sui rapporti fra potere politico e potere giudiziario nell’Europa moderna e contemporanea, Magistrati e
potere nella storia europea, a cura di R. Romanelli, Bologna, il Mulino, 1997.
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La legge del 22 luglio ridisegnò invece il sistema dei tribunali: fino a quando non fossero state
costituite le giurie previste dalla costituzione, la giustizia punitiva sarebbe stata esercitata dai pretori
– l’istituto del giudice di pace non aveva mai trovato attuazione perché ritenuto troppo costoso e
poco efficiente – dai luogotenenti, dai tribunali di appello, uno in ciascun capoluogo di dipartimento
e, in alcuni casi, dai tribunali di revisione, due per tutta la Repubblica, con sede a Bologna e a
Milano, e dalla cassazione istituita a Milano.
I pretori, almeno uno per ogni capoluogo di dipartimento e per ogni comune con popolazione
superiore ai 50.000 abitanti, e i loro luogotenenti dislocati nei comuni più piccoli, avrebbero
giudicato sommariamente i delitti per cui erano previste pene non superiori a 100 lire di multa e 15
giorni di carcere, salva sempre la possibilità di ricorso al tribunale di appello. Nei casi in cui la pena
prevista fosse superiore, ma comunque inferiore a un anno di detenzione, il pretore, o un suo
luogotenente, avrebbe istruito il processo “col metodo ordinario”, e la sentenza sarebbe stata poi
pronunciata collegialmente dal pretore e da due suoi luogotenenti, udito l’accusatore pubblico e il
procuratore nazionale. Anche in questo caso era previsto il ricorso al tribunale di appello. Nei casi
di pena detentiva superiore a un anno il processo informativo sarebbe stato istruito dal pretore o da
un luogotenente, dopodiché gli atti del processo sarebbero stati trasmessi al tribunale di appello,
insieme a un parere, puramente consultivo, del pretore stesso e di due suoi luogotenenti. La
sentenza sarebbe stata pronunciata dal tribunale, dopo un pubblico dibattimento in cui dovevano
essere ascoltate le parti, il difensore dell’accusato e il procuratore nazionale.
Era previsto che dal tribunale di appello si potesse appellare alla cassazione, ma solo per nullità
degli atti per vizi di forma o manifesta contravvenzione della legge. Nel caso tuttavia di una
condanna pronunciata dal tribunale nei confronti di un imputato assolto in prima istanza, oppure
trasmesso al tribunale con voto assolutorio del pretore e dei suoi luogotenenti, era prevista la
possibilità di ricorrere al tribunale di revisione di competenza su richiesta del condannato o del
procuratore.
La legge faceva inoltre obbligo ai pretori di inviare ogni mese al tribunale di appello l’elenco
degli arrestati con data e motivo dell’arresto e una breve relazione sullo stato del processo e ogni
anno un estratto delle sentenze e dei voti consultivi. Il tribunale avrebbe poi trasmesso tali relazioni
periodiche al commissario di governo insediato presso il tribunale stesso, il cui compito era appunto
quello di controllare che l’apparato giudiziario funzionasse a dovere. Iniziava così una prassi di
monitoraggio del funzionamento della giustizia che, come vedremo, avrebbe avuto grande fortuna,
e imprevedibili conseguenze, durante la Restaurazione 59.
L’attivazione del sistema giudiziario previsto dalla costituzione e dalla legge del 1802, come
peraltro l’organizzazione amministrativa della Repubblica, procedette tuttavia con lentezza e
difficoltà 60. Ancora nel marzo del 1804 il ministro della giustizia Bonaventura Spannocchi doveva
riconoscere che molto si era fatto, ma che molto rimaneva da fare e che il sistema giudiziario aveva
ancora un assetto provvisorio 61. Tale rimase in effetti fino al Regolamento organico 62 del 1807 che
modificò in maniera incisiva l’assetto stabilito nel 1802 reintroducendo il giudice di pace al posto
del pretore, e istituendo in ogni dipartimento una corte di prima istanza che, articolata in sezioni
decentrate nelle località più importanti del dipartimento stesso, svolgeva la funzione di tribunale
correzionale per i reati punibili fino a due anni di carcere, e, nella sua pienezza – cioè con la
partecipazione di almeno otto giudici – deliberava in materia di alto criminale, cioè per i reati più
gravi.
59 La legge non lo prevedeva, ma presto fu fatto obbligo ai commissari di governo di spedire al ministro della giustizia
una relazione mensile sul funzionamento dei tribunali di appello. La circolare del ministro spedita il 6 agosto 1802
ricordava infatti che non vi era “oggetto che più vivamente interessi il mio istituto quanto quello di invigilare perché
l’amministrazione della giustizia, massimamente nelle materie criminali, ottenga il corso più celere e regolare”, cfr.
Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, 1802, p. 227. 60 L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e regno d’Italia, Bologna, il Mulino, 1983. 61 Foglio officiale della Repubblica Italiana, anno III, pp. 11-15. 62 Regolamento organico della giustizia civile e punitiva pubblicato il 13 giugno del 1807, in Bollettino delle leggi della
Repubblica Italiana, 1806, parte II, pp. 625-663.
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Caratteri di provvisorietà conservarono a lungo anche le norme di procedura del processo penale e
la stessa legislazione penale sostanziale. Nonostante sin dalla costituzione della Cispadana il
problema della codificazione fosse stato avvertito come urgente, solo nel 1807 fu varato il codice di
procedura preceduto da una sistemazione provvisoria, in attesa del codice che sarebbe entrato in
vigore solo il 1 gennaio 1811, della normativa penale. I numerosi tentativi di riformare la procedura
compiuti fra 1797 e 1807 infatti fallirono, oppure produssero esiti parziali o ritenuti non pienamente
soddisfacenti, o non applicabili a causa della disorganizzazione dell’apparato giudiziario.63 Fino al
1807 perciò i sempre auspicati uniformazione e adeguamento ai principi costituzionali dei sistemi
giudiziari rimasero più un’aspirazione che una realtà e di fatto, per tutti gli aspetti non disciplinati
dai provvedimenti cui abbiamo fatto cenno, si continuò a fare riferimento alle norme e alle prassi
seguite dai tribunali esistenti prima dell’arrivo dei francesi 64.
Il codice di procedura del 1807 distingueva fra delitti pubblici e privati: per i primi l’azione
penale procedeva d’ufficio ed era promossa presso i giudici di pace dal locale commissario di
polizia e presso i tribunali correzionali e criminali dai procuratori regi, rappresentanti del governo,
che avevano anche il compito di controllare la regolarità dei procedimenti, di vegliare
sull’osservanza delle leggi e delle procedure e sul rispetto delle competenze giurisdizionali, di
sollecitare la spedizione delle cause e l’esecuzione delle sentenze; per i secondi l’azione penale
poteva essere avviata solo su istanza della parte offesa per tutelare il proprio interesse civile.
Il processo era diviso nettamente in due fasi: quella istruttoria, che sostanzialmente seguiva il
modello inquisitorio di antico regime, contraddistinto dalla scrittura degli atti e dalla segretezza, e
quella dibattimentale, orale e pubblica. A sua volta la fase istruttoria era divisa in due parti:
l’informazione preliminare, con cui le autorità di polizia con procedura rapida e relativamente
informale raccoglievano le prime notizie sul fatto delittuoso e ne assicuravano alla giustizia il
presunto autore, e l’istruzione regolare, consistente nelle ricognizioni del luogo e del corpo del
delitto, negli interrogatori dei sospettati e dei testimoni e nell’espletamento di ogni altro
adempimento processuale. L’istruzione regolare era condotta con procedura relativamente
sommaria, ma sempre per iscritto, dal giudice di pace nelle cause di polizia o, con procedura invece
molto formalizzata, pena la nullità degli atti, da un giudice istruttore, che in nessun caso poteva
essere uno dei giudici incaricati di sentenziare, designato dal presidente del tribunale nelle cause
correzionali e criminali. Di sapore garantista era la disposizione, innovativa rispetto al tradizionale
processo inquisitorio, secondo la quale, per i reati più gravi di competenza del tribunale criminale,
nella fase finale dell’istruttoria veniva consentito all’imputato di prendere visione degli atti
processuali e di farsi assistere da un difensore per chiedere eventualmente l’acquisizione di altre
prove e testimonianze prima della chiusura dell’istruttoria stessa. Seguiva la fase dibattimentale,
pubblica, in cui si dava lettura della citazione e dei processi verbali, si ascoltavano le parti e i loro
testimoni e infine le conclusioni del pubblico ministero e del difensore dell’imputato.
Terminata la fase dibattimentale, il tribunale deliberava collegialmente e in segreto pronunciando
un giudizio di fatto, sulla sussistenza o meno delle prove a carico dell’imputato, e uno di diritto, l’
applicazione cioè della pena prevista dalla legge. In camera di consiglio, abolito il sistema della
63 I tentativi più importanti di codificazione furono le Leggi organiche giudiciarie della Repubblica Cisalpina del 3 agosto 1797, pubblicate a Milano da Pirola e Veladini e a Bologna dal Sassi, la già ricordata legge del 22 luglio 1802 e
la Legge sugli omicidi, le ferite e i furti, e sulle prove e sull’applicazione delle pene del 25 febbraio 1804, in Bollettino
delle leggi della Repubblica Italiana, 1804, pp. 86-112. Sul lungo lavorio che lo precedette e per una puntuale analisi
del Codice, E. Dezza, Il codice di procedura penale. 64 Nei dipartimenti dell’Olona, Lario, Alto Po e Mincio fino al 1807 si continuò a seguire la legge interinale emanata da
Giuseppe II nel 1786, che dal 1804 fu introdotta anche in quelli del Serio, Reno, Mella, Basso Po e Agogna; nei
dipartimenti del Crostolo, Panaro e Rubicone si continuarono invece a seguire le vecchie norme. Le conseguenze di tali
difformità erano gravi soprattutto nel caso dei procedimenti portati in appello ai Tribunali di Revisione e a quello di
Cassazione, giudicati in prima istanza da corti che applicavano procedure diverse.
21
prova legale 65, prevalente nel processo penale di antico regime assieme all’arbitrium dell’uditore,
si applicava il principio del libero convincimento del giudice, bilanciato però, sia nella fase
istruttoria che in quella dibattimentale, da una disciplina severa e marcatamente garantista della
raccolta, classificazione e valutazione delle prove, secondo regole formali precise e dettagliate.
Mentre delle sentenze pronunciate dal correzionale si poteva appellare al tribunale criminale, per
quelle pronunciate da quest’ultimo si poteva ricorrere alla Cassazione per vizi di forma o
contravvenzione della legge, oppure al tribunale d’appello, ma solo in caso di pena capitale. Nel
complesso, quello del 1807, era un codice di procedura che presentava elementi di chiarezza e
coerenza, ma anche criticità e contraddizioni perché derivava
dal rapporto tra due coordinate che possono essere individuate da un lato nel principio di libertà (ovvero nella
garanzia dei diritti individuali), e dall’altro nel principio di autorità (ovvero nelle ragioni di difesa dello stato e
della società, peraltro non sempre coincidenti).66
Questa ricerca di un equilibrio fra diritti individuali e ragion di stato non era invece la cifra del
codice penale italico del 1811, pura e semplice traduzione di quello francese del 1810, ispirato da
un’antropologia cupa e pessimista, ben diversa dall’ottimismo filantropico e dalla mitezza del
codice del 1791. Il codice del 1810
è l’imponente monumento legislativo di un assolutismo di ritorno ove il principio di legalità e i suoi corollari
sono funzionalizzati a un rigoroso disegno statualistico: siamo di fronte a una macchina da guerra al servizio del
cesarismo napoleonico e insieme a uno strumento imperialistico di impressionante potenza.67
Il codice distingueva fra diversi gradi e tipologie della pena: afflittive e infamanti, come quella di
morte, i lavori forzati a vita e a tempo, la deportazione, la reclusione, il marchio a fuoco e la
confisca dei beni; solo infamanti, come la berlina, il bando e la degradazione civica; correzionali,
quali la detenzione per periodi relativamente brevi, l’interdizione temporanea da alcuni diritti civici,
la multa. Tuttavia la difesa intransigente della sicurezza dello stato, dell’ordine pubblico e della
proprietà 68, si traduceva in un sistematico rigore che sconfinava nella spietatezza, reintroducendo
forme di punizione atroci e degradanti che ignoravano le considerazioni umanitarie
dell’illuminismo giuridico e sembravano ricondurre all’antico regime 69.
La pena di morte era prevista per oltre trenta fattispecie di reato e nel caso del parricidio, cui
erano assimilati l’attentato o la cospirazione contro la persona del sovrano, l’esecuzione era
preceduta dal taglio della mano destra. Come nella legislazione di antico regime, quasi tutti i delitti
contro la sicurezza dello stato erano puniti non solo con la morte, ma anche con la confisca dei beni
che il codice del 1791 aveva abolito. Veniva reintrodotto l’uso barbaro della pubblica marchiatura a
fuoco per i condannati ai lavori forzati a vita, e quello della gogna, meno feroce ma altrettanto
irrispettoso della dignità della persona. Era ripristinata la pena dei lavori forzati a vita che il codice
del 1791 aveva escluso in nome della possibilità di redenzione per qualsiasi condannato, non solo
per l’omicidio volontario con circostanze attenuanti, ma anche per reati meno gravi come il furto
violento, la subornazione di testimoni, la falsificazione di monete di rame o biglione, mentre per i
falsari di monete di oro e di argento si applicava la pena di morte. Per i complici era prevista la
65 Nel sistema della prova legale la legge predetermina esattamente la forza probatoria di ciascuna prova e il giudice
deve adeguarsi, mentre nel sistema del libero convincimento il giudice può valutare liberamente il peso delle prove, cfr.
G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 390-391 e G. Alessi, Il processo penale, pp. 104-108. 66 E. Dezza, Il codice di procedura penale, p. 379. 67 A. Cavanna, Il codice penale napoleonico. Qualche considerazione generalissima, in Codice dei delitti e delle pene
pel Regno d’Italia (1811), ristampa anastatica, Padova, CEDAM, 2002, p. XIII. 68 P. Lascoumes, P. Poncela, P. Lenoël, Au nom de l’ordre. Une histoire politique du code pénal, Paris, Hachette, 1989. 69 M. A. Cattaneo, L’autoritarismo penale napoleonico, in Codice dei delitti e delle pene, pp. XXV-XXXIV.
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stessa pena inflitta agli autori principali del delitto, così come al semplice conato a delinquere quella
del delitto compiuto, in nome del principio dell’intentio delinquenti 70.
Analoga durezza si riscontra nelle modalità di esecuzione delle pene: ad esempio i condannati ai
lavori forzati erano costretti ai lavori più pesanti ed insalubri, incatenati a due a due, oppure con una
palla di ferro al piede. Anche il principio della certezza della pena, ben presente nel codice del
1791, e vivamente raccomandato dall’illuminismo giuridico per limitare al minimo la
discrezionalità del giudice, tipica della legislazione penale di antico regime, veniva applicato solo
parzialmente, prevedendosi in molti casi un intervallo molto ampio fra il minimo e il massimo della
pena edittale.
E’ stato notato che il Code francese del 1810 certamente rifletteva in modo sostanzialmente fedele
l’evoluzione della sensibilità giuridica verificatasi in Francia durante il drammatico ventennio che
lo aveva preceduto 71, meno quella dei giuristi italiani che continuarono invece a vedere un modello
da imitare nel più mite ed equilibrato, ma mai approvato, progetto di codice penale italico del 1806,
che ispirò le codificazioni italiane successive, in direzione della attenuazione delle asprezze del
codice del 1811 72.
Se la sensibilità dei giuristi italiani inclinava alla moderazione delle pene, quella degli uomini che
si erano succeduti al governo delle repubbliche Cisalpina e Italiana prima, e del Regno d’Italia poi,
propendeva piuttosto per i modi sbrigativi di amministrare la giustizia e mantenere l’ordine
pubblico introdotti dalle autorità militari francesi. Da una parte l’aumento della criminalità
provocato dalle turbolenze politiche e militari, dalla pesante fiscalità introdotta per sopperire alle
contribuzioni di guerra e alle spese di una macchina amministrativa sempre più complessa ed
onerosa e dalle resistenze alla coscrizione obbligatoria, dall’altra la disorganizzazione, la lentezza e
l’inefficienza del sistema giudiziario, nonché l’eccessivo garantismo e mitezza spesso rimproverati
ai magistrati 73, indussero le autorità ad adottare misure straordinarie. Già nell’agosto del 1797
Bonaparte rilevava che
La molta lentezza finora adoperata nei giudizi criminali, nel tempo che il Pubblico è straordinariamente infestato
da’ ladri e che la pubblica sicurezza è in manifesto notorio pericolo […] rende necessaria un’istantanea riforma
de’ Tribunali di Giustizia. 74
Come abbiamo visto, l’organizzazione dei tribunali repubblicani non fu affatto istantanea e così
nel novembre successivo l’amministrazione centrale del Reno, recependo una indicazione
proveniente dal governo centrale, e già adottata da altre amministrazioni, in considerazione del fatto
che
In alcuni Dipartimenti, ora che i Tribunali Costituzionali non sono per ancora posti in attività, si commettono
atroci delitti […] e che li Tribunali di giustizia attualmente esistenti, e per la molteplicità delle procedure, e per la
troppa prolissità del sistema giudiziario e criminale, ritardano la giusta punizione de’ delinquenti,
70 R. Isotton, Archetipi francesi ed austriaci dell’intimidazione penale. La repressione del delitto tentato dalla
Giuseppina al Code Pènal del 1810, in Codice dei delitti e delle pene, pp. CXVI-CXVII. 71 M. Da Passano, I Tribunali francesi e il progetto Target. La parte generale, in Codice dei delitti e delle pene, pp.
XXXV- LXVIII. 72 A. Cadoppi, Le “formule recise di assoluto rigore” del code pénal. Alla ricerca di una plausibile “tradizione penalistica italiana”, tramite un’analisi delle reazioni italiane al codice francese del 1810, in Codice dei delitti e delle
pene, pp., CCV- CCXXXII. 73 Quali fondamenti avesse questa accusa è impossibile dirlo in assenza di una analisi puntuale dell’operato dei tribunali
italici del periodo repubblicano e napoleonico. L’esame delle circa 50 sentenze emesse dal Tribunale d’Appello dei
dipartimenti di Reno, Rubicone e Basso Po fra 16 luglio e 18 agosto 1800, riportate in Collezione delle leggi, proclami
ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi, parte V, pp. 64-68, sembra in effetti confermare
una certa tendenza alla mitezza nella qualificazione delle fattispecie criminali e nella applicazione delle pene, ma si
tratta di un campione troppo esiguo per consentire conclusioni di carattere generale. 74 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte I, p. 17.
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istituì una Commissione criminale militare composta da “cinque probi e illuminati cittadini quali
militarmente, cioè con procedura sommaria e senza appello abbiano a giudicare” omicidi, rapine e
furti qualificati 75. Si prevedeva che tale commissione sarebbe rimasta in attività per breve tempo,
fino alla costituzione dei tribunali costituzionali, ma nel giugno del 1798 essa fu prorogata per
reprimere colla maggior prontezza ed energia i delitti che intaccano direttamente il sacro diritto di proprietà,
attentano alla sicurezza individuale, inceppano le operazioni e i trasporti necessari al pubblico servigio e alla
prosperità nazionale.
Una misura resa necessaria dal fatto che
Una lenta ma indispensabile forma giudiciaria era il debole ed inefficace riparo che opponevano le antiche leggi
per difendere la pubblica sicurezza. Disimpegnata la commissione da un tale sistema essa farà prontamente
succedere la punizione al delitto […] la spada della giustizia sarà inesorabile nelle sue mani contro chiunque si
renderà autore di un delitto.76
I tribunali speciali, con vari nomi e competenze, continuarono a essere regolarmente prorogati o
abrogati per breve tempo per essere immediatamente ricostituiti, fino alla fine del regime
napoleonico 77, infliggendo pene draconiane con le procedure sbrigative del codice militare. Con
truce retorica, la commissione criminale militare dei dipartimenti di Reno e Lamone nel luglio del
1798 proclamava:
Il sangue degli assassini, e dei perfidi fuma sui palchi. Allorché la Legge, e i primari Poteri della Repubblica ci
costituirono vindici dei misfatti, giurammo l’isterminio dei reprobi. Noi non abbiamo mentito. La guerra fu
intimata a questi mostri, e molti di costoro sogiacquero alla manaia del carnefice […] noi non faremo tregua coi
delinquenti. Ovunque saranno perseguitati. Alla rapidità della nostra carriera non porranno ostacolo né le
formalità e lentezze del foro, né la seducente eloquenza dei Difensori. Il Codice militare, indeclinabile norma dei nostri passi, non altro imperiosamente c’inculca, che giustizia, celerità, rigore. Le voci di pietà, e di clemenza
devono onninamente tacere. Il giudice non può essere né pietoso, né clemente senza oltraggiare la Giustizia 78.
Commissioni militari, tribunali speciali, misure straordinarie di polizia furono gli strumenti cui fu
affidata la tutela dell’ordine pubblico e del “sacro diritto di proprietà” durante il ventennio francese 79, seme di una pianta che sarebbe cresciuta rigogliosamente durante la Restaurazione.
75 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte VIII, pp. 84-87. 76 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XIX, pp. 8-10 e 17. 77 Nel marzo del 1808 fu abolita la commissione militare ricostituita per l’ennesima volta nel luglio del 1805, ma fu sostituita da corti speciali con il compito di giudicare con procedura sommaria praticamente ogni reato contro la persona
o la proprietà con violenza o altre aggravanti, Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, 1808, parte I, pp. 222-
229. 78 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XXII, pp. 42-43. 79 A. Varni, Bologna napoleonica. Potere e società dalla repubblica Cisalpina al regno d’Italia (1800-1806), Bologna,
Boni, 1973; L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica; C. Zaghi, l’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno,
Torino, Utet, 1986; P. Alvazzi del Frate, Le istituzioni giudiziarie degli “Stati romani” nel periodo napoleonico (1808-
1814), Roma, La Goliardica, 1990; L. Cajani, La criminalità romana nelle statistiche napoleoniche, in Criminalità e
polizia nello Stato pontificio, pp. 101-132.
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3. La Restaurazione giudiziaria.
3a. Il ripristino delle’autonomie di Bologna: una speranza di breve durata. Si narra che il
procuratore generale della corte d’appello di Roma Le Gonidec, che lasciava l’Italia dopo la
sconfitta del suo imperatore, incontrasse sul Frejus papa Pio VII che vi tornava. Il procuratore aveva
tutte le ragioni per aspettarsi parole amare da parte del pontefice che invece lo trattò con grande
cortesia e lo ringraziò per il modo in cui aveva amministrato la giustizia a Roma in sua assenza 80.
L’episodio, se non è vero, è ben inventato. Se nelle province di prima recupera, dove del resto il
modello francese non aveva avuto il tempo di radicarsi, la Restaurazione fu realizzata Si narra che il
procuratore generale della corte d’appello di Roma Le Gonidec, che lasciava dal cardinal Rivarola
in modo da ripristinare quasi integralmente lo status quo ante, nelle ex Legazioni e nelle Marche il
pontefice e il Segretario di Stato Consalvi procedettero in modo da cambiare i nomi delle istituzioni
del Regno di Italia ma da conservarne, in alcuni casi, la sostanza. In fin dei conti Napoleone nell’ex
Stato pontificio aveva realizzato quel processo di accentramento e di uniformità amministrativa che
i papi avevano perseguito sin dal XVI secolo con risultati assai limitati e al quale, sia pure con
qualche importante concessione al passato, sia Pio VII che Consalvi ritennero di non dover
rinunciare, come con grande chiarezza dichiarava il preambolo del Motu proprio del 1816 81:
Noi riflettemmo in primo luogo, che la unità, ed uniformità debbono essere le basi di ogni politica istituzione
[…] Questa certezza c’indusse a procurare per quanto fosse possibile la uniformità del sistema in tutto lo Stato
appartenente alla Santa Sede […] Mancava ancora al Nostro Stato quella uniformità, che è così utile ai pubblici,
e privati interessi, perché formato colla successiva riunione di Dominij differenti, presentava un aggregato di usi,
di leggi, di privilegi fra loro naturalmente difformi, cosicché rendevano una Provincia bene spesso straniera
all’altra, e talvolta disgiungeva nella Provincia medesima l’uno dall’altro Paese […] Ma la sempre ammirabile
Provvidenza Divina, la quale sapientemente dispone le cose in modo, che talvolta d’onde sovrastano maggiori
calamità, indi sa trarre anche copiosi vantaggi, sembra che abbia disposto, che le stesse disgrazie de’ trascorsi tempi, e l’interrompimento medesimo della Nostra Sovranità aprissero la strada ad una tale operazione, allorché
pacificate le cose si dasse luogo alla ripristinazione delle legittime podestà. Noi dunque credemmo di dover
cogliere questo momento per compire l’opera incominciata.
Il Motu proprio infatti ripartì il territorio dello Stato pontificio – con l’eccezione di Roma e del
territorio circostante denominati “Comarca” e soggetti ad un regime particolare – in 17 Delegazioni
divise in tre classi a seconda della loro importanza. Le cinque delegazioni di prima classe –
Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì e Urbino – erano affidate al governo di un cardinale legato e
prendevano perciò il nome di Legazioni. Ogni delegato era assistito da due assessori e da una
congregazione governativa composta di quattro membri e ogni Legazione o Delegazione era divisa
in governi di prima e seconda classe, retti ciascuno da un governatore o vicegovernatore laico.
Legati, delegati, assessori, governatori e membri della commissione governativa erano nominati dal
papa e dalla Segreteria di Stato. Dopo gli avvenimenti del 1831, le Legazioni di Bologna, Ravenna
e Forlì furono affidate a prolegati laici, ma dopo la caduta della Repubblica Romana e mentre era
ancora in atto l’occupazione militare austriaca, le quattro Legazioni furono affidate a commissari
straordinari, tutti ecclesiastici 82.
80 L’episodio è narrato da L. Madelin, La Rome de Napoléon. La domination francaise a Rome 1809-1814, Paris, Plon, 1906, p. 680. Un bilancio complessivamente positivo dell’amministrazione della giustizia a Roma durante il periodo
napoleonico in P. Alvazzi del Frate, Le istituzioni giudiziarie degli “Stati romani” nel periodo napoleonico (1808-
1814), Roma, La Goliardica, 1990. 81 Motu proprio della Santità di nostro Signore Papa Pio Settimo in data del 6 luglio 1816 sulla organizzazione
dell’Amministrazione Pubblica. 82 Una rapida e chiara esposizione dell’organizzazione amministrativa e giudiziaria dello Stato pontificio dalla
restaurazione all’unità d’Italia in E. Lodolini, L’amministrazione periferica e locale nello Stato Pontificio dopo la
Restaurazione, e L’ordinamento giudiziario civile e penale nello Stato Pontificio (sec. XIX), in “Ferrara viva”, anno I,
n.1, 1959, pp. 5-32 e 43-73.
25
Per quel che riguarda la giustizia penale il Motu proprio rappresentò un compromesso 83 fra le
posizioni di chi, come l’arcivescovo di Bologna Carlo Oppizzoni, riteneva che nell’esperienza
francese ci fosse molto da salvare e chi invece, come il cardinal Tommaso Bernetti, era del parere
che il sistema giudiziario introdotto da Napoleone fosse inutilmente complesso e costoso e che il
processo previsto dal Codice del 1807 richiedesse
un giro vorticoso di affari, entro il quale sono essi sempre in movimento tale, che non si arriva a condurli a fine
se non a grandissimo stento […] e per questo anti–rivieni si esiggono sempre mille spese, le quali passando per mille mani si augumentano sempre colla proporzione della caduta dei gravi: Nel sistema antico questo
inconveniente non v’era.
e che fosse meglio tornare decisamente al passato 84. Un giudizio, quello di Bernetti, per certi
aspetti profetico, come vedremo.
La Riforma del 1816 in effetti cassò i codici napoleonici, anche se confermò l’abolizione della
tortura e delle punizioni corporali, e ripristinò, almeno in parte, la commistione fra funzioni di
governo e funzioni giudiziarie esercitate da legati e delegati, che era stata eliminata con l’arrivo dei
francesi. Tuttavia mantenne in essere le strutture portanti dell’organizzazione dei tribunali
napoleonici, pur cambiandone le denominazioni e, in parte, le competenze. Stabilì infatti che in ogni
capoluogo di Delegazione fosse istituito un tribunale criminale composto dal delegato (che fungeva
da presidente), dai suoi due assessori, da un giudice del tribunale civile e da uno dei membri della
congregazione governativa. I tribunali giudicavano in primo grado i reati più gravi e in appello le
cause decise dai governatori nei centri più importanti della Legazione e dall’assessore criminale a
Bologna, i quali avevano competenza per i reati che comportavano una pena fino a un anno di
reclusione.
Contro le sentenze emesse dai tribunali si poteva interporre appello presso i tribunali di appello di
Bologna – che aveva giurisdizione sulle quattro Legazioni di Bologna, Ferrara Ravenna e Forlì – e
di Macerata da cui dipendeva quella delle Marche. Nel resto dello stato si ricorreva alla Sacra
Consulta. L’appello era ammesso per tutte le condanne superiori ai cinque anni, mentre per quelle
inferiori era ammesso con sospensione della esecuzione della sentenza solo nel caso il giudizio del
tribunale non fosse stato pronunciato all’unanimità; in caso contrario era ammesso, ma senza
sospensione.
In ogni capoluogo di Delegazione il tribunale criminale disponeva di due giudici processanti,
incaricati della fase istruttoria del processo, ma esclusi da quella del giudizio, e di un cancelliere; i
governatori invece seguivano le cause dalle prime indagini fino alla sentenza, con l’ausilio di un
cancelliere. Ad ogni tribunale criminale era assegnato un avvocato difensore d’ufficio nominato dal
papa – fatto salvo il diritto degli imputati di ricorrere a un difensore di loro scelta – e un procuratore
fiscale che fungeva da pubblica accusa.
Il Motu proprio di Leone XII del 1824 85 modificò in parte questo impianto. Per contenere i costi
dell’apparato amministrativo le Delegazioni furono ridotte a 13 con l’accorpamento di quelle di
Urbino, Pesaro, Ascoli, Fermo, Camerino, Macerata, Civitavecchia, Viterbo, Rieti e Spoleto e dei
rispettivi tribunali. Il numero dei membri dei tribunali fu limitato a quattro: delegato, due assessori e
83 Sulla riorganizzazione del sistema giudiziario realizzata da Consalvi, M. Petrocchi, La Restaurazione, il cardinale
Consalvi e la riforma del 1816, Firenze, Le Monnier, 1941; A. Acquarone, La restaurazione nello Stato pontificio ed i
suoi indirizzi legislativi, in “Archivio della Società romana di Storia patria”, vol. LXXVIII, 1955, pp. 121-188; D. Cecchi, L’amministrazione pontifica nella prima Restaurazione (1800-1809), Macerata, Tipografia maceratese, 1975;
M. Mombelli Castracani, Dalla Post diuturnas del 30 ottobre 1800 al Motu Proprio del 6 luglio 1816: percorsi
legislativi tra la prima e la seconda restaurazione, in “Le Carte e la Storia”, anno III, n. 1/1997, pp. 146-161; G.
Santoncini, Appunti per una bibliografia critica sulla seconda Restaurazione pontificia, in “Proposte e ricerche”, 32,
1994, pp. 157-185 e Id., Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, che ridimensiona la portata riformatrice
dell’opera di Consalvi e le analogie fra il sistema giudiziario del Motu proprio del 1816 e quello napoleonico. 84 Citato da G. Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, p. 71. 85 Motu proprio della Santità di Nostro Signore Papa Leone XII in data del 5 ottobre 1824 sulla riforma
dell’Amministrazione Pubblica, della procedura civile e delle tasse dei giudizi.
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un quarto giudice da designare caso per caso. Fu però escluso che i pretori i quali – sempre per
ragioni di risparmio, avevano sostituito i tribunali civili di primo grado – potessero far parte del
tribunale criminale, operando così una distinzione più netta che non in precedenza fra giustizia
civile e criminale. Tuttavia con altro Motu proprio del 21 dicembre del 1827 86 il pontefice riportò
a cinque il numero dei componenti del tribunale, stabilendo che il pretore del capoluogo ne facesse
parte di diritto insieme ad un consigliere comunale scelto dal papa. Furono anche ripristinati i
tribunali di Urbino, Ascoli, Camerino, Civitavecchia e Rieti mentre furono ridotti a due i tribunali di
appello, quello di Bologna per le Legazioni emiliane e romagnole, mentre la Sacra Consulta di
Roma fungeva da tribunale di secondo grado anche per le Marche, essendo stato chiuso il Tribunale
di appello di Macerata.
Il Motu proprio del 1816, come abbiamo detto, abolì i codici napoleonici e prescrisse che, in
attesa che fossero redatti i nuovi codici, si osservassero le procedure e le leggi vigenti al momento
dell’arrivo dei francesi. In effetti Consalvi costituì diverse commissioni per procedere ad una nuova
codificazione, ma solo quella per il codice civile concluse i suoi lavori nel 1817, mentre per quello
criminale fu necessario attendere i Regolamenti di Gregorio XVI 87. Per oltre un quindicennio,
perciò, l’opera di uniformazione delle strutture amministrative dello stato, perseguita da Pio VII e
dal cardinal Consalvi, per quel che riguardava la giustizia penale rimase incompiuta, lasciando
irrisolto il problema del particolarismo normativo:
L’esempio come più vicino e presente se ne arreca delle due Provincie di Romagna e Bologna nelle quali sonosi
adottati principj diametralmente opposti […] La procedura giudiziaria di Bologna è primieramente particolare a questa sola città, ne ha quindi formata una affatto diversa il Delegato di Romagna [...] e pure ambedue queste
provincie soggiacciono alla medesima giurisdizione di un Tribunale d’Appello che omai dovrà prendere per
norma altrettanti metodi giudiziarj quante sono le città che da lui dipendono. La pratica del foro deve esser
chiara, ed uniforme […] L’arbitraria criminale giurisprudenza non varia soltanto da provincia a provincia, ma
ne’ limiti circoscritti di ciascheduna di queste è pure diversa, o lo è pur si direbbe in tutte le parti del suo suolo.
Il bando del cardinale Serbelloni è osservato in Bologna, non così in Imola, e in Lugo. In Romagna altri bandi
stabiliscono ai delitti nuove pene; e così sotto il medesimo sovrano la legge in mille forme si presenta or mite,
ora severa, ora dirò pure crudele.88
Dopo i moti del 1831 nelle ex Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forli, fu introdotta quella
che per lo Stato pontificio era una rilevante novità: la separazione fra potere esecutivo e giudiziario,
con l’istituzione di tribunali interamente composti da laici. Questa novità fu poi estesa a tutto lo
stato con il Regolamento emanato dal cardinal Bernetti, Segretario di Stato di Gregorio XVI, nel
1831 anche se in esso si prevedeva che il legato potesse intervenire alle sedute dei tribunali e
presiederle, ma senza diritto di voto in sede di giudizio. Tuttavia, negli anni successivi la portata
innovativa del provvedimento venne in gran parte meno poiché si ripristinò la dipendenza
dell’ordine giudiziario da quello esecutivo attribuendo alla Segreteria di Stato il compito di
controllare l’operato dei tribunali e di chiedere ai giudici conto del loro operato, sanzionandoli
anche con la privazione dello stipendio in caso di mancanze gravi 89.
3b. Una riforma parziale: il Regolamento giudiziario del 1831. La riforma gregoriana, così come
in genere l’amministrazione della giustizia nello Stato pontificio dopo la Restaurazione, non ha mai
goduto di buona fama: sono noti i giudizi negativi di Pessina e Mittermaier, solo per ricordare due
86 Motu proprio della Santità di Nostro Signore Papa Leone XII sull’amministrazione pubblica. 87 Le ristampe anastatiche del Regolamento organico e di procedura criminale pubblicato il 5 novembre 1831 e del
Regolamento sui delitti e sulle pene entrato in vigore il 1 gennaio 1832 sono in I regolamenti penali di Papa Gregorio
XVI per lo Stato pontificio, Padova, Cedam, 2000. 88 Questi e altri rilievi erano contenuti in un promemoria redatto dall’avvocato Giuseppe Guarmani per l’arcivescovo di
Bologna Carlo Oppizzoni e da questi inoltrato a Consalvi con il suggerimento di riflettere bene sull’opportunità di
abolire il codice napoleonico senza averlo sostituito con un testo egualmente organico. La citazione è in M. Petrocchi,
La Restaurazione, pp. 273-4. 89 Regolamento per la disciplina dei giudici e tribunali, e per le tasse giudiziarie, in Raccolta delle leggi della Pubblica
amministrazione, vol. V, n. 10.
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dei più illustri e risalenti detrattori dei Regolamenti penali gregoriani 90, così come è ben noto il
giudizio quasi incredulo di Farini sulla organizzazione giudiziaria dello Stato pontificio:
“L’ordinamento dei tribunali così complicato e strano, che difficile cosa è il darne cognizione” 91. In
anni più recenti si è sottolineato che i Regolamenti non meritano il titolo di codici perché privi dei
requisiti di esaustività e sistematicità e irreparabilmente segnati dal carattere di urgenza e
frettolosità di un testo imposto dalle circostanze politiche e dal Memorandum del 21 maggio 1831
con il quale le grandi potenze europee avevano imposto al pontefice di riformare lo stato
accogliendo, almeno in parte, le richieste dei liberali moderati 92. Si è anche sostenuto che essi sono
il “brutto anatroccolo” della codificazione preunitaria, decisamente inferiori ai codici napoletano del
1819, parmense del 1820, sardo del 1839 e toscano del 1853, a causa dello squilibrio fra le varie
parti dello stato, della mancanza di una ispirazione unitaria, dell’eclettismo con cui si ispiravano a
modelli molto diversi come il codice napoleonico del 1810 e quello austriaco del 1803, risultando
alla fine
un miscuglio non ben amalgamato di frammenti di codici nuovi e vecchi, brandelli di antichi statuti, mozziconi
di decisioni giurisprudenziali, e monconi di passi dottrinali di varia provenienza. Tutto ciò “a chiazze” senza che
risulti chiaro un disegno unitario di “struttura” codicistica.93
Con tutti i suoi limiti, comunque, la codificazione gregoriana ebbe il merito di proseguire la
unificazione del sistema giudiziario che il Motu proprio del 1816 aveva avviato, pur senza
realizzarla completamente perché Roma e la sua Comarca conservarono la loro organizzazione
giudiziaria particolare.
Il Regolamento organico e di procedura criminale deve il suo titolo al fatto che non contiene solo
la regolamentazione del processo penale ma anche quella dell’ordinamento giudiziario,
introducendo modifiche di non piccolo rilievo rispetto al Motu proprio del 1816 e a quello del 1824.
Nelle province, la competenza in primo grado sui delitti minori, quelli punibili con pene pecuniarie
o afflittive non superiori a un anno di lavori forzati, veniva attribuita ai governatori residenti nei
centri più importanti e agli assessori criminali nei capoluoghi di Delegazione; quella per i delitti più
gravi spettava al tribunale criminale insediato nel capoluogo di ogni Delegazione. Tuttavia, anche
per i crimini di competenza del tribunale, il processo doveva essere istruito dal governatore
competente per giurisdizione territoriale e poi trasmesso al tribunale per il dibattimento e il
giudizio; in tal caso gli atti processuali dovevano essere verificati dal procuratore fiscale che poteva
chiedere al governatore o all’assessore che li avevano prodotti, di integrarli o correggerli.
Governatori e assessori dovevano trasmettere gli atti al tribunale anche quando essi apparissero
insufficienti per dimostrare la colpevolezza dell’inquisito, o addirittura sembrassero dimostrarne
l’innocenza; in tal caso il capo del tribunale insieme a due giudici e al procuratore fiscale doveva
esaminarli e dare istruzioni al governatore che li aveva istruiti: una serie di passaggi di carte che
inevitabilmente rendeva più complessa e lunga la procedura.
L’appello era previsto, per le sentenze pronunciate da governatori e assessori, presso il tribunale
criminale, e per le sentenze di morte pronunciate da quest’ultimo presso i tribunali di appello di
90 S. Vinciguerra, Un’esperienza di codificazione fra emergenza politica e suggestioni del passato: i regolamenti penali
gregoriani, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. XI-XXVII. 91 C. L. Farini, Lo Stato Romano dal 1815 al 1850, vol. 4, Firenze, F. Le Monnier, 1853, p. 138. Farini in particolare
stigmatizzava l’eccessiva durata dei processi, il fatto che il dibattimento nei processi criminali non fosse pubblico e la facoltà per i legati di parteciparvi, influenzando inevitabilmente i giudici e finendo per inficiare di fatto il principio della
indipendenza della magistratura dall’esecutivo. 92 S. Vinciguerra, Un’esperienza di codificazione, pp. XI-XIV. 93 A. Cadoppi, Struttura e funzione di un codice penale. A proposito del “Regolamento sui delitti e sulle pene del
1832”, il “brutto anatroccolo” dei codici penali della Restaurazione, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, p.
LXII. Il giudizio di E. Dezza, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoria e riferimenti napoleonici nel regolamento
organico e di procedura criminale del 5 novembre 1831, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. XCI-CIX, è
meno severo e propende per individuare nel codice italico del 1807 un elemento ispiratore relativamente unificante del
Regolamento organico.
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Bologna, per le quattro Legazioni, e di Macerata, riattivato, per le Marche. La possibilità di
appellare dunque era drasticamente ridotta rispetto al Motu proprio di Pio VII, in quanto prevista
solo per le condanne più lievi e per quelle capitali. Anche contro le sentenze inappellabili era però
prevista la possibilità di revisione, il ricorso cioè ai tribunali superiori per ottenerne l’annullamento
per la violazione di forme sostanziali, per errata applicazione della legge penale e per abuso di
potere 94. Le disposizioni preliminari del Regolamento prevedevano che si procedesse d’ufficio per
tutte le notizie di reato, tranne poche eccezioni riguardanti i delitti intrafamiliari e contro l’onore,
ma in tutti i casi il procedimento, una volta avviato, non poteva essere sospeso neanche col
consenso della parte offesa. L’istituto della libertà provvisoria sotto cauzione era previsto per gli
imputati di delitti che comportavano pene esclusivamente pecuniarie, mentre per tutti gli altri la
carcerazione cautelare era la regola.
