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1 GIANCARLO ANGELOZZI CESARINA CASANOVA La giustizia dei burocrati. La Restaurazione nella Bologna pontificia.

La giustizia dei burocrati

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GIANCARLO ANGELOZZI – CESARINA CASANOVA

La giustizia dei burocrati. La Restaurazione nella Bologna pontificia.

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Indice

Parte I. Gli ordinamenti giudiziari

1. L’organizzazione della giustizia criminale in antico regime.

1a Il Torrone e l’ostilità bolognese alla centralizzazione giudiziaria.

1b Echi del riformismo giuridico settecentesco: il pontificato di Benedetto XIV

2. Bologna negli anni della dominazione francese: un laboratorio politico.

2a Una rivoluzionaria ed effimera restaurazione della libertà bolognese.

2b La giustizia delle Repubbliche e del Regno: il controllo dell’esecutivo.

3. La Restaurazione giudiziaria..

3a Il ripristino delle autonomie di Bologna: una speranza di breve durata

3b Una riforma parziale: il Regolamento giudiziario del 1831.

4. Le criticità del sistema.

4a Inseguendo il miraggio della procedura rapida: un ossessivo controllo burocratico

4b Un organico di indolenti e fannulloni?

Parte II. Dal giudice monocratico ai travet della giustizia.

1. La continuità delle carriere giudiziarie nel passaggio tra Sette e Ottocento.

1a. Nobili e avvocati ai vertici dell’apparato giudiziario.

1b. Mansioni e compensi degli impiegati della giustizia.

2. I governatori nelle comunità.

2a. La giustizia in provincia.

2b. Governatori e notabilato locale

2c. Il declino del conte Boselli.

3. Il protagonismo politico degli avvocati: successi e insuccessi tra ancien régime e

Restaurazione.

3a. Onore e utili.

3b. Tra nostalgie del Regno e rivendicazioni autonomistiche

3c. Contro i“vizi” e i “difetti” dei regolamenti giudiziari.

Conclusioni

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Parte I. Gli ordinamenti giudiziari

1. L’organizzazione della giustizia criminale in antico regime.

1a. Il Torrone e l’ostilità bolognese alla centralizzazione giudiziaria. Dall’inizio della dominazione

pontificia fino all’arrivo dei francesi nel 1796, l’amministrazione della giustizia a Bologna presenta

i tratti caratteristici del sistema giudiziario degli stati italiani d’antico regime, contraddistinto da

quello che è stato sinteticamente definito “particolarismo giuridico”. Una pluralità di giurisdizioni e

fori, laici ed ecclesiastici, con competenze non ben definite che spesso si sovrapponevano, e una

pluralità di fonti normative, spesso contraddittorie, che costituivano un autentico ginepraio 1. Nel

caso di Bologna il quadro era reso ulteriormente complesso dalla situazione di particolare

autonomia e privilegio di cui la città godeva nell’ambito dello Stato della Chiesa 2: alcuni tribunali

dipendevano dai rappresentanti del potere centrale, altri dal governo cittadino; non esisteva il

fiscale 3, anche perché non si applicava la pena della confisca dei beni dei condannati; le stesse

costituzioni papali, valide per tutto il resto dello stato, non lo erano per Bologna se non recepite in

un bando ad hoc firmato dal legato e dal gonfaloniere in rappresentanza del Senato. Tutti tratti di

distinzione cui il governo cittadino teneva moltissimo e che difese sempre strenuamente 4, ma che

non furono mai riconosciuti pienamente e incondizionatamente dai rappresentanti del potere

centrale, dando luogo a continue frizioni e contestazioni che rendevano ancora più incerti i confini

giurisdizionali e costantemente conflittuale l’amministrazione della giustizia criminale.

Semplificando – e non poco – si può comunque dire che dagli anni Trenta del XVI secolo la

giustizia civile era esercitata in primo grado da un uditore del legato e in secondo da una Rota

formata da cinque giudici nominati dal papa entro una rosa proposta dal Senato, quella commerciale

da un tribunale chiamato Foro dei Mercanti e quella penale da un giudice monocratico,

comunemente noto come uditore del Torrone, perché risiedeva nella torre del palazzo pubblico

dove erano ubicati anche gli uffici giudiziari e le carceri 5.

1 Sul concetto di “particolarismo giuridico”, G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e

codificazione del diritto, Bologna, il Mulino, 1976, pp. 28-34. Un quadro generale della situazione europea in Lo Stato

moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari, Laterza, 2002; per l’Italia, M. Bellabarba,

La giustizia nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2008; per lo Stato pontificio, G. Santoncini, Il groviglio

giurisdizionale dello Stato ecclesiastico prima dell’occupazione francese, in “Annali dell’Istituto Storico Italo

Germanico in Trento”, XX (1994), pp. 82-102 e I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio

in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2007. 2 Durante l’età moderna Bologna fu governata da un legato, quasi sempre un cardinale, diretto rappresentante del papa –

coadiuvato o, in sua assenza, sostituito da un vicelegato – e da un Senato, composto da quaranta membri, portati a cinquanta da Sisto V, appartenenti alle casate più cospicue per ricchezza e aderenze politiche della città; il Senato era

affiancato da altre magistrature, fra cui rilevavano, per rappresentatività e importanza delle funzioni svolte, Anzianato e

Tribunato della Plebe. Sul governo di Bologna in età moderna, A. De Benedictis, Il governo misto, in Storia di Bologna,

vol. 3. Bologna nell’età moderna, I. Istituzioni, forme del potere, economia e società, a cura di A. Prosperi, Bologna,

Bononia University Press, 2008, pp. 201-269, cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche. 3 Era il pubblico ufficiale che in sostanza svolgeva il compito dell’attuale pubblico ministero o dell’avvocato erariale. 4 Sull’autonomismo e “repubblicanesimo” bolognese, A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna: una città

europea nello Stato della Chiesa, Bologna, il Mulino, 1995. 5 A Bologna esisteva anche un tribunale vescovile che aveva competenza sui delitti commessi da ecclesiastici, ma anche

su alcune materie civili e penali riguardanti i laici. Sulla complessa organizzazione della giustizia a Bologna in età

moderna manca ancora uno studio approfondito. Un utile quadro d’insieme da cui partire per ulteriori indagini in M. Cavina, I luoghi della giustizia, in Storia di Bologna, pp. 367-411. Sul tribunale civile del legato non ci sono studi

specifici. Sulla Rota, si vedano A. Gardi, Tecnici del diritto e Stato moderno nel XVI-XVII secolo attraverso documenti

della Rota di Bologna, in “Ricerche storiche”, XIX (1989), pp. 553-584 e i saggi di F. Boris, A. De Benedictis, T. di Zio

e A. Gardi in Grandi tribunali e Rote nell’Italia di antico regime, a cura di M. Sbriccoli e A. Bettoni, Milano, Giuffrè,

1993. Sul Foro dei Mercanti, A. Legnani, La giustizia dei mercanti. L’Universitas mercatorum, campsorum et artificum

di Bologna e i suoi statuti del 1400, Bologna, Bononia University Press, 2005; Id. Diritto particolare e modelli

universali nella giurisdizione mercantile (secoli XIV-XVI) a cura di P. Bonacini e N. Sarti, Bologna, Bononia University

Press, 2008. Sul tribunale del Torrone fino alle riforme lambertiniane G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale

in una città di antico regime. Il tribunale del Torrone di Bologna (secc. XVI–XVII), Bologna, Clueb, 2008.

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L’uditore del Torrone era nominato direttamente dal papa al quale rispondeva del proprio operato,

ma di fatto la sua attività era costantemente sottoposta alla supervisione del legato pro tempore i cui

poteri erano amplissimi, soprattutto in materia di giustizia criminale, tanto che comunemente, anche

se non del tutto propriamente, ci si riferiva a quello criminale come a uno dei tribunali del legato 6.

Inizialmente la giurisdizione del Torrone aveva come confine le mura della città, mentre nel

contado giustizia civile e criminale erano esercitate da ufficiali estratti a sorte fra i diversi ordini cui

erano ascritti gli abitanti di Bologna che godevano della cittadinanza – senatori, gentiluomini,

dottori, mercanti, semplici cittadini 7. Presto però il Torrone si sostituì agli ufficiali di nomina

cittadina, assorbendone le competenze più importanti e lasciando loro solo le cause civili di più

lieve entità. Questo processo, iniziato negli anni Trenta del XVI secolo, ebbe un andamento

piuttosto discontinuo nei decenni seguenti, ma alla fine del secolo era ormai compiuto e definitivo,

nonostante le proteste del Senato.

In seguito all’estensione della giurisdizione del Torrone su tutto il territorio della Legazione, i

massari 8, che amministravano le comunità minori prive di un consiglio, erano tenuti a denunciare

tutti i delitti avvenuti nel territorio della propria comunità ai notai del tribunale criminale. L’uditore,

spesso consultandosi con il legato, decideva poi quali lasciar cadere – in quanto troppo lievi, o

perché le notitiae criminis fornite dal massaro apparivano sin da subito troppo labili rispetto al

lavoro e al costo necessari per avviare un procedimento formale con qualche speranza di successo –

e quali invece perseguire inviando sul posto una cavalcata, cioè una sezione itinerante del tribunale

composta da un sottuditore e/o un notaio con alcuni sbirri, i quali avevano il compito di svolgere le

indagini preliminari e individuare i testimoni del reato. Il processo, qualora nel corso della cavalcata

fossero stati raccolti indizi o prove sufficienti, veniva poi proseguito e concluso nella sede

bolognese del tribunale presso la quale venivano convocati i testimoni.

Il funzionamento del Torrone era regolamentato dalle costituzioni del legato Carlo Borromeo del

1566 9 le quali, sia pur ripetutamente ritoccate, soprattutto per quanto riguardava i compensi dei

notai e la disciplina delle cavalcate, rimasero in vigore fino alla riforma di Benedetto XIV del 1744.

Le costituzioni disponevano che non fosse possibile avviare un procedimento se non su querela di

parte o denuncia di un pubblico ufficiale, tranne per i delitti più gravi, come lesa maestà, assassinio,

incendio doloso, avvelenamento, falsificazione di moneta, stupro violento, blasfemia, resistenza ai

pubblici ufficiali, per i quali il giudice poteva procedere ex officio, ma sempre previo accertamento

della sussistenza di ragionevoli indizi. Nel primo caso la causa doveva essere interrotta qualora il

querelante decidesse di desistere, ma anche nel secondo l’uditore, d’accordo con il legato, poteva

interrompere in ogni momento il procedimento, anche per delitti gravi come l’omicidio,

6 Sulla figura e sui poteri in temporalibus e in spiritualibus del cardinal legato, A. Gardi, Il cardinal Enrico Caetani e la

legazione di Bologna (1586-1587), Roma, Fondazione Camillo Caetani, 1985; Id., Il cardinal legato come rettore

provinciale, in “Società e Storia”, VIII (1985), pp.1-36; Id., Lo Stato in provincia. L’amministrazione della Legazione

di Bologna durante il regno di Sisto V (1585-1590), Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1994, pp. 195-239; Id., Il

mutamento di un ruolo. I legati nell’amministrazione interna dello Stato pontificio dal XIV al XVII secolo, in Offices et

Papauté (XIV-XVII siècle). Charges, Hommes, Destins, sous la direction d’A. Jamme et O. Poncet, École Française de

Rome, Roma 2005, pp. 371-407; Id., Cardinale e gentiluomo: le due logiche del legato di Bologna Alessandro Sforza

(1570-1573), in “Società e Storia”, n. 76 (1997), pp. 285-311; U. Mazzone, “Con esatta e cieca obbedienza”. Antonio

Pignatelli cardinal legato di Bologna (1684-1687), in Riforme, religione e politica durante il pontificato di Innocenzo

XII (1691-1700), a cura di B. Pellegrino, Galatina, Congedo, 1994, pp. 45-94; Id., “Evellant vicia…aedificent virtutes”: il cardinal legato come elemento di disciplinamento dello Stato della Chiesa, in Disciplina dell’anima, disciplina del

corpo e disciplina della società, a cura di P. Prodi, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 691-731. 7 Sugli ufficiali di contado e sullo svuotamento della loro giurisdizione durante la prima età moderna, A. De Benedictis,

Patrizi e comunità. Il governo del contado bolognese nel ‘700, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 57-65 e G. Angelozzi, C.

Casanova, “Una legge ben molte volte vulnerata”. Alcune considerazioni sugli uffici bolognesi dal XVI al XVIII secolo,

in Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, a cura di A. Prosperi, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 665-704 e La

giustizia criminale, pp. 111-134. 8 Sulle funzioni del massaro A. De Benedictis, Patrizi e comunità, pp. 78-85. 9 Recentiores Turroni Bononiae Constitutiones, Bononiae, Stamperia di Alessandro Benacci, 1566.

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ammettendo l’imputato a “onesta composizione”, cioè al pagamento di una somma pattuita, purché

questi avesse ottenuto la “pace”, cioè il perdono e il ritiro della denuncia, dalla parte lesa.

Il processo del Torrone era di tipo prettamente inquisitorio: gli inquirenti raccoglievano senza

restrizioni le prove a carico dell’imputato e lo interrogavano senza informarlo del capo

d’imputazione, a meno che non decidessero di rivelargli, in parte o tutte, le accuse e le risultanze a

suo carico, per farlo crollare e confessare. Se gli indizi erano abbastanza consistenti, il giudice

poteva disporre che l’accusato fosse sottoposto a tortura, peraltro secondo una procedura che ne

definiva le modalità e ne limitava la durata. Solo alla fine delle indagini, quando cioè gli inquirenti

ritenevano di aver raccolto prove sufficienti per una condanna, il processo veniva pubblicato, cioè

portato a conoscenza dell’imputato e del suo difensore che aveva ben poco tempo – tre giorni, ma

spesso il tribunale concedeva una dilazione – per esaminarlo, fare le sue controdeduzioni e chiedere

di interrogare eventuali testimoni a discarico. La sorte dell’imputato veniva poi decisa, a porte

chiuse ed esclusivamente sulla base delle risultanze delle carte del processo, dalla Congregazione

criminale, di cui facevano parte l’uditore, i sottuditori, il legato e il vicelegato. La sentenza veniva

poi scritta dall’uditore.

Le costituzioni contenevano alcune prescrizioni di sapore “garantista”, come quella di limitare al

massimo la durata della carcerazione degli imputati in attesa di giudizio – la libertà su cauzione

veniva concessa molto raramente – e di evitare gli interrogatori suggestivi, sia dell’accusato che dei

testimoni, ma si trattava solo di raccomandazioni, per di più generiche e senza l’indicazione di

sanzioni per i contravventori. Tutta la procedura era decisamente sbilanciata a favore dell’accusa:

basti pensare che solo raramente la richiesta di interrogare testimoni a discarico dell’imputato

avanzata dall’avvocato dei poveri veniva accolta e comunque, nello stile del Torrone,

contrariamente a quanto disposto dalle costituzioni, sin dagli inizi era invalsa la prassi che ad

interrogarli fosse lo stesso uditore, o comunque il sottuditore che aveva condotto la fase istruttoria.

Inoltre l’appello al papa e a un tribunale romano, teoricamente possibile, era concesso solo in casi

eccezionali, mentre la grazia, gratuita o, più spesso, a titolo oneroso, era in genere concessa dai

legati pro tempore con una certa larghezza 10.

In teoria l’uditore avrebbe dovuto amministrare la giustizia, in prima persona e in tutte le sue fasi,

in un territorio che aveva una superficie di quasi 4000 km quadrati, in buona parte montuoso e

confinante con il ducato di Modena, il granducato di Toscana e le Legazioni di Ferrara e di

Ravenna, abitato da una popolazione che nel corso dell’età moderna passò da poco più di 150.000

abitanti a poco meno di 300.000, distribuiti in circa 150 comunità, alcune di poche decine di anime,

altre che per popolazione, ricchezza e articolazione socio-economica costituivano dei veri e propri

centri urbani. Era evidentemente un compito proibitivo e, nonostante le costituzioni non ne facciano

menzione, almeno dalla metà del XVI secolo il giudice si fece affiancare da uno o due aiutanti, detti

sottuditori, cui affidava l’istruzione dei processi più gravi in contado o l’espletamento delle prime

fasi istruttorie di quelli in città, a meno che non si trattasse di delitti particolarmente efferati o di

cause che rivestivano una certa rilevanza politica. La direzione generale dell’iter processuale, così

come la valutazione delle risultanze e la stesura delle sentenze, sia interlocutorie che definitive,

rimasero tuttavia sempre compito esclusivo dell’uditore.

La scrittura degli atti processuali spettava ai notai attuari, che passarono gradualmente da due a

otto (spesso però coadiuvati da altrettanti aiutanti o sostituti), coordinati da un caponotaio. Ai notai

le costituzioni assegnavano esclusivamente il compito di raccogliere le denunce per sottoporle poi

al giudice, che avrebbe deciso a quali dare corso e quali invece lasciar cadere, e di trascrivere nei

propri registri i verbali degli interrogatori condotti dall’uditore o dai sottuditori. In realtà, a causa

della mole di lavoro che incombeva sul tribunale, molto spesso i notai procedevano essi stessi agli

interrogatori nei processi per delitti poco rilevanti, soprattutto in contado, o agli interrogatori

preliminari nei casi più gravi, sostituendo in tale compito non solo l’uditore ma anche i

10 Sul tema delle grazie concesse dai legati nel XVII e XVIII secolo, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna.

Reati, condanne e grazie, in corso di pubblicazione.

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sottuditori.Tuttavia il lavoro dei notai era costantemente sottoposto al controllo dell’uditore o di un

sottuditore.

L’uditore criminale, i due sottuditori e il caponotaio ricevevano un salario mensile rispettivamente

di 50 scudi il primo e 20 gli altri, ma per ogni atto processuale eseguito spettava loro un compenso,

detto “propina” o “sportula”– che per i notai era l’unica fonte di remunerazione – quantificato da

un tariffario 11, più volte ritoccato nel corso del XVII e XVIII secolo, e ricavato dalle somme a vario

titolo versate da inquisiti e condannati, il cui ammontare complessivo poteva anche superare di tre o

quattro volte il salario fisso.

Il compito di mantenere l’ordine, dare la caccia a banditi e contumaci, arrestare i sospetti e i

testimoni recalcitranti ed eseguire le perquisizioni, spettava al bargello che veniva nominato dal

legato ma che nel suo operato quotidiano eseguiva gli ordini di uditore e sottuditori. Fino al 1579 il

bargello disponeva di 36 uomini, 16 a cavallo e 20 a piedi che, negli anni Ottanta del XVI secolo,

per far fronte alla piaga del banditismo dilagante, furono portati complessivamente a 150, 100 a

cavallo e 50 a piedi, per essere poi di nuovo ridotti rispettivamente a 30 e 40 alla fine dello stesso

decennio. Bargello e sbirri erano stipendiati dalla Camera di Bologna e anche la loro paga subì

diversi aumenti nel corso del tempo. Al pari di uditore, sottuditori e notai, anche bargello e sbirri,

oltre al salario, ricevevano un compenso per ogni arresto o esecuzione di decreto, cui si

aggiungevano le taglie poste sui contumaci che, nei casi di criminali famosi, potevano ascendere a

somme anche notevoli.

Meno di 100 uomini per mantenere l’ordine e coadiuvare gli inquirenti del Torrone, in una città e

in un territorio popolosi ed esteso come quello della Legazione di Bologna che, come abbiamo

detto, comprendeva anche una vasta e aspra zona montuosa di confine, erano veramente pochi 12. Si

deve però ricordare che il tribunale criminale era validamente supportato dai massari delle comunità

di contado e dai loro compagni – cioè i contadini eletti per affiancarli nelle loro mansioni, di solito

poche unità – che avevano funzioni di polizia piuttosto rilevanti. Quando la cavalcata arrivava sul

luogo del delitto, molto spesso il massaro aveva già raccolto a caldo le testimonianze e le voci più

importanti e, non di rado, arrestato gli indiziati 13.

Il tribunale del Torrone, che aveva sostituito quello del podestà 14, giudice anch’esso monocratico

che aveva amministrato la giustizia in età tardo comunale e durante la signoria dei Bentivoglio,

ma che era nominato dagli organi del governo cittadino, rappresentò agli occhi del Senato

bolognese, almeno fino agli anni delle riforme lambertiniane di metà ‘700, la manifestazione più

odiosa del dispotismo romano e una grave minaccia per gli spazi di autonomia e i privilegi più

preziosi di cui godeva – o pretendeva di godere – la città anche dopo la sua annessione allo Stato

della Chiesa 15.

11 Salarii sì del magnifico signore auditore del Torrone, et suo sottouditore, come anco del caponotaio, et suoi sustituti

et notarii cavalcanti, et lor mercedi, et altri ordini per detti notari da osservarsi, Bologna, A. Benacci, 1580. 12 Un’esilità che peraltro non era un tratto peculiare di Bologna e neppure, in generale, dello Stato pontificio. Sulla

consistenza, fama e presunta inefficienza delle forze di polizia nell’Italia moderna, La polizia in Italia nell’età moderna,

a cura di L. Antonielli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.), a

cura di L. Antonielli e C. Donati, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; per lo Stato pontificio, Criminalità e polizia

nello Stato pontificio (1770-1820), a cura di L. Cajani, numero monografico di “Archivi e Cultura”, XXX, nuova serie,

1997. 13 Tuttavia i rapporti fra massari e sbirri raramente erano cordiali. I casi di diverbio erano frequenti e spesso sfociavano

in atti di violenza. I massari, che costituivano una sorta d’interfaccia fra autorità centrale e comunità, inevitabilmente

condividevano, almeno in parte, l’ostilità della popolazione contadina nei confronti delle forze di polizia. 14 Sul tribunale del podestà, M.Vallerani, L’amministrazione della giustizia a Bologna in età podestarile, in “Atti e

Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna”, n.s., vol. XLIII, 1992, pp. 291-316 e Id., La

giustizia pubblica medievale, Bologna, il Mulino, 2005, pp. 113-166. 15 La natura del governo di Bologna e dei suoi rapporti con il potere centrale, anche in tempi recenti, è stata oggetto di

un vivace dibattito, caratterizzato da opinioni fortemente divaricate. Ci limitiamo a ricordare i contributi più

significativi: P. Colliva, Bologna dal XIV al XVIII secolo: “governo misto” o signoria senatoria?, in Storia della

Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, vol. II, Bologna, Bologna University Press, 1977, pp. 13-34; P. Prodi, Il sovrano

pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2006 (prima

edizione 1982); A. Gardi, Lo Stato in provincia; A. De Benedictis, Repubblica per contratto; N. Reinhardt, Quanto è

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In ogni caso, sin dagli anni Trenta del XVI secolo, era evidente che, almeno in un ambito del

governo di grande rilevanza politica, economica e sociale e di altissimo valore simbolico come

l’amministrazione della giustizia criminale, i poteri legatizi e quelli del Senato e delle magistrature

cittadine non erano affatto paritari. Il Torrone era la dimostrazione concreta di come i Padroni

romani, pur disposti a concedere alla seconda città dello stato privilegi ed esenzioni anche rilevanti,

non condividessero affatto l’interpretazione senatoria secondo cui il rapporto fra Santa Sede e

Bologna era simmetrico e di carattere contrattuale e avessero nella capacità di autogoverno del

patriziato della città suddita una fiducia non incondizionata.

Di fatto il tribunale criminale fu l’istituzione su cui si scaricavano gli umori antiromani e le

nostalgie “repubblicane” di parte non piccola del ceto senatorio e cittadino, anche quando le

frustrazioni e le tensioni non erano originate da questioni strettamente legate all’amministrazione

della giustizia. Per tutto il XVI e XVII, e fino agli inizi del XVIII secolo, l’imponente carteggio fra

Senato e ambasciatore bolognese residente a Roma 16 è in rilevante misura occupato dalle proteste,

sempre le stesse, reiterate con toni ora supplichevoli, ora esasperati, ora aggressivi, contro il

comportamento del Torrone e degli sbirri. Un flusso continuo di rimostranze e accuse che,

soprattutto nei decenni centrali del XVII secolo, non di rado chiamavano in causa, talora con toni

tanto espliciti da scandalizzare la corte romana e suscitare la reazione sdegnata e minacciosa di

pontefici e Segretari di Stato, la corresponsabilità dei legati.

I componenti del tribunale criminale, dall’uditore all’ultimo dei notai, erano accusati soprattutto

di corruzione ed avidità e di costruire processi anche per i reati più lievi, che a norma delle

costituzioni avrebbero dovuto essere liquidati con un non luogo a procedere, per moltiplicare le

proprie propine; di prolungare artificiosamente la detenzione degli imputati per costringerli a

“comporsi”; di adottare – contro quanto prescritto dalle costituzioni – tecniche di interrogatorio

suggestive per indurre imputati e testimoni a confessare o a testimoniare il falso; di ricorrere con

troppa facilità ed eccessiva brutalità alla tortura.

Le accuse più frequentemente rivolte al bargello e agli sbirri erano invece quelle di dimostrarsi

vili e inefficienti quando si trattava di contrastare banditi e criminali incalliti e inutilmente brutali

nei confronti invece di poveri disgraziati colpevoli di reati di lieve entità o del tutto occasionali e

involontari; di estorcere con la violenza o le minacce, e sotto i più vari pretesti, indebite

contribuzioni in denaro o in generi alimentari, soprattutto dai contadini delle zone montuose o di

confine, meno capaci degli abitanti della città di far giungere la propria voce al legato o al governo

cittadino; di esercitare, in proprio o in combutta con altri, contrabbandi, frodi e malversazioni di

ogni genere; di assicurare l’impunità ai peggiori farabutti in cambio di denaro o favori.

Tuttavia, nei confronti del preteso dispotismo del Torrone il governo cittadino non era del tutto

privo di strumenti di difesa. Tutti gli imputati, purché non contumaci, avevano diritto al patrocinio

gratuito. La figura dell’avvocato dei poveri, istituita stabilmente nel 1599, godeva di un grande

prestigio; scelto dal papa all’interno di una terna proposta dai dottori dei Collegi canonico e civile di

Bologna, era sempre un cittadino bolognese. Insieme al procuratore dei poveri, egli aveva il diritto

di prendere visione di tutti i processi, una volta conclusasi la fase istruttoria, con un congruo

anticipo rispetto all’emissione della sentenza, di adire senza restrizioni all’uditore per chiedergli

chiarimenti o per segnalargli eventuali irregolarità, lacune o incongruenze del procedimento e di

partecipare, senza diritto di voto, alla Congregazione criminale. Nessun imputato poteva inoltre

essere sottoposto a tortura senza aver ascoltato il parere dell’avvocato.

Inoltre il Senato aveva la facoltà, concessa da Gregorio XIII, e confermata da Gregorio XV, di

partecipare con due propri rappresentanti, accompagnati da altri magistrati cittadini, alla periodica

visita delle carceri fatta da legato e vicelegato e dai loro giudici civili e criminali, durante la quale si

differente Bologna? La città tra amici, padroni e miti all’inizio del Seicento, in “Dimensioni e problemi della ricerca

storica”, n. 2/2001, pp. 107-146. 16 Bologna godeva dell’ambito privilegio di avere un proprio ambasciatore a Roma che poteva adire direttamente al

pontefice nelle udienze ordinarie e straordinarie, così come al Segretario di Stato e agli altri ufficiali della burocrazia

romana, rappresentando perciò in maniera particolarmente efficace le istanze e le rimostranze della città.

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decideva, con procedura abbreviata, la sorte degli imputati per i delitti meno gravi e si ascoltavano

eventuali richieste o lamentele dei carcerati.

Lo strumento “istituzionale” di controllo della giustizia criminale, teoricamente veramente

efficace, che il governo cittadino possedeva era però il “sindacato” dell’uditore, dei sottuditori del

Torrone e del bargello, l’esame cioè del loro operato allo scadere della carica da parte di un collegio

giudicante designato dal Senato. In realtà, tuttavia, i limiti della giurisdizione dei sindacatori

rimasero sempre incerti e oggetto di contenzioso, e tutti i tentativi di estenderne le competenze in

direzione di un vero e proprio scrutinio del modo in cui il tribunale e il bargello avevano esercitato

il proprio ufficio – che inevitabilmente avrebbe chiamato in causa le responsabilità del legato,

quanto meno per non aver esercitato una attenta vigilanza sull’operato dei propri sottoposti – si

scontrarono con la intransigente opposizione della curia romana e si conclusero con cocenti

sconfitte.

1b. Echi del riformismo giuridico settecentesco: il pontificato di Benedetto XIV. Fino al secondo

decennio del Settecento la conflittualità fra governo cittadino e legati in materia di giustizia

criminale continuò ad essere acuta, riproponendo tutti i motivi di scontro che si erano manifestati

nei due secoli precedenti. In seguito però si attenuò fino a che, durante il pontificato di Benedetto

XIV, fu possibile varare una riforma complessiva della giustizia civile e criminale 17 che incontrò la

piena soddisfazione del Senato, tanto che esso chiese ed ottenne che nel preambolo delle

costituzioni stesse si esplicitasse che si trattava di provvedimenti pienamente condivisi.

In realtà si può usare il termine riforma per qualificare l’intervento operato da Benedetto XIV

sulla giustizia, quanto meno su quella criminale, solo con qualche cautela. Le costituzioni

lambertiniane complessivamente non introdussero, né volevano farlo, particolari novità. Esse

miravano piuttosto a riportare in vigore norme, usi e garanzie che erano cadute in desuetudine o

erano state svuotate dagli “abusi” di legati e uditori del Torrone. In questo senso esse erano la

risposta, finalmente positiva, a molte – non tutte – le proteste e le richieste avanzate dal Senato

bolognese nei decenni precedenti e rimaste in massima parte inascoltate e insoddisfatte, ma non

costituivano tanto la traduzione a livello normativo delle idee del protoriformismo giuridico

settecentesco, quanto la ricezione di una raccomandazione alla moderazione e alla mitezza ben

presente nella cultura giuridica dello stato pontificio 18.

Tuttavia non si deve sottovalutare il fatto che le costituzioni, richiamando in vigore in un unico

testo, relativamente breve ma chiaro ed organico, tutta una serie di prescrizioni contenute in

costituzioni papali, bandi e decreti legatizi precedenti, spesso dimenticati, di difficile reperibilità e

fra loro contraddittori, o semplicemente affidate alla consuetudine e sempre soggette a

contestazione, realizzavano una almeno parziale razionalizzazione del sistema e chiarivano molti

punti controversi rimasti irrisolti nei decenni precedenti. Si deve inoltre sottolineare che le norme

recuperate e convalidate e le poche nuove misure introdotte andavano quasi tutte, cautamente ma

coerentemente, in una direzione che potremmo definire garantista.

17 I lavori della commissione incaricata dal pontefice, e da lui stesso presieduta, iniziarono nell’estate del 1742 e si

conclusero nella primavera del 1744 con la pubblicazione de Le cinque constitutioni del Santissimo Signor Nostro

Benedetto XIV, Sommo Pontefice sopra la riforma della Curia civile e criminale di Bologna, Bologna, Stamperia di

Clemente Maria Sassi successore del Benacci, 1744. Tre delle cinque costituzioni erano dedicate esclusivamente o

prevalentemente a materie riguardanti la giustizia criminale, in particolare la disciplina delle cavalcate, della visita dei

carcerati, della congregazione criminale e delle infrazioni alla normativa annonaria. Sulla riforma lambertiniana G.

Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo e le riforme di Benedetto XIV, Bologna,

CLUEB, 2010. 18 Ci limitiamo a ricordare il trattato di Giovan Battista Scanaroli De Visitatione carceratorum libri tres, pubblicato a

Roma dalla tipografia della Camera Apostolica nel 1655. Scanaroli, che per quarant’anni fu procuratore della

Congregazione della Carità di Roma, che si occupava principalmente dell’assistenza ai detenuti, nel contesto di una

appassionata difesa dei diritti degli imputati, fra l’altro esprime seri dubbi sulla liceità e utilità della tortura e

raccomanda di applicarla il meno possibile e comunque con regole e limiti ben precisi.

9

Severe disposizioni furono infatti impartite per fare in modo che i cursori, incaricati di consegnare

le citazioni del Torrone, facessero scrupolosamente il proprio lavoro per evitare, come capitava

spesso, che un imputato si trovasse nella scomoda posizione di contumace, o un testimone risultasse

essersi rifiutato di comparire, solo perché non gli era stato notificata la convocazione del tribunale.

Non di rado infatti i cursori, soprattutto d’inverno e nelle zone di montagna, consegnavano le

citazioni con grande ritardo, o non le consegnavano affatto, pur intascandosi la mercede prevista. Fu

ribadito il divieto di infiltrare tra i carcerati sbirri o altre persone prezzolate dal Torrone che

suggerissero loro di confessare il delitto o, ai testimoni, “altre circostanze per la prova del delitto”,

in quanto contrario alle leggi e alla coscienza, precisando che se estorte in questo modo le

confessioni e le prove sarebbero state nulle e i trasgressori puniti ad arbitrio del legato.

Una delle accuse che più di frequente erano mosse al Torrone era quella di trattare i testimoni a

carico e a discarico in maniera non equa, infliggendo a quelli a favore dell’imputato, con i più

diversi pretesti, lunghe detenzioni per indurli a deporre nel senso desiderato dagli inquirenti. Su

questo punto la normativa preesistente era piuttosto generica e le costituzioni intervennero in

maniera energica, chiarendo che i testimoni a discarico potevano essere carcerati solo ove si fossero

raccolte prove o indizi sufficienti per incriminarli a loro volta per falsa testimonianza.

Un’altra accusa mossa ai notai che verbalizzavano i processi era quella di non rileggere le

deposizioni a imputati e testimoni e di non farle loro confermare e firmare col proprio nome o con

una croce convalidata da due testimoni. In questo caso si trattava di un evidente abuso, perché le

prescrizioni in materia erano chiare. Le costituzioni ribadirono tale obbligo, pena la nullità di tutte

le deposizioni e dichiarazione non convalidate. Infine fu confermato l’assoluto divieto di applicare

la tortura senza aver prima acquisito il parere dell’avvocato dei poveri, che doveva valutare se gli

indizi raccolti a carico dell’imputato erano sufficienti per sottoporlo ai torment i, e del perito

chirurgo che doveva accertare se era in grado di sopportarli senza riportare danni gravi o

permanenti.

Altre disposizioni riguardavano la condizione dei carcerati. Furono confermate le

raccomandazione già contenuta nelle costituzioni borromaiche di limitare al massimo la durata della

carcerazione preventiva e quindi di chiudere i processi al più presto possibile; di evitare qualsiasi

forma di maltrattamento o di violenza ingiustificata; di tenere le celle il più pulite e arieggiate

possibile; di provvedere al vitto dei carcerati che non potevano farlo a proprie spese. La prassi che

prevedeva l’assoluto isolamento in segreta durante tutta la fase dell’istruttoria fu mantenuta in

vigore, ma mitigata dalla possibilità per il carcerato di conferire con il procuratore dei poveri, o con

un parente stretto, per provvedere a interessi personali o familiari importanti e urgenti. L’incontro

doveva però avvenire alla presenza di un ufficiale del Torrone per evitare lo scambio

d’informazioni e istruzioni relative al processo.

Particolarmente importanti erano le prescrizioni riguardanti la visita dei carcerati. La visita, come

già accennato, era stata istituita da Gregorio XIII e avrebbe potuto costituire uno strumento

abbastanza efficace di controllo dell’operato del tribunale criminale, ma dalle fonti da noi esaminate

si ricava l’impressione che essa fosse caduta in desuetudine già dagli inizi del XVII secolo, in parte

per gli ostacoli frapposti da uditori e legati, in parte per lo scarso entusiasmo mostrato dalle autorità

cittadine per un compito impegnativo e poco gradevole. Le costituzioni la reintrodussero con

qualche modifica: ne resero più agile la composizione limitando la presenza dei rappresentanti della

città ai due senatori, ma la resero obbligatoria almeno una volta al mese e soprattutto concessero ai

detenuti la possibilità di conferire con i due senatori privatamente, lontano dagli occhi e dalle

orecchie degli ufficiali del Torrone, facilitando così la denuncia di eventuali abusi e irregolarità. La

possibilità di conferire con i due senatori fu estesa anche ai detenuti in regime d’isolamento, in

questo caso però il colloquio doveva avvenire alla presenza di un sottuditore o di un notaio. Dopo la

riforma lambertiniana la visita in effetti si svolse abbastanza regolarmente con la partecipazione dei

due senatori previsti dalle costituzioni, accompagnati da un notaio che redigeva un accurato verbale

in cui erano annotate le richieste e lamentele dei carcerati, e le criticità eventualmente riscontrate

nella gestione del carcere e nel trattamento dei detenuti.

10

Di grande rilievo erano poi le misure riguardanti i diritti della difesa degli imputati e le modalità

con le quali doveva agire il collegio giudicante, ma anche in questo caso si trattava soprattutto del

ripristino di pratiche e norme cadute in desuetudine. Agli imputati fu riconosciuto il diritto di

scegliersi un difensore di propria fiducia, contro l’uso invalso ormai da lungo tempo di ammettere

alla difesa solo l’avvocato e il procuratore dei poveri. Fu ribadito però che solo i due difensori di

ufficio potevano presenziare alla Congregazione criminale, senza diritto di voto, ma fu altresì

precisato che essi avevano diritto di partecipare alla discussione dei casi all’ordine del giorno

dall’inizio alla fine. Alcuni legati avevano infatti preteso che i difensori si limitassero a presentare

le loro argomentazioni a favore degli imputati all’inizio della seduta per poi allontanarsi, senza

poter partecipare alla discussione e assistere alla decisione finale.

Per fare in modo che il collegio giudicante arrivasse preparato alla discussione in Congregazione,

furono inoltre definitivamente approvati il “ristretto” e la “congregazioncina”: si trattava di pratiche

che alcuni legati in anni recenti avevano adottato di propria iniziativa, ma che non erano previste

dalle costituzioni e dallo “stile” del Torrone. Benedetto XIV, ritenendole estremamente utili, pur

consapevole che avrebbero accresciuto notevolmente il carico di lavoro del tribunale, volle renderle

obbligatorie. Il ristretto era il riassunto scritto delle cause da decidere in congregazione che il capo

notaio doveva far pervenire a tutti i membri del collegio giudicante con un congruo anticipo; la

“congregazioncina” era una riunione informale, alla quale partecipavano l’uditore, i sottuditori,

l’avvocato e il procuratore dei poveri, in cui si discutevano i punti dubbi e controversi dei processi

da portare alla congregazione successiva.

Anche nei confronti dei contumaci, le cui cause venivano decise non in Congregazione, ma dal

solo uditore senza obbligo di consultarsi con l’avvocato dei poveri, fu introdotta una misura di

carattere garantista, l’obbligo cioè di giudicare anche i loro casi nella Congregazione criminale

qualora fossero imputati di reati passibili della pena capitale. In concreto la norma riguardava un

numero notevole di imputati perché secondo la legislazione bannimentale, in presenza di

circostanze aggravanti, ad esempio la recidiva, era possibile infliggere la pena di morte per una

gamma molto ampia di reati, anche se raramente, almeno nel XVIII secolo, tale possibilità veniva

utilizzata, e ancor più raramente le sentenze capitali, anche se pronunciate, venivano eseguite.19 In

realtà, nella prassi del Torrone già da tempo si era introdotto l’uso di sospendere l’esecuzione della

condanna a morte o alla galera nel caso di latitanti caduti nelle mani della giustizia, permettendo

loro di godere della difesa come tutti gli altri imputati, ma era la prima volta che una misura

chiaramente volta ad attenuare la sommarietà del giudizio in contumacia, riportandolo alla

procedura normale, veniva introdotta in una norma di legge.

Le costituzioni lambertiniane intervennero anche sul delicato tema del sindacato, e anche in

questo caso vennero incontro alle richieste avanzate dal Senato nei decenni precedenti, rimuovendo

alcuni degli abusi più frequenti commessi dai legati per proteggere i propri sottoposti dal giudizio

sul loro operato e sciogliendo una serie di punti controversi su cui fino a quel momento nessun

pontefice aveva voluto pronunciarsi in maniera netta 20.

Per tutti questi motivi non è dunque improprio parlare di riforma lambertiniana, e come tale

comunque la accolsero – con entusiasmo autentico – i ceti dirigenti bolognesi, per i quali, da quel

momento, il Torrone cessò di essere una presenza estranea, ostile e oppressiva e cominciò invece a

essere visto come il baluardo più rassicurante contro una micro criminalità diffusa, alimentata dalla

crisi dei settori produttivi tradizionali e dalla crescente povertà, che minacciava in modo sempre più

aggressivo le loro persone e i loro beni 21.

19 Le sentenze capitali eseguite a Bologna furono 57 dal 1700 al 1750, 27 dal 1751 al 1796. 20 Benedetto XIV era particolarmente sensibile al problema del sindacato. Molti anni prima della sua ascesa al soglio

pontificio egli infatti aveva coordinato il collegio legale che aveva difeso le ragioni di Bologna nel sindacato contro il

sottuditore del Torrone Bartolomeo Lotti, protetto e sostenuto da gran parte della curia romana. Il processo Lotti si era

concluso con una umiliante sconfitta per Bologna e per Prospero Lambertini. Su questo episodio G. Angelozzi, C.

Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 113-124. 21 Sul problema della povertà nel ‘700 bolognese F. Giusberti, Poveri bolognesi, poveri forestieri e poveri inventati: un

progetto di “rinchiudimento” nel XVIII secolo, in “Storia urbana”, n. 13, 1980, pp. 31-54 e Id., La città assistenziale:

11

Come abbiamo detto, la pluralità delle fonti normative era una delle caratteristiche del

“particolarismo giuridico” di antico regime che precedette l’età delle codificazioni. Per quel che

riguarda il criminale la situazione, apparentemente, era più semplice. Le norme statutarie – lo

statuto cittadino risaliva al 1454 – non erano mai state formalmente abrogate 22, neppure dopo

l’inserimento di Bologna nello Stato della Chiesa ma, di fatto, non avevano più alcuna validità. Il

ricorso al diritto comune rimaneva teoricamente possibile e a esso fece, raramente, riferimento

l’avvocato dei poveri per contestare decisioni del tribunale ritenute troppo rigorose o arbitrarie. In

concreto però l’unica fonte normativa, per quel che riguardava la definizione del reato e

l’applicazione della pena, era la legislazione bannimentale, ed esclusivamente ad essa facevano

riferimento le sentenze emesse dall’uditore del Torrone. Tuttavia il corpus bannimentale, a causa

del sistematico ricorso alla etero integrazione 23, costituiva un groviglio inestricabile. Ogni legato,

oltre a pubblicare una serie di bandi su materie particolari, al momento dell’assunzione della carica

emetteva un bando generale, in cui venivano elencate e sanzionate le diverse fattispecie criminali.

Ogni bando, particolare o generale, non sostituiva però quelli precedenti, cui anzi rimandava, per le

materie in esso non esplicitamente disciplinate. La legislazione criminale si costruiva perciò per

accumulo e sovrapposizioni, ingenerando inevitabilmente confusione e incertezza. Già agli inizi del

XVII secolo la situazione era ormai ingestibile e il legato Benedetto Giustiniani, senza però

abrogare il principio della eterointegrazione, procedette a un riordino della normativa criminale con

un bando generale 24 che costituì il riferimento della legislazione successiva fino alla metà del

XVIII secolo.

Tuttavia alla fine del XVII secolo la situazione era di nuovo critica, come il Senato denunciò più

volte chiedendo, invano, provvedimenti:

Conoscendosi per esperienza quanto sia dannosa l’introduttione di confermare nel principio d’ogni legatione con

una general confermatione li bandi precedenti [...] perché detti bandi sono di numero infiniti, altri fra di loro contrari, altri publicati per occasioni particolari, e terminate, altri antichissimi tanto che di loro se n’è appresso

tutti perduta la memoria, altri per la loro conosciuta impratticabilità posti affatto in disuso, altri concepiti con

equivoci intricatissimi, altri pieni di conditioni e cautele strettissime, in maniera tale che con tanta confusione

riesce impossibile ancora a chiunque camina con ogni rettitudine il non cadere in qualche leggiera

contraventione 25.

La richiesta di razionalizzazione e semplificazione della legislazione bannimentale fu finalmente

accolta durante il pontificato di Benedetto XIV che aveva già provveduto alla riforma di quella

romana nel 1754, a completamento di una serie di interventi riguardanti diversi aspetti del

funzionamento della giustizia 26. Nel 1756, il legato Fabrizio Serbelloni pubblicò un nuovo bando

generale redatto, in due anni di lavoro, da una commissione composta da alcuni senatori,

dall’uditore del Torrone Filippo Mirogli e dall’avvocato dei poveri Luigi Nicoli. Come nel caso

riflessioni su un sistema piramidale, in Forme e soggetti dell’intervento assistenziale in una città di antico regime,

Bologna, Istituto per la storia di Bologna, vol. 2, 1986, pp. 13-29; sui rapporti fra pauperizzazione, criminalità e politica

della giustizia criminale, G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 139-144. 22 A. De Benedictis, L’applicazione degli statuti bolognesi del 1454 nella pratica giudiziario-amministrativa del ‘600-

‘700, Bologna, Archivio di Stato di Bologna, 1989. 23 Sul principio di eterointegrazione, per cui un testo normativo non è esaustivo e autosufficiente, ma rimanda ad altri,

G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 515-517. 24 Bando generale dell’ill.mo e rev. mo signor Benedetto cardinal Giustiniani legato di Bologna, pubblicato alli 23

giugno e reiterato alli 24 luglio 1610, Bologna, Vittorio Benacci. 25 Archivio di Stato di Bologna (di seguito ASB), Ambasciata, Memoriali, vol. 3, 14 novembre 1676. 26 La portata complessiva delle riforme di Benedetto XIV in materia di giustizia è stata forse sottovalutata e attende

ancora di essere studiata con un’ottica più attenta alle dinamiche di lungo periodo. Di questa opinione sembra G.

Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia. La riforma dell’amministrazione della giustizia

criminale nei lavori preparatori del Motu Proprio del 1816, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 11-12.

12

delle costituzioni del Torrone, il nuovo bando generale era frutto della collaborazione fra governo

cittadino e rappresentanti del papa 27.

A esigenze di semplificazione, coerenza, chiarezza della norma ed equità e moderazione della

pena faceva riferimento il bando nel proemio, riconoscendo che il bando Giustiniani era ormai

abbisognevole di rimodernazione, perché alcune delle sue disposizioni erano troppo esorbitanti dal gius comune,

e non eseguibili giusta il presente sistema di giudicare nelli Tribunali supremi di questo Stato Ecclesiastico, altre

non corrispondenti alli posteriori Bandi, e Costituzioni Apostoliche, ed altre non adattabili al costume presente.28

Quello di Serbelloni era certo un bando generale, nel solco della tradizione dello Stato pontificio,

non certo un codice di cui non aveva l’autosufficienza – il principio di eterointegrazione rimaneva

in vigore – né la sistematicità 29, e tuttavia per certi aspetti esso può essere considerato un passo

significativo in direzione della codificazione e una cauta apertura nei confronti di alcuni principi

che possiamo genericamente qualificare come riconducibili al riformismo giuridico settecentesco 30,

Si trattava infatti di un testo che, malgrado lo spazio ancora attribuito all’arbitrium 31 del giudice,

in qualche misura risentiva delle suggestioni contemporanee «vers l’idée du renforcement des

principes de légalité dans l’incrimination des delinquants, afin que l’exécution de leurs peines soit

le moins possible marquée par l’arbitraire de leurs juges» 32 e, a tal fine, si sforzava di definire con

la massima precisione possibile, più di quanto non avesse fatto il bando Giustiniani 33, la tipologia

dei reati, le circostanze attenuanti ed aggravanti e le pene relative, riducendo così di fatto i margini

di discrezionalità del giudice. L’impressione che se ne ricava è quella di una concezione della

giustizia meno incline alle pene draconiane ed esemplari del secolo precedente, suggerita dalla

convinzione che quella bolognese – quanto meno negli strati medio alti – fosse ormai una società

generalmente meno violenta rispetto a quella governata centocinquanta anni prima dal cardinal

Giustiniani 34.

La tendenza a introdurre elementi di garantismo e di attenuazione degli aspetti più arbitrari e

feroci della legislazione preesistente, evidente nel bando, non si traduce però in una significativa e

sistematica mitigazione delle pene che anzi, per alcuni delitti che destano particolare riprovazione o

allarme sociale, risultano addirittura aggravate. Le pene corporali, così come la pena di morte,

anche con modalità atroci, come il tanagliamento con ferri roventi, il mazzolamento e lo

squartamento del cadavere, per i delitti più gravi come il parricidio o l’assassinio proditorio,

vengono confermate. Rispetto al bando Giustiniani, in quello Serbelloni c’è però una più precisa e

minuta classificazione dei reati di sangue, delle circostanze aggravanti ed attenuanti e delle relative

pene, il cui scopo evidente è quello di circoscrivere l’arbitrio del giudice. Tuttavia è anche evidente

l’intento di sanzionare con durezza ogni forma di violenza contro la persona, riducendo il peso di

circostanze attenuanti come l’ira, l’ubriachezza, l’umore e l’intelletto alterato che, nella prassi del

27 Bando generale della legazione di Bologna e suo contado fatto publicare li 12 ottobre 1756 dall’Eminentissimo e

Reverendissimo sig. Cardinale Fabrizio Serbelloni, Legato a latere di detta Città, in Bologna, per Clemente Maria

Sassi Successore del Benacci per la Stamperia Camerale. Per una più puntuale trattazione dei lavori preparatori del

bando Serbelloni e dei suoi contenuti, G. Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale in una città di antico regime,

pp. 219-246. 28 Bando Serbelloni, pp. 1-2. 29 Per una definizione di codice e una sintetica storia della codificazione, G. Tarello, Storia della cultura giuridica

moderna, pp. 18-47. 30 Sul riformismo giuridico settecentesco, Beccaria et la culture juridique des lumières, études historiques éditées et présentées par Michel Porret, Genève, Librairie Droz, 1997. 31 Sul principio della discrezionalità del giudice e sulla sua importanza nel diritto medievale e moderno, M. Meccarelli,

Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, Giuffré, 1998. 32 M. Porret, Une peine en «juste proportion du crime»: le rôle du procureur général de Genève dans la limitation de

l’arbitraire (1760-1790), in Beccaria et la culture juridique des lumières, p. 253. 33 Il bando Giustiniani consta di 38 capitoli, quello Serbelloni di 68. 34 Sulla pacificazione della società bolognese nel XVII e XVIII secolo, G. Angelozzi, C. Casanova, La nobiltà

disciplinata. Violenza nobiliare, procedure di giustizia e scienza cavalleresca a Bologna nel XVII secolo, Bologna,

Clueb, 2003.

13

Torrone, avevano in molti casi risparmiato i rigori delle pene ordinarie a colpevoli anche di delitti

efferati 35.

Ancora più evidente è l’adozione di una linea rigorista nei confronti del furto, per il quale, in caso

di circostanze aggravanti quali la recidiva, l’effrazione, o l’elevato valore dei beni rubati, si arrivava

a comminare la pena capitale. Pene tanto dure, che il legato sentì il bisogno di giustificarle:

non v’è paragone fra la gravezza dell’omicidio, e quella del furto [...] perché non proporzionata è al valore di

pochi bajocchi la vita di un suddito [...] ma se così lo è, per qual motivo dunque il furto forza il Principe egualmente, che l’omicidio ad esercitar contro di esso ogni rigore, ed in alcune circostanze a punirlo con egual

pena di morte?

A questa domanda retorica Serbelloni risponde che il furto rispetto all’omicidio “è di sua natura

reiterabile” e “seguendone la frequenza” diventa perniciosissimo.36 Sono norme che vogliono

evidentemente dare una risposta rassicurante all’allarme sociale determinato dal problema di una

diffusa microcriminalità provocata dalla disoccupazione e dalla miseria, che in quegli anni si stava

facendo sempre più acuto. Vanno nella stessa direzione, tenere la città “purgata” da tutti gli

elementi indesiderabili, le disposizioni relative all’espulsione di oziosi e vagabondi e di questuanti

troppo aggressivi e molesti, che peraltro non fanno che confermare i tanti inutili bandi emanati in

materia nei due secoli precedenti.

