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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396. La fede debole di Gianni Vattimo Guido Baggio 1. Introduzione Il rapporto tra fede e filosofia si rivela in Vattimo particolarmente controverso per la prospettiva ambivalente che egli introduce all'interno della riflessione filosofica e teologica sulla religione e che, proponendo un nuovo paradigma interpretativo delle scritture, da un lato stimola ed incalza tanto i credenti quanto gli atei, dall'altro sembra voler piegare sofisticamente la riflessione a favore di una personale giustificazione della propria fede. 1 Questa ambivalenza dell'interesse di Vattimo per una lettura filosofica del religioso e per una intepretazione positiva del cristianesimo attraverso il concetto di “indebolimento” si sviluppa a partire dalla constatazione del fenomeno sociologico diffuso di un ritorno della religione a seguito di un periodo in cui, dopo il crollo delle metanarrazioni, all'ateismo dogmatico e ideologico si è andato man mano sostituendo un ateismo dell'indifferenza. 2 La sua proposta teoretica si inserisce quindi in una lettura 1 Rimando al sito ufficiale www.giannivattimo.eu (sett. 2015) per l'approfondimento bio-bibliografico di Gianni Vattimo e a www.filosofico.net/vattimo.htm (sett. 2015), per le sintesi del suo pensiero e delle sue opere. Per un primo approccio alla riflessione sul religioso di Gianni Vattimo precedente ai più noti Credere di credere (1996), di Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002) e di Il futuro della religione. Carità, ironia, solidarietà (2005), è possibile fare riferimento a La traccia della traccia, un breve saggio presente nel volume Religione, che raccoglie i contributi di un incontro seminariale tenutosi a Capri tra il 29 febbraio e il 1 marzo 1994 che aveva per tema la rinascita del fenomeno religioso da riflettere alla luce dello spirito del tempo moderno. Cfr. J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995. 2 Cfr. H. G. Gadamer, La religione e le religioni , in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit., pp. 19 ss. Secondo Gadamer l'ateismo indifferentista si radica su un processo sociale in cui l'industrializazione ha assunto i tratti di una religione dell'economia e le leggi dello sviluppo industriale e tecnico hanno determinato sempre più il destino dell'uomo, portando con l'aumento della qualità della vita, oltre ad un atteggiamento di adattamento, anche una perdita dello spirito di servizio, forza vitale di un sentimento religioso. Sul ritorno del religioso come fenomeno socialogico rimandiamo a F. Crespi, 1

La fede debole di Gianni Vattimo

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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i

credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

La fede debole di Gianni Vattimo

Guido Baggio

1. Introduzione

Il rapporto tra fede e filosofia si rivela in Vattimo particolarmente controverso

per la prospettiva ambivalente che egli introduce all'interno della riflessione filosofica e

teologica sulla religione e che, proponendo un nuovo paradigma interpretativo delle

scritture, da un lato stimola ed incalza tanto i credenti quanto gli atei, dall'altro sembra

voler piegare sofisticamente la riflessione a favore di una personale giustificazione della

propria fede.1 Questa ambivalenza dell'interesse di Vattimo per una lettura filosofica del

religioso e per una intepretazione positiva del cristianesimo attraverso il concetto di

“indebolimento” si sviluppa a partire dalla constatazione del fenomeno sociologico

diffuso di un ritorno della religione a seguito di un periodo in cui, dopo il crollo delle

metanarrazioni, all'ateismo dogmatico e ideologico si è andato man mano sostituendo

un ateismo dell'indifferenza.2 La sua proposta teoretica si inserisce quindi in una lettura

1 Rimando al sito ufficiale www.giannivattimo.eu (sett. 2015) per l'approfondimento bio-bibliografico di

Gianni Vattimo e a www.filosofico.net/vattimo.htm (sett. 2015), per le sintesi del suo pensiero e delle sue

opere. Per un primo approccio alla riflessione sul religioso di Gianni Vattimo precedente ai più noti

Credere di credere (1996), di Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002) e di Il futuro

della religione. Carità, ironia, solidarietà (2005), è possibile fare riferimento a La traccia della traccia,

un breve saggio presente nel volume Religione, che raccoglie i contributi di un incontro seminariale

tenutosi a Capri tra il 29 febbraio e il 1 marzo 1994 che aveva per tema la rinascita del fenomeno

religioso da riflettere alla luce dello spirito del tempo moderno. Cfr. J. Derrida e G. Vattimo (a cura di),

La religione, Laterza, Roma-Bari 1995.

2 Cfr. H. G. Gadamer, La religione e le religioni, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit.,

pp. 19 ss. Secondo Gadamer l'ateismo indifferentista si radica su un processo sociale in cui

l'industrializazione ha assunto i tratti di una religione dell'economia e le leggi dello sviluppo industriale e

tecnico hanno determinato sempre più il destino dell'uomo, portando con l'aumento della qualità della

vita, oltre ad un atteggiamento di adattamento, anche una perdita dello spirito di servizio, forza vitale di

un sentimento religioso. Sul ritorno del religioso come fenomeno socialogico rimandiamo a F. Crespi,

1

In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i

credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

della condizione odierna, tanto socio-culturale quanto filosofica, di dissoluzione delle

categorie concettuali forti della tradizione del pensiero occidentale e di

ridimensionamento del valore positivo della razionalità tecno-scientifica e logica, alla

luce di una prospettiva di superamento dei meccanismi di dominio e dei processi di

legittimazione esercitati dalle autorità sia metafisico-epistemologiche che etico-religiose

ed economico-politiche.3 Il filosofo torinese sottolinea il carattere positivo della

secolarizzazione, carattere che trova la sua espressione teoretica nel nichilismo

nietzscheano e nella critica di Heidegger alla metafisica e al pensiero logico-calcolante,

e che approda nella prospettiva dell'ontologia debole alla valorizzazione di una

ermeneutica del messaggio cristiano come condizione di una nuova fruizione di esso,

più personale, maggiormente aperto ad una praxis pluralista e democratica in quanto

contrapposta ad una visione dogmatica e autoritaria.

Risulta allora possibile comprendere la fede debole di Vattimo e cogliere la sfida

che essa lancia ai credenti e agli atei solo attraverso una riflessione che cerchi di

coinvolgere in un discorso unitario ontologia, etica, religione e fede. Come vedremo

nelle pagine seguenti, infatti, la promozione vattimiana del valore emancipativo del

messaggio cristiano di salvezza come frutto di una continua interpretazione e

ricontestualizzazione deriva dallo stretto intreccio delle questioni etiche e di fede alla

questione ontologica della “verità”. La sua riflessione si muove in tal modo attorno alla

coppia dicotomica verità/credenza, indicando nella credenza tanto l'“opinare” connesso

alla dimensione etica della praxis, quanto l'“affidarsi” nel senso del “dare fiducia”

L'esperienza religiosa nell'età post-moderna, Donzelli, Roma 1997, in part. pp. 11 ss.

3 Articolando l'itinerario speculativo di Gianni Vattimo, Giovanni Giorgio colloca la sua rilettura “debole”

del Cristianesimo nella terza fase, che a partire dagli anni Novanta interessa il nostro Autore in

ripensamenti che portano a radicalizzare la sua ontologia ermeneutica (G. Giorgio, Il pensiero di Gianni

Vattimo. L'emancipazione della metafisica tra dialettica ed ermeneutica, Franco Angeli, Milano 2006). In

particolare, la lettura che Giorgio rintraccia nella radicalizzazione da un'ermeneutica orientata

dialetticamente ad un'ermeneutica orientata in senso nichilistico, il fulcro del suo percorso teoretico. Tale

radicalizzazione trova particolare conferma nella «(dis)torsione nichilistica del Cristianesimo» che trova

«nella categoria di secolarizzazione il suo concetto decisivo» (ivi, p. 245).

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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

all'Altro – fede in Cristo – e all'altro – fede nella condivisione comunitaria. Su questo

punto si collega la consapevolezza del binomio riflessione filosofica/religione e la sua

declinazione in ambito etico.

2. Oblio dell'essere e ontologia dell'attualità come condizione di possibilità

di una riflessione sul ritorno della religione

Vattimo interpreta il fenomeno del ritorno del sentimento religioso nella

modalità di una esperienza che implica necessariamente una pratica della riflessione. A

partire dal ritorno della religione come carattere «essenziale dell'esperienza religiosa»,4

egli evidenzia due aspetti alla base di questo ritorno nei suoi modi concreti e nella

riflessione filosofica, aspetti che però non spiegano il fenomeno, rivelandosi solamente

punti di partenza preliminari per una riflessione critica sul suo carattere e valore.

Il primo aspetto indica nel ritorno dell'interesse per la religione il frutto delle

contingenze storico-sociali che caratterizzano il passaggio dall'era moderna all'era

postmoderna e che, seguendo il filosofo torinese, che su questo si affianca al collega

francese Jean-François Lyotard,5 possono essere rintracciati nei rischi globali di una

guerra atomica nel secondo dopoguerra e nella correlata minaccia alla democrazia,6

4 G. Vattimo, La traccia nella traccia, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit., p. 76.

5 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2002; Id., Il postmoderno spiegato ai

bambini, Feltrinelli, Milano 1987. Cfr. Anche G. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano

2007.