Il processo gregoriano era indubbiamente un processo misto nel quale la fase inquisitoria era
nettamente prevalente 95:
Il processo in iscritto forma la base dei giudizi criminali, combinata bensì coi risultati ulteriori provenienti dal
confronto, e dalla discussione personale fra l’accusato e quei testimoni che sono riputati necessari ad intervenire
all’udienza
recitava l’art.109. Le disposizioni concernenti il modo di acquisire le prove e di interrogare i
testimoni e gli imputati erano molto puntuali e dettagliate, ma non presentavano particolari novità
rispetto alle normative vigenti nello Stato pontificio prima dell’arrivo dai francesi, ad esempio nelle
costituzioni del Torrone e nelle riforme lambertiniane. Largamente prevista era la possibilità di
procedere all’arresto dei testimoni ritenuti falsi, reticenti o contraddittori a semplice giudizio del
processante, salvo successiva approvazione del capo del tribunale. Nel corso dell’istruttoria era
facoltà, non obbligo, del processante esporre all’imputato, in parte o tutti, gli elementi a suo carico
raccolti. Dopo ogni interrogatorio il processante era tenuto a rileggere all’imputato il verbale
contenente le sue dichiarazioni, permettendogli di fare correzioni o aggiunte. Tuttavia il verbale
doveva essere firmato dal processante e dal cancelliere e, solo su sua richiesta e discrezionalmente,
dall’imputato.
Terminata la fase istruttoria il processante era tenuto a redigere il “ristretto”, cioè un riassunto, del
processo che doveva essere sottoposto all’esame del procuratore fiscale che poteva chiedere di
apportare chiarimenti e integrazioni; anche in questo caso si trattava di operazioni che
inevitabilmente dilatavano i tempi della procedura. Solo dopo l’approvazione del ristretto si
procedeva alla pubblicazione, cioè alla notificazione all’imputato di tutte le prove raccolte contro di
lui. Da questo momento il suo difensore aveva cinque giorni di tempo per studiare il ristretto o
anche, volendo, l’originale del processo. Nella fase dibattimentale, non pubblica come quella del
processo di età napoleonica, si dava lettura del ristretto e si ascoltavano l’imputato, la parte lesa e i
testimoni richiesti dal procuratore fiscale; il difensore aveva il diritto di chiedere di ascoltare anche
altri testimoni, già sentiti durante l’istruttoria oppure no, ma l’accoglimento della richiesta, che
doveva essere sempre motivata, spettava insindacabilmente al capo del tribunale 96. Il breve spazio
94 In effetti, l’istituto della revisione aveva una portata molto limitata. Per ottenere l’annullamento era necessario
dimostrare che le irregolarità erano state veramente clamorose, cfr. P. Pittaro, La struttura del processo criminale
gregoriano, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. LXXXVII-LXXXVIII. Inoltre una circolare della
Segreteria di Stato del 6 giugno 1832 chiarì che in sede di revisione, per evitare lungaggini, l’imputato non poteva servirsi di un difensore di sua scelta, ma solo del difensore di ufficio, cfr. Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica
amministrazione nello Stato Pontificio, vol. V, pp. 469-71. 95 E’ la valutazione pressoché unanime di tutti i commentatori: ci limitiamo a segnalare i saggi di Dezza e Pittaro già
citati e quello di N. Contigiani, Il processo penale pontificio tra ancoraggi inquisitori e spettro riformista (1831-1858),
in “Rivista di Storia del Diritto Italiano”, anno LXXX, 2007, pp. 189-314. 96 Una circolare della Segreteria di Stato del 27 dicembre 1831 raccomandava ai presidenti dei tribunali di non
largheggiare troppo nell’ammissione dei testimoni richiesti dalla difesa, per evitare eccessivi aggravi all’erario – le
spese di trasferimento dei testimoni erano a carico dell’amministrazione – e perché “sarebbe poi una manifesta
trasgressione all’art. 110 con cui è dichiarato essere il processo in iscritto la base dei criminali giudizj”, Raccolta delle
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di tempo concesso al difensore per studiare le carte, la sua limitata possibilità di citare testimoni a
discarico, l’assoluta rilevanza conferita al ristretto, redatto dal processante, nella fase
dibattimentale, rendeva il processo gregoriano nettamente sbilanciato a favore dell’accusa, anche se
al processante veniva fatto obbligo di raccogliere imparzialmente le prove a carico e a discarico
dell’imputato. Terminato il dibattimento i giudici erano tenuti a deliberare
secondo l’intima convinzione della propria coscienza e secondo l’impressione ricevuta dalla sua ragione presso
le prove e gli indizj, ed indipendentemente dal numero materiale dei medesimi, che sono venuti a svilupparsi
tanto dal processo scritto, quanto dalla discussione verbale
Il sistema della prova legale era ormai francamente abbandonato a favore di quello del libero
convincimento presente in tutta la normativa del periodo francese e ne derivava, fra l’altro, che la
sentenza poteva essere di condanna, di assoluzione piena oppure di assoluzione per insufficienza di
prove con la formula ab istantia. In tal caso il processo doveva essere riaperto qualora fossero
emersi nuovi elementi di prova a carico dell’imputato. Il principio dell’amplius cognoscendum, cioè
l’obbligo di riaprire un procedimento provvisoriamente archiviato o un processo conclusosi con una
assoluzione con formula dubitativa nel caso emergessero nuove prove, presente anche nel codice di
procedura napoleonico,97 aveva una ricaduta pesante non solo sui diritti individuali dell’imputato, la
cui posizione nei confronti della giustizia poteva rimanere sospesa per lungo tempo fino alla
prescrizione del reato, ma anche sul funzionamento del sistema giudiziario perché, come vedremo,
appesantiva in misura sensibile l’agenda lavorativa e i prospetti informativi dei tribunali e
soprattutto dei governatori. Nella prassi del Torrone tali casi dubbi venivano invece risolti con
l’intimazione dell’esilio.
Si deve anche ricordare che il Regolamento organico prescriveva che i processi a carico dei
contumaci fossero fatti e portati a sentenza, anche se con procedure più rapide e minori garanzie per
l’imputato, e questo costituiva un ulteriore aggravio di lavoro per il sistema giudiziario, laddove nel
Torrone, nel corso del XVIII secolo, si era affermata la prassi di lasciare in sospeso i processi
contro i contumaci, dopo aver espletato i soli atti preliminari, per riprenderli nella eventualità che
gli indiziati cadessero nelle mani della giustizia. Il Regolamento infine prevedeva la possibilità per
la Segreteria di Stato di costituire tribunali speciali per giudicare i delitti di lesa maestà,
cospirazione, sedizione e in genere contro la sicurezza pubblica, con procedura sommaria e senza la
possibilità di appello se non in caso di sentenza capitale pronunciata non all’unanimità. Si trattava
di un evidente succedaneo dei tribunali e commissioni militari del periodo napoleonico, giustificato
da analoghi timori per la stabilità politica e la tenuta dell’ordine pubblico minacciato dalla
criminalità comune e dalla dissidenza politica, in alcuni casi inestricabilmente intrecciate 98.
Il Regolamento organico e di procedura rappresentò dunque un complesso compromesso fra la
tradizione giuridica dello Stato pontificio e quella introdotta dai francesi. Diverso è il caso del
Regolamento sui delitti e sulle pene. Si è scritto che esso è riconducibile al codice penale francese
leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, vol. V, p. 372. Una successiva circolare del 25
agosto 1832, fra altre disposizioni tese a diminuire le spese processuali, raccomandò ancora di limitare il numero dei
testimoni e dimezzò il loro rimborso spese, Ivi, pp. 501-503. 97 E. Dezza, Il codice di procedura penale del Regno italico, pp. 363-368. 98 L’assoluta priorità dell’ordine pubblico nell’agenda politica degli stati italiani preunitari è enfatizzata da J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Franco Angeli, 1988 e, nel caso specifico di Bologna,
da S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento. The politics of policing in Bologna, Cambridge University
Press, 1994; il tema dell’ordine pubblico e delle misure eccezionali adottate per fronteggiarlo è presente, ma
decisamente ridimensionato, in M. Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, il
Mulino, 2002 e, per Bologna, da A. Monti, Pauperismo e demografia, conflitto e sicurezza: le condizioni sociali a
Bologna nell’Ottocento (1815-1880) in Storia di Bologna, vol.4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, pp. 421-
483. Interessanti considerazioni sul modo di gestire il problema da parte della giustizia pontificia anche in I. Rosoni,
Criminalità e giustizia penale nello Stato pontificio del secolo XIX. Un caso di banditismo rurale, Milano, Giuffré,
1988, pp. 12-16.
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del 1791, in quanto contenente “poche indicazioni di carattere generale” 99. In realtà il modello di
riferimento era costituito soprattutto dai bandi generali di antico regime e in particolare da quello di
Benedetto XIV del 1754 che sostituiva solo per i titoli esplicitamente disciplinati rispetto ai
quali il Regolamento premetteva appunto alcuni principi di carattere generale – unica concessione al
“modello codice” – riguardanti l’applicabilità o meno della legge alle diverse categorie di soggetti,
la definizione di delitto tentato e di correità, delle circostanze aggravanti e attenuanti, della recidiva,
della tipologia delle pene.
Rispetto alla legislazione bannimentale del XVIII secolo pochi erano gli elementi di modernità. Il
più rilevante era l’eliminazione dell’arbitrium, sostituito però da un intervallo piuttosto ampio delle
pene edittali, che lasciava comunque un notevole spazio alla discrezionalità del giudice: l’offesa al
pudore ad esempio era punita con una pena compresa fra un mese di detenzione e un anno di lavori
forzati e con un’ammenda dai dieci ai cinquanta scudi; il furto semplice di valore compreso fra i
venti e i cento scudi con una pena da uno a tre anni; le ferite “di qualche pericolo” con una pena
compresa fra i cinque e i dieci anni. Significativa era anche l’eliminazione delle feroci pene
accessorie a quella di morte previste dai bandi per i delitti più gravi, come il taglio della mano, il
mazzolamento, lo squartamento del cadavere, o quella delle pene corporali come la frusta o i tratti
di corda per i reati più lievi: tutte pratiche peraltro già abolite dal Motu proprio del 1816 insieme
alla tortura. Per il resto il Regolamento sui delitti e sulle pene, con la sua enfasi posta sui delitti
contro la religione e i buoni costumi, aveva decisamente un sapore retro.
I limiti dei due Regolamenti, redatti sotto la pressione degli eventi, erano abbastanza evidenti
anche alle autorità pontificie ma, nonostante numerosi progetti di riforma, non furono più apportate
rilevanti modifiche all’impianto organizzativo e procedurale disegnato dalla riforma gregoriana,
anche se Pio IX nel 1847 riformò i tribunali romani, rendendoli più conformi al modello generale, e
sottopose tutti i tribunali dello stato al controllo e alla sovrintendenza della Sacra Consulta 100.
Importanti furono invece le modifiche apportate al Regolamento sui delitti e sulle pene dall’editto
del Segretario di Stato Giacomo Antonelli del 30 luglio 1855 che aggravò in misura abnorme le
sanzioni previste per il furto: basti ricordare che in caso di prima recidiva, se il valore della refurtiva
superava i 300 scudi, la pena prevista era di venti anni di lavori forzati che diventavano a vita se il
furto era qualificato da qualche circostanza aggravante; inoltre per i condannati per furto, anche
semplice e di qualsiasi entità, era previsto un regime detentivo particolarmente duro, definito da un
apposito regolamento 101.
99 M.A. Cattaneo, Modernità e autoritarismo nel “Regolamento” penale gregoriano, in I regolamenti penali di Papa
Gregorio XVI, pp. XXIII-XXIV. 100 M. Da Passano, I tentativi di codificazione penale nello stato pontificio (1800-1832), in I regolamenti penali di Papa
Gregorio XVI, pp. CXLIII-CLXXXIII; M. R. Di Simone, Progetti di codici penali nello Stato pontificio della
Restaurazione, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 36, tomo I, 2007, pp. 347-390; N.
Contigiani, Il processo penale pontificio tra ancoraggi inquisitori e spettro riformista (1831–1858), in “Rivista di
Storia del Diritto Italiano”, anno LXXX, 2007, pp. 189-314. I provvedimenti presi da Pio IX per riformare i tribunali
romani in Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1847, pp. 95-114. 101 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1855, pp. 186-190.
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4. Le criticità del sistema.
4a. Inseguendo il miraggio della procedura rapida: un ossessivo controllo burocratico. Nel
novembre del 1816 Alessandro Lante Montefeltro della Rovere, da poco nominato legato di
Bologna, scrisse al Segretario di Stato che
per conoscere i delitti che si commettono nella provincia, il numero dei delinquenti e complici che cadono nelle
mani della giustizia e lo stato e l’andamento delle cause relative e perché in seguito alla sollecita compilazione
dei processi si ottenga la più pronta emanazione delle sentenze, senza di che si dimentica agevolmente l’orrore
del misfatto, e subentra invece la compassione a favore del reo, cosicché nella punizione non si hanno tutti quei
risultati, che la legge si è prefiniti, che è quanto dire il pubblico esempio, e quindi la desistenza dai reati
riteneva utile “riattivare il metodo che si praticava in tempo del già Governo Italico delle tabelle
mensili dimostrative lo stato in cui si trovano tutte le cause criminali pendenti in tutta la
Legazione”. Aveva perciò diramato una circolare in cui ingiungeva ai governatori e all’assessore
criminale di Bologna di istruire subito i processi sia delle cause minori di loro competenza, sia di
quelle che poi sarebbero state decise dal tribunale, e di redigere ogni mese una tabella – compilando
un modulo di cui accludeva copia – contenente la lista di tutti i detenuti presso le carceri cautelari
costituite in ogni governatorato, indicando il numero d’ordine con cui la relativa causa era iscritta
nel registro di cancelleria, il nome, cognome e luogo di nascita dei detenuti, la data di arresto, il
capo di imputazione, il numero e il tipo di atti espletati per il processo, eventuali problemi ed
osservazioni. Lo stesso aveva fatto per il tribunale criminale, adottando però un modulo
leggermente diverso, e pensava fosse opportuno fare anche con il tribunale di appello, per il quale
però aveva bisogno della autorizzazione della Segreteria di Stato dalla quale il tribunale dipendeva.
A stretto giro di posta Consalvi gli rispose che sia lui che il papa approvavano pienamente la sua
iniziativa, che la avrebbero estesa a tutte le altre provincie, e che anzi gli ordinavano di dare
attuazione anche alla disposizione della Post diuturnas 102 che prescriveva di effettuare la visita
mensile delle carceri – in realtà si trattava di ripristinare una prassi, come abbiamo visto, già in
vigore ai tempi del Torrone – e di farne una accurata relazione da inviare alla Segreteria di Stato
insieme al prospetto mensile del tribunale criminale e di quello di appello “colla individuazione di
quelle deliberazioni che nel congresso avanti di lei convocato sarà occorso di fare” 103.
Conoscere, prevenire, correggere, negli anni successivi furono i pilastri della politica criminale
perseguita, con energia e di comune accordo, da Consalvi e dai legati Lante della Rovere e, alla
morte di questi nel luglio del 1818, dal suo successore Giuseppe Spina, coadiuvati dal procuratore
fiscale Antonio Placci, poi sostituito da Pacifico Masetti e da Giacinto Quattrorecchi, giudice
processante del tribunale, incaricati di controllare i prospetti dell’assessorato e tribunale criminale
di Bologna e dei quattordici governatori 104. Gli incaricati stendevano per il legato una relazione con
le loro valutazioni, osservazioni e rilievi che, unitamente ai prospetti, veniva inviata alla Segreteria
di Stato la quale li analizzava e comunicava al legato le sue conclusioni e raccomandazioni, quasi
sempre molto puntuali, che il legato a sua volta traduceva in istruzioni ed ordini impartiti a
governatori e presidenti. Un’attività di monitoraggio e di controllo incrociato, che si fondava
essenzialmente sulla compilazione accurata e veridica dei prospetti mensili, lavoro complesso,
oneroso e fondamentalmente estraneo alla mentalità e alla routine della maggior parte degli
operatori coinvolti.
Le resistenze furono forti, e ci volle tutta la determinazione di Consalvi e di Lante per avviare e
portare a regime il meccanismo in tempi tutto sommato ragionevoli. Appena ricevuta la circolare
102 La costituzione apostolica Post diuturnas del 30 ottobre 1800 aveva ridisegnato l’assetto dello Stato pontificio
durante la prima restaurazione, cfr. D. Cecchi, L’amministrazione pontifica nella prima Restaurazione, pp. 52-59. 103 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1816, rub. 1, 23 novembre e 4 dicembre. 104 Budrio, Bazzano, Castel Franco, Castiglione, Castel Maggiore, Castel S. Pietro, Loiano, Medicina, Molinella, Poggio
Renatico, Porretta, S. Giovanni in Persiceto, S. Pietro in Casale, Vergato.
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che gli imponeva di redigere il prospetto, il cancelliere del tribunale Vincenzo Suali rispose al
legato, in tono stizzito, che era “nella fisica impossibilità” di redigerlo con la richiesta precisione e
analiticità per mancanza “delle braccia che si richiederebbero all’uopo”; il prospetto richiesto era
molto simile alla relazione bimestrale, non mensile, che ai tempi del Regno di Italia si mandava al
Gran giudice – cioè il ministro della giustizia. Allora però il numero dei carcerati era molto minore
e il tribunale criminale constava di sette giudici istruttori, sette commessi di cancelleria e altrettanti
scrivani; il cancelliere era coadiuvato da due vicecancellieri, un commesso, un protocollista con un
aiutante e molti “alunni”, cioè praticanti che prestavano gratuitamente la loro opera con la speranza
di essere assunti una volta appreso il mestiere. Il personale attuale era meno della metà. Inoltre,
faceva presente Suali, il cancelliere, per redigere il prospetto, abbisognava delle informazioni
fornitegli dai giudici processanti i quali erano pochi e sin troppo impegnati da altre incombenze, fra
cui la redazione dei ristretti che assorbiva molto tempo. Infine, concludeva Suali, ai tempi del Gran
giudice, che risiedeva a Milano, l’operazione aveva un senso, ma adesso che il legato era a Bologna
“e che si fa la lettura di lista che equivale al prospetto richiesto”, a che serviva, se non ad oberare
ulteriormente persone già sovraccariche di lavoro e sottopagate 105?
L’allusione alla “lettura di lista” richiede un chiarimento, perché era questione rilevante e su cui
dovremo tornare. Si trattava evidentemente del ripristino di una pratica di cui non siamo riusciti a
stabilire la data precisa d’inizio, ma che certamente era adottata dal Torrone, non sappiamo con
quanta regolarità e continuità, già dalla fine del XVI secolo, e consisteva nell’esame settimanale,
fatto congiuntamente da legato, uditore e capo notaio, delle cause in corso per chiudere rapidamente
e in modo informale quelle di lieve entità o per le quali si riteneva di non disporre di prove o indizi
sufficienti per individuare un colpevole e condannarlo. Insieme alla visita graziosa, che svolgeva
funzione analoga, e alla sospensione dei procedimenti contro i contumaci – affermatasi più tardi,
durante la seconda metà del XVIII secolo – la lettura di lista era uno strumento efficace per
sfrondare il lavoro del tribunale, concentrandolo sulle cause ritenute più importanti o per le quali si
riteneva comunque di poter arrivare a una sentenza di condanna.
Analoghe considerazione, con toni più rispettosi, furono avanzate da diversi governatori, ma
Lante replicò con decisione che i prospetti erano “istituzione provvidissima […] uno de serviggi più
importanti all’amministrazione della giustizia punitiva” perché permetteva “di tener dietro alla
marcia delle procedure” – in altri termini di controllare la produttività dei giusdicenti e dei loro
collaboratori – e redigerli era un obbligo assoluto. Alle proteste di Suali, che invece del prospetto
richiesto gli aveva mandato una relazione stiracchiata e generica sull’attività del tribunale rispose,
in termini meno ultimativi, che si rendeva conto della fondatezza di alcune sue obiezioni e che gli
avrebbe inviato uno scrivano che giornalmente avrebbe registrato le operazioni compiute dai
processanti per usarle come base del prospetto che comunque ribadiva andava fatto seguendo
puntualmente il modulario 106. La fermezza del legato fece in modo che nel giro di pochi mesi il
sistema cominciasse a funzionare abbastanza regolarmente, anche se in genere i prospetti
arrivavano con un certo ritardo – il 10 del mese successivo a quello cui si riferivano era il termine
perentorio e irrealistico fissato da Lante – e non sempre erano precisi e perfettamente rispondenti al
modello prescritto.
Sin dai primi mesi del 1817 l’attività di monitoraggio del funzionamento della macchina della
giustizia cominciò a evidenziare problemi e criticità. Il primo che il legato dovette affrontare fu
appunto quello della “lettura di lista”: nel marzo del 1817, inviando alla Segreteria di Stato i
prospetti di gennaio e febbraio corredati dalle sue osservazioni, Lante segnalava che aveva appurato
che alla “lettura di lista”, per economia di tempo, partecipavano solo i processanti e il vicelegato –
cui aveva affidato la sovrintendenza del tribunale – “ e siccome i giudizi del tribunale devono essere
collegiali e non individuali” aveva dato disposizione che d’ora in poi vi partecipassero anche due
giudici. In ogni caso, anche le cause chiuse in questo modo andavano riportate nei prospetti mensili,
con la relativa motivazione. Nel giugno tornò sull’argomento per riferire che era rimasto
105 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1816, rub. 1, 29 novembre. 106 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 2 dicembre.
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negativamente colpito dal modo sbrigativo con cui il tribunale liquidava in lettura di lista “tutta
sorte di cause e per qualunque titolo”, decidendo quasi sempre per la “dimissione de carcerati” per
mancanza di indizi, senza neppure interpellare il procuratore fiscale che invece aveva il compito di
controllare tutti i procedimenti. Il legato faceva notare che le cause per le quali era competente il
tribunale in primo grado riguardavano tutte delitti che comportavano una pena superiore all’anno di
galera e quindi non potevano essere risolte “in forma troppo ordinaria ed economica”, senza la
“necessaria maturità e aver dato campo al fiscale di far tutte le sue espressioni”. Insomma il
tribunale adottava procedure che riprendevano quelle del Torrone e sicuramente velocizzavano il
lavoro, ma certo non erano in sintonia con l’idea di legalità che i francesi avevano introdotto e che il
legato e Consalvi condividevano 107.
La questione fu però ripresa in esame, con maggiore pragmatismo, durante la legazione di Spina.
Nel febbraio del 1819 Quattrorecchi, dopo aver rilevato che l’assessore e il tribunale criminale di
Bologna avevano ormai accumulato un arretrato allarmante e che non si notava nessuna inversione
di tendenza, ne individuava la causa nel fatto che si trattavano con la stessa procedura
le cause di piccola entità come quelle gravi, assoggettando gli imputati a replicati e formali costituti, e dettagliate
contestazioni, legittimazione e pubblicazione di processo ed a formale termine difensivo, piuttosto che trattarle sommariamente […] egli è cosa certa (io parlo sempre di questa Legazione di Bologna) che all’epoca precedente
il 1796 le cause di tale natura, sopra semplici informativi sommari dell’Uditore Criminale risolvevansi, nella così
detta lettura di lista, coll’intervento degli impiegati criminali, dai quali gli atti erano assunti, ed in concorso di un
procuratore di poveri 108.
Il revisore dunque spezzava una lancia a favore della lettura di lista, ritenendola strumento efficace
per sveltire i lavori del tribunale e ricordando che una circolare della Segreteria di Stato del
dicembre del 1818 andava proprio in questa direzione, suggerendo l’adozione del metodo sommario
per le cause minori. Il legato accolse prontamente il suggerimento di Quattrorecchi e spedì una
circolare ai governatori raccomandando loro di adottare la procedura sommaria per le cause meno
gravi– che significativamente per Spina comprendevano anche le ferite e lesioni personali di una
certa serietà, purché “senza pericolo di vita”, ma non i furti 109 “anche di poco conto” – “cosicché in
quello stesso spazio di tempo moltissime se ne potrebbero ultimare e decidere”.
Tuttavia contemperare le esigenze della rapidità e di un minimo di correttezza procedurale era
tutt’altro che facile. Di lì a poco Placci denunciava che i governatori avevano preso troppo alla
lettera le indicazioni del legato e procedevano ad archiviare i procedimenti con un non luogo a
procedere senza chiedere l’autorizzazione del tribunale, come era invece prescritto dai regolamenti,
e senza che il fiscale ne fosse a conoscenza, anche nei casi che, prevedendo il titolo di reato una
pena superiore all’anno di lavori forzati, non erano di loro competenza, se non per la fase istruttoria 110. Lo stesso Quattrorecchi fu costretto ad ammettere che si era andati troppo oltre e che occorreva
richiamare all’ordine i governatori ricordando loro che, quantomeno per le cause di competenza del
tribunale, non potevano archiviare senza interpellarlo dopo aver compiuto tutti gli atti preliminari
previsti dalla procedura ordinaria; in quanto al tribunale, bisognava rispettare alla lettera le
disposizioni impartite da Lante in ordine all’intervento dei giudici nella lettura di lista e al rispetto
di precise formalità, fra cui quella di acquisire il parere del fiscale prima di prendere qualsiasi
decisione.111
Il tema dell’uso e abuso della lettura di lista era in parte connesso a quello più generale delle
competenze giurisdizionali. Come abbiamo visto, il Motu proprio del 1816 prescriveva che le cause
107 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, s.d., ma inizi giugno.
108 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 5 febbraio. 109 La raccomandazione di usare la massima severità per punire i furti è una costante. Nell’ottobre del 1823 Giulio
Maria della Somaglia, appena subentrato a Consalvi nella carica di Segretario di Stato, scriveva al Legato Spina “ho
notato che il delitto più frequente in tutta la Legazione è il furto e si devono sollecitare i governatori a sbrigare tali cause
sollecitamente, perché la repressione, come ben sa, estirpa i delitti”, ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1823, rub. 1. 110 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 13 marzo. 111 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 2 gennaio.
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per delitti per cui era prevista una pena fino a un anno di galera erano di competenza dei
governatori, mentre per tutte le altre gli atti, terminata la fase istruttoria, dovevano essere trasmessi
al tribunale di Bologna. Limpida sulla carta, in pratica la distinzione non era così semplice. Molti
governatori si erano formati ai tempi in cui erano in vigore i codici napoleonici e più di una volta
Lante e i suoi collaboratori dovettero ricordare che il Motu proprio li aveva aboliti e che perciò
bisognava fare riferimento alla legislazione bannimentale e in particolare al bando Serbelloni, con il
quale, per motivi anagrafici, quasi nessuno di loro aveva dimestichezza. Per di più il bando, pur
avendo attenuato l’arbitrium del giudice, prevedeva spesso intervalli notevoli della pena edittale e
un complesso sistema di circostanze aggravanti e attenuanti che in molti casi rendeva difficile
decidere con sicurezza se si trattava di una causa del primo o del secondo tipo.
Nel dubbio i governatori, per semplificare le cose, tendevano ad attribuirsi le cause senza
guardare troppo per il sottile e, per farlo, nel compilare i prospetti non esitavano a omettere elementi
che avrebbero invece indotto ad attribuirle al tribunale. In più di un’occasione Quattrorecchi,
consultatosi con il legato, dovette ricordare loro che i prospetti dovevano essere esaustivi e veridici
e che in tutti i casi dubbi dovevano rivolgersi al tribunale, al cui presidente e fiscale spettava la
decisione in materia di competenza. Il problema era però che i casi dubbi erano molti e per ciascuno
di essi era necessario uno scambio d’informazioni e istruzioni, che allungava i tempi e appesantiva
il funzionamento degli uffici. Ad esempio il furto di una cavalla avvenuto a S. Giovanni in Persiceto
diede origine a un lungo e dotto carteggio fra governatore e fiscale: il primo sosteneva che,
trattandosi di furto semplice, la pena edittale era inferiore a un anno e dunque sotto la sua
giurisdizione, il secondo sosteneva che nel bando Serbelloni si distingueva fra furto di animali
piccoli e grossi, che per i secondi era prevista una pena superiore, anche senza circostanze
aggravanti, e che dunque la competenza era del tribunale; il governatore a sua volta replicava che si
trattava di una cavalla molto piccola e gracile…112
Lante, Spina e i loro collaboratori tuttavia attribuivano la tendenza dei governatori a esorbitare
dalle loro competenze non solo a scarsa preparazione professionale, a pigrizia e sciatteria, ma anche
a quella che ai loro occhi appariva una pericolosa inclinazione all’eccessiva mitezza. Terminare
una causa in lettura di lista, o comunque sottrarla alla competenza del tribunale, di fatto in molti
casi significava derubricare il reato, poter concedere la libertà provvisoria e applicare pene molto
meno severe di quelle draconiane previste dalla normativa bannimentale anche per reati – il classico
furto di polli – che agli occhi dei governatori potevano apparire lievi e meritevoli di indulgenza.
Placci, Masetti e Quattrorecchi perciò non si stancavano di ricordare che nei prospetti andavano
indicate tutte le circostanze aggravanti, in primis la recidiva; che bisognava tenere presenti non solo
gli interessi degli imputati, ma anche e soprattutto quelli del “fisco” e delle parti offese che avevano
il diritto di essere risarcite; che era necessario perseguire anche i delitti minori “perché è indubitato,
che una serie di piccoli delitti rimasti impuniti, agevola la commissione de grandi” 113; che le
sentenze, soprattutto assolutorie, andavano sempre motivate; che la libertà provvisoria doveva
essere concessa con estrema cautela soprattutto nei casi di furto; che non si potevano semplicemente
scarcerare gli imputati, adducendo nel prospetto “per mancanza di indizi” senza chiedere prima il
parere del tribunale. I revisori avvertivano inoltre che, siccome ormai tutti i condannati ricorrevano
in appello sovraccaricando di lavoro il Tribunale, era opportuno informarli che non era affatto vero,
come si riteneva comunemente, che in secondo grado le pene non potevano essere aumentate perché
era invece facoltà del fiscale farne richiesta.
L’accusa di lassismo non era rivolta solo ai governatori, che possiamo supporre più sensibili ai
problemi, e alle pressioni, degli imputati, dei loro amici e familiari, ma anche al tribunale: tale
Benaglia, colpevole di “uso di chiave falsa, fuga dalla forza, di pessima qualità e recidivo” era stato
condannato a dieci anni di lavori forzati, mentre meritava la galera a vita; Selleri e Cornetti a cinque
anni mentre ne meritavano dieci; Cavalli meritava la pena capitale e invece se l’era cavata con 20
112 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 2 luglio. 113 L’osservazione è di Quattrorecchi ed è relativa ai prospetti del dicembre 1823, cfr. ASB, Legazione apostolica, tit.
XII, 1823, rub. 1.
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anni di lavori forzati. La maggior parte dei rilievi rivolti da Placci e Masetti al presidente del
tribunale aveva un denominatore comune, il richiamo alla necessità di esercitare un maggiore rigore 114. I rilievi e le indicazioni che provenivano da Roma, andavano nella stessa direzione: nel giugno
del 1817 la Segreteria di Stato rilevava che il tribunale era troppo di manica larga nello scarcerare,
soprattutto nei casi di furto “tanto severamente punito dalla attuale legislazione” 115.
Presto però si dovette prendere atto del fatto che il problema più grave era la lentezza del
funzionamento della giustizia. Inizialmente si pensò che si trattasse di una situazione contingente di
sovraccarico di lavoro provocata dall’arretrato che si era accumulato durante gli ultimi rivolgimenti
politici e che fosse sufficiente smaltirlo per riportare in equilibrio il sistema. Nel febbraio del 1817
Lante propose la costituzione di una commissione speciale, presieduta da lui stesso con l’assistenza
del vicelegato Adriano Fiaschi, che in tre o quattro mesi avrebbe dovuto sbrigare le cause più
semplici rimaste in sospeso adottando una procedura sommaria, mentre il tribunale avrebbe potuto
dedicare tutto il suo tempo a quelle più gravi. In tal modo, concludeva il legato con eccessivo
ottimismo, una volta esaurite le pendenze
si potrà stare in corrente, restandomi assaissimo in cura di conoscere l’andamento periodico dei travagli
criminali, sia per le viste politiche ed economiche del Governo, sia ancora per diversi rapporti personali dei rispettivi carcerati e delle famiglie.116
Consalvi accolse prontamente la richiesta e il mese successivo la commissione era già in piena
attività. Lo era ancora nel gennaio del 1821 e, notava con disappunto Consalvi, i suoi lavori
procedevano a rilento nonostante “la procedura in virtù delle attribuite facoltà non dovrebbe essere
che celere, e assai più breve, ed espedita, di quella che si richiede per le cause e tribunali ordinari” 117. Il problema era che nonostante la commissione, l’assessore di Bologna non riusciva a tenere il
passo e accumulava esso stesso un arretrato sempre crescente. Nel 1819 Quattrorecchi annotava che
nel giro di poco più di un anno le cause arretrate dell’assessore erano passate da 589 a 676 e
continuavano a crescere: nel luglio del 1819 ne erano state aperte 50 e chiuse solo 11 118, il che lo
induceva, come abbiamo visto, a suggerire di non essere troppo rigidi e formalisti rispetto alla
lettura di lista. Placci e Masetti per parte loro denunciavano una situazione analoga, appena meno
grave, per il tribunale, presso il quale nel periodo gennaio 1817/giugno 1818 erano state registrate
3141 denunce, di cui 2561 per furto e 2593 contro ignoti, e archiviate o portate a sentenza solo 1073
cause 119.
In un primo tempo era sembrato che il problema riguardasse soprattutto il funzionamento
dell’assessorato e del tribunale, e toccasse meno quello dei governatorati i quali, come abbiamo
visto, presentavano criticità di ordine diverso. Presto però anche nelle sedi periferiche cominciarono
ad accumularsi ritardi e arretrati. Nell’agosto del 1822 Consalvi, palesemente irritato e preoccupato,
scriveva al legato che dai prospetti aveva ricavato che nel mese di giugno nei quattordici
governatorati della Legazione erano state introdotte 80 cause nuove a fronte di appena 25 vecchie
concluse e lo invitava a prendere energici provvedimenti 120. Ma erano già mesi che i revisori,
sempre più allarmati per la crescente sproporzione fra cause introdotte e cause risolte, segnalavano
l’emergenza al legato e spronavano i governatori a lavorare di più, appellandosi alla loro coscienza
di cristiani e servitori dello stato. Tirare per le lunghe i processi a carico d’imputati incarcerati
rendeva crudele una giustizia che si voleva solo pronta e severa, e per di più costituiva un onere per
114 Osservazioni fatte ai prospetti di ottobre e novembre 1818, cfr. ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1. 115 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 14 giugno. 116 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 6 febbraio. 117 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 13 gennaio. 118 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 9 gennaio, 5 febbraio e 30 agosto. 119 Relazioni di Placci del 21 ottobre 1818 e di Masetti del 18 ottobre 1820, rispettivamente in ASB, Legazione
apostolica, tit. XII, 1819 e 1820, rubr. 1. Una interessante statistica dei delitti denunciati a Bologna nell’età della
Restaurazione in S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento, pp. 273-279. 120 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 24 agosto.
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l’erario cui spettava il mantenimento degli imputati ristretti poveri, cioè quasi tutti. Con accenti di
viva riprovazione, Quattrorecchi faceva notare al governatore di Budrio che teneva in carcere da
cinque mesi un imputato per il furto di alcune pecore e che in quel lasso di tempo aveva interrogato
un solo testimone; a quello di Castel S. Pietro che due accusati per un furto semplice erano in
carcere da un anno e non si intravedeva la fine della causa; a quello di Porretta che il sospettato era
in carcere da ben 15 mesi e dal prospetto non si capiva cosa fosse stato fatto, o non fatto, nel
frattempo: “Veramente in cause, la cui pena non può eccedere l’anno, parrebbe che si dovessero
definire con maggiore celerità, onde evitare l’inconveniente di condannare con una troppo lunga
detenzione pria della sentenza definitiva”, era il suo commento indignato 121.
I rilievi di questo tenore nelle relazioni di Quattrorecchi diventarono sempre più frequenti a
partire dai primi mesi del 1821 e, per qualche tempo, sembrarono aver raggiunto lo scopo di
velocizzare i processi con imputati incarcerati. Presto però il revisore si rese conto che i governatori
dedicavano forse più tempo ai processi a carico di detenuti – tanto che l’arretrato se non era
diminuito, non era neppure aumentato – ma ne sottraevano a quelli contro contumaci o ignoti,
seguendo peraltro un ordine di priorità che era stato indicato da Lante, il quale nel febbraio del 1817
aveva raccomandato di non trascurare nessuna causa, ma di dare la precedenza a quelle per reati
gravi commesse da imputati ristretti in carcere “che interessano più da vicino l’ordine della società
e lo stato nella parte economica” 122. Nel gennaio 1819 Quattrorecchi doveva segnalare a Spina che
“in generale la maggior parte dei governatori trascura l’assunzione degli atti e la risoluzione delle
cause contro gli imputati non carcerati” 123. Nelle sue relazioni successive il problema viene
segnalato costantemente e riguarda, in misura diversa, tutti i governatorati.
Per l’assessore e il tribunale, l’emergenza si era manifestata anche prima, tanto che Placci nel
corso del 1818 aveva ripetutamente consigliato al legato di intervenire energicamente per evitare
che la situazione sfuggisse di mano. Stilando un bilancio dell’attività svolta dal tribunale nel 1819,
Masetti rilevava che le cose non erano migliorate, anzi le cause contro non carcerati “generalmente
parlando veggonsi alquanto neglette, ed in modo particolare poi alcune di titolo rilevante, come furti
qualificati, ingiurie, sevizie ed offese” 124.
Nonostante i richiami, la situazione continuò a peggiorare. In buona sostanza, la coperta era
troppo corta: accelerare i processi a carico d’imputati carcerati significava inevitabilmente rallentare
gli altri. D’altra parte, l’accumulo di procedimenti arretrati contro imputati noti non carcerati e
contro ignoti, oltre a danneggiare le parti lese e a screditare il prestigio della giustizia
indebolendone la funzione deterrente ed esemplare, generava poi un ulteriore effetto perverso che si
ripercuoteva, in un circolo vizioso, sulla efficienza del sistema: nei prospetti mensili infatti non si
dovevano riportare solo le cause introdotte durante il mese, ma anche tutte quelle arretrate, con il
relativo stato di avanzamento. In breve lasso di anni i prospetti divennero assurdamente lunghi e la
loro stesura un onere sempre meno sopportabile.
4b. Un organico di indolenti e fannulloni? A partire dai primi anni Venti cominciò ad apparire
chiaro che la produttività del sistema giudiziario era insufficiente. Quello che entrava – in termini di
denunce, querele, procedimenti avviati – era più di quello che usciva – in termini di decisioni e
sentenze definitive e l’arretrato aumentava inesorabilmente. Se il dato di fatto era innegabile, più
difficile risultava identificarne le cause e trovare i rimedi. Inizialmente, come abbiamo visto, era
apparso ragionevole pensare che l’inefficienza derivasse da fattori contingenti: il caos seguito alla
fine del Regno italico, le carenze di personale, l’inevitabile rodaggio necessario per mettere a
regime una struttura amministrativa e giudiziaria molto diversa da quella precedente.
Tuttavia all’inizio del 1819 la riforma dello stato prevista dal Motu proprio del 1816 era stata
sostanzialmente realizzata e i vuoti dell’organico del personale previsto per il tribunale e i
121 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 22 marzo. 122 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 22 febbraio. 123 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 9 gennaio. 124 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 15 gennaio.
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governatorati erano stati colmati, ma la situazione anziché migliorare peggiorava. Ovvia divenne
allora la tentazione di porre sotto accusa la pigrizia e inefficienza del personale. Ora che hanno
avuto il personale ausiliare previsto, la lentezza dei governatori nello sbrigare le cause di loro
competenza “non merita scusa”, denunciava Quattrorecchi; il lavoro degli impiegati del Tribunale
“risulta a mio subordinato parere piuttosto scarso” gli faceva eco Masetti nell’ottobre del 1820 125.
Spesso le accuse dei revisori dei prospetti erano meno generiche e facevano nomi e cognomi:
Gaetano Piacenti – uno dei quattro processanti del Tribunale – lavora poco e male ed è “indolente”
accusava Placci nell’ottobre del 1818, in quanto a Livizzani, rilevava l’anno successivo, lavora la
metà degli altri tre suoi colleghi; negli ultimi mesi i processanti Bonaga e Montanari per le cause
contro non carcerati non hanno fatto praticamente nulla, riferiva Masetti nel dicembre del 1822. La
bestia nera di Quattrorecchi era invece Luigi Barattini. Processante del Tribunale dove non si era
distinto per la sua alacrità, nel giugno del 1818 Barattini era stato nominato governatore di Budrio.
Nel gennaio del 1819 Quattrorecchi segnalava al legato che diversi governatori gli avevano inviato
il prospetto mensile in ritardo e che quello di Budrio non glielo aveva inviato affatto. Nelle
successive relazioni del revisore non manca mai un riferimento ai ritardi, alle omissioni e alle
imprecisioni dei prospetti di Barattini, tanto che nell’agosto del 1821, rilevando che il prospetto di
Budrio mancava, il revisore si limitò ad annotare, quasi con indifferenza, che tale comportamento
“può dirsi abituale” 126. Nell’aprile dell’anno precedente Spina aveva scritto una dura lettera al
governatore, ricordandogli che era in arretrato di sei mesi nell’invio dei prospetti e minacciando di
mandare a Budrio un impiegato del tribunale per redigerli al suo posto e a sue spese.