Non è però opportuno valutare il bando Serbelloni esclusivamente con il metro della severità delle

pene e della riduzione dello spazio riservato alla discrezionalità del giudice. In esso, rispetto al

bando Giustiniani, è possibile rintracciare rilevanti elementi di “modernità” che sembrano anticipare

tematiche che avranno ampio sviluppo nella legislazione criminale del XIX secolo. In primo luogo

la trattazione di alcune fattispecie di reati economici che, definiti e trattati molto genericamente nel

bando Giustiniani, sono affrontati da Serbelloni con un’analiticità che denota la volontà di normare

una sfera divenuta sempre più complessa e sfuggente, e la capacità di maneggiare con padronanza

l’imponente trattatistica che si era misurata con i diversi aspetti tecnici, giuridici e morali delle

profonde trasformazioni intervenute nell’economia e nella società nel secolo e mezzo che

intercorreva fra i due bandi 37. Il notevole spessore tecnico e culturale del bando Serbelloni si ricava

ad esempio dalla puntuale analisi di reati come truffa, ricettazione, monopolio, concussione e

falsificazione.

Per molti aspetti tuttavia il bando Serbelloni rimane ancorato ai valori e alla cultura di una società

aristocratica in cui anche la giustizia ha connotazioni cetuali. Nel trattare, minutamente, i reati

contro l’onorabilità delle persone si precisa ad esempio che le offese contro i nobili o contro le

donne oneste sono più gravi e meritano pene più severe di quelle che colpiscono le persone comuni

o le prostitute. Al furto, alla truffa, al danneggiamento commesso dai servitori o dai contadini

contro i loro padroni, si dedica un capitolo a parte, nonostante si tratti di fattispecie già trattate

ampiamente in altri capitoli del bando. Tuttavia, è soprattutto per la volontà di disciplinare in ogni

più minuto aspetto i comportamenti individuali e sociali che il bando Serbelloni si situa in una sorta

di terra di confine fra le disposizioni pontificie dei decenni precedenti volte a imporre a tutte le

classi sociali una sorta di galateo cristiano e gli asfissianti regolamenti di polizia della

Restaurazione ossessivamente preoccupati di prevenire e reprimere qualsiasi atto suscettibile di

turbare l’ordine pubblico.

35 Bando Serbelloni, pp. 29-30. 36 Ivi, p. 55. 37 Su tale trattatistica, P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna, il Mulino,

2009 cui si rimanda anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.

14

2. Bologna negli anni della dominazione francese: un laboratorio politico.

2a. Una rivoluzionaria ed effimera restaurazione della libertà bolognese. Il 18 giugno 1796 le

truppe francesi entrarono in Bologna e il 20 il generale Bonaparte, con un discorso pubblico tenuto

nella sala in cui si riuniva il Senato, promise che avrebbe restituito alla città la sua antica libertà

repubblicana.

Informato anche prima del suo arrivo delle antiche prerogative e privilegi lasciati alla città e provincia quando

venne in potere dei Pontefici e come questi erano stati in ogni tempo lesi affermò inoltre che avrebbe restituito alla città stessa la sostanza del suo antico governo; laonde restava abolita ogni autorità vigilante sin qui e

concentravasi per ora tutto il potere legislativo e governativo nel Senato onde dar luogo a più matura

deliberazione per ridonare alla città, dipendentemente anche dall’opinione pubblica, quella forma di governo che

si approssimasse all’antica.38

Parole che riecheggiavano, e accoglievano, le rivendicazioni dell’antica libertas che per due secoli

il Senato bolognese aveva tenacemente avanzato contro il dispotismo pontificio. Per alcuni mesi in

effetti il governo cittadino, sia pure sotto il controllo delle truppe francesi, tornò nelle mani del

Senato che nominò una giunta con il compito di redigere una costituzione che, non senza qualche

vivace polemica riguardante soprattutto l’eccessiva dipendenza da quella francese del 1795, il

ruolo della chiesa cattolica e quello delle corporazioni di mestiere, fu approvata il 4 dicembre del

1796 39.

La Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino con cui essa si apriva, ricalcava

alla lettera quella della Costituzione francese del 1795 in cui il tema del rapporto del cittadino con

la giustizia criminale trovava ampio rilievo: si affermava infatti che “niuno può essere citato,

accusato, arrestato, o detenuto, fuorché nei casi, e giusta la forma prescritta dalla legge” (art. VIII);

che “ogni rigore men che necessario per assicurarsi della persona dell’imputato deve essere

severamente vietato dalle legge” (art. X); che “niuno può essere condannato senza prima essere

ascoltato, o legalmente citato” (art. XI); che “la legge non deve determinar pene che non siano

rigorosamente necessarie e proporzionate al delitto” e che “qualunque rigore diretto ad aggravare la

pena decretata dalla legge è un delitto” (art. XI e XII); che nessuna legge può avere effetto

retroattivo (art. XV).

Solenni affermazioni di principio che, nel testo costituzionale del 1795, dopo la drammatica

esperienza del Terrore, ripetevano quelle della costituzione del 1789 e avevano un significato

preciso di rottura rispetto alla tradizione giudiziaria dell’antico regime francese 40. Si trattava

tuttavia di prescrizioni che, nella sostanza, non rappresentavano una vera discontinuità rispetto alle

costituzioni e alla prassi del tribunale del Torrone, né al bando generale di Serbelloni, tranne forse

per la nettezza con cui si prescriveva di ridurre al minimo necessario le pene, e non solo di

adeguarle alla gravità del delitto, richiamo chiaro all’opera di Beccaria e più in generale a temi dell’

“illuminismo penale” 41 che nella cultura giuridica dello Stato pontificio non avevano mai trovato

piena accoglienza 42.

38 Il discorso di Napoleone e i successivi provvedimenti presi per conferire al Senato il potere esecutivo e legislativo in

Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’ingresso delle truppe francesi accaduto il XVIII

giugno MDCCXCVI, in Bologna, nella stamperia camerale, parte I. 39 Sulla costituzione bolognese del 1796, A. De Benedictis, Bologna nello Stato della Chiesa secondo il diritto delle

genti e il diritto pubblico (1780-1831), in Storia di Bologna, vol. 4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, a cura di A. Berselli e A. Varni, Bologna, Bononia University Press, 2010, pp. 150-156. Una ricostruzione dei lavori preparatori

in A. Fantazzini, Le istituzioni giudiziarie bolognesi nell’età rivoluzionaria e il sistema della cassazione nella

procedura civile cispadana, tesi di laurea discussa nell’a.a. 2002-3 presso la Facolta di Lettere e Filosofia di Bologna,

relatrice F. Sofia, pp. 56-70. Il testo della costituzione bolognese, così come di quelle successive, è in Le costituzioni

italiane, a cura di A. Aquarone, M. D’Addio, G. Negri, Milano, Edizioni di Comunità, 1958. 40 Una sintetica e chiara esposizione della organizzazione giuridica della Francia di antico regime in G. Tarello, Storia

della cultura giuridica moderna, pp. 69-84. 41 L’espressione “illuminismo penale” è adottata da G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 383-484. 42 G. Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, p. 10.

15

Notevoli novità troviamo invece nel capitolo IX che disciplinava l’ordinamento giudiziario della

neonata repubblica bolognese, seguendo anche in questo caso le linee guida del modello francese,

ma con non pochi adattamenti alla tradizione locale. Rispetto al passato costituivano una decisa

cesura l’introduzione della separazione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; la collegialità

del tribunale 43, composto di giudici eletti dal potere legislativo e non dall’esecutivo; la pubblicità

del dibattimento e il diritto dell’imputato di conoscere il capo di accusa, farsi assistere da un

difensore e chiedere di ascoltare testimoni a discarico fin dall’inizio del procedimento; la

distinzione del giudizio in tre fasi nettamente distinte – sulla fondatezza o meno dell’accusa, sulla

natura e qualità del delitto, sulla pena da applicare – la abolizione dell’arbitrium del giudice, la

previsione infine dell’ istituto dell’appello che, nel criminale, era praticamente sconosciuto nella

prassi giudiziaria dello Stato pontificio. Di notevole rilievo era infine la creazione, nei centri più

importanti del territorio della Repubblica, di una figura nuova, il giudice di pace, incaricato di

esperire la conciliazione fra le parti e, in caso di fallimento, di giudicare sommariamente i reati più

lievi. Anch’essa derivava dal modello rivoluzionario francese, ma non era del tutto estranea a

pratiche e istituzioni precedenti 44.

Appartenevano invece piuttosto al passato la conservazione dell’obbligo per i giudici di sottoporsi

a sindacato alla fine del mandato; la perpetuazione delle cavalcate, di cui si aboliva l’odiato nome,

ma non la sostanza, prevedendosi, nei casi in cui il tribunale lo ritenesse necessario, l’invio di un

processante e un notaio per svolgere le prime indagini sul luogo del delitto in collaborazione con il

locale giudice di pace; l’obbligo per il difensore pubblico – che aveva ereditato le funzioni

dell’avvocato dei poveri – di difendere indifferentemente tutti gli imputati, anche quando si fossero

scelti un difensore di propria fiducia. La costituzione bolognese infine mantenne in vigore la pena di

morte, mentre dichiarò abolita la tortura, che peraltro, nella prassi del Torrone nella seconda metà

del ‘700, era divenuta molto rara 45. Quanto alla legislazione penale, in attesa di redigerne una

nuova, veniva confermata, “compatibilmente coll’attuale governo”, quella in vigore sotto il

precedente 46 e infatti, in perfetta continuità con le disposizioni in materia previste dal bando

Serbelloni, nel luglio si ingiungeva a “forestieri oziosi, vagabondi e questuanti che non siano in

grado di mantenersi” di lasciare la città entro tre giorni, pena un mese di carcere o addirittura tre

anni di lavori forzati per coloro che, una volta espulsi, vi fossero tornati 47.

La repubblica bolognese durò pochi mesi e la sua costituzione non entrò mai in vigore.

Nonostante le resistenze dei suoi delegati al congresso di Modena, Bologna dovette entrare a far

parte della Repubblica cispadana, la cui costituzione fu promulgata il 19 marzo del 1797 48. Come

quella bolognese, la costituzione cispadana riprendeva integralmente la Dichiarazione dei diritti e

doveri dell’uomo e del cittadino e nel titolo X, riguardante il potere giudiziario, trattando della

giustizia correttiva e criminale, dedicava ben undici articoli – tutti di univoca ispirazione garantista

– alla disciplina dell’arresto e detenzione dei sospettati, introducendo fra l’altro l’istituto della

libertà provvisoria su cauzione che poteva essere concessa solo per i reati minori che erano però i

43 Il tribunale era composto da un presidente, un pubblico censore (accusatore), dodici giudici del fatto, tre del diritto,

tre processanti, tre assessori, un pubblico difensore, un procuratore e un sollecitatore (art. 150) 44 Il giudice di pace è figura importata dalla Francia: e tuttavia le funzioni attribuitegli, ad esempio quella di collaborare

alle indagini svolte dalla sezione itinerante del tribunale, sono in parte riconducibili a quelle dei massari di antico

regime, mentre quella di conciliazione appare come l’istituzionalizzazione di pratiche di pacificazione e negoziazione

ben presenti nella tradizione, non solo bolognese, di antico regime. La storiografia su queste tematiche è ormai molto

vasta, ci limitiamo perciò a rimandare al bilancio e alla messa a punto metodologica di M. Sbriccoli in, Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessione su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in

Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età

moderna, a cura di M. Bellabarba, G. Schwerhoff e A. Zorzi, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 345-364, e Giustizia

criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, pp. 163-205, e a Stringere la pace. Teorie e pratiche

della conciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII), a cura di P. Broggio e M. P. Paoli, Roma, Viella, 2011. 45 Angelozzi, C. Casanova, La giustizia criminale a Bologna nel XVIII secolo, pp. 152-153. 46 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte II, pp. 19-20. 47 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte III, pp. 4-5. 48 G. De Vergottini, la costituzione della repubblica cispadana, Firenze, Sansoni, 1946.

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più numerosi. Si trattava di una norma di rilevante impatto perché consentiva di rendere meno

drammatico il problema della durata del processo, limitando la carcerazione ai casi più gravi, ma

che non rappresentava un’assoluta novità rispetto alla prassi del Torrone 49. Si ribadivano inoltre i

principi della netta separazione fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario e della pubblicità del

dibattimento e della sentenza – che doveva essere motivata – nei tribunali collegiali, già presenti

nella costituzione bolognese, e si introduceva quello della gratuità della amministrazione della

giustizia. L’amministrazione della giustizia era decentrata e articolata sul territorio, suddiviso

secondo il modello francese in dipartimenti, cantoni, circondari e sezioni e demandata a giudici

monocratici o a tribunali collegiali, a seconda della gravità del delitto e della pena prevista,

adottando uno schema organizzativo dell’apparato giudiziario che sarà mantenuto anche durante la

Restaurazione.

L’istituto dell’arbitrato fra le parti, inappellabile, era previsto solo per le cause civili, ma non per

quelle penali come nella costituzione bolognese. I delitti che comportavano una pena non superiore

ai tre giorni di prigione erano di competenza dei giudici di pace, uno o più per cantone, eletti dai

cittadini per due anni e immediatamente rinnovabili, che decidevano anche le cause civili di più

lieve entità. I delitti per cui erano previste pene non superiori a due anni di carcere erano invece di

competenza di tribunali correzionali, composti da un presidente, eletto ogni anno dai cittadini del

cantone e rinnovabile, due giudici di pace, un commissario rappresentante il potere esecutivo e un

cancelliere, tribunali di cui si prevedeva l’erezione in ogni dipartimento, e il cui numero e

ubicazione sarebbe stata decisa con apposita legge. Le sentenze pronunciate dal correzionale erano

appellabili presso il Tribunale criminale, mentre non lo erano quelle dei giudici di pace 50.

Per i delitti più gravi, era prevista la costituzione di due giury presso ogni tribunale correzionale:

il primo, detto di accusa, doveva giudicare sulla ammissibilità, il secondo, detto di giudizio e

composto di almeno dodici membri, sulla fondatezza della accusa. L’accusato aveva il diritto di

ricusare un certo numero di giurati, senza doverne addurre i motivi. La determinazione della pena

spettava però al tribunale criminale, che deliberava in segreto, istituito in ogni capoluogo di

dipartimento e composto da almeno tre giudici del tribunale civile, da un accusatore pubblico, da un

commissario dell’esecutivo e da un cancelliere. Compito del commissario era di vigilare sulla

regolarità formale di tutto il procedimento e di sollecitare l’esecuzione delle sentenze.

La costituzione prevedeva anche l’istituzione di un tribunale di cassazione con la facoltà di

annullare, per vizi di forma o contravvenzione della legge, le sentenze inappellabili, e di decidere

sulle richieste di rinvio del giudizio da un tribunale a un altro per legittimo sospetto o motivi di

sicurezza pubblica; non si specificava però se le sue competenze si estendessero anche alle cause

criminali.

La costituzione cispadana recepiva dunque in molti punti lo spirito garantista e democratico delle

costituzioni francesi del 1789 e 1793, introducendo norme precise e rigorose volte a proteggere i

cittadini da ogni abuso, stabilendo i principi della elettività dei giudici, del pubblico dibattimento e

della motivazione della sentenza, introducendo la doppia giuria popolare e prevedendo

l’appellabilità dal tribunale correzionale a quello criminale. Con palese contraddizione non era

49 Era nella facoltà del legato e dell’uditore del Torrone concedere, previa fideiussione, gli arresti domiciliari oppure

scarcerare l’imputato con “precetto de se representando”, di ripresentarsi cioè a ogni richiesta del tribunale. In genere

tale trattamento era riservato a imputati eccellenti che potevano permettersi fideiussioni consistenti, ma non di rado lo

abbiamo trovato applicato anche a persone comuni e certo non ricche. 50 Bologna fu divisa in quattro cantoni – S. Maria Maggiore, S. Domenico, S. Francesco e S. Giacomo – ciascuno con

un giudice di pace. Il territorio del dipartimento fu diviso in nove circondari: Castel San Pietro; Medicina con Castel

Guelfo e Villa Fontana; Budrio, con Molinella e Bagnarola; San Giorgio, con Minerbio e Baricella; Bisenzo, con

Castiglione e Mercatale; Bazzano e Crespellano; Vergato e Venola; Porretta e Silla; Loiano e Scaricalasino, ciascuno

con un giudice di pace. Il tribunale criminale del dipartimento del Reno aveva sede a Bologna, i quattro tribunali

correzionali a Bologna, Medicina, Vergato e Loiano, cfr. Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XVIII, pp. 12-13

e Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica

Cisalpina, in Bologna, eredi Sassi, parte XV, pp. 110-115 e parte XXII, pp. 12-13.

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prevista l’appellabilità, se non per vizi di forma alla Cassazione, per le sentenze del tribunale

criminale che pure poteva irrogare le pene più gravi fino a quella capitale, ma in questo caso l’

inappellabilità era in larga misura bilanciata dai due giudizi preventivi delle giurie.

Come la costituzione bolognese, anche quella Cispadana rimase sulla carta a causa della creazione

della Repubblica Cisalpina la cui costituzione fu fatta approvare da Napoleone in fretta e furia l’8

luglio 1797 e fu poi sostituita da un’altra, di impronta decisamente più autoritaria, imposta dal

ministro francese Trouvé con la minaccia delle armi il 1 settembre 1798. Entrambe, peraltro, in

materia di giustizia criminale non introducevano novità rilevanti rispetto al testo costituzionale

cispadano.

Subito dopo l’approvazione della nuova costituzione della Cisalpina, con apposita legge

pubblicata il 2 settembre del 1798 fu però meglio definita l’organizzazione dei tribunali e della

polizia giudiziaria 51. Si stabiliva che in ogni distretto, comprendente diversi comuni, in cui erano

divisi i dipartimenti, ci dovesse essere un giudice di pace, con quattro assessori, due dei quali

dovevano coadiuvarlo nel disbrigo della giustizia criminale per i reati più lievi, costituendo il

tribunale di polizia. Si prevedeva però la possibilità di suddividere i comuni con una popolazione

superiore ai 15.000 abitanti in diverse circoscrizioni ciascuna delle quali con un proprio giudice di

pace. I giudici di pace e i loro assessori criminali, per lo svolgimento delle indagini, potevano

contare sull’assistenza della polizia giudiziaria, alle dipendenze degli agenti municipali nei comuni

con meno di 10.000 abitanti e di un commissario in quelli con popolazione superiore. In ogni

dipartimento dovevano esserci tre tribunali correzionali composti ciascuno da un presidente, da due

giudici di pace del comune in cui era insediato il tribunale – o dal giudice di pace e un suo assessore

nei comuni in cui c’era un solo giudice di pace –, un commissario del Direttorio e un cancelliere.

Le sentenze dei tribunali correzionali erano appellabili su istanza del condannato, della parte

querelante, o del commissario. Le istanze di appello venivano decise dal presidente del tribunale

criminale e da due giudici di quello civile che potevano rigettare l’istanza o annullare la sentenza

del correzionale. In tal caso, se l’annullamento era deciso per motivi di merito, il giudizio veniva

rinviato al correzionale che l’aveva pronunciato; se invece l’annullamento era motivato da vizi di

forma la causa veniva affidata ad un altro correzionale dello stesso dipartimento che doveva rifare il

procedimento a partire dal primo atto dichiarato nullo. Anche dopo il giudizio di appello era

comunque prevista la possibilità del ricorso in cassazione.

In ogni dipartimento c’era infine un tribunale criminale, composto da un presidente, da due

giudici del tribunale civile presi a turni di tre mesi e da un accusatore pubblico. Il compito del

tribunale era esclusivamente quello di applicare le pene previste dalla legge per i delitti di cui il

giury di giudizio aveva riconosciuto colpevole l’accusato. In ciascun dipartimento erano previsti tre

giury di accusa, ciascuno composto da otto giurati e presieduto dal presidente del corrispondente

tribunale correzionale. I giurati dovevano assistere al processo pubblico tenuto presso il

correzionale e decidere, in segreto e a maggioranza semplice, se l’accusa mossa all’imputato era

ammissibile o meno. Nel caso il verdetto fosse sfavorevole all’imputato, un nuovo dibattimento

pubblico aveva luogo presso il tribunale criminale alla presenza del giury di giudizio composto da

dodici membri, che si pronunciava, sempre in segreto e a maggioranza semplice, sulla colpevolezza

o meno dell’accusato. I giurati erano estratti a sorte ogni tre mesi all’interno di tre liste, ciascuna

comprendente cento nomi scelti dall’amministrazione dipartimentale, e gli imputati avevano il

diritto di ricusare fino a venti giurati di giudizio, senza addurne i motivi, rendendo così necessarie

più estrazioni successive. Si trattava di una norma decisamente garantista, ma come abbiamo detto

l’istituto della giuria rimase sulla carta.

2b. La giustizia delle Repubbliche e del Regno: il controllo dell’esecutivo. D’altra parte anche

l’organizzazione dei tribunali e della polizia giudiziaria, previsto dalla legge del settembre 1798,

rimase praticamente inattuata a causa della disastrosa situazione finanziaria della giovane

51 Legge sull’organizzazione de’ Tribunali, in Raccolta delle leggi, editti, proclami pubblicati in Bologna, anno VI,

parte I, pp. 32-68.

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repubblica, dissanguata dalle esorbitanti contribuzioni di guerra imposte dalle autorità militari

francesi, e dei drammatici avvenimenti del 1799. Assunto il controllo della Cisalpina, gli austriaci

infatti smantellarono immediatamente quel poco del sistema giudiziario costituzionale che era stato

realizzato, ripristinando la situazione precedente l’arrivo dei francesi 52.

Napoleone riprese il controllo dell’Italia settentrionale nel giugno del 1800, ma la guerra

continuava e la situazione nei territori della Cisalpina, il cui governo provvisorio fu affidato a una

commissione straordinaria, che aveva fra l’altro il compito di avviare la riorganizzazione del

sistema giudiziario, rimase ancora confusa e incerta fino alla pace di Lunéville del 9 febbraio 1801.

Alla fine del 1800 l’amministrazione della giustizia versava ancora in una situazione di sostanziale

paralisi 53.

La costituzione della Repubblica italiana approvata dalla Consulta di Lione il 26 gennaio 1802 54,

e la successiva legge relativa alla organizzazione, giurisdizione, competenze e funzioni dei tribunali

emanata il 22 luglio dello stesso anno 55, introdussero rilevanti elementi di novità. Nella

costituzione l’istituto del giury veniva confermato, ma se ne fissava la attivazione “non più lontana

di dieci anni” 56; in realtà le giurie, come abbiamo detto estranee alla tradizione giuridica italiana,

non entrarono mai in funzione e nella costituzione del Regno di Italia del 1805 non se ne fece più

menzione. In quanto ai giudici, sia civili che criminali, continuavano ad essere formalmente elettivi

quelli dei tribunali di cassazione e di revisione, ma da parte dei tre collegi elettorali dei dotti, dei

possidenti e dei commercianti, un corpo composto di appena settecento persone per tutta la

Repubblica; tutti gli altri erano invece nominati dalla Consulta all’interno di una lista di nomi

fornita dai presidenti dei tribunali di cassazione, di revisione e di appello. La loro carica, la cui

durata nelle costituzioni cisalpine era stata fissata in sei anni, diveniva vitalizia, ma si prevedeva

che i giudici potessero essere sospesi o destituiti per mancanze relative al loro ufficio, a giudizio

insindacabile del gran giudice nazionale, cioè il ministro della giustizia, nominato a vita dal

presidente della Repubblica. L’amministrazione della giustizia, dopo le aperture democratiche del

periodo giacobino, tornava a essere monopolio di un corpo di professionisti nominati da un corpo

elettorale molto ristretto e controllati dal potere esecutivo 57 e tale linea di tendenza venne in seguito

ribadita e rafforzata dalla costituzione del Regno che demandava la nomina dei giudici direttamente

al sovrano 58.

52 A Bologna ad esempio furono aboliti i giudici di pace e il tribunale criminale e ripristinati gli antichi uffici da utile,

l’uditore del Torrone e il tribunale arcivescovile, cfr. Serie degli editti, bandi e leggi promulgate in Bologna dopo il

felice ingresso delle regie truppe di S.M.I.A seguito il giorno 30 giugno 1799, t. I, p. 8; t. III, pp. 48-49; t. V, pp. 40-43;

t. VI, pp. 57-59; t. XI, p. 42. 53 Collezione delle leggi, proclami ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi seguito il 28

giugno 1800, per le stampe del Sassi, parte X, p. 17. 54 Sulla Consulta di Lione A. Varni, La Consulta di Lione e la Costituzione del 1802, in “Rivista di Studi Napoleonici”,

n. 28-29, 1971, pp. 16-43. 55 Legge relativa alla organizzazione, giurisdizione, competenze e funzioni dei Tribunali, in Bollettino delle leggi della

Repubblica Italiana, 1802, pp. 157-160. 56 I problemi della giustizia criminale, a differenza di quella civile, non furono molto dibattuti dai deputati della

Consulta. Una delle questioni più discusse fu appunto quella delle giurie. Molti deputati, fra cui Marescalchi, Aldini,

Melzi e Serbelloni si dichiararono sempre piuttosto scettici sull’opportunità di introdurle nella costituzione,

argomentando che era necessario procedere prima alla uniformazione e codificazione della legislazione dei diversi

territori che erano confluiti nella Repubblica italiana. Alla fine però si convenne di inserire nel testo costituzionale le due giurie rimandandone però di fatto sine die l’attivazione e aumentando semmai il numero dei componenti dei

tribunali in modo che potessero dividersi in sezioni per sveltire i procedimenti. Della giuria si fece menzione solo “per

risvegliare nel popolo un’idea di questa istituzione”, come annotarono i deputati del Piemonte e della Valtellina, cfr. I

Comizi nazionali in Lione per la Costituzione della Repubblica italiana, a cura di U. Da Como, Bologna, Zanichelli,

1934-38, vol. 1, pp. 254, 261, 295, 571; vol. 2, p. 170. 57 A. Varni, La Consulta di Lione, pp. 41-42. 58 G. Alessi, Il processo penale, pp. 151-163 e P. Alvazzi del Frate, Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari, pp.

41-42. In genere sui rapporti fra potere politico e potere giudiziario nell’Europa moderna e contemporanea, Magistrati e

potere nella storia europea, a cura di R. Romanelli, Bologna, il Mulino, 1997.

19

La legge del 22 luglio ridisegnò invece il sistema dei tribunali: fino a quando non fossero state

costituite le giurie previste dalla costituzione, la giustizia punitiva sarebbe stata esercitata dai pretori

– l’istituto del giudice di pace non aveva mai trovato attuazione perché ritenuto troppo costoso e

poco efficiente – dai luogotenenti, dai tribunali di appello, uno in ciascun capoluogo di dipartimento

e, in alcuni casi, dai tribunali di revisione, due per tutta la Repubblica, con sede a Bologna e a

Milano, e dalla cassazione istituita a Milano.

I pretori, almeno uno per ogni capoluogo di dipartimento e per ogni comune con popolazione

superiore ai 50.000 abitanti, e i loro luogotenenti dislocati nei comuni più piccoli, avrebbero

giudicato sommariamente i delitti per cui erano previste pene non superiori a 100 lire di multa e 15

giorni di carcere, salva sempre la possibilità di ricorso al tribunale di appello. Nei casi in cui la pena

prevista fosse superiore, ma comunque inferiore a un anno di detenzione, il pretore, o un suo

luogotenente, avrebbe istruito il processo “col metodo ordinario”, e la sentenza sarebbe stata poi

pronunciata collegialmente dal pretore e da due suoi luogotenenti, udito l’accusatore pubblico e il

procuratore nazionale. Anche in questo caso era previsto il ricorso al tribunale di appello. Nei casi

di pena detentiva superiore a un anno il processo informativo sarebbe stato istruito dal pretore o da

un luogotenente, dopodiché gli atti del processo sarebbero stati trasmessi al tribunale di appello,

insieme a un parere, puramente consultivo, del pretore stesso e di due suoi luogotenenti. La

sentenza sarebbe stata pronunciata dal tribunale, dopo un pubblico dibattimento in cui dovevano

essere ascoltate le parti, il difensore dell’accusato e il procuratore nazionale.

Era previsto che dal tribunale di appello si potesse appellare alla cassazione, ma solo per nullità

degli atti per vizi di forma o manifesta contravvenzione della legge. Nel caso tuttavia di una

condanna pronunciata dal tribunale nei confronti di un imputato assolto in prima istanza, oppure

trasmesso al tribunale con voto assolutorio del pretore e dei suoi luogotenenti, era prevista la

possibilità di ricorrere al tribunale di revisione di competenza su richiesta del condannato o del

procuratore.

La legge faceva inoltre obbligo ai pretori di inviare ogni mese al tribunale di appello l’elenco

degli arrestati con data e motivo dell’arresto e una breve relazione sullo stato del processo e ogni

anno un estratto delle sentenze e dei voti consultivi. Il tribunale avrebbe poi trasmesso tali relazioni

periodiche al commissario di governo insediato presso il tribunale stesso, il cui compito era appunto

quello di controllare che l’apparato giudiziario funzionasse a dovere. Iniziava così una prassi di

monitoraggio del funzionamento della giustizia che, come vedremo, avrebbe avuto grande fortuna,

e imprevedibili conseguenze, durante la Restaurazione 59.

L’attivazione del sistema giudiziario previsto dalla costituzione e dalla legge del 1802, come

peraltro l’organizzazione amministrativa della Repubblica, procedette tuttavia con lentezza e

difficoltà 60. Ancora nel marzo del 1804 il ministro della giustizia Bonaventura Spannocchi doveva

riconoscere che molto si era fatto, ma che molto rimaneva da fare e che il sistema giudiziario aveva

ancora un assetto provvisorio 61. Tale rimase in effetti fino al Regolamento organico 62 del 1807 che

modificò in maniera incisiva l’assetto stabilito nel 1802 reintroducendo il giudice di pace al posto

del pretore, e istituendo in ogni dipartimento una corte di prima istanza che, articolata in sezioni

decentrate nelle località più importanti del dipartimento stesso, svolgeva la funzione di tribunale

correzionale per i reati punibili fino a due anni di carcere, e, nella sua pienezza – cioè con la

partecipazione di almeno otto giudici – deliberava in materia di alto criminale, cioè per i reati più

gravi.

59 La legge non lo prevedeva, ma presto fu fatto obbligo ai commissari di governo di spedire al ministro della giustizia

una relazione mensile sul funzionamento dei tribunali di appello. La circolare del ministro spedita il 6 agosto 1802

ricordava infatti che non vi era “oggetto che più vivamente interessi il mio istituto quanto quello di invigilare perché

l’amministrazione della giustizia, massimamente nelle materie criminali, ottenga il corso più celere e regolare”, cfr.

Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, 1802, p. 227. 60 L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica. Repubblica e regno d’Italia, Bologna, il Mulino, 1983. 61 Foglio officiale della Repubblica Italiana, anno III, pp. 11-15. 62 Regolamento organico della giustizia civile e punitiva pubblicato il 13 giugno del 1807, in Bollettino delle leggi della

Repubblica Italiana, 1806, parte II, pp. 625-663.

20

Caratteri di provvisorietà conservarono a lungo anche le norme di procedura del processo penale e

la stessa legislazione penale sostanziale. Nonostante sin dalla costituzione della Cispadana il

problema della codificazione fosse stato avvertito come urgente, solo nel 1807 fu varato il codice di

procedura preceduto da una sistemazione provvisoria, in attesa del codice che sarebbe entrato in

vigore solo il 1 gennaio 1811, della normativa penale. I numerosi tentativi di riformare la procedura

compiuti fra 1797 e 1807 infatti fallirono, oppure produssero esiti parziali o ritenuti non pienamente

soddisfacenti, o non applicabili a causa della disorganizzazione dell’apparato giudiziario.63 Fino al

1807 perciò i sempre auspicati uniformazione e adeguamento ai principi costituzionali dei sistemi

giudiziari rimasero più un’aspirazione che una realtà e di fatto, per tutti gli aspetti non disciplinati

dai provvedimenti cui abbiamo fatto cenno, si continuò a fare riferimento alle norme e alle prassi

seguite dai tribunali esistenti prima dell’arrivo dei francesi 64.

Il codice di procedura del 1807 distingueva fra delitti pubblici e privati: per i primi l’azione

penale procedeva d’ufficio ed era promossa presso i giudici di pace dal locale commissario di

polizia e presso i tribunali correzionali e criminali dai procuratori regi, rappresentanti del governo,

che avevano anche il compito di controllare la regolarità dei procedimenti, di vegliare

sull’osservanza delle leggi e delle procedure e sul rispetto delle competenze giurisdizionali, di

sollecitare la spedizione delle cause e l’esecuzione delle sentenze; per i secondi l’azione penale

poteva essere avviata solo su istanza della parte offesa per tutelare il proprio interesse civile.

Il processo era diviso nettamente in due fasi: quella istruttoria, che sostanzialmente seguiva il

modello inquisitorio di antico regime, contraddistinto dalla scrittura degli atti e dalla segretezza, e

quella dibattimentale, orale e pubblica. A sua volta la fase istruttoria era divisa in due parti:

l’informazione preliminare, con cui le autorità di polizia con procedura rapida e relativamente

informale raccoglievano le prime notizie sul fatto delittuoso e ne assicuravano alla giustizia il

presunto autore, e l’istruzione regolare, consistente nelle ricognizioni del luogo e del corpo del

delitto, negli interrogatori dei sospettati e dei testimoni e nell’espletamento di ogni altro

adempimento processuale. L’istruzione regolare era condotta con procedura relativamente

sommaria, ma sempre per iscritto, dal giudice di pace nelle cause di polizia o, con procedura invece

molto formalizzata, pena la nullità degli atti, da un giudice istruttore, che in nessun caso poteva

essere uno dei giudici incaricati di sentenziare, designato dal presidente del tribunale nelle cause

correzionali e criminali. Di sapore garantista era la disposizione, innovativa rispetto al tradizionale

processo inquisitorio, secondo la quale, per i reati più gravi di competenza del tribunale criminale,

nella fase finale dell’istruttoria veniva consentito all’imputato di prendere visione degli atti

processuali e di farsi assistere da un difensore per chiedere eventualmente l’acquisizione di altre

prove e testimonianze prima della chiusura dell’istruttoria stessa. Seguiva la fase dibattimentale,

pubblica, in cui si dava lettura della citazione e dei processi verbali, si ascoltavano le parti e i loro

testimoni e infine le conclusioni del pubblico ministero e del difensore dell’imputato.

Terminata la fase dibattimentale, il tribunale deliberava collegialmente e in segreto pronunciando

un giudizio di fatto, sulla sussistenza o meno delle prove a carico dell’imputato, e uno di diritto, l’

applicazione cioè della pena prevista dalla legge. In camera di consiglio, abolito il sistema della

63 I tentativi più importanti di codificazione furono le Leggi organiche giudiciarie della Repubblica Cisalpina del 3 agosto 1797, pubblicate a Milano da Pirola e Veladini e a Bologna dal Sassi, la già ricordata legge del 22 luglio 1802 e

la Legge sugli omicidi, le ferite e i furti, e sulle prove e sull’applicazione delle pene del 25 febbraio 1804, in Bollettino

delle leggi della Repubblica Italiana, 1804, pp. 86-112. Sul lungo lavorio che lo precedette e per una puntuale analisi

del Codice, E. Dezza, Il codice di procedura penale. 64 Nei dipartimenti dell’Olona, Lario, Alto Po e Mincio fino al 1807 si continuò a seguire la legge interinale emanata da

Giuseppe II nel 1786, che dal 1804 fu introdotta anche in quelli del Serio, Reno, Mella, Basso Po e Agogna; nei

dipartimenti del Crostolo, Panaro e Rubicone si continuarono invece a seguire le vecchie norme. Le conseguenze di tali

difformità erano gravi soprattutto nel caso dei procedimenti portati in appello ai Tribunali di Revisione e a quello di

Cassazione, giudicati in prima istanza da corti che applicavano procedure diverse.

21

prova legale 65, prevalente nel processo penale di antico regime assieme all’arbitrium dell’uditore,

si applicava il principio del libero convincimento del giudice, bilanciato però, sia nella fase

istruttoria che in quella dibattimentale, da una disciplina severa e marcatamente garantista della

raccolta, classificazione e valutazione delle prove, secondo regole formali precise e dettagliate.

Mentre delle sentenze pronunciate dal correzionale si poteva appellare al tribunale criminale, per

quelle pronunciate da quest’ultimo si poteva ricorrere alla Cassazione per vizi di forma o

contravvenzione della legge, oppure al tribunale d’appello, ma solo in caso di pena capitale. Nel

complesso, quello del 1807, era un codice di procedura che presentava elementi di chiarezza e

coerenza, ma anche criticità e contraddizioni perché derivava

dal rapporto tra due coordinate che possono essere individuate da un lato nel principio di libertà (ovvero nella

garanzia dei diritti individuali), e dall’altro nel principio di autorità (ovvero nelle ragioni di difesa dello stato e

della società, peraltro non sempre coincidenti).66

Questa ricerca di un equilibrio fra diritti individuali e ragion di stato non era invece la cifra del

codice penale italico del 1811, pura e semplice traduzione di quello francese del 1810, ispirato da

un’antropologia cupa e pessimista, ben diversa dall’ottimismo filantropico e dalla mitezza del

codice del 1791. Il codice del 1810

è l’imponente monumento legislativo di un assolutismo di ritorno ove il principio di legalità e i suoi corollari

sono funzionalizzati a un rigoroso disegno statualistico: siamo di fronte a una macchina da guerra al servizio del

cesarismo napoleonico e insieme a uno strumento imperialistico di impressionante potenza.67

Il codice distingueva fra diversi gradi e tipologie della pena: afflittive e infamanti, come quella di

morte, i lavori forzati a vita e a tempo, la deportazione, la reclusione, il marchio a fuoco e la

confisca dei beni; solo infamanti, come la berlina, il bando e la degradazione civica; correzionali,

quali la detenzione per periodi relativamente brevi, l’interdizione temporanea da alcuni diritti civici,

la multa. Tuttavia la difesa intransigente della sicurezza dello stato, dell’ordine pubblico e della

proprietà 68, si traduceva in un sistematico rigore che sconfinava nella spietatezza, reintroducendo

forme di punizione atroci e degradanti che ignoravano le considerazioni umanitarie

dell’illuminismo giuridico e sembravano ricondurre all’antico regime 69.

La pena di morte era prevista per oltre trenta fattispecie di reato e nel caso del parricidio, cui

erano assimilati l’attentato o la cospirazione contro la persona del sovrano, l’esecuzione era

preceduta dal taglio della mano destra. Come nella legislazione di antico regime, quasi tutti i delitti

contro la sicurezza dello stato erano puniti non solo con la morte, ma anche con la confisca dei beni

che il codice del 1791 aveva abolito. Veniva reintrodotto l’uso barbaro della pubblica marchiatura a

fuoco per i condannati ai lavori forzati a vita, e quello della gogna, meno feroce ma altrettanto

irrispettoso della dignità della persona. Era ripristinata la pena dei lavori forzati a vita che il codice

del 1791 aveva escluso in nome della possibilità di redenzione per qualsiasi condannato, non solo

per l’omicidio volontario con circostanze attenuanti, ma anche per reati meno gravi come il furto

violento, la subornazione di testimoni, la falsificazione di monete di rame o biglione, mentre per i

falsari di monete di oro e di argento si applicava la pena di morte. Per i complici era prevista la

65 Nel sistema della prova legale la legge predetermina esattamente la forza probatoria di ciascuna prova e il giudice

deve adeguarsi, mentre nel sistema del libero convincimento il giudice può valutare liberamente il peso delle prove, cfr.

G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, pp. 390-391 e G. Alessi, Il processo penale, pp. 104-108. 66 E. Dezza, Il codice di procedura penale, p. 379. 67 A. Cavanna, Il codice penale napoleonico. Qualche considerazione generalissima, in Codice dei delitti e delle pene

pel Regno d’Italia (1811), ristampa anastatica, Padova, CEDAM, 2002, p. XIII. 68 P. Lascoumes, P. Poncela, P. Lenoël, Au nom de l’ordre. Une histoire politique du code pénal, Paris, Hachette, 1989. 69 M. A. Cattaneo, L’autoritarismo penale napoleonico, in Codice dei delitti e delle pene, pp. XXV-XXXIV.

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stessa pena inflitta agli autori principali del delitto, così come al semplice conato a delinquere quella

del delitto compiuto, in nome del principio dell’intentio delinquenti 70.

Analoga durezza si riscontra nelle modalità di esecuzione delle pene: ad esempio i condannati ai

lavori forzati erano costretti ai lavori più pesanti ed insalubri, incatenati a due a due, oppure con una

palla di ferro al piede. Anche il principio della certezza della pena, ben presente nel codice del

1791, e vivamente raccomandato dall’illuminismo giuridico per limitare al minimo la

discrezionalità del giudice, tipica della legislazione penale di antico regime, veniva applicato solo

parzialmente, prevedendosi in molti casi un intervallo molto ampio fra il minimo e il massimo della

pena edittale.

E’ stato notato che il Code francese del 1810 certamente rifletteva in modo sostanzialmente fedele

l’evoluzione della sensibilità giuridica verificatasi in Francia durante il drammatico ventennio che

lo aveva preceduto 71, meno quella dei giuristi italiani che continuarono invece a vedere un modello

da imitare nel più mite ed equilibrato, ma mai approvato, progetto di codice penale italico del 1806,

che ispirò le codificazioni italiane successive, in direzione della attenuazione delle asprezze del

codice del 1811 72.

Se la sensibilità dei giuristi italiani inclinava alla moderazione delle pene, quella degli uomini che

si erano succeduti al governo delle repubbliche Cisalpina e Italiana prima, e del Regno d’Italia poi,

propendeva piuttosto per i modi sbrigativi di amministrare la giustizia e mantenere l’ordine

pubblico introdotti dalle autorità militari francesi. Da una parte l’aumento della criminalità

provocato dalle turbolenze politiche e militari, dalla pesante fiscalità introdotta per sopperire alle

contribuzioni di guerra e alle spese di una macchina amministrativa sempre più complessa ed

onerosa e dalle resistenze alla coscrizione obbligatoria, dall’altra la disorganizzazione, la lentezza e

l’inefficienza del sistema giudiziario, nonché l’eccessivo garantismo e mitezza spesso rimproverati

ai magistrati 73, indussero le autorità ad adottare misure straordinarie. Già nell’agosto del 1797

Bonaparte rilevava che

La molta lentezza finora adoperata nei giudizi criminali, nel tempo che il Pubblico è straordinariamente infestato

da’ ladri e che la pubblica sicurezza è in manifesto notorio pericolo […] rende necessaria un’istantanea riforma

de’ Tribunali di Giustizia. 74

Come abbiamo visto, l’organizzazione dei tribunali repubblicani non fu affatto istantanea e così

nel novembre successivo l’amministrazione centrale del Reno, recependo una indicazione

proveniente dal governo centrale, e già adottata da altre amministrazioni, in considerazione del fatto

che

In alcuni Dipartimenti, ora che i Tribunali Costituzionali non sono per ancora posti in attività, si commettono

atroci delitti […] e che li Tribunali di giustizia attualmente esistenti, e per la molteplicità delle procedure, e per la

troppa prolissità del sistema giudiziario e criminale, ritardano la giusta punizione de’ delinquenti,

70 R. Isotton, Archetipi francesi ed austriaci dell’intimidazione penale. La repressione del delitto tentato dalla

Giuseppina al Code Pènal del 1810, in Codice dei delitti e delle pene, pp. CXVI-CXVII. 71 M. Da Passano, I Tribunali francesi e il progetto Target. La parte generale, in Codice dei delitti e delle pene, pp.

XXXV- LXVIII. 72 A. Cadoppi, Le “formule recise di assoluto rigore” del code pénal. Alla ricerca di una plausibile “tradizione penalistica italiana”, tramite un’analisi delle reazioni italiane al codice francese del 1810, in Codice dei delitti e delle

pene, pp., CCV- CCXXXII. 73 Quali fondamenti avesse questa accusa è impossibile dirlo in assenza di una analisi puntuale dell’operato dei tribunali

italici del periodo repubblicano e napoleonico. L’esame delle circa 50 sentenze emesse dal Tribunale d’Appello dei

dipartimenti di Reno, Rubicone e Basso Po fra 16 luglio e 18 agosto 1800, riportate in Collezione delle leggi, proclami

ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi, parte V, pp. 64-68, sembra in effetti confermare

una certa tendenza alla mitezza nella qualificazione delle fattispecie criminali e nella applicazione delle pene, ma si

tratta di un campione troppo esiguo per consentire conclusioni di carattere generale. 74 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte I, p. 17.

23

istituì una Commissione criminale militare composta da “cinque probi e illuminati cittadini quali

militarmente, cioè con procedura sommaria e senza appello abbiano a giudicare” omicidi, rapine e

furti qualificati 75. Si prevedeva che tale commissione sarebbe rimasta in attività per breve tempo,

fino alla costituzione dei tribunali costituzionali, ma nel giugno del 1798 essa fu prorogata per

reprimere colla maggior prontezza ed energia i delitti che intaccano direttamente il sacro diritto di proprietà,

attentano alla sicurezza individuale, inceppano le operazioni e i trasporti necessari al pubblico servigio e alla

prosperità nazionale.

Una misura resa necessaria dal fatto che

Una lenta ma indispensabile forma giudiciaria era il debole ed inefficace riparo che opponevano le antiche leggi

per difendere la pubblica sicurezza. Disimpegnata la commissione da un tale sistema essa farà prontamente

succedere la punizione al delitto […] la spada della giustizia sarà inesorabile nelle sue mani contro chiunque si

renderà autore di un delitto.76

I tribunali speciali, con vari nomi e competenze, continuarono a essere regolarmente prorogati o

abrogati per breve tempo per essere immediatamente ricostituiti, fino alla fine del regime

napoleonico 77, infliggendo pene draconiane con le procedure sbrigative del codice militare. Con

truce retorica, la commissione criminale militare dei dipartimenti di Reno e Lamone nel luglio del

1798 proclamava:

Il sangue degli assassini, e dei perfidi fuma sui palchi. Allorché la Legge, e i primari Poteri della Repubblica ci

costituirono vindici dei misfatti, giurammo l’isterminio dei reprobi. Noi non abbiamo mentito. La guerra fu

intimata a questi mostri, e molti di costoro sogiacquero alla manaia del carnefice […] noi non faremo tregua coi

delinquenti. Ovunque saranno perseguitati. Alla rapidità della nostra carriera non porranno ostacolo né le

formalità e lentezze del foro, né la seducente eloquenza dei Difensori. Il Codice militare, indeclinabile norma dei nostri passi, non altro imperiosamente c’inculca, che giustizia, celerità, rigore. Le voci di pietà, e di clemenza

devono onninamente tacere. Il giudice non può essere né pietoso, né clemente senza oltraggiare la Giustizia 78.

Commissioni militari, tribunali speciali, misure straordinarie di polizia furono gli strumenti cui fu

affidata la tutela dell’ordine pubblico e del “sacro diritto di proprietà” durante il ventennio francese 79, seme di una pianta che sarebbe cresciuta rigogliosamente durante la Restaurazione.

75 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte VIII, pp. 84-87. 76 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XIX, pp. 8-10 e 17. 77 Nel marzo del 1808 fu abolita la commissione militare ricostituita per l’ennesima volta nel luglio del 1805, ma fu sostituita da corti speciali con il compito di giudicare con procedura sommaria praticamente ogni reato contro la persona

o la proprietà con violenza o altre aggravanti, Bollettino delle leggi della Repubblica Italiana, 1808, parte I, pp. 222-

229. 78 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti, parte XXII, pp. 42-43. 79 A. Varni, Bologna napoleonica. Potere e società dalla repubblica Cisalpina al regno d’Italia (1800-1806), Bologna,

Boni, 1973; L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica; C. Zaghi, l’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno,

Torino, Utet, 1986; P. Alvazzi del Frate, Le istituzioni giudiziarie degli “Stati romani” nel periodo napoleonico (1808-

1814), Roma, La Goliardica, 1990; L. Cajani, La criminalità romana nelle statistiche napoleoniche, in Criminalità e

polizia nello Stato pontificio, pp. 101-132.

24

3. La Restaurazione giudiziaria.

3a. Il ripristino delle’autonomie di Bologna: una speranza di breve durata. Si narra che il

procuratore generale della corte d’appello di Roma Le Gonidec, che lasciava l’Italia dopo la

sconfitta del suo imperatore, incontrasse sul Frejus papa Pio VII che vi tornava. Il procuratore aveva

tutte le ragioni per aspettarsi parole amare da parte del pontefice che invece lo trattò con grande

cortesia e lo ringraziò per il modo in cui aveva amministrato la giustizia a Roma in sua assenza 80.

L’episodio, se non è vero, è ben inventato. Se nelle province di prima recupera, dove del resto il

modello francese non aveva avuto il tempo di radicarsi, la Restaurazione fu realizzata Si narra che il

procuratore generale della corte d’appello di Roma Le Gonidec, che lasciava dal cardinal Rivarola

in modo da ripristinare quasi integralmente lo status quo ante, nelle ex Legazioni e nelle Marche il

pontefice e il Segretario di Stato Consalvi procedettero in modo da cambiare i nomi delle istituzioni

del Regno di Italia ma da conservarne, in alcuni casi, la sostanza. In fin dei conti Napoleone nell’ex

Stato pontificio aveva realizzato quel processo di accentramento e di uniformità amministrativa che

i papi avevano perseguito sin dal XVI secolo con risultati assai limitati e al quale, sia pure con

qualche importante concessione al passato, sia Pio VII che Consalvi ritennero di non dover

rinunciare, come con grande chiarezza dichiarava il preambolo del Motu proprio del 1816 81:

Noi riflettemmo in primo luogo, che la unità, ed uniformità debbono essere le basi di ogni politica istituzione

[…] Questa certezza c’indusse a procurare per quanto fosse possibile la uniformità del sistema in tutto lo Stato

appartenente alla Santa Sede […] Mancava ancora al Nostro Stato quella uniformità, che è così utile ai pubblici,

e privati interessi, perché formato colla successiva riunione di Dominij differenti, presentava un aggregato di usi,

di leggi, di privilegi fra loro naturalmente difformi, cosicché rendevano una Provincia bene spesso straniera

all’altra, e talvolta disgiungeva nella Provincia medesima l’uno dall’altro Paese […] Ma la sempre ammirabile

Provvidenza Divina, la quale sapientemente dispone le cose in modo, che talvolta d’onde sovrastano maggiori

calamità, indi sa trarre anche copiosi vantaggi, sembra che abbia disposto, che le stesse disgrazie de’ trascorsi tempi, e l’interrompimento medesimo della Nostra Sovranità aprissero la strada ad una tale operazione, allorché

pacificate le cose si dasse luogo alla ripristinazione delle legittime podestà. Noi dunque credemmo di dover

cogliere questo momento per compire l’opera incominciata.

Il Motu proprio infatti ripartì il territorio dello Stato pontificio – con l’eccezione di Roma e del

territorio circostante denominati “Comarca” e soggetti ad un regime particolare – in 17 Delegazioni

divise in tre classi a seconda della loro importanza. Le cinque delegazioni di prima classe –

Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì e Urbino – erano affidate al governo di un cardinale legato e

prendevano perciò il nome di Legazioni. Ogni delegato era assistito da due assessori e da una

congregazione governativa composta di quattro membri e ogni Legazione o Delegazione era divisa

in governi di prima e seconda classe, retti ciascuno da un governatore o vicegovernatore laico.

Legati, delegati, assessori, governatori e membri della commissione governativa erano nominati dal

papa e dalla Segreteria di Stato. Dopo gli avvenimenti del 1831, le Legazioni di Bologna, Ravenna

e Forlì furono affidate a prolegati laici, ma dopo la caduta della Repubblica Romana e mentre era

ancora in atto l’occupazione militare austriaca, le quattro Legazioni furono affidate a commissari

straordinari, tutti ecclesiastici 82.