6 Dopo la seconda guerra mondiale, la presa di coscienza della capacità autodistruttiva dell’uomo,

espressa nell’utilizzo delle scoperte della tecnoscienza per fini contro l’umanità, lascia la società

completamente destabilizzata. Già Heidegger aveva denunciato proprio questa sensazione di totale

impotenza dinanzi al potere distruttivo del pensiero calcolante che aveva portato a immaginare e ideare la

bomba atomica: «Nessun singolo uomo, – scriveva Heidegger nel 1955 – nessun gruppo di uomini,

nessuna commissione, per quanto composta dai più eminenti tra gli uomini di stato, gli scienziati ed i

tecnici, nessuna conferenza di leaders economici e di capitani d’industria ha il potere di frenare o di

dirigere il corso storico dell’era atomica. Nessuna organizzazione composta soltanto da uomini è in grado

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nella paura ecologica,7 nel rischio di manipolazione genetica,8 nella minaccia del

fondamentalismo islamico. A ciò si lega una contingenza socio-culturale che si rifà alla

perdita di senso e alla associata paura che sembra inevitabilmente accompagnare la

società consumistica e che rende gli individui sempre più isolati in un mondo

paradossalmente sempre più “connesso”.9 Questi aspetti contingenti si mostrano nella

loro “estremizzazione” una minaccia all'essenza stessa dell'umanità e, almeno in parte,

sono alla base del ritorno della religione nell'esperienza umana.

Il secondo aspetto vede da parte della filosofia l'interpretazione del ritorno del

religioso da prospettive diverse sebbene strettamente intrecciate. La fine delle

di giungere al dominio su quest’epoca. L’uomo dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e

inerme, in balia dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo di oggi

rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo, il pensiero meditante contro il pensiero puramente

calcolante». (M. Heidegger, L’abbandono, il melangolo, Genova 1989, p. 36).

7 L’ecologismo, ovvero una sensibilità maggiore per il rispetto della terra e delle sue risorse nasce negli

anni ’70, in concomitanza con la crisi energetica e la rimessa in discussione della sostenibilità di uno

sviluppo economico basato sull'idea di progresso infinito e su una produzione e consumo di beni

illimitata.

8 Negli anni Novanta gli esperimenti sulla clonazione erano già molto avanzati (nel 1972 si era avuta la

clonazione di un frammento di DNA e nel 1979 la prima clonazione di mammiferi attraverso la

formazione multipla di embrioni da uno solo) e portarono, nel 1996, alla clonazione della primo

mammifero da una cellula adulta (la pecora Dolly).

9 La sociologa della scienza Sherry Turkle ha analizzato gli effetti psicologici che le tecnologie

informatiche hanno sull'individuo, evidenziando l'illusione che le nuove tecnologie della comunicazione

digitale offrono di una maggiore intimità e minor isolamento da parte degli individui (cfr. S. Turkle,

Insieme ma soli, Codice, Torino 2012). Julien Mauve, fotografa parigina, ha affermato, spiegando il suo

progetto artistico “Lonely Window”, che l'interfaccia digitale ha totalmente cambiato il modo con il quale

percepiamo e interagiamo con il mondo esterno, insegnandoci nuovi modi di comunicare senza parlarsi e

vedersi: «lo schermo diventa una finestra, che apre ad un nuovo mondo, introducendo al contempo un

nuovo tipo di solitudine» (http://www.julienmauve.com/lonely-window/. Ultimo accesso settembre 2015).

Di parere opposto è Eric Klinenberg, il quale sostiene invece che la qualità della vita delle persone che

vivono da sole, fenomeno che si è andato sviluppando in particolare negli ultimi anni, si rivela tutt'altro

che problematico, presentando al contrario aspetti positivi (Cfr. E. Klinenberg, Going Solo: The

Extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone, Penguin, New York NY 2012).

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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

metanarrazioni, ovvero dei sistemi teoretici e politici che hanno caratterizzato, a partire

dall'illuminismo, il processo di emancipazione umana e lo sviluppo della tecnica e della

scienza e delle nuove forme di governo, ha rimesso in questione le dinamiche di

legittimazione sociale che ad esse si riferivano. Con l'abbandono di ogni

fondazionalismo a giustificazione della società e dello sviluppo moderno, il ritorno al

religioso sembra agli occhi di Vattimo la risposta alla ricerca del fondamento che la

filosofia e il pensiero critico non sono più stati in grado di fornire.

Ora, secondo Vattimo se il prendere atto di questi due aspetti permettesse di

spiegare la perdita di senso e il ritorno al religioso, la questione sarebbe in tal modo

risolta, giacché basterebbe rintracciare nell'epoca contemporanea una «storicità della

condizione attuale in termini di un puro e semplice erramento», un allontanamento «dal

fondamento sempre presente e disponibile», che per questa stessa ragione ha prodotto

anche «una scienza e una tecnica “disumane”».10 La soluzione che si presenterebbe

sarebbe quella di un abbandono della storicità e un ritorno alla condizione autentica del

permanente nell'essenziale. In altri termini, si tratterebbe di accettare di ritornare a

pensare Dio come fondamento essenzialistico, all'interno di schemi metafisici che lo

collocano come il totalmente Altro fuori dal tempo e dalla storia, fondamento dal quale

e verso il quale gli ex-istenti gettati nella condizione esistenziale storica si muovono.

Ma il filosofo torinese non ritiene soddisfacente una tale soluzione. In realtà, alla

luce del significato positivo del messaggio cristiano della caritas, che egli rintraccia nel

processo di secolarizzazione dell'esperienza religiosa, è solo a partire dal duplice aspetto

del ritorno alla religione nello spirito del tempo moderno che la riflessione filosofica

può «riconoscere e mettere in luce le radici comuni a queste due forme del “ritorno”»

per cercare di far chiarezza su un fenomeno che, nel contesto odierno, si mostra molto

più complesso di un mero guardare “nostalgico” al sacro.11

10 G. Vattimo, La traccia nella traccia, cit., p. 77.

11 Ivi, p. 78.

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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

2.1. Tra Heidegger e Nietzsche

Il rapporto che Vattimo cerca di esplicitare tra filosofia e coscienza di un'epoca si

radica sulla riflessione che egli sviluppa a partire dalla rimessa in discussione

dell'eredità del pensiero occidentale. In particolare, egli si richiama alla riflessione

heideggeriana sulla fine della metafisica e il dispiegamento della scienza-tecnica (del

pensiero calcolante).12 Come è noto la riflessione di Heidegger sulla fine della

metafisica e sulla crisi del valore veritativo del pensiero logico, si fonda sulla denuncia,

che prende il via nelle prime pagine di Essere e tempo, di un oblio dell'“essere” come

principio fondante la realtà, oblio messo in atto proprio all'interno della metafisica che,

con la sua volontà di racchiudere anche il fondamento ultimo nelle maglie logiche, ha

cercato di dominare la natura e l'uomo. Da un'impostazione del pensiero occidentale

così delineata ha assunto sempre più importanza un pensiero logico-calcolante la cui

esaltazione ha portato al dominio della realtà da parte della razionalità tecno-scientifica.

La metafisica dell'oggettività si è ridotta così ad un pensiero che identifica la verità

dell'essere con la calcolabilità, la misurabilità e la manipolabilità dell'oggetto della

tecnica e della scienza. «La scienza moderna – scriveva Heidegger – non […] è alla

ricerca di una “verità in sé”»,13 ma è un modo dell'oggettivazione calcolante dell'ente,

ovvero ciò che coglie l'ente scientificamente. Da qui, l'utilizzo del sapere strumentale al

dominio sulla realtà. Il destino dell'uomo si rivela quindi quello delineato dal

nichilismo, ovvero il superamento di ogni tipo di verità metafisica, di quel pensiero che

identifica l'essere con il dato oggettivo, e la presa di coscienza del carattere essenziale

dell'uomo in quanto Esser-ci, il suo essere-per-la-morte.

La condizione esistenziale storica dell'uomo si lega al carattere inevitabilmente

ermeneutico del pensare che si radica su due assunti fondamentali: il primo è il

ritrovarsi dell'Esserci nel mondo, che gli appartiene; il secondo è che nel suo ritrovarsi

12 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2001, p. 23: «Ogni ontologia, per quanto dispongadi un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intentopiù proprio, se prima non ha sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questachiarificazione come il suo compito fondamentale».13 Ivi, p. 258.

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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

nel mondo, in un qui e ora determinati, esso può solamente interpretare ciò che trova,

poiché il qui ed ora determinati sono la «tradizione più o meno esplicitamente

afferrata», che sottrae all'Esserci «la capacità di guidarsi da sé, di ricercare e di

scegliere».14 La tradizione, prendendone il predominio, copre ciò che tramanda,

impedisce l'accesso alle fonti e ne travisa il significato.

Ed è nel filosofare «come espressione riflessa di tematiche che […] sono storia

dell'essere, momenti costitutivi dell'epoca...»,15 che Vattimo indica la possibilità di

rintracciare la radice comune del bisogno religioso e della nuova legittimazione che la

religione assume nella filosofia odierna. È infatti un movimento chiaramente

heideggeriano il suo, nei termini in cui Heidegger pone il problema di una storia della

metafisica sclerotizzata da rendere nuovamente fluida:

Se il problema dell'essere stesso deve venire in chiaro quanto alla propria storia, bisogna

che una tradizione sclerotizzata sia resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati

siano rimossi. Questo compito è da noi inteso come la distruzione del contenuto

tradizionale dell'ontologia antica, distruzione da compiersi seguendo il filo conduttore del

problema dell'essere, fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle

prime determinazioni dell'essere che fecero successivamente da guida.16

14 Ivi, p. 35. Questo è il problema della filosofia occidentale, da Parmenide in poi. E da qui si hal’appello, più esplicato nel corso del pensiero di Heidegger, sul ritorno alla tradizione Pre-socratica. Ciòche ne “La nascita della tragedia” Nietzsche auspicava per la cultura tedesca.15 G. Vattimo, La traccia nella traccia, cit., p. 78.

16 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 36. Come è noto, Heidegger interruppe Essere e Tempo,

deviando in seguito la propria riflessione sulla ricerca di nuovi sentieri di pensiero in grado di esplicitare

ciò che il linguaggio della tradizione filosofica non ha saputo cogliere. E se in Che cos’è metafisica?