Evidentemente Barattini non si era però spaventato eccessivamente visto che ancora nel dicembre
del 1822 Quattrorecchi doveva annotare che “Budrio costantemente in tutti i mesi ritarda”. Tuttavia,
sempre Quattrorecchi riconosceva che, negligente nella compilazione dei prospetti, Barattini per il
resto era “probo e zelante giudice”. Una stima evidentemente condivisa da Spina che, invitando
Barattini a essere più solerte, concludeva che per il momento si asteneva dal prendere
provvedimenti disciplinari solo “per una specialità di riguardo alla sua immediata persona” 127. Il
giudizio, tutto sommato positivo, di Quattrorecchi e Spina sulle qualità di Barattini poggiava su
elementi di valutazione che ci sfuggono, e comunque non ebbe seguito. Presto Quattrorecchi
cominciò a denunciare che Barattini non solo continuava a essere lento nel redigere i rapporti, ma
aveva cominciato a esserlo anche nell’istruire i processi contro carcerati. Nel settembre del 1822, su
sua segnalazione, il vicelegato Amat di San Filippo, che aveva assunto la direzione della Legazione
in attesa dell’arrivo del successore di Spina, scrisse al governatore di Budrio una lettera di insolita
asprezza, stigmatizzando la sua
lentezza nella compilazione ed ultimazione delle processure e segnatamente di quelle […] dell’imputati detenuti
nelle carceri di questo tribunale criminale i quali si lagnano di trovarsi in carcere chi nove e chi dieci mesi senza
essere stati sentiti [...] Se ella non cambierà contegno e tosto e concludentemente si adotteranno delle misure per
lei dispiacevoli e mortificanti, non potendosi tollerare che il servizio della giustizia sia cotanto negligentato 128.
Anche questa volta Barattini non cambiò atteggiamento e nell’ottobre del 1823 (per punizione?) fu
trasferito a Castiglione, in montagna. Di li a pochi mesi anche da Castiglione i prospetti
cominciarono ad arrivare in ritardo e ancora in ritardo arrivavano nel 1830.
Nonostante tutto, infatti, la carriera di Barattini durò ancora a lungo. Nel 1831, come da tempo
chiedeva, tornò di nuovo a Budrio come governatore, carica che ricoprì fino al 1843 continuando ad
addurre, per i ritardi nell’invio dei prospetti come nel disbrigo dei processi che gli venivano
frequentemente addebitati, giustificazioni sempre più lamentose e patetiche: nel marzo del 1838 il
fiscale Gianpietro Gozzi gli ricordava “in nome dell’umanità e giustizia” che, malgrado i ripetuti
125 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 27 ottobre. 126 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 31 agosto. 127 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 5 e 9 febbraio. 128 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 11 novembre.
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solleciti a chiudere il processo, Domenico Zuffa, imputato di un furto di buoi, era in carcere da oltre
4 anni e il governatore gli rispondeva “mi ha veramente passata l’anima il suo rimprovero”, che il
tenente di carabinieri di Budrio avrebbe potuto testimoniare sulla sua “assidua ed improba fatica e
della poca corrispondenza che trova”, e che tuttavia avrebbe fatto l’impossibile “e così mi libererò
di un carico che mi opprime di una crucciosa agitazione che prostra le mie forze fisiche e morali a
segno che potrei dire in amaritudine animae meae dies mei breviantur et solum mihi superest
sepulcrum” 129.
Nel giugno Zuffa era ancora in carcere e Barattini godeva evidentemente di buona salute, tanto
che alcuni anni dopo, nel 1843, il legato Ugo Pietro Spinola aveva modo di ricordargli che nelle sue
carceri c’erano imputati che aspettavano da tre anni che si decidesse la loro sorte e concludeva
minacciosamente: “Io non posso ulteriormente tollerare un tale abuso, sicché se non provvederà
immediatamente prenderò provvedimenti senza ulteriore avviso e diffidazione” al che l’ineffabile
Barattini replicava
la fortissima impressione che in me ha prodotta la sua lettera sta in armonia colla presente settimana di lutto e di
pianto [gli era morto un fratello], e non si cancellerà mai dall’animo mio. Potrei forse umiliare qualche relativa
rispettosa osservazione, ma le apparenze stanno purtroppo contro di me, e mi condannano al silenzio. Però se
Iddio m’assiste, risponderò tra pochi giorni coi fatti come feci per la causa di Domenico Ferrari [un altro
disgraziato che era rimasto nelle carceri di Budrio per oltre due anni], e non mi darò pace finchè non mi sarò
liberato da questo peso insopportabile 130.
Ci siamo soffermati sul caso Barattini perché è emblematico: nonostante tutte le sue
manchevolezze egli non fu mai licenziato, né risulta che abbia mai subito alcuna sanzione
disiciplinare a parte, forse, il trasferimento per alcuni anni nella sede di Castiglione, certo più
disagiata di quella di Budrio. Non ci risulta che Barattini godesse di particolari appoggi o
raccomandazioni. Semplicemente, nel suo caso, come in altri, l’amministrazione pontificia tendeva
a essere tollerante perché pagava poco i suoi dipendenti e doveva accontentarsi di un personale
spesso mediocre, anche perché sarebbe stato comunque difficile trovarne di migliore. A giudicare
dalle relazioni dei revisori di quegli anni, Barattini non doveva essere molto peggiore di altri
governatori.
Pigrizia e incompetenza del personale però potevano spiegare solo in parte l’inefficienza del
sistema. Se ne rendeva conto lo stesso Placci, sempre severo nel giudicare gli impiegati del
tribunale, ricordando al legato che i prospetti mensili non rendevano piena giustizia alla mole di
lavoro che essi si sobbarcavano. Ad esempio dai prospetti non risultava il tempo speso per recarsi
sul luogo del delitto per raccogliere prove e reperti e interrogare “tutti li derubati ed altri nelle cause
contro incerti”, tutte operazioni che ai tempi del Torrone venivano compiute da un notaio e ora
dovevano essere espletate dal giudice istruttore, pena la nullità degli atti; per intrattenere il
quotidiano carteggio con i governatori per impartire loro istruzioni, correggere errate interpretazioni
della legge e della procedure, chiedere supplementi di indagine; per esaminare i ristretti dei processi
fatti dai governatori e leggere i loro pareri consultivi e per giudicare in appello le cause da loro
sentenziate in primo grado; per chiedere, o fornire, informazioni a giusdicenti di altre Legazioni e a
stati stranieri; per redigere i ristretti dei processi da avviare a dibattimento; per protocollare tutti gli
atti in entrata e in uscita; per stendere, infine, prospetti sempre più lunghi mano a mano che si
accumulava l’arretrato. Inoltre si doveva tenere presente
che ogni sabbato e per lo più anche ogni giovedì vengono quasi tutti i giudici processanti alla residenza di Vostra
Eccellenza per assistere alle congregazioni ordinarie e di lista per leggere i loro ristretti e rapporti, perdendo così
le ore intiere di lavoro in operazioni necessarie e d’obbligo ma che però non risultano.
129 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1838, rubr. 1, 25 aprile. 130 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1843, rub. 1, b. 1, 10 e 12 aprile.
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I giudici lavoravano tutti i giorni dalle 9 alle 16 e poi, tornati a casa e al di fuori dell’orario di
lavoro, facevano i ristretti e nei casi complicati “un solo ristretto può portare la fatica di un mese
[...] sicché meriterebbero invece di rimprovero qualche compenso avuto riguardo alle loro fatiche e
poco soldo”, concludeva Placci suggerendo innanzitutto di aumentare il numero non tanto dei
giudici – i sei attuali sarebbero stati sufficienti se il lavoro fosse stato organizzato meglio – quanto
degli scrivani del tribunale. Si sarebbero così liberati i giudici dai compiti impiegatizi sempre più
gravosi che erano stati loro accollati, mettendoli in grado di fare solo il proprio mestiere, quello
d’inquirenti e giudici appunto. Inoltre sarebbe stato opportuno raddoppiare il numero dei notai
sostituti, portandoli a due per ogni processante
perché quando un giudice costituisce [interroga] un reo con un sostituto, l’altro sostituto lavora e forma
l’informativo in diverse cause. Ecco perché alcune volte si vede che un processante sembra essere in ozio
mancando il sostituto notaro che lo coadiuvi;
in questo modo, secondo Placci, la produttività del tribunale si sarebbe potuta triplicare, con una
spesa tutto sommato contenuta 131.
A sua volta Quattrorecchi, che pure faceva il suo lavoro di revisore con puntigliosa scrupolosità e
non lesinava richiami ed esortazione a lavorare di più e meglio, doveva ammettere, a conclusione di
un giro d’ispezione delle cancellerie dei governatorati che, tutto sommato, “le processure sono
abbastanza regolarmente compilate, e se non presentano copioso e assiduo lavoro, non sono per
altro da essere censurate per soverchia trascuratezza”. Se la durata dei processi continuava ad
allungarsi e il numero delle cause pendenti a crescere, la colpa non era tanto della negligenza del
personale, quanto della mole crescente di lavoro: non si doveva infatti dimenticare che i governatori
avevano il compito di amministrare non solo la giustizia criminale, ma anche quella civile che
diventava di giorno in giorno più impegnativa, oltre ad avere numerose altre incombenze di natura
non giudiziaria 132.
Nonostante gli sforzi dei legati Lante e Spina per rafforzare l’organico degli uffici giudiziari e
quelli di Placci, Masetti e Quattrorecchi per organizzarne meglio il lavoro, i risultati non furono
quelli sperati. Nel novembre del 1825 il successore di Spina, il cardinale Giuseppe Albani,
confermò Masetti e Quattrorecchi nella carica di revisori e li incaricò di redigere un rapporto
complessivo sulla situazione della giustizia nella Legazione. I due portarono rapidamente a termine
il compito loro assegnato e redassero una serie di tabelle in cui erano sintetizzati i dati relativi alle
cause con e senza carcerati. Il quadro che ne emergeva era tutt’altro che confortante. Per le cause
senza carcerati dell’assessore criminale di Bologna, Quattrorecchi, dopo aver ricordato che gli si era
consentito di omettere nei prospetti le cause arretrate che si erano accumulate negli anni precedenti
perché erano circa un migliaio e avrebbero occupato un volumetto, rilevava che nel mese di
dicembre del 1824 ne erano state introdotte 32 nuove e terminate solo 14 “delle moltissime
arretrate” e quasi tutte per rinuncia della parte offesa “trattandosi di delitti di privata azione”; sicché
“è chiaro dopo ciò che non essendo in proporzione il numero delle cause che si risolvono, con
quelle che di mese in mese vanno introducendosi, si formerà un eccessivo numero di arretrate, con
notabile pregiudizio della giustizia”. La situazione dei governatorati, fatte le debite proporzioni, era
analoga.
Non diverso il bilancio relativo alle cause con imputati incarcerati, anche se i numeri assoluti
erano nettamente minori. Ad esempio presso l’assessore erano state introdotte 27 cause nuove e ne
erano state chiuse 13 vecchie; anche in questo caso c’era una drammatica sproporzione fra input e
output e le cose non andavano diversamente nei governatorati. In molti casi gli imputati erano
incarcerati in attesa di sentenza da oltre un anno. Non era diversa la situazione del tribunale: nel
gennaio del 1825 erano state introdotte 53 cause e ne erano state concluse 15, altre 10 erano quasi
terminate mentre le restanti 27 erano ancora in alto mare. Un imputato era in carcere dall’agosto del
131 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 21 dicembre. 132 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 5 febbraio.
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1821, altri 26 da oltre un anno. Si noti che era un bilancio, secondo Masetti, buono rispetto al
periodo precedente perché negli ultimi mesi il tribunale aveva lavorato più del solito 133.
Presa visione dei prospetti il legato inviò a governatori, assessore criminale e presidente del
tribunale una lettera circolare con cui, in buona sostanza, li invitava a lavorare di più e a spedire i
prospetti entro i termini prescritti. Le risposte non si fecero attendere e, con qualche variante legata
a situazioni specifiche, denunciavano tutte un carico di lavoro eccessivo rispetto al personale
disponibile; particolarmente dettagliata, e risentita – “ho letto colla massima dispiacenza la sua
lettera” – era quella dell’assessore Carlo Bravi:
La mia giurisdizione ha 115.000 abitanti e ogni anno vengono iscritte a registro 2000 cause; di esse circa la metà
richiede la formazione di un processo sicché ogni mese 80 di queste cause richiedono lavoro: queste 80 cause possono essere divise in 5 categorie: 15 con carcerati per diversi titoli, 15 per furti e truffe, 15 per ferite e
percosse, 20 per insulti e strapazzi, 15 per furti contro incerti o per ferite, per casualità oppure ad opera di incerti.
Nei prospetti mensili vengono registrate sole le cause delle categorie 2, 3 e 4, mentre per quelle della 1 si fa un
prospetto a parte; quelle della 5 non vengono comprese nel prospetto perché non comportano una sentenza, ma
tuttavia comportano lavoro per stabilire che si è trattato di una disgrazia, per acquisire la prova generica, per
stabilire di chi è la refurtiva per restituirla al proprietario e tutto questo il revisore deve ben saperlo.
Bravi passava poi a illustrare i compiti e le attitudini dei suoi sottoposti: l’unico veramente “attivo e
pratico”, era gravemente ammalato e aveva lasciato una montagna di pratiche sospese; un altro
impiegato affidabile era stato distaccato presso il tribunale per aiutare a smaltire l’arretrato e quello
che lo aveva sostituito andava bene “per stare sotto dettatura”, ma era assolutamente incapace di
condurre autonomamente una istruttoria; l’ultimo “per grazia superiore da un governo di campagna
è stato trasferito a questo tribunale” ma, per quanto volenteroso, non era capace di far nulla.
Egualmente irritata, e circostanziata, era la risposta del governatore di Poggio Renatico: il suo
sostituto era “come se non esistesse” perché talmente vecchio e malato che non lo faceva neanche
venire in ufficio, ma gli dava delle carte da ricopiare a casa, seduto vicino al fuoco; l’alunno – cioè
il praticante – Ferdinando Corneti, dopo aver lavorato per un anno gratis, da quando aveva capito
che per lui c’erano poche speranze di una assunzione stabile, si era eclissato; il cancelliere non era
riuscito a trovare una abitazione conveniente a Poggio, per cui la sua famiglia abitava a Bologna e
chiedeva continuamente permessi per andarla a trovare e lo stesso faceva uno dei due cursori la cui
famiglia stava invece ad Argelato. Il personale era quello che era, concludeva il governatore, in
compenso la giurisdizione di Poggio Renatico era molto ampia e il lavoro aumentava di continuo.
Più sfumate, ma analoghe, erano le giustificazioni degli altri governatori. La replica del legato fu
pacata e quasi di scuse: l’unico suggerimento che si sentiva di dare era quello di ricorrere
largamente alla chiusura dei procedimenti per i reati più lievi in lettura di lista – esattamente
l’opposto di quello che aveva raccomandato Lante alcuni anni prima – e utilizzare nel modo
migliore possibile il personale disponibile perché di nuovo, stante le ristrettezze delle finanze
pubbliche, non ne sarebbe arrivato 134.
Come gli era stato chiesto, il legato Albani aveva inviato le relazioni dei suoi revisori alla
Segreteria di Stato. La reazione dell’anziano ma energico Giulio Maria della Somaglia, succeduto a
Consalvi due anni prima, fu una raffica di rimproveri e l’ordine perentorio di inviare i prospetti
entro i termini prescritti e di redigerli più accuratamente. Albani cercò di difendere se stesso e i suoi
sottoposti, ricordando che “la voluta economia nel personale degli impiegati produce incaglio e
arenamento nella marcia degli affari a misura che questi si moltiplicano nel loro dettaglio”, ma la
replica del Segretario di Stato fu l’invio di una nuova modulistica per redigere i prospetti,
accompagnata dall’ordine perentorio di adottarla con effetto immediato: le notizie sullo stato dei
procedimenti richieste dai nuovi moduli erano molto più dettagliate che in quelli precedenti e,
conseguentemente, il lavoro necessario per redigerli più lungo e complesso.
133 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 5 e 22 febbraio. 134 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1825, rub. 1, 5, 21 e 22 febbraio, 3 marzo.
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Appena li ebbe ricevuti, Bravi – e i governatori gli fecero subito eco – protestò che “il nuovo
modulo porta un aggravio di spesa e di fatica perché le divisioni non sono semplicissime ma
dupplicate e ripetute contro la regola di semplicità e d’abbreviazione d’ogni operazione”, e la stessa
opinione espresse Masetti che, rilevando il ritardo – superiore al consueto – con cui gli erano stati
trasmessi i prospetti redatti secondo i nuovi criteri, sottolineava che per farli “ è stato impiegato un
numero doppio di fogli e di lavoro in confronto de’ prospetti precedenti”. Albani non poté che
rispondergli che la pensava esattamente allo stesso modo, ma che non aveva potuto in nessun modo
rimuovere della Somaglia dalla convinzione che solo un più accurato monitoraggio del
funzionamento della giustizia avrebbe consentito di intervenire con efficacia per correggerne gli
errori e migliorarne la produttività 135.
A riprova della sua convinzione che la conoscenza sempre più dettagliata del funzionamento del
sistema era la premessa indispensabile per correggerlo, il Segretario di Stato l’anno successivo
spedì ad Albani una nuova modulistica, ancora più raffinata e complessa della precedente, corredata
di lunghe e puntuali istruzioni su come compilarla. Fra le numerose novità, era prescritto che nei
prospetti si registrassero anche i condannati che dopo la sentenza non erano stati ancora inoltrati al
luogo di pena e i motivi del mancato trasferimento; che sul retro di ogni foglio si annotasse l’indice
alfabetico degli imputati elencati nel recto con a fianco l’indicazione del reato; che si redigesse
anche un accurato elenco di tutti i corpi di reato sequestrati e restituiti ai legittimi proprietari. Si
precisava inoltre che i prospetti, prima di essere spediti alla Segreteria di Stato, presso la quale era
stata istituita una apposita congregazione di vigilanza per esaminarli, dovevano essere controllati e
firmati dal cancelliere e dal procuratore fiscale che ogni dieci giorni doveva riscontrare la perfetta
corrispondenza fra i dati in essi riportati e quelli registrati nel protocollo di cancelleria sul quale
andavano annotati quotidianamente tutti gli atti compiuti dagli impiegati del tribunale o dei
governatori 136.
Alcuni governatori – non senza una certa dose di ironia – fecero notare che presso i governatorati
non c’erano procuratori fiscali: bisognava perciò portare ogni dieci giorni i registri di protocollo al
fiscale del tribunale di Bologna? Albani rispose che il controllo potevano effettuarlo i governatori
stessi 137. Più serie furono le obiezioni di Carlo Bravi, incaricato di redigere i prospetti
dell’assessorato e del tribunale, il quale fece presente che disponeva di due soli scrivani che, oltre a
sbrigare tutta la normale corrispondenza, dovevano redigere sei copie di ogni ristretto dei processi
pronti per il dibattimento e cinque copie di ogni processo istruttorio fatto dai governatori per le
cause che dovevano essere decise dal tribunale e chiese perciò di poter omettere dagli elenchi delle
cause pendenti almeno quelle contro imputati non carcerati e relative a reati lievi che comportavano
una pena solo pecuniaria “perché l’elenco sarebbe lungo e mancano le braccia per farlo”. Con una
certa riluttanza – temeva la reazione del Segretario di Stato – Albani accondiscese 138.
In pratica si era convenuto di nascondere la polvere sotto il tappeto, ma il trucco non funzionò a
lungo. La lista delle cause pendenti, anche per delitti gravi, continuò ad allungarsi e di conseguenza
anche i prospetti dell’assessorato e del tribunale tornarono a essere sempre più voluminosi.
Contemporaneamente Masetti, che aveva assunto in toto il compito di revisore perché Quattrorecchi
era stato nominato governatore di Bazzano, era costretto a segnalare al legato, mese dopo mese, che
i prospetti (nel frattempo avevano cambiato nome e si chiamavano stati) arrivavano con sempre
maggiore ritardo, erano spesso incompleti e quasi mai rispettavano alla lettera i criteri prescritti
dalla commissione di vigilanza.
Nel gennaio del 1827 della Somaglia tornò a significare ad Albani la sua insoddisfazione per
come era amministrata la giustizia nella sua Legazione: troppo arretrato, c’erano cause sospese da
tre, quattro, persino cinque anni; gli stati mensili arrivavano con grande ritardo ed erano quasi
sempre imprecisi; soprattutto erano troppi gli imputati rilasciati per mancanza di prove dopo aver
135 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1825, rub. 1, 22 e 26 luglio, 14, 18 e 26 agosto. 136 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 1 settembre. 137 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 25 settembre e 1 ottobre. 138 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 7 novembre.
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trascorso anche lunghi periodi in carcere gravando sulle finanze pubbliche. Il legato rispose
stancamente che il problema era sempre lo stesso: troppo lavoro per troppi pochi impiegati; in
quanto all’accusa di procedere con troppa leggerezza agli arresti fece notare piccato che molto
spesso tali arresti non erano ordinati dal giudice istruttore, ma disposti dalle autorità di polizia che
usavano con molta generosità della propria autonomia decisionale in materia “per proprio istituto,
per mire prudenziali, o per misure cautatorie, forse con speranza di un esito felice nel giudizio, che
poi non si ottiene” 139.
Nei due anni successivi continuò il dialogo fra sordi. Masetti scongiurava il legato di prendere
atto della situazione e di ottenere dalla Segreteria di Stato una semplificazione degli stati mensili:
col portare sempre sugli stati le cause introdotte e pendenti anche di più anni contro persone non carcerate, non
contumaci e non abilitate [a cui non è stata concessa la libertà provvisoria] si anderà a formare degli stati
medesimi una mole quasi immensa, alla di cui costruzione neppure più impiegati potranno reggere, perciocché il
numero delle cause che s’introducono ogni anno ed ogni mese è di gran lunga maggiore di quelle che si possono
decidere nello stesso periodo di tempo, come si può rilevare dalla semplice ispezione degli stati, dal che ne
avviene che restando ogni mese, ed ogni anno, indecise moltissime cause si va a formare un vistoso arretrato di
queste, ed una gran mole sempre crescente negli stati periodici, quando tutte vi si debbano riportare
D’altra parte, anche se fosse stato possibile ottenere più personale, o fare lavorare di più quello che
c’era, suggeriva il revisore, sarebbe stato meglio utilizzarlo per portare a termine i processi più
velocemente, anziché per compilare gli stati: il tempo necessario per redigerli come voleva la
Segreteria di Stato infatti era sempre più lungo e veniva sottratto agli altri compiti attribuiti a
governatorati e tribunale con il risultato che le cause pendenti divenivano sempre più numerose e
rendevano la stesura degli stati sempre più onerosa. Si trattava di un circolo vizioso che si doveva
spezzare, anche perché non sembrava che l’attività conoscitiva imposta da Roma avesse sortito gli
effetti desiderati 140. Alle richieste di semplificare, se non abolire, gli stati, la congregazione
rispondeva non solo ribadendo l’assoluta necessità di redigerli come prescritto, ma rendendoli
sempre più circostanziati e producendo in continuazione una nuova modulistica che confondeva
ulteriormente le idee agli addetti alla loro compilazione.
L’ossessione di conoscere e misurare, e l’illusione che ciò servisse a cambiare le cose, anche
senza adottare le misure drastiche che sarebbero state necessarie per correggere il funzionamento
della macchina della giustizia, faceva ormai parte della cultura degli uomini di governo dello Stato
pontificio non meno che di quella degli altri stati europei, anche se i mezzi di cui essi disponevano
erano diversi 141. Albani, che da legato aveva ritenuto ragionevoli e perorato le proposte di
Quattrorecchi e Masetti, appena divenuto Segretario di Stato si affrettò a scrivere al suo successore
nella Legazione di Bologna Tommaso Bernetti:
il papa vuole che abbiano i rei la meritata punizione e che un freno sia posto alla malvagità di costoro, che si
mostrano più proclivi al delitto, e che la pubblica sicurezza venga con tal mezzo nel miglior modo garantita e
perché ciò avvenga non vi è che portare un’esame continuo sulle cause introdotte, pendenti e decise in ogni
mese.
Sicché, era la conclusione, gli stati andavano fatti e spediti con la massima precisione e puntualità 142.
Naturalmente gli stati continuarono ad arrivare in ritardo e le cause pendenti ad aumentare e, dopo
i drammatici avvenimenti del biennio 1831-1832 143 che certamente non contribuirono a migliorare
139 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 5 e 9 febbraio 1827. Sugli ampi poteri concessi alla polizia, M.
Calzolari, E. Grantaliano, La legislazione di Polizia dello Stato Pontificio da Pio VII a Gregorio XVI, in I regolamenti
penali di Papa Gregorio XVI, pp. CCXXVII - CCLVII e S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento. 140 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1827, rub. 1, 4 settembre. 141 Sul ricorso sempre più sistematico e sofisticato alla raccolta di dati e alla elaborazione statistica per migliorare
l’amministrazione negli anni della Restaurazione F. Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici
apparati tra età rivoluzionaria e Restaurazione, Roma, Carucci, 1988. 142 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1829, rub. 1, 15 ottobre.
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il funzionamento della macchina della giustizia, Bernetti, divenuto Segretario di Stato, dovette
nuovamente rivolgere un duro richiamo al tribunale di Bologna: aveva fatto esaminare con la
massima attenzione, scriveva nel giugno del 1832, i prospetti degli ultimi sei mesi “per rilevare se e
quanta sussistenza avessero alcune voci divulgate che censuravano i ministri ed i giudici del
tribunale d’inerzia nelle procedure, e di debolezza ed arbitrio nelle decisioni” e in effetti erano
emerse gravissime anomalie e disfunzioni che gli imponevano di intimare che
il Tribunale si desti a porre in opera la maggiore attività onde provvedere almeno per l’avvenire al rilevantissimo
ritardo dell’attivazione e decisione delle cause alcune delle quali sembrano interamente abbandonate […] il Governo non può rimanere insensibile ai gravissimi inconvenienti che si frapongono all’amministrazione della
giustizia, e non potrà astenersi dal prendere le occorrenti misure.
Seguiva un lungo e puntuale elenco delle disfunzioni riscontrate: c’erano molti imputati in carcere
da due o tre anni e in qualche caso il procedimento a loro carico risultava fermo da mesi, senza che
se ne spiegasse il motivo; fra un prospetto e l’altro erano evidenti clamorose contraddizioni e
omissioni che rendevano palese lo stato di caos in cui versava la cancelleria; infine – ed era il punto
che maggiormente aveva scandalizzato il Segretario di Stato – fra il numero degli imputati e quello
dei condannati c’era uno scarto intollerabile: su 216 solo 49 erano stati condannati, quasi tutti a
pene più miti di quelle previste dal capo di imputazione, e ben 167 assolti. Non si poteva non
rilevare che
rispettando la coscienza dei Giudici e senza la menoma idea di vincolare la libertà della loro convinzione interna
sulla reità, o sull’innocenza degli imputati non può a meno l’esuberanza di questo sbilancio di non produrre la
più dolorosa impressione per farla pesare o sulla debolezza dei Giudici, o sulla manifesta ingiustizia delle procedure, che in questo secondo caso è tanto più necessario di portare con sollecitudine al compimento e
all’ultimazione per non prolungare la sofferenza, e le privazioni agl’innocenti.
Infine Bernetti ricordava che l’1 gennaio era entrato in vigore il regolamento di procedura penale,
dal quale ci si riprometteva “il più sollecito disbrigo delle procedure e delle cause”, il che era
avvenuto in quasi tutto lo stato ma non a Bologna, dove il tribunale, fra gennaio e marzo, aveva
assolto 89 dei 99 imputati, dando l’impressione di una assoluta “sterilità del lavoro” 144.
Così aspramente richiamato all’ordine, il prolegato conte Scarselli strigliò a sua volta il presidente
del tribunale e i governatori i quali addussero le giustificazioni di sempre: il personale era scarso,
poco preparato e negligente, il lavoro troppo; gli espletamenti burocratici e amministrativi – in
primis la redazione dei prospetti e i continui trasferimenti di carte fra governatorati e tribunale e fra
difensori, fiscale e giudici – assorbivano più tempo di quello che era possibile dedicare alle
istruttorie e ai dibattimenti. In quanto allo scarto fra imputati e condannati era in massima parte da
attribuire all’eccessiva autonomia di cui godeva la polizia rispetto all’autorità giudiziaria, alla
arbitrarietà con cui procedeva ad arresti sulla base di indizi inconsistenti e alla sua incompetenza nel
condurre le indagini preliminari le cui risultanze quasi mai reggevano al vaglio dei giudici 145.
Delle rigorose misure minacciate, Bernetti non ne attuò alcuna. In compenso però ordinò di
procedere alla compilazione di un ulteriore prospetto mensile relativo alla visita delle carceri. Come
abbiamo visto, tale prassi era stata ripristinata nel 1816, e in seguito era stata attuata con relativa
regolarità; al termine di ogni visita veniva redatto un verbale piuttosto sommario. Bernetti volle che
esso fosse sostituito da un prospetto molto circostanziato, per il quale inviò il relativo modulo, nel
quale dovevano essere registrati nome, cognome, luogo e data di nascita di ogni detenuto in attesa
143 Sulle vicende del biennio 1831-2 a Bologna, S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento, pp. 107-135 e A.
Berselli, Da Napoleone alla Grande Guerra, in Storia di Bologna, vol.4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, pp.
28-36. 144 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1832, rub. 1, 9 giugno. 145 D’altra parte era proprio la scarsa efficienza del sistema giudiziario che lasciava ampio spazio all’azione preventiva e
repressiva della polizia, cfr. G. Santoncini, Ordine pubblico e polizia nella crisi dello Stato pontificio, Milano, Giuffré,
1981.
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di giudizio, capo d’imputazione, data di arresto, stato di avanzamento del relativo procedimento.
Invano Masetti cercò di obbiettare che si trattava di un’inutile e onerosa duplicazione, perché le
informazioni richieste erano per la massima parte già riportate nei prospetti relativi alle cause in
corso: la risposta di Roma fu che lo scopo era proprio quello di incrociare i dati in essi registrati per
rilevare imprecisioni, omissioni e contraddizioni 146.
Il risultato, largamente prevedibile, fu un’ ulteriore dilatazione del ritardo con cui venivano
compilati gli stati, in nessun modo compensato da un’accelerazione dei processi. Alla fine, anche la
Segreteria di Stato dovette arrendersi all’evidenza: era inutile insistere con i prospetti mensili, che
non sarebbero mai arrivati entro i termini prescritti, costringendo Roma a sollecitare Bologna e
Bologna a rispondere con le solite giustificazioni. Un’ulteriore perdita di tempo che non portava a
nessun risultato. Nel 1834 si stabilì perciò che gli stati delle cause sarebbero stati inviati alla
congregazione di vigilanza ogni tre mesi – divennero presto sei – mentre quelli della visita delle
carceri sarebbero rimasti mensili.
Due anni dopo, per alleggerire il lavoro delle cancellerie, la Segreteria di Stato dispose
l’abolizione del ristretto, in quanto questa fu la motivazione reso inutile dalla introduzione della
fase dibattimentale. Tuttavia, già nel 1837 tornò sui suoi passi negando – contro ogni evidenza – di
aver disposto l’abolizione del ristretto, ma solo di aver voluto
rimuovere il grave inconveniente, che nell’esposizione scritta delle risultanze processuali si facessero proemi, si
aggiungessero riflessioni particolari e proprie dell’estensore di esse, e si usassero espressioni dirette ad indurre
nell’animo dei giudici una prevenzione indebita, come non di rado erasi praticato in quelli che molto
impropriamente si denominarono ristretti. Debbe perciò compilarsi un’esatta e veridica relazione 147.
In realtà il ristretto, o relazione che dir si voglia, costituiva un aggravio di lavoro per i cancellieri,
ma uno sgravio per il difensore, il fiscale e i giudici dei tribunali ed erano state le loro richieste a
indurre la Segreteria di Stato a reintrodurlo.
Negli anni successivi furono soprattutto le relazioni delle visite a evidenziare che il sistema
continuava a funzionare male. Dopo aver più volte segnalato il problema, senza che venisse preso
alcun provvedimento incisivo, nel 1838 Masetti, incaricato anche della revisione dei prospetti di
visita, lanciò l’allarme: la situazione era giunta al limite di guardia. Le carceri di Bologna erano
sovraffollate. I detenuti in marzo erano 320, si avvicinava la stagione calda e c’era da temere che
insorgessero gravi problemi igienico sanitari stante “l’assembramento di tanti individui,
specialmente delle più inferiori classi del popolo”. In giugno i carcerati erano diventati 360 148, e nei
mesi successivi continuarono ad aumentare.
Il problema era ovviamente, come sempre, la lentezza dei processi e l’estrema parsimonia con cui
si concedeva la libertà provvisoria. La riforma gregoriana, sotto questo profilo, almeno a Bologna
non aveva sortito effetti. Nel 1839 il fiscale Gianpietro Gozzi, succeduto nella carica di revisore a
Masetti, doveva come al solito denunciare che c’erano imputati in attesa di giudizio che marcivano
in carcere da quattro o cinque anni, accusati di delitti che comportavano una pena di poco superiore
o addirittura inferiore, “che inutilmente invocano con imprecazioni e lacrime” e che non si poteva
non indignarsi “per la sorte di infelici carcerati, che non tanto per legge scritta, quanto per diritto
della umanità troppo giustamente reclamano” 149.
Nel luglio del 1841 una circolare del Segretario di Stato Mario Mattei, dopo aver ricordato
l’obbligo di redigere scrupolosamente i prospetti, introdusse alcune misure volte a rendere più
rapidi i procedimenti relativi ai delitti meno gravi. Fra le altre, due erano di notevole rilevanza: la
prima era l’estensione della giurisdizione dei governatori anche a delitti che comportavano una
pena edittale inferiore all’anno, ma superiore una volta computate le circostanze aggravanti; la
146 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1833, rub. 1, 14 giugno. 147 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1837, pp. 160-162. Sul
ristretto, N. Contigiani, Il processo penale pontificio, pp. 234-236. 148 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1838, rub. 1, 31 marzo e 6 giugno. 149 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1839, rub. 1, 20 e 27 febbraio.
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seconda era la possibilità di concedere la libertà provvisoria agli imputati di delitti che prevedevano
una pena inferiore ai tre anni, purché incensurati e fatto salvo il consenso della parte offesa 150. Lo
scopo era evidentemente quello di alleggerire il lavoro del tribunale e decongestionare le carceri e
per qualche tempo sembrò essere stato raggiunto. Nel giugno dell’anno successivo Gozzi rilevava
che sia l’assessorato che il tribunale di Bologna e diversi governatori avevano smaltito parte
dell’arretrato tanto che i carcerati erano solo 280 151 e il legato di Bologna Ugo Pietro Spinola
poteva finalmente presentare alla Segreteria di Stato un bilancio abbastanza confortante
compiacendomi di vedere che li meritevoli funzionari dal più al meno spiegano una lodevole attività
nell’amministrazione della giustizia punitiva e sono puntuali ed esatti nella periodica trasmissione de’ prescritti
elenchi 152.
I motivi di compiacimento ebbero vita breve. Già dall’anno successivo ripresero le consuete
reprimende della Segreteria di Stato per la durata eccessiva dei processi e per il ritardo e la sciatteria
degli stati, cui governatori, assessore criminale, presidente del tribunale e infine legato pro tempore
rispondevano con i consueti argomenti e giustificazioni. Il numero dei detenuti in attesa di sentenza
nelle carceri di Bologna riprese a crescere: 364 nel settembre del 1843, 444 nel novembre del 1844,
480 nel gennaio del 1846.
La reazione della Segreteria di Stato fu il progressivo slittamento dalle fisiologiche, anche se
onerose, istanze conoscitiva del primo quindicennio della Restaurazione, al vero e proprio delirio
degli anni 1847-1852. Nell’arco di un quinquennio le modalità di redazione dei prospetti e i relativi
moduli furono modificate quattro volte, raggiungendo dimensioni e livelli di complicazione
mostruosi: alcuni moduli avevano un formato di 70x50 cm. che li rendeva difficili persino da
maneggiare, ed erano divisi in una dozzina di finche, ciascuna destinata alla registrazione di una
voce specifica. Si doveva fare un diverso prospetto rispettivamente per le cause introdotte e
pendenti nel mese con e senza carcerati; per quelle risolte; per quelle giudicate in primo grado e per
quelle giudicate in appello. Per ogni causa si dovevano registrare la data e gli estremi della
denuncia; i dati anagrafici e socio professionali dell’eventuale imputato, se fosse recidivo e per
quali reati e commessi quando e se sapesse leggere e scrivere; descrivere accuratamente i corpi di
reato acquisiti, la data degli interrogatori degli imputati detenuti, i dati relativi ai testimoni a carico
e discarico, l’elenco degli atti espletati con relativa data e sommario, il numero delle carte del
processo compilate fino al momento della redazione del prospetto, gli estremi della sentenza o del
decreto di archiviazione, la data e i motivi dell’ eventuale appello, il suo esito, la data di avvio del
condannato al luogo di pena.
Il risultato fu che alla fine del 1854 i detenuti nelle carceri di Bologna erano 672 153 e che nel
triennio 1856-58, a fronte di 6156 denunce pervenute al tribunale di prima istanza di Bologna, le
cause giudicate erano state solo 5086, con un ulteriore aggravio dell’arretrato. Un bilancio tuttavia
che appariva positivo al presidente del tribunale Ferdinando Speroni che accompagnava la sua
relazione con un duplice elogio: al commissario straordinario Gaetano Bedini per l’efficace opera di
riorganizzazione della giustizia che aveva consentito al tribunale di accelerare sensibilmente i suoi
lavori; e al tribunale militare, istituito nel maggio del 1849, che in tre anni aveva comminato 135
condanne a morte per fucilazione, contribuendo ad una drastica riduzione dei crimini negli anni
successivi 154.
150 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1841, pp. 88-91. 151 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1842, rub. 1, 16 febbraio. 152 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1842, rub. 1, 5 luglio. 153 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1855, rub. 1, prospetto della visita delle carceri del dicembre 1854. 154 Saggio statistico sull’amministrazione della giustizia criminale del tribunale di prima istanza di Bologna per gli
anni 1856, 1857, 1858, Bologna, Tipi Governativi della Volpe e Sassi, s.d.
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Parte II. Dal giudice monocratico ai travet della giustizia.
1. La continuità delle carriere giudiziarie nel passaggio tra Sette e Ottocento.
1a. Nobili e avvocati ai vertici dell’apparato giudiziario. Protagonisti di primo piano sulla scena
politica durante gli anni della dominazione francese, molti avvocati provenienti dalle fila della
nobiltà continuarono dopo la Restaurazione ad essere sollecitati a ricoprire le funzioni più
prestigiose della carriera giudiziaria, come risulta da queste proposte di nomina che il cardinale
Segretario di Stato di Pio VII, il cardinale Ercole Consalvi inviò al legato di Bologna, cardinale
Alessandro Lante, il 16 ottobre 1816: si trattava di personaggi connotati dal titolo nobiliare, oltre
che da quello professionale 155. Se non tutti i prescelti ritennero opportuno accettare – e se parte del
vecchio ceto senatorio bolognese intendeva in questo modo segnalare il proprio disappunto nei
confronti del restaurato governo pontificio, che aveva deluso le aspettative di un ritorno al passato
che comprendesse anche il ritorno dei privilegi del patriziato cittadino nei confronti del sovrano – ci
fu però chi, tra nobili vecchi e nuovi, non si sottrasse al servizio dello stato, continuando e
legittimando la nuova simbiosi, ai vertici della società, che affiancava agli esponenti delle famiglie
titolate i professionisti del diritto nella comune appartenenza al nuovo sistema di governo. Un
sistema che però rimaneva fortemente gerarchico e prevedeva per le funzioni di spicco il
reclutamento preferenziale dei membri della nobiltà.
Nota di alcuni dei nominati dalla Segreteria di Stato che hanno rinunciato o non sono comparsi e dei soggetti che potrebbero
surrogarsi.
marchese Antonio Amorini consultore non ha accettato si potrebbe surrogare il marchese Massimiliano Angelelli, ottimo
sig. marchese Ottavio Malvezzi Ranuzzi consultore che non ha accettato
si potrebbe surrogare il sig. conte Vincenzo Malvezzi Bonfioli. ottimo
sig. conte Pietro Pallavicini consultore, assente il sig. marchese Pietro Davia agisce per lui e in caso di rinuncia sarebbe ottimo
l’avv. Rusconi aggiunto nel tribunale civile di prima istanza finora non ha accettato
si potrebbe surrogare il sig. avv. Clemente Scarselli attuale assessore nel tribunale d’appello, abile
il sig. avv. Domenico Casoni procuratore fiscale presso il tribunale di prima istanza che ha rinunciato
si potrebbe surrogare il suo sostituto sig. avv. Pacifico Masetti, abile
signor avv. Antonio (si dovrebbe dire Vincenzo) degli Antonj, giudice del tribunale d’appello
si crede abbia rinunciato ed è continuamente ammalato. si potrebbe surrogare il sig. avv. Giovanni Fabbri attuale giudice di
appello, abile
signor avv. Vicini secondo aggiunto del tribunale d’appello si crede abbia rinunciato
si potrebbe surrogare il sig. avv. Savini attuale assessore in appello. Abile
sig. marchese Antonio Malvezzi direttore del registro e carta bollata si crede abbia rinunciato
si potrebbe surrogare il conte Carlo Ranuzzi oppure il sig. conte Valerio Dosi Dolfini. Abili entrambi.
In realtà, non mancarono da parte dei nobili resistenze alla restaurazione del potere pontificio che,
lungi dall’essere tale, privava definitivamente Bologna della sua costituzione repubblicana: il
patriziato dovette scegliere fra diventare parte della burocrazia centralizzata, in continuità con
l’assetto assunto dalla provincia durante il periodo napoleonico, o essere estromesso dalla vita
pubblica. Il 16 novembre 1816 il legato Lante scriveva di suo pugno al Segretario di Stato Ercole
Consalvi:
Era per verità un disordine senza apello e una cosa mostruosissima il vedere che tutta la provincia, sebbene così
vasta e così popolata, non costituiva in sostanza che una sola commune amministrata da quaranta Senatori
unitamente, mentre il gonfaloniere di Bologna si cambiava ogni due mesi ed aveva per conseguenza appena il
tempo di leggere i frontespizi de’ pubblici libbri amministrativi. Mi sia permessa questa digressione per
dimostrare con quanta sapienza si sono [...] dal governo riformati questi assurdi regolamenti 156.
Abolito l’ambasciatore a Roma, anche il Senato si ridusse a un’entità puramente simbolica
rappresentata da un solo esponente del superstite gruppo ristretto dell’oligarchia di ancien régime;
155 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106. 156 Ivi.
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quando fu il momento di assegnarlo, ci fu chi non volle prestarsi ad accettare un titolo di nessun
valore e quasi oltraggioso. Così, il 9 novembre, il legato Lante scriveva a Consalvi sul rifiuto del
conte Filippo Bentivoglio ad accettare la carica di senatore.