80 L’episodio è narrato da L. Madelin, La Rome de Napoléon. La domination francaise a Rome 1809-1814, Paris, Plon, 1906, p. 680. Un bilancio complessivamente positivo dell’amministrazione della giustizia a Roma durante il periodo

napoleonico in P. Alvazzi del Frate, Le istituzioni giudiziarie degli “Stati romani” nel periodo napoleonico (1808-

1814), Roma, La Goliardica, 1990. 81 Motu proprio della Santità di nostro Signore Papa Pio Settimo in data del 6 luglio 1816 sulla organizzazione

dell’Amministrazione Pubblica. 82 Una rapida e chiara esposizione dell’organizzazione amministrativa e giudiziaria dello Stato pontificio dalla

restaurazione all’unità d’Italia in E. Lodolini, L’amministrazione periferica e locale nello Stato Pontificio dopo la

Restaurazione, e L’ordinamento giudiziario civile e penale nello Stato Pontificio (sec. XIX), in “Ferrara viva”, anno I,

n.1, 1959, pp. 5-32 e 43-73.

25

Per quel che riguarda la giustizia penale il Motu proprio rappresentò un compromesso 83 fra le

posizioni di chi, come l’arcivescovo di Bologna Carlo Oppizzoni, riteneva che nell’esperienza

francese ci fosse molto da salvare e chi invece, come il cardinal Tommaso Bernetti, era del parere

che il sistema giudiziario introdotto da Napoleone fosse inutilmente complesso e costoso e che il

processo previsto dal Codice del 1807 richiedesse

un giro vorticoso di affari, entro il quale sono essi sempre in movimento tale, che non si arriva a condurli a fine

se non a grandissimo stento […] e per questo anti–rivieni si esiggono sempre mille spese, le quali passando per mille mani si augumentano sempre colla proporzione della caduta dei gravi: Nel sistema antico questo

inconveniente non v’era.

e che fosse meglio tornare decisamente al passato 84. Un giudizio, quello di Bernetti, per certi

aspetti profetico, come vedremo.

La Riforma del 1816 in effetti cassò i codici napoleonici, anche se confermò l’abolizione della

tortura e delle punizioni corporali, e ripristinò, almeno in parte, la commistione fra funzioni di

governo e funzioni giudiziarie esercitate da legati e delegati, che era stata eliminata con l’arrivo dei

francesi. Tuttavia mantenne in essere le strutture portanti dell’organizzazione dei tribunali

napoleonici, pur cambiandone le denominazioni e, in parte, le competenze. Stabilì infatti che in ogni

capoluogo di Delegazione fosse istituito un tribunale criminale composto dal delegato (che fungeva

da presidente), dai suoi due assessori, da un giudice del tribunale civile e da uno dei membri della

congregazione governativa. I tribunali giudicavano in primo grado i reati più gravi e in appello le

cause decise dai governatori nei centri più importanti della Legazione e dall’assessore criminale a

Bologna, i quali avevano competenza per i reati che comportavano una pena fino a un anno di

reclusione.

Contro le sentenze emesse dai tribunali si poteva interporre appello presso i tribunali di appello di

Bologna – che aveva giurisdizione sulle quattro Legazioni di Bologna, Ferrara Ravenna e Forlì – e

di Macerata da cui dipendeva quella delle Marche. Nel resto dello stato si ricorreva alla Sacra

Consulta. L’appello era ammesso per tutte le condanne superiori ai cinque anni, mentre per quelle

inferiori era ammesso con sospensione della esecuzione della sentenza solo nel caso il giudizio del

tribunale non fosse stato pronunciato all’unanimità; in caso contrario era ammesso, ma senza

sospensione.

In ogni capoluogo di Delegazione il tribunale criminale disponeva di due giudici processanti,

incaricati della fase istruttoria del processo, ma esclusi da quella del giudizio, e di un cancelliere; i

governatori invece seguivano le cause dalle prime indagini fino alla sentenza, con l’ausilio di un

cancelliere. Ad ogni tribunale criminale era assegnato un avvocato difensore d’ufficio nominato dal

papa – fatto salvo il diritto degli imputati di ricorrere a un difensore di loro scelta – e un procuratore

fiscale che fungeva da pubblica accusa.

Il Motu proprio di Leone XII del 1824 85 modificò in parte questo impianto. Per contenere i costi

dell’apparato amministrativo le Delegazioni furono ridotte a 13 con l’accorpamento di quelle di

Urbino, Pesaro, Ascoli, Fermo, Camerino, Macerata, Civitavecchia, Viterbo, Rieti e Spoleto e dei

rispettivi tribunali. Il numero dei membri dei tribunali fu limitato a quattro: delegato, due assessori e

83 Sulla riorganizzazione del sistema giudiziario realizzata da Consalvi, M. Petrocchi, La Restaurazione, il cardinale

Consalvi e la riforma del 1816, Firenze, Le Monnier, 1941; A. Acquarone, La restaurazione nello Stato pontificio ed i

suoi indirizzi legislativi, in “Archivio della Società romana di Storia patria”, vol. LXXVIII, 1955, pp. 121-188; D. Cecchi, L’amministrazione pontifica nella prima Restaurazione (1800-1809), Macerata, Tipografia maceratese, 1975;

M. Mombelli Castracani, Dalla Post diuturnas del 30 ottobre 1800 al Motu Proprio del 6 luglio 1816: percorsi

legislativi tra la prima e la seconda restaurazione, in “Le Carte e la Storia”, anno III, n. 1/1997, pp. 146-161; G.

Santoncini, Appunti per una bibliografia critica sulla seconda Restaurazione pontificia, in “Proposte e ricerche”, 32,

1994, pp. 157-185 e Id., Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, che ridimensiona la portata riformatrice

dell’opera di Consalvi e le analogie fra il sistema giudiziario del Motu proprio del 1816 e quello napoleonico. 84 Citato da G. Santoncini, Sovranità e giustizia nella Restaurazione pontificia, p. 71. 85 Motu proprio della Santità di Nostro Signore Papa Leone XII in data del 5 ottobre 1824 sulla riforma

dell’Amministrazione Pubblica, della procedura civile e delle tasse dei giudizi.

26

un quarto giudice da designare caso per caso. Fu però escluso che i pretori i quali – sempre per

ragioni di risparmio, avevano sostituito i tribunali civili di primo grado – potessero far parte del

tribunale criminale, operando così una distinzione più netta che non in precedenza fra giustizia

civile e criminale. Tuttavia con altro Motu proprio del 21 dicembre del 1827 86 il pontefice riportò

a cinque il numero dei componenti del tribunale, stabilendo che il pretore del capoluogo ne facesse

parte di diritto insieme ad un consigliere comunale scelto dal papa. Furono anche ripristinati i

tribunali di Urbino, Ascoli, Camerino, Civitavecchia e Rieti mentre furono ridotti a due i tribunali di

appello, quello di Bologna per le Legazioni emiliane e romagnole, mentre la Sacra Consulta di

Roma fungeva da tribunale di secondo grado anche per le Marche, essendo stato chiuso il Tribunale

di appello di Macerata.

Il Motu proprio del 1816, come abbiamo detto, abolì i codici napoleonici e prescrisse che, in

attesa che fossero redatti i nuovi codici, si osservassero le procedure e le leggi vigenti al momento

dell’arrivo dei francesi. In effetti Consalvi costituì diverse commissioni per procedere ad una nuova

codificazione, ma solo quella per il codice civile concluse i suoi lavori nel 1817, mentre per quello

criminale fu necessario attendere i Regolamenti di Gregorio XVI 87. Per oltre un quindicennio,

perciò, l’opera di uniformazione delle strutture amministrative dello stato, perseguita da Pio VII e

dal cardinal Consalvi, per quel che riguardava la giustizia penale rimase incompiuta, lasciando

irrisolto il problema del particolarismo normativo:

L’esempio come più vicino e presente se ne arreca delle due Provincie di Romagna e Bologna nelle quali sonosi

adottati principj diametralmente opposti […] La procedura giudiziaria di Bologna è primieramente particolare a questa sola città, ne ha quindi formata una affatto diversa il Delegato di Romagna [...] e pure ambedue queste

provincie soggiacciono alla medesima giurisdizione di un Tribunale d’Appello che omai dovrà prendere per

norma altrettanti metodi giudiziarj quante sono le città che da lui dipendono. La pratica del foro deve esser

chiara, ed uniforme […] L’arbitraria criminale giurisprudenza non varia soltanto da provincia a provincia, ma

ne’ limiti circoscritti di ciascheduna di queste è pure diversa, o lo è pur si direbbe in tutte le parti del suo suolo.

Il bando del cardinale Serbelloni è osservato in Bologna, non così in Imola, e in Lugo. In Romagna altri bandi

stabiliscono ai delitti nuove pene; e così sotto il medesimo sovrano la legge in mille forme si presenta or mite,

ora severa, ora dirò pure crudele.88

Dopo i moti del 1831 nelle ex Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forli, fu introdotta quella

che per lo Stato pontificio era una rilevante novità: la separazione fra potere esecutivo e giudiziario,

con l’istituzione di tribunali interamente composti da laici. Questa novità fu poi estesa a tutto lo

stato con il Regolamento emanato dal cardinal Bernetti, Segretario di Stato di Gregorio XVI, nel

1831 anche se in esso si prevedeva che il legato potesse intervenire alle sedute dei tribunali e

presiederle, ma senza diritto di voto in sede di giudizio. Tuttavia, negli anni successivi la portata

innovativa del provvedimento venne in gran parte meno poiché si ripristinò la dipendenza

dell’ordine giudiziario da quello esecutivo attribuendo alla Segreteria di Stato il compito di

controllare l’operato dei tribunali e di chiedere ai giudici conto del loro operato, sanzionandoli

anche con la privazione dello stipendio in caso di mancanze gravi 89.

3b. Una riforma parziale: il Regolamento giudiziario del 1831. La riforma gregoriana, così come

in genere l’amministrazione della giustizia nello Stato pontificio dopo la Restaurazione, non ha mai

goduto di buona fama: sono noti i giudizi negativi di Pessina e Mittermaier, solo per ricordare due

86 Motu proprio della Santità di Nostro Signore Papa Leone XII sull’amministrazione pubblica. 87 Le ristampe anastatiche del Regolamento organico e di procedura criminale pubblicato il 5 novembre 1831 e del

Regolamento sui delitti e sulle pene entrato in vigore il 1 gennaio 1832 sono in I regolamenti penali di Papa Gregorio

XVI per lo Stato pontificio, Padova, Cedam, 2000. 88 Questi e altri rilievi erano contenuti in un promemoria redatto dall’avvocato Giuseppe Guarmani per l’arcivescovo di

Bologna Carlo Oppizzoni e da questi inoltrato a Consalvi con il suggerimento di riflettere bene sull’opportunità di

abolire il codice napoleonico senza averlo sostituito con un testo egualmente organico. La citazione è in M. Petrocchi,

La Restaurazione, pp. 273-4. 89 Regolamento per la disciplina dei giudici e tribunali, e per le tasse giudiziarie, in Raccolta delle leggi della Pubblica

amministrazione, vol. V, n. 10.

27

dei più illustri e risalenti detrattori dei Regolamenti penali gregoriani 90, così come è ben noto il

giudizio quasi incredulo di Farini sulla organizzazione giudiziaria dello Stato pontificio:

“L’ordinamento dei tribunali così complicato e strano, che difficile cosa è il darne cognizione” 91. In

anni più recenti si è sottolineato che i Regolamenti non meritano il titolo di codici perché privi dei

requisiti di esaustività e sistematicità e irreparabilmente segnati dal carattere di urgenza e

frettolosità di un testo imposto dalle circostanze politiche e dal Memorandum del 21 maggio 1831

con il quale le grandi potenze europee avevano imposto al pontefice di riformare lo stato

accogliendo, almeno in parte, le richieste dei liberali moderati 92. Si è anche sostenuto che essi sono

il “brutto anatroccolo” della codificazione preunitaria, decisamente inferiori ai codici napoletano del

1819, parmense del 1820, sardo del 1839 e toscano del 1853, a causa dello squilibrio fra le varie

parti dello stato, della mancanza di una ispirazione unitaria, dell’eclettismo con cui si ispiravano a

modelli molto diversi come il codice napoleonico del 1810 e quello austriaco del 1803, risultando

alla fine

un miscuglio non ben amalgamato di frammenti di codici nuovi e vecchi, brandelli di antichi statuti, mozziconi

di decisioni giurisprudenziali, e monconi di passi dottrinali di varia provenienza. Tutto ciò “a chiazze” senza che

risulti chiaro un disegno unitario di “struttura” codicistica.93

Con tutti i suoi limiti, comunque, la codificazione gregoriana ebbe il merito di proseguire la

unificazione del sistema giudiziario che il Motu proprio del 1816 aveva avviato, pur senza

realizzarla completamente perché Roma e la sua Comarca conservarono la loro organizzazione

giudiziaria particolare.

Il Regolamento organico e di procedura criminale deve il suo titolo al fatto che non contiene solo

la regolamentazione del processo penale ma anche quella dell’ordinamento giudiziario,

introducendo modifiche di non piccolo rilievo rispetto al Motu proprio del 1816 e a quello del 1824.

Nelle province, la competenza in primo grado sui delitti minori, quelli punibili con pene pecuniarie

o afflittive non superiori a un anno di lavori forzati, veniva attribuita ai governatori residenti nei

centri più importanti e agli assessori criminali nei capoluoghi di Delegazione; quella per i delitti più

gravi spettava al tribunale criminale insediato nel capoluogo di ogni Delegazione. Tuttavia, anche

per i crimini di competenza del tribunale, il processo doveva essere istruito dal governatore

competente per giurisdizione territoriale e poi trasmesso al tribunale per il dibattimento e il

giudizio; in tal caso gli atti processuali dovevano essere verificati dal procuratore fiscale che poteva

chiedere al governatore o all’assessore che li avevano prodotti, di integrarli o correggerli.

Governatori e assessori dovevano trasmettere gli atti al tribunale anche quando essi apparissero

insufficienti per dimostrare la colpevolezza dell’inquisito, o addirittura sembrassero dimostrarne

l’innocenza; in tal caso il capo del tribunale insieme a due giudici e al procuratore fiscale doveva

esaminarli e dare istruzioni al governatore che li aveva istruiti: una serie di passaggi di carte che

inevitabilmente rendeva più complessa e lunga la procedura.

L’appello era previsto, per le sentenze pronunciate da governatori e assessori, presso il tribunale

criminale, e per le sentenze di morte pronunciate da quest’ultimo presso i tribunali di appello di

90 S. Vinciguerra, Un’esperienza di codificazione fra emergenza politica e suggestioni del passato: i regolamenti penali

gregoriani, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. XI-XXVII. 91 C. L. Farini, Lo Stato Romano dal 1815 al 1850, vol. 4, Firenze, F. Le Monnier, 1853, p. 138. Farini in particolare

stigmatizzava l’eccessiva durata dei processi, il fatto che il dibattimento nei processi criminali non fosse pubblico e la facoltà per i legati di parteciparvi, influenzando inevitabilmente i giudici e finendo per inficiare di fatto il principio della

indipendenza della magistratura dall’esecutivo. 92 S. Vinciguerra, Un’esperienza di codificazione, pp. XI-XIV. 93 A. Cadoppi, Struttura e funzione di un codice penale. A proposito del “Regolamento sui delitti e sulle pene del

1832”, il “brutto anatroccolo” dei codici penali della Restaurazione, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, p.

LXII. Il giudizio di E. Dezza, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoria e riferimenti napoleonici nel regolamento

organico e di procedura criminale del 5 novembre 1831, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. XCI-CIX, è

meno severo e propende per individuare nel codice italico del 1807 un elemento ispiratore relativamente unificante del

Regolamento organico.

28

Bologna, per le quattro Legazioni, e di Macerata, riattivato, per le Marche. La possibilità di

appellare dunque era drasticamente ridotta rispetto al Motu proprio di Pio VII, in quanto prevista

solo per le condanne più lievi e per quelle capitali. Anche contro le sentenze inappellabili era però

prevista la possibilità di revisione, il ricorso cioè ai tribunali superiori per ottenerne l’annullamento

per la violazione di forme sostanziali, per errata applicazione della legge penale e per abuso di

potere 94. Le disposizioni preliminari del Regolamento prevedevano che si procedesse d’ufficio per

tutte le notizie di reato, tranne poche eccezioni riguardanti i delitti intrafamiliari e contro l’onore,

ma in tutti i casi il procedimento, una volta avviato, non poteva essere sospeso neanche col

consenso della parte offesa. L’istituto della libertà provvisoria sotto cauzione era previsto per gli

imputati di delitti che comportavano pene esclusivamente pecuniarie, mentre per tutti gli altri la

carcerazione cautelare era la regola.

Il processo gregoriano era indubbiamente un processo misto nel quale la fase inquisitoria era

nettamente prevalente 95:

Il processo in iscritto forma la base dei giudizi criminali, combinata bensì coi risultati ulteriori provenienti dal

confronto, e dalla discussione personale fra l’accusato e quei testimoni che sono riputati necessari ad intervenire

all’udienza

recitava l’art.109. Le disposizioni concernenti il modo di acquisire le prove e di interrogare i

testimoni e gli imputati erano molto puntuali e dettagliate, ma non presentavano particolari novità

rispetto alle normative vigenti nello Stato pontificio prima dell’arrivo dai francesi, ad esempio nelle

costituzioni del Torrone e nelle riforme lambertiniane. Largamente prevista era la possibilità di

procedere all’arresto dei testimoni ritenuti falsi, reticenti o contraddittori a semplice giudizio del

processante, salvo successiva approvazione del capo del tribunale. Nel corso dell’istruttoria era

facoltà, non obbligo, del processante esporre all’imputato, in parte o tutti, gli elementi a suo carico

raccolti. Dopo ogni interrogatorio il processante era tenuto a rileggere all’imputato il verbale

contenente le sue dichiarazioni, permettendogli di fare correzioni o aggiunte. Tuttavia il verbale

doveva essere firmato dal processante e dal cancelliere e, solo su sua richiesta e discrezionalmente,

dall’imputato.

Terminata la fase istruttoria il processante era tenuto a redigere il “ristretto”, cioè un riassunto, del

processo che doveva essere sottoposto all’esame del procuratore fiscale che poteva chiedere di

apportare chiarimenti e integrazioni; anche in questo caso si trattava di operazioni che

inevitabilmente dilatavano i tempi della procedura. Solo dopo l’approvazione del ristretto si

procedeva alla pubblicazione, cioè alla notificazione all’imputato di tutte le prove raccolte contro di

lui. Da questo momento il suo difensore aveva cinque giorni di tempo per studiare il ristretto o

anche, volendo, l’originale del processo. Nella fase dibattimentale, non pubblica come quella del

processo di età napoleonica, si dava lettura del ristretto e si ascoltavano l’imputato, la parte lesa e i

testimoni richiesti dal procuratore fiscale; il difensore aveva il diritto di chiedere di ascoltare anche

altri testimoni, già sentiti durante l’istruttoria oppure no, ma l’accoglimento della richiesta, che

doveva essere sempre motivata, spettava insindacabilmente al capo del tribunale 96. Il breve spazio

94 In effetti, l’istituto della revisione aveva una portata molto limitata. Per ottenere l’annullamento era necessario

dimostrare che le irregolarità erano state veramente clamorose, cfr. P. Pittaro, La struttura del processo criminale

gregoriano, in I regolamenti penali di Papa Gregorio XVI, pp. LXXXVII-LXXXVIII. Inoltre una circolare della

Segreteria di Stato del 6 giugno 1832 chiarì che in sede di revisione, per evitare lungaggini, l’imputato non poteva servirsi di un difensore di sua scelta, ma solo del difensore di ufficio, cfr. Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica

amministrazione nello Stato Pontificio, vol. V, pp. 469-71. 95 E’ la valutazione pressoché unanime di tutti i commentatori: ci limitiamo a segnalare i saggi di Dezza e Pittaro già

citati e quello di N. Contigiani, Il processo penale pontificio tra ancoraggi inquisitori e spettro riformista (1831-1858),

in “Rivista di Storia del Diritto Italiano”, anno LXXX, 2007, pp. 189-314. 96 Una circolare della Segreteria di Stato del 27 dicembre 1831 raccomandava ai presidenti dei tribunali di non

largheggiare troppo nell’ammissione dei testimoni richiesti dalla difesa, per evitare eccessivi aggravi all’erario – le

spese di trasferimento dei testimoni erano a carico dell’amministrazione – e perché “sarebbe poi una manifesta

trasgressione all’art. 110 con cui è dichiarato essere il processo in iscritto la base dei criminali giudizj”, Raccolta delle

29

di tempo concesso al difensore per studiare le carte, la sua limitata possibilità di citare testimoni a

discarico, l’assoluta rilevanza conferita al ristretto, redatto dal processante, nella fase

dibattimentale, rendeva il processo gregoriano nettamente sbilanciato a favore dell’accusa, anche se

al processante veniva fatto obbligo di raccogliere imparzialmente le prove a carico e a discarico

dell’imputato. Terminato il dibattimento i giudici erano tenuti a deliberare

secondo l’intima convinzione della propria coscienza e secondo l’impressione ricevuta dalla sua ragione presso

le prove e gli indizj, ed indipendentemente dal numero materiale dei medesimi, che sono venuti a svilupparsi

tanto dal processo scritto, quanto dalla discussione verbale

Il sistema della prova legale era ormai francamente abbandonato a favore di quello del libero

convincimento presente in tutta la normativa del periodo francese e ne derivava, fra l’altro, che la

sentenza poteva essere di condanna, di assoluzione piena oppure di assoluzione per insufficienza di

prove con la formula ab istantia. In tal caso il processo doveva essere riaperto qualora fossero

emersi nuovi elementi di prova a carico dell’imputato. Il principio dell’amplius cognoscendum, cioè

l’obbligo di riaprire un procedimento provvisoriamente archiviato o un processo conclusosi con una

assoluzione con formula dubitativa nel caso emergessero nuove prove, presente anche nel codice di

procedura napoleonico,97 aveva una ricaduta pesante non solo sui diritti individuali dell’imputato, la

cui posizione nei confronti della giustizia poteva rimanere sospesa per lungo tempo fino alla

prescrizione del reato, ma anche sul funzionamento del sistema giudiziario perché, come vedremo,

appesantiva in misura sensibile l’agenda lavorativa e i prospetti informativi dei tribunali e

soprattutto dei governatori. Nella prassi del Torrone tali casi dubbi venivano invece risolti con

l’intimazione dell’esilio.

Si deve anche ricordare che il Regolamento organico prescriveva che i processi a carico dei

contumaci fossero fatti e portati a sentenza, anche se con procedure più rapide e minori garanzie per

l’imputato, e questo costituiva un ulteriore aggravio di lavoro per il sistema giudiziario, laddove nel

Torrone, nel corso del XVIII secolo, si era affermata la prassi di lasciare in sospeso i processi

contro i contumaci, dopo aver espletato i soli atti preliminari, per riprenderli nella eventualità che

gli indiziati cadessero nelle mani della giustizia. Il Regolamento infine prevedeva la possibilità per

la Segreteria di Stato di costituire tribunali speciali per giudicare i delitti di lesa maestà,

cospirazione, sedizione e in genere contro la sicurezza pubblica, con procedura sommaria e senza la

possibilità di appello se non in caso di sentenza capitale pronunciata non all’unanimità. Si trattava

di un evidente succedaneo dei tribunali e commissioni militari del periodo napoleonico, giustificato

da analoghi timori per la stabilità politica e la tenuta dell’ordine pubblico minacciato dalla

criminalità comune e dalla dissidenza politica, in alcuni casi inestricabilmente intrecciate 98.

Il Regolamento organico e di procedura rappresentò dunque un complesso compromesso fra la

tradizione giuridica dello Stato pontificio e quella introdotta dai francesi. Diverso è il caso del

Regolamento sui delitti e sulle pene. Si è scritto che esso è riconducibile al codice penale francese

leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, vol. V, p. 372. Una successiva circolare del 25

agosto 1832, fra altre disposizioni tese a diminuire le spese processuali, raccomandò ancora di limitare il numero dei

testimoni e dimezzò il loro rimborso spese, Ivi, pp. 501-503. 97 E. Dezza, Il codice di procedura penale del Regno italico, pp. 363-368. 98 L’assoluta priorità dell’ordine pubblico nell’agenda politica degli stati italiani preunitari è enfatizzata da J.A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Milano, Franco Angeli, 1988 e, nel caso specifico di Bologna,

da S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento. The politics of policing in Bologna, Cambridge University

Press, 1994; il tema dell’ordine pubblico e delle misure eccezionali adottate per fronteggiarlo è presente, ma

decisamente ridimensionato, in M. Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, il

Mulino, 2002 e, per Bologna, da A. Monti, Pauperismo e demografia, conflitto e sicurezza: le condizioni sociali a

Bologna nell’Ottocento (1815-1880) in Storia di Bologna, vol.4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, pp. 421-

483. Interessanti considerazioni sul modo di gestire il problema da parte della giustizia pontificia anche in I. Rosoni,

Criminalità e giustizia penale nello Stato pontificio del secolo XIX. Un caso di banditismo rurale, Milano, Giuffré,

1988, pp. 12-16.

30

del 1791, in quanto contenente “poche indicazioni di carattere generale” 99. In realtà il modello di

riferimento era costituito soprattutto dai bandi generali di antico regime e in particolare da quello di

Benedetto XIV del 1754 che sostituiva solo per i titoli esplicitamente disciplinati rispetto ai

quali il Regolamento premetteva appunto alcuni principi di carattere generale – unica concessione al

“modello codice” – riguardanti l’applicabilità o meno della legge alle diverse categorie di soggetti,

la definizione di delitto tentato e di correità, delle circostanze aggravanti e attenuanti, della recidiva,

della tipologia delle pene.

Rispetto alla legislazione bannimentale del XVIII secolo pochi erano gli elementi di modernità. Il

più rilevante era l’eliminazione dell’arbitrium, sostituito però da un intervallo piuttosto ampio delle

pene edittali, che lasciava comunque un notevole spazio alla discrezionalità del giudice: l’offesa al

pudore ad esempio era punita con una pena compresa fra un mese di detenzione e un anno di lavori

forzati e con un’ammenda dai dieci ai cinquanta scudi; il furto semplice di valore compreso fra i

venti e i cento scudi con una pena da uno a tre anni; le ferite “di qualche pericolo” con una pena

compresa fra i cinque e i dieci anni. Significativa era anche l’eliminazione delle feroci pene

accessorie a quella di morte previste dai bandi per i delitti più gravi, come il taglio della mano, il

mazzolamento, lo squartamento del cadavere, o quella delle pene corporali come la frusta o i tratti

di corda per i reati più lievi: tutte pratiche peraltro già abolite dal Motu proprio del 1816 insieme

alla tortura. Per il resto il Regolamento sui delitti e sulle pene, con la sua enfasi posta sui delitti

contro la religione e i buoni costumi, aveva decisamente un sapore retro.

I limiti dei due Regolamenti, redatti sotto la pressione degli eventi, erano abbastanza evidenti

anche alle autorità pontificie ma, nonostante numerosi progetti di riforma, non furono più apportate

rilevanti modifiche all’impianto organizzativo e procedurale disegnato dalla riforma gregoriana,

anche se Pio IX nel 1847 riformò i tribunali romani, rendendoli più conformi al modello generale, e

sottopose tutti i tribunali dello stato al controllo e alla sovrintendenza della Sacra Consulta 100.

Importanti furono invece le modifiche apportate al Regolamento sui delitti e sulle pene dall’editto

del Segretario di Stato Giacomo Antonelli del 30 luglio 1855 che aggravò in misura abnorme le

sanzioni previste per il furto: basti ricordare che in caso di prima recidiva, se il valore della refurtiva

superava i 300 scudi, la pena prevista era di venti anni di lavori forzati che diventavano a vita se il

furto era qualificato da qualche circostanza aggravante; inoltre per i condannati per furto, anche

semplice e di qualsiasi entità, era previsto un regime detentivo particolarmente duro, definito da un

apposito regolamento 101.

99 M.A. Cattaneo, Modernità e autoritarismo nel “Regolamento” penale gregoriano, in I regolamenti penali di Papa

Gregorio XVI, pp. XXIII-XXIV. 100 M. Da Passano, I tentativi di codificazione penale nello stato pontificio (1800-1832), in I regolamenti penali di Papa

Gregorio XVI, pp. CXLIII-CLXXXIII; M. R. Di Simone, Progetti di codici penali nello Stato pontificio della

Restaurazione, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 36, tomo I, 2007, pp. 347-390; N.

Contigiani, Il processo penale pontificio tra ancoraggi inquisitori e spettro riformista (1831–1858), in “Rivista di

Storia del Diritto Italiano”, anno LXXX, 2007, pp. 189-314. I provvedimenti presi da Pio IX per riformare i tribunali

romani in Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1847, pp. 95-114. 101 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1855, pp. 186-190.

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4. Le criticità del sistema.

4a. Inseguendo il miraggio della procedura rapida: un ossessivo controllo burocratico. Nel

novembre del 1816 Alessandro Lante Montefeltro della Rovere, da poco nominato legato di

Bologna, scrisse al Segretario di Stato che

per conoscere i delitti che si commettono nella provincia, il numero dei delinquenti e complici che cadono nelle

mani della giustizia e lo stato e l’andamento delle cause relative e perché in seguito alla sollecita compilazione

dei processi si ottenga la più pronta emanazione delle sentenze, senza di che si dimentica agevolmente l’orrore

del misfatto, e subentra invece la compassione a favore del reo, cosicché nella punizione non si hanno tutti quei

risultati, che la legge si è prefiniti, che è quanto dire il pubblico esempio, e quindi la desistenza dai reati

riteneva utile “riattivare il metodo che si praticava in tempo del già Governo Italico delle tabelle

mensili dimostrative lo stato in cui si trovano tutte le cause criminali pendenti in tutta la

Legazione”. Aveva perciò diramato una circolare in cui ingiungeva ai governatori e all’assessore

criminale di Bologna di istruire subito i processi sia delle cause minori di loro competenza, sia di

quelle che poi sarebbero state decise dal tribunale, e di redigere ogni mese una tabella – compilando

un modulo di cui accludeva copia – contenente la lista di tutti i detenuti presso le carceri cautelari

costituite in ogni governatorato, indicando il numero d’ordine con cui la relativa causa era iscritta

nel registro di cancelleria, il nome, cognome e luogo di nascita dei detenuti, la data di arresto, il

capo di imputazione, il numero e il tipo di atti espletati per il processo, eventuali problemi ed

osservazioni. Lo stesso aveva fatto per il tribunale criminale, adottando però un modulo

leggermente diverso, e pensava fosse opportuno fare anche con il tribunale di appello, per il quale

però aveva bisogno della autorizzazione della Segreteria di Stato dalla quale il tribunale dipendeva.

A stretto giro di posta Consalvi gli rispose che sia lui che il papa approvavano pienamente la sua

iniziativa, che la avrebbero estesa a tutte le altre provincie, e che anzi gli ordinavano di dare

attuazione anche alla disposizione della Post diuturnas 102 che prescriveva di effettuare la visita

mensile delle carceri – in realtà si trattava di ripristinare una prassi, come abbiamo visto, già in

vigore ai tempi del Torrone – e di farne una accurata relazione da inviare alla Segreteria di Stato

insieme al prospetto mensile del tribunale criminale e di quello di appello “colla individuazione di

quelle deliberazioni che nel congresso avanti di lei convocato sarà occorso di fare” 103.

Conoscere, prevenire, correggere, negli anni successivi furono i pilastri della politica criminale

perseguita, con energia e di comune accordo, da Consalvi e dai legati Lante della Rovere e, alla

morte di questi nel luglio del 1818, dal suo successore Giuseppe Spina, coadiuvati dal procuratore

fiscale Antonio Placci, poi sostituito da Pacifico Masetti e da Giacinto Quattrorecchi, giudice

processante del tribunale, incaricati di controllare i prospetti dell’assessorato e tribunale criminale

di Bologna e dei quattordici governatori 104. Gli incaricati stendevano per il legato una relazione con

le loro valutazioni, osservazioni e rilievi che, unitamente ai prospetti, veniva inviata alla Segreteria

di Stato la quale li analizzava e comunicava al legato le sue conclusioni e raccomandazioni, quasi

sempre molto puntuali, che il legato a sua volta traduceva in istruzioni ed ordini impartiti a

governatori e presidenti. Un’attività di monitoraggio e di controllo incrociato, che si fondava

essenzialmente sulla compilazione accurata e veridica dei prospetti mensili, lavoro complesso,

oneroso e fondamentalmente estraneo alla mentalità e alla routine della maggior parte degli

operatori coinvolti.

Le resistenze furono forti, e ci volle tutta la determinazione di Consalvi e di Lante per avviare e

portare a regime il meccanismo in tempi tutto sommato ragionevoli. Appena ricevuta la circolare

102 La costituzione apostolica Post diuturnas del 30 ottobre 1800 aveva ridisegnato l’assetto dello Stato pontificio

durante la prima restaurazione, cfr. D. Cecchi, L’amministrazione pontifica nella prima Restaurazione, pp. 52-59. 103 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1816, rub. 1, 23 novembre e 4 dicembre. 104 Budrio, Bazzano, Castel Franco, Castiglione, Castel Maggiore, Castel S. Pietro, Loiano, Medicina, Molinella, Poggio

Renatico, Porretta, S. Giovanni in Persiceto, S. Pietro in Casale, Vergato.

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che gli imponeva di redigere il prospetto, il cancelliere del tribunale Vincenzo Suali rispose al

legato, in tono stizzito, che era “nella fisica impossibilità” di redigerlo con la richiesta precisione e

analiticità per mancanza “delle braccia che si richiederebbero all’uopo”; il prospetto richiesto era

molto simile alla relazione bimestrale, non mensile, che ai tempi del Regno di Italia si mandava al

Gran giudice – cioè il ministro della giustizia. Allora però il numero dei carcerati era molto minore

e il tribunale criminale constava di sette giudici istruttori, sette commessi di cancelleria e altrettanti

scrivani; il cancelliere era coadiuvato da due vicecancellieri, un commesso, un protocollista con un

aiutante e molti “alunni”, cioè praticanti che prestavano gratuitamente la loro opera con la speranza

di essere assunti una volta appreso il mestiere. Il personale attuale era meno della metà. Inoltre,

faceva presente Suali, il cancelliere, per redigere il prospetto, abbisognava delle informazioni

fornitegli dai giudici processanti i quali erano pochi e sin troppo impegnati da altre incombenze, fra

cui la redazione dei ristretti che assorbiva molto tempo. Infine, concludeva Suali, ai tempi del Gran

giudice, che risiedeva a Milano, l’operazione aveva un senso, ma adesso che il legato era a Bologna

“e che si fa la lettura di lista che equivale al prospetto richiesto”, a che serviva, se non ad oberare

ulteriormente persone già sovraccariche di lavoro e sottopagate 105?

L’allusione alla “lettura di lista” richiede un chiarimento, perché era questione rilevante e su cui

dovremo tornare. Si trattava evidentemente del ripristino di una pratica di cui non siamo riusciti a

stabilire la data precisa d’inizio, ma che certamente era adottata dal Torrone, non sappiamo con

quanta regolarità e continuità, già dalla fine del XVI secolo, e consisteva nell’esame settimanale,

fatto congiuntamente da legato, uditore e capo notaio, delle cause in corso per chiudere rapidamente

e in modo informale quelle di lieve entità o per le quali si riteneva di non disporre di prove o indizi

sufficienti per individuare un colpevole e condannarlo. Insieme alla visita graziosa, che svolgeva

funzione analoga, e alla sospensione dei procedimenti contro i contumaci – affermatasi più tardi,

durante la seconda metà del XVIII secolo – la lettura di lista era uno strumento efficace per

sfrondare il lavoro del tribunale, concentrandolo sulle cause ritenute più importanti o per le quali si

riteneva comunque di poter arrivare a una sentenza di condanna.

Analoghe considerazione, con toni più rispettosi, furono avanzate da diversi governatori, ma

Lante replicò con decisione che i prospetti erano “istituzione provvidissima […] uno de serviggi più

importanti all’amministrazione della giustizia punitiva” perché permetteva “di tener dietro alla

marcia delle procedure” – in altri termini di controllare la produttività dei giusdicenti e dei loro

collaboratori – e redigerli era un obbligo assoluto. Alle proteste di Suali, che invece del prospetto

richiesto gli aveva mandato una relazione stiracchiata e generica sull’attività del tribunale rispose,

in termini meno ultimativi, che si rendeva conto della fondatezza di alcune sue obiezioni e che gli

avrebbe inviato uno scrivano che giornalmente avrebbe registrato le operazioni compiute dai

processanti per usarle come base del prospetto che comunque ribadiva andava fatto seguendo

puntualmente il modulario 106. La fermezza del legato fece in modo che nel giro di pochi mesi il

sistema cominciasse a funzionare abbastanza regolarmente, anche se in genere i prospetti

arrivavano con un certo ritardo – il 10 del mese successivo a quello cui si riferivano era il termine

perentorio e irrealistico fissato da Lante – e non sempre erano precisi e perfettamente rispondenti al

modello prescritto.

Sin dai primi mesi del 1817 l’attività di monitoraggio del funzionamento della macchina della

giustizia cominciò a evidenziare problemi e criticità. Il primo che il legato dovette affrontare fu

appunto quello della “lettura di lista”: nel marzo del 1817, inviando alla Segreteria di Stato i

prospetti di gennaio e febbraio corredati dalle sue osservazioni, Lante segnalava che aveva appurato

che alla “lettura di lista”, per economia di tempo, partecipavano solo i processanti e il vicelegato –

cui aveva affidato la sovrintendenza del tribunale – “ e siccome i giudizi del tribunale devono essere

collegiali e non individuali” aveva dato disposizione che d’ora in poi vi partecipassero anche due

giudici. In ogni caso, anche le cause chiuse in questo modo andavano riportate nei prospetti mensili,

con la relativa motivazione. Nel giugno tornò sull’argomento per riferire che era rimasto

105 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1816, rub. 1, 29 novembre. 106 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 2 dicembre.

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negativamente colpito dal modo sbrigativo con cui il tribunale liquidava in lettura di lista “tutta

sorte di cause e per qualunque titolo”, decidendo quasi sempre per la “dimissione de carcerati” per

mancanza di indizi, senza neppure interpellare il procuratore fiscale che invece aveva il compito di

controllare tutti i procedimenti. Il legato faceva notare che le cause per le quali era competente il

tribunale in primo grado riguardavano tutte delitti che comportavano una pena superiore all’anno di

galera e quindi non potevano essere risolte “in forma troppo ordinaria ed economica”, senza la

“necessaria maturità e aver dato campo al fiscale di far tutte le sue espressioni”. Insomma il

tribunale adottava procedure che riprendevano quelle del Torrone e sicuramente velocizzavano il

lavoro, ma certo non erano in sintonia con l’idea di legalità che i francesi avevano introdotto e che il

legato e Consalvi condividevano 107.

La questione fu però ripresa in esame, con maggiore pragmatismo, durante la legazione di Spina.

Nel febbraio del 1819 Quattrorecchi, dopo aver rilevato che l’assessore e il tribunale criminale di

Bologna avevano ormai accumulato un arretrato allarmante e che non si notava nessuna inversione

di tendenza, ne individuava la causa nel fatto che si trattavano con la stessa procedura

le cause di piccola entità come quelle gravi, assoggettando gli imputati a replicati e formali costituti, e dettagliate

contestazioni, legittimazione e pubblicazione di processo ed a formale termine difensivo, piuttosto che trattarle sommariamente […] egli è cosa certa (io parlo sempre di questa Legazione di Bologna) che all’epoca precedente

il 1796 le cause di tale natura, sopra semplici informativi sommari dell’Uditore Criminale risolvevansi, nella così

detta lettura di lista, coll’intervento degli impiegati criminali, dai quali gli atti erano assunti, ed in concorso di un

procuratore di poveri 108.

Il revisore dunque spezzava una lancia a favore della lettura di lista, ritenendola strumento efficace

per sveltire i lavori del tribunale e ricordando che una circolare della Segreteria di Stato del

dicembre del 1818 andava proprio in questa direzione, suggerendo l’adozione del metodo sommario

per le cause minori. Il legato accolse prontamente il suggerimento di Quattrorecchi e spedì una

circolare ai governatori raccomandando loro di adottare la procedura sommaria per le cause meno

gravi– che significativamente per Spina comprendevano anche le ferite e lesioni personali di una

certa serietà, purché “senza pericolo di vita”, ma non i furti 109 “anche di poco conto” – “cosicché in

quello stesso spazio di tempo moltissime se ne potrebbero ultimare e decidere”.

Tuttavia contemperare le esigenze della rapidità e di un minimo di correttezza procedurale era

tutt’altro che facile. Di lì a poco Placci denunciava che i governatori avevano preso troppo alla

lettera le indicazioni del legato e procedevano ad archiviare i procedimenti con un non luogo a

procedere senza chiedere l’autorizzazione del tribunale, come era invece prescritto dai regolamenti,

e senza che il fiscale ne fosse a conoscenza, anche nei casi che, prevedendo il titolo di reato una

pena superiore all’anno di lavori forzati, non erano di loro competenza, se non per la fase istruttoria 110. Lo stesso Quattrorecchi fu costretto ad ammettere che si era andati troppo oltre e che occorreva

richiamare all’ordine i governatori ricordando loro che, quantomeno per le cause di competenza del

tribunale, non potevano archiviare senza interpellarlo dopo aver compiuto tutti gli atti preliminari

previsti dalla procedura ordinaria; in quanto al tribunale, bisognava rispettare alla lettera le

disposizioni impartite da Lante in ordine all’intervento dei giudici nella lettura di lista e al rispetto

di precise formalità, fra cui quella di acquisire il parere del fiscale prima di prendere qualsiasi

decisione.111

Il tema dell’uso e abuso della lettura di lista era in parte connesso a quello più generale delle

competenze giurisdizionali. Come abbiamo visto, il Motu proprio del 1816 prescriveva che le cause

107 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, s.d., ma inizi giugno.

108 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 5 febbraio. 109 La raccomandazione di usare la massima severità per punire i furti è una costante. Nell’ottobre del 1823 Giulio

Maria della Somaglia, appena subentrato a Consalvi nella carica di Segretario di Stato, scriveva al Legato Spina “ho

notato che il delitto più frequente in tutta la Legazione è il furto e si devono sollecitare i governatori a sbrigare tali cause

sollecitamente, perché la repressione, come ben sa, estirpa i delitti”, ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1823, rub. 1. 110 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 13 marzo. 111 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 2 gennaio.

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per delitti per cui era prevista una pena fino a un anno di galera erano di competenza dei

governatori, mentre per tutte le altre gli atti, terminata la fase istruttoria, dovevano essere trasmessi

al tribunale di Bologna. Limpida sulla carta, in pratica la distinzione non era così semplice. Molti

governatori si erano formati ai tempi in cui erano in vigore i codici napoleonici e più di una volta

Lante e i suoi collaboratori dovettero ricordare che il Motu proprio li aveva aboliti e che perciò

bisognava fare riferimento alla legislazione bannimentale e in particolare al bando Serbelloni, con il

quale, per motivi anagrafici, quasi nessuno di loro aveva dimestichezza. Per di più il bando, pur

avendo attenuato l’arbitrium del giudice, prevedeva spesso intervalli notevoli della pena edittale e

un complesso sistema di circostanze aggravanti e attenuanti che in molti casi rendeva difficile

decidere con sicurezza se si trattava di una causa del primo o del secondo tipo.

Nel dubbio i governatori, per semplificare le cose, tendevano ad attribuirsi le cause senza

guardare troppo per il sottile e, per farlo, nel compilare i prospetti non esitavano a omettere elementi

che avrebbero invece indotto ad attribuirle al tribunale. In più di un’occasione Quattrorecchi,

consultatosi con il legato, dovette ricordare loro che i prospetti dovevano essere esaustivi e veridici

e che in tutti i casi dubbi dovevano rivolgersi al tribunale, al cui presidente e fiscale spettava la

decisione in materia di competenza. Il problema era però che i casi dubbi erano molti e per ciascuno

di essi era necessario uno scambio d’informazioni e istruzioni, che allungava i tempi e appesantiva

il funzionamento degli uffici. Ad esempio il furto di una cavalla avvenuto a S. Giovanni in Persiceto

diede origine a un lungo e dotto carteggio fra governatore e fiscale: il primo sosteneva che,

trattandosi di furto semplice, la pena edittale era inferiore a un anno e dunque sotto la sua

giurisdizione, il secondo sosteneva che nel bando Serbelloni si distingueva fra furto di animali

piccoli e grossi, che per i secondi era prevista una pena superiore, anche senza circostanze

aggravanti, e che dunque la competenza era del tribunale; il governatore a sua volta replicava che si

trattava di una cavalla molto piccola e gracile…112

Lante, Spina e i loro collaboratori tuttavia attribuivano la tendenza dei governatori a esorbitare

dalle loro competenze non solo a scarsa preparazione professionale, a pigrizia e sciatteria, ma anche

a quella che ai loro occhi appariva una pericolosa inclinazione all’eccessiva mitezza. Terminare

una causa in lettura di lista, o comunque sottrarla alla competenza del tribunale, di fatto in molti

casi significava derubricare il reato, poter concedere la libertà provvisoria e applicare pene molto

meno severe di quelle draconiane previste dalla normativa bannimentale anche per reati – il classico

furto di polli – che agli occhi dei governatori potevano apparire lievi e meritevoli di indulgenza.

Placci, Masetti e Quattrorecchi perciò non si stancavano di ricordare che nei prospetti andavano

indicate tutte le circostanze aggravanti, in primis la recidiva; che bisognava tenere presenti non solo

gli interessi degli imputati, ma anche e soprattutto quelli del “fisco” e delle parti offese che avevano

il diritto di essere risarcite; che era necessario perseguire anche i delitti minori “perché è indubitato,

che una serie di piccoli delitti rimasti impuniti, agevola la commissione de grandi” 113; che le

sentenze, soprattutto assolutorie, andavano sempre motivate; che la libertà provvisoria doveva

essere concessa con estrema cautela soprattutto nei casi di furto; che non si potevano semplicemente

scarcerare gli imputati, adducendo nel prospetto “per mancanza di indizi” senza chiedere prima il

parere del tribunale. I revisori avvertivano inoltre che, siccome ormai tutti i condannati ricorrevano

in appello sovraccaricando di lavoro il Tribunale, era opportuno informarli che non era affatto vero,

come si riteneva comunemente, che in secondo grado le pene non potevano essere aumentate perché

era invece facoltà del fiscale farne richiesta.

L’accusa di lassismo non era rivolta solo ai governatori, che possiamo supporre più sensibili ai

problemi, e alle pressioni, degli imputati, dei loro amici e familiari, ma anche al tribunale: tale

Benaglia, colpevole di “uso di chiave falsa, fuga dalla forza, di pessima qualità e recidivo” era stato

condannato a dieci anni di lavori forzati, mentre meritava la galera a vita; Selleri e Cornetti a cinque

anni mentre ne meritavano dieci; Cavalli meritava la pena capitale e invece se l’era cavata con 20

112 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 2 luglio. 113 L’osservazione è di Quattrorecchi ed è relativa ai prospetti del dicembre 1823, cfr. ASB, Legazione apostolica, tit.

XII, 1823, rub. 1.

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anni di lavori forzati. La maggior parte dei rilievi rivolti da Placci e Masetti al presidente del

tribunale aveva un denominatore comune, il richiamo alla necessità di esercitare un maggiore rigore 114. I rilievi e le indicazioni che provenivano da Roma, andavano nella stessa direzione: nel giugno

del 1817 la Segreteria di Stato rilevava che il tribunale era troppo di manica larga nello scarcerare,

soprattutto nei casi di furto “tanto severamente punito dalla attuale legislazione” 115.

Presto però si dovette prendere atto del fatto che il problema più grave era la lentezza del

funzionamento della giustizia. Inizialmente si pensò che si trattasse di una situazione contingente di

sovraccarico di lavoro provocata dall’arretrato che si era accumulato durante gli ultimi rivolgimenti

politici e che fosse sufficiente smaltirlo per riportare in equilibrio il sistema. Nel febbraio del 1817

Lante propose la costituzione di una commissione speciale, presieduta da lui stesso con l’assistenza

del vicelegato Adriano Fiaschi, che in tre o quattro mesi avrebbe dovuto sbrigare le cause più

semplici rimaste in sospeso adottando una procedura sommaria, mentre il tribunale avrebbe potuto

dedicare tutto il suo tempo a quelle più gravi. In tal modo, concludeva il legato con eccessivo

ottimismo, una volta esaurite le pendenze

si potrà stare in corrente, restandomi assaissimo in cura di conoscere l’andamento periodico dei travagli

criminali, sia per le viste politiche ed economiche del Governo, sia ancora per diversi rapporti personali dei rispettivi carcerati e delle famiglie.116

Consalvi accolse prontamente la richiesta e il mese successivo la commissione era già in piena

attività. Lo era ancora nel gennaio del 1821 e, notava con disappunto Consalvi, i suoi lavori

procedevano a rilento nonostante “la procedura in virtù delle attribuite facoltà non dovrebbe essere

che celere, e assai più breve, ed espedita, di quella che si richiede per le cause e tribunali ordinari” 117. Il problema era che nonostante la commissione, l’assessore di Bologna non riusciva a tenere il

passo e accumulava esso stesso un arretrato sempre crescente. Nel 1819 Quattrorecchi annotava che

nel giro di poco più di un anno le cause arretrate dell’assessore erano passate da 589 a 676 e

continuavano a crescere: nel luglio del 1819 ne erano state aperte 50 e chiuse solo 11 118, il che lo

induceva, come abbiamo visto, a suggerire di non essere troppo rigidi e formalisti rispetto alla

lettura di lista. Placci e Masetti per parte loro denunciavano una situazione analoga, appena meno

grave, per il tribunale, presso il quale nel periodo gennaio 1817/giugno 1818 erano state registrate

3141 denunce, di cui 2561 per furto e 2593 contro ignoti, e archiviate o portate a sentenza solo 1073

cause 119.

In un primo tempo era sembrato che il problema riguardasse soprattutto il funzionamento

dell’assessorato e del tribunale, e toccasse meno quello dei governatorati i quali, come abbiamo

visto, presentavano criticità di ordine diverso. Presto però anche nelle sedi periferiche cominciarono

ad accumularsi ritardi e arretrati. Nell’agosto del 1822 Consalvi, palesemente irritato e preoccupato,

scriveva al legato che dai prospetti aveva ricavato che nel mese di giugno nei quattordici

governatorati della Legazione erano state introdotte 80 cause nuove a fronte di appena 25 vecchie

concluse e lo invitava a prendere energici provvedimenti 120. Ma erano già mesi che i revisori,

sempre più allarmati per la crescente sproporzione fra cause introdotte e cause risolte, segnalavano

l’emergenza al legato e spronavano i governatori a lavorare di più, appellandosi alla loro coscienza

di cristiani e servitori dello stato. Tirare per le lunghe i processi a carico d’imputati incarcerati

rendeva crudele una giustizia che si voleva solo pronta e severa, e per di più costituiva un onere per

114 Osservazioni fatte ai prospetti di ottobre e novembre 1818, cfr. ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1. 115 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 14 giugno. 116 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 6 febbraio. 117 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 13 gennaio. 118 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 9 gennaio, 5 febbraio e 30 agosto. 119 Relazioni di Placci del 21 ottobre 1818 e di Masetti del 18 ottobre 1820, rispettivamente in ASB, Legazione

apostolica, tit. XII, 1819 e 1820, rubr. 1. Una interessante statistica dei delitti denunciati a Bologna nell’età della

Restaurazione in S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento, pp. 273-279. 120 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 24 agosto.

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l’erario cui spettava il mantenimento degli imputati ristretti poveri, cioè quasi tutti. Con accenti di

viva riprovazione, Quattrorecchi faceva notare al governatore di Budrio che teneva in carcere da

cinque mesi un imputato per il furto di alcune pecore e che in quel lasso di tempo aveva interrogato

un solo testimone; a quello di Castel S. Pietro che due accusati per un furto semplice erano in

carcere da un anno e non si intravedeva la fine della causa; a quello di Porretta che il sospettato era

in carcere da ben 15 mesi e dal prospetto non si capiva cosa fosse stato fatto, o non fatto, nel

frattempo: “Veramente in cause, la cui pena non può eccedere l’anno, parrebbe che si dovessero

definire con maggiore celerità, onde evitare l’inconveniente di condannare con una troppo lunga

detenzione pria della sentenza definitiva”, era il suo commento indignato 121.