(1929), scritto due anni dopo Essere e Tempo, Heidegger mostrava come la logica non possa essere in

grado di rispondere correttamente alla domanda sull’essere, essendo l’essere il ni-ente, ovvero l’origine

dell’ente, egli insisterà sulla possibilità di cogliere il niente, ovvero l’essere solamente «attraverso

un’esperienza fondamentale del niente» (M. Heidegger, Che cos'è metafisica, in Segnavia, Adelphi,

Milano 2002, p. 65), ovvero «nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia (Angst)» (Ivi, p. 67), che è

«l’essenziale impossibilità della determinatezza» (Ibid.), l’impossibilità della rappresentazione

concettuale dell’origine. In quanto sospesi nell’angoscia, possiamo raggiungere «quell’accadere

dell’esserci nel quale il niente è manifesto, e dal quale si deve partire per interrogarlo» (Ivi, p. 68).

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L'ontologia vattimiana si pone allora come una possibilità per la rilettura del

moderno all'esterno della visione forte di Cartesio, Kant e Hegel, i quali innalzavano il

soggetto a statuto epistemologico fondamentale di verità. Vattimo riconduce la

dissoluzione del soggetto razionale, forte, proprio dell'Aufklärung, allo smascheramento

nietzschiano della superficialità della soggettività autocosciente, ovvero della coscienza

che il soggetto ha di se stesso in relazione alle dinamiche di forza nei rapporti di

dominio della società, dinamiche che si esprimono nella possibilità di mentire secondo

regole sociali condivise, utilizzando un sistema di metafore imposto dalla società e

degradando a “finzioni poetiche” le metafore che permettono al soggetto singolo di

esprimersi attivamente. I contenuti della coscienza che riguardano il mondo

fenomenico, si rivelano così «“finzioni” regolate dalle convenzioni sociali».17

3. Il ritorno del religioso come sfida dell'oltreumanità

Se il bisogno religioso deve essere sondato attraverso il pensiero filosofico,

secondo Vattimo questo ritorno non deve sfociare in una “dimostrazione” della necessità

del religioso, ovvero non deve giustificare metafisicamente il fenomeno. Si tratterebbe,

altrimenti, di un mero re-agire all'appello dell'essere che si dà nella condizione

esistenziale dello spirito del tempo. Riflettere sul ritorno del religioso nella

problematicità dell'odierno significa accettare nietzscheanamente la sfida

dell'oltreumanità e guardare all'oltrepassamento della metafisica non come al richiamo

ad una condizione ideale di autenticità come risposta al dominio tecno-scientifico e

consumistico, ma come un disporsi «a oltrepassare la metafisica attraverso un ascolto

non reattivo del destino tecnico dell'essere stesso».18 In altre parole, si tratta di porsi, a

partire dalla condizione inautentica in cui ci troviamo, in quello stato di accoglimento e

17 G. Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 82-3.18 Id., La traccia della traccia, cit., p. 79.

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al contempo di ascolto critico «sul carattere non accidentale del darsi, per noi,

dell'esperienza religiosa come ritorno».19

L'atteggiamento così designato non è però quello di un relativismo storicistico.

Al contrario, si tratta, secondo il pensatore torinese, di prendere consapevolezza che

l'essere è evento e in quanto tale si manifesta nella sua datità come eventi che accadono,

aperture storiche. Ed è possibile assumere tale atteggiamento attraverso ciò che Vattimo

indica come ontologia debole o ontologia dell'attualità: una ontologia che è tale solo

nel suo domandarsi «“che cosa ne è dell'essere” nella nostra condizione presente».20 Un

domandare che si ha solo attraverso un pensiero che sia pensiero della fruizione,

pensiero che fruisca delle forme spirituali del passato con lo scopo di emanciparsi e

consentire la formazione di un'“etica postmoderna” opposta alle etiche metafisiche dello

“sviluppo”, della “crescita”, del “novum” come valore ultimo; un pensiero che sia

pensiero della contaminazione, che interpreti l'esperienza attraverso le vie del

linguaggio, attraverso un'ermeneutica di tutti i linguaggi che ci appaiono lontani ed

estranei. Un pensiero, in altri termini, che nella sua impresa interpretativa si rivolga ai

molteplici contenuti sia verso i messaggi del passato che verso i contenuti del sapere

contemporaneo per ricondurli ad una unità della molteplicità. Come scrive Vattimo:

Si tratterà, in altre parole, di scoprire e di preparare la manifestazione delle chances ultra- o

post-metafisiche della tecnologia planetaria. Questa Verwindung si farà ovviamente anche

ricostituendo la continuità fra tecnologia e tradizione passata dell’occidente; nel senso

indicato dalla tesi heideggeriana della tecnica come continuazione e compimento della

metafisica occidentale. […]

Quali sono le determinazione che la metafisica ha attribuito all’uomo e all’essere?

Sono, anzitutto, le qualifiche di soggetto e oggetto, che hanno costituito il quadro in cui si è

consolidata la nozione stessa di realtà. Perdendo queste determinazioni l'uomo e l'essere

entrano in un ambito schwingend, oscillante, che a mio avviso si deve immaginare come il

mondo di una realtà 'alleggerita', resa più leggera perché meno nettamente scissa tra il vero

19 Ivi, p. 80.

20 Id., Una bio-etica postmetafisica, in D. Antiseri, G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa

nell'era postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 7.

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e la finzione, l'informazione, l'immaginazione: il mondo della mediatizzazione totale della

nostra esperienza nel quale già, in larga misura ci troviamo. È in questo mondo che

l'ontologia diviene effettivamente ermeneutica, e le nozioni metafisiche di soggetto e

oggetto, anzi di realtà e di verità-fondamento, perdono di peso. In questa situazione, si deve

parlare secondo me di 'ontologia debole' come sola possibilità di uscire dalla metafisica –

per la via di una accettazione-convalescenza-distorsione che non ha più nulla

dell’oltrepassamento critico caratteristico della modernità. Può darsi che in questo risieda,

per il pensiero postmoderno, la chance di un nuovo, debolmente nuovo, cominciamento.21

3.1. Ermeneutica dell'esperienza religiosa tra linguaggio mitologico e

demitizzazione

Il primo elemento che si presenta in questa figura del ritorno è l'identificazione

della religione con la sua positività, ovvero con il suo accadere, che nella filosofia della

religione potrebbe essere indicato come creaturalità. Il ritorno della religione si

identifica come positività, intesa quest'ultima in due sensi strettamente connessi e

intrecciati: come fattualità, cioè accadere nelle condizioni storiche contingenti, e quindi

come fatto; e come creaturalità, ovvero come dipendenza da un'eventualità originaria. Il

mantenersi nell'ascolto critico significa allora mantenersi in equilibrio sul crinale di

questa positività, tra dimensione storica concreta e dimensione non strutturale

dell'eventualità e della libertà:

Render giustizia al significato dell'esperienza del ritorno vorrà dire perciò, anzitutto,

mantenersi nell'orizzonte di questo duplice senso della positività: creaturalità come concreta

determinatissima storicità; a anche viceversa, storicità come provenienza da una origine

che, in quanto non metafisicamente strutturale, essenziale, ha anche tutti i tratti della

eventualità e della libertà.22

21 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 19982, pp. 188-189.

22 Id., La traccia della traccia, cit., p. 81.

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Vattimo si pone qui in una prospettiva ambivalente, in cui si ha il passaggio

argomentativo che porta il segno del suo coinvolgimento personale nell'interesse per la

filosofia della religione e la teologia. Ma è proprio questo mantenersi nell'ambivalenza

che gli permette di sviluppare la sua riflessione sul crinale tra immanenza e

trascendenza. Come egli scrive:

L'esperienza religiosa come esperienza della positività nel senso che si è indicato sembra

piuttosto condurre a una radicale messa in questione di ogni tradizionale figura del rapporto

tra filosofia e religione. Il ritorno del religioso che viviamo nella coscienza comune e, in

termini diversi, nel discorso filosofico (dove cadono gli interdetti metafisici, scientistici o

storicistici, contro la religione) si presenta come una scoperta della positività che ci appare

identica, nel suo senso, con il pensiero della eventualità dell'essere a cui la filosofia

perviene a partire dalla meditazione di Heidegger. La constatazione di questa identità, se

vuole corrispondere radicalmente al suo stesso contenuto, non può rimanere una semplice

constatazione. È proprio il pensiero della eventualità dell'essere a escludere che qui si possa

trattare di una stessa struttura metafisica esperita da due modi di pensiero diversi. La

positività o eventualità richiama l'attenzione sulla provenienza.23

Il limite che Vattimo rintraccia nella storia della religiosità “metafisica” è

proprio quello di pendere completamente o verso una o l'altra parte: verso la parte della

storicità dell'esistenza, per cui la creaturalità trova la sua espressione nella finitezza

dell'essere che porta con sé la necessità di un salto di fede in Dio e nella trascendenza; o

verso l'identificazione della positività con il determinismo storico e quindi con una

immanentizzazione della trascendenza.