Mi è parso però di travedere che un segreto motivo lo animava: esso è comune a tutti gli altri suoi pari già
membri dell’antico Senato di Bologna, i quali delusi nella concepita speranza di vedere ripristinato cogli antichi
privilegi quel corpo mal soffrono che ad esso una debolissima ombra gli sia sostituita nell’attuale consiglio de’
Savi e del senatore, e quindi sembrano quasi tutti congiurati nel ricusarsi di coprire le cariche comunitative e la
primazia specialmente di senatore [...]. Sembrando conveniente anche pel bene del servizio di non costringere
alcuno contro sua voglia, così invece di procedere alla formazione di altra terna, che potrebbe esporre il governo
a nuovi rifiuti, io crederei che meglio convenisse d’interpellare segretamente se fra i Savi componenti il
consiglio vi fosse alcuno che riunendo tutte le qualità necessarie fosse disposto di accettare e in questo caso il governo sopra il rifiuto del conte Bentivoglio potrebbe di sua autorità devenire alla nomina.157
Alla fine ci fu chi accettò, ma si trattava di un titolato di recenti origini, il conte Scarselli, e
parecchi membri delle più antiche famiglie non mancarono di manifestare al legato, indirettamente
ma inequivocabilmente, la propria ostilità: Lante riferì che avevano partecipato alla nomina solenne
del senatore conte Cesare Scarselli e al giuramento
di fedeltà ed obbedienza nelle mie mani tutti li primari funzionari così civili che militari nonché li professori
dell’università e dell’Accademia di Belle Arti [...]. Molta nobiltà inoltre e persone distinte hanno assistito alla
cerimonia [...] ed ho potuto raccogliere che gli animi dei cittadini sono stati di essa universalmente soddisfatti
[...]. Solo mi ha recato increscimento il non avere veduto un maggior numero di Savi del consiglio, di quelli cioè
della classe dei nobili [...]. Non saprò, a dir vero, come dichiarare un sifatto contegno, se non intendessero con
esso di manifestare un sentimento avverso o ripugnante a quanto ha in proposito operato il governo 158.
Le richieste di autonomia da parte dei bolognesi sembrarono realizzarsi solo il 4 febbraio 1831,
quando il prolegato Paracciani Chiarelli cercò di prevenire un’estesa rivolta, che sembrava
imminente – in concomitanza con l’insurrezione di Modena – affidando la sicurezza della provincia
a una commissione di cittadini eminenti. Alla base della decisione del prolegato, che è considerata
da tutti gli studiosi il primo passo della rivoluzione, c’era la convinzione che l’élite liberale di
Bologna avrebbe messo da parte la ben nota ostilità al governo facendo fronte comune contro le
classi inferiori. Ma fu un errore di valutazione: i membri della commissione cercarono di evitare un
conflitto sociale assumendo il controllo della protesta popolare. Essi quindi reclutarono rapidamente
i pochi elementi armati della ribellione, in gran parte studenti e giovani radicali, in una nuova
milizia provinciale, convertendoli da fautori della distruzione della proprietà e delle gerarchie a
garanti dell’ordine costituito. L’avvocato Giovanni Vicini, Antonio Zanolini, il conte Cesare
Bianchetti, il marchese Bevilacqua Ariosti e il conte Alessandro Agucchi, appena insediati,
rivendicarono l’indipendenza di Bologna dall’autorità del papa e l’8 febbraio il potere temporale fu
dichiarato decaduto. Malgrado la natura rivoluzionaria di questo proclama, le argomentazioni con
cui era sostenuto erano giuridiche e conservatrici: il papa aveva illegittimamente usurpato il suo
totale controllo sulla città, contro gli accordi originali del XV secolo, i capitoli di Niccolò V sui
quali si fondava la rivendicazione del “governo misto”, tradizionale argomento con il quale si era
sostenuta la parziale autonomia della città. Comunque, Bologna giocò un ruolo importante
diventando il punto di riferimento e la capitale amministrativa di tutte le province che rifiutavano il
dominio del papa.
E’ noto che la rivoluzione ebbe breve durata: il 24 marzo gli austriaci entrarono in città senza
sparare un colpo. Gli affari interni dei territori soggetti al papa, di conseguenza, crebbero di
importanza diplomatica e in aprile fu convocata una conferenza internazionale per risolvere i
problemi politici determinati dall’occupazione austriaca e da una possibile ritorsione francese. Il 21
157 Ivi. 158 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 107, lettera del 4 giugno 1817 del legato Alessandro Lante al Segretario
di Stato Consalvi.
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maggio la conferenza diffuse un memorandum nel quale si auspicava che il governo pontificio
aprisse i vertici della carriera burocratica ai laici, riformasse il sistema giudiziario e fiscale,
permettesse le elezioni dei governi municipali e istituisse consigli provinciali per coadiuvare
l’amministrazione centrale. Il 5 luglio 1831, in un clima di grande attesa, fu emesso l’editto che
disponeva sull’amministrazione delle province e l’11 luglio il direttore della polizia provinciale
riferiva al prolegato, conte Camillo Grassi, le reazioni che il documento aveva suscitato a Bologna
prima ancora di essere stato pubblicato.
Non era appena il mezzo giorno di ieri stesso che tale editto era generalmente cognito e formava il soggetto di
tutti i discorsi e delle più amare censure. Vostra Eccellenza sicuramente ricorda quanto fosse mal accolto l’editto
anteriore dell’1 giugno prossimo passato, sulla separazione delle legazioni e sulla nomina di secolari in presidi
delle provincie, solo perché si diede il titolo di pro-legati, titolo che lasciava supporre che il governo avesse in
animo di destinare in appresso dei cardinali al reggimento di queste province. Ciò nondimeno l’impressione
sinistra che allora si formò dalla generalità, andò poco a poco diminuendo, anche per essersi valsa Vostra
Eccellenza stessa, per eliminarla, delle ragioni addotte dalla Segreteria di Stato. Ora però che l’editto di cui si
tratta toglie di mezzo la credenza della secolarizzazione del governo, credenza che crebbe a dismisura per l’estesa circolazione che ha qui fatto il memorandum che dicesi fosse presentato a Sua Santità dal corpo
diplomatico esistente in Roma, se ne mena per tutto gran rumore e si osa di attaccare il governo di mala fede,
onde purtroppo precipita il suo discredito nell’opinione della moltitudine. A ciò si aggiunge che riscontrasi nel
proemio dello stesso editto una confusione di termini che lascia ambiguo il senso in un oggetto tanto importante
com’è quello di sapere quali sono le leggi che vengono derogate e quali rimangono in vigore.159
Il Segretario di Stato, cardinale Tommaso Bernetti, obiettò che l’editto prevedeva che nelle
Delegazioni di prim’ordine si potesse inviare come presidente un cardinale, non che dovesse
necessariamente essere destinato un porporato, eliminando anzi la formula del Motu proprio del
1816 che lo rendeva obbligatorio 160.
Nella sua replica al Segretario di Stato, Grassi puntualizzava che all’art. 6 dell’editto si disponeva
che il delegato potesse presiedere il tribunale criminale e all’art. 7 che ciascun delegato fosse
affiancato da un assessore legale a cui poteva essere attribuita anche “una giurisdizione di nuovi
regolamenti giudiziari”. La novità, se confermata, era destinata ad essere estremamente impopolare:
Oltreché queste disposizioni lasciano travedere un’alterazione sostanziale che si andrebbe a fare nell’attuale
impianto de’ tribunali – locché se mai si avverasse sarebbe indubitatamente cagione di gravissimo universale
malcontento –, non bisogna poi nascondere al governo la generale avversione che ha ingerita in questa città la
carica degli assessori, alla quale si sono associate idee così svantaggiose sia per le persone che l’hanno coperta,
come pel modo col quale l’hanno esercitate che non si potrebbero di buon grado vedere ricomparire fra noi 161.
A proposito degli assessori, Bernetti precisò che ne sarebbe stato nominato uno per provincia in
qualità di consultore legale dei presidenti della provincia e
Quanto al nuovo regolamento giudiziario, che si attende, io ho luogo a credere ch’esso non sia per contenere
disposizioni sostanzialmente diverse da quelle che sono state adottate dall’editto dell’Eminentissimo legato a
159 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 134. Il proemio recita: “Le paterne intenzioni palesate dalla Santità di
Nostro Signore fin dai primi giorni del suo pontificato sono per mandarsi successivamente ad effetto. Essendo
l’Ordinamento Amministrativo delle Comunità e delle Provincie uno degli oggetti che più richiamano le cure di un
buon governo, la Santità Sua ci ha ordinato di pubblicare, come noi col presente Editto pubblichiamo, le modificazione, a cui esso andrà soggetto, le quali laddove non sono in manifesta opposizione, o non derogano espressamente alle
disposizioni correlative contenute nelle leggi, e nei regolamenti che servono attualmente di norma, lasciano intatto il
vigore di queste e ne confermiamo l’osservanza”. Lo stesso 11 luglio il prolegato Grassi scrisse al Segretario di Stato
che il primo articolo che destinava un cardinal legato nelle Legazioni di prima classe poteva produrre “una sinistra
impressione nel pubblico” e, non volendosi assumere da solo la responsabilità della sua pubblicazione, aveva radunata
la congregazione governativa che non aveva “potuto dissimulare il timore” che l’editto avrebbe potuto produrre “un
pessimo effetto”. 160 Ivi, lettera del 16 luglio 1831. 161 Ivi, lettera del 20 luglio 1831.
49
latere Opizzoni per le Legazioni ed inoltre preveggo che attesi alcuni nuovi ostacoli sopraggiunti non ne sarà
imminente la pubblicazione come così si pensa 162.
Fra le voci di cambiamenti radicali e ritocchi al sistema giudiziario, già introdotti nei mesi
precedenti, almeno una si era levata già dal 28 giugno 1831 per esprimere la propria amarezza per il
danno personale che la soppressione della funzione di assessore indirettamente gli aveva provocato.
Il dottor Giacomo Contoli – che era stato nominato nel 1828 processante onorario e provvisorio,
qualifica che era venuta a cessare nel 1830 – si trovava retrocesso a cancelliere sostituto. Con una
notifica legatizia del 30 marzo 1831 la nuova organizzazione del tribunale criminale aveva infatti
soppresso la carica di assessore criminale, che fungeva da giudice nelle cause per delitti minori
perseguiti a Bologna e punibili con pene pecuniarie ed afflittive fino a un anno di lavori forzati (le
stesse competenze riservate ai governatori dislocati nelle comunità del contado), con la facoltà di
valersi dei giudici processanti per la compilazione dei processi e degli altri impiegati del tribunale
criminale di Bologna e specialmente dei cancellieri sostituti. La giurisdizione dell’assessore era
stata attribuita al tribunale e le cause erano state distribuite fra i processanti, ai quali erano stati
assegnati i cancellieri sostituti che prima dipendevano dall’assessore 163. Contoli lamentava dunque
di essere passato da un ruolo giudicante a un ruolo puramente esecutivo nell’organigramma dei
tribunali cittadini.
1b. Mansioni e compensi degli impiegati della giustizia. In complesso, tuttavia, fin dal 1796 e in
tutti i momenti cruciali di cambiamento di regime, l’apparato burocratico aveva continuato a
funzionare con una sostanziale continuità nella composizione del personale dei tribunali: anche per
il tribunale civile furono confermati tutti i notai attuari già in servizio 164. Se da una parte la
continuità nell’impiego del personale dei tribunali, a tutti i livelli, sembra essere stato un criterio
guida nella definizione degli organici, dall’altra dai primi anni della Repubblica la lealtà politica,
almeno a parole, sembra essere stata il requisito essenziale sia per le nuove assunzioni, sia per la
conferma nelle funzioni già ricoperte in passato. Un decreto del Gran consiglio del 16 dicembre
1797 si spinse fino a invertire le priorità dei titoli d’accesso ai gradi più elevati della carriera, sia per
i membri del tribunale di Cassazione, sia per il presidente del tribunale criminale e per la pubblica
accusa, abolendo quello di aver esercitata la funzione di giudice o la professione legale per almeno
cinque anni: “Essenziale requisito, oltre la competente abilità, sarà quello di aver date prove di vero
patriotismo, di attaccamento al nuovo ordine di cose e di propensione alla repubblica” 165. Due mesi
dopo il Gran consiglio ribadì l’esclusione per motivi politici, deliberando che nessuno potesse
essere impiegato, ritenuto in impiego e in qualunque funzione il quale dall’anno I della Libertà abbia composti e
pubblicati libri diretti ad ispirare odio verso la democrazia e predilezione al governo dei re, dei teocratici, degli
aristocratici e degli oligarchi o che abbia portate le armi contro la libertà o animato il popolo a prenderle. Nella
collazione di tutti gl’impieghi in parità di merito avrà sempre la preferenza chi somministrerà maggiori e più
chiare prove di patriottismo e di moralità conformi ai doveri del cittadino.166
A questa disposizione si accompagnava l’obbligo per gli impiegati di giurare entro due decadi
“inviolabile osservanza alla costituzione” promulgata l’8 luglio 1797, e “odio eterno al governo dei
re, degli aristocratici e oligarchi” e di promettere “di non soffrire giammai alcun giogo straniero” e
di contribuire con tutte le proprie forze “al sostegno della libertà, e dell’eguaglianza ed alla
162 Ivi, lettera del 28 luglio 1831. 163 Ivi, lettera del 28 giugno 1831. 164 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’ingresso delle truppe francesi, parte I, p. 12. 165 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica
Cisalpina, vol. 7, parte IX, pp. 25-26. 166 Ivi, vol. 11, parte XIII, p. 19.
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conservazione e prosperità della Repubblica”, escludendo dall’impiego chi avesse rifiutato di farlo 167.
La Risoluzione del gran consiglio per l’impianto dei tribunali e gli stipendi 168 aveva definito i
compensi annuali per tutto il personale in organico nei tribunali della Repubblica Cisalpina. La
novità più grossa rispetto all’antico regime era il fatto che i costi della giustizia fossero sostenuti
quasi integralmente dallo stato, con l’abolizione degli oneri che in passato avevano dovuto
sostenere rei, litiganti, comunità, con la conseguenza di penalizzare, soprattutto nelle cause
criminali, gli inquisiti più poveri o i loro parenti. La Risoluzione dettagliava le retribuzioni che
dovevano essere corrisposte a seconda delle mansioni svolte e l’importanza del foro. Presso ciascun
tribunale dipartimentale c’erano un commissario del potere esecutivo, un sostituto con le funzioni di
segretario, e uno scrivano. Presso i tribunali criminali erano impiegati il cancelliere, un ufficiale di
cancelleria, due scrivani, un usciere e tre commessi dell’usciere. Presso i tribunali correzionali c’era
un commissario del potere esecutivo, un cancelliere, uno scrivano, un usciere e un commesso
dell’usciere.
I cancellieri dei tribunali civili, delle sezioni e dei giudici di pace erano anch’essi “salariati dalla
nazione a titolo delle incombenze loro attribuite dalla legge, per le quali non si può esigere veruna
mercede”. Salariati erano anche gli uscieri e i commessi dei giudici di pace per le intimazioni e per
le esecuzioni degli atti di polizia giudiziaria.
Tutti gli altri ufficiali subalterni de’ tribunali civili, delle sezioni de’ giudici civili e de’ giudici di pace non
ricevono dalla nazione alcun salario. Essi per la formazione degli atti civili, per le intimazioni e per le esecuzioni
di questi atti esigono dalle parti le mercedi colle norme da fissarsi dalla legge. Queste mercedi sono esigibili
anche dai cancellieri di questi tribunali e rispettivamente dagli uscieri e commessi dei giudici di pace per quegli
atti civili che sono da essi formato e rispettivamente eseguiti.
La Repubblica, che si accollava le spese per la formazione dei processi criminali e correzionali,
aveva diritto di esserne reintegrata dai condannati dopo le sentenze definitive, ma la detenzione non
avrebbe mai potuto essere protratta per il mancato pagamento di queste spese se i condannati
potevano dimostrare con attestati delle rispettive municipalità la loro povertà, che li avrebbe esentati
dal rimborso. Il padre o altri parenti non potevano essere costretti al pagamento al posto del
condannato.
Si corrispondono provvisoriamente alle autorità giudiziarie ed agli infrascritti subalterni impiegati presso i tribunali della repubblica le seguenti indennizzazioni 169.
Tribunali dipartimentali Tribunali correzionali Giudici di pace
Al presidente, per ciascuno, lire 5000
agli accusatori pubblici, lire 5000
ai giudici, lire 4000
ai cancellieri criminali, lire 3000
ai cancellieri, lire 1200
agli scrittori lire 1000
agli uscieri lire 600
ai commessi lire 500
Ai giudici, lire 2500
agli assessori lire 1000
ai cancellieri lire 500
agli uscieri presso ciascun giudice di
167 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica
Cisalpina, vol. 11, parte XIV, pp. 68-69, delibera del 25 ventoso, anno VI (15 marzo 1798). Il 7 germinale dello stesso
anno (27 marzo 1798) il consiglio dei Seniori trasmise al Direttorio esecutivo la definitiva elezione dei presidenti dei
tribunali criminali, degli accusatori pubblici e dei cancellieri per ciascun Dipartimento. Per il Dipartimento del Reno fu
nominato presidente l’avvocato Filippo Gaudenzi, accusatore l’avvocato Giovanni Pilla, cancelliere Francesco Argelati
“legale” (ivi, parte XV, pp. 22-25). Il 3 fiorile (22 aprile), il consiglio de’ Seniori inviò al Direttorio esecutivo la nota proposta dal Gran consiglio per la definitiva elezione dei giudici di tutti i Dipartimenti. Per il Dipartimento del Reno,
per il tribunale Dipartimentale e per quattro tribunali correzionali indicò i nomi degli avvocati Giuseppe Gavazzi, Luigi
Cecchelli, Giuseppe Cacciari, Giovan Battista Pozzi, Petronio Tondelli, Giuseppe Pignoni, Carlo Sartoni, Vincenzo
Filicori, Andrea Guerrini Sforza, Giovan Battista Ferratini, tutti di Bologna, e di Giuseppe Fincati indicato come ex
veneto (Ivi, vol. 12, parte XVI, pp. 46 e sgg.). 168 Ivi, vol. 13, parte XIX, pp. 77-83. 169 Il 29 termidoro anno V (16 agosto 1797) la corrispondenza del valore delle monete tra lo scudo di Bologna di 10
paoli (calcolato approssimativamente a 5 lire) era stata fissata a 7 lire di Milano (ivi, vol. 7, parte II, p. 25).
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ai cancellieri civili presso i tribunali lire
600
ai cancellieri civili presso le sezioni dei
giudici civili, lire 500
agli ufficiali dei cancellieri criminali, lire
1500
agli scrittori dei tribunali criminali, lire
600
ai commessi degli uscieri de’ tribunali
criminali, lire 500 ai commissari del potere esecutivo, lire
4000
ai sostituti dei commissari, lire 2000
agli scrittori dei commissari, lire 1000
ai commissari lire 2000
pace, lire 300
ad uno de’ commessi, lire 200
Il 22 brumale, anno VII (12 novembre 1798), l’avvocato Giacomo Pistorini, commissario del potere
esecutivo presso i tribunali del Dipartimento del Reno, fu informato dal ministero della giustizia che
il cittadino dottor Gaetano Piacenti “aveva il diritto di essere riabilitato all’esercizio del notariato
non ostante che egli fosse nominato in pendenza della lite già vertente fra l’ex collegio de’ notari e
gli eletti dall’ex collegio de’ dottori” e lo incaricava di trattarlo “egualmente che i notari ex
apostolici ed imperiali, i quali sono stati destituiti dal direttorio esecutivo all’esercizio del notariato,
loro sospeso col rescritto pontificio delli 10 aprile 1796”. Piacenti doveva quindi essere “riabilitato
al mentovato esercizio e perciò ai di lui rogiti sarà dovuta da dì d’oggi in avvenire una piena fede” 170. Dunque il dottor Piacenti era già in servizio prima dell’arrivo dei francesi e forse sospetto di
simpatie per le idee giacobine. Lo fa pensare il fatto che durante l’occupazione austriaca, quando
vennero abolite le competenze dei giudici di pace, fu ripristinata la curia arcivescovile e si progettò
di riattivare il tribunale della Rota, fu nuovamente sospeso. Gaetano Piacenti figura infatti in un
elenco di notai riassunti all’esercizio della professione, dopo esserne stati rimossi con proclama del
23 settembre 1799 171.
Sedici anni dopo incontriamo di nuovo Piacenti, che il 28 dicembre 1816 indirizzò come
processante del tribunale criminale una sua Apologia al legato Lante che lo aveva accusato di scarsa
diligenza; Piacenti replicava di non meritare “la taccia d’essermi ricusato ai venerati ordini
dell’eminenza vostra reverendissima”. Quanto all’accusa di trascurare il lavoro, rivolta a tutti i
quattro processanti – “Ma non si travaglia, si perde il tempo in divertimenti, in teatri e si fanno
birbanterie”, avrebbe detto Lante – Piacenti, per quanto lo riguardava, si difese lamentando di
essere oberato di lavoro
stante l’essere io solo caricato di 100 carcerati circa, un mese per l’altro, i quali per la massima parte sono
imputati di gravissimi misfatti, e dovendo condurre a perfezionato termine ogni processo, anche di minore entità
e formargli il relativo ristretto, senza contare i moltissimi rapporti ed informazioni in iscritto e finalmente che i
quattro notari di cui è stata provveduta la cancelleria, due de’ quali riescono pressoché inutili, ed un altro, che è
principiante, non mi è possibile, a fronte di una insopportabile fatica, di poter fare più di quanto si è fatto.
Quanto ai teatri, disse di non avere “né tempo né mezzi, poiché lo scarso mio onorario non mi è
bastevole a sfamare la mia famiglia in quest’annata d’estrema penuria”. Concludeva ricordando al
legato “che sono 21 anni dacché presto l’opera mia al governo nel giudiziario, che io mi trovava
fuori di patria da quasi tre anni, ove era decorosamente impiegato, allora quando fui reiteratamente
ricercato di ripatriare”. Piacenti, alla caduta del Regno, era quindi andato in esilio, ma vi era rimasto
poco tempo: lui stesso disse che era rientrato da un anno e mezzo 172. Lo incontreremo di nuovo più
170 Raccolta delle leggi, proclami & pubblicati dopo la nuova costituzione presentata dal cittadino Trouvé, vol. 17,
parte VII, p. 90. 171 Collezione delle leggi, proclami ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi seguito li 28
giugno 1800, vol. 25, parte II, pp. 7-8. 172 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106.
52
avanti; per ora il suo caso, come molti altri, segnala che la continuità del servizio faceva di lui un
elemento esperto che anche in seguito, pur dando adito a numerose reprimende, resterà come
processante o governatore fino a tarda età. Con la Restaurazione era stato riassunto, anche se non
subito, certo in funzione delle sue capacità ma soprattutto dell’esiguità dei salari che il sovrano
pontefice era in grado di offrire, in rapporto a quelli pagati durante il Regno, e che pochi dottori in
legge (e ancor meno avvocati) erano disposti ad accettare, preferendo i maggiori profitti della libera
professione.
Già a pochi anni dal ritorno del governo pontificio infatti si lamentavano gli aggravi di lavoro che
venivano addossati in cambio di una misera retribuzione, tale da permettere a stento di mantenere la
famiglia. Tuttavia, anche i funzionari del Regno d’Italia non sempre avevano dato buona prova. Il
31 luglio 1802, una lettera spedita dalla segreteria generale e riservatissima in risposta a un’altra
spedita dal ministero degli affari interni il 28 luglio, altrettanto riservata, rendeva noto che il
tribunale criminale del Dipartimento era “atto a dar causa ai delitti anziché reprimerli” e che i tre
giudici ordinari, i cittadini Pigozzi, Sartoni e Filicori, erano “cattivo il primo decisamente, il
secondo che gli tien dietro assai da vicino e il terzo di miglior fondo, ma giovane e mal atto a
resistere all’influenza dei due”. Ma la vera causa dell’inerzia “o piuttosto della colpevole reazione
di questo tribunale non proviene né da ignoranza né da cattivo metodo: ella è nel fondo la medesima
che in questi ultimi tempi ha fatto tanto divergere la Guardia Nazionale dalla linea dei suoi doveri”,
vale a dire
uno spirito di puntiglio falsamente decorato col nome di patriotismo, una esaltazione diretta in senso contrario
alle viste del governo, che lo porta a proteggere coloro che i giudici, nella colpevole ed esagerata loro maniera di
vedere riguardano come gli eroi o i martiri del partito. Il che nel fondo viene a risolversi in una vera e colpevole
connivenza con gli impuniti. Non migliori sono in generale gli attuari processanti, uno dei quali è attualmente
detenuto in sequela delle ultime misure di sicurezza pubblica ed il fornire il tribunale di soggetti abili e probi in
questa linea sarà forse uno dei più difficili e delicati punti della riforma giudiziaria.173
Dunque, un’opposizione strisciante, che accomunava il personale del tribunale alla Guardia
Nazionale 174: con “patriotismo” certamente si alludeva a quella lealtà alla «patria» bolognese che
sarebbe riemersa apertamente nel 1831 e che, come avrebbe dimostrato il Voto commissionato a
Berni degli Antoni, si era fatta sentire già nel 1816 175.
Quanto a Piacenti, la sua nomina risaliva solo a due mesi prima della reprimenda ricordata,
essendo compreso negli elenchi del personale del tribunale criminale e del tribunali d’appello
approvati dal Segretario di Stato cardinale Ercole Consalvi con una lettera al legato Alessandro
Lante del 16 ottobre 1816,176 che riportiamo di seguito.
Elenco dei funzionari ed impiegati dei tribunali della Legazione di Bologna
APPELLO Giudice avv. Vincenzo
Patuzzi
scudi mensili 80
giudice avv. Filippo Barbiroli 80
giudice avv. Giovanni
Mazzolani
80
giudice avv. Filippo Carli 80
giudice avv. Giovanni Carlo
Solieri
80
giudice avv. Luigi Salina 80
giudice avv. Giacomo Cesari 80
primo aggiunto avv. Gherardi ...
secondo aggiunto avv. Gaetano Savini ...
173 ASB, Prefettura del dipartimento del Reno, Affari riservati, b. 3, n. 11. 174 L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica, pp. 103-155. 175 A. De Benedictis, Bologna nello Stato della Chiesa secondo il diritto delle genti e il diritto pubblico. 176 ASB, Legazione di Bologna, Atti riservati, b. 106.
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Loiani
procuratore fiscale avv. Francesco
Gagliardi
50
avvocato dei rei avv. Riari Masi 35
cancelliere civile dott. Giuseppe
Predieri
40
cancelliere criminale dott. Carlo Contoli 40
sostituto al
cancelliere civile
Paolo Maria Guidetti 20
sostituto al
cancelliere criminale
dott. Settimio
Zappoli
20
attuario ossia
sostituto
Ignazio Roatti 20 nominato
interinalmente
attuario ossia
sostituto
Vincenzo Longhi 20 c.s.
scrittore Filippo Paolo
Bonaga
15
altro Luigi Canuti 15
cursore Giovanni Zani 5
portiere Francesco Bini 9
altro Giusppe Galletti 9
CRIMINALE DI
PRIMA ISTANZA
giudice processante dott. Francesco Livizzani
30
altro dott. Giuseppe
Bonaga
30
altro dott. Gaetano
Piacenti
30 nominato
interinalmente
altro Francesco Montanari 30 c.s.
cancelliere Vincenzo Suali 25
sostituto Domenico Capelli 15
altro Gaetano Baldi 15
altro dott. Luigi Pasini 15
altro Luigi Golfarelli 15
procuratore fiscale avv. Pacifico Masetti 25
avv. dei rei avv. Raffaele
Giacomelli
15
scrittore archivista Giovanni Marzocchi 10
cursore Giuseppe Lopez 4
altro Luigi Piombini 4 interinalmente
altro Filippo Fanti ... senza paga perché ha
l’emolumento
dall’esecuzione di
atti e citazioni
altro Carlo Massioni ... c.s.
portiere Saverio Tadolini 8 interinalmente
altro Gaetano Capelli 8
Un anno dopo, il 31 dicembre 1817, il legato Lante rispondeva ad un allarmato Consalvi, che gli
chiedeva conto di voci malevole sul funzionamento della giustizia criminale a Bologna, che la
congregazione criminale
che costituisce propriamente ciò che si chiama tribunale, è composta di persone superiori ad ogni eccezione la
cui probità non lascia alcun dubbio ed esclude perfino il sospetto. Monsignor vicelegato che la presiede in [mia]
vece è conosciuto da Vostra Eminenza Reverendissima e certamente niuno oserà attaccare la sua integrità e la rettitudine di sue intenzioni. I due assessori della Legazione, che pure fan parte di essa, sono due persone probe
e tali reputate universalmente. Il consultore della congregazione governativa, che pure v’interviene, non può
certo offrire argomento alcuno alla maldicenza. Finora ne ha sostenuto l’incarico il conte Malvasia, soggetto
54
troppo noto e distinto per ogni riguardo ed ora è passato a rimpiazzarlo il marchese Davia, cavaliere esso pure
rispettabile e integerrimo. Un giudice infine del tribunale civile compie il numero dei membri che compongono
la detta congregazione ma la integrità e la reputazione che godono i giudici di quel tribunale è tale che si può
bene riposar tranquillo sopra di quello che è prescelto ad intervenire alle sedute della riferita congregazione.
Ma era a proposito di alcuni elementi ai livelli più bassi dell’organico del tribunale criminale di
prima istanza che potevano nascere dicerie e malumori e Lante ne era consapevole.
Purtroppo la condotta e il servigio di questi non è il più soddisfacente. So benissimo che non a torto sono
imputati di corruzione e che non per ignoranza ma per malizia costituiscono in guisa i processi per cui il
tribunale è messo talvolta nell’impossibilità di condannare i delinquenti. Di qui poi ne nasce che costoro escono
impuniti con iscandalo pubblico [...] Io grido tutto il giorno contro essi, vado a sorprenderli ne’ loro uffici, li minaccio di destituzione e di più severi castighi e li fo sorvegliare attentissimamente ma fino a questo punto non
ho potuto aver prove dirette e fondate onde venire contro essi ad una decisa misura [...] poiché il tutto andrebbe
a risolversi in sospetti generici così riescirebbe loro ben facile di purgarsi.
Inoltre, il legato faceva presente che non era facile, con gli scarsi stipendi che venivano loro
corrisposti, scegliere i processanti fra i migliori e più integri uomini di legge.
La difficoltà di trovare altre persone da sostituire ai dimessi è più grande di quello che possa credersi. L’ufficio
di giudice processante è necessario che sia sostenuto da persona di grande integrità e di lumi e cognizioni che
non sono a tutti comuni. Non manca è vero questa città di soggetti che riuniscano le qualità necessarie ma è ben
difficile che si trovi alcuno capace e probo che voglia assumerlo col limitato appuntamento di mensili scudi 30,
mentre assai più può lucrarne altrove dedicandosi alla professione legale. Conviene Eminenza Reverendissima
persuadersi che il governo spendendo di più in questi soggetti farebbe in molti casi una economia di gran lunga
maggiore e potrebbe sempre trovar uomini onesti ed illuminati a cui potere con sicurezza affidare pubblici ed
importanti impieghi.
Lante disse di aver pensato più volte di far venire un processante adatto da Roma o da un’altra parte
dello stato
ma ho riflettuto che se quelli del paese non posson vive[r] con uno stipendio sì limitato e sono purtroppo costretti
dal bisogno a lasciarsi sedurre dal denaro, molto di più un forestiero che qui venisse si troverebbe in critica
situazione e a un troppo duro e pericoloso cimento verrebbe esposta la di lui probità 177.
Dalla caduta di Napoleone in poi la mancanza del denaro necessario per mantenere quell’apparato
burocratico centralizzato che il papa si era guardato bene dallo smantellare si era immediatamente
ripercossa sui salari dei dipendenti pubblici. Il 2 gennaio 1816 il presidente del tribunale d’appello,
Filippo Barbiroli, aveva chiesto al delegato apostolico in nome dei “poveri impiegati” di rimediare
al danno sofferto con la diminuzione del loro stipendio mensile. “Io non posso a meno di
compiangerli che non avendo essi potuta pagar la pigione che doveva ognun di loro avanti il Natale
vanno soggetti a soffrir in breve gravissime molestie” 178. Che ci fosse stata fin dall’inizio una
perdita di potere d’acquisto è detto ripetutamente nei documenti, ma abbiamo voluto verificare se le
continue lamentele di processanti e governatori, spesso costretti ad indebitarsi o indotti a farsi
corrompere, corrispondessero a un’effettiva situazione di quasi–indigenza. Abbiamo utilizzato per
questo alcuni dati sui generi di largo consumo, commestibili o no, dallo spoglio dei processi del
governatorato di Castelfranco per gli anni 1816/1818, i quali specificano il valore attribuito alla
refurtiva 179.
Il quadro che ne emerge è contradditorio. Se rapportiamo i salari dei processanti al prezzo del
grano, ne risulta che erano molto bassi, sia durante il Regno d’Italia sia durante la Restaurazione.
Quelli dei governatori dislocati sul territorio, retribuiti mensilmente un po’ di più dei processanti –
177 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 108. 178 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 103. 179 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castelfranco, atti criminali.
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35 scudi, ma dovevano provvedere all’alloggio nelle comunità sedi dei governi – possono essere
confrontati con quelli che prima di loro avevano percepito i giudici di pace, i quali erano pagati
2500 lire l’anno – somma che, ragguagliata al valore dello scudo milanese, era pari a 357 scudi
annui, vale a dire 30 scudi mensili scarsi. Facendo lo stesso calcolo per i giudici più pagati, cioè
quelli del tribunale d’appello, che dopo la Restaurazione percepivano 80 scudi al mese, rispetto ai
colleghi che avevano esercitato nel passato regime per 4000 lire l’anno, cioè 571 scudi, risulta che
in realtà durante la Restaurazione era corrisposto loro annualmente lo stipendio ben più appetibile di
960 scudi, un buon 40% in più.
Certo però non si poteva più sperare sugli emolumenti extra dell’ufficio come in passato. Il 29
febbraio 1820 l’assessore criminale Carlo Bravi comunicò ai due cancellieri del tribunale e
dell’assessorato l’ordinanza del legato del 21 febbraio che riorganizzava il settore amministrativo
del tribunale criminale stabilendo che gli incerti venissero divisi tra di essi. Osservazioni in
proposito vennero fatte sia da Michele Angelo Gaudenzi, cancelliere dell’assessorato, che nella
lettera di accompagnamento lamentava che col nuovo regolamento il suo “onore” sembrava
“offuscato dopo tanti anni di fedele, rigorosa e pontuale onestà nella riscossione de’ diritti de’
tribunali” sia dal cancelliere del tribunale criminale Vincenzo Suali 180. Gaudenzi rilevò che il
regolamento sembrava derogare dalla legge che accordava ai consiglieri “i tenui emolumenti che in
tutti i tribunali sono sempre stati ad essi rilasciati per quegli atti e spedizioni di carte che si
riferiscono ad una loro particolare fatica e responsabilità, come sono le copie autentiche, certificati,
fedine e simili”. In particolare rilevò
la differenza che passa tra l’editto Giustiniani 17 ottobre 1815 e l’editto della Segreteria di Stato 26 novembre
1817: il primo voleva che tutte le tasse cadessero a favore dell’erario perché gli emolumenti ed indennizzi degli impiegati erano molto più considerabili; nel secondo si è voluto supplire alla diminuzione dell’indennizzo colla
percezione de’ pochi incerti in esso divisati [...] Il motu proprio parla di sportule, multe, diritti di sentenze, in
una parola di tutti quegli atti in cui il giudice per mezzo del cancelliere esercita la sua giurisdizione, ma siccome
per quest’esercizio essi sono pagati dal governo perciò è ragionevole che niente possano per essi conseguire.
Ma gli atti di cancelleria che si formano e si spediscono dal solo cancelliere senza l’intervento del giudice e
senza l’esercizio di sua giurisdizione sono altrettante fatiche personali e responsabilità che esso contrae [...] Ora
perché in compenso di questa responsabilità a cui si espone non dovrà egli conseguire que’ pochi baiocchi che
la legge gli accorda?
C’era una grande sproporzione, secondo quanto faceva notare Gaudenzi, fra le fatiche della
cancelleria del tribunale e quelle dell’assessorato. Nel primo caso si trattava solo di delitti gravi e
quindi minori di numero rispetto ai reati numerosi, ma di poco conto, soggetti alla cognizione
dell’assessorato. I rei dei delitti gravi erano quasi tutti insolvibili mentre i rei dei delitti minori di
solito potevano pagare, per l’irrilevanza delle spese. Ne conseguiva che il cancelliere del tribunale
criminale con poca fatica avrebbe diviso le mercedi con il cancelliere dell’assessorato e ne avrebbe
goduto come lui che per procacciarsele di fatica ne faceva molta. Gaudenzi si opponeva quindi
all’unificazione delle cancellerie e delle loro retribuzioni. Suali a sua volta sostenne che il
regolamento non si poteva applicare perché l’editto della Segreteria di Stato del 26 novembre 1817
non contemplava le tasse e le competenze di cancelleria dei tribunali criminali ma solo quelle dei
governatorati di primo e secondo ordine
quali sono tanto più minori in quanto che minore è la sua giurisdizione ed in quanto che li cancellieri
conservano la partecipazione degli emolumenti nelle cause civili [...] Niuna legge o disposizione è stata finora
180 Nel 1825 come cancelliere del tribunale criminale Vincenzo Suali percepiva 25 scudi al mese. Una nota di servizio
lo qualificava come “affatto inetto anche per pubblica notorietà” ma praticamente inamovibile in considerazione
dell’età avanzata e di un servizio trentennale. Di Michel Angelo Gaudenzi, che come cancelliere dell’assessorato
percepiva 20 scudi al mese, il giudizio era più lusinghiero, quanto all’ efficienza – “E’ antico impiegato, capace ed
attivo” – ma non sul carattere perché “alquanto presuntuoso e pettegolo”. ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.
13, Pianta organica del tribunale criminale 2 luglio 1825.
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emanata intorno alle tasse e competenze di cancelleria dei tribunali superiori [...] anche perché dal governo
niuna massima è stata presa sul proposito.
Odi e gelosie, recriminazioni e delazioni agitavano gli animi già da tempo attorno al problema
delle retribuzioni supplementari. Il 27 gennaio 1818 lo stesso Michele Angelo Gaudenzi,
qualificandosi “cancelliere e giudice processante nel tribunale dell’assessorato criminale”, aveva
scritto al legato Alessandro Lante dicendo che, da quando era diventato assessore criminale,
l’avvocato Carlo Bravi, aveva voluto attivare certe sportule a proprio vantaggio “non accordate
dalla legge nelle cause criminali” obbligando il cancelliere
a convertire le pene pecuniarie, ossia le multe, in sportule, come se le sentenze portanti simili condanne fossero riferibili a cause civili ed eguali ai decreti di volontaria giurisdizione, facendosi supporre che il danaro ritirato
presso di sé, e ammontante in complesso a non tenue somma, dovesse erogarlo nei restauri di recente da lui fatti
eseguire onde ridurre l’uffizio tutto ad uso di suo privato domicilio. In sequela di questa sua misura [...] onde
accumular molto denaro si diede tutta la premura di tenere moltissimi contradditori e di definire in tale forma
molte cause, applicando multe fors’anche talvolta sproporzionate, abbenché una tale forma di procedura altro
scopo non dovesse avere se non se quello di conciliare gli animi de’ cittadini, di prevenire disordini maggiori e
di diminuire tanto le cause arretrate quanto quelle che in copioso numero quotidianamente vengono introdotte.
Il legato era stato informato di queste irregolarità ed aveva ammonito l’assessore Bravi; questi in
seguito era venuto a sapere che ad avvertire il cardinal Lante era stato il cancelliere d’appello,
l’avvocato Carlo Contoli, tramite lo stesso Gaudenzi, e per questo l’assessore aveva cominciato a
manifestare a quest’ultimo una forte ostilità.
Indi lo stesso Bravi tralasciò affatto di trattare in via economica ossia in contradditorio le cause che per la loro
natura meriterebbero di essere in tale forma definite, poscia si mise a scrivere e scrive, non che riceve rapporti o
lettere d’ufficio senza nemmeno metterle a registro; sconvolse ed ha sconvolto e posto sottosopra tutto l’ufficio,
avendo fatto fare replicate volte il trasporto de’ mobili e degli atti ora da un luogo, or dall’altro, mantenendo e
facendo di tal suo operato un misterioso segreto e ieri poi 26 [gennaio] corrente così di sorpresa fece terminare,
se pur sarà vero, la traslocazione della cancelleria, traslocazione che mentre sagrifica gl’impiegati del tribunale
e che gli toglie tutta quella decenza che gli sarebbe doverosa, va poi ancora ad inferire un grave arenamento agli
affari in pregiudizio e della giustizia e del pubblico erario [...] Dopo seguita tale traslocazione conobbe il
petente che [...] ne veniva [...] esposta la di lui responsabilità nella sua rappresentanza di cancelliere, sia per
rapporto alla custodia de’ processi e de’ corpi di delitto, sia per la segretezza tanto necessaria pel fisco nella
compilazione de’ processi quanto in fine perché manomessi i mobili e tutt’altro che esso teneva in custodia senza che sia stato aggiornato dove asportati e quale uso ne siasi fatto 181.
Bravi non doveva essere molto amato dagli impiegati del tribunale criminale bolognese. Pochi
mesi prima, il 19 novembre 1817, presumibilmente arrivato da poco in città – era originario di
Ancona – aveva scritto al legato Lante parole poco gradite agli abitanti, da sempre ostinati a
rivendicare l’esenzione dei cittadini dalle sanzioni pecuniarie, pretesa che l’avvocato riteneva
infondata e anzi sosteneva che comminarle fosse facoltà dei giudici come misura preferibile alle
pene detentive.