I rilievi di questo tenore nelle relazioni di Quattrorecchi diventarono sempre più frequenti a

partire dai primi mesi del 1821 e, per qualche tempo, sembrarono aver raggiunto lo scopo di

velocizzare i processi con imputati incarcerati. Presto però il revisore si rese conto che i governatori

dedicavano forse più tempo ai processi a carico di detenuti – tanto che l’arretrato se non era

diminuito, non era neppure aumentato – ma ne sottraevano a quelli contro contumaci o ignoti,

seguendo peraltro un ordine di priorità che era stato indicato da Lante, il quale nel febbraio del 1817

aveva raccomandato di non trascurare nessuna causa, ma di dare la precedenza a quelle per reati

gravi commesse da imputati ristretti in carcere “che interessano più da vicino l’ordine della società

e lo stato nella parte economica” 122. Nel gennaio 1819 Quattrorecchi doveva segnalare a Spina che

“in generale la maggior parte dei governatori trascura l’assunzione degli atti e la risoluzione delle

cause contro gli imputati non carcerati” 123. Nelle sue relazioni successive il problema viene

segnalato costantemente e riguarda, in misura diversa, tutti i governatorati.

Per l’assessore e il tribunale, l’emergenza si era manifestata anche prima, tanto che Placci nel

corso del 1818 aveva ripetutamente consigliato al legato di intervenire energicamente per evitare

che la situazione sfuggisse di mano. Stilando un bilancio dell’attività svolta dal tribunale nel 1819,

Masetti rilevava che le cose non erano migliorate, anzi le cause contro non carcerati “generalmente

parlando veggonsi alquanto neglette, ed in modo particolare poi alcune di titolo rilevante, come furti

qualificati, ingiurie, sevizie ed offese” 124.

Nonostante i richiami, la situazione continuò a peggiorare. In buona sostanza, la coperta era

troppo corta: accelerare i processi a carico d’imputati carcerati significava inevitabilmente rallentare

gli altri. D’altra parte, l’accumulo di procedimenti arretrati contro imputati noti non carcerati e

contro ignoti, oltre a danneggiare le parti lese e a screditare il prestigio della giustizia

indebolendone la funzione deterrente ed esemplare, generava poi un ulteriore effetto perverso che si

ripercuoteva, in un circolo vizioso, sulla efficienza del sistema: nei prospetti mensili infatti non si

dovevano riportare solo le cause introdotte durante il mese, ma anche tutte quelle arretrate, con il

relativo stato di avanzamento. In breve lasso di anni i prospetti divennero assurdamente lunghi e la

loro stesura un onere sempre meno sopportabile.

4b. Un organico di indolenti e fannulloni? A partire dai primi anni Venti cominciò ad apparire

chiaro che la produttività del sistema giudiziario era insufficiente. Quello che entrava – in termini di

denunce, querele, procedimenti avviati – era più di quello che usciva – in termini di decisioni e

sentenze definitive e l’arretrato aumentava inesorabilmente. Se il dato di fatto era innegabile, più

difficile risultava identificarne le cause e trovare i rimedi. Inizialmente, come abbiamo visto, era

apparso ragionevole pensare che l’inefficienza derivasse da fattori contingenti: il caos seguito alla

fine del Regno italico, le carenze di personale, l’inevitabile rodaggio necessario per mettere a

regime una struttura amministrativa e giudiziaria molto diversa da quella precedente.

Tuttavia all’inizio del 1819 la riforma dello stato prevista dal Motu proprio del 1816 era stata

sostanzialmente realizzata e i vuoti dell’organico del personale previsto per il tribunale e i

121 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 22 marzo. 122 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1817, rub. 1, 22 febbraio. 123 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1819, rub. 1, 9 gennaio. 124 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 15 gennaio.

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governatorati erano stati colmati, ma la situazione anziché migliorare peggiorava. Ovvia divenne

allora la tentazione di porre sotto accusa la pigrizia e inefficienza del personale. Ora che hanno

avuto il personale ausiliare previsto, la lentezza dei governatori nello sbrigare le cause di loro

competenza “non merita scusa”, denunciava Quattrorecchi; il lavoro degli impiegati del Tribunale

“risulta a mio subordinato parere piuttosto scarso” gli faceva eco Masetti nell’ottobre del 1820 125.

Spesso le accuse dei revisori dei prospetti erano meno generiche e facevano nomi e cognomi:

Gaetano Piacenti – uno dei quattro processanti del Tribunale – lavora poco e male ed è “indolente”

accusava Placci nell’ottobre del 1818, in quanto a Livizzani, rilevava l’anno successivo, lavora la

metà degli altri tre suoi colleghi; negli ultimi mesi i processanti Bonaga e Montanari per le cause

contro non carcerati non hanno fatto praticamente nulla, riferiva Masetti nel dicembre del 1822. La

bestia nera di Quattrorecchi era invece Luigi Barattini. Processante del Tribunale dove non si era

distinto per la sua alacrità, nel giugno del 1818 Barattini era stato nominato governatore di Budrio.

Nel gennaio del 1819 Quattrorecchi segnalava al legato che diversi governatori gli avevano inviato

il prospetto mensile in ritardo e che quello di Budrio non glielo aveva inviato affatto. Nelle

successive relazioni del revisore non manca mai un riferimento ai ritardi, alle omissioni e alle

imprecisioni dei prospetti di Barattini, tanto che nell’agosto del 1821, rilevando che il prospetto di

Budrio mancava, il revisore si limitò ad annotare, quasi con indifferenza, che tale comportamento

“può dirsi abituale” 126. Nell’aprile dell’anno precedente Spina aveva scritto una dura lettera al

governatore, ricordandogli che era in arretrato di sei mesi nell’invio dei prospetti e minacciando di

mandare a Budrio un impiegato del tribunale per redigerli al suo posto e a sue spese.

Evidentemente Barattini non si era però spaventato eccessivamente visto che ancora nel dicembre

del 1822 Quattrorecchi doveva annotare che “Budrio costantemente in tutti i mesi ritarda”. Tuttavia,

sempre Quattrorecchi riconosceva che, negligente nella compilazione dei prospetti, Barattini per il

resto era “probo e zelante giudice”. Una stima evidentemente condivisa da Spina che, invitando

Barattini a essere più solerte, concludeva che per il momento si asteneva dal prendere

provvedimenti disciplinari solo “per una specialità di riguardo alla sua immediata persona” 127. Il

giudizio, tutto sommato positivo, di Quattrorecchi e Spina sulle qualità di Barattini poggiava su

elementi di valutazione che ci sfuggono, e comunque non ebbe seguito. Presto Quattrorecchi

cominciò a denunciare che Barattini non solo continuava a essere lento nel redigere i rapporti, ma

aveva cominciato a esserlo anche nell’istruire i processi contro carcerati. Nel settembre del 1822, su

sua segnalazione, il vicelegato Amat di San Filippo, che aveva assunto la direzione della Legazione

in attesa dell’arrivo del successore di Spina, scrisse al governatore di Budrio una lettera di insolita

asprezza, stigmatizzando la sua

lentezza nella compilazione ed ultimazione delle processure e segnatamente di quelle […] dell’imputati detenuti

nelle carceri di questo tribunale criminale i quali si lagnano di trovarsi in carcere chi nove e chi dieci mesi senza

essere stati sentiti [...] Se ella non cambierà contegno e tosto e concludentemente si adotteranno delle misure per

lei dispiacevoli e mortificanti, non potendosi tollerare che il servizio della giustizia sia cotanto negligentato 128.

Anche questa volta Barattini non cambiò atteggiamento e nell’ottobre del 1823 (per punizione?) fu

trasferito a Castiglione, in montagna. Di li a pochi mesi anche da Castiglione i prospetti

cominciarono ad arrivare in ritardo e ancora in ritardo arrivavano nel 1830.

Nonostante tutto, infatti, la carriera di Barattini durò ancora a lungo. Nel 1831, come da tempo

chiedeva, tornò di nuovo a Budrio come governatore, carica che ricoprì fino al 1843 continuando ad

addurre, per i ritardi nell’invio dei prospetti come nel disbrigo dei processi che gli venivano

frequentemente addebitati, giustificazioni sempre più lamentose e patetiche: nel marzo del 1838 il

fiscale Gianpietro Gozzi gli ricordava “in nome dell’umanità e giustizia” che, malgrado i ripetuti

125 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1820, rub. 1, 27 ottobre. 126 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1821, rub. 1, 31 agosto. 127 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 5 e 9 febbraio. 128 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1822, rub. 1, 11 novembre.

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solleciti a chiudere il processo, Domenico Zuffa, imputato di un furto di buoi, era in carcere da oltre

4 anni e il governatore gli rispondeva “mi ha veramente passata l’anima il suo rimprovero”, che il

tenente di carabinieri di Budrio avrebbe potuto testimoniare sulla sua “assidua ed improba fatica e

della poca corrispondenza che trova”, e che tuttavia avrebbe fatto l’impossibile “e così mi libererò

di un carico che mi opprime di una crucciosa agitazione che prostra le mie forze fisiche e morali a

segno che potrei dire in amaritudine animae meae dies mei breviantur et solum mihi superest

sepulcrum” 129.

Nel giugno Zuffa era ancora in carcere e Barattini godeva evidentemente di buona salute, tanto

che alcuni anni dopo, nel 1843, il legato Ugo Pietro Spinola aveva modo di ricordargli che nelle sue

carceri c’erano imputati che aspettavano da tre anni che si decidesse la loro sorte e concludeva

minacciosamente: “Io non posso ulteriormente tollerare un tale abuso, sicché se non provvederà

immediatamente prenderò provvedimenti senza ulteriore avviso e diffidazione” al che l’ineffabile

Barattini replicava

la fortissima impressione che in me ha prodotta la sua lettera sta in armonia colla presente settimana di lutto e di

pianto [gli era morto un fratello], e non si cancellerà mai dall’animo mio. Potrei forse umiliare qualche relativa

rispettosa osservazione, ma le apparenze stanno purtroppo contro di me, e mi condannano al silenzio. Però se

Iddio m’assiste, risponderò tra pochi giorni coi fatti come feci per la causa di Domenico Ferrari [un altro

disgraziato che era rimasto nelle carceri di Budrio per oltre due anni], e non mi darò pace finchè non mi sarò

liberato da questo peso insopportabile 130.

Ci siamo soffermati sul caso Barattini perché è emblematico: nonostante tutte le sue

manchevolezze egli non fu mai licenziato, né risulta che abbia mai subito alcuna sanzione

disiciplinare a parte, forse, il trasferimento per alcuni anni nella sede di Castiglione, certo più

disagiata di quella di Budrio. Non ci risulta che Barattini godesse di particolari appoggi o

raccomandazioni. Semplicemente, nel suo caso, come in altri, l’amministrazione pontificia tendeva

a essere tollerante perché pagava poco i suoi dipendenti e doveva accontentarsi di un personale

spesso mediocre, anche perché sarebbe stato comunque difficile trovarne di migliore. A giudicare

dalle relazioni dei revisori di quegli anni, Barattini non doveva essere molto peggiore di altri

governatori.

Pigrizia e incompetenza del personale però potevano spiegare solo in parte l’inefficienza del

sistema. Se ne rendeva conto lo stesso Placci, sempre severo nel giudicare gli impiegati del

tribunale, ricordando al legato che i prospetti mensili non rendevano piena giustizia alla mole di

lavoro che essi si sobbarcavano. Ad esempio dai prospetti non risultava il tempo speso per recarsi

sul luogo del delitto per raccogliere prove e reperti e interrogare “tutti li derubati ed altri nelle cause

contro incerti”, tutte operazioni che ai tempi del Torrone venivano compiute da un notaio e ora

dovevano essere espletate dal giudice istruttore, pena la nullità degli atti; per intrattenere il

quotidiano carteggio con i governatori per impartire loro istruzioni, correggere errate interpretazioni

della legge e della procedure, chiedere supplementi di indagine; per esaminare i ristretti dei processi

fatti dai governatori e leggere i loro pareri consultivi e per giudicare in appello le cause da loro

sentenziate in primo grado; per chiedere, o fornire, informazioni a giusdicenti di altre Legazioni e a

stati stranieri; per redigere i ristretti dei processi da avviare a dibattimento; per protocollare tutti gli

atti in entrata e in uscita; per stendere, infine, prospetti sempre più lunghi mano a mano che si

accumulava l’arretrato. Inoltre si doveva tenere presente

che ogni sabbato e per lo più anche ogni giovedì vengono quasi tutti i giudici processanti alla residenza di Vostra

Eccellenza per assistere alle congregazioni ordinarie e di lista per leggere i loro ristretti e rapporti, perdendo così

le ore intiere di lavoro in operazioni necessarie e d’obbligo ma che però non risultano.

129 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1838, rubr. 1, 25 aprile. 130 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1843, rub. 1, b. 1, 10 e 12 aprile.

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I giudici lavoravano tutti i giorni dalle 9 alle 16 e poi, tornati a casa e al di fuori dell’orario di

lavoro, facevano i ristretti e nei casi complicati “un solo ristretto può portare la fatica di un mese

[...] sicché meriterebbero invece di rimprovero qualche compenso avuto riguardo alle loro fatiche e

poco soldo”, concludeva Placci suggerendo innanzitutto di aumentare il numero non tanto dei

giudici – i sei attuali sarebbero stati sufficienti se il lavoro fosse stato organizzato meglio – quanto

degli scrivani del tribunale. Si sarebbero così liberati i giudici dai compiti impiegatizi sempre più

gravosi che erano stati loro accollati, mettendoli in grado di fare solo il proprio mestiere, quello

d’inquirenti e giudici appunto. Inoltre sarebbe stato opportuno raddoppiare il numero dei notai

sostituti, portandoli a due per ogni processante

perché quando un giudice costituisce [interroga] un reo con un sostituto, l’altro sostituto lavora e forma

l’informativo in diverse cause. Ecco perché alcune volte si vede che un processante sembra essere in ozio

mancando il sostituto notaro che lo coadiuvi;

in questo modo, secondo Placci, la produttività del tribunale si sarebbe potuta triplicare, con una

spesa tutto sommato contenuta 131.

A sua volta Quattrorecchi, che pure faceva il suo lavoro di revisore con puntigliosa scrupolosità e

non lesinava richiami ed esortazione a lavorare di più e meglio, doveva ammettere, a conclusione di

un giro d’ispezione delle cancellerie dei governatorati che, tutto sommato, “le processure sono

abbastanza regolarmente compilate, e se non presentano copioso e assiduo lavoro, non sono per

altro da essere censurate per soverchia trascuratezza”. Se la durata dei processi continuava ad

allungarsi e il numero delle cause pendenti a crescere, la colpa non era tanto della negligenza del

personale, quanto della mole crescente di lavoro: non si doveva infatti dimenticare che i governatori

avevano il compito di amministrare non solo la giustizia criminale, ma anche quella civile che

diventava di giorno in giorno più impegnativa, oltre ad avere numerose altre incombenze di natura

non giudiziaria 132.

Nonostante gli sforzi dei legati Lante e Spina per rafforzare l’organico degli uffici giudiziari e

quelli di Placci, Masetti e Quattrorecchi per organizzarne meglio il lavoro, i risultati non furono

quelli sperati. Nel novembre del 1825 il successore di Spina, il cardinale Giuseppe Albani,

confermò Masetti e Quattrorecchi nella carica di revisori e li incaricò di redigere un rapporto

complessivo sulla situazione della giustizia nella Legazione. I due portarono rapidamente a termine

il compito loro assegnato e redassero una serie di tabelle in cui erano sintetizzati i dati relativi alle

cause con e senza carcerati. Il quadro che ne emergeva era tutt’altro che confortante. Per le cause

senza carcerati dell’assessore criminale di Bologna, Quattrorecchi, dopo aver ricordato che gli si era

consentito di omettere nei prospetti le cause arretrate che si erano accumulate negli anni precedenti

perché erano circa un migliaio e avrebbero occupato un volumetto, rilevava che nel mese di

dicembre del 1824 ne erano state introdotte 32 nuove e terminate solo 14 “delle moltissime

arretrate” e quasi tutte per rinuncia della parte offesa “trattandosi di delitti di privata azione”; sicché

“è chiaro dopo ciò che non essendo in proporzione il numero delle cause che si risolvono, con

quelle che di mese in mese vanno introducendosi, si formerà un eccessivo numero di arretrate, con

notabile pregiudizio della giustizia”. La situazione dei governatorati, fatte le debite proporzioni, era

analoga.

Non diverso il bilancio relativo alle cause con imputati incarcerati, anche se i numeri assoluti

erano nettamente minori. Ad esempio presso l’assessore erano state introdotte 27 cause nuove e ne

erano state chiuse 13 vecchie; anche in questo caso c’era una drammatica sproporzione fra input e

output e le cose non andavano diversamente nei governatorati. In molti casi gli imputati erano

incarcerati in attesa di sentenza da oltre un anno. Non era diversa la situazione del tribunale: nel

gennaio del 1825 erano state introdotte 53 cause e ne erano state concluse 15, altre 10 erano quasi

terminate mentre le restanti 27 erano ancora in alto mare. Un imputato era in carcere dall’agosto del

131 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 21 dicembre. 132 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 5 febbraio.

40

1821, altri 26 da oltre un anno. Si noti che era un bilancio, secondo Masetti, buono rispetto al

periodo precedente perché negli ultimi mesi il tribunale aveva lavorato più del solito 133.

Presa visione dei prospetti il legato inviò a governatori, assessore criminale e presidente del

tribunale una lettera circolare con cui, in buona sostanza, li invitava a lavorare di più e a spedire i

prospetti entro i termini prescritti. Le risposte non si fecero attendere e, con qualche variante legata

a situazioni specifiche, denunciavano tutte un carico di lavoro eccessivo rispetto al personale

disponibile; particolarmente dettagliata, e risentita – “ho letto colla massima dispiacenza la sua

lettera” – era quella dell’assessore Carlo Bravi:

La mia giurisdizione ha 115.000 abitanti e ogni anno vengono iscritte a registro 2000 cause; di esse circa la metà

richiede la formazione di un processo sicché ogni mese 80 di queste cause richiedono lavoro: queste 80 cause possono essere divise in 5 categorie: 15 con carcerati per diversi titoli, 15 per furti e truffe, 15 per ferite e

percosse, 20 per insulti e strapazzi, 15 per furti contro incerti o per ferite, per casualità oppure ad opera di incerti.

Nei prospetti mensili vengono registrate sole le cause delle categorie 2, 3 e 4, mentre per quelle della 1 si fa un

prospetto a parte; quelle della 5 non vengono comprese nel prospetto perché non comportano una sentenza, ma

tuttavia comportano lavoro per stabilire che si è trattato di una disgrazia, per acquisire la prova generica, per

stabilire di chi è la refurtiva per restituirla al proprietario e tutto questo il revisore deve ben saperlo.

Bravi passava poi a illustrare i compiti e le attitudini dei suoi sottoposti: l’unico veramente “attivo e

pratico”, era gravemente ammalato e aveva lasciato una montagna di pratiche sospese; un altro

impiegato affidabile era stato distaccato presso il tribunale per aiutare a smaltire l’arretrato e quello

che lo aveva sostituito andava bene “per stare sotto dettatura”, ma era assolutamente incapace di

condurre autonomamente una istruttoria; l’ultimo “per grazia superiore da un governo di campagna

è stato trasferito a questo tribunale” ma, per quanto volenteroso, non era capace di far nulla.

Egualmente irritata, e circostanziata, era la risposta del governatore di Poggio Renatico: il suo

sostituto era “come se non esistesse” perché talmente vecchio e malato che non lo faceva neanche

venire in ufficio, ma gli dava delle carte da ricopiare a casa, seduto vicino al fuoco; l’alunno – cioè

il praticante – Ferdinando Corneti, dopo aver lavorato per un anno gratis, da quando aveva capito

che per lui c’erano poche speranze di una assunzione stabile, si era eclissato; il cancelliere non era

riuscito a trovare una abitazione conveniente a Poggio, per cui la sua famiglia abitava a Bologna e

chiedeva continuamente permessi per andarla a trovare e lo stesso faceva uno dei due cursori la cui

famiglia stava invece ad Argelato. Il personale era quello che era, concludeva il governatore, in

compenso la giurisdizione di Poggio Renatico era molto ampia e il lavoro aumentava di continuo.

Più sfumate, ma analoghe, erano le giustificazioni degli altri governatori. La replica del legato fu

pacata e quasi di scuse: l’unico suggerimento che si sentiva di dare era quello di ricorrere

largamente alla chiusura dei procedimenti per i reati più lievi in lettura di lista – esattamente

l’opposto di quello che aveva raccomandato Lante alcuni anni prima – e utilizzare nel modo

migliore possibile il personale disponibile perché di nuovo, stante le ristrettezze delle finanze

pubbliche, non ne sarebbe arrivato 134.

Come gli era stato chiesto, il legato Albani aveva inviato le relazioni dei suoi revisori alla

Segreteria di Stato. La reazione dell’anziano ma energico Giulio Maria della Somaglia, succeduto a

Consalvi due anni prima, fu una raffica di rimproveri e l’ordine perentorio di inviare i prospetti

entro i termini prescritti e di redigerli più accuratamente. Albani cercò di difendere se stesso e i suoi

sottoposti, ricordando che “la voluta economia nel personale degli impiegati produce incaglio e

arenamento nella marcia degli affari a misura che questi si moltiplicano nel loro dettaglio”, ma la

replica del Segretario di Stato fu l’invio di una nuova modulistica per redigere i prospetti,

accompagnata dall’ordine perentorio di adottarla con effetto immediato: le notizie sullo stato dei

procedimenti richieste dai nuovi moduli erano molto più dettagliate che in quelli precedenti e,

conseguentemente, il lavoro necessario per redigerli più lungo e complesso.

133 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1818, rub. 1, 5 e 22 febbraio. 134 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1825, rub. 1, 5, 21 e 22 febbraio, 3 marzo.

41

Appena li ebbe ricevuti, Bravi – e i governatori gli fecero subito eco – protestò che “il nuovo

modulo porta un aggravio di spesa e di fatica perché le divisioni non sono semplicissime ma

dupplicate e ripetute contro la regola di semplicità e d’abbreviazione d’ogni operazione”, e la stessa

opinione espresse Masetti che, rilevando il ritardo – superiore al consueto – con cui gli erano stati

trasmessi i prospetti redatti secondo i nuovi criteri, sottolineava che per farli “ è stato impiegato un

numero doppio di fogli e di lavoro in confronto de’ prospetti precedenti”. Albani non poté che

rispondergli che la pensava esattamente allo stesso modo, ma che non aveva potuto in nessun modo

rimuovere della Somaglia dalla convinzione che solo un più accurato monitoraggio del

funzionamento della giustizia avrebbe consentito di intervenire con efficacia per correggerne gli

errori e migliorarne la produttività 135.

A riprova della sua convinzione che la conoscenza sempre più dettagliata del funzionamento del

sistema era la premessa indispensabile per correggerlo, il Segretario di Stato l’anno successivo

spedì ad Albani una nuova modulistica, ancora più raffinata e complessa della precedente, corredata

di lunghe e puntuali istruzioni su come compilarla. Fra le numerose novità, era prescritto che nei

prospetti si registrassero anche i condannati che dopo la sentenza non erano stati ancora inoltrati al

luogo di pena e i motivi del mancato trasferimento; che sul retro di ogni foglio si annotasse l’indice

alfabetico degli imputati elencati nel recto con a fianco l’indicazione del reato; che si redigesse

anche un accurato elenco di tutti i corpi di reato sequestrati e restituiti ai legittimi proprietari. Si

precisava inoltre che i prospetti, prima di essere spediti alla Segreteria di Stato, presso la quale era

stata istituita una apposita congregazione di vigilanza per esaminarli, dovevano essere controllati e

firmati dal cancelliere e dal procuratore fiscale che ogni dieci giorni doveva riscontrare la perfetta

corrispondenza fra i dati in essi riportati e quelli registrati nel protocollo di cancelleria sul quale

andavano annotati quotidianamente tutti gli atti compiuti dagli impiegati del tribunale o dei

governatori 136.

Alcuni governatori – non senza una certa dose di ironia – fecero notare che presso i governatorati

non c’erano procuratori fiscali: bisognava perciò portare ogni dieci giorni i registri di protocollo al

fiscale del tribunale di Bologna? Albani rispose che il controllo potevano effettuarlo i governatori

stessi 137. Più serie furono le obiezioni di Carlo Bravi, incaricato di redigere i prospetti

dell’assessorato e del tribunale, il quale fece presente che disponeva di due soli scrivani che, oltre a

sbrigare tutta la normale corrispondenza, dovevano redigere sei copie di ogni ristretto dei processi

pronti per il dibattimento e cinque copie di ogni processo istruttorio fatto dai governatori per le

cause che dovevano essere decise dal tribunale e chiese perciò di poter omettere dagli elenchi delle

cause pendenti almeno quelle contro imputati non carcerati e relative a reati lievi che comportavano

una pena solo pecuniaria “perché l’elenco sarebbe lungo e mancano le braccia per farlo”. Con una

certa riluttanza – temeva la reazione del Segretario di Stato – Albani accondiscese 138.

In pratica si era convenuto di nascondere la polvere sotto il tappeto, ma il trucco non funzionò a

lungo. La lista delle cause pendenti, anche per delitti gravi, continuò ad allungarsi e di conseguenza

anche i prospetti dell’assessorato e del tribunale tornarono a essere sempre più voluminosi.

Contemporaneamente Masetti, che aveva assunto in toto il compito di revisore perché Quattrorecchi

era stato nominato governatore di Bazzano, era costretto a segnalare al legato, mese dopo mese, che

i prospetti (nel frattempo avevano cambiato nome e si chiamavano stati) arrivavano con sempre

maggiore ritardo, erano spesso incompleti e quasi mai rispettavano alla lettera i criteri prescritti

dalla commissione di vigilanza.

Nel gennaio del 1827 della Somaglia tornò a significare ad Albani la sua insoddisfazione per

come era amministrata la giustizia nella sua Legazione: troppo arretrato, c’erano cause sospese da

tre, quattro, persino cinque anni; gli stati mensili arrivavano con grande ritardo ed erano quasi

sempre imprecisi; soprattutto erano troppi gli imputati rilasciati per mancanza di prove dopo aver

135 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1825, rub. 1, 22 e 26 luglio, 14, 18 e 26 agosto. 136 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 1 settembre. 137 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 25 settembre e 1 ottobre. 138 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 7 novembre.

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trascorso anche lunghi periodi in carcere gravando sulle finanze pubbliche. Il legato rispose

stancamente che il problema era sempre lo stesso: troppo lavoro per troppi pochi impiegati; in

quanto all’accusa di procedere con troppa leggerezza agli arresti fece notare piccato che molto

spesso tali arresti non erano ordinati dal giudice istruttore, ma disposti dalle autorità di polizia che

usavano con molta generosità della propria autonomia decisionale in materia “per proprio istituto,

per mire prudenziali, o per misure cautatorie, forse con speranza di un esito felice nel giudizio, che

poi non si ottiene” 139.

Nei due anni successivi continuò il dialogo fra sordi. Masetti scongiurava il legato di prendere

atto della situazione e di ottenere dalla Segreteria di Stato una semplificazione degli stati mensili:

col portare sempre sugli stati le cause introdotte e pendenti anche di più anni contro persone non carcerate, non

contumaci e non abilitate [a cui non è stata concessa la libertà provvisoria] si anderà a formare degli stati

medesimi una mole quasi immensa, alla di cui costruzione neppure più impiegati potranno reggere, perciocché il

numero delle cause che s’introducono ogni anno ed ogni mese è di gran lunga maggiore di quelle che si possono

decidere nello stesso periodo di tempo, come si può rilevare dalla semplice ispezione degli stati, dal che ne

avviene che restando ogni mese, ed ogni anno, indecise moltissime cause si va a formare un vistoso arretrato di

queste, ed una gran mole sempre crescente negli stati periodici, quando tutte vi si debbano riportare

D’altra parte, anche se fosse stato possibile ottenere più personale, o fare lavorare di più quello che

c’era, suggeriva il revisore, sarebbe stato meglio utilizzarlo per portare a termine i processi più

velocemente, anziché per compilare gli stati: il tempo necessario per redigerli come voleva la

Segreteria di Stato infatti era sempre più lungo e veniva sottratto agli altri compiti attribuiti a

governatorati e tribunale con il risultato che le cause pendenti divenivano sempre più numerose e

rendevano la stesura degli stati sempre più onerosa. Si trattava di un circolo vizioso che si doveva

spezzare, anche perché non sembrava che l’attività conoscitiva imposta da Roma avesse sortito gli

effetti desiderati 140. Alle richieste di semplificare, se non abolire, gli stati, la congregazione

rispondeva non solo ribadendo l’assoluta necessità di redigerli come prescritto, ma rendendoli

sempre più circostanziati e producendo in continuazione una nuova modulistica che confondeva

ulteriormente le idee agli addetti alla loro compilazione.

L’ossessione di conoscere e misurare, e l’illusione che ciò servisse a cambiare le cose, anche

senza adottare le misure drastiche che sarebbero state necessarie per correggere il funzionamento

della macchina della giustizia, faceva ormai parte della cultura degli uomini di governo dello Stato

pontificio non meno che di quella degli altri stati europei, anche se i mezzi di cui essi disponevano

erano diversi 141. Albani, che da legato aveva ritenuto ragionevoli e perorato le proposte di

Quattrorecchi e Masetti, appena divenuto Segretario di Stato si affrettò a scrivere al suo successore

nella Legazione di Bologna Tommaso Bernetti:

il papa vuole che abbiano i rei la meritata punizione e che un freno sia posto alla malvagità di costoro, che si

mostrano più proclivi al delitto, e che la pubblica sicurezza venga con tal mezzo nel miglior modo garantita e

perché ciò avvenga non vi è che portare un’esame continuo sulle cause introdotte, pendenti e decise in ogni

mese.

Sicché, era la conclusione, gli stati andavano fatti e spediti con la massima precisione e puntualità 142.

Naturalmente gli stati continuarono ad arrivare in ritardo e le cause pendenti ad aumentare e, dopo

i drammatici avvenimenti del biennio 1831-1832 143 che certamente non contribuirono a migliorare

139 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1826, rub. 1, 5 e 9 febbraio 1827. Sugli ampi poteri concessi alla polizia, M.

Calzolari, E. Grantaliano, La legislazione di Polizia dello Stato Pontificio da Pio VII a Gregorio XVI, in I regolamenti

penali di Papa Gregorio XVI, pp. CCXXVII - CCLVII e S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento. 140 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1827, rub. 1, 4 settembre. 141 Sul ricorso sempre più sistematico e sofisticato alla raccolta di dati e alla elaborazione statistica per migliorare

l’amministrazione negli anni della Restaurazione F. Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici

apparati tra età rivoluzionaria e Restaurazione, Roma, Carucci, 1988. 142 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1829, rub. 1, 15 ottobre.

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il funzionamento della macchina della giustizia, Bernetti, divenuto Segretario di Stato, dovette

nuovamente rivolgere un duro richiamo al tribunale di Bologna: aveva fatto esaminare con la

massima attenzione, scriveva nel giugno del 1832, i prospetti degli ultimi sei mesi “per rilevare se e

quanta sussistenza avessero alcune voci divulgate che censuravano i ministri ed i giudici del

tribunale d’inerzia nelle procedure, e di debolezza ed arbitrio nelle decisioni” e in effetti erano

emerse gravissime anomalie e disfunzioni che gli imponevano di intimare che

il Tribunale si desti a porre in opera la maggiore attività onde provvedere almeno per l’avvenire al rilevantissimo

ritardo dell’attivazione e decisione delle cause alcune delle quali sembrano interamente abbandonate […] il Governo non può rimanere insensibile ai gravissimi inconvenienti che si frapongono all’amministrazione della

giustizia, e non potrà astenersi dal prendere le occorrenti misure.

Seguiva un lungo e puntuale elenco delle disfunzioni riscontrate: c’erano molti imputati in carcere

da due o tre anni e in qualche caso il procedimento a loro carico risultava fermo da mesi, senza che

se ne spiegasse il motivo; fra un prospetto e l’altro erano evidenti clamorose contraddizioni e

omissioni che rendevano palese lo stato di caos in cui versava la cancelleria; infine – ed era il punto

che maggiormente aveva scandalizzato il Segretario di Stato – fra il numero degli imputati e quello

dei condannati c’era uno scarto intollerabile: su 216 solo 49 erano stati condannati, quasi tutti a

pene più miti di quelle previste dal capo di imputazione, e ben 167 assolti. Non si poteva non

rilevare che

rispettando la coscienza dei Giudici e senza la menoma idea di vincolare la libertà della loro convinzione interna

sulla reità, o sull’innocenza degli imputati non può a meno l’esuberanza di questo sbilancio di non produrre la

più dolorosa impressione per farla pesare o sulla debolezza dei Giudici, o sulla manifesta ingiustizia delle procedure, che in questo secondo caso è tanto più necessario di portare con sollecitudine al compimento e

all’ultimazione per non prolungare la sofferenza, e le privazioni agl’innocenti.

Infine Bernetti ricordava che l’1 gennaio era entrato in vigore il regolamento di procedura penale,

dal quale ci si riprometteva “il più sollecito disbrigo delle procedure e delle cause”, il che era

avvenuto in quasi tutto lo stato ma non a Bologna, dove il tribunale, fra gennaio e marzo, aveva

assolto 89 dei 99 imputati, dando l’impressione di una assoluta “sterilità del lavoro” 144.

Così aspramente richiamato all’ordine, il prolegato conte Scarselli strigliò a sua volta il presidente

del tribunale e i governatori i quali addussero le giustificazioni di sempre: il personale era scarso,

poco preparato e negligente, il lavoro troppo; gli espletamenti burocratici e amministrativi – in

primis la redazione dei prospetti e i continui trasferimenti di carte fra governatorati e tribunale e fra

difensori, fiscale e giudici – assorbivano più tempo di quello che era possibile dedicare alle

istruttorie e ai dibattimenti. In quanto allo scarto fra imputati e condannati era in massima parte da

attribuire all’eccessiva autonomia di cui godeva la polizia rispetto all’autorità giudiziaria, alla

arbitrarietà con cui procedeva ad arresti sulla base di indizi inconsistenti e alla sua incompetenza nel

condurre le indagini preliminari le cui risultanze quasi mai reggevano al vaglio dei giudici 145.

Delle rigorose misure minacciate, Bernetti non ne attuò alcuna. In compenso però ordinò di

procedere alla compilazione di un ulteriore prospetto mensile relativo alla visita delle carceri. Come

abbiamo visto, tale prassi era stata ripristinata nel 1816, e in seguito era stata attuata con relativa

regolarità; al termine di ogni visita veniva redatto un verbale piuttosto sommario. Bernetti volle che

esso fosse sostituito da un prospetto molto circostanziato, per il quale inviò il relativo modulo, nel

quale dovevano essere registrati nome, cognome, luogo e data di nascita di ogni detenuto in attesa

143 Sulle vicende del biennio 1831-2 a Bologna, S. C. Hughes, Crime, disorder and the Risorgimento, pp. 107-135 e A.

Berselli, Da Napoleone alla Grande Guerra, in Storia di Bologna, vol.4, Bologna in età contemporanea 1796-1914, pp.

28-36. 144 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1832, rub. 1, 9 giugno. 145 D’altra parte era proprio la scarsa efficienza del sistema giudiziario che lasciava ampio spazio all’azione preventiva e

repressiva della polizia, cfr. G. Santoncini, Ordine pubblico e polizia nella crisi dello Stato pontificio, Milano, Giuffré,

1981.

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di giudizio, capo d’imputazione, data di arresto, stato di avanzamento del relativo procedimento.

Invano Masetti cercò di obbiettare che si trattava di un’inutile e onerosa duplicazione, perché le

informazioni richieste erano per la massima parte già riportate nei prospetti relativi alle cause in

corso: la risposta di Roma fu che lo scopo era proprio quello di incrociare i dati in essi registrati per

rilevare imprecisioni, omissioni e contraddizioni 146.

Il risultato, largamente prevedibile, fu un’ ulteriore dilatazione del ritardo con cui venivano

compilati gli stati, in nessun modo compensato da un’accelerazione dei processi. Alla fine, anche la

Segreteria di Stato dovette arrendersi all’evidenza: era inutile insistere con i prospetti mensili, che

non sarebbero mai arrivati entro i termini prescritti, costringendo Roma a sollecitare Bologna e

Bologna a rispondere con le solite giustificazioni. Un’ulteriore perdita di tempo che non portava a

nessun risultato. Nel 1834 si stabilì perciò che gli stati delle cause sarebbero stati inviati alla

congregazione di vigilanza ogni tre mesi – divennero presto sei – mentre quelli della visita delle

carceri sarebbero rimasti mensili.

Due anni dopo, per alleggerire il lavoro delle cancellerie, la Segreteria di Stato dispose

l’abolizione del ristretto, in quanto questa fu la motivazione reso inutile dalla introduzione della

fase dibattimentale. Tuttavia, già nel 1837 tornò sui suoi passi negando – contro ogni evidenza – di

aver disposto l’abolizione del ristretto, ma solo di aver voluto

rimuovere il grave inconveniente, che nell’esposizione scritta delle risultanze processuali si facessero proemi, si

aggiungessero riflessioni particolari e proprie dell’estensore di esse, e si usassero espressioni dirette ad indurre

nell’animo dei giudici una prevenzione indebita, come non di rado erasi praticato in quelli che molto

impropriamente si denominarono ristretti. Debbe perciò compilarsi un’esatta e veridica relazione 147.

In realtà il ristretto, o relazione che dir si voglia, costituiva un aggravio di lavoro per i cancellieri,

ma uno sgravio per il difensore, il fiscale e i giudici dei tribunali ed erano state le loro richieste a

indurre la Segreteria di Stato a reintrodurlo.

Negli anni successivi furono soprattutto le relazioni delle visite a evidenziare che il sistema

continuava a funzionare male. Dopo aver più volte segnalato il problema, senza che venisse preso

alcun provvedimento incisivo, nel 1838 Masetti, incaricato anche della revisione dei prospetti di

visita, lanciò l’allarme: la situazione era giunta al limite di guardia. Le carceri di Bologna erano

sovraffollate. I detenuti in marzo erano 320, si avvicinava la stagione calda e c’era da temere che

insorgessero gravi problemi igienico sanitari stante “l’assembramento di tanti individui,

specialmente delle più inferiori classi del popolo”. In giugno i carcerati erano diventati 360 148, e nei

mesi successivi continuarono ad aumentare.

Il problema era ovviamente, come sempre, la lentezza dei processi e l’estrema parsimonia con cui

si concedeva la libertà provvisoria. La riforma gregoriana, sotto questo profilo, almeno a Bologna

non aveva sortito effetti. Nel 1839 il fiscale Gianpietro Gozzi, succeduto nella carica di revisore a

Masetti, doveva come al solito denunciare che c’erano imputati in attesa di giudizio che marcivano

in carcere da quattro o cinque anni, accusati di delitti che comportavano una pena di poco superiore

o addirittura inferiore, “che inutilmente invocano con imprecazioni e lacrime” e che non si poteva

non indignarsi “per la sorte di infelici carcerati, che non tanto per legge scritta, quanto per diritto

della umanità troppo giustamente reclamano” 149.

Nel luglio del 1841 una circolare del Segretario di Stato Mario Mattei, dopo aver ricordato

l’obbligo di redigere scrupolosamente i prospetti, introdusse alcune misure volte a rendere più

rapidi i procedimenti relativi ai delitti meno gravi. Fra le altre, due erano di notevole rilevanza: la

prima era l’estensione della giurisdizione dei governatori anche a delitti che comportavano una

pena edittale inferiore all’anno, ma superiore una volta computate le circostanze aggravanti; la

146 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1833, rub. 1, 14 giugno. 147 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1837, pp. 160-162. Sul

ristretto, N. Contigiani, Il processo penale pontificio, pp. 234-236. 148 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1838, rub. 1, 31 marzo e 6 giugno. 149 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1839, rub. 1, 20 e 27 febbraio.

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seconda era la possibilità di concedere la libertà provvisoria agli imputati di delitti che prevedevano

una pena inferiore ai tre anni, purché incensurati e fatto salvo il consenso della parte offesa 150. Lo

scopo era evidentemente quello di alleggerire il lavoro del tribunale e decongestionare le carceri e

per qualche tempo sembrò essere stato raggiunto. Nel giugno dell’anno successivo Gozzi rilevava

che sia l’assessorato che il tribunale di Bologna e diversi governatori avevano smaltito parte

dell’arretrato tanto che i carcerati erano solo 280 151 e il legato di Bologna Ugo Pietro Spinola

poteva finalmente presentare alla Segreteria di Stato un bilancio abbastanza confortante

compiacendomi di vedere che li meritevoli funzionari dal più al meno spiegano una lodevole attività

nell’amministrazione della giustizia punitiva e sono puntuali ed esatti nella periodica trasmissione de’ prescritti

elenchi 152.

I motivi di compiacimento ebbero vita breve. Già dall’anno successivo ripresero le consuete

reprimende della Segreteria di Stato per la durata eccessiva dei processi e per il ritardo e la sciatteria

degli stati, cui governatori, assessore criminale, presidente del tribunale e infine legato pro tempore

rispondevano con i consueti argomenti e giustificazioni. Il numero dei detenuti in attesa di sentenza

nelle carceri di Bologna riprese a crescere: 364 nel settembre del 1843, 444 nel novembre del 1844,

480 nel gennaio del 1846.

La reazione della Segreteria di Stato fu il progressivo slittamento dalle fisiologiche, anche se

onerose, istanze conoscitiva del primo quindicennio della Restaurazione, al vero e proprio delirio

degli anni 1847-1852. Nell’arco di un quinquennio le modalità di redazione dei prospetti e i relativi

moduli furono modificate quattro volte, raggiungendo dimensioni e livelli di complicazione

mostruosi: alcuni moduli avevano un formato di 70x50 cm. che li rendeva difficili persino da

maneggiare, ed erano divisi in una dozzina di finche, ciascuna destinata alla registrazione di una

voce specifica. Si doveva fare un diverso prospetto rispettivamente per le cause introdotte e

pendenti nel mese con e senza carcerati; per quelle risolte; per quelle giudicate in primo grado e per

quelle giudicate in appello. Per ogni causa si dovevano registrare la data e gli estremi della

denuncia; i dati anagrafici e socio professionali dell’eventuale imputato, se fosse recidivo e per

quali reati e commessi quando e se sapesse leggere e scrivere; descrivere accuratamente i corpi di

reato acquisiti, la data degli interrogatori degli imputati detenuti, i dati relativi ai testimoni a carico

e discarico, l’elenco degli atti espletati con relativa data e sommario, il numero delle carte del

processo compilate fino al momento della redazione del prospetto, gli estremi della sentenza o del

decreto di archiviazione, la data e i motivi dell’ eventuale appello, il suo esito, la data di avvio del

condannato al luogo di pena.

Il risultato fu che alla fine del 1854 i detenuti nelle carceri di Bologna erano 672 153 e che nel

triennio 1856-58, a fronte di 6156 denunce pervenute al tribunale di prima istanza di Bologna, le

cause giudicate erano state solo 5086, con un ulteriore aggravio dell’arretrato. Un bilancio tuttavia

che appariva positivo al presidente del tribunale Ferdinando Speroni che accompagnava la sua

relazione con un duplice elogio: al commissario straordinario Gaetano Bedini per l’efficace opera di

riorganizzazione della giustizia che aveva consentito al tribunale di accelerare sensibilmente i suoi

lavori; e al tribunale militare, istituito nel maggio del 1849, che in tre anni aveva comminato 135

condanne a morte per fucilazione, contribuendo ad una drastica riduzione dei crimini negli anni

successivi 154.

150 Raccolta delle leggi e disposizioni di pubblica amministrazione nello Stato Pontificio, 1841, pp. 88-91. 151 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1842, rub. 1, 16 febbraio. 152 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1842, rub. 1, 5 luglio. 153 ASB, Legazione apostolica, tit. XII, 1855, rub. 1, prospetto della visita delle carceri del dicembre 1854. 154 Saggio statistico sull’amministrazione della giustizia criminale del tribunale di prima istanza di Bologna per gli

anni 1856, 1857, 1858, Bologna, Tipi Governativi della Volpe e Sassi, s.d.

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Parte II. Dal giudice monocratico ai travet della giustizia.

1. La continuità delle carriere giudiziarie nel passaggio tra Sette e Ottocento.

1a. Nobili e avvocati ai vertici dell’apparato giudiziario. Protagonisti di primo piano sulla scena

politica durante gli anni della dominazione francese, molti avvocati provenienti dalle fila della

nobiltà continuarono dopo la Restaurazione ad essere sollecitati a ricoprire le funzioni più

prestigiose della carriera giudiziaria, come risulta da queste proposte di nomina che il cardinale

Segretario di Stato di Pio VII, il cardinale Ercole Consalvi inviò al legato di Bologna, cardinale

Alessandro Lante, il 16 ottobre 1816: si trattava di personaggi connotati dal titolo nobiliare, oltre

che da quello professionale 155. Se non tutti i prescelti ritennero opportuno accettare – e se parte del

vecchio ceto senatorio bolognese intendeva in questo modo segnalare il proprio disappunto nei

confronti del restaurato governo pontificio, che aveva deluso le aspettative di un ritorno al passato

che comprendesse anche il ritorno dei privilegi del patriziato cittadino nei confronti del sovrano – ci

fu però chi, tra nobili vecchi e nuovi, non si sottrasse al servizio dello stato, continuando e

legittimando la nuova simbiosi, ai vertici della società, che affiancava agli esponenti delle famiglie

titolate i professionisti del diritto nella comune appartenenza al nuovo sistema di governo. Un

sistema che però rimaneva fortemente gerarchico e prevedeva per le funzioni di spicco il

reclutamento preferenziale dei membri della nobiltà.

Nota di alcuni dei nominati dalla Segreteria di Stato che hanno rinunciato o non sono comparsi e dei soggetti che potrebbero

surrogarsi.

marchese Antonio Amorini consultore non ha accettato si potrebbe surrogare il marchese Massimiliano Angelelli, ottimo

sig. marchese Ottavio Malvezzi Ranuzzi consultore che non ha accettato

si potrebbe surrogare il sig. conte Vincenzo Malvezzi Bonfioli. ottimo

sig. conte Pietro Pallavicini consultore, assente il sig. marchese Pietro Davia agisce per lui e in caso di rinuncia sarebbe ottimo

l’avv. Rusconi aggiunto nel tribunale civile di prima istanza finora non ha accettato

si potrebbe surrogare il sig. avv. Clemente Scarselli attuale assessore nel tribunale d’appello, abile

il sig. avv. Domenico Casoni procuratore fiscale presso il tribunale di prima istanza che ha rinunciato

si potrebbe surrogare il suo sostituto sig. avv. Pacifico Masetti, abile

signor avv. Antonio (si dovrebbe dire Vincenzo) degli Antonj, giudice del tribunale d’appello

si crede abbia rinunciato ed è continuamente ammalato. si potrebbe surrogare il sig. avv. Giovanni Fabbri attuale giudice di

appello, abile

signor avv. Vicini secondo aggiunto del tribunale d’appello si crede abbia rinunciato

si potrebbe surrogare il sig. avv. Savini attuale assessore in appello. Abile

sig. marchese Antonio Malvezzi direttore del registro e carta bollata si crede abbia rinunciato

si potrebbe surrogare il conte Carlo Ranuzzi oppure il sig. conte Valerio Dosi Dolfini. Abili entrambi.

In realtà, non mancarono da parte dei nobili resistenze alla restaurazione del potere pontificio che,

lungi dall’essere tale, privava definitivamente Bologna della sua costituzione repubblicana: il

patriziato dovette scegliere fra diventare parte della burocrazia centralizzata, in continuità con

l’assetto assunto dalla provincia durante il periodo napoleonico, o essere estromesso dalla vita

pubblica. Il 16 novembre 1816 il legato Lante scriveva di suo pugno al Segretario di Stato Ercole

Consalvi:

Era per verità un disordine senza apello e una cosa mostruosissima il vedere che tutta la provincia, sebbene così

vasta e così popolata, non costituiva in sostanza che una sola commune amministrata da quaranta Senatori

unitamente, mentre il gonfaloniere di Bologna si cambiava ogni due mesi ed aveva per conseguenza appena il

tempo di leggere i frontespizi de’ pubblici libbri amministrativi. Mi sia permessa questa digressione per

dimostrare con quanta sapienza si sono [...] dal governo riformati questi assurdi regolamenti 156.

Abolito l’ambasciatore a Roma, anche il Senato si ridusse a un’entità puramente simbolica

rappresentata da un solo esponente del superstite gruppo ristretto dell’oligarchia di ancien régime;

155 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106. 156 Ivi.

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quando fu il momento di assegnarlo, ci fu chi non volle prestarsi ad accettare un titolo di nessun

valore e quasi oltraggioso. Così, il 9 novembre, il legato Lante scriveva a Consalvi sul rifiuto del

conte Filippo Bentivoglio ad accettare la carica di senatore.

Mi è parso però di travedere che un segreto motivo lo animava: esso è comune a tutti gli altri suoi pari già

membri dell’antico Senato di Bologna, i quali delusi nella concepita speranza di vedere ripristinato cogli antichi

privilegi quel corpo mal soffrono che ad esso una debolissima ombra gli sia sostituita nell’attuale consiglio de’

Savi e del senatore, e quindi sembrano quasi tutti congiurati nel ricusarsi di coprire le cariche comunitative e la

primazia specialmente di senatore [...]. Sembrando conveniente anche pel bene del servizio di non costringere

alcuno contro sua voglia, così invece di procedere alla formazione di altra terna, che potrebbe esporre il governo

a nuovi rifiuti, io crederei che meglio convenisse d’interpellare segretamente se fra i Savi componenti il

consiglio vi fosse alcuno che riunendo tutte le qualità necessarie fosse disposto di accettare e in questo caso il governo sopra il rifiuto del conte Bentivoglio potrebbe di sua autorità devenire alla nomina.157

Alla fine ci fu chi accettò, ma si trattava di un titolato di recenti origini, il conte Scarselli, e

parecchi membri delle più antiche famiglie non mancarono di manifestare al legato, indirettamente

ma inequivocabilmente, la propria ostilità: Lante riferì che avevano partecipato alla nomina solenne

del senatore conte Cesare Scarselli e al giuramento

di fedeltà ed obbedienza nelle mie mani tutti li primari funzionari così civili che militari nonché li professori

dell’università e dell’Accademia di Belle Arti [...]. Molta nobiltà inoltre e persone distinte hanno assistito alla

cerimonia [...] ed ho potuto raccogliere che gli animi dei cittadini sono stati di essa universalmente soddisfatti

[...]. Solo mi ha recato increscimento il non avere veduto un maggior numero di Savi del consiglio, di quelli cioè

della classe dei nobili [...]. Non saprò, a dir vero, come dichiarare un sifatto contegno, se non intendessero con

esso di manifestare un sentimento avverso o ripugnante a quanto ha in proposito operato il governo 158.

Le richieste di autonomia da parte dei bolognesi sembrarono realizzarsi solo il 4 febbraio 1831,

quando il prolegato Paracciani Chiarelli cercò di prevenire un’estesa rivolta, che sembrava

imminente – in concomitanza con l’insurrezione di Modena – affidando la sicurezza della provincia

a una commissione di cittadini eminenti. Alla base della decisione del prolegato, che è considerata

da tutti gli studiosi il primo passo della rivoluzione, c’era la convinzione che l’élite liberale di

Bologna avrebbe messo da parte la ben nota ostilità al governo facendo fronte comune contro le

classi inferiori. Ma fu un errore di valutazione: i membri della commissione cercarono di evitare un

conflitto sociale assumendo il controllo della protesta popolare. Essi quindi reclutarono rapidamente

i pochi elementi armati della ribellione, in gran parte studenti e giovani radicali, in una nuova

milizia provinciale, convertendoli da fautori della distruzione della proprietà e delle gerarchie a

garanti dell’ordine costituito. L’avvocato Giovanni Vicini, Antonio Zanolini, il conte Cesare

Bianchetti, il marchese Bevilacqua Ariosti e il conte Alessandro Agucchi, appena insediati,

rivendicarono l’indipendenza di Bologna dall’autorità del papa e l’8 febbraio il potere temporale fu

dichiarato decaduto. Malgrado la natura rivoluzionaria di questo proclama, le argomentazioni con

cui era sostenuto erano giuridiche e conservatrici: il papa aveva illegittimamente usurpato il suo

totale controllo sulla città, contro gli accordi originali del XV secolo, i capitoli di Niccolò V sui

quali si fondava la rivendicazione del “governo misto”, tradizionale argomento con il quale si era

sostenuta la parziale autonomia della città. Comunque, Bologna giocò un ruolo importante

diventando il punto di riferimento e la capitale amministrativa di tutte le province che rifiutavano il

dominio del papa.