La sua prospettiva si pone quindi in una condizione liminare, in quella posizione

pre-metafisica ma pur sempre filosofica, in quanto pre-epistemologica. Il superamento

della prospettiva razionalistica e soggettivistica non può infatti accadere che

mantenendosi nell'ambivalenza del pensiero che, nella prospettiva esclusivamente

filosofica, chiama in causa la necessità di aprirsi ad una concezione non metafisica della

verità, alludendo al suo carattere estetico, nel senso di “narrativo”. La dimensione

23 Ivi, p. 86.

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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i

credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

estetica si mostra, più che opposta, pre-liminare alla conoscenza logica, nei termini in

cui quest'ultima è rintracciabile nella filosofia del soggetto forte. Per tale motivo non è

all'epistemologia che Vattimo si richiama ma all'ermeneutica del linguaggio mitico

come al modo per poter fruire dell'evento dell'essere senza ricadere nella posizione

metafisica di dominio del fenomeno religioso. Egli fa appello infatti alla mitologia come

linguaggio appropriato non a conoscere ma a narrare eventi, quindi come dimensione di

esposizione di una storia che non è però scienza dei fatti storici, quanto piuttosto

possibilità di mantenere il duplice senso della positività nella forma di mito.

Il riferimento vattimiano è ovviamente alle opere di due maestri che ne hanno

segnato il percorso filosofico, Filosofia della libertà di Pareyson e Verità e metodo di

Gadamer. Dal primo Vattimo accoglie l'idea del mito come unica via di accesso ai fatti

che sfuggono alla razionalità, così che gli eventi della realtà divina e della sua relazione

con la natura umana rientrino in una storia che non si può teorizzare ma solo narrare

attraverso il mito, in grado di esprimere tanto la verità rivelata quanto la dimensione

storica e artistica dell'evento.24 In tal modo l'interpretazione filosofica del mito che si

presenta nell'arte e nella religione come verità inoggettivabili, «che si rivelano solo

occultandosi e che solo in quel modo si possono dire», assume la natura di

un'ermeneutica dell'esperienza religiosa, che si proponga tanto di chiarirne il significato

ampiamente umano quanto di trarne sensi che siano filosofici, cioè universali o largamente

universalizzabili, tali da coinvolgere nell'interesse, se non nel consenso, tutti gli uomini,

credenti o non credenti.25

Da Gadamer Vattimo accoglie invece il rifiuto dell'opposizione tra mito e logos,

tra tradizione e ragione. Tale opposizione si rivela fallace per l'imprescindibilità da parte

della ragione storica dai condizionamenti esercitati dalla tradizione e dall'autorità ad

essa connessa. L'idea che tra autorità e uso della ragione sussista un'opposizione si

24 Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1994, in part. pp. 99-

149.

25 L. Pareyson, Filosofia della libertà, il melangolo, Genova 1989, p. 18.

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rivela errata per il semplice fatto che una coscienza storica non può mai rivolgersi a

fenomeni ripetibili; piuttosto la tradizione, a cui si connette l'autorità che ad essa si

riferisce, si rivela sempre «un momento della libertà e della storia stessa», che si fa

tradizione non «in virtù della forza della persistenza di ciò che una volta si è verificato»,

ma in quanto la tradizione viene accettata, adottata, coltivata.26

Ma di questi riferimenti il filosofo torinese rifiuta la volontà di “verità”, che

caratterizza la prospettiva pareysoniana con la sua idea di rintracciare nel mito una via

di problematizzazione della verità rivelata, giungendo a rintracciare nella sofferenza il

«luogo della solidarietà fra Dio e l'uomo»,27 e quella gadameriana, secondo la quale il

mito della tragedia greca in quanto funzione dell'imitazione, della rappresentazione, è

un carattere conoscitivo del vero in quanto conoscenza dell'essenza.

Nel suo ricorso al mito in quanto linguaggio in grado di narrare, Vattimo precisa

che esso va completato proprio per evitare ogni sua residua possibilità di riduzione della

positività dell'esperienza religiosa a pura creaturalità, proprio per evitare «la tendenza

ad assumere il pensiero mitico in una sorta di astrattezza astorica, e la difficoltà persino

di distinguere il mito cristiano da quello greco».28 Il mito assume qui il compito di

mantenere quell'ambivalenza inclusiva dei due sensi della positività, storica e creaturale,

immanente e trascendente insieme. Ed accoglie al suo interno anche una prospettiva

dell'identificazione nella filosofia della religione dell'Altro come irruzione nell'orizzonte

storico, salvo però limitarne il carattere di pura negazione della storicità e nuovo inizio

assoluto.

Vattimo riconduce al mito la capacità di includere i contenuti positivi

dell'esperienza religiosa della condizione presente non completamente traducibili in

termini di razionalità argomentativa: il bisogno di perdono, il modo di confrontarsi con

l'enigma della morte e con quello del dolore, l'esperienza della preghiera.29 Per questo la

26 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 330.

27 L. Pareyson, Filosofia della libertà, cit., p. 33.

28 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 82.

29 Ivi, p. 83.

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dimensione del mito si deve accompagnare ad un processo di demitizzazione: dei

dogmi, «contro ogni monopolio gerarchico di un'interpretazione 'letterale' o descrittiva

della Scrittura, che ci dica, detto brutalmente, 'come è fatto Dio'»;30 della morale nei

termini di una dottrina e una disciplina così come viene presentata dalla Chiesa.31 Tale

demitizzazione viene indicata da Vattimo come mutamento prospettico, come

spostamento dell'attenzione dell'esperienza religiosa dal senso di colpa e dal peccato al

bisogno di perdono, indicato da Vattimo come l'espressione di «uno dei tratti della

specifica storicità in cui oggi l'esperienza religiosa si ripresenta»,32 e che viene a

sostituire una intensità del senso di colpa e una radicalità dell'esperienza del male che

invece si connettono ad una concezione metafisica e soggettivistica della dimensione

religiosa.

In questo processo di demitizzazione e riassestamento prospettico ruolo centrale,

come abbiamo sostenuto, riveste il rapporto tra essere e linguaggio, che comporta tanto

una attenzione all'ermeneutica anziché all'epistemologia, all'idea di un indebolimento

delle categorie metafisiche, e all'indebolimento della nozione di verità, quanto un

ritorno alla verità dei testi sacri che esprimono la nostra condizione storica nel

linguaggio proprio della tradizione ebraico-cristiana. Vattimo mette quindi in atto una

ritorsione del proprio pensiero, un movimento di ritorno che chiama in causa un

processo ermeneutico di rilettura e reinterpretazione del linguaggio della tradizione alla

luce della Wirkungsgeschichte, della “storia degli effetti”. In altre parole, si appella ad

una ermeneutica adeguata a mettere in luce la realtà della storia nella realtà della

comprensione storica, ad un processo di comprensione che tenga conto della tradizione

in cui è inserito.33 Una ermeneutica del testo biblico, secondo Vattimo dovrebbe, in

30 G. Giorgio, op. cit., p. 258.

31 Ibidem.

32 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 83.

33 Su questo punto cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 350. Vattimo accoglie all'interno della sua

ermeneutica aspetti del pensiero di Schleirmacher, in particolare della sua idea del carattere

precipuamente interpretativo del pensiero filosofico. L'opera vattimiana su Schleirmacher (G. Vattimo,

Scheiermacher filosofo dell'interpretazione, Mursia, Milano 1986 [1968]) rappresenta uno dei passaggi

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questa prospettiva che mantiene centrale il carattere storico della coscienza e le

possibilità di comprensione delle condizioni contingenti dell'esistenza, accogliere come

altro aspetto della positività il fatto che «i testi sacri che improntano la nostra esperienza

religiosa sono dati all'interno di una tradizione che li tra-manda anche nel senso che la

sua mediazione non li lascia sussistere come oggetti immodificabili».34 A partire da

Sant'Agostino la teologia cristiana è sin dalle sue basi una teologia ermeneutica:

la struttura interpretativa, il tramandamento, la mediazione e, forse, la deiettività non

riguardano solo l'annuncio, la comunicazione di Dio con l'uomo; caratterizzano la stessa

vita intima di Dio, che proprio per questo non si può pensare nei termini della immutabile

pienezza metafisica (rispetto alla quale, appunto, la rivelazione sarebbe solo un episodio

“successivo” e un accidente, un “quoad nos”).35

Questo è per così dire il passo verso lo spostamento dell'attenzione dal senso di

colpa e dall'esperienza della radicalità del male al bisogno di perdono. Si tratta di una

ermeneutica che permette di orientare cristianamente la vita attraverso la

consapevolezza della sua storicità, del fatto che la sua verità, «è solo quella che di volta

cruciali nel percorso teoretico del pensatore torinese, oltre che un momento significativo degli studi

italiani sulla filosofia ermeneutica di Schleirmacher. Per un approfondimento rimandiamo al capitolo

ottavo di C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo. Per

un itinerario nel Logos postmoderno, LAS, Roma 1999. Va però qui notato che mentre nell’ermeneutica

romantica espressa da Schleiermacher scopo dell’interpretazione era la negazione della distanza

temporale tra autore e interprete, l’ermeneutica di Gadamer, e con essa quella vattimiana si rivela

concentrata sulla manifestazione delle attività dell’uomo sulla base della propria possibilità di

comprensione. Secondo Gadamer, l’ermeneutica di Schleiermacher si rivela peculiare di una

interpretazione psicologica che si esprime in «una sorta di comportamento divinatorio, un trasportarsi

nella complessiva costituzione spirituale dell’autore, un cogliere “l’intimo svolgimento” della redazione

di un’opera, una ripetizione dell’atto creatore. La comprensione è dunque una riproduzione che si riporta

alla produzione originaria, un “riconoscere il conosciuto” (Boeckh), “decisione embrionale” intesa come

il punto intorno a cui si organizza la composizione» (H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 226).

34 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., pp. 84-5.