In mancanza d’una apposita legge sovrana e pontificia la quale espressamente escluda o abolisca la pena
pecuniaria possa essere delle attribuzioni dei signori giudici il commutare la pena afflittiva in pecuniaria in tutti
quei casi ne’ quali ha luogo la pena straordinaria nei quali si può usare l’arbitrio, ne’ quali la mancanza può cadere sotto la disposizione del diritto comune piuttosto che sotto la legge bannimentale, ne’ quali infine si
giudica sommariamente ed economicamente. Una tal massima è da me appoggiata primo al diritto comune
tuttora vigente in cui espressamente viene prescritta e cominata la pena pecuniaria. Secondo alla prattica
costante ammessa e continuatamente osservata in tutti li tribunali. Terzo alla ragione ed equità per che
trattandosi di materia penale, odiosa e suscettibile d’interpretazione secondo le regole della giurisprudenza deve
assumersi quella interpretazione ed applicarsi quella pena che è più benigna e favorevole al reo secondo li
181 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109. Alessandro Lante il 12 febbraio vergò la risposta dalla quale risulta
che aveva fatto personalmente un’ispezione ma non quali provvedimenti avesse preso: “Ritenendosi provveduto colle
disposizioni da noi date nell’odierna visita locale si passi la presente all’archivio riservato”.
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principi e le massime liberali adottate ed esternate dal clementissimo sommo pontefice nostro sovrano e quinto
finalmente alla volontà del legislatore sufficientemente manifestata nel recente motu proprio all’art. 16, § dove
contempla le multe 182.
Nonostante i mugugni dei dipendenti del tribunale e dei governatorati, la loro posizione era
invidiabile, soprattutto in un periodo di crisi economica e di declassamento anche di famiglie di
antiche tradizioni, poiché la logica del pubblico impiego come “posto fisso” era già pienamente
affermata: anche in casi di gravi mancanze la misura adottata era prevalentemente il trasferimento
lontano dai luoghi nei quali il soggetto aveva provocato critiche e problemi. Più rara era la
giubilazione, di per sé punitiva perché, anche se percepiva la pensione, il giubilato si trovava
costretto ad un peggioramento del suo tenore di vita: tanto è vero che, soprattutto per le cariche più
importanti, come la presidenza della corte d’appello, la cessazione dal servizio avveniva solo in
seguito al decesso del giudice; in altri casi, mentre si erogava la pensione, si affidavano mansioni di
livello inferiore agli stessi pensionati, in cambio di un “soprassoldo” 183. Si evitava così di integrare
l’organico con nuove assunzioni a tempo pieno, più costose per le casse pubbliche. Nel 1858, il
nuovo legato, l’anconetano Giuseppe Milesi Pironi Ferretti, rivide gli elenchi degli impiegati che
prestavano servizio nel commissariato straordinario; tra essi figurava anche l’avvocato Ercole
Livizzani, un tempo governatore in varie sedi della provincia e soggetto piuttosto turbolento,
occupato come minutante, con soldo di 35 scudi al mese, di cui 20 di pensione e 15 di integrazione.
Su di lui si osservò che “nel 1847 fu pensionato contro sua voglia. Quantunque avanzato in età, pure
avrebbe energia e attitudine per rimettersi nella carriera giudiziale. Ha molta famiglia e manca di
beni di fortuna vivendo della pensione e del soprassoldo di contro accennato” 184.
2. I governatori nelle comunità.
2a. La giustizia in provincia. Il salario dei giudici processanti del tribunale criminale era agli inizi
degli anni Venti – e lo sarà anche in seguito – di 30 scudi mensili. Essi non percepivano alcun extra
e la loro paga era inferiore a quella dei governatori che venivano destinati nelle 14 comunità del
contado elette come sede di giurisdizione civile e penale, i quali percepivano, come abbiamo visto,
35 scudi al mese. I governatori dovevano anche pagarsi l’alloggio ma ugualmente in molti casi il
182 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 108, nn. 571 e 588. Un anonimo delatore – dato il tenore delle accuse
non è improbabile che si trattasse dello stesso Gaudenzi e che volesse colpire proprio Bravi – fece pervenire al legato
uno scritto che, anche se non datato, è attribuibile a quegli stessi giorni, dal quale traspare tutto il livore di un impiegato
subalterno nell’organigramma del tribunale contro i superiori “che nulla fanno, stanno oziosi e vorrebbero paga di scudi 200 o 300 mensilmente e poi fariano lo stesso [...] ma avidi essendo di far quelle ruberie che in addietro hanno fatto e
questo vizio non vogliono lasciare per poter mantenere i vizi e far stentare le loro povere famiglie [...] tutto ritorni
all’antico stato come lo era del 1795. Si levino que’ giudici che venali essendo non conoscono altro che l’oro oppure
protezioni [...] a questo modo si condanna chi non ha denaro [...] Se poi sono contrabbandi allora il ricco soccombe
perché il pelano”. Sulla retribuzione dell’assessore criminale Bravi si veda ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.
121, Elenco degli impiegati addetti al tribunale criminale 1822. In quell’anno il sessantenne avvocato percepiva 40
scudi al mese. 183 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 183. Nel Moto d’ordine per gli impiegati della Legazione dell’ 8
ottobre 1825 il legato Giuseppe Albani aveva ricordato le disposizioni del suo predecessore Spina del 28 luglio 1821
prese “in vista di tranquillizzare possibilmente sulla condizione avvenire quegli antichi impiegati specialmente che per
una diuturnità di anni avevano rilasciato una quota del rispettivo soldo maggiore dell’attuale soldo pel fondo delle giubilazioni a norma del decreto del cessato governo italico delli 12 febbraio 1806 colla speranza di conseguire poi a
suo tempo il competente assegnamento della giubilazione in proporzione a quel soldo” intendendo che la pensione fosse
accordata anche alle vedove e agli orfani dei beneficiari secondo quanto stabilito dal motu proprio del 26 gennaio 1817
(ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139). 184 Livizzani non fu soltanto un travet della giustizia, ma divenne famoso per un'arte speciale da lui inventata, e da lui
chiamata papirografia, nella quale non trovò seguaci né imitatori. Egli ritagliava in una finissima carta velina nera delle
scene complesse che poi incollava su un foglio di carta bianca per farne dei quadretti dei quali fu fatta un'edizione in
fac-simile litografici dall'editore G. Wirtz di Ferrara. Si veda A. Cervi, La papirografia e Ercole Livizzani, Milano,
Galli, 1894.
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trasferimento da Bologna (e dalla mansione di processante) al contado era spesso ambito. Anche
l’attività giudiziaria dei governatorati era controllata mensilmente – affinché le cause non si
trascinassero per troppo tempo – e i governatori erano obbligati a mandare i prospetti relativi al loro
ufficio, anche se, come abbiamo visto, ritardi ed inadempienze erano continuamente contestati ai
governatori. Nel 1822 fu fatta una ricognizione dell’organico della Legazione che interessò anche i
governatori. Le risposte dei governatori ai questionari sono particolarmente interessanti sia perché
mettono in evidenza l’organizzazione pletorica delle sedi di giurisdizione della provincia, sia perché
vi si leggono anche le risposte a domande relative allo stato di famiglia e all’anzianità di servizio
propri e dei loro subalterni 185.
Il 26 luglio l’avvocato Luigi Barattini inviò l’elenco degli impiegati del governatorato di Budrio.
Dichiarò di avere 35 anni e di essere stato assunto la prima volta il 14 ottobre 1807 e da allora di
aver ininterrottamente esercitato con varie mansioni negli uffici giudiziari. Nel 1816, dopo essere
stato processante a Bologna, era stato designato alla giudicatura di Vergato 186. Con il suo
emolumento manteneva moglie e quattro figli nonché la madre vedova di 76 anni. Barattini era nato
a Forte Urbano, quindi si poteva considerare un provinciale affermato. Uno dei due sostituti della
sua cancelleria era invece di Budrio, Giuseppe Zacconi, e aveva la moglie, la madre di 70 anni e
due sorelle nubili a carico. Aveva 37 anni ed era impiegato da 5 anni e undici mesi con un
emolumento fisso mensile di dieci scudi. Prima della nomina stabile aveva prestato per un anno
servizio gratuito, dal 7 giugno 1816 all’11 luglio 1817, un periodo di precariato, spesso più lungo,
che altri giovani di paese appartenenti al notabilato locale affrontavano, sperando di sistemarsi in un
posto fisso pubblico, una soluzione dignitosa – anche se grama – dei loro problemi.
L’avvocato Lorenzo Cenni, governatore di Poggio Renatico, proveniva da Casola Valsenio,
nell’imolese. Sposato con quattro figli, aveva 34 anni ed era inserito nell’amministrazione pubblica
da dodici. Dal 1811 al 30 marzo 1812 aveva coperto l’impiego di segretario comunale di Dozza,
che aveva lasciato per recarsi a studiare all’università di Bologna. Il 26 settembre 1815 era stato
nominato conservatore aggiunto del registro provinciale di Bologna. Il 7 agosto 1816 aveva preso
servizio come conservatore delle ipoteche e ricevitore del registro in Imola ma già il 14 settembre
dello stesso anno la Segreteria di Stato lo aveva nominato governatore della città di Comacchio
dove era rimasto fino al 15 aprile 1818. Dal 7 settembre 1820 era governatore di Poggio Renatico.
Anche nel caso del suo cancelliere, Giuseppe Calori, di 41 anni, originario del modenese, sposato
con quattro figli, la carriera era iniziata durante il Regno napoleonico ed era proseguita
ininterrottamente con la Restaurazione. Era partito dai gradini più bassi della burocrazia: dal 1811
al ritorno del governo pontificio era stato primo commesso presso la giudicatura di pace di
Minerbio, poi dal 1816 aveva prestato servizio come cancelliere presso diversi governatorati.
Ogni governatorato, oltre alla spesa per il giusdicente e il cancelliere, più due sostituti, prevedeva
un carico di personale non indifferente il quale, durante la Restaurazione, rendeva il costo della
giustizia non paragonabile a quello dell’ancien régime. Per l’ufficio di Poggio Renatico, Cenni
elencò due cancellieri sostituti, due cursori (senza paga fissa in quanto percepivano gli emolumenti
dovuti per le loro funzioni); il custode delle carceri, Giuseppe Schicheri di 54 anni, dall’età di
quattordici anni aveva servito sempre “in qualità di sbirro e capo di squadra, poi con l’attuale
governo custode delle carceri a Poggio Renatico”. Anche Domenico Cavalieri, il secondino, era
entrato a far parte della sbirraglia pontificia, appena adolescente, prima dell’arrivo dei francesi:
aveva servito per 37 anni (ne aveva 52) dal 1790.
La ricognizione del 1822 specifica le note di servizio dei governatori e dei loro impiegati 187.
All’avvocato Luigi Barattini era riconosciuta “molta abilità massime nelle cose criminali ed
185 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121. 186 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106. I governatori cambiavano spesso sede, in molti casi per evitare che
fossero troppo coinvolti negli equilibri locali e dessero adito a critiche o fossero sospettati di collusione con interessi di
privati. 187 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121, Governatori e loro impiegati nella legazione di Bologna sono
tratti i dati relativi all’età, agli anni di servizio e ai salari.
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egualmente attivo. Ha moglie e figli. Talune volte distratto da circostanze estranee alla carica si
rende inerte e ne è la prova taluni processi incagliati in quel governo”. Meno benevolo il giudizio su
Lorenzo Cenni: non tanto sulla sua attività – “poca esperienza e pratica nel diritto criminale,
sufficiente nel civile, energico attivo” – quanto per il “carattere altiero e vanaglorioso e non sa
conciliarsi la universale accoglienza, urtando piuttosto che andando d’accordo colle altre autorità”.
Anche il cancelliere Giuseppe Calori non soddisfaceva i superiori: “Discretissima [modestissima]
abilità e assai poca attività. Ove è stato non ha lasciato buon nome”. Di Gaetano Piacenti, già
processante del tribunale criminale e diventato da poco a governatore di Vergato, questo documento
ci dice che era ormai in età matura (aveva 51 anni), che aveva moglie e figli, e che era “uno de’ più
antichi impiegati. Conosce discretamente il diritto civile, molto il criminale e la pratica essendo
stato per lunga pezza processante. Abbastanza attivo ove il voglia. Ebbe diverse vicende ne
precedenti impieghi ma ora pare assodato. Di carattere ardente, è quindi alquanto irruente”.
Le modalità con le quali nelle comunità doveva essere assicurato il patrocinio gratuito erano
piuttosto controverse, sia perché si discuteva se ne dovessero beneficiare solo i poveri, sia perché
non di rado si spacciavano come provvisti dei titoli richiesti a comparire in giudizio anche persone
che non lo erano. Il 15 novembre 1824 il governatore di S. Giovanni in Persiceto, avvocato Antonio
Lotti, scrisse che con una lettera del 13 settembre 1815 spedita dalla delegazione apostolica di
Bologna era stato nominato difensore dei rei presso la sua giusdicenza l’avvocato Francesco Righi,
e che tale incarico era stato confermato dopo l’istituzione dei governi.
Per tale servizio reso e per quelli prestati già nell’uffizio municipale chiese alla suprema segreteria di stato nel
1816 un impiego lucroso e gli fu rescritto che restava confermato nel suo posto. Con questa veste è sempre
intervenuto ed interviene nel tribunale del governatore e difende gl’imputato per ordinanza del giudice o per
scelta di parte. Comecché poi esercente il procuratore per mestiero comparisce eziandio o come mandatario o
come assistente delle parti nelle cause civili.
Recentemente, però, era stato appurato che il sedicente avvocato non aveva mai conseguito la laurea
e quindi “non trovasi il signor Righi fornito di alcuno grado accademico nella professione legale”.
Righi aveva frequentato l’università a Bologna ma doveva aver condotto una vita dissipata e senza
seguire le raccomandazioni del padre, ora morto, che era stato notaio.
Consumò a Bologna i migliori suoi anni senza abilitarsi a veruna facoltà talmente che stancatosi il padre gli negò
sussidi e dovette ripatriare. Dotato di talento non mediocre, ne abusò ed essendo di natura maldicente e avverso
alla economia ha ora perduta la stima ed affezione de concittadini, costretto poi a male figure con le parti che a
lui (per non essere qui altro interveniente) si rivolgono per trattazione di cause.
In nove anni aveva certamente difeso molte persone come difensore d’ufficio ma da qualche mese,
“atteso la tristezza delle sue finanze” aveva citato i suoi patrocinati per non averlo pagato; si trattava
di dodici persone in tutto, alcune delle quali avevano rifiutato di corrispondergli alcun emolumento
“adducendo di non averlo nominato o di essere miserabili senza giustificarlo”. L’avvocato Lotti
commentava che, qualificandosi il “signor” Righi come difensore dei poveri,
parve a me che quelli i quali concludentemente non eransi addimostrati tali, dovessero dare le competenze
dovute al loro difensore. Niuna [una] allegò che la nomina lo indicasse difensore de’ rei, quindi per debito di
ufficio avesse tutti indistintamente e gratuitamente a patrocinare [...] Accerto poi che in generale le pretesa o
dimande fatte con citazioni dal sig. Righi non furono eccedenti.
Il successivo 20 novembre, la congregazione governativa invitò il governatore Lotti a riferire a
Righi che “nella sua qualità di difensore officioso non gli compete alcun indennizzo dai difesi
quante volte non costi ne’ debiti modi che l’abbiano a ciò [espressamente] deputato, per il che
gl’intimerà di desistere da ogni ulteriore vessazione” e due giorni dopo il legato comunicò questa
60
decisione a Lotti. Nessuna sanzione fu comminata a Righi per la sua qualifica professionale
millantata 188.
La questione del gratuito patrocinio si ripresentò a S. Giovanni in Persiceto quasi venti anni dopo,
quando il governatore, dottor Giuseppe Giacomelli 189, rispose al legato a proposito dell’assegno da
corrispondere al nuovo difensore d’ufficio dopo la recente morte di Francesco Righi: questi non
solo era stato riammesso dopo parecchi anni a svolgere le sue funzioni al suo paese anche se con
ogni probabilità non si era mai laureato (di lui non si parla neppure qui né come avvocato, né come
dottore), ma aveva ottenuto anche di essere pagato 48 scudi annui. Non tutte le sedi si regolavano
allo stesso modo. A Castel Maggiore al difensore d’ufficio venivano corrisposti 56 scudi annui
ripartiti a carico dei comuni del governatorato, a Loiano ne venivano pagati 24, a Budrio sei,
compensi che venivano accordati “a peso dei comuni a mero titolo di rimborso di spese di carta,
copie, viaggi, ecc. e non altrimenti come si è fatto a Castel Maggiore, Loiano e Budrio”. Giacomelli
osservava però che l’art. 687 del Regolamento organico, secondo la sua interpretazione, faceva
obbligo di patrocinio gratuito ai rei poveri. Citava un dispaccio della Segreteria di Stato per gli
affari interni del 10 gennaio 1837 che obbligava ogni governo a “ritenere a sue spese un difensore
officioso de’ rei”, dal quale secondo lui si deduceva la posizione del governo, e cioè “che li
difensori d’officio dei rei percepir debbano un emolumento od onorario a peso comunale [...]
coll’obbligo di prestarsi gratuitamente a difendere li prevenuti od inquisiti poveri”. Quindi, a suo
parere, il consiglio di S. Giovanni in Persiceto doveva deliberare un onorario per il nuovo difensore
dei poveri 190. In definitiva, ogni comunità cercava di far valere un margine di autonomia nella
decisione di stipendiare o no il patrocinatore d’ufficio, contrattandolo con il governatore.
Lo spoglio delle carte del governo di Castelfranco rivela come fossero rari i casi nei quali in
queste sedi decentrate si arrivava a concludere un processo, sia perché per lo più le denunce
riguardavano furti con o senza scasso, gli autori dei quali rimanevano ignoti, sia perché, anche
quando venivano individuati, se l’effrazione qualificava il reato, il fascicolo doveva essere
trasmesso al tribunale criminale anche se il danno era di modesta entità 191. Mentre nel primo caso il
compito del governatore si esauriva con l’ispezione della scena del crimine e l’accertamento del
reato in genere, quando i colpevoli erano noti e carcerati provvedeva anche ad accertare il reato in
specie istruendo il processo e trasmettendo poi i fascicoli a Bologna 192. Su circa 800 pratiche aperte
in due anni e mezzo, risulta che le occasioni per convocare il difensore d’ufficio furono veramente
poche, così come poche furono le sentenze che effettivamente il governatore pronunciò. Il suo
lavoro si riduceva per lo più alla trasmissione di carte al tribunale criminale o alla loro
archiviazione.
Insomma, sono per gran parte le stesse funzioni svolte un tempo dai massari (gratuitamente) per
l’accertamento del crimine e dai notai del Torrone all’atto di ricevere da essi denunce e querele. Se
si voleva evitare che un patrocinatore di paese, come l’avvocato Carlo Antonio Piccioli, che nello
stesso periodo venne incaricato della difesa in processi penali, fosse esoso nei confronti degli
assistiti nelle cause civili, lo si doveva appunto stipendiare a carico della comunità. Per Giovan
Battista Maini, arrestato il 10 marzo, la procedura fu rapida: il governatore, avvocato Filippo Grassi,
pronunciò dieci giorni dopo il verdetto di colpevolezza per furto semplice di due pezzi di piombo
188 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 124, Righi Francesco di S. Giovanni in Persiceto. Esercizio di
difensore de’ rei vessando i pretesi debitori. 189 “Uno de più vecchi impiegati, cominciò nel 1806 come conciliatore [...] dotto in diritto civile, conosce abbastanza
bene le cose criminali ed è diligente, avendo carattere assai dolce talvolta non impone agl’impiegati che manchino di
volontà” era stato descritto nel 1822 (ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121) 190 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 152, 19 dicembre 1843. 191 La scelta di Castelfranco è dipesa dal fatto che è la sede meglio documentata tra tutti i governatorati del contado
bolognese. 192 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, voll.1/A,
1816; 2/A, 1817: 3/A, 1817; 4/A, 1818.
61
193. Giovanni Messieri, incensurato, di professione fabbro, il 13 maggio 1818 fu querelato da Lucia,
una tessitrice di vent’anni, alla quale aveva chiesto di accompagnarsi con lui all’uscita dalla chiesa;
al suo rifiuto le aveva dato un pugno e le aveva rivolto epiteti gravemente lesivi del suo onore.
Anche in questo caso il procedimento fu abbastanza rapido 194. Analogamente la detenzione di
Francesco Manfredi durò solo tre giorni, dal 17 luglio al 20 luglio: l’avvocato Piccioli aveva
dichiarato di non avere nulla da dire a suo favore: il furto era pienamente provato sia in genere che
in specie 195.
Quello che portò all’incriminazione di Giuseppe Volpi, arrestato il 20 marzo 1817 dalla Guardia
provinciale facente funzione dei Carabinieri nella persona del brigadiere Biasini – era frequente nei
paesi che si ricorresse a volontari al posto di milizie regolari per alleggerire le finanze pubbliche dal
peso degli stipendi – fu invece un processo in piena regola e uno dei pochi che mostrano all’opera
gli attori principali della scena del tribunale locale: governatore, cancelliere e avvocato dei poveri.
Il 29 marzo l’avvocato Grassi mandò una lettera al dottor Carlo Antonio Piccioli – che quindi non
sembra avere il titolo di avvocato – nella quale sollecitava il suo intervento nella causa di furto
semplice contro Volpi: “Non avendo il medesimo nominato alcun difensore, ho creduto di affidarne
la difesa a Vostra Signoria Eccellentissima. Conosciuto il di lei carattere propenso a prestarsi al
solievo dei miserabili, sono ben certo che vorrà accettare tale pietoso incarico e la prego perciò di
portarsi con sollecitudine in questa residenza ove le sarà data comunicazione del relativo processo”.
Anche i difensori d’ufficio del tribunale criminale di Bologna ricevevano onorari molto bassi (15
scudi al mese) 196, il che rendeva inevitabile che essi limitassero ai casi di indigenza il loro
patrocinio gratuito e che questo incarico non fosse molto ambito, a differenza di quanto accadeva in
ancien régime quando essere avvocato dei poveri era considerato un riconoscimento d’eccellenza e
un onore tributato solo ai principi del foro, i quali a loro volta erano formalmente gli unici a poter
perorare la causa dei propri assistiti nella congregazione criminale. A maggior ragione è plausibile
che nelle comunità minori il difensore d’ufficio patrocinasse gratuitamente solo chi non aveva
denaro per pagarsi un proprio avvocato e questo confermerebbe quanto sostenuto dal governatore
Lotti: la gratuità doveva beneficiare solo i poveri. In questo caso abbiamo anche un raro esempio di
difesa scritta, che Piccioli fece avere a Grassi il 31 di marzo, un vero e proprio saggio di oratoria ai
livelli inferiori della professione, ma a suo modo efficace 197.
193 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, vol. 4/A,
1818, n. 32, Contro Giovan Battista Maini alias Marmao di Castelfranco, per preteso furto di una quantità di piombo
in condotti accaduto a pregiudizio del sig. conte cavalier Nicola Cappi di Castelfranco. 194 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, vol. 4/A,
1818, n. 52, Contro Giovanni Messieri di Rastellino, per semplice percossa ed ingiurie verbali a danno di Lucia Rossi
di Panzano. 195 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 4/A, 1818,
n. 80, Contro Francesco Manfredi di Formiggine, stato estense. Per furto semplice di due tacchini a pregiudizio di
Luigi Fantoni di Gaggio. 196 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139, Pianta organica del tribunale criminale, 1 luglio 1825. 197 “Sembra che pel Volpi Giuseppe imputato di rottura di una chiavica con asportazione di pietre [...] militino le
seguenti eccezioni o per declinare il reato e verificato pur ch’esso sia, per minorarne la pena. Per declinarlo, la massima
che due testimoni d’ogni eccezione maggiori richiedendosi a costituir piena prova, il Chiarli, perché impubere, non
sarebbe punto ammissibile [...] Rimarrebbe per solo testimonio il Pancaldi e ci si aprirebbe quindi il campo ad invocare
la trita massima dictum unius, dictum nullius e l’eccezione della giurisprudenza a siffatta regola portata, che il
testimonio, sebbene unico, nientemeno ricevesi si de nullius praeiudicio agatur non è per la evidenza de’ termini stessi applicabile alla nostra fattispecie, ove trattasi di concludere per delitto e per la inflizion della pena. Per minorarla,
appelliamo al notissimo canone di legge e di ragion naturale non meno, che la pena debb’essere proporzionata al delitto.
E’ questo senza dubbio leggiere, di uno scudo cioè e baiocchi 50 sotto l’aspetto dell’inferito danno e di soli baiocchi 50
ove riguardi il valor delle pietre sottratte lo che per lo appunto nella gradazion della pena per lo semplice furto presero
unicamente di mira i redattori dottissimi di quel celebre bando che tiene il primo seggio nell’odierna nostra criminal
giurisprudenza. D’altronde la povertà dell’imputato, allegata causa fra le generali impulsive a delinquere, ci presenta
nella corrente calamitosissima annata una circostanza iscusante e alleviante la colpa. Egli, se reo, ha già dato nel carcere
da più giorni sofferto alle offese leggi una riparazione condegna. Piacciale, ill.mo ed em.mo signore, di pronunziare e
prendendo a calcolo i suesposti riflessi voglia, di grazia, temprare la severità della giustizia colla dolcezza della
62
Il 19 dicembre 1817 l’avvocato Grassi scrisse di nuovo a Carl’Antonio Piccioli per comunicargli
che un detenuto, Domenico Barberini, aveva “nominato per suo difensore la degnissima di lei
persona. Le rimetto perciò gli atti processuali relativi, pregandola di produrre le difese il più presto
che le sarà possibile o in voce o in iscritto come meglio credarà opportuno”. In questo caso si
arrivò al verdetto dopo oltre sei mesi dall’avvio del processo, in ragione dello scrupoloso vaglio
delle prove e della complessità (relativa) della procedura 198.
Un ultimo procedimento contro un detenuto carcerato che fu concluso dal governatore Grassi con
una sentenza durò meno di un mese, dal 22 luglio all’11 agosto – lasso di tempo che coincise con il
periodo di detenzione di Vittorio Biagi – accusato del furto non qualificato (cioè senza aggravanti)
di uno staio di frumento 199. A Biagi avevano portato indagini basate sulle voci di paese: il 19 luglio
l’avvocato Filippo Grassi aveva chiesto al sindaco dell’appodiato di Manzolino informazioni sulla
sua “condotta morale” e su quale fosse “la pubblica opinione a suo riguardo”. Come in antico
regime, nonostante l’esistenza di vari corpi per il controllo dell’ordine pubblico, stipendiati e
volontari, si continuava a dare credito alla buona o cattiva fama nell’individuare possibili
responsabili di un reato, soprattutto quando si trattava di furti. La risposta, che arrivò al governatore
lo stesso giorno confermò che era “voce comune della nostra comunità essere questo un ladro ed in
particolare per generi di campagna”.
Il 22 luglio il governatore Grassi si rivolse allora al dottor Giovanni Bacchi, facente funzione di
commissario di polizia a Castelfranco, dicendogli che Biagi, bracciante, aveva ammesso “nel suo
costituto di essere stato anni sono arrestato per ordine dell’autorità politica di questa comune” e
chiedendogli di fare ricerche del relativo fascicolo “negli atti del passato municipio”. Una prova in
più che la burocrazia, come dimostra anche la continuità dei fondi archivistici, aveva costituito un
forte elemento di tenuta e di ricucitura dei numerosi strappi nei decenni a cavallo tra XVIII e XIX
secolo. Del resto, i sindaci degli appodiati sembrano esercitare mansioni per molti aspetti simili a
quelli dei massari di antico regime. La risposta del gonfaloniere Bacchi arrivò anch’essa
rapidamente, il 23 luglio: non era risultato nulla a carico di Biagi dai registri di polizia, ma da
informazioni prese sul suo conto aveva avuta la conferma che alcuni anni prima era stato per breve
tempo carcerato dalla cessata “rappresentanza comunitativa” per le continue e violente liti con la
moglie 200. Il 28 luglio il processo era terminato e si trattava di nominare il difensore. Anche in
questo caso fu il governatore Grassi a farlo, perché Biagi non seppe indicare alcun nome. Il verdetto
fu pronunciato l’11 agosto “sentito l’ecc.mo signor dottor Carl’Antonio Piccioli difensore officioso” 201.
2b. Governatori e notabilato locale. Dunque non sempre all’esercizio di una funzione nella
burocrazia giudiziaria corrispondeva un adeguato titolo di studio o l’ineccepibile “condotta morale”,
richiesta a tutti gli impiegati statali e valutata in ragione del loro conformismo politico. Lo prova
clemenza”.197 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali,
2/A, 1817, n. 147, Contro Giuseppe Volpi di Castelfranco, carcerato, per furto semplice di pietre a danno del signor
Flaminio Solimei di Bologna, seguito in Castelfranco nel condotto Muzzoletto.
198 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 3/A, n.
349, Causa contro Luigi Bernardi imputato di furto domestico a pregiudizio di Luigi Canedi di Manzolino. 199 Lo staio di Bologna era pari a 39,32 litri ed era l’ottava parte di una corba. 200 La Rappresentanza si riferisce al momento di trapasso tra la caduta del Regno e l’assestamento del dominio pontificio (fine 1813-1815) durante il quale vennero nominati i rappresentanti dello Stato della Chiesa e furono
ricostituite le magistrature comunali con persone non compromesse con il regime napoleonico. Sul tema
dell’amministrazione delle comunità della provincia di Bologna nell’età della Restaurazione pontificia resta ancora
molto da fare. Per il caso marchigiano si veda D. Cecchi, Dagli Stati signorili all'età postunitaria: le giurisdizioni
amministrative in età moderna, in Economia e Società: le Marche tra XV e XX secolo, a cura di S. Anselmi, Bologna, il
Mulino, 1978, p. 81. 201 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 3/A, 1817.
n. 258, Contro Vittorio Biagi alias Fumantino di Manzolino, arrestato per furto semplice di uno staio di frumento a
danno di Domenico Corticelli di Manzolino.
63
ampiamente il caso del dottor Gaetano Piacenti, che fin dal 1798 abbiamo incontrato come notaio
riabilitato e che nella sua Apologia al cardinale Lante del dicembre 1816 aveva ripetutamente
ricordato il lungo servizio di 21 anni, presentato come una referenza in sé, che aveva indotto i
superiori a richiamarlo dall’esilio per ricoprire la funzione di processante, anche se in gran parte era
stato prestato sotto il regime francese. Malgrado questo, già il 28 gennaio 1818 il legato Lante
scrisse al Segretario di Stato Ercole Consalvi dicendo che desiderava
allontanare almeno uno degli attuali giudici processanti e particolarmente il dottor Piacenti, contro cui sembra
più pronunziata l’opinion pubblica, e così rendere più rapida e più viva la soddisfazione generale; perciò io sarei a proporlo ad un governo, sul riflesso ancora che, se egli è quale si vuole da molti, sarà più agevol cosa il
venirne in chiaro e il poter prendere a suo riguardo un decisivo provvedimento.202
A giugno il dottor Piacenti, previo assenso del cardinal Consalvi – l’approvazione doveva essere
espressa dal Segretario di Stato per ogni nomina, anche di impiegati subalterni, come i cancellieri
sostituti, gli uscieri o i cursori “si affrettò” – come scrisse il cardinale Lante con una punta di
malevolenza – ad accettare la nomina al governo di Loiano, incarico che avrebbe comportato un
aumento di stipendio di 5 scudi al mese 203. Tra i paesani più autorevoli, Gaetano Piacenti suscitò
quasi subito reazioni ostili, a suo dire per il rigore con il quale si ingeriva negli equilibri locali.
Nella lettera che spedì il 30 ottobre al nuovo legato, il cardinale Giuseppe Spina, insieme con il
processo contro Lorenzo Calzolari, il governatore scrisse infatti che lo zio dell’imputato, che si
chiamava anche lui Lorenzo Calzolari, il quale aveva sporto reclamo al legato, era
uomo bisbetico, prepotente e privo affatto di educazione il quale crede che ciascuno si debba inchinare a
quell’oro che ha in pochissimo tempo ammassato e chi sa come. Costui non so quanto delicatamente viene
spalleggiato da certo Camillo Ferri, impiegato di polizia, che abusando di sue aderenze vende a costui non so
quale protezione e tenta di paralizzare continuamente le autorità locali talché il Calzolari spesso minaccia a tutte destituzioni e ruine. A me stesso, non ha molto che per altro oggetto perdette quasi il rispetto e lui fu fortunato
che la vista di un sol carabiniere il fece obedire e quietarsi [...] L’Eminenza Vostra Reverendissima nella somma
sua penetrazione si degnerà d’impartire quelle misure che troverà del caso, anche a tutela di quella estimazione
che non credo d’aver certamente demeritato e che mi è indispensabile in questo luogo.
Dopo aver esaminato il processo, il cardinale Spina rispose immediatamente al governatore di
Loiano, con un rescritto del 31 ottobre nel quale gli ordinava di notificare al giovane Lorenzo il
decreto che Piacenti aveva già pronunciato lo scorso 5 settembre, fatta salva la facoltà del
condannato di interporre appello al tribunale criminale di Bologna. Eppure la faccenda non finì così.
Il 7 novembre il legato Spina scrisse di nuovo a Piacenti a proposito dello stesso processo avendo
rilevato che i reati eccedevano la sua giurisdizione
emergendo dagli atti essere il Calzolari imputato di ratto nella persona della giovane minore Margherita Fabbri,
di seduzione con promessa di matrimonio dell’altra giovane Geltrude Viroli e di tentata cognizione carnale con sevizie alla donna maritata Margherita Gironi, titoli tutti sicuramente costituenti delitti di spettanza del
superiore tribunale, tanto più per quanto che ne’ giudizi criminali non la mancanza di prove ma il titolo è quello
che deve stabilire la competenza.
Un ammonimento a Piacenti a stare nei suoi limiti. Con il decreto del 5 settembre il Calzolari era
stato scarcerato dal governatore e “soggetto ai suoi pregiudizi” – cioè con libertà condizionata – e
con precetti rigorosi di non iterare il reato; tuttavia il legato aveva riconosciuto vizi formali nella
ingiunzione del decreto e quindi il processo era stato rinviato a Piacenti perché intimasse di nuovo
e “nelle solite forme il decreto” 204.
202 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109. 203 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109, lettera al cardinal Consalvi del giugno 1819 (senza specificazione
del giorno). Il legato Lante aveva fatto partire la nomina l’1 giugno. 204 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 111.
64
Dopo due anni di tregua, l’ostilità contro il governatore di Loiano si estese anche al suo
cancelliere sostituto, Mariano Boselli 205. Il 21 novembre 1820 il legato Giuseppe Spina inviò una
lettera alle autorità civili, politiche e militari del governatorato dopo essere stato informato “di vari
inconvenienti ed arbitri che hanno avuto luogo nel circondario [...] che voglionsi addebitati in parte
alla persona di quel governatore e in parte agli impiegati della di lui cancelleria”. Li informava
quindi di aver deciso di inviare l’avvocato Quattrorecchi
in qualità di suo delegato speciale munito di tutte le facoltà necessarie ed opportune che gli vengono conferite
con la presente credenziale per accedere agli uffici tanto del suddetto governatorato quanto della sotto direzione di polizia residente in Loiano e del comando militare non che di quella magistratura comunitativa e delle altre
simili del circondario medesimo ed ispezionare gli atti rispettivi [...] con facoltà altresì di sentire testimoni ed
altre persone probe e imparziali dei rispettivi paesi per incartarne le loro deposizioni e notizie dirette allo
scoprimento della verità.
Tra i tanti ruoli ai quali l’avvocato Quattrorecchi si adattò nel corso della sua lunga carriera a
servizio del tribunale di Bologna, ci fu dunque anche quello di ispettore, al quale si applicò col noto
scrupolo e con lo zelo che gli erano propri. Il 9 dicembre al governatore di Loiano fu comunicata,
sempre dal legato, la sospensione di Boselli dall’impiego e il suo allontanamento dal governatorato 206. Lo avrebbe sostituito temporaneamente l’impiegato Arrighi. Anche le minute beghe di una
remota comunità di montagna dovevano essere comunicate al Segretario di Stato e il 13 dicembre il
legato riferì che dalla visita di Quattrorecchi era venuto a conoscenza di
quanto necessaria e vantaggiosa per le viste del governo sia stata questa straordinaria misura, essendo venuto a
giorno d’inconvenienti ed irregolarità a’ quali ho potuto tosto metter il debito riparo e frattanto sono passato ad ordinare la sospensione del cancellier sostituto alla quale potrebbe forse tener dietro anche quella dello stesso
governatore dappresso l’esame che sto facendo di quanto risulta a di lui carico [...] Prendo motivo dell’adottate
misure di rappresentare a Vostra Eminenza Reverendissima che sarebbe assai opportuno l’estenderla di quando
in quando agli altri governi per assicurarsi della tenuta regolare degli atti e dei registro delle rispettive loro
cancellerie per sentire certamente la persona più onesta e accreditata del paese o paesi del circondario sulla
condotta morale dei governatori e loro impiegati e sulla riputazione che essi godono rispettivamente presso le
autorità locali quanto ancora presso il pubblico e per praticare quelle ulteriori ispezioni che le circostanza e i
casi speciali rendessero necessarie per lo scoprimento della verità 207.
Di questa estensione del controllo agli altri governatorati e alle rappresentanze delle comunità
sono testimonianza i numerosissimi fascicoli presenti nelle buste degli Atti riservati nei quali
vengono esaminate le denunce non solo nei confronti dei membri dell’apparato giudiziario, di
polizia e dei governi locali, ma anche dei moltissimi medici condotti, che furono accusati di
comportamenti lesivi dell’onore delle donne (e soprattutto dei loro uomini) nel visitarle. A causa
della cronica mancanza di denaro delle casse pubbliche, ispezioni rigorose come quella di Giacinto
Quattrorecchi – che comportò un costo, anche se relativamente lieve, che non poteva essere
sostenuto per la verifica di tutte le accuse di corruzione che venivano dalle comunità – di fatto
furono effettuate solo per un altro paio di casi. Non per questo i memoriali cessarono di arrivare e
assunsero la funzione di cassa di risonanza di interessi particolari e di voci malevole, che dovevano
essere controllate raccogliendo in segreto le dichiarazioni dei maggiorenti locali 208.
205 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il
cancelliere sostituto Mariano Boselli nell’esercizio delle rispettive loro funzioni rilevati nella visita a quel governo. 206 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il
cancelliere sostituto Mariano Boselli nell’esercizio delle rispettive loro funzioni rilevati nella visita a quel governo.
L’11 dicembre Piacenti scrisse al legato che Boselli aveva lasciato quasi subito Loiano e che rimanevano in paese la
moglie incinta e altre due bambine. Interrogato in proposito, Boselli gli aveva risposto: “Io non ho luogo ove collocare
la mia famiglia né ho mezzo di pagare il trasporto tanto delle mie poche masserizie quanto della medesima”. 207 Ivi.
207 Il cardinal Consalvi, con una lettera del 27 dicembre, respinse il suggerimento del legato Spina ammettendo che
introdurre le visite ai governi sarebbe stato utile “e di eccitamento agli impiegati per ben condurre nell’adempimento
delle loro incombenze, ma è certo altresì che sarebbero dispendiose al governo e forse non produrrebbero il desiderato
65
Il 12 gennaio 1821 Piacenti inviò una memoria difensiva nella quale affermava che la
diffamazione di Boselli era iniziata quando Arrighi era stato destinato a Loiano, per iniziativa del
vice direttore di polizia Mantacheti, il quale tra l’altro sosteneva che Boselli era una spia
stipendiata. Per quello che lo riguardava, Piacenti respingeva tutte le accuse che gli erano state
rivolte, fra le quali quella di aver ecceduto le sue competenze accettando denunce per delitti
“avvenuti nel circondario del vice governatore” 209 che l’editto di Segreteria di Stato del 16
novembre 1817 abilitava “all’iniziativa dei processi ed all’assunzione dei corpi del delitto” ma –
ribatteva Piacenti – senza escludere
che una tale iniziativa non si possa fare dal governatore, massime in cause di entità. Se si volesse restringere in
simil modo la giurisdizione dei governatori oltre che la restrizione sarebbe odiosa e non fissata dalla legge l’amministrazione della giustizia ne verrebbe a patire notabilmente ed io ho avuto il caso pratico nella denuncia
e successiva assunzione di concorso di delitto in causa di un parto esposto nella quale il vice governatore
trasmise atti tali che non si sono saputi tirare inanzi.
Si trattava di un infanticidio: Piacenti, per questa causa aveva incontrato omertà e ostilità di un’altra
potente famiglia di Loiano, quella dei Gamberini “e suoi aderenti” che spadroneggiavano impuniti:
Qualora fosse stato destituito sarebbe stato “il quinto giudice rimosso da Loiano per avere avuto
l’ardire di non strisciarsi inanzi ad essi”. Il vice direttore di polizia Mantacheti non aveva in nessun
modo cooperato con lui per scoprire i colpevoli di questo e altri reati, anzi aveva ripetutamente
violato il segreto d’ufficio, riferendo ai Gamberini i risultati delle indagini, aveva frequentato di
continuo la loro casa durante il processo e festeggiato insieme con loro, con mortaretti e spari di
fucile, la scarcerazione del medico che aveva contribuito a nascondere le prove dell’infanticidio.
Il 3 febbraio venne comunicato a Piacenti il trasferimento a Vergato, al posto dell’avvocato
Giuseppe Giacomelli che fu destinato a Loiano
perché ognuno d’essi disponga tosto per subire nelle debite forme il prescritto sindacato, compiuto il quale si
concerteranno fra loro per recarsi contemporaneamente alla rispettiva nuova residenza [...] fatta la consegna
dell’ufficio al cancelliere locale 210.