E’ noto che la rivoluzione ebbe breve durata: il 24 marzo gli austriaci entrarono in città senza

sparare un colpo. Gli affari interni dei territori soggetti al papa, di conseguenza, crebbero di

importanza diplomatica e in aprile fu convocata una conferenza internazionale per risolvere i

problemi politici determinati dall’occupazione austriaca e da una possibile ritorsione francese. Il 21

157 Ivi. 158 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 107, lettera del 4 giugno 1817 del legato Alessandro Lante al Segretario

di Stato Consalvi.

48

maggio la conferenza diffuse un memorandum nel quale si auspicava che il governo pontificio

aprisse i vertici della carriera burocratica ai laici, riformasse il sistema giudiziario e fiscale,

permettesse le elezioni dei governi municipali e istituisse consigli provinciali per coadiuvare

l’amministrazione centrale. Il 5 luglio 1831, in un clima di grande attesa, fu emesso l’editto che

disponeva sull’amministrazione delle province e l’11 luglio il direttore della polizia provinciale

riferiva al prolegato, conte Camillo Grassi, le reazioni che il documento aveva suscitato a Bologna

prima ancora di essere stato pubblicato.

Non era appena il mezzo giorno di ieri stesso che tale editto era generalmente cognito e formava il soggetto di

tutti i discorsi e delle più amare censure. Vostra Eccellenza sicuramente ricorda quanto fosse mal accolto l’editto

anteriore dell’1 giugno prossimo passato, sulla separazione delle legazioni e sulla nomina di secolari in presidi

delle provincie, solo perché si diede il titolo di pro-legati, titolo che lasciava supporre che il governo avesse in

animo di destinare in appresso dei cardinali al reggimento di queste province. Ciò nondimeno l’impressione

sinistra che allora si formò dalla generalità, andò poco a poco diminuendo, anche per essersi valsa Vostra

Eccellenza stessa, per eliminarla, delle ragioni addotte dalla Segreteria di Stato. Ora però che l’editto di cui si

tratta toglie di mezzo la credenza della secolarizzazione del governo, credenza che crebbe a dismisura per l’estesa circolazione che ha qui fatto il memorandum che dicesi fosse presentato a Sua Santità dal corpo

diplomatico esistente in Roma, se ne mena per tutto gran rumore e si osa di attaccare il governo di mala fede,

onde purtroppo precipita il suo discredito nell’opinione della moltitudine. A ciò si aggiunge che riscontrasi nel

proemio dello stesso editto una confusione di termini che lascia ambiguo il senso in un oggetto tanto importante

com’è quello di sapere quali sono le leggi che vengono derogate e quali rimangono in vigore.159

Il Segretario di Stato, cardinale Tommaso Bernetti, obiettò che l’editto prevedeva che nelle

Delegazioni di prim’ordine si potesse inviare come presidente un cardinale, non che dovesse

necessariamente essere destinato un porporato, eliminando anzi la formula del Motu proprio del

1816 che lo rendeva obbligatorio 160.

Nella sua replica al Segretario di Stato, Grassi puntualizzava che all’art. 6 dell’editto si disponeva

che il delegato potesse presiedere il tribunale criminale e all’art. 7 che ciascun delegato fosse

affiancato da un assessore legale a cui poteva essere attribuita anche “una giurisdizione di nuovi

regolamenti giudiziari”. La novità, se confermata, era destinata ad essere estremamente impopolare:

Oltreché queste disposizioni lasciano travedere un’alterazione sostanziale che si andrebbe a fare nell’attuale

impianto de’ tribunali – locché se mai si avverasse sarebbe indubitatamente cagione di gravissimo universale

malcontento –, non bisogna poi nascondere al governo la generale avversione che ha ingerita in questa città la

carica degli assessori, alla quale si sono associate idee così svantaggiose sia per le persone che l’hanno coperta,

come pel modo col quale l’hanno esercitate che non si potrebbero di buon grado vedere ricomparire fra noi 161.

A proposito degli assessori, Bernetti precisò che ne sarebbe stato nominato uno per provincia in

qualità di consultore legale dei presidenti della provincia e

Quanto al nuovo regolamento giudiziario, che si attende, io ho luogo a credere ch’esso non sia per contenere

disposizioni sostanzialmente diverse da quelle che sono state adottate dall’editto dell’Eminentissimo legato a

159 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 134. Il proemio recita: “Le paterne intenzioni palesate dalla Santità di

Nostro Signore fin dai primi giorni del suo pontificato sono per mandarsi successivamente ad effetto. Essendo

l’Ordinamento Amministrativo delle Comunità e delle Provincie uno degli oggetti che più richiamano le cure di un

buon governo, la Santità Sua ci ha ordinato di pubblicare, come noi col presente Editto pubblichiamo, le modificazione, a cui esso andrà soggetto, le quali laddove non sono in manifesta opposizione, o non derogano espressamente alle

disposizioni correlative contenute nelle leggi, e nei regolamenti che servono attualmente di norma, lasciano intatto il

vigore di queste e ne confermiamo l’osservanza”. Lo stesso 11 luglio il prolegato Grassi scrisse al Segretario di Stato

che il primo articolo che destinava un cardinal legato nelle Legazioni di prima classe poteva produrre “una sinistra

impressione nel pubblico” e, non volendosi assumere da solo la responsabilità della sua pubblicazione, aveva radunata

la congregazione governativa che non aveva “potuto dissimulare il timore” che l’editto avrebbe potuto produrre “un

pessimo effetto”. 160 Ivi, lettera del 16 luglio 1831. 161 Ivi, lettera del 20 luglio 1831.

49

latere Opizzoni per le Legazioni ed inoltre preveggo che attesi alcuni nuovi ostacoli sopraggiunti non ne sarà

imminente la pubblicazione come così si pensa 162.

Fra le voci di cambiamenti radicali e ritocchi al sistema giudiziario, già introdotti nei mesi

precedenti, almeno una si era levata già dal 28 giugno 1831 per esprimere la propria amarezza per il

danno personale che la soppressione della funzione di assessore indirettamente gli aveva provocato.

Il dottor Giacomo Contoli – che era stato nominato nel 1828 processante onorario e provvisorio,

qualifica che era venuta a cessare nel 1830 – si trovava retrocesso a cancelliere sostituto. Con una

notifica legatizia del 30 marzo 1831 la nuova organizzazione del tribunale criminale aveva infatti

soppresso la carica di assessore criminale, che fungeva da giudice nelle cause per delitti minori

perseguiti a Bologna e punibili con pene pecuniarie ed afflittive fino a un anno di lavori forzati (le

stesse competenze riservate ai governatori dislocati nelle comunità del contado), con la facoltà di

valersi dei giudici processanti per la compilazione dei processi e degli altri impiegati del tribunale

criminale di Bologna e specialmente dei cancellieri sostituti. La giurisdizione dell’assessore era

stata attribuita al tribunale e le cause erano state distribuite fra i processanti, ai quali erano stati

assegnati i cancellieri sostituti che prima dipendevano dall’assessore 163. Contoli lamentava dunque

di essere passato da un ruolo giudicante a un ruolo puramente esecutivo nell’organigramma dei

tribunali cittadini.

1b. Mansioni e compensi degli impiegati della giustizia. In complesso, tuttavia, fin dal 1796 e in

tutti i momenti cruciali di cambiamento di regime, l’apparato burocratico aveva continuato a

funzionare con una sostanziale continuità nella composizione del personale dei tribunali: anche per

il tribunale civile furono confermati tutti i notai attuari già in servizio 164. Se da una parte la

continuità nell’impiego del personale dei tribunali, a tutti i livelli, sembra essere stato un criterio

guida nella definizione degli organici, dall’altra dai primi anni della Repubblica la lealtà politica,

almeno a parole, sembra essere stata il requisito essenziale sia per le nuove assunzioni, sia per la

conferma nelle funzioni già ricoperte in passato. Un decreto del Gran consiglio del 16 dicembre

1797 si spinse fino a invertire le priorità dei titoli d’accesso ai gradi più elevati della carriera, sia per

i membri del tribunale di Cassazione, sia per il presidente del tribunale criminale e per la pubblica

accusa, abolendo quello di aver esercitata la funzione di giudice o la professione legale per almeno

cinque anni: “Essenziale requisito, oltre la competente abilità, sarà quello di aver date prove di vero

patriotismo, di attaccamento al nuovo ordine di cose e di propensione alla repubblica” 165. Due mesi

dopo il Gran consiglio ribadì l’esclusione per motivi politici, deliberando che nessuno potesse

essere impiegato, ritenuto in impiego e in qualunque funzione il quale dall’anno I della Libertà abbia composti e

pubblicati libri diretti ad ispirare odio verso la democrazia e predilezione al governo dei re, dei teocratici, degli

aristocratici e degli oligarchi o che abbia portate le armi contro la libertà o animato il popolo a prenderle. Nella

collazione di tutti gl’impieghi in parità di merito avrà sempre la preferenza chi somministrerà maggiori e più

chiare prove di patriottismo e di moralità conformi ai doveri del cittadino.166

A questa disposizione si accompagnava l’obbligo per gli impiegati di giurare entro due decadi

“inviolabile osservanza alla costituzione” promulgata l’8 luglio 1797, e “odio eterno al governo dei

re, degli aristocratici e oligarchi” e di promettere “di non soffrire giammai alcun giogo straniero” e

di contribuire con tutte le proprie forze “al sostegno della libertà, e dell’eguaglianza ed alla

162 Ivi, lettera del 28 luglio 1831. 163 Ivi, lettera del 28 giugno 1831. 164 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’ingresso delle truppe francesi, parte I, p. 12. 165 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica

Cisalpina, vol. 7, parte IX, pp. 25-26. 166 Ivi, vol. 11, parte XIII, p. 19.

50

conservazione e prosperità della Repubblica”, escludendo dall’impiego chi avesse rifiutato di farlo 167.

La Risoluzione del gran consiglio per l’impianto dei tribunali e gli stipendi 168 aveva definito i

compensi annuali per tutto il personale in organico nei tribunali della Repubblica Cisalpina. La

novità più grossa rispetto all’antico regime era il fatto che i costi della giustizia fossero sostenuti

quasi integralmente dallo stato, con l’abolizione degli oneri che in passato avevano dovuto

sostenere rei, litiganti, comunità, con la conseguenza di penalizzare, soprattutto nelle cause

criminali, gli inquisiti più poveri o i loro parenti. La Risoluzione dettagliava le retribuzioni che

dovevano essere corrisposte a seconda delle mansioni svolte e l’importanza del foro. Presso ciascun

tribunale dipartimentale c’erano un commissario del potere esecutivo, un sostituto con le funzioni di

segretario, e uno scrivano. Presso i tribunali criminali erano impiegati il cancelliere, un ufficiale di

cancelleria, due scrivani, un usciere e tre commessi dell’usciere. Presso i tribunali correzionali c’era

un commissario del potere esecutivo, un cancelliere, uno scrivano, un usciere e un commesso

dell’usciere.

I cancellieri dei tribunali civili, delle sezioni e dei giudici di pace erano anch’essi “salariati dalla

nazione a titolo delle incombenze loro attribuite dalla legge, per le quali non si può esigere veruna

mercede”. Salariati erano anche gli uscieri e i commessi dei giudici di pace per le intimazioni e per

le esecuzioni degli atti di polizia giudiziaria.

Tutti gli altri ufficiali subalterni de’ tribunali civili, delle sezioni de’ giudici civili e de’ giudici di pace non

ricevono dalla nazione alcun salario. Essi per la formazione degli atti civili, per le intimazioni e per le esecuzioni

di questi atti esigono dalle parti le mercedi colle norme da fissarsi dalla legge. Queste mercedi sono esigibili

anche dai cancellieri di questi tribunali e rispettivamente dagli uscieri e commessi dei giudici di pace per quegli

atti civili che sono da essi formato e rispettivamente eseguiti.

La Repubblica, che si accollava le spese per la formazione dei processi criminali e correzionali,

aveva diritto di esserne reintegrata dai condannati dopo le sentenze definitive, ma la detenzione non

avrebbe mai potuto essere protratta per il mancato pagamento di queste spese se i condannati

potevano dimostrare con attestati delle rispettive municipalità la loro povertà, che li avrebbe esentati

dal rimborso. Il padre o altri parenti non potevano essere costretti al pagamento al posto del

condannato.

Si corrispondono provvisoriamente alle autorità giudiziarie ed agli infrascritti subalterni impiegati presso i tribunali della repubblica le seguenti indennizzazioni 169.

Tribunali dipartimentali Tribunali correzionali Giudici di pace

Al presidente, per ciascuno, lire 5000

agli accusatori pubblici, lire 5000

ai giudici, lire 4000

ai cancellieri criminali, lire 3000

ai cancellieri, lire 1200

agli scrittori lire 1000

agli uscieri lire 600

ai commessi lire 500

Ai giudici, lire 2500

agli assessori lire 1000

ai cancellieri lire 500

agli uscieri presso ciascun giudice di

167 Raccolta de’ bandi, notificazioni, editti & pubblicati in Bologna dopo l’unione della Cispadana alla Repubblica

Cisalpina, vol. 11, parte XIV, pp. 68-69, delibera del 25 ventoso, anno VI (15 marzo 1798). Il 7 germinale dello stesso

anno (27 marzo 1798) il consiglio dei Seniori trasmise al Direttorio esecutivo la definitiva elezione dei presidenti dei

tribunali criminali, degli accusatori pubblici e dei cancellieri per ciascun Dipartimento. Per il Dipartimento del Reno fu

nominato presidente l’avvocato Filippo Gaudenzi, accusatore l’avvocato Giovanni Pilla, cancelliere Francesco Argelati

“legale” (ivi, parte XV, pp. 22-25). Il 3 fiorile (22 aprile), il consiglio de’ Seniori inviò al Direttorio esecutivo la nota proposta dal Gran consiglio per la definitiva elezione dei giudici di tutti i Dipartimenti. Per il Dipartimento del Reno,

per il tribunale Dipartimentale e per quattro tribunali correzionali indicò i nomi degli avvocati Giuseppe Gavazzi, Luigi

Cecchelli, Giuseppe Cacciari, Giovan Battista Pozzi, Petronio Tondelli, Giuseppe Pignoni, Carlo Sartoni, Vincenzo

Filicori, Andrea Guerrini Sforza, Giovan Battista Ferratini, tutti di Bologna, e di Giuseppe Fincati indicato come ex

veneto (Ivi, vol. 12, parte XVI, pp. 46 e sgg.). 168 Ivi, vol. 13, parte XIX, pp. 77-83. 169 Il 29 termidoro anno V (16 agosto 1797) la corrispondenza del valore delle monete tra lo scudo di Bologna di 10

paoli (calcolato approssimativamente a 5 lire) era stata fissata a 7 lire di Milano (ivi, vol. 7, parte II, p. 25).

51

ai cancellieri civili presso i tribunali lire

600

ai cancellieri civili presso le sezioni dei

giudici civili, lire 500

agli ufficiali dei cancellieri criminali, lire

1500

agli scrittori dei tribunali criminali, lire

600

ai commessi degli uscieri de’ tribunali

criminali, lire 500 ai commissari del potere esecutivo, lire

4000

ai sostituti dei commissari, lire 2000

agli scrittori dei commissari, lire 1000

ai commissari lire 2000

pace, lire 300

ad uno de’ commessi, lire 200

Il 22 brumale, anno VII (12 novembre 1798), l’avvocato Giacomo Pistorini, commissario del potere

esecutivo presso i tribunali del Dipartimento del Reno, fu informato dal ministero della giustizia che

il cittadino dottor Gaetano Piacenti “aveva il diritto di essere riabilitato all’esercizio del notariato

non ostante che egli fosse nominato in pendenza della lite già vertente fra l’ex collegio de’ notari e

gli eletti dall’ex collegio de’ dottori” e lo incaricava di trattarlo “egualmente che i notari ex

apostolici ed imperiali, i quali sono stati destituiti dal direttorio esecutivo all’esercizio del notariato,

loro sospeso col rescritto pontificio delli 10 aprile 1796”. Piacenti doveva quindi essere “riabilitato

al mentovato esercizio e perciò ai di lui rogiti sarà dovuta da dì d’oggi in avvenire una piena fede” 170. Dunque il dottor Piacenti era già in servizio prima dell’arrivo dei francesi e forse sospetto di

simpatie per le idee giacobine. Lo fa pensare il fatto che durante l’occupazione austriaca, quando

vennero abolite le competenze dei giudici di pace, fu ripristinata la curia arcivescovile e si progettò

di riattivare il tribunale della Rota, fu nuovamente sospeso. Gaetano Piacenti figura infatti in un

elenco di notai riassunti all’esercizio della professione, dopo esserne stati rimossi con proclama del

23 settembre 1799 171.

Sedici anni dopo incontriamo di nuovo Piacenti, che il 28 dicembre 1816 indirizzò come

processante del tribunale criminale una sua Apologia al legato Lante che lo aveva accusato di scarsa

diligenza; Piacenti replicava di non meritare “la taccia d’essermi ricusato ai venerati ordini

dell’eminenza vostra reverendissima”. Quanto all’accusa di trascurare il lavoro, rivolta a tutti i

quattro processanti – “Ma non si travaglia, si perde il tempo in divertimenti, in teatri e si fanno

birbanterie”, avrebbe detto Lante – Piacenti, per quanto lo riguardava, si difese lamentando di

essere oberato di lavoro

stante l’essere io solo caricato di 100 carcerati circa, un mese per l’altro, i quali per la massima parte sono

imputati di gravissimi misfatti, e dovendo condurre a perfezionato termine ogni processo, anche di minore entità

e formargli il relativo ristretto, senza contare i moltissimi rapporti ed informazioni in iscritto e finalmente che i

quattro notari di cui è stata provveduta la cancelleria, due de’ quali riescono pressoché inutili, ed un altro, che è

principiante, non mi è possibile, a fronte di una insopportabile fatica, di poter fare più di quanto si è fatto.

Quanto ai teatri, disse di non avere “né tempo né mezzi, poiché lo scarso mio onorario non mi è

bastevole a sfamare la mia famiglia in quest’annata d’estrema penuria”. Concludeva ricordando al

legato “che sono 21 anni dacché presto l’opera mia al governo nel giudiziario, che io mi trovava

fuori di patria da quasi tre anni, ove era decorosamente impiegato, allora quando fui reiteratamente

ricercato di ripatriare”. Piacenti, alla caduta del Regno, era quindi andato in esilio, ma vi era rimasto

poco tempo: lui stesso disse che era rientrato da un anno e mezzo 172. Lo incontreremo di nuovo più

170 Raccolta delle leggi, proclami & pubblicati dopo la nuova costituzione presentata dal cittadino Trouvé, vol. 17,

parte VII, p. 90. 171 Collezione delle leggi, proclami ed editti pubblicati in Bologna dopo il ritorno delle truppe francesi seguito li 28

giugno 1800, vol. 25, parte II, pp. 7-8. 172 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106.

52

avanti; per ora il suo caso, come molti altri, segnala che la continuità del servizio faceva di lui un

elemento esperto che anche in seguito, pur dando adito a numerose reprimende, resterà come

processante o governatore fino a tarda età. Con la Restaurazione era stato riassunto, anche se non

subito, certo in funzione delle sue capacità ma soprattutto dell’esiguità dei salari che il sovrano

pontefice era in grado di offrire, in rapporto a quelli pagati durante il Regno, e che pochi dottori in

legge (e ancor meno avvocati) erano disposti ad accettare, preferendo i maggiori profitti della libera

professione.

Già a pochi anni dal ritorno del governo pontificio infatti si lamentavano gli aggravi di lavoro che

venivano addossati in cambio di una misera retribuzione, tale da permettere a stento di mantenere la

famiglia. Tuttavia, anche i funzionari del Regno d’Italia non sempre avevano dato buona prova. Il

31 luglio 1802, una lettera spedita dalla segreteria generale e riservatissima in risposta a un’altra

spedita dal ministero degli affari interni il 28 luglio, altrettanto riservata, rendeva noto che il

tribunale criminale del Dipartimento era “atto a dar causa ai delitti anziché reprimerli” e che i tre

giudici ordinari, i cittadini Pigozzi, Sartoni e Filicori, erano “cattivo il primo decisamente, il

secondo che gli tien dietro assai da vicino e il terzo di miglior fondo, ma giovane e mal atto a

resistere all’influenza dei due”. Ma la vera causa dell’inerzia “o piuttosto della colpevole reazione

di questo tribunale non proviene né da ignoranza né da cattivo metodo: ella è nel fondo la medesima

che in questi ultimi tempi ha fatto tanto divergere la Guardia Nazionale dalla linea dei suoi doveri”,

vale a dire

uno spirito di puntiglio falsamente decorato col nome di patriotismo, una esaltazione diretta in senso contrario

alle viste del governo, che lo porta a proteggere coloro che i giudici, nella colpevole ed esagerata loro maniera di

vedere riguardano come gli eroi o i martiri del partito. Il che nel fondo viene a risolversi in una vera e colpevole

connivenza con gli impuniti. Non migliori sono in generale gli attuari processanti, uno dei quali è attualmente

detenuto in sequela delle ultime misure di sicurezza pubblica ed il fornire il tribunale di soggetti abili e probi in

questa linea sarà forse uno dei più difficili e delicati punti della riforma giudiziaria.173

Dunque, un’opposizione strisciante, che accomunava il personale del tribunale alla Guardia

Nazionale 174: con “patriotismo” certamente si alludeva a quella lealtà alla «patria» bolognese che

sarebbe riemersa apertamente nel 1831 e che, come avrebbe dimostrato il Voto commissionato a

Berni degli Antoni, si era fatta sentire già nel 1816 175.

Quanto a Piacenti, la sua nomina risaliva solo a due mesi prima della reprimenda ricordata,

essendo compreso negli elenchi del personale del tribunale criminale e del tribunali d’appello

approvati dal Segretario di Stato cardinale Ercole Consalvi con una lettera al legato Alessandro

Lante del 16 ottobre 1816,176 che riportiamo di seguito.

Elenco dei funzionari ed impiegati dei tribunali della Legazione di Bologna

APPELLO Giudice avv. Vincenzo

Patuzzi

scudi mensili 80

giudice avv. Filippo Barbiroli 80

giudice avv. Giovanni

Mazzolani

80

giudice avv. Filippo Carli 80

giudice avv. Giovanni Carlo

Solieri

80

giudice avv. Luigi Salina 80

giudice avv. Giacomo Cesari 80

primo aggiunto avv. Gherardi ...

secondo aggiunto avv. Gaetano Savini ...

173 ASB, Prefettura del dipartimento del Reno, Affari riservati, b. 3, n. 11. 174 L. Antonielli, I prefetti dell’Italia napoleonica, pp. 103-155. 175 A. De Benedictis, Bologna nello Stato della Chiesa secondo il diritto delle genti e il diritto pubblico. 176 ASB, Legazione di Bologna, Atti riservati, b. 106.

53

Loiani

procuratore fiscale avv. Francesco

Gagliardi

50

avvocato dei rei avv. Riari Masi 35

cancelliere civile dott. Giuseppe

Predieri

40

cancelliere criminale dott. Carlo Contoli 40

sostituto al

cancelliere civile

Paolo Maria Guidetti 20

sostituto al

cancelliere criminale

dott. Settimio

Zappoli

20

attuario ossia

sostituto

Ignazio Roatti 20 nominato

interinalmente

attuario ossia

sostituto

Vincenzo Longhi 20 c.s.

scrittore Filippo Paolo

Bonaga

15

altro Luigi Canuti 15

cursore Giovanni Zani 5

portiere Francesco Bini 9

altro Giusppe Galletti 9

CRIMINALE DI

PRIMA ISTANZA

giudice processante dott. Francesco Livizzani

30

altro dott. Giuseppe

Bonaga

30

altro dott. Gaetano

Piacenti

30 nominato

interinalmente

altro Francesco Montanari 30 c.s.

cancelliere Vincenzo Suali 25

sostituto Domenico Capelli 15

altro Gaetano Baldi 15

altro dott. Luigi Pasini 15

altro Luigi Golfarelli 15

procuratore fiscale avv. Pacifico Masetti 25

avv. dei rei avv. Raffaele

Giacomelli

15

scrittore archivista Giovanni Marzocchi 10

cursore Giuseppe Lopez 4

altro Luigi Piombini 4 interinalmente

altro Filippo Fanti ... senza paga perché ha

l’emolumento

dall’esecuzione di

atti e citazioni

altro Carlo Massioni ... c.s.

portiere Saverio Tadolini 8 interinalmente

altro Gaetano Capelli 8

Un anno dopo, il 31 dicembre 1817, il legato Lante rispondeva ad un allarmato Consalvi, che gli

chiedeva conto di voci malevole sul funzionamento della giustizia criminale a Bologna, che la

congregazione criminale

che costituisce propriamente ciò che si chiama tribunale, è composta di persone superiori ad ogni eccezione la

cui probità non lascia alcun dubbio ed esclude perfino il sospetto. Monsignor vicelegato che la presiede in [mia]

vece è conosciuto da Vostra Eminenza Reverendissima e certamente niuno oserà attaccare la sua integrità e la rettitudine di sue intenzioni. I due assessori della Legazione, che pure fan parte di essa, sono due persone probe

e tali reputate universalmente. Il consultore della congregazione governativa, che pure v’interviene, non può

certo offrire argomento alcuno alla maldicenza. Finora ne ha sostenuto l’incarico il conte Malvasia, soggetto

54

troppo noto e distinto per ogni riguardo ed ora è passato a rimpiazzarlo il marchese Davia, cavaliere esso pure

rispettabile e integerrimo. Un giudice infine del tribunale civile compie il numero dei membri che compongono

la detta congregazione ma la integrità e la reputazione che godono i giudici di quel tribunale è tale che si può

bene riposar tranquillo sopra di quello che è prescelto ad intervenire alle sedute della riferita congregazione.

Ma era a proposito di alcuni elementi ai livelli più bassi dell’organico del tribunale criminale di

prima istanza che potevano nascere dicerie e malumori e Lante ne era consapevole.

Purtroppo la condotta e il servigio di questi non è il più soddisfacente. So benissimo che non a torto sono

imputati di corruzione e che non per ignoranza ma per malizia costituiscono in guisa i processi per cui il

tribunale è messo talvolta nell’impossibilità di condannare i delinquenti. Di qui poi ne nasce che costoro escono

impuniti con iscandalo pubblico [...] Io grido tutto il giorno contro essi, vado a sorprenderli ne’ loro uffici, li minaccio di destituzione e di più severi castighi e li fo sorvegliare attentissimamente ma fino a questo punto non

ho potuto aver prove dirette e fondate onde venire contro essi ad una decisa misura [...] poiché il tutto andrebbe

a risolversi in sospetti generici così riescirebbe loro ben facile di purgarsi.

Inoltre, il legato faceva presente che non era facile, con gli scarsi stipendi che venivano loro

corrisposti, scegliere i processanti fra i migliori e più integri uomini di legge.

La difficoltà di trovare altre persone da sostituire ai dimessi è più grande di quello che possa credersi. L’ufficio

di giudice processante è necessario che sia sostenuto da persona di grande integrità e di lumi e cognizioni che

non sono a tutti comuni. Non manca è vero questa città di soggetti che riuniscano le qualità necessarie ma è ben

difficile che si trovi alcuno capace e probo che voglia assumerlo col limitato appuntamento di mensili scudi 30,

mentre assai più può lucrarne altrove dedicandosi alla professione legale. Conviene Eminenza Reverendissima

persuadersi che il governo spendendo di più in questi soggetti farebbe in molti casi una economia di gran lunga

maggiore e potrebbe sempre trovar uomini onesti ed illuminati a cui potere con sicurezza affidare pubblici ed

importanti impieghi.

Lante disse di aver pensato più volte di far venire un processante adatto da Roma o da un’altra parte

dello stato

ma ho riflettuto che se quelli del paese non posson vive[r] con uno stipendio sì limitato e sono purtroppo costretti

dal bisogno a lasciarsi sedurre dal denaro, molto di più un forestiero che qui venisse si troverebbe in critica

situazione e a un troppo duro e pericoloso cimento verrebbe esposta la di lui probità 177.

Dalla caduta di Napoleone in poi la mancanza del denaro necessario per mantenere quell’apparato

burocratico centralizzato che il papa si era guardato bene dallo smantellare si era immediatamente

ripercossa sui salari dei dipendenti pubblici. Il 2 gennaio 1816 il presidente del tribunale d’appello,

Filippo Barbiroli, aveva chiesto al delegato apostolico in nome dei “poveri impiegati” di rimediare

al danno sofferto con la diminuzione del loro stipendio mensile. “Io non posso a meno di

compiangerli che non avendo essi potuta pagar la pigione che doveva ognun di loro avanti il Natale

vanno soggetti a soffrir in breve gravissime molestie” 178. Che ci fosse stata fin dall’inizio una

perdita di potere d’acquisto è detto ripetutamente nei documenti, ma abbiamo voluto verificare se le

continue lamentele di processanti e governatori, spesso costretti ad indebitarsi o indotti a farsi

corrompere, corrispondessero a un’effettiva situazione di quasi–indigenza. Abbiamo utilizzato per

questo alcuni dati sui generi di largo consumo, commestibili o no, dallo spoglio dei processi del

governatorato di Castelfranco per gli anni 1816/1818, i quali specificano il valore attribuito alla

refurtiva 179.

Il quadro che ne emerge è contradditorio. Se rapportiamo i salari dei processanti al prezzo del

grano, ne risulta che erano molto bassi, sia durante il Regno d’Italia sia durante la Restaurazione.

Quelli dei governatori dislocati sul territorio, retribuiti mensilmente un po’ di più dei processanti –

177 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 108. 178 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 103. 179 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castelfranco, atti criminali.

55

35 scudi, ma dovevano provvedere all’alloggio nelle comunità sedi dei governi – possono essere

confrontati con quelli che prima di loro avevano percepito i giudici di pace, i quali erano pagati

2500 lire l’anno – somma che, ragguagliata al valore dello scudo milanese, era pari a 357 scudi

annui, vale a dire 30 scudi mensili scarsi. Facendo lo stesso calcolo per i giudici più pagati, cioè

quelli del tribunale d’appello, che dopo la Restaurazione percepivano 80 scudi al mese, rispetto ai

colleghi che avevano esercitato nel passato regime per 4000 lire l’anno, cioè 571 scudi, risulta che

in realtà durante la Restaurazione era corrisposto loro annualmente lo stipendio ben più appetibile di

960 scudi, un buon 40% in più.

Certo però non si poteva più sperare sugli emolumenti extra dell’ufficio come in passato. Il 29

febbraio 1820 l’assessore criminale Carlo Bravi comunicò ai due cancellieri del tribunale e

dell’assessorato l’ordinanza del legato del 21 febbraio che riorganizzava il settore amministrativo

del tribunale criminale stabilendo che gli incerti venissero divisi tra di essi. Osservazioni in

proposito vennero fatte sia da Michele Angelo Gaudenzi, cancelliere dell’assessorato, che nella

lettera di accompagnamento lamentava che col nuovo regolamento il suo “onore” sembrava

“offuscato dopo tanti anni di fedele, rigorosa e pontuale onestà nella riscossione de’ diritti de’

tribunali” sia dal cancelliere del tribunale criminale Vincenzo Suali 180. Gaudenzi rilevò che il

regolamento sembrava derogare dalla legge che accordava ai consiglieri “i tenui emolumenti che in

tutti i tribunali sono sempre stati ad essi rilasciati per quegli atti e spedizioni di carte che si

riferiscono ad una loro particolare fatica e responsabilità, come sono le copie autentiche, certificati,

fedine e simili”. In particolare rilevò

la differenza che passa tra l’editto Giustiniani 17 ottobre 1815 e l’editto della Segreteria di Stato 26 novembre

1817: il primo voleva che tutte le tasse cadessero a favore dell’erario perché gli emolumenti ed indennizzi degli impiegati erano molto più considerabili; nel secondo si è voluto supplire alla diminuzione dell’indennizzo colla

percezione de’ pochi incerti in esso divisati [...] Il motu proprio parla di sportule, multe, diritti di sentenze, in

una parola di tutti quegli atti in cui il giudice per mezzo del cancelliere esercita la sua giurisdizione, ma siccome

per quest’esercizio essi sono pagati dal governo perciò è ragionevole che niente possano per essi conseguire.

Ma gli atti di cancelleria che si formano e si spediscono dal solo cancelliere senza l’intervento del giudice e

senza l’esercizio di sua giurisdizione sono altrettante fatiche personali e responsabilità che esso contrae [...] Ora

perché in compenso di questa responsabilità a cui si espone non dovrà egli conseguire que’ pochi baiocchi che

la legge gli accorda?

C’era una grande sproporzione, secondo quanto faceva notare Gaudenzi, fra le fatiche della

cancelleria del tribunale e quelle dell’assessorato. Nel primo caso si trattava solo di delitti gravi e

quindi minori di numero rispetto ai reati numerosi, ma di poco conto, soggetti alla cognizione

dell’assessorato. I rei dei delitti gravi erano quasi tutti insolvibili mentre i rei dei delitti minori di

solito potevano pagare, per l’irrilevanza delle spese. Ne conseguiva che il cancelliere del tribunale

criminale con poca fatica avrebbe diviso le mercedi con il cancelliere dell’assessorato e ne avrebbe

goduto come lui che per procacciarsele di fatica ne faceva molta. Gaudenzi si opponeva quindi

all’unificazione delle cancellerie e delle loro retribuzioni. Suali a sua volta sostenne che il

regolamento non si poteva applicare perché l’editto della Segreteria di Stato del 26 novembre 1817

non contemplava le tasse e le competenze di cancelleria dei tribunali criminali ma solo quelle dei

governatorati di primo e secondo ordine

quali sono tanto più minori in quanto che minore è la sua giurisdizione ed in quanto che li cancellieri

conservano la partecipazione degli emolumenti nelle cause civili [...] Niuna legge o disposizione è stata finora

180 Nel 1825 come cancelliere del tribunale criminale Vincenzo Suali percepiva 25 scudi al mese. Una nota di servizio

lo qualificava come “affatto inetto anche per pubblica notorietà” ma praticamente inamovibile in considerazione

dell’età avanzata e di un servizio trentennale. Di Michel Angelo Gaudenzi, che come cancelliere dell’assessorato

percepiva 20 scudi al mese, il giudizio era più lusinghiero, quanto all’ efficienza – “E’ antico impiegato, capace ed

attivo” – ma non sul carattere perché “alquanto presuntuoso e pettegolo”. ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.

13, Pianta organica del tribunale criminale 2 luglio 1825.

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emanata intorno alle tasse e competenze di cancelleria dei tribunali superiori [...] anche perché dal governo

niuna massima è stata presa sul proposito.

Odi e gelosie, recriminazioni e delazioni agitavano gli animi già da tempo attorno al problema

delle retribuzioni supplementari. Il 27 gennaio 1818 lo stesso Michele Angelo Gaudenzi,

qualificandosi “cancelliere e giudice processante nel tribunale dell’assessorato criminale”, aveva

scritto al legato Alessandro Lante dicendo che, da quando era diventato assessore criminale,

l’avvocato Carlo Bravi, aveva voluto attivare certe sportule a proprio vantaggio “non accordate

dalla legge nelle cause criminali” obbligando il cancelliere

a convertire le pene pecuniarie, ossia le multe, in sportule, come se le sentenze portanti simili condanne fossero riferibili a cause civili ed eguali ai decreti di volontaria giurisdizione, facendosi supporre che il danaro ritirato

presso di sé, e ammontante in complesso a non tenue somma, dovesse erogarlo nei restauri di recente da lui fatti

eseguire onde ridurre l’uffizio tutto ad uso di suo privato domicilio. In sequela di questa sua misura [...] onde

accumular molto denaro si diede tutta la premura di tenere moltissimi contradditori e di definire in tale forma

molte cause, applicando multe fors’anche talvolta sproporzionate, abbenché una tale forma di procedura altro

scopo non dovesse avere se non se quello di conciliare gli animi de’ cittadini, di prevenire disordini maggiori e

di diminuire tanto le cause arretrate quanto quelle che in copioso numero quotidianamente vengono introdotte.

Il legato era stato informato di queste irregolarità ed aveva ammonito l’assessore Bravi; questi in

seguito era venuto a sapere che ad avvertire il cardinal Lante era stato il cancelliere d’appello,

l’avvocato Carlo Contoli, tramite lo stesso Gaudenzi, e per questo l’assessore aveva cominciato a

manifestare a quest’ultimo una forte ostilità.

Indi lo stesso Bravi tralasciò affatto di trattare in via economica ossia in contradditorio le cause che per la loro

natura meriterebbero di essere in tale forma definite, poscia si mise a scrivere e scrive, non che riceve rapporti o

lettere d’ufficio senza nemmeno metterle a registro; sconvolse ed ha sconvolto e posto sottosopra tutto l’ufficio,

avendo fatto fare replicate volte il trasporto de’ mobili e degli atti ora da un luogo, or dall’altro, mantenendo e

facendo di tal suo operato un misterioso segreto e ieri poi 26 [gennaio] corrente così di sorpresa fece terminare,

se pur sarà vero, la traslocazione della cancelleria, traslocazione che mentre sagrifica gl’impiegati del tribunale

e che gli toglie tutta quella decenza che gli sarebbe doverosa, va poi ancora ad inferire un grave arenamento agli

affari in pregiudizio e della giustizia e del pubblico erario [...] Dopo seguita tale traslocazione conobbe il

petente che [...] ne veniva [...] esposta la di lui responsabilità nella sua rappresentanza di cancelliere, sia per

rapporto alla custodia de’ processi e de’ corpi di delitto, sia per la segretezza tanto necessaria pel fisco nella

compilazione de’ processi quanto in fine perché manomessi i mobili e tutt’altro che esso teneva in custodia senza che sia stato aggiornato dove asportati e quale uso ne siasi fatto 181.

Bravi non doveva essere molto amato dagli impiegati del tribunale criminale bolognese. Pochi

mesi prima, il 19 novembre 1817, presumibilmente arrivato da poco in città – era originario di

Ancona – aveva scritto al legato Lante parole poco gradite agli abitanti, da sempre ostinati a

rivendicare l’esenzione dei cittadini dalle sanzioni pecuniarie, pretesa che l’avvocato riteneva

infondata e anzi sosteneva che comminarle fosse facoltà dei giudici come misura preferibile alle

pene detentive.

In mancanza d’una apposita legge sovrana e pontificia la quale espressamente escluda o abolisca la pena

pecuniaria possa essere delle attribuzioni dei signori giudici il commutare la pena afflittiva in pecuniaria in tutti

quei casi ne’ quali ha luogo la pena straordinaria nei quali si può usare l’arbitrio, ne’ quali la mancanza può cadere sotto la disposizione del diritto comune piuttosto che sotto la legge bannimentale, ne’ quali infine si

giudica sommariamente ed economicamente. Una tal massima è da me appoggiata primo al diritto comune

tuttora vigente in cui espressamente viene prescritta e cominata la pena pecuniaria. Secondo alla prattica

costante ammessa e continuatamente osservata in tutti li tribunali. Terzo alla ragione ed equità per che

trattandosi di materia penale, odiosa e suscettibile d’interpretazione secondo le regole della giurisprudenza deve

assumersi quella interpretazione ed applicarsi quella pena che è più benigna e favorevole al reo secondo li

181 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109. Alessandro Lante il 12 febbraio vergò la risposta dalla quale risulta

che aveva fatto personalmente un’ispezione ma non quali provvedimenti avesse preso: “Ritenendosi provveduto colle

disposizioni da noi date nell’odierna visita locale si passi la presente all’archivio riservato”.

57

principi e le massime liberali adottate ed esternate dal clementissimo sommo pontefice nostro sovrano e quinto

finalmente alla volontà del legislatore sufficientemente manifestata nel recente motu proprio all’art. 16, § dove

contempla le multe 182.

Nonostante i mugugni dei dipendenti del tribunale e dei governatorati, la loro posizione era

invidiabile, soprattutto in un periodo di crisi economica e di declassamento anche di famiglie di

antiche tradizioni, poiché la logica del pubblico impiego come “posto fisso” era già pienamente

affermata: anche in casi di gravi mancanze la misura adottata era prevalentemente il trasferimento

lontano dai luoghi nei quali il soggetto aveva provocato critiche e problemi. Più rara era la

giubilazione, di per sé punitiva perché, anche se percepiva la pensione, il giubilato si trovava

costretto ad un peggioramento del suo tenore di vita: tanto è vero che, soprattutto per le cariche più

importanti, come la presidenza della corte d’appello, la cessazione dal servizio avveniva solo in

seguito al decesso del giudice; in altri casi, mentre si erogava la pensione, si affidavano mansioni di

livello inferiore agli stessi pensionati, in cambio di un “soprassoldo” 183. Si evitava così di integrare

l’organico con nuove assunzioni a tempo pieno, più costose per le casse pubbliche. Nel 1858, il

nuovo legato, l’anconetano Giuseppe Milesi Pironi Ferretti, rivide gli elenchi degli impiegati che

prestavano servizio nel commissariato straordinario; tra essi figurava anche l’avvocato Ercole

Livizzani, un tempo governatore in varie sedi della provincia e soggetto piuttosto turbolento,

occupato come minutante, con soldo di 35 scudi al mese, di cui 20 di pensione e 15 di integrazione.

Su di lui si osservò che “nel 1847 fu pensionato contro sua voglia. Quantunque avanzato in età, pure

avrebbe energia e attitudine per rimettersi nella carriera giudiziale. Ha molta famiglia e manca di

beni di fortuna vivendo della pensione e del soprassoldo di contro accennato” 184.

2. I governatori nelle comunità.

2a. La giustizia in provincia. Il salario dei giudici processanti del tribunale criminale era agli inizi

degli anni Venti – e lo sarà anche in seguito – di 30 scudi mensili. Essi non percepivano alcun extra

e la loro paga era inferiore a quella dei governatori che venivano destinati nelle 14 comunità del

contado elette come sede di giurisdizione civile e penale, i quali percepivano, come abbiamo visto,

35 scudi al mese. I governatori dovevano anche pagarsi l’alloggio ma ugualmente in molti casi il

182 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 108, nn. 571 e 588. Un anonimo delatore – dato il tenore delle accuse

non è improbabile che si trattasse dello stesso Gaudenzi e che volesse colpire proprio Bravi – fece pervenire al legato

uno scritto che, anche se non datato, è attribuibile a quegli stessi giorni, dal quale traspare tutto il livore di un impiegato

subalterno nell’organigramma del tribunale contro i superiori “che nulla fanno, stanno oziosi e vorrebbero paga di scudi 200 o 300 mensilmente e poi fariano lo stesso [...] ma avidi essendo di far quelle ruberie che in addietro hanno fatto e

questo vizio non vogliono lasciare per poter mantenere i vizi e far stentare le loro povere famiglie [...] tutto ritorni

all’antico stato come lo era del 1795. Si levino que’ giudici che venali essendo non conoscono altro che l’oro oppure

protezioni [...] a questo modo si condanna chi non ha denaro [...] Se poi sono contrabbandi allora il ricco soccombe

perché il pelano”. Sulla retribuzione dell’assessore criminale Bravi si veda ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.

121, Elenco degli impiegati addetti al tribunale criminale 1822. In quell’anno il sessantenne avvocato percepiva 40

scudi al mese. 183 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 183. Nel Moto d’ordine per gli impiegati della Legazione dell’ 8

ottobre 1825 il legato Giuseppe Albani aveva ricordato le disposizioni del suo predecessore Spina del 28 luglio 1821

prese “in vista di tranquillizzare possibilmente sulla condizione avvenire quegli antichi impiegati specialmente che per

una diuturnità di anni avevano rilasciato una quota del rispettivo soldo maggiore dell’attuale soldo pel fondo delle giubilazioni a norma del decreto del cessato governo italico delli 12 febbraio 1806 colla speranza di conseguire poi a

suo tempo il competente assegnamento della giubilazione in proporzione a quel soldo” intendendo che la pensione fosse

accordata anche alle vedove e agli orfani dei beneficiari secondo quanto stabilito dal motu proprio del 26 gennaio 1817

(ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139). 184 Livizzani non fu soltanto un travet della giustizia, ma divenne famoso per un'arte speciale da lui inventata, e da lui

chiamata papirografia, nella quale non trovò seguaci né imitatori. Egli ritagliava in una finissima carta velina nera delle

scene complesse che poi incollava su un foglio di carta bianca per farne dei quadretti dei quali fu fatta un'edizione in

fac-simile litografici dall'editore G. Wirtz di Ferrara. Si veda A. Cervi, La papirografia e Ercole Livizzani, Milano,

Galli, 1894.

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trasferimento da Bologna (e dalla mansione di processante) al contado era spesso ambito. Anche

l’attività giudiziaria dei governatorati era controllata mensilmente – affinché le cause non si

trascinassero per troppo tempo – e i governatori erano obbligati a mandare i prospetti relativi al loro

ufficio, anche se, come abbiamo visto, ritardi ed inadempienze erano continuamente contestati ai

governatori. Nel 1822 fu fatta una ricognizione dell’organico della Legazione che interessò anche i

governatori. Le risposte dei governatori ai questionari sono particolarmente interessanti sia perché

mettono in evidenza l’organizzazione pletorica delle sedi di giurisdizione della provincia, sia perché

vi si leggono anche le risposte a domande relative allo stato di famiglia e all’anzianità di servizio

propri e dei loro subalterni 185.

Il 26 luglio l’avvocato Luigi Barattini inviò l’elenco degli impiegati del governatorato di Budrio.

Dichiarò di avere 35 anni e di essere stato assunto la prima volta il 14 ottobre 1807 e da allora di

aver ininterrottamente esercitato con varie mansioni negli uffici giudiziari. Nel 1816, dopo essere

stato processante a Bologna, era stato designato alla giudicatura di Vergato 186. Con il suo

emolumento manteneva moglie e quattro figli nonché la madre vedova di 76 anni. Barattini era nato

a Forte Urbano, quindi si poteva considerare un provinciale affermato. Uno dei due sostituti della

sua cancelleria era invece di Budrio, Giuseppe Zacconi, e aveva la moglie, la madre di 70 anni e

due sorelle nubili a carico. Aveva 37 anni ed era impiegato da 5 anni e undici mesi con un

emolumento fisso mensile di dieci scudi. Prima della nomina stabile aveva prestato per un anno

servizio gratuito, dal 7 giugno 1816 all’11 luglio 1817, un periodo di precariato, spesso più lungo,

che altri giovani di paese appartenenti al notabilato locale affrontavano, sperando di sistemarsi in un

posto fisso pubblico, una soluzione dignitosa – anche se grama – dei loro problemi.

L’avvocato Lorenzo Cenni, governatore di Poggio Renatico, proveniva da Casola Valsenio,

nell’imolese. Sposato con quattro figli, aveva 34 anni ed era inserito nell’amministrazione pubblica

da dodici. Dal 1811 al 30 marzo 1812 aveva coperto l’impiego di segretario comunale di Dozza,

che aveva lasciato per recarsi a studiare all’università di Bologna. Il 26 settembre 1815 era stato

nominato conservatore aggiunto del registro provinciale di Bologna. Il 7 agosto 1816 aveva preso

servizio come conservatore delle ipoteche e ricevitore del registro in Imola ma già il 14 settembre

dello stesso anno la Segreteria di Stato lo aveva nominato governatore della città di Comacchio

dove era rimasto fino al 15 aprile 1818. Dal 7 settembre 1820 era governatore di Poggio Renatico.

Anche nel caso del suo cancelliere, Giuseppe Calori, di 41 anni, originario del modenese, sposato

con quattro figli, la carriera era iniziata durante il Regno napoleonico ed era proseguita

ininterrottamente con la Restaurazione. Era partito dai gradini più bassi della burocrazia: dal 1811

al ritorno del governo pontificio era stato primo commesso presso la giudicatura di pace di

Minerbio, poi dal 1816 aveva prestato servizio come cancelliere presso diversi governatorati.

Ogni governatorato, oltre alla spesa per il giusdicente e il cancelliere, più due sostituti, prevedeva

un carico di personale non indifferente il quale, durante la Restaurazione, rendeva il costo della

giustizia non paragonabile a quello dell’ancien régime. Per l’ufficio di Poggio Renatico, Cenni

elencò due cancellieri sostituti, due cursori (senza paga fissa in quanto percepivano gli emolumenti

dovuti per le loro funzioni); il custode delle carceri, Giuseppe Schicheri di 54 anni, dall’età di

quattordici anni aveva servito sempre “in qualità di sbirro e capo di squadra, poi con l’attuale

governo custode delle carceri a Poggio Renatico”. Anche Domenico Cavalieri, il secondino, era

entrato a far parte della sbirraglia pontificia, appena adolescente, prima dell’arrivo dei francesi:

aveva servito per 37 anni (ne aveva 52) dal 1790.

La ricognizione del 1822 specifica le note di servizio dei governatori e dei loro impiegati 187.

All’avvocato Luigi Barattini era riconosciuta “molta abilità massime nelle cose criminali ed

185 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121. 186 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 106. I governatori cambiavano spesso sede, in molti casi per evitare che

fossero troppo coinvolti negli equilibri locali e dessero adito a critiche o fossero sospettati di collusione con interessi di

privati. 187 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121, Governatori e loro impiegati nella legazione di Bologna sono

tratti i dati relativi all’età, agli anni di servizio e ai salari.

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egualmente attivo. Ha moglie e figli. Talune volte distratto da circostanze estranee alla carica si

rende inerte e ne è la prova taluni processi incagliati in quel governo”. Meno benevolo il giudizio su

Lorenzo Cenni: non tanto sulla sua attività – “poca esperienza e pratica nel diritto criminale,

sufficiente nel civile, energico attivo” – quanto per il “carattere altiero e vanaglorioso e non sa

conciliarsi la universale accoglienza, urtando piuttosto che andando d’accordo colle altre autorità”.

Anche il cancelliere Giuseppe Calori non soddisfaceva i superiori: “Discretissima [modestissima]

abilità e assai poca attività. Ove è stato non ha lasciato buon nome”. Di Gaetano Piacenti, già

processante del tribunale criminale e diventato da poco a governatore di Vergato, questo documento

ci dice che era ormai in età matura (aveva 51 anni), che aveva moglie e figli, e che era “uno de’ più

antichi impiegati. Conosce discretamente il diritto civile, molto il criminale e la pratica essendo

stato per lunga pezza processante. Abbastanza attivo ove il voglia. Ebbe diverse vicende ne

precedenti impieghi ma ora pare assodato. Di carattere ardente, è quindi alquanto irruente”.

Le modalità con le quali nelle comunità doveva essere assicurato il patrocinio gratuito erano

piuttosto controverse, sia perché si discuteva se ne dovessero beneficiare solo i poveri, sia perché

non di rado si spacciavano come provvisti dei titoli richiesti a comparire in giudizio anche persone

che non lo erano. Il 15 novembre 1824 il governatore di S. Giovanni in Persiceto, avvocato Antonio

Lotti, scrisse che con una lettera del 13 settembre 1815 spedita dalla delegazione apostolica di

Bologna era stato nominato difensore dei rei presso la sua giusdicenza l’avvocato Francesco Righi,

e che tale incarico era stato confermato dopo l’istituzione dei governi.

Per tale servizio reso e per quelli prestati già nell’uffizio municipale chiese alla suprema segreteria di stato nel

1816 un impiego lucroso e gli fu rescritto che restava confermato nel suo posto. Con questa veste è sempre

intervenuto ed interviene nel tribunale del governatore e difende gl’imputato per ordinanza del giudice o per

scelta di parte. Comecché poi esercente il procuratore per mestiero comparisce eziandio o come mandatario o

come assistente delle parti nelle cause civili.