35 Ivi, p. 85. Cfr. Id., Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, p. 57.

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in volta si produce attraverso le “autenticazioni” che avvengono in dialogo con la storia,

e con l’assistenza dello Spirito come ha insegnato Gesù».36

La diversità degli approcci interpretativi alle nozioni di soggetto, Dio, mondo,

che Vattimo evidenzia,37 permette di assimilare alla prospettiva biblica e teologica la

tematica filosofica, heideggeriana, dell'“eventualità dell'essere”, e di vedere questa

analogia come due modi differenti di incontrare lo stesso dato – l'eventualità dell'essere

appunto, eventualità che proviene dalla tradizione ebraico-cristiana che non può però

rientrare in una stessa struttura metafisica, poiché pone l'attenzione sulla provenienza di

questa stessa struttura. Tale provenenienza, la teologia trinitaria, chiama ad un ritorno da

una prospettiva evangelica e non metafisica.

3.2. L'incarnazione come positività e fine della violenza del Sacro

L'esperienza religiosa come esperienza della positività è dunque in grado di

rimettere in discussione il tradizionale rapporto tra filosofia e religione. Il ritrovamento

della provenienza dalla teologia trinitaria della filosofia, proprio perché arricchito da

una consapevolezza storica – la capacità di leggere i segni dei tempi – e da una

consapevolezza del processo ermeneutico – una sorta di autocoscienza della coscienza

interpretativa – permette così di superare le aporie che hanno caratterizzato nel passato

il ritorno al fondamento, alla “provenienza”. Con questa nuova consapevolezza, il

riconoscere la propria provenienza dalla teologia trinitaria permette alla filosofia di

rivelare il carattere non puramente contraddittorio di quelle aporie e di mantenere quella

ambivalenza che potrebbe ricadere nell'equivocità se vista da una prospettiva logico-

metafisica, ma che, come il paradosso della fede, si mantiene però al livello della

eventualità dell'essere, in quella apertura che però non deve essere ripensata in termini

puramente essenzialistici per non cadere nella trascendenza completamente slegata dal

36 Id., Credere di credere, cit., p. 45.

37 Ivi, p. 78 ss.

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“segno dei tempi”.

A questo riguardo Vattimo prende le distanze dalla filosofia di Lévinas e dalla

sua esperienza religiosa come irrompere dell'Altro. Allo stesso modo critica la teologia

dialettica di Karl Barth, non accettando il “salto nella fede” per accedere al totalmente

Altro rispetto all'uomo e al mondo. Vattimo rifiuta proprio l'aspetto metafisico-

naturalistico che una tale dottrina assume della natura di Dio, che si rivela trascendente,

imperscrutabile.38 Al posto dell'affidamento ad un atto di grazia, Vattimo sostiene al

contrario l'idea di lasciare aperta l'eventualità radicale dell'essere, che viene a delinearsi

come evento specificamente cristiano della «kènosis», dell'incarnazione di Dio. Come

egli scrive:

Quella eventualità radicale dell'essere che il pensiero post-metafisico incontra nel suo

sforzo di liberarsi dalla cogenza del semplicemente-presente non si lascia comprendere solo

alla luce della creaturalità, che resta nell'orizzonte di una religiosità “naturale”, strutturale,

pensata in termini essenzialistici. Solo alla luce della dottrina cristiana dell'incarnazione del

figlio di Dio sembra possibile, per la filosofia, concepirsi come lettura dei segni dei tempi

senza che ciò si riduca a una pura registrazione passiva del corso dei tempi.39

Solo alla luce dell'incarnazione di Dio, che non è verità ultima, ma da dove

proviene il problema della verità, ovvero da dove proviene quel rapporto problematico

tra filosofia e rivelazione religiosa e quel pensiero post-metafisico dell'eventualità

dell'essere, è possibile accogliere l'eventualità dell'essere come segno dei tempi. Ciò non

comporta una negazione di ogni forma di presenza, di positività, quanto il fare appello

ad un tipo di pensiero da pensare solo attraverso la prospettiva dell'incarnazione:

È solo in quanto ritrova la propria provenienza neo-testamentaria che questo pensiero post-

metafisico può configurarsi come un pensiero della eventualità dell'essere non ridotto alla

pura accettazione dell'esistente, al puro relativismo storico e culturale. Se si vuole: è il fatto

38 G. Vattimo, Credere di credere, cit, p. 50 ss. Cfr. M. Cinquetti, Dio tra trascendenza e “kènosis”.

Dialogo a distanza tra Karl Barth e il “pensiero debole”, in «Filosofia e teologia» (2003/2), pp. 324-337.

39 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 88.

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dell'incarnazione che conferisce alla storia il senso di una rivelazione redentiva, e non solo

di un confusivo accumularsi di avvenimenti che turbano la pura strutturalità del vero essere.

Che la storia abbia un senso redentivo (o, in linguaggio filosofico, emancipativo) pure, o

proprio, essendo storia di annunci e risposte, di interpretazioni e non di “scoperte” o

dell'imporsi di presenze “vere”, questo è qualcosa che diventa pensabile solo alla luce della

dottrina dell'incarnazione.40

Non si tratta quindi di accogliere un relativismo della verità, quanto una apertura

all'interpretazione, all'idea che il segno dei tempi condiziona anche la possibilità di

aprirsi alla provenienza stessa del pensiero religioso e filosofico. Il fatto che non vi

siano verità da scoprire ma che la storia presenti segni e annunci da interpretare, anche

per parlare di verità, porta con sé una rinuncia di sicurezza, la rinuncia di una presenza

rassicurante. L'idea che non ci siano fatti ma solo interpretazioni non è un fatto certo,

sostiene Vattimo, ma a sua volta solo un'interpretazione. Ed è in questa prospettiva che

egli “interpreta”, appunto, il senso del nichilismo: non come una metafisica del nulla,

ma come un «indefinito processo di riduzione, assottigliamento, indebolimento».41

In questa prospettiva il principio della caritas cristiana consente di mantenere

l'ambivalenza e ambiguità che permette di superare l'impasse della coscienza moderna

dinanzi alla rivelazione cristiana, e di smascherare i miti di cui la dottrina è troppo

satura, miti che hanno pretesa veritativa ma che non reggono alla prova della ragione.42

La convinzione di Vattimo che non esistano fatti ma solamente interpretazioni

pone in essere una scelta di campo a favore di un cristianesimo che evidenzia il Cristo

fatto uomo, il quale giunge nella storia per romperne la temporalità. In particolare,

40 Ivi, p. 89. Per una lettura critica dell'interpretazione vattimiana di kènosis rimandiamo a J. R. Martínez,

op. cit., pp. 439-68. Una delle critiche che Martínez muove all'uso che Vattimo fa della nozione di kènosis

è di non aver compreso il valore centrale che nel cristianesimo riveste la resurrezione, affidandosi

principalmente ad interpretazioni di certa cristologia scolastica che non ne dava alcuna importanza

salvifica (Ivi, pp. 454 ss.).

41 Ivi, p. 89.

42 Cfr. G. Vattimo, Credere di credere, cit., p. 64. Cfr. R. Ottone, Ontologia debole e caritas nel pensiero

di Gianni Vattimo, in «La Scuola Cattolica», 132 (2004), pp. 171-203.

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Vattimo indica nella parusìa di cui parla Paolo proprio l'evento che spezza la

temporalità storicista.43 Così, tanto il Da-sein heideggeriano quanto il cristiano paolino,

si caratterizzano per la thlipsis, la rinuncia al senso e la perdita delle certezze. Da questa

prospettiva si delinea la possibilità di una fede senza dogmi, senza contenuti, in grado di

accogliere l'autentico messaggio cristiano della kènosis. Questa prospettiva assume una

valenza esistenziale ancora più forte se si evidenzia il fatto che uno dei testi principali

della riflessione vattimiana sulla fede, Credere di credere, è scritto in prima persona,

chiamando quindi in causa nella riflessione direttamente l'esperienza di vita e di fede

dell'Autore (ed è forse in questa deangolazione prospettica che va rintracciato il segno

di un coinvolgimento personale e diretto del pensatore torinese che motiva a partire

dalla prospettiva filosofica del pensiero debole il proprio credo e la propria

“testimonianza” di fede). Ma introducendo anche la riscoperta del cristianesimo

all'interno del percorso del pensiero filosofico che ha portato alla fine della metafisica e

alla desacralizzazine della divinità, la sua umanizzazione, con la rimessa in discussione

del ruolo autoritario del Dio dell'Antico Testamento. L'incarnazione assume quindi

significato in quanto segno paradossale del processo di secolarizzazione della religione.

Indebolimento dell'essere, indebolimento dell'autorità divina, indebolimento

dell'ontologia, indebolimento della teologia.44

Se centrale era prima la nozione di creaturalità del Vecchio Testamento, ora

l'attenzione è rivolta a quella dell'incarnazione come espressione dell'indebolimento del

divino, indebolimento che, seguendo Vattimo, è tale per la sua struttura kènotica, ovvero

per lo svuotamento che nella prospettiva teologica indica la privazione della divinità

compiuta da Cristo nel farsi uomo. In questo “annientamento” che Gesù Cristo fa di sé,

43 Id., Dopo la cristianità, cit., pp. 129-42.

44 Cfr. Id., Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, p. 27. Cfr. G. Giorgio, Il pensiero di Gianni

Vattimo, cit., p. 24: «Non solo dunque la secolarizzazione del Cristianesimo, ma anche il Cristianesimo

come secolarizzazione». Cfr. J. R. Martínez, op. cit., p. 380: «Vattimo habla de secularización en un

sentido amplio, pues no se rifiere sólo a la pérdida de influencia de lo explícitamente religioso». Su

questo punto cfr. anche F. Crespi, op. cit., pp. 63-68

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facendosi “schiavo e diventando simile agli uomini”,45 Vattimo ritrova il processo di

indebolimento che il Dio attua, il rifiuto all'onnipotenza per farsi debole tra i deboli. Ed

è proprio per questo movimento rivoluzionario e paradossale che la religione cristiana si

è da subito posta come religione intimamente umana, distanziandosi dalla religione

naturale in cui Dio si esprime nella potenza devastatrice della natura.