Il responsabile del sindacato era il nuovo governatore, e furono nominati per eseguirlo il
gonfaloniere Pietro Salomoni ed il dottor Pietro Capelli di Scascoli 211 i quali il 16 aprile
giudicarono che Piacenti non fosse imputabile di condotta scandalosa, accusa che gli avevano
rivolto i Gamberini. Mentre il sindacato era in corso, il 22 febbraio 1821, il parroco di S. Donino di
Stiolo Sante Poli si era prestato a dichiarare che nel dicembre 1819 era stato trovato nella sua
parrocchia il cadavere di un neonato sbranato dai cani e che allora il dottor Piacenti aveva ordinato
che tutte le ragazze nubili della parrocchia fossero citate
e alcune forzate dai carabinieri a comparire alla presenza di lui ivi facendole alla sua presenza stessa
scandalosissimamente visitare da balia non approvata, alla presenza pure del suo commesso con massima
confusione e scorno delle povere innocentelle pazienti.
effetto quando fossero eseguiti dai delegati assunti dalla classe degli impiegati”. Il Segretario di Stato concludeva
dicendo che riteneva più opportuno, “per economia dell’erario e per il miglior risultato delle indagini [...] il far seguire
tali perlustrazioni quando si avessero fondati sospetti di mancanze o di governatori o altri subalterni per mezzo di
persone non impiegate, incognite nei luoghi ove sono inviate e di tutta fiducia dell’Eminenza Vostra le quali a spese
dell’erario si recassero in aria tutta diversa dal vero scopo ed insinuandosi negli animi degli abitanti, specialmente di
quelli che credessero più probi, informati ed imparziali si assicurassero del vero stato delle cose”, in ASB, Legazione
apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il cancelliere sostituto
Mariano Boselli. 209 La carica di vice governatore secondo l’editto 26 dicembre 1817 competeva ai consigli delle comunità che
eleggevano una terna, e sostituiva quella di sindaco degli appodiati. 210 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 116, fasc. Loiano, Gravami contro il governatore avv. Piacenti non che
contro il sostituto Boselli Mariano. 211 I due sindacatori erano stati nominati rispettivamente dal consiglio di Loiano e da Piacenti.
66
Il ricorso presentato il 23 febbraio da Giovanni Maria Francia, Giacomo Scala, Francesco Scala,
Domenico Gamberini e Domenico Boschi parlava di cinquanta “oneste giovani”. Il sindacato aveva
accertato che solo una di esse era stata condotta in tribunale con la forza, che le ragazze visitate
erano state solo cinque o sei, che la mammana Magli aveva ripetutamente negato che alle visite
fossero presenti il governatore e il cancelliere sostituto Boselli, e che, sebbene non diplomata,
perché a Loiano non ce ne erano, serviva le maggiori famiglie del paese. I sindacatori aggiunsero di
aver appurato che la figlia di Giovanni Maria Francia, che si era qualificato come uno dei padri
delle giovani che avevano subito la visita, non era stata affatto tra di loro. Si trattava di indagare su
un delitto gravissimo, e “le pratiche in oggi adottate accordano ai giudici di poter devenire anche a
questi esperimenti quando non v’abbiano altri mezzi per iscoprire l’autrice del delitto” 212. Il 18
aprile i sindacatori, concludendo la loro relazione al legato sulla condotta tenuta dal governatore
Piacenti, scrissero che
Non si sa ammettere venisse posta così male a proposito e denigrata la fama delle indicate giovani nella voluta
ispezione, giacché dal deposto della mammana emerge che taluna fu trovata gravida e talaltra aveva testé
figliato [...] E’ forza convincersi non esser troppo sincero l’esposto né potersi ritenere il Piacenti colpabile
dell’imputata condotta scandalosa e conseguenti disordini.
Ai sindacatori rimaneva comunque il dubbio se sarebbe stato possibile evitare “le dicerie, pascolo
de piccoli paesi” 213.
Comunque, in considerazione delle ostilità suscitate a Loiano, il dottor Gaetano Piacenti fu
trasferito al governatorato di Vergato, lasciando dietro di sé appunto una scia di dicerie e l’accusa
del padrone di casa di essere debitore di 100 scudi per affitti non pagati. Si trattava di 8 scudi
mensili, cifra non piccola per uno stipendio di 35, per di più richiesti per un alloggio in una remota
comunità di montagna 214. Per un po’ di tempo non si hanno notizie di lui: risentiamo parlare di
nuovo di Gaetano Piacenti il 7 novembre 1828, quando il legato Giuseppe Albani scrisse al
Segretario di Stato Tommaso Bernetti di aver trovato al suo arrivo nella Legazione, nel febbraio
1826, Piacenti governatore a Bazzano. Alla fine del 1826 aveva approvato la proposta del vice–
legato di trasferire Salvigni, allora governatore di Molinella, “uomo di pochissime capacità” a
Vergato – “in allora vacante ove assai limitate sono le occupazioni”– 215, inviando al suo posto
Gaetano Piacenti il quale là non ebbe reclami “meno però il consueto contegno di essere proclive
alla colera e di carattere impetuoso”.
Sin dal suo trasferimento a Molinella, Piacenti aveva però cominciato a pretendere che gli
venissero manifestate le ragioni del suo trasferimento da Bazzano e, “mosso da quello spirito che
nutre direi quasi per malevole istinto di mettersi in lotta”, aveva fatto ricorso alla Sacra
Congregazione con “un cumulo di dicerie e cose non vere”. Il cardinale Albani concluse perciò
non esser più di convenienza che il medesimo rimanga a coprire la carica di governatore in questa Legazione
poiché avendo sempre date prove di esser d’animo inquieto ed avendomi recate infinite molestie e disturbi, lo
stesso sarebbe che espormi a sostenerne delle ulteriori ove nuovamente venisse impiegato 216.
212 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 116. 213 Ivi. Su questo processo si veda M. P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in
“Quaderni storici”, a. VII, n. 49, 1982, pp. 275-284.
213 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 118. 215 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121. Nel 1822 Salvigni era un uomo di 39 anni asceso alla funzione di
governatore dai gradi più bassi della gerarchia impiegatizia. In occasione dell’invio di un prospetto con le note di servizio degli addetti ai governatorati fu detto di lui che era “assai poco conoscitore del diritto civile e criminale ma
attento ed attivo abbastanza. Manca degli studi regolari per l’esercizio del suo impiego giacché non fu che un mediocre
usciere del tribunale d’Imola”. 216 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 128.
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Il 30 dicembre 1828, il Segretario di Stato rispedì l’incartamento su Piacenti comunicando “che
sono state date le disposizioni opportune affinché il Piacenti non rimanga governatore in alcun
paese di cotesta Legazione ma sia destinato ad altro luogo, previa un’acre ammonizione a meglio
diportarsi in avvenire sotto pena della perpetua destituzione alla prima benché leggera mancanza”.
Era una minaccia che non ebbe seguito: tra i giudici di Bologna e dei governatorati e i loro
subalterni, fino al 1848 nessuno fu destituito, per quanto oggetto di critiche e di proteste, tranne
Mariano Boselli. Ma quali erano state le “mancanze” del dottor Piacenti? Nel Ristretto di fatto, nel
quale reclamava per la sua esclusione dal governo di Bazzano, inveiva contro “il napoletano
riffugiato avvocato Quattrorecchi 217 quale chiedendo dalla classe dei giudici processanti passare
all’altro dei governatori” nonostante
lo si potesse destinare a Molinella e me lasciar quieto in Bazzano, dove era appena da due anni pure [...] il
Quattrorecchi, cui era indiferente qualunque destinazione, andasse a Bazzano e [...] io che dal 1818 in poi era
stato soggetto per meri capricci a quattro traslocazioni, il fossi anche alla quinta, destinandomi a Molinella. Non
ho mai cessato di chiedere il motivo di una tale misura che m’era tanto funesta e rapporto all’onore e rapporto
all’interesse.
Il trasferimento era dunque stato disposto per assecondare la richiesta del più ligio e fedele
impiegato del tribunale criminale e per Piacenti la nuova sede aveva comportato un declassamento e
un danno economico:
Bazzano giace alle falde di amene e ridenti colline, ed è bagnato dal fiume Samoggia che sempre contribuisce a
renderne l’aria pura e salubre laddove Molinella che stassene nella parte più bassa della provincia attorniata si è
da valli, risaie e pantani ed acque stagnanti. Le nebbie vi sono pressoché continue e per conseguenza l’aria che vi si respira è fetente e micidiale talmente che gli stessi nativi del paese vanno soggetti in ogni stagione a febbri,
dalle quali tante volte si trovano spinti al sepolcro. La popolazione di Bazzano si compone per la massima parte
di possidenti e negozianti e per conseguenza la volontaria giurisdizione frutta un qualche incerto al governatore,
laddove il popolo di Molinella si è quasi tutto di bifolchi, vallaroli o risari né cosa alcuna da simil gente puol
sperare chi governa [...] Oltre a tutto ciò considerar si deve la notabile spesa cui andavasi incontro in un tanto
longo e disastroso viaggio pel trasporto di una famiglia e di tutte le suppellettili che sono indispensabili, giacché
in questa Legazione nessun mobile vien fornito ai governatori ed è necessario che tutti seco loro se li portino.
Il legato, a dire dello stesso Piacenti, gli aveva risposto che non gli era imputata alcuna mancanza
ma che “s’era presa una tal misura per favorire il Quattrorecchi. Che se avessi avute delle mancanze
non sarei in un governo” 218. In qualche modo Piacenti fu accontentato con un compromesso, un
altro trasferimento, a Vergato, ma anche qui il suo carattere inflessibile e collerico gli procurò dei
nemici. La prima denuncia contro di lui venne addirittura dall’arcivescovo Carlo Opizzoni, che il 12
ottobre 1836 chiese il trasferimento del governatore e del suo cursore per isolare l’arciprete con cui
evidentemente era in combutta. Tutto nasceva da una denuncia anonima che riferiva come si era
svolta la missione di cinque sacerdoti bolognesi a Vergato, ordinata dall’arcivescovo, che all’inizio
“prometteva poco, ritrovato avendo gli animi de vergatesi di molto esacerbati”. I missionari sul
momento “dissimularono”, anche se dovettero sentir dire da Gaetano Piacenti che gli abitanti erano
“assassini ed infami a quali sarebbe stato meglio l’aver mandato non missionari ma quattro boia” e
poi il governatore aveva anche detto che
217 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 141, Supplica di Giacinto Quattrorecchi del 30 settembre 1836. Quattrorecchi, pugliese, era fuggito dal regno di Napoli dopo la caduta della Repubblica partenopea e aveva servito per
quindici anni “nell’ordine giudiziario”, come uno dei giudici del tribunale civile e correzionale in Imola fino al 1815;
aveva poi proseguito la carriera dopo la Restaurazione. A. Massafra, Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in Terra
di Bari e Basilicata, Bari, Edipuglia, 2002, lo cita a p. 271 come rivoluzionario e massone.
218 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 129.
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il governo del papa è il governo più infame di tutti, governo diametralmente opposto al Vangelo che dice
Regnum meum non est de hoc mundo e Quod est Caesaris Caesari, quod est Dei Deo, governo che castiga
solamente chi non ha colpa come son io, posto al Vergato senza colpa alcuna.
L’arciprete doveva essere un sovversivo: ai missionari, per non destar sospetti, aveva detto
scandalizzato che in paese c’erano molti liberali, ma i religiosi si accorsero presto che semmai
dovevano indagare su di lui e su Piacenti. I vergatesi invece si rivelarono devoti e disciplinati:
presenziarono a tutte le funzioni con compunzione. La missione si concluse con la comunione
generale alla quale parteciparono tutti, tranne Piacenti che fu sentito inveire contro lo scampanio
festoso. Il 14 ottobre il legato Vincenzo Macchi gli inviò una notificazione di sospensione. Il 19
ottobre lo stesso Macchi scrisse al Segretario di Stato di aver messo Piacenti “a mezzo soldo”, e di
aver nominato “in via provvisoria l’avvocato Giacinto Quattrorecchi, governatore quiescente con
intero soldo che fin qui ha supplito il dottor Barattini”, altro impiegato scomodo che era stato
sospeso, “in qualità di giudice processante presso questo tribunale criminale con che ha conciliato il
buon andamento del servizio con assoluta indennità dell’erario”. A carico di Piacenti si diceva che
nell’esercizio del suo ministero adoperava massime negli affari delicati sì poca prudenza e cautela da incorrere
nelle maggiori censure, siccome mi fu riferito poco prima dell’ordinata sospensione e gli chiesi ragione del
costituto cui aveva sottoposto la giovinetta Virginia Piccinelli in onta ed ingiuria della propria madre e colla
quale era accusato di aver messo in opera immorali suggestioni con pericolo eziandio della sua innocenza.
Non rimaneva che decidere se comunicare a Piacenti gli addebiti o piuttosto convincerlo a esibire i
suoi titoli per la liquidazione della pensione essendo ormai inetto ad esercitare l’ufficio. Alla fine fu
disposto che fosse invitato di nuovo a domandare la giubilazione “come inabile a prestare ulteriori
servigi” 219.
Quello che colpisce, in questa come in altre vicende burrascose che riguardano giudici processanti
o governatori, come Ercole Livizzani o Luigi Barattini, incalzato quest’ultimo dai debiti e accusato
periodicamente di inefficienza e trascuratezza nell’esercizio del suo ufficio, è la relativa tolleranza
mostrata dalle autorità anche di fronte alla pretesa insubordinazione di Piacenti al governo
pontificio. Non licenziamenti ma trasferimenti, non solo punitivi, ma soprattutto dettati
dall’esigenza di non entrare in urto con i notabili di paese, spesso ancora violenti e rissosi, o con i
loro valori comunitari. O giubilazioni che venivano “indotte” più che “imposte”. Sebbene i tempi
fossero molto cambiati e fosse stato inaugurato il regime del pugno di ferro con il potenziamento
della forza poliziesca e militare, nei confronti dei propri impiegati – ai quali era affidata la
delicatissima funzione giudiziaria – si cercava di utilizzare ancora, per guadagnarne la lealtà,
l’antico mezzo della persuasione e del debito di gratitudine. Così la giubilazione, che in molti casi
non venne mai (prestigiosi giudici d’appello erano ancora in servizio ultraottantenni, al momento
della morte), per chi la subiva costituiva quindi non solo uno scadimento delle condizioni di vita,
ma anche una mortificazione della propria professionalità.
In molti casi neppure le frequenti compromissioni di impiegati del tribunale nelle agitazioni del
1848 troncarono definitivamente le loro carriere pluridecennali o impedirono ai loro figli o alle loro
vedove di ottenere benefici per il servizio ininterrottamente prestato. A seguito di una circolare del
28 maggio 1849 che chiedeva i resoconti statistici sugli organici, venne compilato un prospetto
degli impiegati “destituiti, pensionati, posti in quiescenza o disponibilità o destinati altrove e che
cessarono di vivere senza sostituzioni dopo il 16 novembre 1848” fra i quali erano compresi
l’avvocato Filippo Leone, figlio del conte Giuseppe Ercolani, di 67 anni, che come si vedrà aveva
partecipato con scarsa convinzione alla “rivoluzione degli avvocati” della fine del 1831, e che come
giudice percepiva 40 scudi al mese; il nobile avvocato Pietro Balducci, di 49 anni, procuratore
fiscale con lo stipendio mensile di 30 scudi; Guido, figlio del defunto conte Giacomo Tubertini,
219 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 141, fasc. Turbata tranquillità di quel paese in causa del governatore
avv. Piacenti, cursore Missiroli e dell’arciprete locale.
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anche lui di 49 anni, che come cancelliere sostituto onorario percepiva 14 scudi. I prospetti erano
indirizzati all’avvocato cavalier Raffaele Giacomelli, consigliere di Legazione facente funzione di
delegato che naturalmente li inviò alla supervisione del commissario straordinario e pro-legato delle
quattro Legazioni, monsignor Gaetano Bedini.
Dunque, vari esponenti di antica o recente nobiltà i quali, più che dei loro titoli ereditari, si
fregiavano di quello di avvocato, o almeno di dottore in legge per percepire un salario dignitoso ma
modesto (a volte modestissimo, come nel caso di Tubertini) in cambio del loro inserimento nella
pubblica amministrazione: un posto fisso non disdegnato neppure da alcuni orgogliosi discendenti
di famiglie senatorie. Quanto ai governatori, i loro stipendi si erano ancora erosi, ma ugualmente
quei posti erano ambiti dai notabili di paese o dai figli di antichi impiegati. A Poggio Renatico, il
governatore percepiva ora 33.25 scudi, sia pur integrati con un assegno di uno scudo e mezzo a
titolo di rimborso spese. Era il dottor Mario Gandini, di 48 anni “possidente, la di lui famiglia è
ascritta a più nobiltà, cioè delle città di S. Leo, Penabilli, Città di Castello, Pergola Montalto ed
altre. E’ libero e non ammogliato”. A Castel Maggiore, governo questo da 35 scudi, troviamo come
cancelliere sostituto a 9 scudi al mese il dottor Carlo Barattini, figlio di Luigi, di 25 anni, definito di
ottime capacità, “celibe, ma concorre col padre al mantenimento di cinque fratelli” 220.
I prospetti dovevano permettere al governo di valutare la lealtà degli impiegati pubblici e da
Roma, dove monsignor Bedini li aveva inoltrati, vennero inviate varie lettere di censura, quasi tutte
datate 25 gennaio. Fra le vittime dell’epurazione del 1851 ci fu il conte Giovanni Paolo Stella,
maestro di camera presso il municipio di Bologna “per la sua leggerezza in materie politiche” e
anche il dottor Carlo Barattini, ora sostituto processante criminale, “per le sue imprudenze”. Fu però
inserito nel non lungo elenco degli “ammoniti e graziati” 221. Anzi, il 13 agosto, Luigi Barattini
avrebbe cercato di strappare altri favori per il figlio e per tutta la famiglia, assumendo il tono
querulo che negli ultimi anni gli era stato proprio e chiedendo, invano, al commissario straordinario
Gaetano Bedini di passare Carlo alla cancelleria del tribunale di prima istanza. Ringraziava perché
coll’interessamento del legato aveva ottenuto dal governo “un qualche sollievo”. Parlava fra i tanti
suoi guai della
costituzione morbosa dei nove miei figli, i quali o hanno già seguita la madre in un mondo migliore o gemono
da più anni sotto il flagello di croniche infermità, o sono ridotti ad una condizione di salute debole e vacillante
che fa ad ogni istante temere lo sviluppo di quella trista eredità materna. Il maggiore mio figlio Carlo è uno
degli ultimi perché la sua gracile costituzione, il suo volto da qualche tempo sparuto e due recenti sbocchi di
sangue sono sintomi che giustificano le paterne mie inquietudini. Il suo impiego di sostituto processante, che
esercitava con probità, sufficiente attitudine e molto suo buon volere, era troppo faticoso per il suo stato di
salute.222
Nel 1857 fu presentata a Pio IX la supplica della moglie e della figlia dell’avvocato Lorenzo
Cenni, un tempo governatore di Poggio Renatico e ininterrottamente in servizio come impiegato
pubblico dal 1811; le due donne si rivolgevano alla clemenza del papa anche in veste
rispettivamente di madre e sorella del dottor Guglielmo, figlio di Lorenzo affinché perdonasse
“quei traviati che trascinati involontariamente dalla corrente presero parte ai pubblici
sconvolgimenti”. Le informazioni raccolte su questo caso avevano appurato che Lorenzo aveva
avuto la commutazione della galera a vita con l’esilio a vita. Il figlio era stato condannato dal
tribunale militare austriaco “per complicità alle mene rivoluzionarie del 1853 in questa provincia in
contumacia a venti anni di arresto in fortezza con ferri”, ma si era reso latitante prima dell’inizio del
processo. Si pensava che fossero entrambi a Genova. Le due donne godevano di una piccola
pensione per il servizio di governatore prestato dall’avvocato Cenni “in tempi tranquilli” 223. Il 27
220 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 164. 221 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 168. 222 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 169. 223 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 181, 1857. La busta contiene le suppliche rivolte al papa in visita a
Bologna. I capi d’accusa contro i Cenni erano molto numerosi. Lorenzo, che aveva 62 anni, era stato condannato dalla
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luglio 1857 il parroco della Maddalena garantì del pentimento e della vita irreprensibile dei due
Cenni. Il rescritto dell’udienza del 15 agosto 1857 fu che le istanze delle due donne non erano
accolte perché dovevano essere sottoscritte “da coloro che colpiti da condanna implorano grazia” 224.
2c. Il declino del conte Boselli. Il 29 gennaio 1824 Mariano Boselli, sostituto cancelliere a Porretta,
chiese un anticipo dal salario, 40 scudi da restituire mensilmente a rate, adducendo l’imminente
parto della moglie Donnina Volta e la malattia insanabile della madre, la quale godeva di un piccolo
vitalizio con cui doveva mantenere anche il marito. Già in passato i Boselli si erano rivolti all’opera
pia dei Vergognosi che però non era più in grado di aiutarli. Il 19 gennaio il dottor Bernardi aveva
certificato che Donnina Volta, moglie del conte Boselli, era in uno stato di reale miseria. E’ la prima
volta che veniamo a sapere che Mariano aveva un titolo nobiliare, certamente frutto di una rapida
quanto effimera ascesa della famiglia. La madre di Boselli, contessa Vernizzi, apparteneva invece
alla nobiltà bolognese di antiche origini notarili. Il legato negò l’anticipo per certe irregolarità
compiute da Boselli, sia assentandosi ingiustificatamente da Porretta, sia presentando come
postulatore, senza averne il titolo, una supplica a nome di sedici condannati alle spese processuali e
alimentari dal governatore che chiedevano di esserne esentati per la loro povertà. Il governatore,
Giuseppe Giacomelli, intercedendo per lui con una lettera del 6 febbraio, ricevette ancora un
diniego dal legato. Giacomelli scrisse ancora il 28 febbraio successivo, raccomandando nuovamente
Boselli, pieno di debiti, tanto che nessuno a Porretta gli faceva più credito. Non sapeva come
sfamare la famiglia, soprattutto nella stagione invernale, quando la maggior parte degli uomini del
paese erano migrati in Maremma e quindi non poteva sperare di integrare il salario con gli introiti
della cancelleria per gli atti civili “perché l’ufficio non lavora”.
Boselli, nella sua lunga supplica, datata 22 febbraio, diceva di avere tre figli più uno in arrivo e
che aveva “dei nemici che a spada tratta tirrono a sacrificare il uomo onesto ed il sangue innocente”.
Si era assentato dal suo ufficio, ma col permesso del governatore Giacomelli per seguire una causa
civile. Era “vicino a perir di fame e di stento, di disdoro ancora purtroppo al ceto degli impiegati,
non essendo il di lui soldo mensile sufficiente a vivere dieci giorni” e chiedeva il prestito per non
essere costretto “a commettere delinquenza in uffizio, a fugire per il mondo ed abandonare la
famiglia” per disperazione. Il governatore Giacomelli il 13 marzo comunicò che il 29 febbraio
aveva accordato a Boselli di recarsi a Vergato per alcuni giorni per sistemare delle pendenze per i
diritti di cancelleria ma che da allora non si era più visto. Boselli, scrisse poi Giacomelli, era tornato
cinque giorni dopo. Boselli aveva un debito verso l’ufficio del registro di Vergato di 25 scudi, di cui
ne aveva pagati 10, promettendo di versare presto il residuo. Il legato osservò che il debito “prova
abbastanza la sua infedeltà”, e affidò al governatore il compito di “correggerlo ed ammonirlo ad
ogni opportunità onde migliorare, se sia possibile, la di lui condotta e procurare di rendere così
meno infelice la situazione della sua famiglia”. In una lettera del 9 aprile, Giacomelli scrisse che
Sacra Consulta il 30 marzo 1852 “per estorsione di danaro con minaccia d’incendio e con privazione di libertà alle
persone minacciate, il tutto commesso per ispirito di parte, alla galera in vita sotto stretta custodia. Più il suddetto
tribunale con sentenza 15 settembre 1852 per titolo d’incendio doloso in luogo abitato per ispirito di parte lo condannò
alla galera in vita sotto stretta custodia. Colla stessa sentenza il suddetto tribunale per titolo di furto qualificato a mano
armata per ispirito di parte ed in somma maggiore di scudi 100 alla galera per anni 15. Più altro furto simile inferiore ai scudi 20 alla galera per anni 10. Più altro furto simile inferiore ai scudi 20 alla galera per anni 10. Per incendio e
dispersione dell’archivio comunale del Balzo, alla galera per anni 15. Più per arresto arbitrario per ispirito di parte con
altra sentenza 1 febbraio 1853 della Sacra Consulta fu condannato a due anni d’opera. Condotta tenuta in Ancona
eccessivamente irrequieto, insubordinato e promotore di disordini. Condotta in forte Urbano: mai punito”. 224 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 181. E’ difficile che i Cenni, o almeno Guglielmo, si siano indotti a
supplicare il papa. Di lì a poco il giovane Guglielmo si sarebbe unito a Garibaldi. Nell’elenco pubblicato sulla Gazzetta
ufficiale del Regno d'Italia del 12 novembre 1878 di tutti i componenti la spedizione dei Mille di Marsala, compilato
sulla scorta dell' Elenco pubblicato nel 1864 dal Ministero della Guerra, il nominativo n. 285 è quello di “Cenni
Guglielmo fu Lorenzo, nato a Comacchio li 26 febbraio 1817, residente a Roma, colonnello a riposo”.
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per quante diligenze abbia usate per iscoprire se vero sia che il mentovato signor dottor Boselli abbia scritti
biglietti per domandare dennari o farina dietro assicurazione di proseguimento d’atti o d’assistenza nelle cause,
ho potuto benissimo rilevare che egli ha fatte frequenti somiglianti domande a titolo di prestito ma non mai col
pretesti suindicato. Io stesso gli ho somministrata una somma ed il parroco di Rocca Pitigliana ultimamente
un’altra colla promessa [...] della restituzione [...] Non posso dissimulare che generalmente li animi siano
indisposti contro di lui, ma lo sono perché tutti indistintamente lo riguardano come un delatore volontario e
prezzolato, che tutto riferisce minutamente le azioni indifferenti e perfino domestiche alla polizia di Vergato ed
in questo aspetto egli è assolutamente esecrato ed aborrito, motivo per cui sembrerebbe conveniente di altrove
traslocarlo.
Dunque, di Boselli anche a Porretta, così come a Loiano, si diceva che era una spia e anche il
governatore Giacomelli, per quanto a malincuore, riteneva meglio allontanarlo, per non estendere la
sua cattiva fama a tutto il personale e all’operato del suo ufficio. Il 19 giugno 1924 il legato Spina
comunicò al governatore di Porretta di essersi deciso a dimettere Mariano Boselli dall’impiego.
Perché poi non manchi la necessaria sussistenza alla non colpevole di lui moglie e famiglia ho deciso di far
corrispondere frattanto provvisionalmente alla detta moglie Donnina un sussidio caritativo e ciò per un tratto di
commiserazione e beneficenza verso gl’infelici individui di detta famiglia 225.
Privato dell’impiego fisso, del quale tuttavia non era riuscito a vivere, accumulando debiti, Boselli
era ugualmente rimasto a Porretta e il 21 marzo 1826 il governatore, che era ancora Giuseppe
Giacomelli, lo raccomandò al legato Albani perché gli concedesse la qualifica di patrocinatore.
Dopo aver perso il posto, Boselli si era dedicato alla difesa delle cause civili agitate nel tribunale di
Porretta, ora come mandatario, ora come accompagnatore delle parti in giudizio, ora anche come
sostenitore di uno dei contendenti. Tutto questo a titolo gratuito perché potevano esigere compensi
solo i difensori legalmente riconosciuti: Boselli chiedeva che le retribuzioni per i propri patrocini
potessero essere corrisposti a titolo di liquidazione di spese. “Nulla in contrario alla di lui buona
condotta mi è stato fino ad ora denunziato” e nelle cause trattate “ha sempre fatto mostra di molto
zelo ed interessamento”: queste le parole con cui il benevolo Giacomelli aveva appoggiato la
richiesta di Boselli 226. Il cardinale Albani aspettò un mese prima di rispondere al governatore che
per non essere egli investito della qualifica di patrocinatore approvato ed appropriandosela abusivamente nella difesa di cause civili introdotta presso codesti governo, non può pretendere di costringere i suoi clienti al
pagamento delle tasse competenti ai patrocinatori, giusta la vigente legislazione. In pendenza però della decisa
approvazione della sua persona a patrocinare cause, la quale dovrà procurarsi dal signor pretore all’appoggio
dell’art. 46 del secondo foglio di schiarimento al moto proprio 5 ottobre 1824, potrà prendersi il temperamento
che il detto dottor Boselli scriva a qualche approvato patrocinatore in Bologna e si faccia destinare come uno
dei di lui praticanti di studio a patrocinar cause nel governatorato di Porretta. Ciò ottenuto, incomberà al signor
governatore locale di approvarlo in tale qualità di praticante di studio e con questo mezzo [...] resterà
provveduto all’istanza del ricorrente il quale potrà pretendere dai clienti patrocinati le tasse di competenze. Lo
avvisi dunque, onde possa mettersi in regola, usando ogni discretezza nelle sue pretese conciliabilmente colle
circostanze economiche degli abitanti 227.
Il 5 dicembre 1828 il governatore Giacomelli scriveva che Boselli a Porretta era l’unico
patrocinatore autorizzato con rescritto del legato e che spesso assisteva gratuitamente i miserabili.
Evidentemente il praticantato lo aveva fatto o lo stava facendo. Il 3 gennaio successivo il priore
comunale di Porretta dottor Bernardi scrisse a sua volta al legato che l’accusa al dottor Boselli di
approfittare delle liti per farsi pagare indebitamente era falsa e calunniosa.
225 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 123, Boselli dott. Mariano destituzione dall’impiego di sostituto
cancelliere presso il governo di Porretta per delitti in genere. 226 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 126. 227 Ivi.
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Ritrae esso dottore dalla sua professione legale quasi la totale sossistenza, avendo il padre, cinque puerili figli e
la moglie a carico proprio [...] Assiste egli collo stesso impegno tanto i ricchi quanto i poveri e miserabili [...]
Non ha convenuto in giudizio per essere pagato di sue funzioni legali che soli due.
Come patrocinatore abilitato poteva “ripetere le sue funzioni legali dalle parti il che fare non
potendosi verso i loro clienti dagli altri patrocinatori abitanti egualmente a Porretta perché privi di
qualunque abilitazione” ed essi “mossi da così viva dispiacenza suscitano nel mal animo dei
litiganti delle idee di animosità e di rancore contro del ripetuto Boselli che si diffondono poi
sollecitamente nel pubblico in di lui pregiudizio onde toglierli quella clientela che finora gli ha
procurato il suo sostentamento” 228.
Modesto patrocinatore di provincia, nobile bolognese trasferito in montagna per incapacità di
vivere a Bologna conformemente al suo rango, e tuttavia inseguito dai creditori, dai detrattori e dai
concorrenti, e ora, manifestamente, messo in cattiva luce dalla malevolenza del nuovo governatore.
Andrea Salvigni, che nel frattempo aveva sostituito l’avvocato Giuseppe Giacomelli, il 5 ottobre
1829 scrisse che da alcuni mesi il dottor Giuseppe Galletti aveva formalmente incaricato Boselli,
come suo praticante di studio, di patrocinare cause a Porretta, ma che la nomina non aveva avuto la
ratifica del pretore, senza la quale Boselli non poteva pretendere per intero le tasse dai patrocinati 229. Insomma, l’iter non era stato completato con il praticantato e mancava l’esame finale perché
Boselli si potesse definire procuratore a tutti gli effetti. Il 24 novembre il conte fornì i titoli per
ottenere dal pretore l’abilitazione all’esercizio di causidico con facoltà di farsi pagare ed esibì la
dichiarazione sottoscritta dell’arciprete Gioacchino Monti il quale faceva fede che Boselli era
“senza mezzi di sussistenza ad eccezione del poco che guadagna coll’esercizio della sua
professione, avendo una numerosa famiglia di cinque figli e la moglie incinta, e una delle figlie in
Bologna per motivo d’educazione”. Aveva accumulato per pigioni arretrate un debito di 68 scudi
con il conte Vincenzo Ranuzzi che avrebbe potuto estinguere se i suoi assistiti lo avessero pagato.
Il 23 novembre il priore comunale certificò che
il nobil uomo signor conte dottor Mariano Boselli da molti anni dimorante in Porretta è persona onesta e
dabbene esercitando con onore e delicatezza la di lui professione legale per cui dai suoi clienti viene lodato,
ond’è che contro il medesimo veruna cosa emerge in questi atti comunitativi e politici, conducendo inoltre una
buona condotta morale e politica.230
Il sospirato titolo di causidico non fu rilasciato neppure allora; anzi, il 26 novembre 1830, il legato
Bernetti, a seguito di un esposto anonimo di abitanti di Porretta, sospese Mariano Boselli
dall’esercizio della funzione di procuratore e come risposta a una sua supplica lo invitò a conseguire
formalmente l’abilitazione. Nell’esposto sono riassunte con malevolenza tutte le fasi della carriera
di Boselli nel pubblico impiego, dagli esordi come sostituto cancelliere alla giudicatura di pace di
Guiglia da dove dovette scappare e adattarsi a fare l’usciere nella giudicatura di pace di Porretta. In
seguito
con le sue furberie nel 1816 riuscì a farsi assumere come notaio aggiunto nel tribunale criminale di Bologna ma
anche qui non soddisfacendo procurò di entrare nella polizia di Bologna, dove ugualmente non dette buona
prova. Si intrufolò a Bazzano come sostituto cancelliere dove fu sospeso e passò a ricoprire la stessa carica a
Loiano, fu sospeso anche lì, poi a Porretta dove non fu solo sospeso ma cassato nel 1824 dal pubblico impiego 231.
228 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 128, fasc. Boselli Mariano, accuse contro di lui, sottoscritte da dodici
persone, tra cui il parroco di Capugnano il 21 novembre. 229 Il Motu proprio di Leone XII del 1827 nell’art. 38 del titolo II prevedeva che in ogni capoluogo di legazione o
delegazione ci fosse un giudice unico detto pretore per le cause civili di prima istanza superiori a 300 scudi. 230 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.130, fasc. Boselli dottor Mariano in Porretta, accuse nell’esercizio di
procuratore. 231 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 132.
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Malgrado il malanimo di una parte dei compaesani, per un po’ di tempo la situazione di Mariano
Boselli sembrò migliorare e il 14 luglio 1831 superò finalmente l’esame riportando l’abilitazione
dal pretore Carlo Mazzolani, ma già il 29 novembre era di nuovo nei guai per le accuse che gli
vennero rivolte dai clienti – in particolare di prolungare senza necessità tutte le cause, anche minime
– accuse che trovavano ascolto nel governatore Salvigni, il quale non dispose giudizialmente per il
saldo dei suoi crediti. I figli di Boselli erano intanto diventati sette 232. L’abilitazione conseguita,
peraltro, non gli conciliò gli animi dei paesani. Il 24 gennaio 1833, l’avvocato Carlo Mignardi,
nuovo governatore di Porretta e all’oscuro dei precedenti di Boselli, scrisse al pro–legato, il
senatore e conte Cesare Scarselli, di averlo proposto come difensore d’ufficio nel governo di
Porretta, in sostituzione di Pietro Nanni che vi aveva rinunciato, “perché nel breve periodo di mia
gestione governativa in Porretta non ho avuto campo di scorgere in lui alcun pregiudizio che ostar
possa all’esercizio di quell’incarico”. Tuttavia il pro-legato lo indusse a cambiare opinione e a
favorire un notabile locale, anche se sprovvisto dell’abilitazione.
Scarselli, infatti, aveva invitato il governatore Mignardi a consultare gli atti del suo ufficio dal
1829 al 1832 perché si documentasse sui precedenti di Boselli nell’esercizio di procuratore nelle
cause civili “e concepire di lui quell’opinione che in codesti paesi si è egli acquistata in senso
certamente non vantaggioso”. Lo aveva lasciato però libero di decidere “anche pel riflesso
stringente di non esservi forse in paese chi potesse avere l’attitudine di assumere gratuitamente
l’officio di difensore de’ rei presso codesto tribunale” 233. Mignardi si era affrettato a cambiare idea.
Ora però che l’Eccellenza Vostra [...] mi dà lume sulle eccezioni che colpiscono il proposto Boselli, quantunque
mi ha lasciata la facoltà di nominarlo a quell’ufficio sotto la mia responsabilità, mi faccio però invece a
proporre la persona dell’eccellentissimo signor dottor Antonio Bernardi di Porretta giacché non intendo di
assoggettarmi ad alcuna responsabilità per l’operato di un altro. La proposta persona, quantunque non legale, è
però fornita di cognizioni e criteri anche più del bisogno bastevoli a poter disimpegnare le diffese nei processi
di titoli pretoriali.
Nel 1839 il legato Vincenzo Macchi chiese informazioni al governatore di Porretta, avvocato
Carlo Bignardi, su Mariano Boselli che il 25 marzo aveva supplicato il cardinale di impiegarlo
come cancelliere o come processante. L’11 aprile Bignardi rispose che Boselli era sicuramente in
grado di ricoprire una cancelleria in un governo, non sapeva però se avrebbe potuto essere
impiegato come processante. Quanto all’onestà, riteneva che le chiacchiere su di lui fossero causate
non tanto dalla sua cattiva indole, quanto piuttosto dalla necessità di mantenere la sua
numerosissima figliolanza, cosa che non poteva fare con i suoi proventi di procuratore
impiegando alle volte in tali ristrettezze i fondi affidatigli dai clienti pel proseguimento delle cause e poi
costretto a ritardarle per mancanza di mezzi e da ciò ne nasce pregiudizio al suo buon nome. Del resto però non manca di un certo fondo di onoratezza e religione, non disgiunto dai più lodevoli sentimenti per la migliore
educazione dei figli, il maggiore dei quali per le paterne cure è già iniziato nella carriera ecclesiastica. Ritengo
pertanto che fornito di un impiego che gli somministri i mezzi necessari per far fronte ai suoi impegni, far possa
il dottor Boselli una buona riuscita.234
Quando Boselli nel giugno 1824 era stato licenziato come cancelliere sostituto dal governo di
Porretta, pochi giorni dopo era stato assegnato alla famiglia un sussidio di carità di 8 scudi mensili
sui fondi della provincia pagabili a sua moglie Donnina, sussidio che veniva ancora versato nel
luglio 1840, quando il marito presentò una nuova supplica per un impiego che fu archiviata 235. Non
fu l’ultima volta nella quale le sue aspirazioni professionali gli vennero troncate dai suoi precedenti
232 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 133. 233 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 137. Il rescritto del pro-legato alla risposta di Mignardi fu favorevole al
dott. Bernardi. 234 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 146. 235 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 148.
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– amplificati dalla malevolenza di quei paesani dai quali non aveva saputo farsi accogliere – anche
se la carità non gli veniva negata. Informazioni sul suo conto furono chieste il 22 maggio 1847 al
legato Luigi Amat di San Filippo dal Segretario di Stato Tommaso Pasquale Gizzi: Mariano Boselli
si era infatti rivolto al papa per ottenere un impiego. Il legato rispose laconicamente il 28 maggio
ripercorrendo le prime tappe della sua carriera: nel maggio 1819 era impiegato come sostituto
interinale al governo di Bazzano dove era rimasto fino alla fine del 1820. Nel 1821 aveva avuto la
nomina stabile di cancelliere sostituto a Porretta, impiego da cui era stato destituito nel giugno 1824
per le frodi e le prevaricazioni che aveva compiuto, mentre alla moglie era stato assegnato un
mensile di 8 scudi dai fondi provinciali 236. Del quarto di secolo successivo non si diceva nulla,
tranne che per quel sussidio di carità: Boselli era sparito dall’organico del pubblico impiego,
incapace – forse più per insipienza che per malafede – di toccare le corde dei superiori e di
riconvertire il suo originario status di nobile in quello di dignitoso servitore dello stato 237.
3. Il protagonismo politico degli avvocati: successi e insuccessi tra ancien régime e
Restaurazione.
3a. Onore e utili. Dalla metà del Settecento alla metà del secolo successivo la professione degli
avvocati sembra essere la via maestra per la carriera politica e per la promozione sociale; tuttavia,
nello stesso periodo, si verificano forti disparità all’interno del «ceto legale». La maggior parte degli
avvocati occupò impieghi modesti anche se sicuri, che consentivano una relativa agiatezza (il caso di
Boselli è un’eccezione alla regola che è confermata da centinaia di fascicoli personali che attestano
lunghi e – più o meno – onorati servizi). Alcuni – già principi del foro – assurgono al rango di nobili
e di referenti privilegiati prima dei dominatori francesi e poi del restaurato potere pontificio. Nella
Bologna del Settecento, la reputazione e la collocazione sociale di chi esercitava la professione di
patrocinatore nei fori civile e penale variavano molto: ai migliori avvocati, laureati in utriusque e
collegiati, tanto più se lettori dello Studio, erano riservati rispetto e considerazione mentre i
procuratori, che potevano essere dottori in iure ma anche non esserlo, non di rado si confondevano
con la folla stracciona dei praticanti – i sollecitatori.
Queste differenze si ripercuotevano anche sulla parcella che ciascuno poteva richiedere ai propri
clienti. Tariffe precise erano fissate solo per chi agiva nel foro civile; d’altra parte per i reati di cui
era competente il foro criminale venivano processati poveracci – ladri o comunque persone che
vivevano ai margini della società – che raramente o mai potevano ingaggiare privatamente un
procuratore o un avvocato, limitandosi ad affidarsi al patrocinio gratuito dei difensori d’ufficio 238.
Gli onorari degli avvocati della curia civile di Bologna per la stesura di allegazioni difensive erano
piuttosto alti, arrivando fino a un massimo di 6 scudi. D’altra parte la tariffa fissata per i procuratori
– o causidici – prevedeva una varietà molto maggiore di funzioni sia in giudizio sia extragiudiziali.
Così, le 10 lire che costituivano la retribuzione massima del curiale, rapportate ai 6 scudi pagati per
le allegazioni pro veritate degli avvocati, ci danno bene l’idea di quanto fosse inferiore la
considerazione sociale nei loro confronti (6 scudi valevano circa 30 lire) ma non è detto che i
236 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 161. 237 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 174. Il 17 marzo 1853 giunse una nuova richiesta di informazioni da
Roma, dal ministro dell’interno, sul conto del dottor Mariano Boselli Spinola [è la prima volta che viene nominato con un secondo cognome: una disposizione testamentaria di un parente?] che implorava di essere nominato supplente al
governo di Porretta, chiedendo anche un sussidio nel frattempo, trovandosi in stato di estrema indigenza. Il commissario
straordinario risponde ripercorrendo le solite tappe della carriera di Boselli, ormai settuagenario, e dicendo che il
sussidio di 8 scudi a suo tempo assegnato alla moglie veniva ancora pagato dalla commissione amministrativa della
provincia. Il posto si era reso disponibile un paio di mesi prima e per esso avevano fatto domanda di assunzione a Roma
almeno due candidati. 238 Le Provisioni ed ordinazioni sopra le tasse degli onorari de’ signori avvocati e causidici e sopra le mercedi de’
sollecitatori, pubblicate nel 1744, ci aiutano a capire quali fossero le differenze di rango all’interno della professione
forense. Vedine una copia in ASB, Ambasciata, Lettere all’oratore, vol. 383.