Recentemente, però, era stato appurato che il sedicente avvocato non aveva mai conseguito la laurea

e quindi “non trovasi il signor Righi fornito di alcuno grado accademico nella professione legale”.

Righi aveva frequentato l’università a Bologna ma doveva aver condotto una vita dissipata e senza

seguire le raccomandazioni del padre, ora morto, che era stato notaio.

Consumò a Bologna i migliori suoi anni senza abilitarsi a veruna facoltà talmente che stancatosi il padre gli negò

sussidi e dovette ripatriare. Dotato di talento non mediocre, ne abusò ed essendo di natura maldicente e avverso

alla economia ha ora perduta la stima ed affezione de concittadini, costretto poi a male figure con le parti che a

lui (per non essere qui altro interveniente) si rivolgono per trattazione di cause.

In nove anni aveva certamente difeso molte persone come difensore d’ufficio ma da qualche mese,

“atteso la tristezza delle sue finanze” aveva citato i suoi patrocinati per non averlo pagato; si trattava

di dodici persone in tutto, alcune delle quali avevano rifiutato di corrispondergli alcun emolumento

“adducendo di non averlo nominato o di essere miserabili senza giustificarlo”. L’avvocato Lotti

commentava che, qualificandosi il “signor” Righi come difensore dei poveri,

parve a me che quelli i quali concludentemente non eransi addimostrati tali, dovessero dare le competenze

dovute al loro difensore. Niuna [una] allegò che la nomina lo indicasse difensore de’ rei, quindi per debito di

ufficio avesse tutti indistintamente e gratuitamente a patrocinare [...] Accerto poi che in generale le pretesa o

dimande fatte con citazioni dal sig. Righi non furono eccedenti.

Il successivo 20 novembre, la congregazione governativa invitò il governatore Lotti a riferire a

Righi che “nella sua qualità di difensore officioso non gli compete alcun indennizzo dai difesi

quante volte non costi ne’ debiti modi che l’abbiano a ciò [espressamente] deputato, per il che

gl’intimerà di desistere da ogni ulteriore vessazione” e due giorni dopo il legato comunicò questa

60

decisione a Lotti. Nessuna sanzione fu comminata a Righi per la sua qualifica professionale

millantata 188.

La questione del gratuito patrocinio si ripresentò a S. Giovanni in Persiceto quasi venti anni dopo,

quando il governatore, dottor Giuseppe Giacomelli 189, rispose al legato a proposito dell’assegno da

corrispondere al nuovo difensore d’ufficio dopo la recente morte di Francesco Righi: questi non

solo era stato riammesso dopo parecchi anni a svolgere le sue funzioni al suo paese anche se con

ogni probabilità non si era mai laureato (di lui non si parla neppure qui né come avvocato, né come

dottore), ma aveva ottenuto anche di essere pagato 48 scudi annui. Non tutte le sedi si regolavano

allo stesso modo. A Castel Maggiore al difensore d’ufficio venivano corrisposti 56 scudi annui

ripartiti a carico dei comuni del governatorato, a Loiano ne venivano pagati 24, a Budrio sei,

compensi che venivano accordati “a peso dei comuni a mero titolo di rimborso di spese di carta,

copie, viaggi, ecc. e non altrimenti come si è fatto a Castel Maggiore, Loiano e Budrio”. Giacomelli

osservava però che l’art. 687 del Regolamento organico, secondo la sua interpretazione, faceva

obbligo di patrocinio gratuito ai rei poveri. Citava un dispaccio della Segreteria di Stato per gli

affari interni del 10 gennaio 1837 che obbligava ogni governo a “ritenere a sue spese un difensore

officioso de’ rei”, dal quale secondo lui si deduceva la posizione del governo, e cioè “che li

difensori d’officio dei rei percepir debbano un emolumento od onorario a peso comunale [...]

coll’obbligo di prestarsi gratuitamente a difendere li prevenuti od inquisiti poveri”. Quindi, a suo

parere, il consiglio di S. Giovanni in Persiceto doveva deliberare un onorario per il nuovo difensore

dei poveri 190. In definitiva, ogni comunità cercava di far valere un margine di autonomia nella

decisione di stipendiare o no il patrocinatore d’ufficio, contrattandolo con il governatore.

Lo spoglio delle carte del governo di Castelfranco rivela come fossero rari i casi nei quali in

queste sedi decentrate si arrivava a concludere un processo, sia perché per lo più le denunce

riguardavano furti con o senza scasso, gli autori dei quali rimanevano ignoti, sia perché, anche

quando venivano individuati, se l’effrazione qualificava il reato, il fascicolo doveva essere

trasmesso al tribunale criminale anche se il danno era di modesta entità 191. Mentre nel primo caso il

compito del governatore si esauriva con l’ispezione della scena del crimine e l’accertamento del

reato in genere, quando i colpevoli erano noti e carcerati provvedeva anche ad accertare il reato in

specie istruendo il processo e trasmettendo poi i fascicoli a Bologna 192. Su circa 800 pratiche aperte

in due anni e mezzo, risulta che le occasioni per convocare il difensore d’ufficio furono veramente

poche, così come poche furono le sentenze che effettivamente il governatore pronunciò. Il suo

lavoro si riduceva per lo più alla trasmissione di carte al tribunale criminale o alla loro

archiviazione.

Insomma, sono per gran parte le stesse funzioni svolte un tempo dai massari (gratuitamente) per

l’accertamento del crimine e dai notai del Torrone all’atto di ricevere da essi denunce e querele. Se

si voleva evitare che un patrocinatore di paese, come l’avvocato Carlo Antonio Piccioli, che nello

stesso periodo venne incaricato della difesa in processi penali, fosse esoso nei confronti degli

assistiti nelle cause civili, lo si doveva appunto stipendiare a carico della comunità. Per Giovan

Battista Maini, arrestato il 10 marzo, la procedura fu rapida: il governatore, avvocato Filippo Grassi,

pronunciò dieci giorni dopo il verdetto di colpevolezza per furto semplice di due pezzi di piombo

188 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 124, Righi Francesco di S. Giovanni in Persiceto. Esercizio di

difensore de’ rei vessando i pretesi debitori. 189 “Uno de più vecchi impiegati, cominciò nel 1806 come conciliatore [...] dotto in diritto civile, conosce abbastanza

bene le cose criminali ed è diligente, avendo carattere assai dolce talvolta non impone agl’impiegati che manchino di

volontà” era stato descritto nel 1822 (ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121) 190 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 152, 19 dicembre 1843. 191 La scelta di Castelfranco è dipesa dal fatto che è la sede meglio documentata tra tutti i governatorati del contado

bolognese. 192 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, voll.1/A,

1816; 2/A, 1817: 3/A, 1817; 4/A, 1818.

61

193. Giovanni Messieri, incensurato, di professione fabbro, il 13 maggio 1818 fu querelato da Lucia,

una tessitrice di vent’anni, alla quale aveva chiesto di accompagnarsi con lui all’uscita dalla chiesa;

al suo rifiuto le aveva dato un pugno e le aveva rivolto epiteti gravemente lesivi del suo onore.

Anche in questo caso il procedimento fu abbastanza rapido 194. Analogamente la detenzione di

Francesco Manfredi durò solo tre giorni, dal 17 luglio al 20 luglio: l’avvocato Piccioli aveva

dichiarato di non avere nulla da dire a suo favore: il furto era pienamente provato sia in genere che

in specie 195.

Quello che portò all’incriminazione di Giuseppe Volpi, arrestato il 20 marzo 1817 dalla Guardia

provinciale facente funzione dei Carabinieri nella persona del brigadiere Biasini – era frequente nei

paesi che si ricorresse a volontari al posto di milizie regolari per alleggerire le finanze pubbliche dal

peso degli stipendi – fu invece un processo in piena regola e uno dei pochi che mostrano all’opera

gli attori principali della scena del tribunale locale: governatore, cancelliere e avvocato dei poveri.

Il 29 marzo l’avvocato Grassi mandò una lettera al dottor Carlo Antonio Piccioli – che quindi non

sembra avere il titolo di avvocato – nella quale sollecitava il suo intervento nella causa di furto

semplice contro Volpi: “Non avendo il medesimo nominato alcun difensore, ho creduto di affidarne

la difesa a Vostra Signoria Eccellentissima. Conosciuto il di lei carattere propenso a prestarsi al

solievo dei miserabili, sono ben certo che vorrà accettare tale pietoso incarico e la prego perciò di

portarsi con sollecitudine in questa residenza ove le sarà data comunicazione del relativo processo”.

Anche i difensori d’ufficio del tribunale criminale di Bologna ricevevano onorari molto bassi (15

scudi al mese) 196, il che rendeva inevitabile che essi limitassero ai casi di indigenza il loro

patrocinio gratuito e che questo incarico non fosse molto ambito, a differenza di quanto accadeva in

ancien régime quando essere avvocato dei poveri era considerato un riconoscimento d’eccellenza e

un onore tributato solo ai principi del foro, i quali a loro volta erano formalmente gli unici a poter

perorare la causa dei propri assistiti nella congregazione criminale. A maggior ragione è plausibile

che nelle comunità minori il difensore d’ufficio patrocinasse gratuitamente solo chi non aveva

denaro per pagarsi un proprio avvocato e questo confermerebbe quanto sostenuto dal governatore

Lotti: la gratuità doveva beneficiare solo i poveri. In questo caso abbiamo anche un raro esempio di

difesa scritta, che Piccioli fece avere a Grassi il 31 di marzo, un vero e proprio saggio di oratoria ai

livelli inferiori della professione, ma a suo modo efficace 197.

193 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, vol. 4/A,

1818, n. 32, Contro Giovan Battista Maini alias Marmao di Castelfranco, per preteso furto di una quantità di piombo

in condotti accaduto a pregiudizio del sig. conte cavalier Nicola Cappi di Castelfranco. 194 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, vol. 4/A,

1818, n. 52, Contro Giovanni Messieri di Rastellino, per semplice percossa ed ingiurie verbali a danno di Lucia Rossi

di Panzano. 195 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 4/A, 1818,

n. 80, Contro Francesco Manfredi di Formiggine, stato estense. Per furto semplice di due tacchini a pregiudizio di

Luigi Fantoni di Gaggio. 196 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139, Pianta organica del tribunale criminale, 1 luglio 1825. 197 “Sembra che pel Volpi Giuseppe imputato di rottura di una chiavica con asportazione di pietre [...] militino le

seguenti eccezioni o per declinare il reato e verificato pur ch’esso sia, per minorarne la pena. Per declinarlo, la massima

che due testimoni d’ogni eccezione maggiori richiedendosi a costituir piena prova, il Chiarli, perché impubere, non

sarebbe punto ammissibile [...] Rimarrebbe per solo testimonio il Pancaldi e ci si aprirebbe quindi il campo ad invocare

la trita massima dictum unius, dictum nullius e l’eccezione della giurisprudenza a siffatta regola portata, che il

testimonio, sebbene unico, nientemeno ricevesi si de nullius praeiudicio agatur non è per la evidenza de’ termini stessi applicabile alla nostra fattispecie, ove trattasi di concludere per delitto e per la inflizion della pena. Per minorarla,

appelliamo al notissimo canone di legge e di ragion naturale non meno, che la pena debb’essere proporzionata al delitto.

E’ questo senza dubbio leggiere, di uno scudo cioè e baiocchi 50 sotto l’aspetto dell’inferito danno e di soli baiocchi 50

ove riguardi il valor delle pietre sottratte lo che per lo appunto nella gradazion della pena per lo semplice furto presero

unicamente di mira i redattori dottissimi di quel celebre bando che tiene il primo seggio nell’odierna nostra criminal

giurisprudenza. D’altronde la povertà dell’imputato, allegata causa fra le generali impulsive a delinquere, ci presenta

nella corrente calamitosissima annata una circostanza iscusante e alleviante la colpa. Egli, se reo, ha già dato nel carcere

da più giorni sofferto alle offese leggi una riparazione condegna. Piacciale, ill.mo ed em.mo signore, di pronunziare e

prendendo a calcolo i suesposti riflessi voglia, di grazia, temprare la severità della giustizia colla dolcezza della

62

Il 19 dicembre 1817 l’avvocato Grassi scrisse di nuovo a Carl’Antonio Piccioli per comunicargli

che un detenuto, Domenico Barberini, aveva “nominato per suo difensore la degnissima di lei

persona. Le rimetto perciò gli atti processuali relativi, pregandola di produrre le difese il più presto

che le sarà possibile o in voce o in iscritto come meglio credarà opportuno”. In questo caso si

arrivò al verdetto dopo oltre sei mesi dall’avvio del processo, in ragione dello scrupoloso vaglio

delle prove e della complessità (relativa) della procedura 198.

Un ultimo procedimento contro un detenuto carcerato che fu concluso dal governatore Grassi con

una sentenza durò meno di un mese, dal 22 luglio all’11 agosto – lasso di tempo che coincise con il

periodo di detenzione di Vittorio Biagi – accusato del furto non qualificato (cioè senza aggravanti)

di uno staio di frumento 199. A Biagi avevano portato indagini basate sulle voci di paese: il 19 luglio

l’avvocato Filippo Grassi aveva chiesto al sindaco dell’appodiato di Manzolino informazioni sulla

sua “condotta morale” e su quale fosse “la pubblica opinione a suo riguardo”. Come in antico

regime, nonostante l’esistenza di vari corpi per il controllo dell’ordine pubblico, stipendiati e

volontari, si continuava a dare credito alla buona o cattiva fama nell’individuare possibili

responsabili di un reato, soprattutto quando si trattava di furti. La risposta, che arrivò al governatore

lo stesso giorno confermò che era “voce comune della nostra comunità essere questo un ladro ed in

particolare per generi di campagna”.

Il 22 luglio il governatore Grassi si rivolse allora al dottor Giovanni Bacchi, facente funzione di

commissario di polizia a Castelfranco, dicendogli che Biagi, bracciante, aveva ammesso “nel suo

costituto di essere stato anni sono arrestato per ordine dell’autorità politica di questa comune” e

chiedendogli di fare ricerche del relativo fascicolo “negli atti del passato municipio”. Una prova in

più che la burocrazia, come dimostra anche la continuità dei fondi archivistici, aveva costituito un

forte elemento di tenuta e di ricucitura dei numerosi strappi nei decenni a cavallo tra XVIII e XIX

secolo. Del resto, i sindaci degli appodiati sembrano esercitare mansioni per molti aspetti simili a

quelli dei massari di antico regime. La risposta del gonfaloniere Bacchi arrivò anch’essa

rapidamente, il 23 luglio: non era risultato nulla a carico di Biagi dai registri di polizia, ma da

informazioni prese sul suo conto aveva avuta la conferma che alcuni anni prima era stato per breve

tempo carcerato dalla cessata “rappresentanza comunitativa” per le continue e violente liti con la

moglie 200. Il 28 luglio il processo era terminato e si trattava di nominare il difensore. Anche in

questo caso fu il governatore Grassi a farlo, perché Biagi non seppe indicare alcun nome. Il verdetto

fu pronunciato l’11 agosto “sentito l’ecc.mo signor dottor Carl’Antonio Piccioli difensore officioso” 201.

2b. Governatori e notabilato locale. Dunque non sempre all’esercizio di una funzione nella

burocrazia giudiziaria corrispondeva un adeguato titolo di studio o l’ineccepibile “condotta morale”,

richiesta a tutti gli impiegati statali e valutata in ragione del loro conformismo politico. Lo prova

clemenza”.197 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali,

2/A, 1817, n. 147, Contro Giuseppe Volpi di Castelfranco, carcerato, per furto semplice di pietre a danno del signor

Flaminio Solimei di Bologna, seguito in Castelfranco nel condotto Muzzoletto.

198 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 3/A, n.

349, Causa contro Luigi Bernardi imputato di furto domestico a pregiudizio di Luigi Canedi di Manzolino. 199 Lo staio di Bologna era pari a 39,32 litri ed era l’ottava parte di una corba. 200 La Rappresentanza si riferisce al momento di trapasso tra la caduta del Regno e l’assestamento del dominio pontificio (fine 1813-1815) durante il quale vennero nominati i rappresentanti dello Stato della Chiesa e furono

ricostituite le magistrature comunali con persone non compromesse con il regime napoleonico. Sul tema

dell’amministrazione delle comunità della provincia di Bologna nell’età della Restaurazione pontificia resta ancora

molto da fare. Per il caso marchigiano si veda D. Cecchi, Dagli Stati signorili all'età postunitaria: le giurisdizioni

amministrative in età moderna, in Economia e Società: le Marche tra XV e XX secolo, a cura di S. Anselmi, Bologna, il

Mulino, 1978, p. 81. 201 ASB, Legazione apostolica, Governi, vicegoverni e podesterie, Governo di Castel Franco, atti criminali, 3/A, 1817.

n. 258, Contro Vittorio Biagi alias Fumantino di Manzolino, arrestato per furto semplice di uno staio di frumento a

danno di Domenico Corticelli di Manzolino.

63

ampiamente il caso del dottor Gaetano Piacenti, che fin dal 1798 abbiamo incontrato come notaio

riabilitato e che nella sua Apologia al cardinale Lante del dicembre 1816 aveva ripetutamente

ricordato il lungo servizio di 21 anni, presentato come una referenza in sé, che aveva indotto i

superiori a richiamarlo dall’esilio per ricoprire la funzione di processante, anche se in gran parte era

stato prestato sotto il regime francese. Malgrado questo, già il 28 gennaio 1818 il legato Lante

scrisse al Segretario di Stato Ercole Consalvi dicendo che desiderava

allontanare almeno uno degli attuali giudici processanti e particolarmente il dottor Piacenti, contro cui sembra

più pronunziata l’opinion pubblica, e così rendere più rapida e più viva la soddisfazione generale; perciò io sarei a proporlo ad un governo, sul riflesso ancora che, se egli è quale si vuole da molti, sarà più agevol cosa il

venirne in chiaro e il poter prendere a suo riguardo un decisivo provvedimento.202

A giugno il dottor Piacenti, previo assenso del cardinal Consalvi – l’approvazione doveva essere

espressa dal Segretario di Stato per ogni nomina, anche di impiegati subalterni, come i cancellieri

sostituti, gli uscieri o i cursori “si affrettò” – come scrisse il cardinale Lante con una punta di

malevolenza – ad accettare la nomina al governo di Loiano, incarico che avrebbe comportato un

aumento di stipendio di 5 scudi al mese 203. Tra i paesani più autorevoli, Gaetano Piacenti suscitò

quasi subito reazioni ostili, a suo dire per il rigore con il quale si ingeriva negli equilibri locali.

Nella lettera che spedì il 30 ottobre al nuovo legato, il cardinale Giuseppe Spina, insieme con il

processo contro Lorenzo Calzolari, il governatore scrisse infatti che lo zio dell’imputato, che si

chiamava anche lui Lorenzo Calzolari, il quale aveva sporto reclamo al legato, era

uomo bisbetico, prepotente e privo affatto di educazione il quale crede che ciascuno si debba inchinare a

quell’oro che ha in pochissimo tempo ammassato e chi sa come. Costui non so quanto delicatamente viene

spalleggiato da certo Camillo Ferri, impiegato di polizia, che abusando di sue aderenze vende a costui non so

quale protezione e tenta di paralizzare continuamente le autorità locali talché il Calzolari spesso minaccia a tutte destituzioni e ruine. A me stesso, non ha molto che per altro oggetto perdette quasi il rispetto e lui fu fortunato

che la vista di un sol carabiniere il fece obedire e quietarsi [...] L’Eminenza Vostra Reverendissima nella somma

sua penetrazione si degnerà d’impartire quelle misure che troverà del caso, anche a tutela di quella estimazione

che non credo d’aver certamente demeritato e che mi è indispensabile in questo luogo.

Dopo aver esaminato il processo, il cardinale Spina rispose immediatamente al governatore di

Loiano, con un rescritto del 31 ottobre nel quale gli ordinava di notificare al giovane Lorenzo il

decreto che Piacenti aveva già pronunciato lo scorso 5 settembre, fatta salva la facoltà del

condannato di interporre appello al tribunale criminale di Bologna. Eppure la faccenda non finì così.

Il 7 novembre il legato Spina scrisse di nuovo a Piacenti a proposito dello stesso processo avendo

rilevato che i reati eccedevano la sua giurisdizione

emergendo dagli atti essere il Calzolari imputato di ratto nella persona della giovane minore Margherita Fabbri,

di seduzione con promessa di matrimonio dell’altra giovane Geltrude Viroli e di tentata cognizione carnale con sevizie alla donna maritata Margherita Gironi, titoli tutti sicuramente costituenti delitti di spettanza del

superiore tribunale, tanto più per quanto che ne’ giudizi criminali non la mancanza di prove ma il titolo è quello

che deve stabilire la competenza.

Un ammonimento a Piacenti a stare nei suoi limiti. Con il decreto del 5 settembre il Calzolari era

stato scarcerato dal governatore e “soggetto ai suoi pregiudizi” – cioè con libertà condizionata – e

con precetti rigorosi di non iterare il reato; tuttavia il legato aveva riconosciuto vizi formali nella

ingiunzione del decreto e quindi il processo era stato rinviato a Piacenti perché intimasse di nuovo

e “nelle solite forme il decreto” 204.

202 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109. 203 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 109, lettera al cardinal Consalvi del giugno 1819 (senza specificazione

del giorno). Il legato Lante aveva fatto partire la nomina l’1 giugno. 204 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 111.

64

Dopo due anni di tregua, l’ostilità contro il governatore di Loiano si estese anche al suo

cancelliere sostituto, Mariano Boselli 205. Il 21 novembre 1820 il legato Giuseppe Spina inviò una

lettera alle autorità civili, politiche e militari del governatorato dopo essere stato informato “di vari

inconvenienti ed arbitri che hanno avuto luogo nel circondario [...] che voglionsi addebitati in parte

alla persona di quel governatore e in parte agli impiegati della di lui cancelleria”. Li informava

quindi di aver deciso di inviare l’avvocato Quattrorecchi

in qualità di suo delegato speciale munito di tutte le facoltà necessarie ed opportune che gli vengono conferite

con la presente credenziale per accedere agli uffici tanto del suddetto governatorato quanto della sotto direzione di polizia residente in Loiano e del comando militare non che di quella magistratura comunitativa e delle altre

simili del circondario medesimo ed ispezionare gli atti rispettivi [...] con facoltà altresì di sentire testimoni ed

altre persone probe e imparziali dei rispettivi paesi per incartarne le loro deposizioni e notizie dirette allo

scoprimento della verità.

Tra i tanti ruoli ai quali l’avvocato Quattrorecchi si adattò nel corso della sua lunga carriera a

servizio del tribunale di Bologna, ci fu dunque anche quello di ispettore, al quale si applicò col noto

scrupolo e con lo zelo che gli erano propri. Il 9 dicembre al governatore di Loiano fu comunicata,

sempre dal legato, la sospensione di Boselli dall’impiego e il suo allontanamento dal governatorato 206. Lo avrebbe sostituito temporaneamente l’impiegato Arrighi. Anche le minute beghe di una

remota comunità di montagna dovevano essere comunicate al Segretario di Stato e il 13 dicembre il

legato riferì che dalla visita di Quattrorecchi era venuto a conoscenza di

quanto necessaria e vantaggiosa per le viste del governo sia stata questa straordinaria misura, essendo venuto a

giorno d’inconvenienti ed irregolarità a’ quali ho potuto tosto metter il debito riparo e frattanto sono passato ad ordinare la sospensione del cancellier sostituto alla quale potrebbe forse tener dietro anche quella dello stesso

governatore dappresso l’esame che sto facendo di quanto risulta a di lui carico [...] Prendo motivo dell’adottate

misure di rappresentare a Vostra Eminenza Reverendissima che sarebbe assai opportuno l’estenderla di quando

in quando agli altri governi per assicurarsi della tenuta regolare degli atti e dei registro delle rispettive loro

cancellerie per sentire certamente la persona più onesta e accreditata del paese o paesi del circondario sulla

condotta morale dei governatori e loro impiegati e sulla riputazione che essi godono rispettivamente presso le

autorità locali quanto ancora presso il pubblico e per praticare quelle ulteriori ispezioni che le circostanza e i

casi speciali rendessero necessarie per lo scoprimento della verità 207.

Di questa estensione del controllo agli altri governatorati e alle rappresentanze delle comunità

sono testimonianza i numerosissimi fascicoli presenti nelle buste degli Atti riservati nei quali

vengono esaminate le denunce non solo nei confronti dei membri dell’apparato giudiziario, di

polizia e dei governi locali, ma anche dei moltissimi medici condotti, che furono accusati di

comportamenti lesivi dell’onore delle donne (e soprattutto dei loro uomini) nel visitarle. A causa

della cronica mancanza di denaro delle casse pubbliche, ispezioni rigorose come quella di Giacinto

Quattrorecchi – che comportò un costo, anche se relativamente lieve, che non poteva essere

sostenuto per la verifica di tutte le accuse di corruzione che venivano dalle comunità – di fatto

furono effettuate solo per un altro paio di casi. Non per questo i memoriali cessarono di arrivare e

assunsero la funzione di cassa di risonanza di interessi particolari e di voci malevole, che dovevano

essere controllate raccogliendo in segreto le dichiarazioni dei maggiorenti locali 208.

205 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il

cancelliere sostituto Mariano Boselli nell’esercizio delle rispettive loro funzioni rilevati nella visita a quel governo. 206 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il

cancelliere sostituto Mariano Boselli nell’esercizio delle rispettive loro funzioni rilevati nella visita a quel governo.

L’11 dicembre Piacenti scrisse al legato che Boselli aveva lasciato quasi subito Loiano e che rimanevano in paese la

moglie incinta e altre due bambine. Interrogato in proposito, Boselli gli aveva risposto: “Io non ho luogo ove collocare

la mia famiglia né ho mezzo di pagare il trasporto tanto delle mie poche masserizie quanto della medesima”. 207 Ivi.

207 Il cardinal Consalvi, con una lettera del 27 dicembre, respinse il suggerimento del legato Spina ammettendo che

introdurre le visite ai governi sarebbe stato utile “e di eccitamento agli impiegati per ben condurre nell’adempimento

delle loro incombenze, ma è certo altresì che sarebbero dispendiose al governo e forse non produrrebbero il desiderato

65

Il 12 gennaio 1821 Piacenti inviò una memoria difensiva nella quale affermava che la

diffamazione di Boselli era iniziata quando Arrighi era stato destinato a Loiano, per iniziativa del

vice direttore di polizia Mantacheti, il quale tra l’altro sosteneva che Boselli era una spia

stipendiata. Per quello che lo riguardava, Piacenti respingeva tutte le accuse che gli erano state

rivolte, fra le quali quella di aver ecceduto le sue competenze accettando denunce per delitti

“avvenuti nel circondario del vice governatore” 209 che l’editto di Segreteria di Stato del 16

novembre 1817 abilitava “all’iniziativa dei processi ed all’assunzione dei corpi del delitto” ma –

ribatteva Piacenti – senza escludere

che una tale iniziativa non si possa fare dal governatore, massime in cause di entità. Se si volesse restringere in

simil modo la giurisdizione dei governatori oltre che la restrizione sarebbe odiosa e non fissata dalla legge l’amministrazione della giustizia ne verrebbe a patire notabilmente ed io ho avuto il caso pratico nella denuncia

e successiva assunzione di concorso di delitto in causa di un parto esposto nella quale il vice governatore

trasmise atti tali che non si sono saputi tirare inanzi.

Si trattava di un infanticidio: Piacenti, per questa causa aveva incontrato omertà e ostilità di un’altra

potente famiglia di Loiano, quella dei Gamberini “e suoi aderenti” che spadroneggiavano impuniti:

Qualora fosse stato destituito sarebbe stato “il quinto giudice rimosso da Loiano per avere avuto

l’ardire di non strisciarsi inanzi ad essi”. Il vice direttore di polizia Mantacheti non aveva in nessun

modo cooperato con lui per scoprire i colpevoli di questo e altri reati, anzi aveva ripetutamente

violato il segreto d’ufficio, riferendo ai Gamberini i risultati delle indagini, aveva frequentato di

continuo la loro casa durante il processo e festeggiato insieme con loro, con mortaretti e spari di

fucile, la scarcerazione del medico che aveva contribuito a nascondere le prove dell’infanticidio.

Il 3 febbraio venne comunicato a Piacenti il trasferimento a Vergato, al posto dell’avvocato

Giuseppe Giacomelli che fu destinato a Loiano

perché ognuno d’essi disponga tosto per subire nelle debite forme il prescritto sindacato, compiuto il quale si

concerteranno fra loro per recarsi contemporaneamente alla rispettiva nuova residenza [...] fatta la consegna

dell’ufficio al cancelliere locale 210.

Il responsabile del sindacato era il nuovo governatore, e furono nominati per eseguirlo il

gonfaloniere Pietro Salomoni ed il dottor Pietro Capelli di Scascoli 211 i quali il 16 aprile

giudicarono che Piacenti non fosse imputabile di condotta scandalosa, accusa che gli avevano

rivolto i Gamberini. Mentre il sindacato era in corso, il 22 febbraio 1821, il parroco di S. Donino di

Stiolo Sante Poli si era prestato a dichiarare che nel dicembre 1819 era stato trovato nella sua

parrocchia il cadavere di un neonato sbranato dai cani e che allora il dottor Piacenti aveva ordinato

che tutte le ragazze nubili della parrocchia fossero citate

e alcune forzate dai carabinieri a comparire alla presenza di lui ivi facendole alla sua presenza stessa

scandalosissimamente visitare da balia non approvata, alla presenza pure del suo commesso con massima

confusione e scorno delle povere innocentelle pazienti.

effetto quando fossero eseguiti dai delegati assunti dalla classe degli impiegati”. Il Segretario di Stato concludeva

dicendo che riteneva più opportuno, “per economia dell’erario e per il miglior risultato delle indagini [...] il far seguire

tali perlustrazioni quando si avessero fondati sospetti di mancanze o di governatori o altri subalterni per mezzo di

persone non impiegate, incognite nei luoghi ove sono inviate e di tutta fiducia dell’Eminenza Vostra le quali a spese

dell’erario si recassero in aria tutta diversa dal vero scopo ed insinuandosi negli animi degli abitanti, specialmente di

quelli che credessero più probi, informati ed imparziali si assicurassero del vero stato delle cose”, in ASB, Legazione

apostolica, Atti riservati, b. 115, fasc. Gravami contro il governatore di Loiano avv. Piacenti e il cancelliere sostituto

Mariano Boselli. 209 La carica di vice governatore secondo l’editto 26 dicembre 1817 competeva ai consigli delle comunità che

eleggevano una terna, e sostituiva quella di sindaco degli appodiati. 210 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 116, fasc. Loiano, Gravami contro il governatore avv. Piacenti non che

contro il sostituto Boselli Mariano. 211 I due sindacatori erano stati nominati rispettivamente dal consiglio di Loiano e da Piacenti.

66

Il ricorso presentato il 23 febbraio da Giovanni Maria Francia, Giacomo Scala, Francesco Scala,

Domenico Gamberini e Domenico Boschi parlava di cinquanta “oneste giovani”. Il sindacato aveva

accertato che solo una di esse era stata condotta in tribunale con la forza, che le ragazze visitate

erano state solo cinque o sei, che la mammana Magli aveva ripetutamente negato che alle visite

fossero presenti il governatore e il cancelliere sostituto Boselli, e che, sebbene non diplomata,

perché a Loiano non ce ne erano, serviva le maggiori famiglie del paese. I sindacatori aggiunsero di

aver appurato che la figlia di Giovanni Maria Francia, che si era qualificato come uno dei padri

delle giovani che avevano subito la visita, non era stata affatto tra di loro. Si trattava di indagare su

un delitto gravissimo, e “le pratiche in oggi adottate accordano ai giudici di poter devenire anche a

questi esperimenti quando non v’abbiano altri mezzi per iscoprire l’autrice del delitto” 212. Il 18

aprile i sindacatori, concludendo la loro relazione al legato sulla condotta tenuta dal governatore

Piacenti, scrissero che

Non si sa ammettere venisse posta così male a proposito e denigrata la fama delle indicate giovani nella voluta

ispezione, giacché dal deposto della mammana emerge che taluna fu trovata gravida e talaltra aveva testé

figliato [...] E’ forza convincersi non esser troppo sincero l’esposto né potersi ritenere il Piacenti colpabile

dell’imputata condotta scandalosa e conseguenti disordini.

Ai sindacatori rimaneva comunque il dubbio se sarebbe stato possibile evitare “le dicerie, pascolo

de piccoli paesi” 213.

Comunque, in considerazione delle ostilità suscitate a Loiano, il dottor Gaetano Piacenti fu

trasferito al governatorato di Vergato, lasciando dietro di sé appunto una scia di dicerie e l’accusa

del padrone di casa di essere debitore di 100 scudi per affitti non pagati. Si trattava di 8 scudi

mensili, cifra non piccola per uno stipendio di 35, per di più richiesti per un alloggio in una remota

comunità di montagna 214. Per un po’ di tempo non si hanno notizie di lui: risentiamo parlare di

nuovo di Gaetano Piacenti il 7 novembre 1828, quando il legato Giuseppe Albani scrisse al

Segretario di Stato Tommaso Bernetti di aver trovato al suo arrivo nella Legazione, nel febbraio

1826, Piacenti governatore a Bazzano. Alla fine del 1826 aveva approvato la proposta del vice–

legato di trasferire Salvigni, allora governatore di Molinella, “uomo di pochissime capacità” a

Vergato – “in allora vacante ove assai limitate sono le occupazioni”– 215, inviando al suo posto

Gaetano Piacenti il quale là non ebbe reclami “meno però il consueto contegno di essere proclive

alla colera e di carattere impetuoso”.

Sin dal suo trasferimento a Molinella, Piacenti aveva però cominciato a pretendere che gli

venissero manifestate le ragioni del suo trasferimento da Bazzano e, “mosso da quello spirito che

nutre direi quasi per malevole istinto di mettersi in lotta”, aveva fatto ricorso alla Sacra

Congregazione con “un cumulo di dicerie e cose non vere”. Il cardinale Albani concluse perciò

non esser più di convenienza che il medesimo rimanga a coprire la carica di governatore in questa Legazione

poiché avendo sempre date prove di esser d’animo inquieto ed avendomi recate infinite molestie e disturbi, lo

stesso sarebbe che espormi a sostenerne delle ulteriori ove nuovamente venisse impiegato 216.

212 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 116. 213 Ivi. Su questo processo si veda M. P. Casarini, Maternità e infanticidio a Bologna: fonti e linee di ricerca, in

“Quaderni storici”, a. VII, n. 49, 1982, pp. 275-284.

213 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 118. 215 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 121. Nel 1822 Salvigni era un uomo di 39 anni asceso alla funzione di

governatore dai gradi più bassi della gerarchia impiegatizia. In occasione dell’invio di un prospetto con le note di servizio degli addetti ai governatorati fu detto di lui che era “assai poco conoscitore del diritto civile e criminale ma

attento ed attivo abbastanza. Manca degli studi regolari per l’esercizio del suo impiego giacché non fu che un mediocre

usciere del tribunale d’Imola”. 216 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 128.

67

Il 30 dicembre 1828, il Segretario di Stato rispedì l’incartamento su Piacenti comunicando “che

sono state date le disposizioni opportune affinché il Piacenti non rimanga governatore in alcun

paese di cotesta Legazione ma sia destinato ad altro luogo, previa un’acre ammonizione a meglio

diportarsi in avvenire sotto pena della perpetua destituzione alla prima benché leggera mancanza”.

Era una minaccia che non ebbe seguito: tra i giudici di Bologna e dei governatorati e i loro

subalterni, fino al 1848 nessuno fu destituito, per quanto oggetto di critiche e di proteste, tranne

Mariano Boselli. Ma quali erano state le “mancanze” del dottor Piacenti? Nel Ristretto di fatto, nel

quale reclamava per la sua esclusione dal governo di Bazzano, inveiva contro “il napoletano

riffugiato avvocato Quattrorecchi 217 quale chiedendo dalla classe dei giudici processanti passare

all’altro dei governatori” nonostante

lo si potesse destinare a Molinella e me lasciar quieto in Bazzano, dove era appena da due anni pure [...] il

Quattrorecchi, cui era indiferente qualunque destinazione, andasse a Bazzano e [...] io che dal 1818 in poi era

stato soggetto per meri capricci a quattro traslocazioni, il fossi anche alla quinta, destinandomi a Molinella. Non

ho mai cessato di chiedere il motivo di una tale misura che m’era tanto funesta e rapporto all’onore e rapporto

all’interesse.

Il trasferimento era dunque stato disposto per assecondare la richiesta del più ligio e fedele

impiegato del tribunale criminale e per Piacenti la nuova sede aveva comportato un declassamento e

un danno economico:

Bazzano giace alle falde di amene e ridenti colline, ed è bagnato dal fiume Samoggia che sempre contribuisce a

renderne l’aria pura e salubre laddove Molinella che stassene nella parte più bassa della provincia attorniata si è

da valli, risaie e pantani ed acque stagnanti. Le nebbie vi sono pressoché continue e per conseguenza l’aria che vi si respira è fetente e micidiale talmente che gli stessi nativi del paese vanno soggetti in ogni stagione a febbri,

dalle quali tante volte si trovano spinti al sepolcro. La popolazione di Bazzano si compone per la massima parte

di possidenti e negozianti e per conseguenza la volontaria giurisdizione frutta un qualche incerto al governatore,

laddove il popolo di Molinella si è quasi tutto di bifolchi, vallaroli o risari né cosa alcuna da simil gente puol

sperare chi governa [...] Oltre a tutto ciò considerar si deve la notabile spesa cui andavasi incontro in un tanto

longo e disastroso viaggio pel trasporto di una famiglia e di tutte le suppellettili che sono indispensabili, giacché

in questa Legazione nessun mobile vien fornito ai governatori ed è necessario che tutti seco loro se li portino.

Il legato, a dire dello stesso Piacenti, gli aveva risposto che non gli era imputata alcuna mancanza

ma che “s’era presa una tal misura per favorire il Quattrorecchi. Che se avessi avute delle mancanze

non sarei in un governo” 218. In qualche modo Piacenti fu accontentato con un compromesso, un

altro trasferimento, a Vergato, ma anche qui il suo carattere inflessibile e collerico gli procurò dei

nemici. La prima denuncia contro di lui venne addirittura dall’arcivescovo Carlo Opizzoni, che il 12

ottobre 1836 chiese il trasferimento del governatore e del suo cursore per isolare l’arciprete con cui

evidentemente era in combutta. Tutto nasceva da una denuncia anonima che riferiva come si era

svolta la missione di cinque sacerdoti bolognesi a Vergato, ordinata dall’arcivescovo, che all’inizio

“prometteva poco, ritrovato avendo gli animi de vergatesi di molto esacerbati”. I missionari sul

momento “dissimularono”, anche se dovettero sentir dire da Gaetano Piacenti che gli abitanti erano

“assassini ed infami a quali sarebbe stato meglio l’aver mandato non missionari ma quattro boia” e

poi il governatore aveva anche detto che

217 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 141, Supplica di Giacinto Quattrorecchi del 30 settembre 1836. Quattrorecchi, pugliese, era fuggito dal regno di Napoli dopo la caduta della Repubblica partenopea e aveva servito per

quindici anni “nell’ordine giudiziario”, come uno dei giudici del tribunale civile e correzionale in Imola fino al 1815;

aveva poi proseguito la carriera dopo la Restaurazione. A. Massafra, Patrioti e insorgenti in provincia: il 1799 in Terra

di Bari e Basilicata, Bari, Edipuglia, 2002, lo cita a p. 271 come rivoluzionario e massone.

218 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 129.

68

il governo del papa è il governo più infame di tutti, governo diametralmente opposto al Vangelo che dice

Regnum meum non est de hoc mundo e Quod est Caesaris Caesari, quod est Dei Deo, governo che castiga

solamente chi non ha colpa come son io, posto al Vergato senza colpa alcuna.

L’arciprete doveva essere un sovversivo: ai missionari, per non destar sospetti, aveva detto

scandalizzato che in paese c’erano molti liberali, ma i religiosi si accorsero presto che semmai

dovevano indagare su di lui e su Piacenti. I vergatesi invece si rivelarono devoti e disciplinati:

presenziarono a tutte le funzioni con compunzione. La missione si concluse con la comunione

generale alla quale parteciparono tutti, tranne Piacenti che fu sentito inveire contro lo scampanio

festoso. Il 14 ottobre il legato Vincenzo Macchi gli inviò una notificazione di sospensione. Il 19

ottobre lo stesso Macchi scrisse al Segretario di Stato di aver messo Piacenti “a mezzo soldo”, e di

aver nominato “in via provvisoria l’avvocato Giacinto Quattrorecchi, governatore quiescente con

intero soldo che fin qui ha supplito il dottor Barattini”, altro impiegato scomodo che era stato

sospeso, “in qualità di giudice processante presso questo tribunale criminale con che ha conciliato il

buon andamento del servizio con assoluta indennità dell’erario”. A carico di Piacenti si diceva che

nell’esercizio del suo ministero adoperava massime negli affari delicati sì poca prudenza e cautela da incorrere

nelle maggiori censure, siccome mi fu riferito poco prima dell’ordinata sospensione e gli chiesi ragione del

costituto cui aveva sottoposto la giovinetta Virginia Piccinelli in onta ed ingiuria della propria madre e colla

quale era accusato di aver messo in opera immorali suggestioni con pericolo eziandio della sua innocenza.

Non rimaneva che decidere se comunicare a Piacenti gli addebiti o piuttosto convincerlo a esibire i

suoi titoli per la liquidazione della pensione essendo ormai inetto ad esercitare l’ufficio. Alla fine fu

disposto che fosse invitato di nuovo a domandare la giubilazione “come inabile a prestare ulteriori

servigi” 219.

Quello che colpisce, in questa come in altre vicende burrascose che riguardano giudici processanti

o governatori, come Ercole Livizzani o Luigi Barattini, incalzato quest’ultimo dai debiti e accusato

periodicamente di inefficienza e trascuratezza nell’esercizio del suo ufficio, è la relativa tolleranza

mostrata dalle autorità anche di fronte alla pretesa insubordinazione di Piacenti al governo

pontificio. Non licenziamenti ma trasferimenti, non solo punitivi, ma soprattutto dettati

dall’esigenza di non entrare in urto con i notabili di paese, spesso ancora violenti e rissosi, o con i

loro valori comunitari. O giubilazioni che venivano “indotte” più che “imposte”. Sebbene i tempi

fossero molto cambiati e fosse stato inaugurato il regime del pugno di ferro con il potenziamento

della forza poliziesca e militare, nei confronti dei propri impiegati – ai quali era affidata la

delicatissima funzione giudiziaria – si cercava di utilizzare ancora, per guadagnarne la lealtà,

l’antico mezzo della persuasione e del debito di gratitudine. Così la giubilazione, che in molti casi

non venne mai (prestigiosi giudici d’appello erano ancora in servizio ultraottantenni, al momento

della morte), per chi la subiva costituiva quindi non solo uno scadimento delle condizioni di vita,

ma anche una mortificazione della propria professionalità.

In molti casi neppure le frequenti compromissioni di impiegati del tribunale nelle agitazioni del

1848 troncarono definitivamente le loro carriere pluridecennali o impedirono ai loro figli o alle loro

vedove di ottenere benefici per il servizio ininterrottamente prestato. A seguito di una circolare del

28 maggio 1849 che chiedeva i resoconti statistici sugli organici, venne compilato un prospetto

degli impiegati “destituiti, pensionati, posti in quiescenza o disponibilità o destinati altrove e che

cessarono di vivere senza sostituzioni dopo il 16 novembre 1848” fra i quali erano compresi

l’avvocato Filippo Leone, figlio del conte Giuseppe Ercolani, di 67 anni, che come si vedrà aveva

partecipato con scarsa convinzione alla “rivoluzione degli avvocati” della fine del 1831, e che come

giudice percepiva 40 scudi al mese; il nobile avvocato Pietro Balducci, di 49 anni, procuratore

fiscale con lo stipendio mensile di 30 scudi; Guido, figlio del defunto conte Giacomo Tubertini,

219 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 141, fasc. Turbata tranquillità di quel paese in causa del governatore

avv. Piacenti, cursore Missiroli e dell’arciprete locale.

69

anche lui di 49 anni, che come cancelliere sostituto onorario percepiva 14 scudi. I prospetti erano

indirizzati all’avvocato cavalier Raffaele Giacomelli, consigliere di Legazione facente funzione di

delegato che naturalmente li inviò alla supervisione del commissario straordinario e pro-legato delle

quattro Legazioni, monsignor Gaetano Bedini.

Dunque, vari esponenti di antica o recente nobiltà i quali, più che dei loro titoli ereditari, si

fregiavano di quello di avvocato, o almeno di dottore in legge per percepire un salario dignitoso ma

modesto (a volte modestissimo, come nel caso di Tubertini) in cambio del loro inserimento nella

pubblica amministrazione: un posto fisso non disdegnato neppure da alcuni orgogliosi discendenti

di famiglie senatorie. Quanto ai governatori, i loro stipendi si erano ancora erosi, ma ugualmente

quei posti erano ambiti dai notabili di paese o dai figli di antichi impiegati. A Poggio Renatico, il

governatore percepiva ora 33.25 scudi, sia pur integrati con un assegno di uno scudo e mezzo a

titolo di rimborso spese. Era il dottor Mario Gandini, di 48 anni “possidente, la di lui famiglia è

ascritta a più nobiltà, cioè delle città di S. Leo, Penabilli, Città di Castello, Pergola Montalto ed

altre. E’ libero e non ammogliato”. A Castel Maggiore, governo questo da 35 scudi, troviamo come

cancelliere sostituto a 9 scudi al mese il dottor Carlo Barattini, figlio di Luigi, di 25 anni, definito di

ottime capacità, “celibe, ma concorre col padre al mantenimento di cinque fratelli” 220.

I prospetti dovevano permettere al governo di valutare la lealtà degli impiegati pubblici e da

Roma, dove monsignor Bedini li aveva inoltrati, vennero inviate varie lettere di censura, quasi tutte

datate 25 gennaio. Fra le vittime dell’epurazione del 1851 ci fu il conte Giovanni Paolo Stella,

maestro di camera presso il municipio di Bologna “per la sua leggerezza in materie politiche” e

anche il dottor Carlo Barattini, ora sostituto processante criminale, “per le sue imprudenze”. Fu però

inserito nel non lungo elenco degli “ammoniti e graziati” 221. Anzi, il 13 agosto, Luigi Barattini

avrebbe cercato di strappare altri favori per il figlio e per tutta la famiglia, assumendo il tono

querulo che negli ultimi anni gli era stato proprio e chiedendo, invano, al commissario straordinario

Gaetano Bedini di passare Carlo alla cancelleria del tribunale di prima istanza. Ringraziava perché

coll’interessamento del legato aveva ottenuto dal governo “un qualche sollievo”. Parlava fra i tanti

suoi guai della

costituzione morbosa dei nove miei figli, i quali o hanno già seguita la madre in un mondo migliore o gemono

da più anni sotto il flagello di croniche infermità, o sono ridotti ad una condizione di salute debole e vacillante

che fa ad ogni istante temere lo sviluppo di quella trista eredità materna. Il maggiore mio figlio Carlo è uno

degli ultimi perché la sua gracile costituzione, il suo volto da qualche tempo sparuto e due recenti sbocchi di

sangue sono sintomi che giustificano le paterne mie inquietudini. Il suo impiego di sostituto processante, che

esercitava con probità, sufficiente attitudine e molto suo buon volere, era troppo faticoso per il suo stato di

salute.222

Nel 1857 fu presentata a Pio IX la supplica della moglie e della figlia dell’avvocato Lorenzo

Cenni, un tempo governatore di Poggio Renatico e ininterrottamente in servizio come impiegato

pubblico dal 1811; le due donne si rivolgevano alla clemenza del papa anche in veste

rispettivamente di madre e sorella del dottor Guglielmo, figlio di Lorenzo affinché perdonasse

“quei traviati che trascinati involontariamente dalla corrente presero parte ai pubblici

sconvolgimenti”. Le informazioni raccolte su questo caso avevano appurato che Lorenzo aveva

avuto la commutazione della galera a vita con l’esilio a vita. Il figlio era stato condannato dal

tribunale militare austriaco “per complicità alle mene rivoluzionarie del 1853 in questa provincia in

contumacia a venti anni di arresto in fortezza con ferri”, ma si era reso latitante prima dell’inizio del

processo. Si pensava che fossero entrambi a Genova. Le due donne godevano di una piccola

pensione per il servizio di governatore prestato dall’avvocato Cenni “in tempi tranquilli” 223. Il 27

220 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 164. 221 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 168. 222 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 169. 223 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 181, 1857. La busta contiene le suppliche rivolte al papa in visita a

Bologna. I capi d’accusa contro i Cenni erano molto numerosi. Lorenzo, che aveva 62 anni, era stato condannato dalla

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luglio 1857 il parroco della Maddalena garantì del pentimento e della vita irreprensibile dei due

Cenni. Il rescritto dell’udienza del 15 agosto 1857 fu che le istanze delle due donne non erano

accolte perché dovevano essere sottoscritte “da coloro che colpiti da condanna implorano grazia” 224.

2c. Il declino del conte Boselli. Il 29 gennaio 1824 Mariano Boselli, sostituto cancelliere a Porretta,

chiese un anticipo dal salario, 40 scudi da restituire mensilmente a rate, adducendo l’imminente

parto della moglie Donnina Volta e la malattia insanabile della madre, la quale godeva di un piccolo

vitalizio con cui doveva mantenere anche il marito. Già in passato i Boselli si erano rivolti all’opera

pia dei Vergognosi che però non era più in grado di aiutarli. Il 19 gennaio il dottor Bernardi aveva

certificato che Donnina Volta, moglie del conte Boselli, era in uno stato di reale miseria. E’ la prima

volta che veniamo a sapere che Mariano aveva un titolo nobiliare, certamente frutto di una rapida

quanto effimera ascesa della famiglia. La madre di Boselli, contessa Vernizzi, apparteneva invece

alla nobiltà bolognese di antiche origini notarili. Il legato negò l’anticipo per certe irregolarità

compiute da Boselli, sia assentandosi ingiustificatamente da Porretta, sia presentando come

postulatore, senza averne il titolo, una supplica a nome di sedici condannati alle spese processuali e

alimentari dal governatore che chiedevano di esserne esentati per la loro povertà. Il governatore,

Giuseppe Giacomelli, intercedendo per lui con una lettera del 6 febbraio, ricevette ancora un

diniego dal legato. Giacomelli scrisse ancora il 28 febbraio successivo, raccomandando nuovamente

Boselli, pieno di debiti, tanto che nessuno a Porretta gli faceva più credito. Non sapeva come

sfamare la famiglia, soprattutto nella stagione invernale, quando la maggior parte degli uomini del

paese erano migrati in Maremma e quindi non poteva sperare di integrare il salario con gli introiti

della cancelleria per gli atti civili “perché l’ufficio non lavora”.

Boselli, nella sua lunga supplica, datata 22 febbraio, diceva di avere tre figli più uno in arrivo e

che aveva “dei nemici che a spada tratta tirrono a sacrificare il uomo onesto ed il sangue innocente”.