Ciò porta a vedere l'indebolimento dell'Essere come analogo alla dissoluzione

della violenza del sacro. Il Dio castigatore che necessita della vittima sacrificale per

trovare appagamento alla propria ira, viene per così dire spiazzato dal farsi vittima del

Dio stesso. Gesù liquida con il suo farsi vittima il nesso tra violenza e sacro, che

trovava, seguendo la prospettiva antropologica di René Girard a cui Vattimo si riferisce

indicando nella secolarizzazione l'effettiva realizzazione del cristianesimo quale

religione non sacrificale,46 nella religione naturale il meccanismo vittimario essenziale

per ristabilire l'ordine del legame sociale sconvolto da conflitti causati dal carattere

intimamente competitivo dell'essere umano e alla sua tendenza a processi di mimesis

sociale, ovvero a desiderare le stesse cose che desiderano gli altri, tendendo in tal modo

ad un tipo di conflitto che alimenta circoli viziosi di violenza. In questo contesto, che

alimenta la crisi della stabilità sociale, un'alterazione dell'unanimità mimetica, la vittima

sacrificale assumeva il ruolo di capro espiatorio: scelta per ragioni arbitrarie, essa

polarizzava la violenza collettiva e la sua uccisione serviva a ristabilire la concordia

sociale.47 Per Girard, la morte di Dio è reale, nel senso che è la morte della vittima

45 Paolo, Lettera ai Filippesi, 2, 7.

46 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa,

Massa 2006, p. 8.

47 Cfr. R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987; Id., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano

1992. Vattimo fa però particolare riferimento per elaborare la propria tesi a R. Girard, Delle cose nascoste

sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983. Cfr. G. Vattimo, Girard e Heidegger: Kènosis e

fine della metafisica, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, pp. 63-73, pubblicato per la prima

volta in B. Dieckmann (a cura di), Das Opfer – aktuelle Kontroversen. Religions-politischer Diskurs im

Kontext der mimetischen Theorie, Lit Verlag, Münster 1999. Sull'influenza di Girard su Vattimo e sulla

nozione di Kènosis cfr. J. R. Martínez, Relación entre cultura posmoderna y cristianismo en Gianni

Vattimo, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca 2015, pp. 362-85.

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sacrificale per antonomasia. In quanto tale si pone come principio destrutturante dei miti

arcaici, della religione come sapere sulla violenza degli uomini poiché Cristo accetta di

donarsi come «(auto)sacrificio».48 Con il cristianesimo si viene ad imporre un nuovo

punto di vista, quello della vittima innocente e dell'arbitrarietà della sua

colpevolizzazione da parte della società. Cristo, con l'incarnazione e il sacrificio, rompe

il nesso sacrificale e ristabilisce un nuovo principio: quello del perdono: «Se la

modernità non permette più di credere nel meccanismo vittimario, ciò appartiene

positivamente alla storia della salvezza […] la rivelazione della connessione tra il sacro

e la violenza accade insieme con, e solo attraverso, l'incarnazione di Cristo, la

kènosis».49

Da qui, allora, la necessità per Vattimo di assumere il credere nella salvezza

come uno sforzo per «capire, anzitutto, che senso hanno i testi evangelici per me, qui,

adesso; in altre parole, leggere i segni dei tempi, senza alcuna riserva che non sia il

comandamento dell'amore».50

3.3. Il pensiero gioachimita nel discorso filosofico vattimiano sulla fede debole

Il “fatto” che non ci siano fatti ma solo interpretazioni si collega al tema della

“morte di Dio”, che non significa la fine di ogni riflessione religiosa, come abbiamo

visto, ma l'apertura ad una trasvalutazione della cristianità, proprio nella vocazione

all'indebolimento come storia di salvezza. Vattimo sostiene infatti che siano stati i fedeli

ad uccidere Dio e che la sua scomparsa dal mondo non sia il segno dell'Alterità, quanto

del suo farsi finito dissolvendo la sua trascendenza. Per sostenere la propria tesi egli fa

riferimento principalmente alla teologia di Giocchino da Fiore, nella quale rintraccia la

48 R. Girard, Non solo interpretazioni, ci sono anche i fatti, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede

debole?, cit., p. 81.

49 G. Vattimo, Girard e Heidegger: Kènosis e fine della metafisica, cit., pp. 71-72.

50 Id., Credere di credere, cit., p. 65.

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possibilità di una alternativa alla teologia dogmatico-disciplinare.51 Come nota

Mantovani, la consonanza con l’insegnamento di Gioacchino deriva a Vattimo proprio

«a partire dalla considerazione della fine della metafisica, dell’essere come evento e

come destino di indebolimento»,52 che inserisce la filosofia nell’eredità del messaggio

ebraico-cristiano. Vattimo ritiene infatti che la distinzione di Gioacchino da Fiore

nell'avvento dei tre regni, del Padre dell'Antico Testamento, del Figlio e dello Spirito

Santo, permetta di offrire una spiegazione teologica del processo di secolarizzazione e

di indicarla come una terza età nella storia dell'umanità e nella storia della salvezza, il

regno della salvezza con l'età dello Spirito, nel quale il senso della salvezza assume un

valore sempre più spirituale. Come egli scrive:53

Interpretata alla luce degli insegnamenti di Gioacchino la morte di Dio ucciso dai fedeli, e

cioè la secolarizzazione su cui si è costruita la modernità, assume un significato che

riprende, ma anche completa e trasforma profondamente, io credo, il senso in cui molta

teologia cristiana di oggi ha parlato di secolarizzazione e persino di morte di Dio come

eventi legati alla rinascita della religione.54

La cristianità postmoderna si caratterizza quindi per l'attenzione posta alla

kènosis, da interpretare non come negazione di Dio ma come interpretazione di Gesù

delle profezie «che egli stesso è»,55 il rapporto più intenso di carità tra Dio e l'umanità, il

suo amore per le sue creature. E, all'interno della prospettiva vattimiana, secondo la

quale il linguaggio mitico permette di interpretare gli eventi narrati nella Scrittura come

51 Sui riferimenti gioachimiti in G. Vattimo rimandiamo a M. Mantovani, Gioacchino da Fiore nel

pensiero di Gianni Vattimo, in “Florensia”, XVIII-XIX (2004/2005), pp. 97-122.

52 Ivi, p. 110.

53 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 61.

54 Id., Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, p. 40. Il

riferimento a Gioacchino viene da Vattimo preso dall'opera di Henri de Lubac, La posterità spirituale di

Gioacchino da Fiore, 2 Voll., Jaca Book, Milano 1980-1983. In particolare, l'eredità spirituale

gioachimita in Novalis, Schelling, Schleiermacher.

55 G. Vattimo, Credere di Credere, cit. p. 62.

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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i

credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

narrazione di eventi storici che avvengono nella contingenza dei “tempi moderni” senza

pretesa di verità, in Gioacchino egli rintraccia, con le dovute distanze dal suo

“letteralismo profetico”,56 la prima formulazione della rivelazione come evento storico

che continua a tracciarsi nella storia per opera dello Spirito Santo. Esso permette così di

non arrestarsi ad una conoscenza “oggettiva” della Scrittura, quanto di giungere ad una

comprensione più piena e perfetta, sulla base di una esegesi figurale di fatti passati che

indica la storia della salvezza come una «profezia rivolta al futuro»:57

Ciò che mi sembra valido del suo insegnamento, proprio dal punto di vista della filosofia

che si colloca oltre la metafisica, è l’idea di una storia della salvezza che accade oggi come

spiritualizzazione del cristianesimo - Si tratta dunque di chiarire il nesso tra

spiritualizzazione e indebolimento, da un lato, e di mostrare dall’altro, che la nostra cultura

attuale manifesta segni riconoscibili di una trasformazione che si lascia interpretare appunto

in quei termini.58

Rintracciamo allora nel riferimento al pensiero gioachimita proprio lo scopo che

abbiamo visto caratterizzare l'ontologia debole: «preparare la manifestazione delle

chances ultra- o post-metafisiche della tecnologia planetaria […] per la via di una

accettazione-convalescenza-distorsione che non ha più nulla dell’oltrepassamento

critico caratteristico della modernità […] di un nuovo, debolmente nuovo,

cominciamento».59 E ciò attraverso una prospettiva che si radica in una «storia di

salvezza in quanto vicenda che prepara il trasferimento del reale sul piano delle qualità

secondarie, dello spirituale, dell’ornamentale; potremmo persino aggiungere, forse, del

virtuale».60 Una salvezza che però chiama in causa una spiritualizzazione che potrebbe

56 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 33.

57 Ivi, p. 33.

58 Ivi, p. 48.

59 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 19982, pp. 188-189. Cfr. Id., Dopo la cristianità,

cit., p. 59: « l'umanità dispone delle possibilità (tecniche, concettuali, politiche, materiali eccetera) per

cominciare a realizzare il regno del senso».

60 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 56.