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procuratori affermati fossero più poveri: la stessa versatile varietà delle prestazioni che potevano
offrire doveva consentire loro di presentare alla fine conti anche molto salati ai propri clienti, anche
quando le singole voci non erano troppo alte.
In una ricerca sul caso veneto è stato osservato come “l’attività procuratoria, pratico–tecnica, di
stretto contatto con la parte assistita era [...] considerata disdicevole alla virtù nobilitante del dottore” 239. Anche per quanto riguarda gli avvocati, il prestigio sociale e culturale non consentì loro neppure
a Bologna una vera affermazione e una cooptazione ai vertici della nobiltà prima della dominazione
francese e, malgrado le aperture già avvertibili agli inizi del Settecento,
non vi era assolutamente ascesa sociale per i ceti professionali, salvo rari casi, verso il privilegio nobiliare o
patrizio, e non vi era neppure una ramificata burocrazia propria dello stato moderno che favorisse questa
promozione sociale negli alti gradi della gerarchia istituzionale statale 240.
Dagli inizi del Settecento, e in particolare negli anni di Prospero Lambertini, pontefici
“riformatori” cercarono di favorire la ripresa economica e crearono le condizioni perché a Bologna
la considerazione sociale del ceto forense si rafforzasse 241. A metà Settecento, si manifestò in
molti avvocati la consapevolezza della propria identità di intellettuali – aperti alla cultura letteraria
ed erudita e non solo al diritto – e l’orgoglio di appartenenza a un ceto anche economicamente
intraprendente che potremmo già chiamare borghese ma che ancora si definiva cittadino,
incapsulato in ormai vacillanti barriere di ceto. Un’analoga coscienza della propria dignità, che
nulla aveva da invidiare a molti membri dell’aristocrazia, si avverte, oltre che tra i principi del foro,
nei grandi mercanti e banchieri – affittuari di tenute di parecchi aristocratici, delle quali
cominciavano a erodere parti non trascurabili – e nei medici di maggiore prestigio, come quel Pier
Paolo Molinelli che a metà Settecento ottenne la cittadinanza bolognese (veniva dal contado) per i
suoi meriti e per il patrimonio accumulato, che gli permetteva di esibire un tenore di vita non
inferiore a quello di molte famiglie nobili 242.
La maggiore consapevolezza della propria identità da parte dei vertici del ceto cittadino non
impediva che la vocazione affaristica e speculativa, che si era diffusa nello Stato pontificio già a
partire dagli anni di Clemente XII, si associasse con una frequente smania di nobilitazione (a volte
realizzata) che agitava i più intraprendenti, i più ambiziosi, i più ricchi 243. Avvocati e procuratori,
da parte loro, si vedevano aprire brillanti carriere, favorite dalla delicatezza di molti affari, dalla
frequente spregiudicatezza con la quale esponenti dei ceti emergenti davano l’assalto a patrimoni
venerandi o dalla fragile base sulla quale molte fortune troppo rapide erano state costruite. La gente
litigava anche con grande accanimento per eredità contese, per doti non pagate, per l’insolvenza dei
debitori; negozianti senza scrupoli si precipitavano a dividersi le spoglie dei colleghi decotti: per
tutto questo occorrevano le prestazioni di professionisti capaci che a loro volta si mettevano in corsa
nella competizione per le terre messe sul mercato dalle deroghe sempre più frequenti ai
fedecommessi o semplicemente dall’accidia di molti eredi incapaci.
239 L. Tedoldi, Del difendere. Avvocati, procuratori e giudici a Brescia e Verona tra la Repubblica di Venezia e l’età
napoleonica, Milano, Angeli, 1999, p. 25. 240 Ivi, pp. 7 e 84. 241 Si rimanda ai classici L. Dal Pane, Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano, Giuffrè,
1959; F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 98 e segg.; A.
Caracciolo, Da Sisto V a Pio IX , in M. Caravale, A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX , in Storia
d'Italia , diretta da Giuseppe Galasso, XIV, Torino, UTET, 1978, pp. 491 e segg. 242 G. Angelozzi, C. Casanova, Diventare cittadini, p. 416. 243 A. Caracciolo, Fortunato Cervelli ferrarese 'neofita' e la politica commerciale dell'Impero, Milano, Giuffrè, 1962;
Id., Ricerche sul mercante del Settecento, II, Francesco Trionfi capitalista e magnate d'Ancona , Milano, Giuffrè, 1962; Id., Le port franc d'Ancône, croissance et impasse d'un milieu marchand au XVIIIe siècle, Paris, SEVPEN, 1965; Id.,
L'albero dei Belloni, Bologna, il Mulino, 1982; per Bologna si vedano L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell'età del Risorgimento, Bologna, Zanichelli, 1969 e C. Casanova, Un banchiere bolognese del Settecento. Antonio
Gnudi, in “L’Archiginnasio”, LXXXVIII/1993 (ma 1995), pp. 19–331.
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Prestigio professionale, proprietà immobiliare, attività commerciali. Da queste premesse, nella
seconda metà del Settecento, poterono emergere figure come quella di Antonio Aldini, dal quale
l’“onore” dell’uomo di legge fu realizzato compiutamente con il favore di Napoleone che gli
consentì l’accesso a quei vertici del potere che nella Bologna di ancien régime i dottori in iure e gli
avvocati, pure stimati, avevano solo sfiorato, come consulenti del Senato e, privatamente, del
patriziato – nelle sue vertenze cavalleresche e nei suoi non infrequenti infortuni con la giustizia 244.
Nel 1814 Aldini si recò, insieme con Vincenzo Berni degli Antoni, a difendere gli interessi di
Bologna al congresso di Vienna, tentando invano d'impedire la restituzione della città al dominio
pontificio e presentando a Metternich, nel maggio 1815, un progetto di governo autonomo per le
Legazioni. Ritiratosi dapprima a Milano e rientrato poi a Bologna, Aldini visse l'ultimo periodo
della sua vita in disparte, amministrando quello che gli restava dell'ampio patrimonio immobiliare
che si era costituito tra Sette e Ottocento e che aveva rapidamente dissipato. Con l’eclissi di
Napoleone le difficoltà economiche lo avevano infatti costretto a mettere in vendita i suoi beni
residui per far fronte ai debiti 245. Senza aver conseguito vantaggi economici duraturi dalla sua
avventura politica, probabilmente Aldini tornò negli ultimi anni ad esercitare la professione e si
adattò ad amministrare due tenute per i Pepoli, curandone le questioni successorie 246.
Il conte Aldini morì a Pavia il 30 settembre 1826, due anni prima di Vincenzo Berni degli Antoni,
figura defilata nella scena politica internazionale, ma importante esponente della nuova
intellighenzia bolognese e tutto sommato più rappresentativo di Aldini, in quanto più corrispondente
al modello di ascesa, non clamorosa ma duratura, che tra Sette e Ottocento sancì stabilmente il
prestigio politico e professionale degli avvocati. Berni degli Antoni era nato nel 1747; come il padre
di Aldini anche il suo, Francesco, era avvocato. Della professione forense di Vincenzo sappiamo
ancora poco; abbiamo però un documento che conferma la rilevanza della sua attività politica, che si
espresse dopo la caduta di Napoleone con la richiesta del recupero della costituzione repubblicana di
Bologna. In occasione della Restaurazione del governo pontificio, Berni degli Antoni interpretò le
posizioni politiche di gran parte del nuovo ceto dirigente, che ormai comprendeva anche il notabilato
dei commerci, della finanza e delle professioni ma che si era identificato nei tradizionali valori
aristocratici di Bologna e chiese a Pio VII di impostare i rapporti con la città soggetta accreditandole
lo status di aderente ad un patto concordato, senza costringerla ad atti di sudditanza. Il suo Voto
politico-legale per la città di Bologna, per questo, poté essere pubblicato solo nel 1831, nel breve
lasso di tempo nel quale durò l’amministrazione dei maggiorenti della città – molti dei quali avvocati
– ribelli al governo del papa: l’autore era morto da tre anni e non poté veder riconosciuta l’attualità
delle sue idee politiche, che a suo tempo aveva espresso su commissione del Senato, senza perdere
mai di vista “le due qualità di suddito presentemente della Santa Sede e di cittadino bolognese” 247.
L’occasione che a suo tempo aveva indotto il Senato a commissionargli il Voto era la decisione
con il quale il pontefice aveva proceduto ad atti unilaterali di dominio che negavano lunghi secoli di
contrattualismo e di accordi bilaterali – almeno nell’interpretazione del Reggimento bolognese, alla
quale Berni degli Antoni si era prestato a dar voce. Il nuovo pontefice si uniformava così a quella
244 A. Zanolini, Antonio Aldini ed i suoi tempi. Narrazione storica con documenti inediti o poco noti, vol. I, Firenze, Le
Monnier, 1864. Per un lavoro recente sul periodo nel quale Aldini operò, si vedano i tre volumi I "Giacobini" nelle
legazioni: gli anni napoleonici a Bologna e Ravenna, atti dei convegni di studi svoltisi a Bologna il 13-14-15 novembre
e a Ravenna il 21-22 novembre 1996, a cura di Angelo Varni, Bologna, Costa, 1997, e in particolare su Aldini il saggio
di L. Antonielli, Antonio Aldini e la segreteria di stato a Parigi, vol. II, La società bolognese (1796–1815), pp. 253-
272. 245 ASB, Aldini, b. 12, fasc. 12, Governo provvisorio di Sua Maestà l’imperatore. Bologna 13 giugno 1814, Avviso di
vendita (a stampa). Si trattava di case a Bologna e in contado, di varie possessioni per un totale di un migliaio di
tornature. Nell’avviso di vendita Aldini si fregiava (come avrebbe fatto anche in seguito) del titolo comitale ottenuto
dall’imperatore nel 1805. 246 ASB Aldini, b. 12, fasc. 9, 1824, Progetti di amministrazione delle due tenute Dossi e Trecenta spettanti al signor
marchese Guido Taddeo Pepoli. 247 Voto politico-legale, p. 3. Una acuta analisi di questo documento è in A. De Benedictis, Bologna nello Stato della
Chiesa secondo il diritto delle genti e il diritto pubblico (1780–1831).
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politica riformatrice di Pio VI che a Bologna era stata vissuta prevalentemente in negativo, come
una serie di colpi inferti ai privilegi secolari della città e dell’aristocrazia. Berni degli Antoni aveva
invitato il Senato a farsi portavoce delle richieste del popolo davanti al papa, senza lasciare che il
sovrano facesse leva sul diffuso malcontento delle masse per limitare le prerogative secolari della
città: voleva far dimenticare l’esperienza francese e ricucire quella discontinuità con il passato
riconducendo esperienze e ideali a un’epoca fuori dal tempo e dalla storia, o almeno dalla storia
recente, continuando a coltivare il mito di fondazione delle libertà repubblicane.
Negli anni successivi, Berni degli Antoni, più che alla politica, si era dedicato alla letteratura; che
amasse questo genere di esercizio intellettuale lo sappiamo dalla composizione (e anche dalla
rappresentazione) di commedie ricalcate sui modelli illustri seicenteschi e settecenteschi, le quali
vennero pubblicate nel 1825 248. La più interessante per noi è Il tartuffo, commedia in tre atti che
mette ferocemente alla berlina il mondo dei causidici praticoni, dandone un ritratto impietoso
intriso, più che di ironia, di indignazione nei confronti di chi sperperava un buon nome
faticosamente conquistato e infangava l’onore di quegli uomini di legge che a ragione
rivendicavano il diritto ad occupare un posto di rilievo nelle gerarchie del merito più che del denaro 249.
All’arrivo dei francesi, a Bologna come a Venezia,
il ceto avvocatizio possedeva un’identità molto forte derivante dall’esercizio di una professione importante per
le ovvie reti di relazioni che metteva in circolo nella città, ma anche da una condizione sociale ‘nobilitante’ –
anche se mai riconosciuta dai gruppi oligarchici cittadini –, di aderenza alla sfera dei valori sociali ed
economici del patriziato cittadino.
Questo riconoscimento avvenne sotto i nuovi dominatori e anche con la Restaurazione non sarebbe
stato disperso. Chi più chi meno, gli avvocati erano inseriti stabilmente nelle maglie del potere
attraverso la carriera politica, cioè con “la scelta di seguire un percorso professionale che dal foro si
trasferiva nell’impiego attivo nei quadri dirigenti dello stato”. In questo percorso lo strappo del
passaggio tra i due secoli era stato ricucito senza perdite, anzi con il riconoscimento di un ruolo
politico agli esponenti delle professioni, soprattutto di quelle legali, che dall’ancien régime non era
mai venuto. Nell’Ottocento gli avvocati avrebbero saputo rafforzare
una loro identità professionale proprio dalla loro presenza attiva e visibile all’interno delle istituzioni, come un
gruppo sociale in grado di garantire una legittimità allo stato e un raccordo tra le esigenze della società e
l’esercizio della giustizia 250.
248 Commedie del cavaliere avvocato Vincenzo Bernj Degli Antonj, Bologna, presso Turchi, Veroli e comp., 1825. Ne
ricevette una copia anche il segretario di stato Giulio Maria Cavazzi della Somaglia che il 7 agosto 1825 di suo pugno
ringraziò il legato di Bologna, cardinale Giuseppe Albani, di avergli mandato “una produzione per me nuova del signor
Berni degli Antoni che non dubito di trovarla di buon gusto e spiritosa conoscendo io da gran tempo l’indole
dell’ingegno del valente autore”. Si veda ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139, 1835, Riforma
degl’impiegati amministrativi e giudiziari (è un fascicolo relativo al 1825, collocato qui). 249 Commedie del cavaliere avvocato Vincenzo Bernj Degli Antonj, cit., pp. 262 e segg. 250 L. Tedoldi, Del difendere, pp. 130, 137, 153. Punto di partenza degli studi sulle élites nel passaggio tra ancien
régime e restaurazione è ancora il fascicolo monografico di “Quaderni storici”, n. 37 (1978), Notabili e funzionari
nell’Italia napoleonica, dove – al di là di una impostazione ideologicamente datata – si esprimeva nella Premessa di
Pasquale Villani l’esigenza di “approfondire, e in molti casi iniziare, l’indagine nel campo della stratificazione sociale e particolarmente esplorare alcuni aspetti della classe dirigente e della nuova amministrazione, anche ai livelli medi e
inferiori” (p. 9). Sui tempi della formazione di un’identità professionale specifica si veda M. Malatesta, Professionisti e
gentiluomini. Storia delle professioni nell’Europa contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, in particolare il cap. II, Le
professioni legali. Pertinente al tema del mio lavoro è poi il volume monografico di “Roma Moderna e contemporanea”
dedicato a Nobili e borghesi nel tramonto dello Stato Pontificio, a cura di G. Nenci, a. XVI (2008), fasc. 1. Per
un’utilissima sintesi di storia istituzionale per il periodo preso in esame si veda M. Meriggi, Gli stati italiani prima
dell’Unità, mentre in particolare per lo Stato pontificio è sempre imprescindibile il volume di M. Caravale, A.
Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX. Sul ceto professionale a Bologna fra XVII e XIX secolo, si
vedano i saggi di L. Gheza Fabbri, L’organizzazione del lavoro. Corporazioni e gruppi professionali in età moderna e
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anche se, come abbiamo visto, caratterizzato da una marcata differenza di prestigio e di status in
relazione alla gerarchia delle competenze e ai compensi percepiti, prima durante il Regno e poi –
negli anni della Restaurazione – in subordine alle continue richieste di stringere i cordoni della
borsa trasmesse a Bologna dai Segretari di Stato .
3b. Tra nostalgie del Regno e rivendicazioni autonomistiche. Fu però con la reazione ai nuovi
ordinamenti del sistema civile e penale varati nel 1831, che gli avvocati dettero piena prova del loro
protagonismo politico: in quell’occasione una loro rappresentanza fece presente al prolegato
Camillo Grassi che già gli editti 31 ottobre e del 15 novembre che ne preannunciavano la
pubblicazione, avevano provocato vivo malcontento perché si riteneva che i nuovi Regolamenti
lungi dal soddisfare ai bisogni presenti e dal riparare ai difetti onde grandi erano le querele contro ai sistemi passati, portano seco mancamenti e mali maggiori. Era un universale dolersi contro ai sistemi giudiciari in
vigore innanzi il 4 febbraio [per il fatto] che fossero in essi molte ragioni di trasportare ad un tratto una causa da
un tribunale di Bologna a uno di Roma, che fossero gravi le spese delle giudiciali contese. Ma ora, cogli editti e
regolamenti testé pubblicati, quelle ragioni sono maggiori, le spese non che siano aumentate sono rese
gravissime e quindi insopportabili. E se si guarda agli ordinamenti che concernono i criminali giudizi vi si
veggono ordinate tali cose che per verità non si addicono alla promessa Era felice. Oltre a che tali mutamenti
sono comandati in via provvisoria, che è pure un mancamento gravissimo che per addietro diede argomento alle
comuni querele [...]. Il ceto legale di Bologna, aiutato dal voto unanime dell’intera popolazione si fa a
supplicare l’Eccellenza Vostra che sia sospesa l’attivazione degli editti e regolamenti riferiti di sopra ed
immediatamente ordinata la proroga o riattivazione del sistema giudiciario vigente a tutto il giorno 20 corrente
novembre fintanto che il sovrano, conosciuti i veri bisogni presenti e i veri mezzi di sovvenire ai medesimi, si
dia a compiere la grande impresa di un lodevole stabile riforma.
In quella stessa lettera fu chiesto al conte Grassi che fosse nominata una commissione eletta dal
“ceto legale” che insieme con i capi dei tribunali civile e penale proponesse un progetto di riforma
dei regolamenti prima che fossero pubblicati 251. Già il giorno successivo, 25 novembre, il conte
avvocato Alessandro Gamberini, designato a sostituire Grassi che era ammalato, scriveva al
Segretario di Stato che
aveva nominato in via provvisoria dei funzionari e impiegati che dovevano comporre i nuovi tribunali da
attivarsi il 21 novembre e che questo era avvenuto senza difficoltà, come risulta dai verbali dell’installazione
dei giudici e addetti ai tribunali, eseguita appunto il 21. Procedevano le cose in una perfetta quiete e
tranquillità, quando ieri sera si presentò prima alla casa del signor conte Grassi pro-legato attualmente
infermo [...] indi a quella del consigliere conte avv. Gamberini una deputazione del ceto legale di questa città e provincia, composta dai più provetti e reputati causidici, e susseguita da un attruppamento di persone, la
quale in nome dell’intero ceto fece manifesto che i regolamenti organici e di procedura sia civile che
criminale e l’altro concernente la disciplina dei giudici e tribunali e le tasse giudiziarie, lungi dal correggere i
difetti della legislazione ch’era in osservanza prima del 4 febbraio, li rendevano di gran lunga maggiori,
talché lo stesso ceto legale sussidiato dal voto dell’intera popolazione non aveva potuto dispensarsi dal
portarne alla primaria autorità le più vive doglianze.
Le proteste erano dirette essenzialmente contro la nuova tassazione degli atti del tribunale civile
“trovata improvvida e oltremodo gravosa”. Ne era seguito il blocco di tutte le attività giudiziarie.
Ora tacciono i tribunali civili novellamente instituiti e tacciono del pari quelli ch’erano in esercizio prima del dì
20 corrente. I curiali tutti hanno stabilito un patto fra loro, per cui a niuno è permesso di promuovere atto
qualsiasi davanti i nuovi tribunali sotto pena della comune indignazione e di ogni altra conseguenza anche di
personali offese che ne possa derivare. I tribunali antichi, dopo la decretata soppressione si ritengono inibiti a
di M. Malatesta, La borghesia professionale, rispettivamente nel vol. 3,I pp. 647-729, e 4,I pp. 249-332 della Storia di
Bologna. 251 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari
promosse dal ceto legale, lettera del 24 novembre 1831.
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ricevere qualunque atto per cui rimane tutto sospesa l’amministrazione della giustizia [...] Si è divulgata la
notizia che anche in altre provincie siasi eccitato eguale movimento.
Gamberini prometteva di prodigarsi per sbloccare quella pericolosa forma di insubordinazione
all’autorità del sovrano, che faceva seguito ad una precedente sollevazione degli studenti.
Io non cesso né cesserò di persistere nel raccomandare l’adempimento degli ordini governativi [...] Ora godeva
la provincia di una tranquillità perfetta segnatamente dopo che i giovani, intesi ai consueti pubblici studi eransi interamente pacificati per la notificazione qui acchiusa e dopo che i possidenti sono rimasti appieno soddisfatti
per l’ottenuta pubblicazione delle tariffe estimative e per l’accordata proroga dell’operazioni catastrali, come
emerge dall’altra notificazione qui compiegata. L’attivazione dei nuovi tribunali e la promulgazione della
tariffa su le tasse giudiziarie hanno turbata quella quiete che qui si godeva da qualche giorno e non debbo tacere
all’Eminenza Vostra Reverendissima che preveggo imminente un altro sconcerto per la mancanza di fondi atti a
far fronte alle spese di questa guardia civica e forense 252.
Il direttore di polizia, avvocato Vincenzo Piana, riferì a sua volta a Grassi
che dalla pubblicazione degli editti riguardanti il sistema giudiziario, e soprattutto di quello che concerne i
criminali giudizi, nacque nella popolazione un malcontento non piccolo, perché essa giudicò che non portassero
disposizioni soddisfacenti agl’attuali bisogni e ripugnanti la filantropia del secolo ed in parole ed in iscritto si
esternò pubblicamente. Il regolamento poi che si riferisce alle tasse non così tosto fu recato alla notizia del popolo
che il malcontento si convertì in una vera ed universale commozione e concitazione di animi. Non solo il ceto
legale ma tutti li cittadini fanno ogni opera loro perché non sia data esecuzione agli editti suindicati. Dal giorno 21
del corrente ch’era stabilito per l’attivazione di essi, non è stato un procuratore che dia fuori un atto giudiziale,
nessuno si è presentato alle udienze.
Dopo che il “ceto legale” nella sua “clamorosa” adunanza che si era tenuta il giovedì precedente
aveva nominato dei deputati per ottenere la riattivazione del sistema prima in vigore, il capo della
polizia aveva dovuto constatare il seguito popolare che riscuotevano quei rappresentanti.
Si può dire che questi deputati non abbiano potuto muovere un passo senza essere seguiti da folle di gente
ansiosissima di sapere il risultato della loro incombenza. Frequenti sono le riunioni di cittadini che minacciano
atti sediziosi se non è sospesa immediatamente l’attivazione del nuovo sistema e riattivato il passato. Oggi pure
il ceto legale ha tenuta un’adunanza non meno clamorosa della prima [...] Ond’è che se dalla risoluzione che
appare fermissima [...] di volere piuttosto abbandonare l’arte sua, che conformarsi al nuovo sistema e dal
generale incitamento de’ cittadini [...] ne conseguono questi dannosissimi effetti. La giustizia non è
amministrata, il popolo è in commovimento tale che l’ordine e la tranquillità pubblica ne possono venire
grandemente turbati 253.
Tre giorni dopo Gamberini convocò per una riunione urgente il presidente del tribunale d’appello
Carlo Mazzolani, il presidente del tribunale di prima istanza Gaetano Amadei, Luigi Ugolini, vice
presidente dello stesso tribunale, il presidente del tribunale di commercio Petronio Rovatti e i
giusdicenti avvocati Giovanni Bernardi e Giacomo Fabbri. Oltre a costoro si presentò anche Filippo
Gaudenzi, presidente della commissione militare, istituita per giudicare i reati più gravi secondo la
legge marziale. I consiglieri componenti la commissione governativa (il conte avvocato Filippo
Leone Ercolani, il professor Giovanni Battista Magistrini e lo stesso Gamberini 254) affrontarono la
situazione in tutta la sua gravità, leggendo la supplica dei curiali, i rapporti dei tribunali sul totale
blocco della loro attività e il rapporto della polizia. Tutti convennero che le richieste degli avvocati
e dei causidici ledevano le prerogative sovrane. Il consigliere Filippo Leone Ercolani invocò
l’intervento della polizia e della guardia civica affermando che per obbligo della sua carica e per il
giuramento prestato era suo dovere “curare l’intero adempimento delle leggi e degli ordini del
252 Ivi, lettera del 25 novembre 1831. 253 Ivi, lettera del 26 novembre 1831. 254 La commissione governativa affiancava il delegato con membri dell’élite cittadina, prevalentemente scelti tra i
titolati, e rappresentava il trait d’union fra Roma e la città nelle sue componenti più ligie al sovrano.
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sovrano” e che piuttosto che trasgredirli si sarebbe dimesso. Ercolani aggiunse che, ferma restando
l’applicazione dei regolamenti giudiziari appena pubblicati, la congregazione governativa avrebbe
potuto eleggere un consiglio di avvocati ed uno di causidici dai quali sarebbe stata eletta una
commissione con l’incarico di presentare, insieme con i presidenti dei tribunali, una “giusta e
rispettosa memoria da umiliarsi al sovrano” per indurlo ad una riforma, così come prevedeva
l’ultimo articolo del regolamento di procedura civile del 31 ottobre 1831. Gli altri due consiglieri
governativi, Gamberini e Magistrini, si dichiarano d’accordo nel far intervenire all’adunanza anche
il capo di polizia Piana, l’avvocato Giuseppe Patuzzi, facente funzione di comandante della Guardia
civica e “forese”, e il marchese Matteo Conti, facente funzione di capo dello stato maggiore della
Guardia civica. Tutti, interpellati, si dichiarano pronti a mantenere l’ordine usando la forza solo se
assolutamente necessario. L’applicazione del regolamento del 15 novembre 1831 sulla disciplina
dei tribunali e sulle tariffa delle tasse giudiziarie fu sospesa. Rimase ferma la decisione di attivare
temporaneamente i nuovi tribunali civili e di applicare il nuovo regolamento di procedura che li
riguardava. Il “ceto legale” avrebbe mantenuto la facoltà di presentare memorie al sovrano e il pro-
legato si impegnava a nominare in tempi brevi un consiglio di avvocati e uno di causidici – termine
con il quale si faceva comunemente riferimento ai procuratori – per eleggere due commissioni 255.
Un documento firmato dall’avvocato Raffaele Giacomelli, dal consultore conte Filippo Leone
Ercolani, dal capo della polizia Piana, e da Giuseppe Patuzzi comunicava che il 29 novembre i
causidici si erano riuniti un’altra volta, nominando i propri deputati. Una terza adunanza era stata
convocata sempre il 29 novembre e ad essa avevano partecipato gli stessi avvocati Giacomelli, che
fu nominato presidente, Ercolani, Piana e Patuzzi. Nel corso di essa erano stati designati tre
moderatori: l’avvocato Bartolomeo Scalfarotto, e due procuratori, i dottori Giovanni Venturini e
Saverio Argelati. Fu deciso che il ceto legale “esponesse umilmente” al papa la necessità “di creare
un collegio di uomini dotti e virtuosi, presi da tutte le provincie, con facoltà di riunirsi in una città
dello stato per fare nuovi progetti di codici legislativi”. Nel frattempo l’esecuzione dei nuovi
regolamenti avrebbe dovuto essere sospesa ripristinando temporaneamente le norme che erano state
in vigore fino al 20 novembre: si chiedeva che “non si riportasse innovazione alcuna sino a che non
siasi conseguita la generale riforma delle leggi”.
Queste proposte non furono votate perché sorse il dubbio che fosse più opportuno rimandare la
stesura di un documento e il voto ad un’assemblea più rappresentativa, da convocarsi in tempi
brevi; infatti alcuni dei curiali e molti avvocati non erano intervenuti all’assemblea, “o perché
legittimamente impediti o perché non si credessero legalmente invitati”. Ne fu quindi indetta
un’altra per mercoledì 30 novembre con un avviso a stampa sottoscritto da Ercolani, Giacomelli,
Piana e Patuzzi, nel corso della quale fu approvata la richiesta di formare due deputazioni, di
avvocati e di causidici, per presentare progetti di riforma ai sensi del paragrafo 247 del regolamento
di procedura civile in vigore dal 31 ottobre 1831. La sospensione dei regolamenti emanati in
precedenza fu votata all’unanimità 256. L’1 dicembre comparvero nella residenza governativa e
davanti al prolegato, anche se il conte Grassi era ancora ammalato, i dodici deputati del “ceto
legale”, i capi dei tribunali e i membri della congregazione governativa. Dopo una lunga
discussione fu redatto un verbale nel quale si ribadiva che il governatore di una provincia
oltre al mandato ordinario ha certamente un implicito mandato straordinario del suo principe, in vigore del quale è in suo potere di disporre anche con regia facoltà su le pubbliche cose, quando la pubblica salute
imperiosamente lo richiegga. Che certamente nel caso concreto il movimento eccitatosi nel popolo, il
255 Queste decisioni furono comunicate con una lettera del 30 novembre al segretario di stato. ASB, Legazione
apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari promosse dal ceto
legale. 256 Erano presenti quarantotto avvocati e centonove causidici tra i quali furono eletti sei deputati in rappresentanza degli
avvocati (Andrea Rizzoli, Clemente Taveggi, Gennaro Mazzei, Raffaele Tognetti, Antonio Succi, Bartolomeo
Scalfarotto) e altri sei in rappresentanza dei procuratori, (i dottori Giuseppe Galetti, Giovan Battista Dalli, Angelo
Pedrini, Giovanni Battista Vecchietti, Giovanni Venturini, Rodolfo Baroni).
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malcontento universale e l’attuale sospensione completa del corso di giustizia contro la quale altamente si
reclama danno manifestamente a conoscere che la salute pubblica esige una pronta e straordinaria misura. Che
in vigore delle predette regie facoltà non vi ha dubbio essere in potere del governante della provincia di
sospendere l’attivazione ed esecuzione dei regolamenti giudiziari e in vigore delle stesse facoltà ha
necessariamente il potere di richiamare in osservanza i regolamenti che prima vigevano poiché nel caso
concreto a tutelare la pubblica salute ed impedire i gravi e forse inevitabili disordini che ne minacciano, non
basta sospendere l’attivazione dei regolamenti ma è mestiere richiamare in osservanza gli antichi onde con una
pronta misura provvedere alla amministrazione della giustizia di cui il popolo non può far senza e che è un
oggetto che tanto interessa la civile società. Che se si prendono a calcolo gli avvenimenti che hanno avuto luogo dal dì 30 novembre in poi in questa e nelle limitrofe provincie si vedrà chiaramente essere indispensabile
al pubblico bene l’adottare l’implorata misura.
Durante l’adunanza, nella sala adiacente a quella nella quale si stava svolgendo, si era concentrata
“una moltitudine di persone, le quali ad alta voce e con molto clamore si sono fatte a chiedere che
venga tosto risoluto sull’oggetto di che si tratta, minacciando di voler entrare per forza nella camera
stessa” ma, dopo l’intervento di alcuni avvocati, la folla si era dispersa ordinatamente. Le
risoluzioni prese furono approvate e fu stesa una notificazione che venne pubblicata per ordine del
pro-legato Grassi 257.
Lo stesso 1 dicembre il conte Ercolani sottopose al pro-legato un rapporto nel quale si ricordava
come due giorni prima fossero stati stampati e affissi per tutta la città dei manifesti che avevano
istigato il popolo a concentrarsi nella sala del palazzo pubblico detta “del quartiere dei principi”,
come appunto era avvenuto il giorno dopo. Il racconto di Ercolani ricordava quel 29 novembre
enfatizzandone la minaccia potenziale che lui e gli altri notabili avevano dovuto affrontare:
“Passammo attraverso di ben duemila persone affollate per le scale, per gli atri della parte superiore
del palazzo e giungessimo nella sala dove più di mille persone avevano potuto introdursi”. Il facente
funzione di generale della Guardia civica con fermezza aveva fatto nominare un “presidente dei
moderatori onde dare così al molto male ed al molto temibile disordine un qualche aspetto di
ordinamento”. Ercolani non mancò di spendere parecchie parole per elogiare se stesso:
Parlai fermo e costante un linguaggio per me tutto nuovo ed in incontro affatto novello ed inaspettato. Fui
ascoltato con silenzio e con rispetto ed il linguaggio dell’uomo popolare, dell’uomo di curia, dell’uomo
deputato dalla Legazione, del franco e leale suddito di Sua Santità, tutti questi linguaggi destramente parlati, mi posero in possesso, per quanto a me parve, dello spirito dell’affollata udienza e mi servirono di scudo per
coraggiosamente tentare di maneggiarlo e dirigerlo a qualche meta di bene. Preparato così l’animo
dell’udienza, quasi mi feci a fomentare le passioni dell’uditorio [...] parlai di cuore, con corrispondente
dignità, confidenza e fiducia e conseguente gravissima forza di tale argomento [...] Se non raccolsi applausi,
ottenni però, e basta nel fuoco di un coraggioso cimento, il voto di un rispettoso silenzio.
Il 3 dicembre Gamberini ed Ercolani scrissero al cardinal Bernetti aggiungendo nuovi dettagli sul
susseguirsi di fatti allarmanti che li avevano indotti a proporre al voto delle decisioni politiche
impegnative (tali erano infatti quelle appena prese ed entrambi ne percepivano chiaramente il
potenziale eversivo); in realtà cercavano di accreditare gli eventi di pochi giorni prima come
l’inevitabile sbocco di una situazione d’emergenza, sapendo bene che agli occhi del sovrano quanto
era accaduto non poteva non essere considerato lesivo della propria autorità e una manifestazione di
autonomia non accettabile da parte dei rappresentanti di una città suddita. Il Segretario di Stato non
si fece ingannare dal tono dimesso dei due nobili consiglieri governativi, né prestò fede alle loro
proteste di estraneità rispetto alla gravità dell’ iniziativa, che avevano cercato di addossare al “ceto
legale”. La risposta di Bernetti, vergata cinque giorni dopo, fu breve ma esplicita: vi si esprimeva
l’amarezza del papa, il quale aveva ordinato al Segretario di Stato di comunicare alla massima
autorità locale (il pro-legato Grassi) che considerava “nullo ed attentatorio alla sua sovrana autorità
tutto quello che vi si è risoluto in opposizione ai suoi espressi voleri. Ma non per questo [...] s’illude
257 Il verbale fu steso il 2 dicembre. ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma
dei nuovi regolamenti giudiziari promosse dal ceto legale.
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sulla disgraziata condizione a cui per opera dei faziosi si trovano costì ridotti i suoi rappresentanti”,
motivo per cui
tanto loda l’impegno e l’accorgimento onde i medesimi hanno tentato di frastornare gli scandalosi attentati
che si deplorano, altrettanto geme vedendoli divenuti loro malgrado il passivo istrumento dei nemici
dell’ordine 258.
Il 16 dicembre il cardinal Bernetti inviò una Notificazione a stampa con la quale dava disposizione
che non restasse sospesa l’amministrazione della giustizia; nel lungo preambolo si respingevano
tutte le argomentazioni avanzate da Bologna, e in particolare dal “ceto legale”, per sospenderne la
pubblicazione, sottolineando la gravità dell’atto di ribellione con la quale la città si era attribuita il
potere di farlo.
I nuovi regolamenti giudiziari saranno in ogni tempo una perenne testimonianza della costante e decisa
volontà, dalla quale è animata la Santità di Nostro Signore, per migliorare la sorte dei popoli che la Divina
Provvidenza affidò al suo governo. Aboliti i giudici particolari, revocate le speciali Delegazioni, sottoposto il
fisco alla giurisdizione ordinaria, abbreviato il corso delle liti nel tribunale della Sacra Rota, tolto l’incomodo
del ricorso al tribunale di Segnatura per la osservanza delle appellazioni, tolta pure la giurisdizione
contenziosa all’uditore del papa, ordinati in Roma e nello stato tribunali collegiali di prima istanza e di
appello, astretti i giudici a pubblicare i motivi delle loro sentenze, ristabilito l’uso della lingua italiana e rese
in fine più semplici e più spedite le forme della procedura nei giudizi civili, sembravano estinte le querele
contro i vecchi sistemi e fatte partecipi le province dei benefizi accordati alla capitale. Questo ordinamenti
ammirati e lodati dagli esteri, furono ricevuti ed eseguiti con plauso da tutte le province. Bologna stessa, ch’è
il centro delle opposizioni, si mostrò contenta. Le nuove magistrature vi furono istallate tranquillamente e
senza reclamo. Intanto con pari sollecitudine e non minore ponderazione fu data opera alla riforma dell’amministrazione della punitiva giustizia.
Contestualmente, le decisioni prese dalla commissione governativa e dai delegati di avvocati e
procuratori venivano dichiarata nulle, concludendo che
qualora nel giorno 21 del corrente mese non siano attivati in Bologna i nuovi regolamenti, la residenza del
tribunale di appello per le quattro provincie o Legazioni sarà provisoriamente trasferita in Ferrara. Se tale
attivazione non sarà annunciata alle quattro provincie con editto del presidente di esso tribunale, il pro-legato
di Ferrara nel giorno 23 dello stesso mese nominerà provvisoriamente fra i più distinti giureconsulti di quella
città un presidente e sei giudici del nuovo tribunale di appello e li porrà immediatamente nell’esercizio delle
loro funzioni.
Il 19 dicembre fu redatto il verbale dell’adunanza che si era tenuta il giorno stesso a casa di Grassi
alla quale avevano partecipato i consiglieri della commissione governativa, il facente funzione di
generale della Guardia civica e forense, il direttore provinciale di polizia, i capi delle principali
magistrature giudiziarie della città “e taluno de’ signori avvocati e causidici della città”. In quella
sede era stato deciso che il pro-legato avrebbe immediatamente pubblicata la Notificazione della
Segreteria di Stato. Contemporaneamente sarebbe stata data alle stampe anche una notificazione
nella quale sarebbero state enunciate le conseguenze gravissime che avrebbe comportato la mancata
applicazione delle disposizioni del papa, specificando anche che Grassi non aveva emanata la
precedente notificazione del 2 dicembre perché
costretto in verun modo, ma indotto dalla sola generica imperiosità delle circostanze e ben anche dalle molte
solide ragioni che gli furono esposte dai deputati del ceto legale e dietro il consiglio e il parere unanime dei
capi delle predette magistrature giudiziarie.
Si invitavano infine i deputati del ceto legale a presentare le loro osservazioni e riflessioni sui
nuovi regolamenti, che sarebbero state inviate tempestivamente al Segretario di Stato.
258 Ivi.
83
Lo stesso giorno il pro-legato inviò una lettera al cardinal Bernetti nella quale dichiarava che
avrebbe ordinato di pubblicare le Notificazioni della Segreteria di Stato. Grassi tentava ancora di
difendere la legittimità di un atto di autonomia scaricando le conseguenze che comportava sul “ceto
legale” prospettando anche al cardinale il rischio del perdurare di una opposizione da cui, pur
attribuendone l’iniziativa ad altri, lui stesso non prendeva esplicitamente le distanze:
Ma per vero dire non so quale impressione possa produrre negli animi di questi signori legali ed anche di
questa popolazione, intimamente persuasa che i regolamenti che si vanno ad attivare siano affatto improvvidi
e pressoché ineseguibili.
Il 20 dicembre il pro-legato scrisse di nuovo al cardinal Bernetti, presentandogli un resoconto
allarmante della situazione, che a suo dire era vicina alla sollevazione di massa.
Ora io debbo manifestarle che appena si fu diffusa per la città la notizia ch’io avea divisato di far pubblicare
ed eseguire la notificazione [...] si eccitò nel ceto dei legali ed anche nel popolo, che vi è unito, la più grande
fermentazione. Si radunarono molte persone in più luoghi, si concertarono delle misure da prendersi per
impedire la pubblicazione e fino ad ora assai avanzata della notte io sono stato può dirsi assediato in mia casa
e quivi pregato ed eccitato per mille guise a non devenire alla pubblicazione [...] Io ho fatta la più tenace resistenza, ho adoperati i consigli, le insinuazioni e le preghiere, ho chiesta ed ottenuta la interposizione di
queste autorità politiche e militari, ho fatto vedere i grandi mali a cui va incontro la provincia [...] in una
parola ho posto in opera tutti i mezzi che il senno e la prudenza mi hanno saputo suggerire ma non ho potuto
ottenere di rimuovere la opposizione. Questa mattina i reclami si sono fatti più vivi e la insistenza ha preso un
carattere assai imponente. Nulla dirò delle reiterate terribili minacce [...] ma non tacerò che sul mezzogiorno
si è radunata prima nel pubblico palazzo, poscia nel non lontano locale delle scuole pie una moltitudine di
persone di ogni ceto e di ogni grado per oltre a due migliaia.
Dunque, una folla tumultuante che minacciava e gridava contro la pubblicazione della
Notificazione. Grassi addusse il diffuso timore di un incombente pericolo per l’ordine pubblico
(documentato dal generale Patuzzi e dal direttore della polizia), protestando di essersi indotto per
questo – e suo malgrado – a rimandarla, pur essendo consapevole della “enormità del nuovo
arbitrio”. Confidava tuttavia di presentare presto un progetto in cui sarebbero state proposte alcune
modifiche dei regolamenti che riteneva accettabili per tutti.
I deputati del “ceto legale” che davanti al pro-legato e alla congregazione governativa l’1 e 2
dicembre avevano promesso di presentare in tempi brevi un lavoro di revisione, già iniziato in
precedenza, l’avevano nel frattempo compiuto e il risultato finale del loro esame venne spedito con
la stessa lettera dal conte Grassi al Segretario di Stato. Il pro-legato agitava davanti al cardinale, in
caso di mancata approvazione delle proposte avanzate, il rischio dell’eversione dell’ordine pubblico
e preannunciava le proprie, inevitabili dimissioni. A sua volta il direttore della Polizia, a proposito
del malcontento generale, in un suo rapporto al pro-legato faceva notare che tra i facinorosi si
trovavano anche
molti individui che fan parte di questa Guardia civica in qualità di ufficiali. Vedrà pur troppo quanto sia
terribile una divisione nella forza stessa per cui venendo a contrapposizione ne sorgerebbe una guerra civile,
flagello fra i terribili terribilissimo. Che i germi di questa opposizione esistano ne può far fede alla Eccellenza
Vostra la supplica a lei presentata coperta d’un imponente numero di firme tendente a togliere la deliberata
pubblicazione del succitato editto.