Si era assentato dal suo ufficio, ma col permesso del governatore Giacomelli per seguire una causa

civile. Era “vicino a perir di fame e di stento, di disdoro ancora purtroppo al ceto degli impiegati,

non essendo il di lui soldo mensile sufficiente a vivere dieci giorni” e chiedeva il prestito per non

essere costretto “a commettere delinquenza in uffizio, a fugire per il mondo ed abandonare la

famiglia” per disperazione. Il governatore Giacomelli il 13 marzo comunicò che il 29 febbraio

aveva accordato a Boselli di recarsi a Vergato per alcuni giorni per sistemare delle pendenze per i

diritti di cancelleria ma che da allora non si era più visto. Boselli, scrisse poi Giacomelli, era tornato

cinque giorni dopo. Boselli aveva un debito verso l’ufficio del registro di Vergato di 25 scudi, di cui

ne aveva pagati 10, promettendo di versare presto il residuo. Il legato osservò che il debito “prova

abbastanza la sua infedeltà”, e affidò al governatore il compito di “correggerlo ed ammonirlo ad

ogni opportunità onde migliorare, se sia possibile, la di lui condotta e procurare di rendere così

meno infelice la situazione della sua famiglia”. In una lettera del 9 aprile, Giacomelli scrisse che

Sacra Consulta il 30 marzo 1852 “per estorsione di danaro con minaccia d’incendio e con privazione di libertà alle

persone minacciate, il tutto commesso per ispirito di parte, alla galera in vita sotto stretta custodia. Più il suddetto

tribunale con sentenza 15 settembre 1852 per titolo d’incendio doloso in luogo abitato per ispirito di parte lo condannò

alla galera in vita sotto stretta custodia. Colla stessa sentenza il suddetto tribunale per titolo di furto qualificato a mano

armata per ispirito di parte ed in somma maggiore di scudi 100 alla galera per anni 15. Più altro furto simile inferiore ai scudi 20 alla galera per anni 10. Più altro furto simile inferiore ai scudi 20 alla galera per anni 10. Per incendio e

dispersione dell’archivio comunale del Balzo, alla galera per anni 15. Più per arresto arbitrario per ispirito di parte con

altra sentenza 1 febbraio 1853 della Sacra Consulta fu condannato a due anni d’opera. Condotta tenuta in Ancona

eccessivamente irrequieto, insubordinato e promotore di disordini. Condotta in forte Urbano: mai punito”. 224 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 181. E’ difficile che i Cenni, o almeno Guglielmo, si siano indotti a

supplicare il papa. Di lì a poco il giovane Guglielmo si sarebbe unito a Garibaldi. Nell’elenco pubblicato sulla Gazzetta

ufficiale del Regno d'Italia del 12 novembre 1878 di tutti i componenti la spedizione dei Mille di Marsala, compilato

sulla scorta dell' Elenco pubblicato nel 1864 dal Ministero della Guerra, il nominativo n. 285 è quello di “Cenni

Guglielmo fu Lorenzo, nato a Comacchio li 26 febbraio 1817, residente a Roma, colonnello a riposo”.

71

per quante diligenze abbia usate per iscoprire se vero sia che il mentovato signor dottor Boselli abbia scritti

biglietti per domandare dennari o farina dietro assicurazione di proseguimento d’atti o d’assistenza nelle cause,

ho potuto benissimo rilevare che egli ha fatte frequenti somiglianti domande a titolo di prestito ma non mai col

pretesti suindicato. Io stesso gli ho somministrata una somma ed il parroco di Rocca Pitigliana ultimamente

un’altra colla promessa [...] della restituzione [...] Non posso dissimulare che generalmente li animi siano

indisposti contro di lui, ma lo sono perché tutti indistintamente lo riguardano come un delatore volontario e

prezzolato, che tutto riferisce minutamente le azioni indifferenti e perfino domestiche alla polizia di Vergato ed

in questo aspetto egli è assolutamente esecrato ed aborrito, motivo per cui sembrerebbe conveniente di altrove

traslocarlo.

Dunque, di Boselli anche a Porretta, così come a Loiano, si diceva che era una spia e anche il

governatore Giacomelli, per quanto a malincuore, riteneva meglio allontanarlo, per non estendere la

sua cattiva fama a tutto il personale e all’operato del suo ufficio. Il 19 giugno 1924 il legato Spina

comunicò al governatore di Porretta di essersi deciso a dimettere Mariano Boselli dall’impiego.

Perché poi non manchi la necessaria sussistenza alla non colpevole di lui moglie e famiglia ho deciso di far

corrispondere frattanto provvisionalmente alla detta moglie Donnina un sussidio caritativo e ciò per un tratto di

commiserazione e beneficenza verso gl’infelici individui di detta famiglia 225.

Privato dell’impiego fisso, del quale tuttavia non era riuscito a vivere, accumulando debiti, Boselli

era ugualmente rimasto a Porretta e il 21 marzo 1826 il governatore, che era ancora Giuseppe

Giacomelli, lo raccomandò al legato Albani perché gli concedesse la qualifica di patrocinatore.

Dopo aver perso il posto, Boselli si era dedicato alla difesa delle cause civili agitate nel tribunale di

Porretta, ora come mandatario, ora come accompagnatore delle parti in giudizio, ora anche come

sostenitore di uno dei contendenti. Tutto questo a titolo gratuito perché potevano esigere compensi

solo i difensori legalmente riconosciuti: Boselli chiedeva che le retribuzioni per i propri patrocini

potessero essere corrisposti a titolo di liquidazione di spese. “Nulla in contrario alla di lui buona

condotta mi è stato fino ad ora denunziato” e nelle cause trattate “ha sempre fatto mostra di molto

zelo ed interessamento”: queste le parole con cui il benevolo Giacomelli aveva appoggiato la

richiesta di Boselli 226. Il cardinale Albani aspettò un mese prima di rispondere al governatore che

per non essere egli investito della qualifica di patrocinatore approvato ed appropriandosela abusivamente nella difesa di cause civili introdotta presso codesti governo, non può pretendere di costringere i suoi clienti al

pagamento delle tasse competenti ai patrocinatori, giusta la vigente legislazione. In pendenza però della decisa

approvazione della sua persona a patrocinare cause, la quale dovrà procurarsi dal signor pretore all’appoggio

dell’art. 46 del secondo foglio di schiarimento al moto proprio 5 ottobre 1824, potrà prendersi il temperamento

che il detto dottor Boselli scriva a qualche approvato patrocinatore in Bologna e si faccia destinare come uno

dei di lui praticanti di studio a patrocinar cause nel governatorato di Porretta. Ciò ottenuto, incomberà al signor

governatore locale di approvarlo in tale qualità di praticante di studio e con questo mezzo [...] resterà

provveduto all’istanza del ricorrente il quale potrà pretendere dai clienti patrocinati le tasse di competenze. Lo

avvisi dunque, onde possa mettersi in regola, usando ogni discretezza nelle sue pretese conciliabilmente colle

circostanze economiche degli abitanti 227.

Il 5 dicembre 1828 il governatore Giacomelli scriveva che Boselli a Porretta era l’unico

patrocinatore autorizzato con rescritto del legato e che spesso assisteva gratuitamente i miserabili.

Evidentemente il praticantato lo aveva fatto o lo stava facendo. Il 3 gennaio successivo il priore

comunale di Porretta dottor Bernardi scrisse a sua volta al legato che l’accusa al dottor Boselli di

approfittare delle liti per farsi pagare indebitamente era falsa e calunniosa.

225 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 123, Boselli dott. Mariano destituzione dall’impiego di sostituto

cancelliere presso il governo di Porretta per delitti in genere. 226 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 126. 227 Ivi.

72

Ritrae esso dottore dalla sua professione legale quasi la totale sossistenza, avendo il padre, cinque puerili figli e

la moglie a carico proprio [...] Assiste egli collo stesso impegno tanto i ricchi quanto i poveri e miserabili [...]

Non ha convenuto in giudizio per essere pagato di sue funzioni legali che soli due.

Come patrocinatore abilitato poteva “ripetere le sue funzioni legali dalle parti il che fare non

potendosi verso i loro clienti dagli altri patrocinatori abitanti egualmente a Porretta perché privi di

qualunque abilitazione” ed essi “mossi da così viva dispiacenza suscitano nel mal animo dei

litiganti delle idee di animosità e di rancore contro del ripetuto Boselli che si diffondono poi

sollecitamente nel pubblico in di lui pregiudizio onde toglierli quella clientela che finora gli ha

procurato il suo sostentamento” 228.

Modesto patrocinatore di provincia, nobile bolognese trasferito in montagna per incapacità di

vivere a Bologna conformemente al suo rango, e tuttavia inseguito dai creditori, dai detrattori e dai

concorrenti, e ora, manifestamente, messo in cattiva luce dalla malevolenza del nuovo governatore.

Andrea Salvigni, che nel frattempo aveva sostituito l’avvocato Giuseppe Giacomelli, il 5 ottobre

1829 scrisse che da alcuni mesi il dottor Giuseppe Galletti aveva formalmente incaricato Boselli,

come suo praticante di studio, di patrocinare cause a Porretta, ma che la nomina non aveva avuto la

ratifica del pretore, senza la quale Boselli non poteva pretendere per intero le tasse dai patrocinati 229. Insomma, l’iter non era stato completato con il praticantato e mancava l’esame finale perché

Boselli si potesse definire procuratore a tutti gli effetti. Il 24 novembre il conte fornì i titoli per

ottenere dal pretore l’abilitazione all’esercizio di causidico con facoltà di farsi pagare ed esibì la

dichiarazione sottoscritta dell’arciprete Gioacchino Monti il quale faceva fede che Boselli era

“senza mezzi di sussistenza ad eccezione del poco che guadagna coll’esercizio della sua

professione, avendo una numerosa famiglia di cinque figli e la moglie incinta, e una delle figlie in

Bologna per motivo d’educazione”. Aveva accumulato per pigioni arretrate un debito di 68 scudi

con il conte Vincenzo Ranuzzi che avrebbe potuto estinguere se i suoi assistiti lo avessero pagato.

Il 23 novembre il priore comunale certificò che

il nobil uomo signor conte dottor Mariano Boselli da molti anni dimorante in Porretta è persona onesta e

dabbene esercitando con onore e delicatezza la di lui professione legale per cui dai suoi clienti viene lodato,

ond’è che contro il medesimo veruna cosa emerge in questi atti comunitativi e politici, conducendo inoltre una

buona condotta morale e politica.230

Il sospirato titolo di causidico non fu rilasciato neppure allora; anzi, il 26 novembre 1830, il legato

Bernetti, a seguito di un esposto anonimo di abitanti di Porretta, sospese Mariano Boselli

dall’esercizio della funzione di procuratore e come risposta a una sua supplica lo invitò a conseguire

formalmente l’abilitazione. Nell’esposto sono riassunte con malevolenza tutte le fasi della carriera

di Boselli nel pubblico impiego, dagli esordi come sostituto cancelliere alla giudicatura di pace di

Guiglia da dove dovette scappare e adattarsi a fare l’usciere nella giudicatura di pace di Porretta. In

seguito

con le sue furberie nel 1816 riuscì a farsi assumere come notaio aggiunto nel tribunale criminale di Bologna ma

anche qui non soddisfacendo procurò di entrare nella polizia di Bologna, dove ugualmente non dette buona

prova. Si intrufolò a Bazzano come sostituto cancelliere dove fu sospeso e passò a ricoprire la stessa carica a

Loiano, fu sospeso anche lì, poi a Porretta dove non fu solo sospeso ma cassato nel 1824 dal pubblico impiego 231.

228 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 128, fasc. Boselli Mariano, accuse contro di lui, sottoscritte da dodici

persone, tra cui il parroco di Capugnano il 21 novembre. 229 Il Motu proprio di Leone XII del 1827 nell’art. 38 del titolo II prevedeva che in ogni capoluogo di legazione o

delegazione ci fosse un giudice unico detto pretore per le cause civili di prima istanza superiori a 300 scudi. 230 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b.130, fasc. Boselli dottor Mariano in Porretta, accuse nell’esercizio di

procuratore. 231 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 132.

73

Malgrado il malanimo di una parte dei compaesani, per un po’ di tempo la situazione di Mariano

Boselli sembrò migliorare e il 14 luglio 1831 superò finalmente l’esame riportando l’abilitazione

dal pretore Carlo Mazzolani, ma già il 29 novembre era di nuovo nei guai per le accuse che gli

vennero rivolte dai clienti – in particolare di prolungare senza necessità tutte le cause, anche minime

– accuse che trovavano ascolto nel governatore Salvigni, il quale non dispose giudizialmente per il

saldo dei suoi crediti. I figli di Boselli erano intanto diventati sette 232. L’abilitazione conseguita,

peraltro, non gli conciliò gli animi dei paesani. Il 24 gennaio 1833, l’avvocato Carlo Mignardi,

nuovo governatore di Porretta e all’oscuro dei precedenti di Boselli, scrisse al pro–legato, il

senatore e conte Cesare Scarselli, di averlo proposto come difensore d’ufficio nel governo di

Porretta, in sostituzione di Pietro Nanni che vi aveva rinunciato, “perché nel breve periodo di mia

gestione governativa in Porretta non ho avuto campo di scorgere in lui alcun pregiudizio che ostar

possa all’esercizio di quell’incarico”. Tuttavia il pro-legato lo indusse a cambiare opinione e a

favorire un notabile locale, anche se sprovvisto dell’abilitazione.

Scarselli, infatti, aveva invitato il governatore Mignardi a consultare gli atti del suo ufficio dal

1829 al 1832 perché si documentasse sui precedenti di Boselli nell’esercizio di procuratore nelle

cause civili “e concepire di lui quell’opinione che in codesti paesi si è egli acquistata in senso

certamente non vantaggioso”. Lo aveva lasciato però libero di decidere “anche pel riflesso

stringente di non esservi forse in paese chi potesse avere l’attitudine di assumere gratuitamente

l’officio di difensore de’ rei presso codesto tribunale” 233. Mignardi si era affrettato a cambiare idea.

Ora però che l’Eccellenza Vostra [...] mi dà lume sulle eccezioni che colpiscono il proposto Boselli, quantunque

mi ha lasciata la facoltà di nominarlo a quell’ufficio sotto la mia responsabilità, mi faccio però invece a

proporre la persona dell’eccellentissimo signor dottor Antonio Bernardi di Porretta giacché non intendo di

assoggettarmi ad alcuna responsabilità per l’operato di un altro. La proposta persona, quantunque non legale, è

però fornita di cognizioni e criteri anche più del bisogno bastevoli a poter disimpegnare le diffese nei processi

di titoli pretoriali.

Nel 1839 il legato Vincenzo Macchi chiese informazioni al governatore di Porretta, avvocato

Carlo Bignardi, su Mariano Boselli che il 25 marzo aveva supplicato il cardinale di impiegarlo

come cancelliere o come processante. L’11 aprile Bignardi rispose che Boselli era sicuramente in

grado di ricoprire una cancelleria in un governo, non sapeva però se avrebbe potuto essere

impiegato come processante. Quanto all’onestà, riteneva che le chiacchiere su di lui fossero causate

non tanto dalla sua cattiva indole, quanto piuttosto dalla necessità di mantenere la sua

numerosissima figliolanza, cosa che non poteva fare con i suoi proventi di procuratore

impiegando alle volte in tali ristrettezze i fondi affidatigli dai clienti pel proseguimento delle cause e poi

costretto a ritardarle per mancanza di mezzi e da ciò ne nasce pregiudizio al suo buon nome. Del resto però non manca di un certo fondo di onoratezza e religione, non disgiunto dai più lodevoli sentimenti per la migliore

educazione dei figli, il maggiore dei quali per le paterne cure è già iniziato nella carriera ecclesiastica. Ritengo

pertanto che fornito di un impiego che gli somministri i mezzi necessari per far fronte ai suoi impegni, far possa

il dottor Boselli una buona riuscita.234

Quando Boselli nel giugno 1824 era stato licenziato come cancelliere sostituto dal governo di

Porretta, pochi giorni dopo era stato assegnato alla famiglia un sussidio di carità di 8 scudi mensili

sui fondi della provincia pagabili a sua moglie Donnina, sussidio che veniva ancora versato nel

luglio 1840, quando il marito presentò una nuova supplica per un impiego che fu archiviata 235. Non

fu l’ultima volta nella quale le sue aspirazioni professionali gli vennero troncate dai suoi precedenti

232 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 133. 233 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 137. Il rescritto del pro-legato alla risposta di Mignardi fu favorevole al

dott. Bernardi. 234 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 146. 235 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 148.

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– amplificati dalla malevolenza di quei paesani dai quali non aveva saputo farsi accogliere – anche

se la carità non gli veniva negata. Informazioni sul suo conto furono chieste il 22 maggio 1847 al

legato Luigi Amat di San Filippo dal Segretario di Stato Tommaso Pasquale Gizzi: Mariano Boselli

si era infatti rivolto al papa per ottenere un impiego. Il legato rispose laconicamente il 28 maggio

ripercorrendo le prime tappe della sua carriera: nel maggio 1819 era impiegato come sostituto

interinale al governo di Bazzano dove era rimasto fino alla fine del 1820. Nel 1821 aveva avuto la

nomina stabile di cancelliere sostituto a Porretta, impiego da cui era stato destituito nel giugno 1824

per le frodi e le prevaricazioni che aveva compiuto, mentre alla moglie era stato assegnato un

mensile di 8 scudi dai fondi provinciali 236. Del quarto di secolo successivo non si diceva nulla,

tranne che per quel sussidio di carità: Boselli era sparito dall’organico del pubblico impiego,

incapace – forse più per insipienza che per malafede – di toccare le corde dei superiori e di

riconvertire il suo originario status di nobile in quello di dignitoso servitore dello stato 237.

3. Il protagonismo politico degli avvocati: successi e insuccessi tra ancien régime e

Restaurazione.

3a. Onore e utili. Dalla metà del Settecento alla metà del secolo successivo la professione degli

avvocati sembra essere la via maestra per la carriera politica e per la promozione sociale; tuttavia,

nello stesso periodo, si verificano forti disparità all’interno del «ceto legale». La maggior parte degli

avvocati occupò impieghi modesti anche se sicuri, che consentivano una relativa agiatezza (il caso di

Boselli è un’eccezione alla regola che è confermata da centinaia di fascicoli personali che attestano

lunghi e – più o meno – onorati servizi). Alcuni – già principi del foro – assurgono al rango di nobili

e di referenti privilegiati prima dei dominatori francesi e poi del restaurato potere pontificio. Nella

Bologna del Settecento, la reputazione e la collocazione sociale di chi esercitava la professione di

patrocinatore nei fori civile e penale variavano molto: ai migliori avvocati, laureati in utriusque e

collegiati, tanto più se lettori dello Studio, erano riservati rispetto e considerazione mentre i

procuratori, che potevano essere dottori in iure ma anche non esserlo, non di rado si confondevano

con la folla stracciona dei praticanti – i sollecitatori.

Queste differenze si ripercuotevano anche sulla parcella che ciascuno poteva richiedere ai propri

clienti. Tariffe precise erano fissate solo per chi agiva nel foro civile; d’altra parte per i reati di cui

era competente il foro criminale venivano processati poveracci – ladri o comunque persone che

vivevano ai margini della società – che raramente o mai potevano ingaggiare privatamente un

procuratore o un avvocato, limitandosi ad affidarsi al patrocinio gratuito dei difensori d’ufficio 238.

Gli onorari degli avvocati della curia civile di Bologna per la stesura di allegazioni difensive erano

piuttosto alti, arrivando fino a un massimo di 6 scudi. D’altra parte la tariffa fissata per i procuratori

– o causidici – prevedeva una varietà molto maggiore di funzioni sia in giudizio sia extragiudiziali.

Così, le 10 lire che costituivano la retribuzione massima del curiale, rapportate ai 6 scudi pagati per

le allegazioni pro veritate degli avvocati, ci danno bene l’idea di quanto fosse inferiore la

considerazione sociale nei loro confronti (6 scudi valevano circa 30 lire) ma non è detto che i

236 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 161. 237 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 174. Il 17 marzo 1853 giunse una nuova richiesta di informazioni da

Roma, dal ministro dell’interno, sul conto del dottor Mariano Boselli Spinola [è la prima volta che viene nominato con un secondo cognome: una disposizione testamentaria di un parente?] che implorava di essere nominato supplente al

governo di Porretta, chiedendo anche un sussidio nel frattempo, trovandosi in stato di estrema indigenza. Il commissario

straordinario risponde ripercorrendo le solite tappe della carriera di Boselli, ormai settuagenario, e dicendo che il

sussidio di 8 scudi a suo tempo assegnato alla moglie veniva ancora pagato dalla commissione amministrativa della

provincia. Il posto si era reso disponibile un paio di mesi prima e per esso avevano fatto domanda di assunzione a Roma

almeno due candidati. 238 Le Provisioni ed ordinazioni sopra le tasse degli onorari de’ signori avvocati e causidici e sopra le mercedi de’

sollecitatori, pubblicate nel 1744, ci aiutano a capire quali fossero le differenze di rango all’interno della professione

forense. Vedine una copia in ASB, Ambasciata, Lettere all’oratore, vol. 383.

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procuratori affermati fossero più poveri: la stessa versatile varietà delle prestazioni che potevano

offrire doveva consentire loro di presentare alla fine conti anche molto salati ai propri clienti, anche

quando le singole voci non erano troppo alte.

In una ricerca sul caso veneto è stato osservato come “l’attività procuratoria, pratico–tecnica, di

stretto contatto con la parte assistita era [...] considerata disdicevole alla virtù nobilitante del dottore” 239. Anche per quanto riguarda gli avvocati, il prestigio sociale e culturale non consentì loro neppure

a Bologna una vera affermazione e una cooptazione ai vertici della nobiltà prima della dominazione

francese e, malgrado le aperture già avvertibili agli inizi del Settecento,

non vi era assolutamente ascesa sociale per i ceti professionali, salvo rari casi, verso il privilegio nobiliare o

patrizio, e non vi era neppure una ramificata burocrazia propria dello stato moderno che favorisse questa

promozione sociale negli alti gradi della gerarchia istituzionale statale 240.

Dagli inizi del Settecento, e in particolare negli anni di Prospero Lambertini, pontefici

“riformatori” cercarono di favorire la ripresa economica e crearono le condizioni perché a Bologna

la considerazione sociale del ceto forense si rafforzasse 241. A metà Settecento, si manifestò in

molti avvocati la consapevolezza della propria identità di intellettuali – aperti alla cultura letteraria

ed erudita e non solo al diritto – e l’orgoglio di appartenenza a un ceto anche economicamente

intraprendente che potremmo già chiamare borghese ma che ancora si definiva cittadino,

incapsulato in ormai vacillanti barriere di ceto. Un’analoga coscienza della propria dignità, che

nulla aveva da invidiare a molti membri dell’aristocrazia, si avverte, oltre che tra i principi del foro,

nei grandi mercanti e banchieri – affittuari di tenute di parecchi aristocratici, delle quali

cominciavano a erodere parti non trascurabili – e nei medici di maggiore prestigio, come quel Pier

Paolo Molinelli che a metà Settecento ottenne la cittadinanza bolognese (veniva dal contado) per i

suoi meriti e per il patrimonio accumulato, che gli permetteva di esibire un tenore di vita non

inferiore a quello di molte famiglie nobili 242.

La maggiore consapevolezza della propria identità da parte dei vertici del ceto cittadino non

impediva che la vocazione affaristica e speculativa, che si era diffusa nello Stato pontificio già a

partire dagli anni di Clemente XII, si associasse con una frequente smania di nobilitazione (a volte

realizzata) che agitava i più intraprendenti, i più ambiziosi, i più ricchi 243. Avvocati e procuratori,

da parte loro, si vedevano aprire brillanti carriere, favorite dalla delicatezza di molti affari, dalla

frequente spregiudicatezza con la quale esponenti dei ceti emergenti davano l’assalto a patrimoni

venerandi o dalla fragile base sulla quale molte fortune troppo rapide erano state costruite. La gente

litigava anche con grande accanimento per eredità contese, per doti non pagate, per l’insolvenza dei

debitori; negozianti senza scrupoli si precipitavano a dividersi le spoglie dei colleghi decotti: per

tutto questo occorrevano le prestazioni di professionisti capaci che a loro volta si mettevano in corsa

nella competizione per le terre messe sul mercato dalle deroghe sempre più frequenti ai

fedecommessi o semplicemente dall’accidia di molti eredi incapaci.

239 L. Tedoldi, Del difendere. Avvocati, procuratori e giudici a Brescia e Verona tra la Repubblica di Venezia e l’età

napoleonica, Milano, Angeli, 1999, p. 25. 240 Ivi, pp. 7 e 84. 241 Si rimanda ai classici L. Dal Pane, Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano, Giuffrè,

1959; F. Venturi, Settecento riformatore, vol. I, Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, pp. 98 e segg.; A.

Caracciolo, Da Sisto V a Pio IX , in M. Caravale, A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX , in Storia

d'Italia , diretta da Giuseppe Galasso, XIV, Torino, UTET, 1978, pp. 491 e segg. 242 G. Angelozzi, C. Casanova, Diventare cittadini, p. 416. 243 A. Caracciolo, Fortunato Cervelli ferrarese 'neofita' e la politica commerciale dell'Impero, Milano, Giuffrè, 1962;

Id., Ricerche sul mercante del Settecento, II, Francesco Trionfi capitalista e magnate d'Ancona , Milano, Giuffrè, 1962; Id., Le port franc d'Ancône, croissance et impasse d'un milieu marchand au XVIIIe siècle, Paris, SEVPEN, 1965; Id.,

L'albero dei Belloni, Bologna, il Mulino, 1982; per Bologna si vedano L. Dal Pane, Economia e società a Bologna nell'età del Risorgimento, Bologna, Zanichelli, 1969 e C. Casanova, Un banchiere bolognese del Settecento. Antonio

Gnudi, in “L’Archiginnasio”, LXXXVIII/1993 (ma 1995), pp. 19–331.

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Prestigio professionale, proprietà immobiliare, attività commerciali. Da queste premesse, nella

seconda metà del Settecento, poterono emergere figure come quella di Antonio Aldini, dal quale

l’“onore” dell’uomo di legge fu realizzato compiutamente con il favore di Napoleone che gli

consentì l’accesso a quei vertici del potere che nella Bologna di ancien régime i dottori in iure e gli

avvocati, pure stimati, avevano solo sfiorato, come consulenti del Senato e, privatamente, del

patriziato – nelle sue vertenze cavalleresche e nei suoi non infrequenti infortuni con la giustizia 244.

Nel 1814 Aldini si recò, insieme con Vincenzo Berni degli Antoni, a difendere gli interessi di

Bologna al congresso di Vienna, tentando invano d'impedire la restituzione della città al dominio

pontificio e presentando a Metternich, nel maggio 1815, un progetto di governo autonomo per le

Legazioni. Ritiratosi dapprima a Milano e rientrato poi a Bologna, Aldini visse l'ultimo periodo

della sua vita in disparte, amministrando quello che gli restava dell'ampio patrimonio immobiliare

che si era costituito tra Sette e Ottocento e che aveva rapidamente dissipato. Con l’eclissi di

Napoleone le difficoltà economiche lo avevano infatti costretto a mettere in vendita i suoi beni

residui per far fronte ai debiti 245. Senza aver conseguito vantaggi economici duraturi dalla sua

avventura politica, probabilmente Aldini tornò negli ultimi anni ad esercitare la professione e si

adattò ad amministrare due tenute per i Pepoli, curandone le questioni successorie 246.

Il conte Aldini morì a Pavia il 30 settembre 1826, due anni prima di Vincenzo Berni degli Antoni,

figura defilata nella scena politica internazionale, ma importante esponente della nuova

intellighenzia bolognese e tutto sommato più rappresentativo di Aldini, in quanto più corrispondente

al modello di ascesa, non clamorosa ma duratura, che tra Sette e Ottocento sancì stabilmente il

prestigio politico e professionale degli avvocati. Berni degli Antoni era nato nel 1747; come il padre

di Aldini anche il suo, Francesco, era avvocato. Della professione forense di Vincenzo sappiamo

ancora poco; abbiamo però un documento che conferma la rilevanza della sua attività politica, che si

espresse dopo la caduta di Napoleone con la richiesta del recupero della costituzione repubblicana di

Bologna. In occasione della Restaurazione del governo pontificio, Berni degli Antoni interpretò le

posizioni politiche di gran parte del nuovo ceto dirigente, che ormai comprendeva anche il notabilato

dei commerci, della finanza e delle professioni ma che si era identificato nei tradizionali valori

aristocratici di Bologna e chiese a Pio VII di impostare i rapporti con la città soggetta accreditandole

lo status di aderente ad un patto concordato, senza costringerla ad atti di sudditanza. Il suo Voto

politico-legale per la città di Bologna, per questo, poté essere pubblicato solo nel 1831, nel breve

lasso di tempo nel quale durò l’amministrazione dei maggiorenti della città – molti dei quali avvocati

– ribelli al governo del papa: l’autore era morto da tre anni e non poté veder riconosciuta l’attualità

delle sue idee politiche, che a suo tempo aveva espresso su commissione del Senato, senza perdere

mai di vista “le due qualità di suddito presentemente della Santa Sede e di cittadino bolognese” 247.

L’occasione che a suo tempo aveva indotto il Senato a commissionargli il Voto era la decisione

con il quale il pontefice aveva proceduto ad atti unilaterali di dominio che negavano lunghi secoli di

contrattualismo e di accordi bilaterali – almeno nell’interpretazione del Reggimento bolognese, alla

quale Berni degli Antoni si era prestato a dar voce. Il nuovo pontefice si uniformava così a quella

244 A. Zanolini, Antonio Aldini ed i suoi tempi. Narrazione storica con documenti inediti o poco noti, vol. I, Firenze, Le

Monnier, 1864. Per un lavoro recente sul periodo nel quale Aldini operò, si vedano i tre volumi I "Giacobini" nelle

legazioni: gli anni napoleonici a Bologna e Ravenna, atti dei convegni di studi svoltisi a Bologna il 13-14-15 novembre

e a Ravenna il 21-22 novembre 1996, a cura di Angelo Varni, Bologna, Costa, 1997, e in particolare su Aldini il saggio

di L. Antonielli, Antonio Aldini e la segreteria di stato a Parigi, vol. II, La società bolognese (1796–1815), pp. 253-

272. 245 ASB, Aldini, b. 12, fasc. 12, Governo provvisorio di Sua Maestà l’imperatore. Bologna 13 giugno 1814, Avviso di

vendita (a stampa). Si trattava di case a Bologna e in contado, di varie possessioni per un totale di un migliaio di

tornature. Nell’avviso di vendita Aldini si fregiava (come avrebbe fatto anche in seguito) del titolo comitale ottenuto

dall’imperatore nel 1805. 246 ASB Aldini, b. 12, fasc. 9, 1824, Progetti di amministrazione delle due tenute Dossi e Trecenta spettanti al signor

marchese Guido Taddeo Pepoli. 247 Voto politico-legale, p. 3. Una acuta analisi di questo documento è in A. De Benedictis, Bologna nello Stato della

Chiesa secondo il diritto delle genti e il diritto pubblico (1780–1831).

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politica riformatrice di Pio VI che a Bologna era stata vissuta prevalentemente in negativo, come

una serie di colpi inferti ai privilegi secolari della città e dell’aristocrazia. Berni degli Antoni aveva

invitato il Senato a farsi portavoce delle richieste del popolo davanti al papa, senza lasciare che il

sovrano facesse leva sul diffuso malcontento delle masse per limitare le prerogative secolari della

città: voleva far dimenticare l’esperienza francese e ricucire quella discontinuità con il passato

riconducendo esperienze e ideali a un’epoca fuori dal tempo e dalla storia, o almeno dalla storia

recente, continuando a coltivare il mito di fondazione delle libertà repubblicane.

Negli anni successivi, Berni degli Antoni, più che alla politica, si era dedicato alla letteratura; che

amasse questo genere di esercizio intellettuale lo sappiamo dalla composizione (e anche dalla

rappresentazione) di commedie ricalcate sui modelli illustri seicenteschi e settecenteschi, le quali

vennero pubblicate nel 1825 248. La più interessante per noi è Il tartuffo, commedia in tre atti che

mette ferocemente alla berlina il mondo dei causidici praticoni, dandone un ritratto impietoso

intriso, più che di ironia, di indignazione nei confronti di chi sperperava un buon nome

faticosamente conquistato e infangava l’onore di quegli uomini di legge che a ragione

rivendicavano il diritto ad occupare un posto di rilievo nelle gerarchie del merito più che del denaro 249.

All’arrivo dei francesi, a Bologna come a Venezia,

il ceto avvocatizio possedeva un’identità molto forte derivante dall’esercizio di una professione importante per

le ovvie reti di relazioni che metteva in circolo nella città, ma anche da una condizione sociale ‘nobilitante’ –

anche se mai riconosciuta dai gruppi oligarchici cittadini –, di aderenza alla sfera dei valori sociali ed

economici del patriziato cittadino.

Questo riconoscimento avvenne sotto i nuovi dominatori e anche con la Restaurazione non sarebbe

stato disperso. Chi più chi meno, gli avvocati erano inseriti stabilmente nelle maglie del potere

attraverso la carriera politica, cioè con “la scelta di seguire un percorso professionale che dal foro si

trasferiva nell’impiego attivo nei quadri dirigenti dello stato”. In questo percorso lo strappo del

passaggio tra i due secoli era stato ricucito senza perdite, anzi con il riconoscimento di un ruolo

politico agli esponenti delle professioni, soprattutto di quelle legali, che dall’ancien régime non era

mai venuto. Nell’Ottocento gli avvocati avrebbero saputo rafforzare

una loro identità professionale proprio dalla loro presenza attiva e visibile all’interno delle istituzioni, come un

gruppo sociale in grado di garantire una legittimità allo stato e un raccordo tra le esigenze della società e

l’esercizio della giustizia 250.

248 Commedie del cavaliere avvocato Vincenzo Bernj Degli Antonj, Bologna, presso Turchi, Veroli e comp., 1825. Ne

ricevette una copia anche il segretario di stato Giulio Maria Cavazzi della Somaglia che il 7 agosto 1825 di suo pugno

ringraziò il legato di Bologna, cardinale Giuseppe Albani, di avergli mandato “una produzione per me nuova del signor

Berni degli Antoni che non dubito di trovarla di buon gusto e spiritosa conoscendo io da gran tempo l’indole

dell’ingegno del valente autore”. Si veda ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 139, 1835, Riforma

degl’impiegati amministrativi e giudiziari (è un fascicolo relativo al 1825, collocato qui). 249 Commedie del cavaliere avvocato Vincenzo Bernj Degli Antonj, cit., pp. 262 e segg. 250 L. Tedoldi, Del difendere, pp. 130, 137, 153. Punto di partenza degli studi sulle élites nel passaggio tra ancien

régime e restaurazione è ancora il fascicolo monografico di “Quaderni storici”, n. 37 (1978), Notabili e funzionari

nell’Italia napoleonica, dove – al di là di una impostazione ideologicamente datata – si esprimeva nella Premessa di

Pasquale Villani l’esigenza di “approfondire, e in molti casi iniziare, l’indagine nel campo della stratificazione sociale e particolarmente esplorare alcuni aspetti della classe dirigente e della nuova amministrazione, anche ai livelli medi e

inferiori” (p. 9). Sui tempi della formazione di un’identità professionale specifica si veda M. Malatesta, Professionisti e

gentiluomini. Storia delle professioni nell’Europa contemporanea, Torino, Einaudi, 2006, in particolare il cap. II, Le

professioni legali. Pertinente al tema del mio lavoro è poi il volume monografico di “Roma Moderna e contemporanea”

dedicato a Nobili e borghesi nel tramonto dello Stato Pontificio, a cura di G. Nenci, a. XVI (2008), fasc. 1. Per

un’utilissima sintesi di storia istituzionale per il periodo preso in esame si veda M. Meriggi, Gli stati italiani prima

dell’Unità, mentre in particolare per lo Stato pontificio è sempre imprescindibile il volume di M. Caravale, A.

Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX. Sul ceto professionale a Bologna fra XVII e XIX secolo, si

vedano i saggi di L. Gheza Fabbri, L’organizzazione del lavoro. Corporazioni e gruppi professionali in età moderna e

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anche se, come abbiamo visto, caratterizzato da una marcata differenza di prestigio e di status in

relazione alla gerarchia delle competenze e ai compensi percepiti, prima durante il Regno e poi –

negli anni della Restaurazione – in subordine alle continue richieste di stringere i cordoni della

borsa trasmesse a Bologna dai Segretari di Stato .

3b. Tra nostalgie del Regno e rivendicazioni autonomistiche. Fu però con la reazione ai nuovi

ordinamenti del sistema civile e penale varati nel 1831, che gli avvocati dettero piena prova del loro

protagonismo politico: in quell’occasione una loro rappresentanza fece presente al prolegato

Camillo Grassi che già gli editti 31 ottobre e del 15 novembre che ne preannunciavano la

pubblicazione, avevano provocato vivo malcontento perché si riteneva che i nuovi Regolamenti

lungi dal soddisfare ai bisogni presenti e dal riparare ai difetti onde grandi erano le querele contro ai sistemi passati, portano seco mancamenti e mali maggiori. Era un universale dolersi contro ai sistemi giudiciari in

vigore innanzi il 4 febbraio [per il fatto] che fossero in essi molte ragioni di trasportare ad un tratto una causa da

un tribunale di Bologna a uno di Roma, che fossero gravi le spese delle giudiciali contese. Ma ora, cogli editti e

regolamenti testé pubblicati, quelle ragioni sono maggiori, le spese non che siano aumentate sono rese

gravissime e quindi insopportabili. E se si guarda agli ordinamenti che concernono i criminali giudizi vi si

veggono ordinate tali cose che per verità non si addicono alla promessa Era felice. Oltre a che tali mutamenti

sono comandati in via provvisoria, che è pure un mancamento gravissimo che per addietro diede argomento alle

comuni querele [...]. Il ceto legale di Bologna, aiutato dal voto unanime dell’intera popolazione si fa a

supplicare l’Eccellenza Vostra che sia sospesa l’attivazione degli editti e regolamenti riferiti di sopra ed

immediatamente ordinata la proroga o riattivazione del sistema giudiciario vigente a tutto il giorno 20 corrente

novembre fintanto che il sovrano, conosciuti i veri bisogni presenti e i veri mezzi di sovvenire ai medesimi, si

dia a compiere la grande impresa di un lodevole stabile riforma.

In quella stessa lettera fu chiesto al conte Grassi che fosse nominata una commissione eletta dal

“ceto legale” che insieme con i capi dei tribunali civile e penale proponesse un progetto di riforma

dei regolamenti prima che fossero pubblicati 251. Già il giorno successivo, 25 novembre, il conte

avvocato Alessandro Gamberini, designato a sostituire Grassi che era ammalato, scriveva al

Segretario di Stato che

aveva nominato in via provvisoria dei funzionari e impiegati che dovevano comporre i nuovi tribunali da

attivarsi il 21 novembre e che questo era avvenuto senza difficoltà, come risulta dai verbali dell’installazione

dei giudici e addetti ai tribunali, eseguita appunto il 21. Procedevano le cose in una perfetta quiete e

tranquillità, quando ieri sera si presentò prima alla casa del signor conte Grassi pro-legato attualmente

infermo [...] indi a quella del consigliere conte avv. Gamberini una deputazione del ceto legale di questa città e provincia, composta dai più provetti e reputati causidici, e susseguita da un attruppamento di persone, la

quale in nome dell’intero ceto fece manifesto che i regolamenti organici e di procedura sia civile che

criminale e l’altro concernente la disciplina dei giudici e tribunali e le tasse giudiziarie, lungi dal correggere i

difetti della legislazione ch’era in osservanza prima del 4 febbraio, li rendevano di gran lunga maggiori,

talché lo stesso ceto legale sussidiato dal voto dell’intera popolazione non aveva potuto dispensarsi dal

portarne alla primaria autorità le più vive doglianze.

Le proteste erano dirette essenzialmente contro la nuova tassazione degli atti del tribunale civile

“trovata improvvida e oltremodo gravosa”. Ne era seguito il blocco di tutte le attività giudiziarie.

Ora tacciono i tribunali civili novellamente instituiti e tacciono del pari quelli ch’erano in esercizio prima del dì

20 corrente. I curiali tutti hanno stabilito un patto fra loro, per cui a niuno è permesso di promuovere atto

qualsiasi davanti i nuovi tribunali sotto pena della comune indignazione e di ogni altra conseguenza anche di

personali offese che ne possa derivare. I tribunali antichi, dopo la decretata soppressione si ritengono inibiti a

di M. Malatesta, La borghesia professionale, rispettivamente nel vol. 3,I pp. 647-729, e 4,I pp. 249-332 della Storia di

Bologna. 251 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari

promosse dal ceto legale, lettera del 24 novembre 1831.

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ricevere qualunque atto per cui rimane tutto sospesa l’amministrazione della giustizia [...] Si è divulgata la

notizia che anche in altre provincie siasi eccitato eguale movimento.

Gamberini prometteva di prodigarsi per sbloccare quella pericolosa forma di insubordinazione

all’autorità del sovrano, che faceva seguito ad una precedente sollevazione degli studenti.

Io non cesso né cesserò di persistere nel raccomandare l’adempimento degli ordini governativi [...] Ora godeva

la provincia di una tranquillità perfetta segnatamente dopo che i giovani, intesi ai consueti pubblici studi eransi interamente pacificati per la notificazione qui acchiusa e dopo che i possidenti sono rimasti appieno soddisfatti

per l’ottenuta pubblicazione delle tariffe estimative e per l’accordata proroga dell’operazioni catastrali, come

emerge dall’altra notificazione qui compiegata. L’attivazione dei nuovi tribunali e la promulgazione della

tariffa su le tasse giudiziarie hanno turbata quella quiete che qui si godeva da qualche giorno e non debbo tacere

all’Eminenza Vostra Reverendissima che preveggo imminente un altro sconcerto per la mancanza di fondi atti a

far fronte alle spese di questa guardia civica e forense 252.

Il direttore di polizia, avvocato Vincenzo Piana, riferì a sua volta a Grassi

che dalla pubblicazione degli editti riguardanti il sistema giudiziario, e soprattutto di quello che concerne i

criminali giudizi, nacque nella popolazione un malcontento non piccolo, perché essa giudicò che non portassero

disposizioni soddisfacenti agl’attuali bisogni e ripugnanti la filantropia del secolo ed in parole ed in iscritto si

esternò pubblicamente. Il regolamento poi che si riferisce alle tasse non così tosto fu recato alla notizia del popolo

che il malcontento si convertì in una vera ed universale commozione e concitazione di animi. Non solo il ceto

legale ma tutti li cittadini fanno ogni opera loro perché non sia data esecuzione agli editti suindicati. Dal giorno 21

del corrente ch’era stabilito per l’attivazione di essi, non è stato un procuratore che dia fuori un atto giudiziale,

nessuno si è presentato alle udienze.

Dopo che il “ceto legale” nella sua “clamorosa” adunanza che si era tenuta il giovedì precedente

aveva nominato dei deputati per ottenere la riattivazione del sistema prima in vigore, il capo della

polizia aveva dovuto constatare il seguito popolare che riscuotevano quei rappresentanti.

Si può dire che questi deputati non abbiano potuto muovere un passo senza essere seguiti da folle di gente

ansiosissima di sapere il risultato della loro incombenza. Frequenti sono le riunioni di cittadini che minacciano

atti sediziosi se non è sospesa immediatamente l’attivazione del nuovo sistema e riattivato il passato. Oggi pure

il ceto legale ha tenuta un’adunanza non meno clamorosa della prima [...] Ond’è che se dalla risoluzione che

appare fermissima [...] di volere piuttosto abbandonare l’arte sua, che conformarsi al nuovo sistema e dal

generale incitamento de’ cittadini [...] ne conseguono questi dannosissimi effetti. La giustizia non è

amministrata, il popolo è in commovimento tale che l’ordine e la tranquillità pubblica ne possono venire

grandemente turbati 253.

Tre giorni dopo Gamberini convocò per una riunione urgente il presidente del tribunale d’appello

Carlo Mazzolani, il presidente del tribunale di prima istanza Gaetano Amadei, Luigi Ugolini, vice

presidente dello stesso tribunale, il presidente del tribunale di commercio Petronio Rovatti e i

giusdicenti avvocati Giovanni Bernardi e Giacomo Fabbri. Oltre a costoro si presentò anche Filippo

Gaudenzi, presidente della commissione militare, istituita per giudicare i reati più gravi secondo la

legge marziale. I consiglieri componenti la commissione governativa (il conte avvocato Filippo

Leone Ercolani, il professor Giovanni Battista Magistrini e lo stesso Gamberini 254) affrontarono la

situazione in tutta la sua gravità, leggendo la supplica dei curiali, i rapporti dei tribunali sul totale

blocco della loro attività e il rapporto della polizia. Tutti convennero che le richieste degli avvocati

e dei causidici ledevano le prerogative sovrane. Il consigliere Filippo Leone Ercolani invocò

l’intervento della polizia e della guardia civica affermando che per obbligo della sua carica e per il

giuramento prestato era suo dovere “curare l’intero adempimento delle leggi e degli ordini del

252 Ivi, lettera del 25 novembre 1831. 253 Ivi, lettera del 26 novembre 1831. 254 La commissione governativa affiancava il delegato con membri dell’élite cittadina, prevalentemente scelti tra i

titolati, e rappresentava il trait d’union fra Roma e la città nelle sue componenti più ligie al sovrano.

80

sovrano” e che piuttosto che trasgredirli si sarebbe dimesso. Ercolani aggiunse che, ferma restando

l’applicazione dei regolamenti giudiziari appena pubblicati, la congregazione governativa avrebbe

potuto eleggere un consiglio di avvocati ed uno di causidici dai quali sarebbe stata eletta una

commissione con l’incarico di presentare, insieme con i presidenti dei tribunali, una “giusta e

rispettosa memoria da umiliarsi al sovrano” per indurlo ad una riforma, così come prevedeva

l’ultimo articolo del regolamento di procedura civile del 31 ottobre 1831. Gli altri due consiglieri

governativi, Gamberini e Magistrini, si dichiarano d’accordo nel far intervenire all’adunanza anche

il capo di polizia Piana, l’avvocato Giuseppe Patuzzi, facente funzione di comandante della Guardia

civica e “forese”, e il marchese Matteo Conti, facente funzione di capo dello stato maggiore della

Guardia civica. Tutti, interpellati, si dichiarano pronti a mantenere l’ordine usando la forza solo se

assolutamente necessario. L’applicazione del regolamento del 15 novembre 1831 sulla disciplina

dei tribunali e sulle tariffa delle tasse giudiziarie fu sospesa. Rimase ferma la decisione di attivare

temporaneamente i nuovi tribunali civili e di applicare il nuovo regolamento di procedura che li

riguardava. Il “ceto legale” avrebbe mantenuto la facoltà di presentare memorie al sovrano e il pro-

legato si impegnava a nominare in tempi brevi un consiglio di avvocati e uno di causidici – termine

con il quale si faceva comunemente riferimento ai procuratori – per eleggere due commissioni 255.

Un documento firmato dall’avvocato Raffaele Giacomelli, dal consultore conte Filippo Leone

Ercolani, dal capo della polizia Piana, e da Giuseppe Patuzzi comunicava che il 29 novembre i

causidici si erano riuniti un’altra volta, nominando i propri deputati. Una terza adunanza era stata

convocata sempre il 29 novembre e ad essa avevano partecipato gli stessi avvocati Giacomelli, che

fu nominato presidente, Ercolani, Piana e Patuzzi. Nel corso di essa erano stati designati tre

moderatori: l’avvocato Bartolomeo Scalfarotto, e due procuratori, i dottori Giovanni Venturini e

Saverio Argelati. Fu deciso che il ceto legale “esponesse umilmente” al papa la necessità “di creare

un collegio di uomini dotti e virtuosi, presi da tutte le provincie, con facoltà di riunirsi in una città

dello stato per fare nuovi progetti di codici legislativi”. Nel frattempo l’esecuzione dei nuovi

regolamenti avrebbe dovuto essere sospesa ripristinando temporaneamente le norme che erano state

in vigore fino al 20 novembre: si chiedeva che “non si riportasse innovazione alcuna sino a che non

siasi conseguita la generale riforma delle leggi”.

Queste proposte non furono votate perché sorse il dubbio che fosse più opportuno rimandare la

stesura di un documento e il voto ad un’assemblea più rappresentativa, da convocarsi in tempi

brevi; infatti alcuni dei curiali e molti avvocati non erano intervenuti all’assemblea, “o perché

legittimamente impediti o perché non si credessero legalmente invitati”. Ne fu quindi indetta

un’altra per mercoledì 30 novembre con un avviso a stampa sottoscritto da Ercolani, Giacomelli,

Piana e Patuzzi, nel corso della quale fu approvata la richiesta di formare due deputazioni, di

avvocati e di causidici, per presentare progetti di riforma ai sensi del paragrafo 247 del regolamento

di procedura civile in vigore dal 31 ottobre 1831. La sospensione dei regolamenti emanati in

precedenza fu votata all’unanimità 256. L’1 dicembre comparvero nella residenza governativa e

davanti al prolegato, anche se il conte Grassi era ancora ammalato, i dodici deputati del “ceto

legale”, i capi dei tribunali e i membri della congregazione governativa. Dopo una lunga

discussione fu redatto un verbale nel quale si ribadiva che il governatore di una provincia

oltre al mandato ordinario ha certamente un implicito mandato straordinario del suo principe, in vigore del quale è in suo potere di disporre anche con regia facoltà su le pubbliche cose, quando la pubblica salute

imperiosamente lo richiegga. Che certamente nel caso concreto il movimento eccitatosi nel popolo, il

255 Queste decisioni furono comunicate con una lettera del 30 novembre al segretario di stato. ASB, Legazione

apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari promosse dal ceto

legale. 256 Erano presenti quarantotto avvocati e centonove causidici tra i quali furono eletti sei deputati in rappresentanza degli

avvocati (Andrea Rizzoli, Clemente Taveggi, Gennaro Mazzei, Raffaele Tognetti, Antonio Succi, Bartolomeo

Scalfarotto) e altri sei in rappresentanza dei procuratori, (i dottori Giuseppe Galetti, Giovan Battista Dalli, Angelo

Pedrini, Giovanni Battista Vecchietti, Giovanni Venturini, Rodolfo Baroni).

81

malcontento universale e l’attuale sospensione completa del corso di giustizia contro la quale altamente si

reclama danno manifestamente a conoscere che la salute pubblica esige una pronta e straordinaria misura. Che

in vigore delle predette regie facoltà non vi ha dubbio essere in potere del governante della provincia di

sospendere l’attivazione ed esecuzione dei regolamenti giudiziari e in vigore delle stesse facoltà ha

necessariamente il potere di richiamare in osservanza i regolamenti che prima vigevano poiché nel caso

concreto a tutelare la pubblica salute ed impedire i gravi e forse inevitabili disordini che ne minacciano, non

basta sospendere l’attivazione dei regolamenti ma è mestiere richiamare in osservanza gli antichi onde con una

pronta misura provvedere alla amministrazione della giustizia di cui il popolo non può far senza e che è un

oggetto che tanto interessa la civile società. Che se si prendono a calcolo gli avvenimenti che hanno avuto luogo dal dì 30 novembre in poi in questa e nelle limitrofe provincie si vedrà chiaramente essere indispensabile

al pubblico bene l’adottare l’implorata misura.

Durante l’adunanza, nella sala adiacente a quella nella quale si stava svolgendo, si era concentrata

“una moltitudine di persone, le quali ad alta voce e con molto clamore si sono fatte a chiedere che

venga tosto risoluto sull’oggetto di che si tratta, minacciando di voler entrare per forza nella camera

stessa” ma, dopo l’intervento di alcuni avvocati, la folla si era dispersa ordinatamente. Le

risoluzioni prese furono approvate e fu stesa una notificazione che venne pubblicata per ordine del

pro-legato Grassi 257.

Lo stesso 1 dicembre il conte Ercolani sottopose al pro-legato un rapporto nel quale si ricordava

come due giorni prima fossero stati stampati e affissi per tutta la città dei manifesti che avevano

istigato il popolo a concentrarsi nella sala del palazzo pubblico detta “del quartiere dei principi”,

come appunto era avvenuto il giorno dopo. Il racconto di Ercolani ricordava quel 29 novembre

enfatizzandone la minaccia potenziale che lui e gli altri notabili avevano dovuto affrontare:

“Passammo attraverso di ben duemila persone affollate per le scale, per gli atri della parte superiore

del palazzo e giungessimo nella sala dove più di mille persone avevano potuto introdursi”. Il facente

funzione di generale della Guardia civica con fermezza aveva fatto nominare un “presidente dei

moderatori onde dare così al molto male ed al molto temibile disordine un qualche aspetto di

ordinamento”. Ercolani non mancò di spendere parecchie parole per elogiare se stesso:

Parlai fermo e costante un linguaggio per me tutto nuovo ed in incontro affatto novello ed inaspettato. Fui

ascoltato con silenzio e con rispetto ed il linguaggio dell’uomo popolare, dell’uomo di curia, dell’uomo

deputato dalla Legazione, del franco e leale suddito di Sua Santità, tutti questi linguaggi destramente parlati, mi posero in possesso, per quanto a me parve, dello spirito dell’affollata udienza e mi servirono di scudo per

coraggiosamente tentare di maneggiarlo e dirigerlo a qualche meta di bene. Preparato così l’animo

dell’udienza, quasi mi feci a fomentare le passioni dell’uditorio [...] parlai di cuore, con corrispondente

dignità, confidenza e fiducia e conseguente gravissima forza di tale argomento [...] Se non raccolsi applausi,

ottenni però, e basta nel fuoco di un coraggioso cimento, il voto di un rispettoso silenzio.