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apparire facile e moralmente disimpegnata, essendo l'ideale della salvezza prefigurata

«intensamente connotato in senso estetico e poetico».61 Ma, continua Vattimo

queste connotazioni sono le uniche che possono riempire la figura, altrimenti vuota, della

“conclusione” della vicenda umana, comunque questa conclusione si voglia immaginare:

sia, cioè, che la si pensi come télos dell'emancipazione che dà senso alla vita di ognuno di

noi pensata entro gli invalicabili limiti della nascita e della morte terrene, sia che la si pensi

come una condizione che si attuerà nella vita eterna dopo la morte. Anche in questo

secondo caso - così ha insegnato Gioacchino e così anche pensa la (mia) filosofia - la

salvezza deve cominciare nell'al di qua, altrimenti tutta la storia della sua preparazione

perderebbe di senso, il gioco sarebbe affidato ad una divinità trascendente

indipendentemente dalla nostra capacità di rapporto - della quale, dunque, sarebbe meglio

non parlare nemmeno.62

L'idea che si debba fruire esteticamente dei significati è da una parte la nota

denuncia della fine della metafisica, dall'altra la possibilità di interpretare la continuità

tra storia sacra e storia profana. Riprendendo e rimodulando la prospettiva filosofica

rortyana, Vattimo sostiene che senza la carità non si potrebbe spiegare la democrazia,

l'orrore per la guerra, la distinzione tra pubblico e privato:

stiamo vivendo nell'età dello Spirito. Vale a dire, viviamo in un'epoca che attraverso la

scienza e la tecnologia può fare a meno della metafisica e del Dio metafisico, in un'epoca

nichilista. Un'epoca in cui la nostra religiosità può svilupparsi finalmente nella forma di una

carità che non dipenda più dalla verità. Non c'è più alcuna ragione di dire che “amicus Plato

sed magis amica veritas” – il principio sulla base del quale la Chiesa (le Chiese) in passato

uccise gli eretici di ogni tipo. Non c'è (non ci dovrebbe essere) altro che carità, accoglienza,

verso l'altro.63

61 Ivi, p. 58.

62 Ibidem.

63 Id., Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, p. 69.

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4. Il costruirsi della verità tra tolleranza e convivenza

In sintesi, il cristianesimo che ha in mente Vattimo è un cristianesimo attento al

contesto storico in cui si dispiega, in cui la salvezza deve essere storicizzata e

interpretata; in cui ognuno ha una provenienza, all'interno della storicità in cui si trova

“gettato”, e ha il compito di costruire la salvezza. In tal senso la secolarizzazione

assume quel valore di positività proprio di una «prosecuzione e interpretazione de-

sacralizzante del messaggio biblico»,64 che origina dal ventre stesso del cristianesimo,

tanto perché «l'ermeneutica come filosofia dell'interpretazione poteva sorgere solo

nell'ambito della tradizione ebraico-cristiana»,65 rimanendone però profondamente

segnata, quanto e più profondamente per il fatto che con l'incarnazione l'indebolimento

è continuato con l'attenzione al soggetto moderno (di Cartesio, Kant e Hegel) che si è

separato sempre più da Dio e dalla religione “al di fuori dei limiti della ragione”,

secolarizzandone il messaggio.66

L’attenzione di Vattimo si dirige su ciò che la religione ritiene di pensare, ma

egli non si interessa semplicemente di valutare se confutarla o accettarla. Egli pone in

essere una sfida di grande urgenza. La religione si mostra come un tema non palpabile,

in quanto si adatta alle labilità della società, richiamando con questa sua

indeterminatezza di confini una necessità di definizione e affermazione identitaria che

porta all'opposizione e scontro tra da una parte gli assolutismi religiosi fondamentalisti e

dall'altra un ateismo slavato che si è accompagnato alla fine di tutte le grandi narrazioni

legittimanti sistemi metafisici, etici, politici.

A questo riguardo ne segue la possibilità di quella che Vattimo indica come una

nuova idea di cristianesimo, che non faccia più riferimento al senso di colpa e

all'esperienza della morte, come abbiamo visto, ma alla carità, quella carità alla base del

64 Id., Credere di credere, cit., p. 34.

65 Id., La traccia della traccia, cit., p. 84. Cfr. Id., Storia della salvezza, storia dell'interpretazione, in

“Micromega”, 3 (1992), pp. 105-12.

66 Cfr. Id., Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari

1994, p. 62.

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bisogno di perdono. Sul piano del rapporto tra filosofia e religione, questo aspetto si

rivela prolifico perché tematizza in termini differenti il problema della tradizione del

significato che assume valore nei termini della sua possibile interpretazione rivolta ad

una praxis etica.

La desacralizzazione pone come unico limite alla secolarizzazione come deriva

infinita, l'atteggiamento caritatevole verso il prossimo,67 atteggiamento alla base di un

cristianesimo dell'amicizia unito nello Spirito, ripreso poi da Vattimo come espressione

della nuova forma del cristianesimo.68 Il che pone in essere una distinzione tra il

cristianesimo e la sua realizzazione storica, la cristianità.

La proposta vattimiana è infatti, in ultima istanza, quella di reintrodurre il

pensiero cristiano all’interno dello studio della filosofia alla luce, però, di una rilettura

teologica sui generis, che ne evidenzi sia la dimensione storica della trinità che la

possibilità di una prospettiva in cui la presenza divina sia più personale e meno

trascendente.

Se si cerca di considerare la possibilità che Vattimo cerca di aprire, la questione

principale che ha voluto portare all'attenzione è quella del passaggio dal contenuto

logico (debole) alla praxis della fede. Per Vattimo la parola del filosofo, così come

quella del credente, è la sua praxis. E la praxis si ha nella dimensione etica che trova il

suo campo di azione nella visione liberale che alla mentalità metafisica esplicitamente

razionalista sostituisce un soggetto che non si prende così drammaticamente sul serio.

Questo aspetto si richiama esplicitamente alla prospettiva che Vattimo condivide

con il neo-pragmatista americano Richard Rorty, il quale, assumendo che la

strutturazione dell'esperienza umana sia ineludibilmente mediata dal linguaggio, indica

l'ermeneutica come unica via per far fronte all'incommensurabilità di discorsi di cui

67 Id., Credere di credere, cit., p. 27.

68 Come scrive Mantovani: «Per il nostro Autore una fede concepita metafisicamente, un Credo e un

debes forti e non rivisitati secondo l’interpretazione debolistica dell’essere e secondo il principio della

carità, non hanno più spazio in una religiosità autentica: il vero cristianesimo si può porre, in questo

senso, come non religioso» (M. Mantovani, Gioacchino da Fiore nel pensiero di Gianni Vattimo, cit., p.

103).

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l'epistemologia non riesce a rendere conto.69 Secondo Rorty, infatti,

Non c’è ragione metafisica in base alla quale gli uomini debbano essere capaci di dire delle

cose incommensurabili, né alcuna garanzia che essi continuino a farlo. È solo per la nostra

buona (da un punto di vista ermeneutico) o cattiva fortuna (da un punto di vista

epistemologico) che essi hanno fatto questo nel passato.70

L'ermeneutica non è quindi un modo differente di conoscere, quanto un modo di

«cavarsela» dopo che la pretesa epistemologica di conoscere il mondo “così come si dà”

ha mostrato i suoi limiti e l'impossibilità di raggiungere il proprio scopo.71 L'attività

ermeneutica si inserisce come «tentativo di edificare (noi stessi o altri)», «operando

connessioni tra la nostra propria cultura e qualche cultura esotica o un qualche periodo

storico, oppure tra la nostra disciplina e un’altra disciplina che sembri perseguire scopi

incommensurabili in un vocabolario incommensurabile». Il discorso edificante ci

trarrebbe «fuori dai nostri vecchi io con la forza dell'estraneità», aiutandoci a diventare

«degli esseri nuovi».72 Ciò comporta un nuovo atteggiamento da parte del soggetto post-

metafisico che si relaziona con il mondo e con Dio, un atteggiamento liberale e ironico,

perennemente in dubbio sulle credenze su se stesso e sul mondo che il vocabolario di

cui si dispone, il linguaggio in cui il soggetto fa parte e di cui è parte, costruisce,

consapevole che i propri dubbi non possono essere risolti da argomenti formulati con il

69 Rorty distingue tra l'epistemologia che si occupa del commensurabile attraverso quello che Kuhn ha

definito discorso sul normale, e l'ermeneutica che si occupa invece dell'incommensurabile servendosi del

discorso sull'anormale. Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.

70 R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004, p. 695.

71 Ivi, p. 713: «Sarebbe un bel guadagno per la chiarezza filosofica se già avessimo consegnato la

nozione di 'conoscenza' (cognition) alla scienza predittiva, e avessimo smesso di preoccuparci dei 'metodi

di conoscenza alternativi'. Non varrebbe la pena di combattere sulla parola conoscenza (knowledge), se

non fosse per la tradizione kantiana secondo cui essere un filosofo significa disporre di una 'teoria della

conoscenza', e per la tradizione platonica secondo cui è ‘irrazionale’ l’azione che non si basa sulla

conoscenza della verità delle proposizioni.»

72 Ivi, p. 721.

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vocabolario a disposizione e che considera non possibile rintracciare un vocabolario che

sia più universale degli altri.73 Così, anche la figura di Dio va accettata per l'influenza

storica che ha avuto e va riconsiderata con ironia, ovvero con quel distacco che permette

di non prendere come definitiva e ultima la propria posizione, la propria cultura, il

proprio vocabolario – a questo riguardo paradigmatica è l'affermazione di Vattimo:

«non crediamo al Vangelo perché sappiamo che Cristo è risorto, ma crediamo che Cristo

sia risorto perché lo leggiamo nel Vangelo».74 La religione non deve quindi rientrare

nell'arena epistemica ed anzi, essa può assumere valore al giorno d'oggi solo se si

mostra indifferente alla controversia tra teismo e ateismo.75

A differenza di Rorty, però, il quale si dichiara ateo, sebbene non nel senso di

negare alla credenza nel divino il valore di una ipotesi empirica che troverebbe la sua

confutazione nella migliore spiegazione scientifica dei fenomeni, quanto nel senso di un

rifiuto di ingerenze ecclesiastiche nelle scelte politiche,76 e che rintraccia il mutamento

73 Rorty, che si muove da una tradizione analitica, indica nei nostri enunciati sui fatti e gli oggetti delle

nostre esperienze ciò che conta realmente. Non è possibile infatti uscire dai differenti linguaggi che sono

dati dalle tradizioni e sono quindi contingenti e connessi ad una certa condizione storica. Egli rintraccia

nel modello narrativo il processo di autodescrizione che pone in essere una richiesta di riconoscimento da

parte degli altri. La descrizione si sostituisce all'inferenza propria dell'argomentazione logica, e attraverso

il confronto di differenti final vocabolaries, l'insieme di espressioni che producono effetti pratici e non

“mezzi trasparenti” per rappresentare la realtà, permette di applicare il metodo che consiste nel

“ridescrivere gruppi di oggetti o eventi con un gergo pieno di neologismi, nella speranza che gli altri

siano spinti ad adottarlo e ampliarlo”. La ridescrizione di noi stessi consiste così nel confrontare i

differenti final vocabularies di altri autori al fine di costruirci un'identità che sia il migliore possibile. Cfr.