Lo stesso 20 dicembre Grassi inviò una lettera ai pro-legati di Ravenna e di Forlì ai quali chiedeva
il loro parere sulla sospensione dell’editto 259. Nel Progetto esibito dai signori curiali al signor
conte pro-legato la sera 20 dicembre 1831 e da questo rimesso in copia ai due pro-legati di
Ravenna e di Forlì si leggeva che scrivere ai due colleghi era l’unico mezzo per provvedere alla
tranquillità delle province concertando insieme l’attuazione di un buon ordinamento giudiziario. Per
259 Ivi.
84
questo proponeva di convocare tutti gli avvocati e curiali a Bologna, e contemporaneamente nei due
capoluoghi romagnoli, affinché nominassero sei deputati per ciascuna provincia. I prescelti
avrebbero dovuto incontrarsi tutti a Imola col mandato di formare insieme uno schema di
organizzazione dei tribunali per le tre provincie sulla base delle leggi giudiziarie di Pio VII, del
regolamento di Leone XII e del cardinale Carlo Opizzoni 260. I pro-legati avrebbero poi spedito il
regolamento a Roma. Grassi aveva scelto di convocare l’assemblea a Imola per non dar adito al
sospetto che le province di Romagna potessero essere influenzate dall’esempio di Bologna e perché
fosse chiaro che l’operazione era fatta di comune consenso. Infine i pro-legati avrebbero dovuto
implorare la Segreteria di Stato affinché concedesse la sospensione dell’attivazione delle procedure
criminali fino alla pubblicazione del codice penale 261.
Il 21 dicembre il pro-legato di Forlì Paolucci de’Calboli rispose solo che aveva invitato il ceto dei
curiali a presentare le proposte da presentare in forma di supplica al papa. Da Ravenna invece il 22
dicembre il pro-legato Arrigoni colse apertamente l’invito di un congresso di uomini di legge a
Imola ordinando subito che venissero scelti due rappresentanti rispettivamente per Ravenna,
Faenza, Imola e la Romagnola 262, in modo che si potessero recare a Imola non appena ricevuto
l’avviso. Il 26 dicembre Grassi si rivolse al professor avvocato Gaetano Venturoli e al dottor
Giovanni Battista Ferratino affinché nominassero rispettivamente i delegati degli avvocati e dei
procuratori bolognesi. Intanto il 24 dicembre il cardinal Bernetti aveva risposto al pro-legato di
Bologna:
Accuso i dispacci di Vostra Signoria Illustrissima. Sarebbe superflua qualunque mia osservazione sul
contegno che si è usato costì dopo che vi pervennero gli esemplari della mia notificazione dei 15 corrente. La
cosa parla chiaro da per se stessa né vi è bisogno di comunicati per dimostrare quanto vi ha di attentatorio al
sovrano potere. I fogli di codesta curia relativi ai nuovi regolamenti giudiciari che ella mi ha rimessi le
vengono respinti qui acchiusi, non essendo stati essi inviati pel canale regolare di alcun presidente di
tribunale come si esige perché possano da me legalmente riceversi 263.
3c. Contro i“vizi” e i “difetti” dei regolamenti giudiziari. I rappresentanti designati dal “ceto
legale” non avevano perso tempo e in pochi giorni avevano redatto il Rapporto della curia
Bolognese intorno ai principali vizi e difetti dei nuovi regolamenti civili e criminali. Per quanto
riguardava il “piano organico” dei regolamenti di procedura civile si osservava che il legato
Opizzoni nella sua notificazione del 30 marzo 1831 aveva dato
savissime disposizioni per le quali tutte le cause rimanevano nelle Legazioni, segnatamente perché in Bologna
sedevano i tribunali di revisione o terza istanza e di segnatura. I nuovi regolamenti ci tolgono quegli importanti
benefici e persino quei più ristretti che ne aveva concesso Leone XII col motu proprio dei 21 dicembre 1827
ristabilendo in oggi a Roma la revisione e la segnatura e quindi chiamando colà [...] tutti i reclami (nel caso di
260 Il 22 marzo l’arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Opizzoni, assunse anche le funzioni di legato a latere. ASB,
Legazione apostolica, Atti riservati, b. 133. Il 9 aprile il Segretario di Stato Bernetti dopo aver letto la notificazione
sulla organizzazione provvisoria che Bernetti aveva dato ai tribunali delle Legazioni gli aveva scritto: “Veggo che forse
la lodevole intenzione di combinare quanto era costì ne’ pubblici voti colla economia reclamata imperiosamente dalle
circostanze non le ha permesso di dare alla cosa tutto quello sviluppo che sarebbe stato nelle di lei vedute. Qui
attendiamo, come le dissi, senza soverchiamente affrettarlo, l’arrivo di tutte le deputazioni delle singole provincie per
poi comunicare le proposte del papa per l’organizzazione generale di tutto lo stato anche del ramo giudiziario. Sarà
allora che si potrà rendere stabile per costì quanto ora non è che temporaneo dopo d’avervi apposte quelle leggiere
modificazioni che l’uniformità cotanto necessaria nella giudicatura di uno stato sarà per reclamare. Intanto non deggio tacerle che in quanti parteggiano per la curia di Roma la impressione destata dalla lettura di ciò che costì si è operato in
tal proposito non è stata favorevolissima”. 261 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari
promosse dal ceto legale. 262 Con Romagnola ci si riferiva a quella parte del territorio della Romagna che in antico regime era stata inserita nella
Legazione di Ferrara (dopo essere stata sottoposta al dominio estense quando Ferrara era capitale del ducato) e che
aveva come capoluogo Lugo. 263 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari
promosse dal ceto legale.
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giudicati difformi) in grado di revisione o terza istanza nelle moltissime cause dagli scudi 200 agli scudi 300, le
quali in addietro erano portate alla cognizione dei governatori ed assessori ed oggi lo sarebbero a quelle dei
tribunali collegiali e, nel terzo grado suddetto, nelle moltissime cause di valore indeterminato d’interesse dei
comuni, di purgazione, cancellamento, riduzione o restrizione di vincoli ed ipoteche, di azioni ipotecarie, di
graduatoria o di concorso universale o particolare e di rendimento di conti senza riguardo in nessuno dei
predetti casi alla somma od al valore.
Si ricordava poi che nei capoluoghi di Legazione i tribunali civili erano costituiti da sei giudici
divisi in due turni di tre. Nei capoluoghi di Delegazione operavano tre giudici ai quali, secondo il
Regolamento di procedura civile, era affidata anche la decisione delle cause criminali, il che
avrebbe sicuramente sortito effetti negativi perché
Purtroppo è da tenersi per fermo che una siffatta promiscuità congiunta allo scarso numero dei giudici ed alla
molteplicità delle cause, specialmente in Bologna ridondi in detrimento o della retta o della celere
amministrazione della giustizia.
Nel Regolamento si stabiliva inoltre che “le funzioni di giudice supplente sono compatibili con
quelle di procuratore ed avvocato. Potranno (i giudici supplenti) intervenire alle adunanze dei
tribunali civili o di appello a cui sono addetti ma non avranno che il voto consultivo”. Si apriva cos ì
la via all’avvocato supplente o al procuratore
di esercitare col suo intervento alle adunanze e colle sue parole una pericolosa influenza intorno alle cause proprie o di qualche suo attinente e massimamente intorno non alle pendenti ma alle future. E’ quindi
un’assurdità il rendere conciliabile colla carica di [giudice] supplente l’esercizio dell’avvocatura e del
patrocinio.
Soprattutto, le disposizioni gregoriane avevano reso il ricorso in giudizio più dispendioso di quanto
lo fosse in precedenza, perché davano luogo alla moltiplicazione degli atti, parecchi dei quali in
passato non erano previsti, e anche perché aumentavano le tasse, gli emolumenti, le mercedi e gli
onorari.
Quanto al Regolamento di procedura criminale, la sua portata innovatrice, nonché i suoi intenti
equitativi, erano difficilmente valutabili in mancanza di quel codice penale che si aspettava dal
1816: le province continuavano ad adeguarsi ai propri bandi generali – quello di Bologna, il bando
Serbelloni, come abbiamo visto, risaliva al 1756 – ormai inadeguati alle finalità dei governi di
disporre di criteri univoci per valutare la gravità dei reati ed emettere le sentenze in rapporto ad essi.
Per questo i bandi erano strumenti obsoleti, “in cui malamente furono classificati i delitti e peggio
statuite le pene, tutti convenendo in questo, di lasciare libero campo all’arbitrio dei giudicanti”. In
definitiva, era impossibile, fino a che non ci fosse stato un codice, realizzare una riforma delle
procedure. Nell’ottica della trasparenza degli atti, inoltre, venne rilevato che mancava nel
Regolamento ogni minimo requisito di pubblicità dei procedimenti, mantenendosi in essere il
processo segreto ed inquisitorio, a differenza di quello che era attuato ormai “presso le più colte
nazioni, come venne praticato sotto il regno d’Italia e quale pur oggi è comandato negli stati di
Napoli e di Parma”. Per non parlare del fatto che, fino a quel momento, competeva spiccare mandati
di cattura solo al capo del tribunale, mentre col nuovo editto anche un processante avrebbe potuto
far carcerare in segreta l’imputato senza notificargli un’accusa specifica e tenerlo rinchiuso fino alla
contestazione del reato e alla pubblicazione del processo. Anche in questo caso venivano evocate
con rimpianto le procedure seguite durante la dominazione francese, ma questa volta più per una
esplicita adesione ai modelli di governo attuati da quel regime, accreditato come giusto e umano,
che per una reale comparazione tra due diversi sistemi giudiziari.
Sotto il cessato Regno d’Italia appellaronsi mandati di comparsa, di accompagnamento e di deposito nei quali era assicurata la necessaria custodia degl’imputati a fine di scuoprire il vero ma col maggior possibile rispetto
alla libertà, all’onore ed alla dignità dell’uomo.
86
Peraltro, tutto il Rapporto è da leggersi come una richiesta di continuità con le istituzioni giudiziarie
del Regno, e in questa chiave anche le innovazioni dell’editto gregoriano, come la garanzia di
ripetizione – il confronto dei testimoni e il loro controinterrogatorio per parte della difesa – che, si
ricordava, era già stata concessa nel 1816 per le cause passibili di pena capitale, non sembravano
sufficienti. Infatti nel nuovo editto questo beneficio,
lungi di essere sicuro, si manifesta in più luoghi arbitrario e nelle cause capitali riescirebbe minore di quello
che oggi possano gl’imputati invocare [...] non essendo ingiunto dal capo del tribunale al procuratore fiscale di esibire la nota dei testimoni da ripetersi, siccome prescriveva la legge del Regno italiano, [quindi] potrebbe
questi dare soltanto que’ testimoni ch’ei credesse necessari e per l’opposto non sarebbe lasciata eguale facoltà
all’imputato ma dovrebbe dipendere dalla discrezione e dal permesso del capo del tribunale.
Si sarebbe dovuto invece fare riferimento alla “prudente e giusta disposizione della cessata
procedura del Regno d’Italia” per la quale, dopo che erano stati contestati all’imputato le risultanze
delle prove processuali, si assegnava a lui un termine per produrre le eccezioni formali e convocare
nuovi testimoni a difesa. Si riteneva infatti inadeguata come garanzia quanto disponeva l’art. 395
dell’editto perché sarebbe stato arbitrio del capo del tribunale consentire i controinterrogatori a
favore dell’imputato. Gli estensori del rapporto non potevano non ammettere che nel Regno d’Italia
la sicurezza dell’appello non esisteva nella procedura per le cause criminali più gravi, ma
ricordavano che
erano in quel sistema di leggi le seguenti guarentigie: 1° il processo era veramente pubblico; 2° la sentenza si
proferiva dopo un pubblico dibattimento per quale meglio riescivano assicurati e la rettitudine del giudicato e
la fede dei testimoni e la responsabilità dell’accusatore ed erano tutti garantiti gli utili effetti che la giustizia e
la verità solennemente proclamate sogliono operare nella pubblica opinione. E solo si eccettuavano le cause che avrebbero potuto offendere la pubblica decenza; 3°, la inappellabile sentenza era il risultamento di due
giudizi, uno sull’ammissione dell’accusa, pronunciato da quattro magistrati, l’altro sulla condanna, firmato da
otto giudici.
L’editto gregoriano, pur preferibile in alcune parti al vecchio sistema, nelle più importanti fasi
della procedura e nelle modalità e conseguenze dei giudizi era notevolmente peggiorativo:
Conferisce ai capi dei tribunali l’autorità politica d’intimare i precetti, quante volte avvisino esservi possibilità
di gravi disordini, senza limiti e senza norme e l’attribuisce ancora ai tribunali collegiali [...] con diritto di
apporre comminatorie che stiano nei limiti stabiliti dalle leggi penali pei delitti che hanno in vista d’impedire:
autorità che deve essere propria dei capi politici oltre la quale sarebbe agli stessi tribunali riserbato di giudicare
sulla validità e sulle trasgressioni de’ loro medesimi precetti.
Per i delitti di lesa maestà, cospirazione, sedizione ed altri attentati alla pubblica sicurezza l’editto
confermava la giurisdizione della Sacra Consulta o di qualsiasi altro tribunale designato dalla
Consulta stessa la quale operava per via sommaria con giudici nominati ad hoc, “variando le norme
di procedura secondo le facoltà che nelle rispettive circostanze può occorrere impetrare”. Tolta la
libera scelta del difensore agli imputati, cinque giorni dopo la comunicazione del processo e senza
nessuna dilazione – come di regola avveniva nella procedura del soppresso tribunale del Torrone di
Bologna fino al 1796, quando il tempo stabilito di tre giorni poteva dilatarsi ad arbitrio dell’uditore
fino a un mese o anche due – si sarebbe giudicato inappellabilmente su chiunque fosse stato tradotto
in carcere nella capitale. Ne conseguiva la mancanza del tempo necessario per raccogliere prove a
discarico nelle province e per ascoltare l’intervento di un patrocinatore dell’inquisito prima di
emettere la sentenza. Questo sistema veniva quindi a configurarsi come decisamente peggiorativo
anche rispetto a quello vigente, molto più garantista, con due sedi di giurisdizione, una procedura
ordinaria nelle rispettive provincie e termini adeguati per la difesa e scelta del difensore.
Le tasse, poi, vennero definite “insostenibili”: un altro argomento a favore dell’inapplicabilità
dell’editto, tanto da indurre gli stessi curiali, per protesta, a sospendere la loro attività “ed il popolo,
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già [da] dodici giorni, fa [a] meno di quel ministero anziché metter mano alla esecuzione dei nuovi
regolamenti”. L’invocazione finale sollecitava il pro-legato a
fare uso, nella suprema urgenza, di un potere straordinario. Ma giusto; per la ragione che siffatto potere va
usato con discretezza viene l’eccellenza vostra supplicata di sospendere prorogando [l’ordinamento
precedente] perché modificare la nuova legge od emanarne un’altra, misura egualmente possibile, sarebbe nel primo caso por mano nell’opera del legislatore e nel secondo un costituirsi legislatore: domande non
necessarie, dalle quali la curia bolognese reputò bene d’astenersi [...]. Sta ora a voi decidere se all’Eccellenza
Vostra con buon diritto [il ceto legale] ricorse e se gli ultimi regolamenti sono eseguibili e se rispondono alle
sagge intenzioni del regnante pontefice. Per le quali se noi, in ossequio del vero, non possiamo tacere dall’un
canto che le nuove leggi hanno riparato con poche riforme a taluno dei mali preesistenti, ci è forza dall’altro
il dichiarare che l’opera trae seco altri mali che non esistevano prima, di talché essa è ben lontana dal
corrispondere ai bisogni dei tempi, alle concette speranze ed alle fatte promesse.
Il nuovo regolamento di procedura criminale aveva dunque aperto la strada a un tentativo di
affermare un margine non piccolo di autonomia, capeggiato dal “ceto legale” e seguito con
titubanza dai rappresentanti titolati del governo, il pro–legato e i membri della congregazione
governativa i quali, da un lato, spingevano gli avvocati a procedere nella resistenza a Roma e
promuovevano un congresso di rappresentanti (sempre del “ceto legale”) che allargasse la protesta
alle province vicine, e dall’altro cercavano di stornare dalle loro teste la prevedibile, fermissima
reazione del cardinal Bernetti. Il Segretario di Stato ignorò infatti totalmente le richieste che i pro-
legati gli avevano indirizzato: per tutta risposta, ribadendo la scadenza ultimativa dell’1 gennaio
1832 per la piena applicazione del regolamento, inviò loro una circolare, datata 27 dicembre, che
sosteneva l’opportunità di riunire il prima possibile le congregazioni criminali per la emanazione
delle sentenze dei processi sospesi e ingiungeva di osservare l’art. 22 che vietava “l’intervento di
persone estranee alla discussione personale delle rispettive cause”. Ricordava inoltre che l’art. 397,
relativo alla facoltà concessa al difensore di chiamare altri testimoni, disponeva che fosse il
presidente del tribunale a decidere quando il parere del fiscale non fosse concorde con quello del
difensore, precisando che tale articolo “ha caricato il suo onore e la sua coscienza di tutta la
responsabilità”, vale a dire che le fasi più delicate del procedimento erano affidate all’arbitrium del
presidente, con le stesse modalità con le quali in passato l’uditore del Torrone aveva agito come
giudice monocratico.
Il braccio di ferro continuò e il 2 gennaio 1832, presumibilmente subito dopo l’arrivo della
circolare, il conte Grassi rispondeva ancora con pretesti d’accatto e con falso ossequio di non aver
potuto ancora dare applicazione al Regolamento. Per le note vicende
non si è potuto nella provincia bolognese mettere in esercizio il nuovo tribunale di prima istanza civile e
criminale in cui andavansi a concentrare tutte le attribuzioni della pretura criminale talché cessando ogni
funzione di questa e non essendo quello in esercizio manca affatto ogni amministrazione di giustizia punitiva.
Siccome però questa mancanza sarebbe del massimo pregiudizio all’intera società nostra e vi potrebbe
apportare i maggiori disordini e d’altra parte continua tuttavia l’opposizione al nuovo sistema giudiziario nel
più alto suo grado, a segno che il ritentare di distornarla riprodurrebbe senza dubbio i più gravi sconcerti, così
nel duro frangente ho divisato di riscontrare il predetto signor pretore essere mia opinione che per ciò che
riguarda il metodo di procedura possa egli e il suo tribunale proseguire a condursi come per lo addietro,
soprattutto in pendenza delle risoluzioni del superiore governo ch’io andava ad impetrare, siccome faccio colla presente [...] Io mi sono tenuto lontano dall’impartire in proposito veruna determinazione e mi sono
limitato ad esternare una mia opinativa. La subordino all’Eminenza Vostra Reverendissima supplicandola
vivamente a degnarsi di significarmi se io vada errato nel mio avviso e ad essermi cortese colla maggiore
possibile sollecitudine delle analoghe sue istruzioni.
Il pro-legato manifestò poi tutto il suo rincrescimento per aver dovuto aspettare fino a quel
momento a informare Roma della situazione
nella speranza in cui era di giorno in giorno di potere attivare in qualche guisa i nuovi regolamenti ma
posciacché questo ceto legale ch’io avrei creduto inclinevole a desistere dalla opposizione vi persiste tuttavia
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tenacemente e a lui tien dietro una gran parte del popolo, così mi accorgo che almeno per ora non può aver
luogo l’attivazione del regolamento suddetto se non vuolsi andare incontro a nuovi movimenti popolari e nuove
perturbazioni e inevitabilmente ai più funesti disastri.264
Intanto, il 30 dicembre 1831, ricevuta la lettera speditagli quattro giorni prima da Grassi, il
cardinal Bernetti gli aveva risposto comunicando che Sua Santità “disapprova[va] altamente la
unione federale di codeste provincie, il congresso generale che vuol formarsi e la maniera illegale di
eleggerne i deputati” e che “qualsivoglia determinazione di un tal congresso sarà riguardata come
nulla e che non sarà ricevuta alcuna deputazione che in seguito del congresso medesimo potesse
esserle inviata”. Disapprovava inoltre la riunione che si era tenuta a Imola il 25 dicembre “e
riguarda[va] come sommamente oltraggioso quanto si legge nella lettera di Vostra Signoria
Illustrissima circa la necessità d’impetrare istituzioni, leggi e riforme quasi che la Santità Sua nulla
avesse fatto finora per codeste provincie” 265.
Il pavido pro-legato dovette prendere atto di queste parole inequivocabili il 2 gennaio 1832,
tramite un dispaccio che gli era stato fatto pervenire da Pesaro con urgenza dal cardinale Giuseppe
Albani – “onde non si ripetano così nuovi atti che la Santità Sua altamente disapprova” – ma si
concesse un giorno intero prima di rispondergli nel suo stile, cioè parandosi come sempre dietro al
“ceto legale”, addossando su di esso la responsabilità dell’insubordinazione al sovrano, dopo aver
aizzati i suoi membri più in vista affinché la fomentassero, e agitando ancora davanti a Bernetti lo
spauracchio della rivolta imminente per giustificarsi di non aver fatto ricorso alle maniere forti per
impedire iniziative sovversive; infine, a proposito degli ultimi eventi, faceva anche intendere che
l’iniziativa del congresso di Imola era stata semmai del pro-legato di Ravenna. Dopo aver assicurato
di aver rese note le disposizioni del papa e di aver sospeso ogni iniziativa, aggiungeva infatti:
Non debbo però omettere di manifestare all’Eminenza Vostra Reverendissima come e per opera di chi abbia
avuto origine la riunione anzidetta delli 25 dicembre e per qual guisa io sia stato condotto ad assentire alle
determinazioni che in quel congresso furono prese.
Secondo la sua versione, mentre le adunanze di popolo “tenevano sconvolta questa città”, si era
presentato un certo avvocato Franceschelli Carozza di Castel Bolognese mandato dal conte Carlo
Arrigoni, pro-legato di Ravenna, per avvertirlo che il giorno dopo si sarebbe recato da lui con un
consigliere governativo, il gonfaloniere e i capi delle guardie per concertare le misure per placare la
popolazione delle provincie. Su consiglio di Franceschelli Carozza, Grassi aveva allora invitato
anche il pro-legato di Forlì. Il 24 dicembre erano giunti l’avvocato Pani e il conte Albicini,
consiglieri governativi di Forlì – al posto del pro-legato marchese Paolucci de’ Calboli infermo –
insieme con le autorità civili e militari, e Carlo Arrigoni con il suo seguito.
Coll’intervento di tutte le persone preindicate si tenne nel dì 25 la nota radunanza nella quale tostoché mi
accorsi che si proponeva di eleggere un consiglio di deputati in modi diversi da quelli prescritti nell’editto 5
luglio non mancai di far sentire che il superiore governo aveva già preventivamente manifestata in proposito
la sua disapprovazione. Credette l’intera adunanza di non dover prendere a calcolo questo mio riflesso attesa
unicamente l’urgenza delle circostanze e dopo breve discussione fu proposta la prima delle proposizioni che
si legge nel verbale sopra indicato la quale messa a voti segreti passò con pieno partito. Alla prima venne
dietro la seconda, indi la terza le quali passarono per acclamazione [...] Per tutte queste cose potrà l’Eminenza Vostra Reverendissima convincersi che noi fummo, per così dire, attratti e ben anche sedotti dalle più
speciose e lusinghiere apparenze, confortati d’altronde dalla speranza di potere preparare una via ad una
conciliazione e al ristabilimento dell’ordine e della pubblica tranquillità.
ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari
promosse dal ceto legale. 265 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 136.
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I bolognesi, dunque, secondo Grassi, avevano subìto un’iniziativa della quale inizialmente non
avevano capito la portata. Il pro-legato assicurò comunque di aver disposto subito dopo la
sospensione del consiglio dei deputati che doveva avere luogo lo stesso 3 gennaio.
Le persone destinate dalle Guardie civiche e foresi ad eleggere i predetti deputati, alcune delle quali
dimorano abitualmente in questa città, altre vi sono giunte fino da ieri, menano molto rumore ed insistono
perché si proceda alla elezione. Io procurerò di calmarle e d’indurle per la via della persuasione e quando
occorra anche delle preghiere alla rassegnazione e all’obbedienza [...] interessando la mediazione di queste
autorità politiche e militari e delle persone più probe, più illuminate e prudenti, ma siccome io dubito
purtroppo che questi mezzi non valgano e d’altronde io sono privo d’ogni altro mezzo mondano, così voglio
interamente affidarmi alla Divina Provvidenza che non manca giammai a chi umilmente la implora 266.
Il giorno prima, 2 gennaio, Grassi aveva scritto ai pro-legati di Ravenna e Forlì, informandoli del
dispaccio della Segreteria di Stato, che gli era pervenuto non con il postale ordinario ma con un
corriere inviatogli da Ancona dal cardinale Giuseppe Albani, pregando ciascuno di loro, “a
significarmi per eguale mezzo straordinario com’ella intenda di condursi e quali disposizioni creda
di dovere impartire dopo una sì formale disapprovazione data dal governo al nostro operato”. Lo
stesso giorno il pro-legato di Forlì, il marchese Paolucci de’Calboli, di tempra non molto diversa da
quella del conte Grassi, si limitò a fargli sapere di aver avvertito i deputati della sua Delegazione
che il congresso era sospeso e che, per quanto lo riguardava, aspettava ulteriori disposizioni da
Grassi stesso. Anche la risposta inviata il 3 gennaio da Ravenna da Carlo Arrigoni si sottraeva
all’onere e alla responsabilità di come rispondere alle ingiunzioni del papa, limitandosi a
sottolineare quanto il movimento di protesta fosse radicato nel “ceto legale” 267.
Il cardinale Albani, legato apostolico di Urbino e Pesaro, aveva avuto l’incarico di ricondurre
all’ordine le provincie del nord con speciali facoltà conferitegli dal sovrano e il 7 gennaio Grassi gli
scrisse chiedendogli di ricevere “persone che a nome di questi sudditi della Santa Sede implorino da
Vostra Eminenza Reverendissima quei favori e quelle grazie ch’ella ci potrà compartire”. La lettera,
estremamente cauta e stringata, fu spedita in copia ai pro-legati di Ravenna e Forlì. Albani rispose
al pro-legato di Bologna che le quattro provincie richiedevano una “cura particolare” e che
non sarebbe impossibile che [il papa] comandasse ancor a me di occuparmene dipendentemente dai sovrani
suoi ordini. Se ciò accadesse io non potrei che rendermene fedele ed esatto esecutore [...] Parlando della
grande opera della conciliazione che Vostra Signoria Illustrissima desidera di veder presto e felicemente
compita io non so vedere come questa possa mancare poiché il Santo Padre non intende che di ristabilire i
diritti e l’esercizio della sua sovranità come ha goduto in passato, onde se Bologna conoscerà i suoi doveri e
si presterà ad ubbidirlo la conciliazione nascerà da se stessa e tutto ritornerà nell’ordine e nella primiera tranquillità.268
Il marchese Paolucci de’ Calboli il 13 gennaio informò il conte Grassi di aver mandato il cavaliere
conte Pietro Guerrini, il conte Pellegrino Canestri e l’avvocato Cosimo Sostegni dal cardinale
Albani che li aveva ricevuti “con umanità singolare” dicendo loro di non avere ancora ordine di far
avanzare le truppe ma che gli poteva arrivare da un momento all’altro e che
per le suppliche loro, si fa a chiedere al Santo Padre la sospensione del medesimo fino a che per mezzo dei
consigli provinciali già presso a formarsi sieno fatte le domande dei miglioramenti desiderati, che quand’anche
dovessero venire avanti sarebbero precedute da un’amnistia generale, mentre egli conserverebbe il suo animo al
bene suddetto.
Tuttavia, una ritorsione minacciata, la soppressione del tribunale d’appello di Bologna se l’1
gennaio non fosse stato applicato il nuovo regolamento, era già stata messa in atto e il 3 gennaio il
pro-legato di Ferrara aveva chiesto al tribunale d’appello di Bologna l’invio di due processi, perché
266 Ivi. 267 Ivi. 268 Ivi.
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entrambe le cause fossero giudicate “dal tribunale di appello trasferito in questa città”. Grassi aveva
temporeggiato, decidendosi a rispondere solo il 14 gennaio dicendo di aver aspettato perché sperava
che si potessero applicare i nuovi regolamenti giudiziari, attivando i tribunali da essi istituiti, e che
la sede del tribunale d’appello tornasse a Bologna. “Per la prima parte ho già conseguito l’intento e
ne può far fede la mia notificazione già pubblicata di cui le accludo alcuni esemplari. Per la seconda
dura tuttavia la speranza che anzi mi si fa sentire più forte e più viva”. Giustificandosi così, rimandò
ancora la richiesta spedizione dei processi in attesa delle superiori decisioni. Il 15 gennaio Grassi
dette mandato al conservatore facente funzioni di senatore, avvocato Giuseppe Giacomelli, per
costituire con i gonfalonieri dei principali comuni della Romagna una deputazione da inviare al
cardinale Albani 269.
Un comunicato a stampa, datato 14 gennaio 1832 e diffuso dal Segretario di Stato Bernetti, rese
noti gli accordi presi per le Legazioni dai rappresentanti delle potenze accreditate presso la Santa
Sede. Quattro giorni dopo Grassi faceva sapere a Bernetti di averlo ricevuto e di essere stato
informato dal cardinal Albani lo stesso 14 gennaio che il legato di Pesaro e Urbino era stato
nominato commissario straordinario delle quattro Legazioni. Albani da Pesaro comunicò subito a
Grassi che in virtù del proclama stesso le truppe pontificie sarebbero avanzate al più presto in
Romagna per ristabilire l’ordine e l’autorità sovrana “e perciò con mire ed istruzioni del tutto
pacifiche [...] rivolte unicamente al bene e alla vera felicità degli amati sudditi e figli” 270. Camillo
Grassi replicò augurandosi che ognuno adempiesse ai propri doveri di suddito leale ed obbediente
assecondando “le pacifiche e benefiche intenzioni dell’augusto nostro sovrano” 271.
La marcia delle truppe di Albani tanto pacifica non fu e il commissario straordinario scrisse al
pro-legato di Bologna che si era sparsa la voce che
dopo i fatti avvenuti nella marcia delle truppe pontificie da Rimini fino a Forlì siavi l’intenzione di procedere
con maggior severità negli altri luoghi che verranno occupati; [perciò] ho creduto espediente d’illuminare il pubblico su tale idea lontana dal vero colla notificazione che ho fatto stampare qui a Forlì,
che inviava a Grassi perché fosse affissa per la città. La notificazione, che insisteva sulla clemenza
del cardinale e sulla disciplina delle truppe, concludeva invitando ogni abitante delle quattro
Legazioni a deporre
qualunque timore e qualunque dubio sulla futura condotta nostra e delle truppe pontificie, perché essa sarà
quale è stata annunziata e tutte le persone savie e dabbene dovranno rallegrarsi nel vedersi dalle paterne ed
amorose cure del Santo Padre restituite alla pristina loro sicurezza e tranquillità 272.
A Bologna lo spiegamento di forze rese la repressione del movimento rapida e incruenta, almeno
secondo il resoconto fatto da Grassi al cardinal Bernetti. All’alba di sabato 28 gennaio truppe
tedesche e pontificie provenienti dalla Romagna si erano accampate fuori dalle mura di Bologna e
altre truppe tedesche provenienti da Modena si erano schierate fuori porta S. Felice. Nelle prime ore
del mattino fu pubblicata una notificazione di Albani “che assegnava ai cittadini il termine
perentorio di due ore per consegnare tutte le armi al comando di piazza che nella notte precedente
era stato assunto dal comandante austriaco, generale Haiman”. Verso mezzogiorno Haiman si recò
al palazzo pubblico per verificare se il disarmo dei cittadini procedeva e dove si trovavano i cannoni
della Guardia civica bolognese e di Romagna, che erano quattro e che vennero messi sotto chiave.
La custodia dei cannoni, della polveriera e del deposito delle munizioni fu affidata al pro-legato.
269 Persisteva infatti da parte dei membri del vecchio patriziato la protesta per la soppressione del Senato e il rifiuto a
ricoprire quell’unico posto senza reali competenze e prestigio che era stato conservato come vestigia del passato; nella
sua vacanza l’avvocato Giacomelli fungeva da supplente, senza peraltro che fosse meno evidente la posizione polemica
delle ex famiglie senatorie . 270 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 136, lettera del 15 gennaio 1832. 271 Ivi, lettera del 18 gennaio 1832. 272 Ivi, lettera del 25 gennaio 1832.
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Dopo mezzogiorno, le truppe tedesche e pontificie provenienti dalla Romagna entrarono in città al
comando del barone generale Kraboski. L’ingresso avvenne pacificamente e da allora la città rimase
tranquilla. Il cardinale Albani era entrato a Bologna lo stesso 28 gennaio, poco dopo le 3 del
pomeriggio, e Grassi lo aveva ricevuto con il consigliere governativo anziano Magistrini,
andandogli incontro a nove miglia dalla città. Dopo che l’ordine fu ristabilito, il pro-legato disse di
voler dedicarsi alla formazione dei consigli comunali conformandosi a quanto prevedeva l’editto del
5 luglio 1831 273.
Il 31 gennaio il Segretario di Stato Bernetti aveva inviato a Camillo Grassi le congratulazioni per
la pace ristabilita dicendo di essere sicuro che Albani l’avrebbe consolidata, “onde non abbiano più
a riprodursi costì le scene di disordine e di ribellione”, cosa che il commissario straordinario non
mancò di fare, ordinando al pro-legato di pubblicare immediatamente tutte le leggi e tutti gli editti
di cui fosse stata omessa la pubblicazione nei mesi precedenti 274. Grassi gli rispose di aver fatto già
pubblicare l’editto del 5 luglio 1831 e un’aggiunta al § 76 del Regolamento del 15 novembre 1831
che trattava la disciplina dei tribunali e le tasse giudiziarie, e gli sottopose la supplica di riportare a
Bologna il tribunale d’appello.
Trasferita d’ordine superiore in Ferrara la residenza del tribunale di appello, fu sollecito quel monsignor pro-
legato di venire alla nomina dei giudici e di mettere colà in esercizio il tribunale medesimo [...] Vostra
Eminenza Reverendissima può ben figurarsi che in quei difficili momenti trovai affatto improvvida la
ricercata pubblicazione né ho creduto di doverla far seguire oggi, nella più viva speranza nutrita dall’intera
popolazione che l’Eminenza Vostra Reverendissima o prevalendosi delle amplissime facoltà accordatele dal
Santo Padre o interponendo presso la Santità Sua i valevolissimi di lei offici vorrà procurarci la consolazione
e la grazia di veder tornato in questa città il predetto tribunale che reca tanto lustro e splendore ed una sì
notabile utilità 275.
273 Ivi, lettera dell’1 febbraio 1832 274 Ivi, lettera del 4 febbraio 1832. 275 Ivi, lettera dell’8 febbraio 1832.
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Conclusioni
Questo saggio costituisce la sintesi – e la continuazione – di uno studio sulla giustizia criminale a
Bologna durante il dominio pontificio, al quale abbiamo lavorato per diversi anni con l’intento di
ricostruire non solo il quadro legislativo e l’impianto organizzativo del sistema giudiziario, ma
anche il suo concreto funzionamento.
E’ evidente che la scelta di limitare l’indagine a una sola città sia pure importante come
Bologna se è pienamente plausibile per la prima parte dell’arco cronologico da noi preso in esame
i secoli XVII e XVIII quando il Tribunale del Torrone operò in sostanziale autonomia, lo è meno
per il periodo successivo, durante il quale i tribunali del capoluogo e quelli decentrati nel suo
territorio operarono all’interno, e in forma coordinata, con un sistema giudiziario “nazionale” e
relativamente centralizzato. Tuttavia, privilegiare la continuità del riferimento a un quadro
territoriale sostanzialmente omogeneo e relativamente limitato – la Legazione di Bologna nel primo
periodo, il Dipartimento del Reno e nuovamente la Legazione nel secondo – ci ha consentito,
almeno lo speriamo, da una parte di evidenziare più chiaramente le tendenze di lungo periodo,
dall’altra di dominare meglio l’imponente materiale documentario disponibile, consentendo una
analisi più ravvicinata dell’oggetto della ricerca.
Ebbene, proprio in una prospettiva di lungo periodo, ci sembra di poter dire che il dato più
significativo che emerge dalla nostra indagine è che il processo breve è evidente e voluto il
riferimento a uno dei temi più caldi di questi nostri tempi difficili e amari almeno a Bologna, finì
con l’arrivo dei francesi, e che quello lungo, che ci è purtroppo familiare, iniziò, come abbiamo
visto, nei primi anni della Restaurazione. Non abbiamo infatti detto lo facciamo ora in sede di
conclusioni – che i processi del Torrone duravano sempre troppo secondo gli imputati in carcere e i
senatori bolognesi, ma molto poco rispetto agli standard odierni. Dallo spoglio di oltre 4000
processi celebrati durante la seconda metà del XVII e la prima del XVIII secolo, emerge infatti che
la stragrande maggioranza di essi durò da un minimo di cinque o sei giorni ad un massimo di
quattro o cinque mesi, anche nel caso di reati gravi e di condanne pesanti, alla galera o alla forca.
Una capacità di fare giustizia rapidamente che avrebbe reso felici il revisore Quattrorecchi e i suoi
superiori.
Come abbiamo visto governatori e presidenti di Tribunale del periodo della Restaurazione
giustificavano l’allungamento dei tempi processuali e l’accumulo di arretrato con l’aumento del
carico di lavoro e la carenza di personale. Si potrebbe ipotizzare che all’origine delle difficoltà
dell’apparato giudiziario ci fosse un’obbiettiva crescita del tasso di criminalità: ai contemporanei
spesso sembrò che le cose stessero proprio così. Tuttavia i dati quantitativi di cui disponiamo non
sembrano accreditare questa ipotesi, almeno nel lungo periodo. Nei quasi due secoli coperti dalla
nostra indagine la popolazione di Bologna e del suo territorio raddoppiò, passando da circa 170.000
a 360.000 abitanti. Nello stesso periodo le denunce presentate ai tribunali criminali passarono da
una media di circa 3000 l’anno a 5000, con un incremento di circa il 60%. mentre il numero degli
addetti all’amministrazione giudiziaria quadruplicò.
Segretari di Stato, Legati e revisori sembravano invece pensare che la causa del dilatamento dei
tempi della giustizia risiedesse soprattutto nella scarsa professionalità e voglia di lavorare degli
addetti. È possibile che fosse così, ma le fonti di cui disponiamo non ci permettono di affermare con
un minimo di fondamento che veramente i giudici e gli impiegati degli anni della Restaurazione
lavorassero meno e peggio degli uditori e sottuditori del Torrone e dei loro notai. Quello che invece
ci pare di aver dimostrato in questo nostro saggio è che furono altri fattori, per così dire strutturali e
legati alla profonda trasformazione del modo di concepire e amministrare la giustizia intervenuta fra
la fine dell’antico regime e la metà del XIX secolo, a inceppare il sistema e a renderlo incapace di
mantenere un accettabile equilibrio fra input e otput.
Innanzi tutto l’affermazione di principi basilari di garantismo nei confronti dell’imputato, e una
sia pur limitata ridefinizione dei rapporti di forza fra accusa e difesa. La rigorosa formalizzazione
degli atti processuali, la distinzione netta fra fase istruttoria e fase dibattimentale, l’affermazione del
93
diritto del difensore di chiedere di ascoltare testimoni a discarico, l’introduzione dell’istituto dei
diversi gradi di giudizio e dell’appello, offrivano certo agli accusati tutele che il Torrone non aveva
previsto o aveva applicato in misura molto limitata, ma non potevano non allungare i tempi del
procedimento.
Anche l’articolazione del sistema giudiziario sul territorio, se in certa misura veniva incontro alle
esigenze di imputati, testimoni e parti lese e anche, non dimentichiamolo, agli interessi del ceto
medio provinciale che trovava possibilità di impiego presso i governatorati non poteva non
rendere più faticoso il funzionamento della macchina, ponendo problemi di attribuzione di
competenze e di continuo scambio di carte fra centro e periferia che il Torrone non aveva avuto.
Pesanti furono anche gli effetti negativi, in tutta evidenza non compensati da quelli positivi,
prodotti dal meccanismo di monitoraggio del funzionamento del sistema introdotto durante il
periodo francese che divenne sempre più sofisticato e complesso durante l’età della Restaurazione.
Nel XVII e XVIII secolo in qualche occasione pontefici e legati avevano chiesto agli uffici del
Torrone di fornire dati quantitativi relativi al funzionamento del tribunale, ma si era trattato di
richieste rare e occasionali motivate da ragioni contingenti. La redazione dei prospetti periodici
richiedeva invece, come abbiamo visto, un impegno continuo e consistente e interferiva con gli altr i
compiti dell’apparato giudiziario.
Tuttavia il fattore alla fin fine decisivo fu forse il profondo mutamento intervenuto nelle
aspettative dello stato e della società nei confronti del sistema giudiziario. I processi del Torrone
duravano poco, ma pochissimi, non più del 10% di quelli avviati, finivano con una sentenza. La
maggior parte venivano chiusi prima, perché da subito gli inquirenti si rendevano conto che non
avrebbero facilmente raccolto le prove sufficienti per arrivare ad una condanna, oppure perché
l’imputato, di fronte al peso delle prove e degli indizi a suo carico, decideva di “comporsi”, oppure
perché la parte lesa desisteva e concedeva la pace all’offensore. La giustizia del Torrone e del
sovrano pontefice e dei suoi rappresentanti nelle dichiarazioni di principio era implacabile, di
fatto si proponeva obbiettivi piuttosto modesti, ma realistici: si accontentava di riportare la pace fra
i litiganti e, quando era possibile e se lo riteneva opportuno, di infliggere punizioni esemplari.
Quella della Repubblica e del Regno di Italia, e lo Stato pontificio della Restaurazione non volle
essere da meno, era molto più ambiziosa. Voleva punire, con eguale rigore e imparzialmente, tutti i
delitti e imporre l’assoluto rispetto della legge e della volontà del sovrano a tutti i sudditi. Un
compito assai impegnativo, che avrebbe richiesto molte più risorse finanziarie e umane di quelle
effettivamente disponibili.