Il 3 dicembre Gamberini ed Ercolani scrissero al cardinal Bernetti aggiungendo nuovi dettagli sul

susseguirsi di fatti allarmanti che li avevano indotti a proporre al voto delle decisioni politiche

impegnative (tali erano infatti quelle appena prese ed entrambi ne percepivano chiaramente il

potenziale eversivo); in realtà cercavano di accreditare gli eventi di pochi giorni prima come

l’inevitabile sbocco di una situazione d’emergenza, sapendo bene che agli occhi del sovrano quanto

era accaduto non poteva non essere considerato lesivo della propria autorità e una manifestazione di

autonomia non accettabile da parte dei rappresentanti di una città suddita. Il Segretario di Stato non

si fece ingannare dal tono dimesso dei due nobili consiglieri governativi, né prestò fede alle loro

proteste di estraneità rispetto alla gravità dell’ iniziativa, che avevano cercato di addossare al “ceto

legale”. La risposta di Bernetti, vergata cinque giorni dopo, fu breve ma esplicita: vi si esprimeva

l’amarezza del papa, il quale aveva ordinato al Segretario di Stato di comunicare alla massima

autorità locale (il pro-legato Grassi) che considerava “nullo ed attentatorio alla sua sovrana autorità

tutto quello che vi si è risoluto in opposizione ai suoi espressi voleri. Ma non per questo [...] s’illude

257 Il verbale fu steso il 2 dicembre. ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma

dei nuovi regolamenti giudiziari promosse dal ceto legale.

82

sulla disgraziata condizione a cui per opera dei faziosi si trovano costì ridotti i suoi rappresentanti”,

motivo per cui

tanto loda l’impegno e l’accorgimento onde i medesimi hanno tentato di frastornare gli scandalosi attentati

che si deplorano, altrettanto geme vedendoli divenuti loro malgrado il passivo istrumento dei nemici

dell’ordine 258.

Il 16 dicembre il cardinal Bernetti inviò una Notificazione a stampa con la quale dava disposizione

che non restasse sospesa l’amministrazione della giustizia; nel lungo preambolo si respingevano

tutte le argomentazioni avanzate da Bologna, e in particolare dal “ceto legale”, per sospenderne la

pubblicazione, sottolineando la gravità dell’atto di ribellione con la quale la città si era attribuita il

potere di farlo.

I nuovi regolamenti giudiziari saranno in ogni tempo una perenne testimonianza della costante e decisa

volontà, dalla quale è animata la Santità di Nostro Signore, per migliorare la sorte dei popoli che la Divina

Provvidenza affidò al suo governo. Aboliti i giudici particolari, revocate le speciali Delegazioni, sottoposto il

fisco alla giurisdizione ordinaria, abbreviato il corso delle liti nel tribunale della Sacra Rota, tolto l’incomodo

del ricorso al tribunale di Segnatura per la osservanza delle appellazioni, tolta pure la giurisdizione

contenziosa all’uditore del papa, ordinati in Roma e nello stato tribunali collegiali di prima istanza e di

appello, astretti i giudici a pubblicare i motivi delle loro sentenze, ristabilito l’uso della lingua italiana e rese

in fine più semplici e più spedite le forme della procedura nei giudizi civili, sembravano estinte le querele

contro i vecchi sistemi e fatte partecipi le province dei benefizi accordati alla capitale. Questo ordinamenti

ammirati e lodati dagli esteri, furono ricevuti ed eseguiti con plauso da tutte le province. Bologna stessa, ch’è

il centro delle opposizioni, si mostrò contenta. Le nuove magistrature vi furono istallate tranquillamente e

senza reclamo. Intanto con pari sollecitudine e non minore ponderazione fu data opera alla riforma dell’amministrazione della punitiva giustizia.

Contestualmente, le decisioni prese dalla commissione governativa e dai delegati di avvocati e

procuratori venivano dichiarata nulle, concludendo che

qualora nel giorno 21 del corrente mese non siano attivati in Bologna i nuovi regolamenti, la residenza del

tribunale di appello per le quattro provincie o Legazioni sarà provisoriamente trasferita in Ferrara. Se tale

attivazione non sarà annunciata alle quattro provincie con editto del presidente di esso tribunale, il pro-legato

di Ferrara nel giorno 23 dello stesso mese nominerà provvisoriamente fra i più distinti giureconsulti di quella

città un presidente e sei giudici del nuovo tribunale di appello e li porrà immediatamente nell’esercizio delle

loro funzioni.

Il 19 dicembre fu redatto il verbale dell’adunanza che si era tenuta il giorno stesso a casa di Grassi

alla quale avevano partecipato i consiglieri della commissione governativa, il facente funzione di

generale della Guardia civica e forense, il direttore provinciale di polizia, i capi delle principali

magistrature giudiziarie della città “e taluno de’ signori avvocati e causidici della città”. In quella

sede era stato deciso che il pro-legato avrebbe immediatamente pubblicata la Notificazione della

Segreteria di Stato. Contemporaneamente sarebbe stata data alle stampe anche una notificazione

nella quale sarebbero state enunciate le conseguenze gravissime che avrebbe comportato la mancata

applicazione delle disposizioni del papa, specificando anche che Grassi non aveva emanata la

precedente notificazione del 2 dicembre perché

costretto in verun modo, ma indotto dalla sola generica imperiosità delle circostanze e ben anche dalle molte

solide ragioni che gli furono esposte dai deputati del ceto legale e dietro il consiglio e il parere unanime dei

capi delle predette magistrature giudiziarie.

Si invitavano infine i deputati del ceto legale a presentare le loro osservazioni e riflessioni sui

nuovi regolamenti, che sarebbero state inviate tempestivamente al Segretario di Stato.

258 Ivi.

83

Lo stesso giorno il pro-legato inviò una lettera al cardinal Bernetti nella quale dichiarava che

avrebbe ordinato di pubblicare le Notificazioni della Segreteria di Stato. Grassi tentava ancora di

difendere la legittimità di un atto di autonomia scaricando le conseguenze che comportava sul “ceto

legale” prospettando anche al cardinale il rischio del perdurare di una opposizione da cui, pur

attribuendone l’iniziativa ad altri, lui stesso non prendeva esplicitamente le distanze:

Ma per vero dire non so quale impressione possa produrre negli animi di questi signori legali ed anche di

questa popolazione, intimamente persuasa che i regolamenti che si vanno ad attivare siano affatto improvvidi

e pressoché ineseguibili.

Il 20 dicembre il pro-legato scrisse di nuovo al cardinal Bernetti, presentandogli un resoconto

allarmante della situazione, che a suo dire era vicina alla sollevazione di massa.

Ora io debbo manifestarle che appena si fu diffusa per la città la notizia ch’io avea divisato di far pubblicare

ed eseguire la notificazione [...] si eccitò nel ceto dei legali ed anche nel popolo, che vi è unito, la più grande

fermentazione. Si radunarono molte persone in più luoghi, si concertarono delle misure da prendersi per

impedire la pubblicazione e fino ad ora assai avanzata della notte io sono stato può dirsi assediato in mia casa

e quivi pregato ed eccitato per mille guise a non devenire alla pubblicazione [...] Io ho fatta la più tenace resistenza, ho adoperati i consigli, le insinuazioni e le preghiere, ho chiesta ed ottenuta la interposizione di

queste autorità politiche e militari, ho fatto vedere i grandi mali a cui va incontro la provincia [...] in una

parola ho posto in opera tutti i mezzi che il senno e la prudenza mi hanno saputo suggerire ma non ho potuto

ottenere di rimuovere la opposizione. Questa mattina i reclami si sono fatti più vivi e la insistenza ha preso un

carattere assai imponente. Nulla dirò delle reiterate terribili minacce [...] ma non tacerò che sul mezzogiorno

si è radunata prima nel pubblico palazzo, poscia nel non lontano locale delle scuole pie una moltitudine di

persone di ogni ceto e di ogni grado per oltre a due migliaia.

Dunque, una folla tumultuante che minacciava e gridava contro la pubblicazione della

Notificazione. Grassi addusse il diffuso timore di un incombente pericolo per l’ordine pubblico

(documentato dal generale Patuzzi e dal direttore della polizia), protestando di essersi indotto per

questo – e suo malgrado – a rimandarla, pur essendo consapevole della “enormità del nuovo

arbitrio”. Confidava tuttavia di presentare presto un progetto in cui sarebbero state proposte alcune

modifiche dei regolamenti che riteneva accettabili per tutti.

I deputati del “ceto legale” che davanti al pro-legato e alla congregazione governativa l’1 e 2

dicembre avevano promesso di presentare in tempi brevi un lavoro di revisione, già iniziato in

precedenza, l’avevano nel frattempo compiuto e il risultato finale del loro esame venne spedito con

la stessa lettera dal conte Grassi al Segretario di Stato. Il pro-legato agitava davanti al cardinale, in

caso di mancata approvazione delle proposte avanzate, il rischio dell’eversione dell’ordine pubblico

e preannunciava le proprie, inevitabili dimissioni. A sua volta il direttore della Polizia, a proposito

del malcontento generale, in un suo rapporto al pro-legato faceva notare che tra i facinorosi si

trovavano anche

molti individui che fan parte di questa Guardia civica in qualità di ufficiali. Vedrà pur troppo quanto sia

terribile una divisione nella forza stessa per cui venendo a contrapposizione ne sorgerebbe una guerra civile,

flagello fra i terribili terribilissimo. Che i germi di questa opposizione esistano ne può far fede alla Eccellenza

Vostra la supplica a lei presentata coperta d’un imponente numero di firme tendente a togliere la deliberata

pubblicazione del succitato editto.

Lo stesso 20 dicembre Grassi inviò una lettera ai pro-legati di Ravenna e di Forlì ai quali chiedeva

il loro parere sulla sospensione dell’editto 259. Nel Progetto esibito dai signori curiali al signor

conte pro-legato la sera 20 dicembre 1831 e da questo rimesso in copia ai due pro-legati di

Ravenna e di Forlì si leggeva che scrivere ai due colleghi era l’unico mezzo per provvedere alla

tranquillità delle province concertando insieme l’attuazione di un buon ordinamento giudiziario. Per

259 Ivi.

84

questo proponeva di convocare tutti gli avvocati e curiali a Bologna, e contemporaneamente nei due

capoluoghi romagnoli, affinché nominassero sei deputati per ciascuna provincia. I prescelti

avrebbero dovuto incontrarsi tutti a Imola col mandato di formare insieme uno schema di

organizzazione dei tribunali per le tre provincie sulla base delle leggi giudiziarie di Pio VII, del

regolamento di Leone XII e del cardinale Carlo Opizzoni 260. I pro-legati avrebbero poi spedito il

regolamento a Roma. Grassi aveva scelto di convocare l’assemblea a Imola per non dar adito al

sospetto che le province di Romagna potessero essere influenzate dall’esempio di Bologna e perché

fosse chiaro che l’operazione era fatta di comune consenso. Infine i pro-legati avrebbero dovuto

implorare la Segreteria di Stato affinché concedesse la sospensione dell’attivazione delle procedure

criminali fino alla pubblicazione del codice penale 261.

Il 21 dicembre il pro-legato di Forlì Paolucci de’Calboli rispose solo che aveva invitato il ceto dei

curiali a presentare le proposte da presentare in forma di supplica al papa. Da Ravenna invece il 22

dicembre il pro-legato Arrigoni colse apertamente l’invito di un congresso di uomini di legge a

Imola ordinando subito che venissero scelti due rappresentanti rispettivamente per Ravenna,

Faenza, Imola e la Romagnola 262, in modo che si potessero recare a Imola non appena ricevuto

l’avviso. Il 26 dicembre Grassi si rivolse al professor avvocato Gaetano Venturoli e al dottor

Giovanni Battista Ferratino affinché nominassero rispettivamente i delegati degli avvocati e dei

procuratori bolognesi. Intanto il 24 dicembre il cardinal Bernetti aveva risposto al pro-legato di

Bologna:

Accuso i dispacci di Vostra Signoria Illustrissima. Sarebbe superflua qualunque mia osservazione sul

contegno che si è usato costì dopo che vi pervennero gli esemplari della mia notificazione dei 15 corrente. La

cosa parla chiaro da per se stessa né vi è bisogno di comunicati per dimostrare quanto vi ha di attentatorio al

sovrano potere. I fogli di codesta curia relativi ai nuovi regolamenti giudiciari che ella mi ha rimessi le

vengono respinti qui acchiusi, non essendo stati essi inviati pel canale regolare di alcun presidente di

tribunale come si esige perché possano da me legalmente riceversi 263.

3c. Contro i“vizi” e i “difetti” dei regolamenti giudiziari. I rappresentanti designati dal “ceto

legale” non avevano perso tempo e in pochi giorni avevano redatto il Rapporto della curia

Bolognese intorno ai principali vizi e difetti dei nuovi regolamenti civili e criminali. Per quanto

riguardava il “piano organico” dei regolamenti di procedura civile si osservava che il legato

Opizzoni nella sua notificazione del 30 marzo 1831 aveva dato

savissime disposizioni per le quali tutte le cause rimanevano nelle Legazioni, segnatamente perché in Bologna

sedevano i tribunali di revisione o terza istanza e di segnatura. I nuovi regolamenti ci tolgono quegli importanti

benefici e persino quei più ristretti che ne aveva concesso Leone XII col motu proprio dei 21 dicembre 1827

ristabilendo in oggi a Roma la revisione e la segnatura e quindi chiamando colà [...] tutti i reclami (nel caso di

260 Il 22 marzo l’arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Opizzoni, assunse anche le funzioni di legato a latere. ASB,

Legazione apostolica, Atti riservati, b. 133. Il 9 aprile il Segretario di Stato Bernetti dopo aver letto la notificazione

sulla organizzazione provvisoria che Bernetti aveva dato ai tribunali delle Legazioni gli aveva scritto: “Veggo che forse

la lodevole intenzione di combinare quanto era costì ne’ pubblici voti colla economia reclamata imperiosamente dalle

circostanze non le ha permesso di dare alla cosa tutto quello sviluppo che sarebbe stato nelle di lei vedute. Qui

attendiamo, come le dissi, senza soverchiamente affrettarlo, l’arrivo di tutte le deputazioni delle singole provincie per

poi comunicare le proposte del papa per l’organizzazione generale di tutto lo stato anche del ramo giudiziario. Sarà

allora che si potrà rendere stabile per costì quanto ora non è che temporaneo dopo d’avervi apposte quelle leggiere

modificazioni che l’uniformità cotanto necessaria nella giudicatura di uno stato sarà per reclamare. Intanto non deggio tacerle che in quanti parteggiano per la curia di Roma la impressione destata dalla lettura di ciò che costì si è operato in

tal proposito non è stata favorevolissima”. 261 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari

promosse dal ceto legale. 262 Con Romagnola ci si riferiva a quella parte del territorio della Romagna che in antico regime era stata inserita nella

Legazione di Ferrara (dopo essere stata sottoposta al dominio estense quando Ferrara era capitale del ducato) e che

aveva come capoluogo Lugo. 263 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari

promosse dal ceto legale.

85

giudicati difformi) in grado di revisione o terza istanza nelle moltissime cause dagli scudi 200 agli scudi 300, le

quali in addietro erano portate alla cognizione dei governatori ed assessori ed oggi lo sarebbero a quelle dei

tribunali collegiali e, nel terzo grado suddetto, nelle moltissime cause di valore indeterminato d’interesse dei

comuni, di purgazione, cancellamento, riduzione o restrizione di vincoli ed ipoteche, di azioni ipotecarie, di

graduatoria o di concorso universale o particolare e di rendimento di conti senza riguardo in nessuno dei

predetti casi alla somma od al valore.

Si ricordava poi che nei capoluoghi di Legazione i tribunali civili erano costituiti da sei giudici

divisi in due turni di tre. Nei capoluoghi di Delegazione operavano tre giudici ai quali, secondo il

Regolamento di procedura civile, era affidata anche la decisione delle cause criminali, il che

avrebbe sicuramente sortito effetti negativi perché

Purtroppo è da tenersi per fermo che una siffatta promiscuità congiunta allo scarso numero dei giudici ed alla

molteplicità delle cause, specialmente in Bologna ridondi in detrimento o della retta o della celere

amministrazione della giustizia.

Nel Regolamento si stabiliva inoltre che “le funzioni di giudice supplente sono compatibili con

quelle di procuratore ed avvocato. Potranno (i giudici supplenti) intervenire alle adunanze dei

tribunali civili o di appello a cui sono addetti ma non avranno che il voto consultivo”. Si apriva cos ì

la via all’avvocato supplente o al procuratore

di esercitare col suo intervento alle adunanze e colle sue parole una pericolosa influenza intorno alle cause proprie o di qualche suo attinente e massimamente intorno non alle pendenti ma alle future. E’ quindi

un’assurdità il rendere conciliabile colla carica di [giudice] supplente l’esercizio dell’avvocatura e del

patrocinio.

Soprattutto, le disposizioni gregoriane avevano reso il ricorso in giudizio più dispendioso di quanto

lo fosse in precedenza, perché davano luogo alla moltiplicazione degli atti, parecchi dei quali in

passato non erano previsti, e anche perché aumentavano le tasse, gli emolumenti, le mercedi e gli

onorari.

Quanto al Regolamento di procedura criminale, la sua portata innovatrice, nonché i suoi intenti

equitativi, erano difficilmente valutabili in mancanza di quel codice penale che si aspettava dal

1816: le province continuavano ad adeguarsi ai propri bandi generali – quello di Bologna, il bando

Serbelloni, come abbiamo visto, risaliva al 1756 – ormai inadeguati alle finalità dei governi di

disporre di criteri univoci per valutare la gravità dei reati ed emettere le sentenze in rapporto ad essi.

Per questo i bandi erano strumenti obsoleti, “in cui malamente furono classificati i delitti e peggio

statuite le pene, tutti convenendo in questo, di lasciare libero campo all’arbitrio dei giudicanti”. In

definitiva, era impossibile, fino a che non ci fosse stato un codice, realizzare una riforma delle

procedure. Nell’ottica della trasparenza degli atti, inoltre, venne rilevato che mancava nel

Regolamento ogni minimo requisito di pubblicità dei procedimenti, mantenendosi in essere il

processo segreto ed inquisitorio, a differenza di quello che era attuato ormai “presso le più colte

nazioni, come venne praticato sotto il regno d’Italia e quale pur oggi è comandato negli stati di

Napoli e di Parma”. Per non parlare del fatto che, fino a quel momento, competeva spiccare mandati

di cattura solo al capo del tribunale, mentre col nuovo editto anche un processante avrebbe potuto

far carcerare in segreta l’imputato senza notificargli un’accusa specifica e tenerlo rinchiuso fino alla

contestazione del reato e alla pubblicazione del processo. Anche in questo caso venivano evocate

con rimpianto le procedure seguite durante la dominazione francese, ma questa volta più per una

esplicita adesione ai modelli di governo attuati da quel regime, accreditato come giusto e umano,

che per una reale comparazione tra due diversi sistemi giudiziari.

Sotto il cessato Regno d’Italia appellaronsi mandati di comparsa, di accompagnamento e di deposito nei quali era assicurata la necessaria custodia degl’imputati a fine di scuoprire il vero ma col maggior possibile rispetto

alla libertà, all’onore ed alla dignità dell’uomo.

86

Peraltro, tutto il Rapporto è da leggersi come una richiesta di continuità con le istituzioni giudiziarie

del Regno, e in questa chiave anche le innovazioni dell’editto gregoriano, come la garanzia di

ripetizione – il confronto dei testimoni e il loro controinterrogatorio per parte della difesa – che, si

ricordava, era già stata concessa nel 1816 per le cause passibili di pena capitale, non sembravano

sufficienti. Infatti nel nuovo editto questo beneficio,

lungi di essere sicuro, si manifesta in più luoghi arbitrario e nelle cause capitali riescirebbe minore di quello

che oggi possano gl’imputati invocare [...] non essendo ingiunto dal capo del tribunale al procuratore fiscale di esibire la nota dei testimoni da ripetersi, siccome prescriveva la legge del Regno italiano, [quindi] potrebbe

questi dare soltanto que’ testimoni ch’ei credesse necessari e per l’opposto non sarebbe lasciata eguale facoltà

all’imputato ma dovrebbe dipendere dalla discrezione e dal permesso del capo del tribunale.

Si sarebbe dovuto invece fare riferimento alla “prudente e giusta disposizione della cessata

procedura del Regno d’Italia” per la quale, dopo che erano stati contestati all’imputato le risultanze

delle prove processuali, si assegnava a lui un termine per produrre le eccezioni formali e convocare

nuovi testimoni a difesa. Si riteneva infatti inadeguata come garanzia quanto disponeva l’art. 395

dell’editto perché sarebbe stato arbitrio del capo del tribunale consentire i controinterrogatori a

favore dell’imputato. Gli estensori del rapporto non potevano non ammettere che nel Regno d’Italia

la sicurezza dell’appello non esisteva nella procedura per le cause criminali più gravi, ma

ricordavano che

erano in quel sistema di leggi le seguenti guarentigie: 1° il processo era veramente pubblico; 2° la sentenza si

proferiva dopo un pubblico dibattimento per quale meglio riescivano assicurati e la rettitudine del giudicato e

la fede dei testimoni e la responsabilità dell’accusatore ed erano tutti garantiti gli utili effetti che la giustizia e

la verità solennemente proclamate sogliono operare nella pubblica opinione. E solo si eccettuavano le cause che avrebbero potuto offendere la pubblica decenza; 3°, la inappellabile sentenza era il risultamento di due

giudizi, uno sull’ammissione dell’accusa, pronunciato da quattro magistrati, l’altro sulla condanna, firmato da

otto giudici.

L’editto gregoriano, pur preferibile in alcune parti al vecchio sistema, nelle più importanti fasi

della procedura e nelle modalità e conseguenze dei giudizi era notevolmente peggiorativo:

Conferisce ai capi dei tribunali l’autorità politica d’intimare i precetti, quante volte avvisino esservi possibilità

di gravi disordini, senza limiti e senza norme e l’attribuisce ancora ai tribunali collegiali [...] con diritto di

apporre comminatorie che stiano nei limiti stabiliti dalle leggi penali pei delitti che hanno in vista d’impedire:

autorità che deve essere propria dei capi politici oltre la quale sarebbe agli stessi tribunali riserbato di giudicare

sulla validità e sulle trasgressioni de’ loro medesimi precetti.

Per i delitti di lesa maestà, cospirazione, sedizione ed altri attentati alla pubblica sicurezza l’editto

confermava la giurisdizione della Sacra Consulta o di qualsiasi altro tribunale designato dalla

Consulta stessa la quale operava per via sommaria con giudici nominati ad hoc, “variando le norme

di procedura secondo le facoltà che nelle rispettive circostanze può occorrere impetrare”. Tolta la

libera scelta del difensore agli imputati, cinque giorni dopo la comunicazione del processo e senza

nessuna dilazione – come di regola avveniva nella procedura del soppresso tribunale del Torrone di

Bologna fino al 1796, quando il tempo stabilito di tre giorni poteva dilatarsi ad arbitrio dell’uditore

fino a un mese o anche due – si sarebbe giudicato inappellabilmente su chiunque fosse stato tradotto

in carcere nella capitale. Ne conseguiva la mancanza del tempo necessario per raccogliere prove a

discarico nelle province e per ascoltare l’intervento di un patrocinatore dell’inquisito prima di

emettere la sentenza. Questo sistema veniva quindi a configurarsi come decisamente peggiorativo

anche rispetto a quello vigente, molto più garantista, con due sedi di giurisdizione, una procedura

ordinaria nelle rispettive provincie e termini adeguati per la difesa e scelta del difensore.

Le tasse, poi, vennero definite “insostenibili”: un altro argomento a favore dell’inapplicabilità

dell’editto, tanto da indurre gli stessi curiali, per protesta, a sospendere la loro attività “ed il popolo,

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già [da] dodici giorni, fa [a] meno di quel ministero anziché metter mano alla esecuzione dei nuovi

regolamenti”. L’invocazione finale sollecitava il pro-legato a

fare uso, nella suprema urgenza, di un potere straordinario. Ma giusto; per la ragione che siffatto potere va

usato con discretezza viene l’eccellenza vostra supplicata di sospendere prorogando [l’ordinamento

precedente] perché modificare la nuova legge od emanarne un’altra, misura egualmente possibile, sarebbe nel primo caso por mano nell’opera del legislatore e nel secondo un costituirsi legislatore: domande non

necessarie, dalle quali la curia bolognese reputò bene d’astenersi [...]. Sta ora a voi decidere se all’Eccellenza

Vostra con buon diritto [il ceto legale] ricorse e se gli ultimi regolamenti sono eseguibili e se rispondono alle

sagge intenzioni del regnante pontefice. Per le quali se noi, in ossequio del vero, non possiamo tacere dall’un

canto che le nuove leggi hanno riparato con poche riforme a taluno dei mali preesistenti, ci è forza dall’altro

il dichiarare che l’opera trae seco altri mali che non esistevano prima, di talché essa è ben lontana dal

corrispondere ai bisogni dei tempi, alle concette speranze ed alle fatte promesse.

Il nuovo regolamento di procedura criminale aveva dunque aperto la strada a un tentativo di

affermare un margine non piccolo di autonomia, capeggiato dal “ceto legale” e seguito con

titubanza dai rappresentanti titolati del governo, il pro–legato e i membri della congregazione

governativa i quali, da un lato, spingevano gli avvocati a procedere nella resistenza a Roma e

promuovevano un congresso di rappresentanti (sempre del “ceto legale”) che allargasse la protesta

alle province vicine, e dall’altro cercavano di stornare dalle loro teste la prevedibile, fermissima

reazione del cardinal Bernetti. Il Segretario di Stato ignorò infatti totalmente le richieste che i pro-

legati gli avevano indirizzato: per tutta risposta, ribadendo la scadenza ultimativa dell’1 gennaio

1832 per la piena applicazione del regolamento, inviò loro una circolare, datata 27 dicembre, che

sosteneva l’opportunità di riunire il prima possibile le congregazioni criminali per la emanazione

delle sentenze dei processi sospesi e ingiungeva di osservare l’art. 22 che vietava “l’intervento di

persone estranee alla discussione personale delle rispettive cause”. Ricordava inoltre che l’art. 397,

relativo alla facoltà concessa al difensore di chiamare altri testimoni, disponeva che fosse il

presidente del tribunale a decidere quando il parere del fiscale non fosse concorde con quello del

difensore, precisando che tale articolo “ha caricato il suo onore e la sua coscienza di tutta la

responsabilità”, vale a dire che le fasi più delicate del procedimento erano affidate all’arbitrium del

presidente, con le stesse modalità con le quali in passato l’uditore del Torrone aveva agito come

giudice monocratico.

Il braccio di ferro continuò e il 2 gennaio 1832, presumibilmente subito dopo l’arrivo della

circolare, il conte Grassi rispondeva ancora con pretesti d’accatto e con falso ossequio di non aver

potuto ancora dare applicazione al Regolamento. Per le note vicende

non si è potuto nella provincia bolognese mettere in esercizio il nuovo tribunale di prima istanza civile e

criminale in cui andavansi a concentrare tutte le attribuzioni della pretura criminale talché cessando ogni

funzione di questa e non essendo quello in esercizio manca affatto ogni amministrazione di giustizia punitiva.

Siccome però questa mancanza sarebbe del massimo pregiudizio all’intera società nostra e vi potrebbe

apportare i maggiori disordini e d’altra parte continua tuttavia l’opposizione al nuovo sistema giudiziario nel

più alto suo grado, a segno che il ritentare di distornarla riprodurrebbe senza dubbio i più gravi sconcerti, così

nel duro frangente ho divisato di riscontrare il predetto signor pretore essere mia opinione che per ciò che

riguarda il metodo di procedura possa egli e il suo tribunale proseguire a condursi come per lo addietro,

soprattutto in pendenza delle risoluzioni del superiore governo ch’io andava ad impetrare, siccome faccio colla presente [...] Io mi sono tenuto lontano dall’impartire in proposito veruna determinazione e mi sono

limitato ad esternare una mia opinativa. La subordino all’Eminenza Vostra Reverendissima supplicandola

vivamente a degnarsi di significarmi se io vada errato nel mio avviso e ad essermi cortese colla maggiore

possibile sollecitudine delle analoghe sue istruzioni.

Il pro-legato manifestò poi tutto il suo rincrescimento per aver dovuto aspettare fino a quel

momento a informare Roma della situazione

nella speranza in cui era di giorno in giorno di potere attivare in qualche guisa i nuovi regolamenti ma

posciacché questo ceto legale ch’io avrei creduto inclinevole a desistere dalla opposizione vi persiste tuttavia

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tenacemente e a lui tien dietro una gran parte del popolo, così mi accorgo che almeno per ora non può aver

luogo l’attivazione del regolamento suddetto se non vuolsi andare incontro a nuovi movimenti popolari e nuove

perturbazioni e inevitabilmente ai più funesti disastri.264

Intanto, il 30 dicembre 1831, ricevuta la lettera speditagli quattro giorni prima da Grassi, il

cardinal Bernetti gli aveva risposto comunicando che Sua Santità “disapprova[va] altamente la

unione federale di codeste provincie, il congresso generale che vuol formarsi e la maniera illegale di

eleggerne i deputati” e che “qualsivoglia determinazione di un tal congresso sarà riguardata come

nulla e che non sarà ricevuta alcuna deputazione che in seguito del congresso medesimo potesse

esserle inviata”. Disapprovava inoltre la riunione che si era tenuta a Imola il 25 dicembre “e

riguarda[va] come sommamente oltraggioso quanto si legge nella lettera di Vostra Signoria

Illustrissima circa la necessità d’impetrare istituzioni, leggi e riforme quasi che la Santità Sua nulla

avesse fatto finora per codeste provincie” 265.

Il pavido pro-legato dovette prendere atto di queste parole inequivocabili il 2 gennaio 1832,

tramite un dispaccio che gli era stato fatto pervenire da Pesaro con urgenza dal cardinale Giuseppe

Albani – “onde non si ripetano così nuovi atti che la Santità Sua altamente disapprova” – ma si

concesse un giorno intero prima di rispondergli nel suo stile, cioè parandosi come sempre dietro al

“ceto legale”, addossando su di esso la responsabilità dell’insubordinazione al sovrano, dopo aver

aizzati i suoi membri più in vista affinché la fomentassero, e agitando ancora davanti a Bernetti lo

spauracchio della rivolta imminente per giustificarsi di non aver fatto ricorso alle maniere forti per

impedire iniziative sovversive; infine, a proposito degli ultimi eventi, faceva anche intendere che

l’iniziativa del congresso di Imola era stata semmai del pro-legato di Ravenna. Dopo aver assicurato

di aver rese note le disposizioni del papa e di aver sospeso ogni iniziativa, aggiungeva infatti:

Non debbo però omettere di manifestare all’Eminenza Vostra Reverendissima come e per opera di chi abbia

avuto origine la riunione anzidetta delli 25 dicembre e per qual guisa io sia stato condotto ad assentire alle

determinazioni che in quel congresso furono prese.

Secondo la sua versione, mentre le adunanze di popolo “tenevano sconvolta questa città”, si era

presentato un certo avvocato Franceschelli Carozza di Castel Bolognese mandato dal conte Carlo

Arrigoni, pro-legato di Ravenna, per avvertirlo che il giorno dopo si sarebbe recato da lui con un

consigliere governativo, il gonfaloniere e i capi delle guardie per concertare le misure per placare la

popolazione delle provincie. Su consiglio di Franceschelli Carozza, Grassi aveva allora invitato

anche il pro-legato di Forlì. Il 24 dicembre erano giunti l’avvocato Pani e il conte Albicini,

consiglieri governativi di Forlì – al posto del pro-legato marchese Paolucci de’ Calboli infermo –

insieme con le autorità civili e militari, e Carlo Arrigoni con il suo seguito.

Coll’intervento di tutte le persone preindicate si tenne nel dì 25 la nota radunanza nella quale tostoché mi

accorsi che si proponeva di eleggere un consiglio di deputati in modi diversi da quelli prescritti nell’editto 5

luglio non mancai di far sentire che il superiore governo aveva già preventivamente manifestata in proposito

la sua disapprovazione. Credette l’intera adunanza di non dover prendere a calcolo questo mio riflesso attesa

unicamente l’urgenza delle circostanze e dopo breve discussione fu proposta la prima delle proposizioni che

si legge nel verbale sopra indicato la quale messa a voti segreti passò con pieno partito. Alla prima venne

dietro la seconda, indi la terza le quali passarono per acclamazione [...] Per tutte queste cose potrà l’Eminenza Vostra Reverendissima convincersi che noi fummo, per così dire, attratti e ben anche sedotti dalle più

speciose e lusinghiere apparenze, confortati d’altronde dalla speranza di potere preparare una via ad una

conciliazione e al ristabilimento dell’ordine e della pubblica tranquillità.

ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 135, Posizione relativa alla riforma dei nuovi regolamenti giudiziari

promosse dal ceto legale. 265 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 136.

89

I bolognesi, dunque, secondo Grassi, avevano subìto un’iniziativa della quale inizialmente non

avevano capito la portata. Il pro-legato assicurò comunque di aver disposto subito dopo la

sospensione del consiglio dei deputati che doveva avere luogo lo stesso 3 gennaio.

Le persone destinate dalle Guardie civiche e foresi ad eleggere i predetti deputati, alcune delle quali

dimorano abitualmente in questa città, altre vi sono giunte fino da ieri, menano molto rumore ed insistono

perché si proceda alla elezione. Io procurerò di calmarle e d’indurle per la via della persuasione e quando

occorra anche delle preghiere alla rassegnazione e all’obbedienza [...] interessando la mediazione di queste

autorità politiche e militari e delle persone più probe, più illuminate e prudenti, ma siccome io dubito

purtroppo che questi mezzi non valgano e d’altronde io sono privo d’ogni altro mezzo mondano, così voglio

interamente affidarmi alla Divina Provvidenza che non manca giammai a chi umilmente la implora 266.

Il giorno prima, 2 gennaio, Grassi aveva scritto ai pro-legati di Ravenna e Forlì, informandoli del

dispaccio della Segreteria di Stato, che gli era pervenuto non con il postale ordinario ma con un

corriere inviatogli da Ancona dal cardinale Giuseppe Albani, pregando ciascuno di loro, “a

significarmi per eguale mezzo straordinario com’ella intenda di condursi e quali disposizioni creda

di dovere impartire dopo una sì formale disapprovazione data dal governo al nostro operato”. Lo

stesso giorno il pro-legato di Forlì, il marchese Paolucci de’Calboli, di tempra non molto diversa da

quella del conte Grassi, si limitò a fargli sapere di aver avvertito i deputati della sua Delegazione

che il congresso era sospeso e che, per quanto lo riguardava, aspettava ulteriori disposizioni da

Grassi stesso. Anche la risposta inviata il 3 gennaio da Ravenna da Carlo Arrigoni si sottraeva

all’onere e alla responsabilità di come rispondere alle ingiunzioni del papa, limitandosi a

sottolineare quanto il movimento di protesta fosse radicato nel “ceto legale” 267.

Il cardinale Albani, legato apostolico di Urbino e Pesaro, aveva avuto l’incarico di ricondurre

all’ordine le provincie del nord con speciali facoltà conferitegli dal sovrano e il 7 gennaio Grassi gli

scrisse chiedendogli di ricevere “persone che a nome di questi sudditi della Santa Sede implorino da

Vostra Eminenza Reverendissima quei favori e quelle grazie ch’ella ci potrà compartire”. La lettera,

estremamente cauta e stringata, fu spedita in copia ai pro-legati di Ravenna e Forlì. Albani rispose

al pro-legato di Bologna che le quattro provincie richiedevano una “cura particolare” e che

non sarebbe impossibile che [il papa] comandasse ancor a me di occuparmene dipendentemente dai sovrani

suoi ordini. Se ciò accadesse io non potrei che rendermene fedele ed esatto esecutore [...] Parlando della

grande opera della conciliazione che Vostra Signoria Illustrissima desidera di veder presto e felicemente

compita io non so vedere come questa possa mancare poiché il Santo Padre non intende che di ristabilire i

diritti e l’esercizio della sua sovranità come ha goduto in passato, onde se Bologna conoscerà i suoi doveri e

si presterà ad ubbidirlo la conciliazione nascerà da se stessa e tutto ritornerà nell’ordine e nella primiera tranquillità.268

Il marchese Paolucci de’ Calboli il 13 gennaio informò il conte Grassi di aver mandato il cavaliere

conte Pietro Guerrini, il conte Pellegrino Canestri e l’avvocato Cosimo Sostegni dal cardinale

Albani che li aveva ricevuti “con umanità singolare” dicendo loro di non avere ancora ordine di far

avanzare le truppe ma che gli poteva arrivare da un momento all’altro e che

per le suppliche loro, si fa a chiedere al Santo Padre la sospensione del medesimo fino a che per mezzo dei

consigli provinciali già presso a formarsi sieno fatte le domande dei miglioramenti desiderati, che quand’anche

dovessero venire avanti sarebbero precedute da un’amnistia generale, mentre egli conserverebbe il suo animo al

bene suddetto.

Tuttavia, una ritorsione minacciata, la soppressione del tribunale d’appello di Bologna se l’1

gennaio non fosse stato applicato il nuovo regolamento, era già stata messa in atto e il 3 gennaio il

pro-legato di Ferrara aveva chiesto al tribunale d’appello di Bologna l’invio di due processi, perché

266 Ivi. 267 Ivi. 268 Ivi.

90

entrambe le cause fossero giudicate “dal tribunale di appello trasferito in questa città”. Grassi aveva

temporeggiato, decidendosi a rispondere solo il 14 gennaio dicendo di aver aspettato perché sperava

che si potessero applicare i nuovi regolamenti giudiziari, attivando i tribunali da essi istituiti, e che

la sede del tribunale d’appello tornasse a Bologna. “Per la prima parte ho già conseguito l’intento e

ne può far fede la mia notificazione già pubblicata di cui le accludo alcuni esemplari. Per la seconda

dura tuttavia la speranza che anzi mi si fa sentire più forte e più viva”. Giustificandosi così, rimandò

ancora la richiesta spedizione dei processi in attesa delle superiori decisioni. Il 15 gennaio Grassi

dette mandato al conservatore facente funzioni di senatore, avvocato Giuseppe Giacomelli, per

costituire con i gonfalonieri dei principali comuni della Romagna una deputazione da inviare al

cardinale Albani 269.

Un comunicato a stampa, datato 14 gennaio 1832 e diffuso dal Segretario di Stato Bernetti, rese

noti gli accordi presi per le Legazioni dai rappresentanti delle potenze accreditate presso la Santa

Sede. Quattro giorni dopo Grassi faceva sapere a Bernetti di averlo ricevuto e di essere stato

informato dal cardinal Albani lo stesso 14 gennaio che il legato di Pesaro e Urbino era stato

nominato commissario straordinario delle quattro Legazioni. Albani da Pesaro comunicò subito a

Grassi che in virtù del proclama stesso le truppe pontificie sarebbero avanzate al più presto in

Romagna per ristabilire l’ordine e l’autorità sovrana “e perciò con mire ed istruzioni del tutto

pacifiche [...] rivolte unicamente al bene e alla vera felicità degli amati sudditi e figli” 270. Camillo

Grassi replicò augurandosi che ognuno adempiesse ai propri doveri di suddito leale ed obbediente

assecondando “le pacifiche e benefiche intenzioni dell’augusto nostro sovrano” 271.

La marcia delle truppe di Albani tanto pacifica non fu e il commissario straordinario scrisse al

pro-legato di Bologna che si era sparsa la voce che

dopo i fatti avvenuti nella marcia delle truppe pontificie da Rimini fino a Forlì siavi l’intenzione di procedere

con maggior severità negli altri luoghi che verranno occupati; [perciò] ho creduto espediente d’illuminare il pubblico su tale idea lontana dal vero colla notificazione che ho fatto stampare qui a Forlì,

che inviava a Grassi perché fosse affissa per la città. La notificazione, che insisteva sulla clemenza

del cardinale e sulla disciplina delle truppe, concludeva invitando ogni abitante delle quattro

Legazioni a deporre

qualunque timore e qualunque dubio sulla futura condotta nostra e delle truppe pontificie, perché essa sarà

quale è stata annunziata e tutte le persone savie e dabbene dovranno rallegrarsi nel vedersi dalle paterne ed

amorose cure del Santo Padre restituite alla pristina loro sicurezza e tranquillità 272.

A Bologna lo spiegamento di forze rese la repressione del movimento rapida e incruenta, almeno

secondo il resoconto fatto da Grassi al cardinal Bernetti. All’alba di sabato 28 gennaio truppe

tedesche e pontificie provenienti dalla Romagna si erano accampate fuori dalle mura di Bologna e

altre truppe tedesche provenienti da Modena si erano schierate fuori porta S. Felice. Nelle prime ore

del mattino fu pubblicata una notificazione di Albani “che assegnava ai cittadini il termine

perentorio di due ore per consegnare tutte le armi al comando di piazza che nella notte precedente

era stato assunto dal comandante austriaco, generale Haiman”. Verso mezzogiorno Haiman si recò

al palazzo pubblico per verificare se il disarmo dei cittadini procedeva e dove si trovavano i cannoni

della Guardia civica bolognese e di Romagna, che erano quattro e che vennero messi sotto chiave.

La custodia dei cannoni, della polveriera e del deposito delle munizioni fu affidata al pro-legato.

269 Persisteva infatti da parte dei membri del vecchio patriziato la protesta per la soppressione del Senato e il rifiuto a

ricoprire quell’unico posto senza reali competenze e prestigio che era stato conservato come vestigia del passato; nella

sua vacanza l’avvocato Giacomelli fungeva da supplente, senza peraltro che fosse meno evidente la posizione polemica

delle ex famiglie senatorie . 270 ASB, Legazione apostolica, Atti riservati, b. 136, lettera del 15 gennaio 1832. 271 Ivi, lettera del 18 gennaio 1832. 272 Ivi, lettera del 25 gennaio 1832.

91

Dopo mezzogiorno, le truppe tedesche e pontificie provenienti dalla Romagna entrarono in città al

comando del barone generale Kraboski. L’ingresso avvenne pacificamente e da allora la città rimase

tranquilla. Il cardinale Albani era entrato a Bologna lo stesso 28 gennaio, poco dopo le 3 del

pomeriggio, e Grassi lo aveva ricevuto con il consigliere governativo anziano Magistrini,

andandogli incontro a nove miglia dalla città. Dopo che l’ordine fu ristabilito, il pro-legato disse di

voler dedicarsi alla formazione dei consigli comunali conformandosi a quanto prevedeva l’editto del

5 luglio 1831 273.

Il 31 gennaio il Segretario di Stato Bernetti aveva inviato a Camillo Grassi le congratulazioni per

la pace ristabilita dicendo di essere sicuro che Albani l’avrebbe consolidata, “onde non abbiano più

a riprodursi costì le scene di disordine e di ribellione”, cosa che il commissario straordinario non

mancò di fare, ordinando al pro-legato di pubblicare immediatamente tutte le leggi e tutti gli editti

di cui fosse stata omessa la pubblicazione nei mesi precedenti 274. Grassi gli rispose di aver fatto già

pubblicare l’editto del 5 luglio 1831 e un’aggiunta al § 76 del Regolamento del 15 novembre 1831

che trattava la disciplina dei tribunali e le tasse giudiziarie, e gli sottopose la supplica di riportare a

Bologna il tribunale d’appello.

Trasferita d’ordine superiore in Ferrara la residenza del tribunale di appello, fu sollecito quel monsignor pro-

legato di venire alla nomina dei giudici e di mettere colà in esercizio il tribunale medesimo [...] Vostra

Eminenza Reverendissima può ben figurarsi che in quei difficili momenti trovai affatto improvvida la

ricercata pubblicazione né ho creduto di doverla far seguire oggi, nella più viva speranza nutrita dall’intera

popolazione che l’Eminenza Vostra Reverendissima o prevalendosi delle amplissime facoltà accordatele dal

Santo Padre o interponendo presso la Santità Sua i valevolissimi di lei offici vorrà procurarci la consolazione

e la grazia di veder tornato in questa città il predetto tribunale che reca tanto lustro e splendore ed una sì

notabile utilità 275.

273 Ivi, lettera dell’1 febbraio 1832 274 Ivi, lettera del 4 febbraio 1832. 275 Ivi, lettera dell’8 febbraio 1832.

92

Conclusioni

Questo saggio costituisce la sintesi – e la continuazione – di uno studio sulla giustizia criminale a

Bologna durante il dominio pontificio, al quale abbiamo lavorato per diversi anni con l’intento di

ricostruire non solo il quadro legislativo e l’impianto organizzativo del sistema giudiziario, ma

anche il suo concreto funzionamento.

E’ evidente che la scelta di limitare l’indagine a una sola città sia pure importante come

Bologna se è pienamente plausibile per la prima parte dell’arco cronologico da noi preso in esame

i secoli XVII e XVIII quando il Tribunale del Torrone operò in sostanziale autonomia, lo è meno

per il periodo successivo, durante il quale i tribunali del capoluogo e quelli decentrati nel suo

territorio operarono all’interno, e in forma coordinata, con un sistema giudiziario “nazionale” e

relativamente centralizzato. Tuttavia, privilegiare la continuità del riferimento a un quadro

territoriale sostanzialmente omogeneo e relativamente limitato – la Legazione di Bologna nel primo

periodo, il Dipartimento del Reno e nuovamente la Legazione nel secondo – ci ha consentito,

almeno lo speriamo, da una parte di evidenziare più chiaramente le tendenze di lungo periodo,

dall’altra di dominare meglio l’imponente materiale documentario disponibile, consentendo una

analisi più ravvicinata dell’oggetto della ricerca.

Ebbene, proprio in una prospettiva di lungo periodo, ci sembra di poter dire che il dato più

significativo che emerge dalla nostra indagine è che il processo breve è evidente e voluto il

riferimento a uno dei temi più caldi di questi nostri tempi difficili e amari almeno a Bologna, finì

con l’arrivo dei francesi, e che quello lungo, che ci è purtroppo familiare, iniziò, come abbiamo

visto, nei primi anni della Restaurazione. Non abbiamo infatti detto lo facciamo ora in sede di

conclusioni – che i processi del Torrone duravano sempre troppo secondo gli imputati in carcere e i

senatori bolognesi, ma molto poco rispetto agli standard odierni. Dallo spoglio di oltre 4000

processi celebrati durante la seconda metà del XVII e la prima del XVIII secolo, emerge infatti che

la stragrande maggioranza di essi durò da un minimo di cinque o sei giorni ad un massimo di

quattro o cinque mesi, anche nel caso di reati gravi e di condanne pesanti, alla galera o alla forca.

Una capacità di fare giustizia rapidamente che avrebbe reso felici il revisore Quattrorecchi e i suoi

superiori.

Come abbiamo visto governatori e presidenti di Tribunale del periodo della Restaurazione

giustificavano l’allungamento dei tempi processuali e l’accumulo di arretrato con l’aumento del

carico di lavoro e la carenza di personale. Si potrebbe ipotizzare che all’origine delle difficoltà

dell’apparato giudiziario ci fosse un’obbiettiva crescita del tasso di criminalità: ai contemporanei

spesso sembrò che le cose stessero proprio così. Tuttavia i dati quantitativi di cui disponiamo non

sembrano accreditare questa ipotesi, almeno nel lungo periodo. Nei quasi due secoli coperti dalla

nostra indagine la popolazione di Bologna e del suo territorio raddoppiò, passando da circa 170.000

a 360.000 abitanti. Nello stesso periodo le denunce presentate ai tribunali criminali passarono da

una media di circa 3000 l’anno a 5000, con un incremento di circa il 60%. mentre il numero degli

addetti all’amministrazione giudiziaria quadruplicò.

Segretari di Stato, Legati e revisori sembravano invece pensare che la causa del dilatamento dei

tempi della giustizia risiedesse soprattutto nella scarsa professionalità e voglia di lavorare degli

addetti. È possibile che fosse così, ma le fonti di cui disponiamo non ci permettono di affermare con

un minimo di fondamento che veramente i giudici e gli impiegati degli anni della Restaurazione

lavorassero meno e peggio degli uditori e sottuditori del Torrone e dei loro notai. Quello che invece

ci pare di aver dimostrato in questo nostro saggio è che furono altri fattori, per così dire strutturali e

legati alla profonda trasformazione del modo di concepire e amministrare la giustizia intervenuta fra

la fine dell’antico regime e la metà del XIX secolo, a inceppare il sistema e a renderlo incapace di

mantenere un accettabile equilibrio fra input e otput.

Innanzi tutto l’affermazione di principi basilari di garantismo nei confronti dell’imputato, e una

sia pur limitata ridefinizione dei rapporti di forza fra accusa e difesa. La rigorosa formalizzazione

degli atti processuali, la distinzione netta fra fase istruttoria e fase dibattimentale, l’affermazione del

93

diritto del difensore di chiedere di ascoltare testimoni a discarico, l’introduzione dell’istituto dei

diversi gradi di giudizio e dell’appello, offrivano certo agli accusati tutele che il Torrone non aveva

previsto o aveva applicato in misura molto limitata, ma non potevano non allungare i tempi del

procedimento.

Anche l’articolazione del sistema giudiziario sul territorio, se in certa misura veniva incontro alle

esigenze di imputati, testimoni e parti lese e anche, non dimentichiamolo, agli interessi del ceto

medio provinciale che trovava possibilità di impiego presso i governatorati non poteva non

rendere più faticoso il funzionamento della macchina, ponendo problemi di attribuzione di

competenze e di continuo scambio di carte fra centro e periferia che il Torrone non aveva avuto.

Pesanti furono anche gli effetti negativi, in tutta evidenza non compensati da quelli positivi,

prodotti dal meccanismo di monitoraggio del funzionamento del sistema introdotto durante il

periodo francese che divenne sempre più sofisticato e complesso durante l’età della Restaurazione.

Nel XVII e XVIII secolo in qualche occasione pontefici e legati avevano chiesto agli uffici del

Torrone di fornire dati quantitativi relativi al funzionamento del tribunale, ma si era trattato di

richieste rare e occasionali motivate da ragioni contingenti. La redazione dei prospetti periodici

richiedeva invece, come abbiamo visto, un impegno continuo e consistente e interferiva con gli altr i

compiti dell’apparato giudiziario.

Tuttavia il fattore alla fin fine decisivo fu forse il profondo mutamento intervenuto nelle

aspettative dello stato e della società nei confronti del sistema giudiziario. I processi del Torrone

duravano poco, ma pochissimi, non più del 10% di quelli avviati, finivano con una sentenza. La

maggior parte venivano chiusi prima, perché da subito gli inquirenti si rendevano conto che non

avrebbero facilmente raccolto le prove sufficienti per arrivare ad una condanna, oppure perché

l’imputato, di fronte al peso delle prove e degli indizi a suo carico, decideva di “comporsi”, oppure

perché la parte lesa desisteva e concedeva la pace all’offensore. La giustizia del Torrone e del

sovrano pontefice e dei suoi rappresentanti nelle dichiarazioni di principio era implacabile, di

fatto si proponeva obbiettivi piuttosto modesti, ma realistici: si accontentava di riportare la pace fra

i litiganti e, quando era possibile e se lo riteneva opportuno, di infliggere punizioni esemplari.

Quella della Repubblica e del Regno di Italia, e lo Stato pontificio della Restaurazione non volle

essere da meno, era molto più ambiziosa. Voleva punire, con eguale rigore e imparzialmente, tutti i

delitti e imporre l’assoluto rispetto della legge e della volontà del sovrano a tutti i sudditi. Un

compito assai impegnativo, che avrebbe richiesto molte più risorse finanziarie e umane di quelle

effettivamente disponibili.