R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari 1990. Cfr.

R. M. Calcaterra, The Linguistic World: Rorty's Aesthetic Meliorism, in L. Koczanowicz (ed.), Beauty,

Responsibility, and Politics. Ethical and Political Concequences of Pragmatist Aesthetics, Rodopi, New

York-Amsterdam, March 2014, pp. 93-109.

74 G. Vattimo, L'età dell'interpretazione, in R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione. Carità, ironia

e solidarietà, Garzanti, Milano 2005, p. 52.

75 R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, in R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione, cit., p. 40; 44.

76 Rorty considera infatti le istituzioni ecclesiastiche dannose per le società democratiche, prediligendo

l'idea di una privatezza dell'esperienza religiosa. Cfr. R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, cit., p. 37.

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storico decisivo negli eventi accaduti nel tardo Diciottesimo secolo,77 Vattimo indica

nell'evento storico dell'incarnazione il passaggio decisivo che porta ad assimilare il

bisogno di perdono con ciò che potremmo chiamare, in termini rortyani, la ricerca di un

vocabolario della “trascendenza”, ovvero un “supplemento” trascendente – «che è

insieme desiderio di rispondere alla domanda dell'altro, e appello a una trascendenza

capace di colmare l'insufficienza delle nostre risposte» – e che è allo stesso tempo il

richiamo alle tre virtù teologali della tradizione cristiana – la fede, la speranza e la

carità. Se il senso del sacro per Rorty può risiedere solo nel futuro, nella speranza di

«una civiltà globale in cui l'amore sarà senza sforzo la sola legge»,78 per Vattimo

perdono, morte e dolore, preghiera sono modi di esperire «una “appartenenza” che è

anche provenienza e, in qualche senso che è difficile precisare ma che sperimentiamo

nella stessa esperienza del ritorno, deiettività»,79 ovvero come recupero di una

condizione perduta.

In breve, per quanto accolga l'idea di una fede debole come individuale, Vattimo

rintraccia nel messaggio cristiano il senso redentivo, e sebbene lo interpreti come

dissoluzione delle pretese della oggettività,80 indica crocianamente nell'esplicita

assunzione della nostra storicità cristiana la possibilità di dar conto della nostra

condizione esistenziale storica e concreta. L'idea “non possiamo non dirci cristiani”

mostra, nella condizione storica odierna, dopo il dissolvimento delle metanarrazioni e la

demitizzazione di ogni autorità veritativa e politico-emancipativa, che «la nostra unica

possibilità di sopravvivenza umana è riposta nel precetto cristiano della carità».81

Credere che si crede assume quindi nel credente Vattimo la disposizione di chi,

nonostante le contingenze storiche imperniate di ateismo indifferentista, si affida alla

77 Ovvero nella coincidenza tra rivoluzione francese e movimento romantico, quando gli intellettuali

«incominciarono a discutere del potere dell'immaginazione umana». R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della

religione, cit., p. 70.

78 Ivi, pp. 44-45.

79 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 84.

80 Cfr. G. Vattimo, L'età dell'interpretazione, cit., p. 53.

81 Ivi, p 57.

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fede, e proprio per questo suo affidarsi si attiva quotidianamente alla storia della

salvezza e della rivelazione, dedicandosi agli altri e attuando un'etica del rispetto e della

solidarietà. Potremmo parlare della sua espressione di fede come di una sorta di “etica

caritatevole del discorso”, che attraverso la speranza di poter credere in un'epoca priva

di fondamenti certi, permetta di accogliere un atteggiamento pluralista, multiculturalista

e contengentista come unico approccio alla verità di fede e di azione. Vattimo è per così

dire un cristiano “comunitario” (più che “comunitarista”), che accoglie una concezione

del sive del rapporto tra cristianità e Occidente: esse si coappartengono e conservano gli

elementi costitutivi dell'Occidente e della modernità.82

La sfida che egli pone sembra allora quella di intendere la debolezza divina e

ontologica come giustificazione della “tolleranza”, come ciò che, prima di ogni forma di

accettazione, richiede una apertura all'Altro. La fede vattimiana sembra una fede

riflettente, che permette di comprendere l'altro attraverso la mediazione dello spirito.

Come scrive Derrida:

«il concetto di tolleranza, strictu sensu, appartiene anzitutto a una sorta di domesticità

cristiana. È letteralmente, intendo, con questo nome, un segreto della comunità cristiana. È

stato coniato, emesso e posto in circolazione in nome della fede cristiana […]. La lezione

di tolleranza è stata anzitutto una lezione esemplare che il cristiano pensava di poter dare

lui solo al mondo, anche se spoesso doveva imparare a capirla lui steso. Sotto questo

aspetto, tanto l'Aufklärung quanto i Lumières sono stati di essenza cristiana.83

Si tratta di una tolleranza, radicata nella debolezza, che rispetta l'alterità come

singolarità, e tale rispetto viene così inteso come religio, legame, scrupolo, ritegno,

distanza, disgiunzione.84

Suo scopo è quello di concentrarsi «sulla possibilità di costruire un'etica fondata

82 Cfr. Id., Dopo la cristianità, cit., pp. 75-88.

83 J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in J. Derrida

e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit., pp. 23-24.

84 Ivi, p. 25.

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sull'accordo tra individui diversi»,85 basata su un politeismo di valori, come

«tradizionalisti multiculturali».86 Ciò significa riferirsi alla tradizione in cui stiamo,

considerando però la tradizione come tutto l'insieme di cose all'interno delle quali

compiamo le nostre scelte in base non ad un criterio di verità assoluta ma in base alla

carità: «scelgo soprattutto quelle interpretazioni e quelle soluzioni che mi permettono di

guardare l'altro senza vergognarmi».87

Egli interpreta il messaggio cristiano della carità come la base per una società

della tolleranza, nella quale il nostro atteggiamento nei confronti del prossimo si basa

non su di una descrizione oggettiva della sua o mia natura umana «ma perché l'ho

ricevuto come un valore che risulta dalla tradizione in cui mi trovo, in una serie di

insegnamenti che remotamente risalgono fino a Gesù Cristo».88 Da qui allora la

possibile interpretazione del pensiero debole come pensiero dei deboli.

Vattimo propone così la possibilità di costruire un pensiero etico che non sia

scoperto o accettato, ma che sia il frutto di una prospettiva consensualistica, fondata

sulla negoziazione, la cui origine egli riconduce proprio alla religione cristiana:

soltanto grazie al fatto che il cristianesimo mi ha liberato da tutti gli idoli, ed anzi dall'idolo

della verità e oggettività, posso iniziare a dare ascolto con attenzione alle esigenze degli

altri, del mio prossimo, al politeismo dei valori […] Il cristianesimo ci ha insegnato infatti

che la verità senza la carità non ha senso. Così, quando penso che devo amare il mio

prossimo, non credo che questo dovere corrisponda a una proposizione conoscitiva, alla

quale aderire perché è scritto da qualche parte, ma anzitutto un insegnamento, o un invito,

che mi proviene da qualche parte, da qualcuno. […] Devo amare il prossimo perché sono

stato a mia volta amato, e ciò coincide semplicemente con il mio trovarmi “gettato” in un

orizzonte storico-destinale, come direbbe Heidegger, al di fuori del quale non posso

nemmeno pensare la mia esperienza, e che mi fa preferire determinati criteri e modi di

85 Id., Una bioetica post-metafisica, in D. Antiseri, G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa

nell'era postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 8.

86 Ivi, p. 9.

87 Ibidem.

88 Ivi, p. 10.

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comportamento rispetto ad altri.89

Ma una società in cui il dibattito e il consenso assumono valore di costruzione

dell'eticità non può che porsi il problema della formalizzazione razionale di questa

apertura. Il riferimento ovviamente è qui ad Habermas e alla sua “etica del discorso”.

Perchè il problema è, come ha ben presente Vattimo, capire se, posta la carità come

principio di ogni possibile confronto per la costruzione di un pensiero etico, quindi

come apertura all'accoglienza delle ragioni dell'altro, la questione rimane se i codici che

rispettino tale principio siano frutto di accordi, di convenzioni, e quindi di una

dimensione della razionalità, o se si radichino in qualcosa di più profondo, in una

“provenienza” più, per così dire, fondamentale e fondazionale. Forse è in questa

prospettiva maggiormente comprensibile l'ambiguità vattimiana del “credere di

credere”, in cui il primo credere assume il valore di un opinare con un certo margine di

incertezza, e il secondo della convinzione e della fede.90 Secondo Vattimo, il fatto è che,

una volta acquisito il principio del rispetto reciproco, tutto il resto assume valore di

convenzione e può diventare oggetto di uno storico consenso di retorica sociale.

Questa posizione si rivela in parte problematica perché il principio del rispetto

chiama in causa il principio della libertà, un principio che può essere (ed è stato) spesso

strumentalizzato. Cosa si deve intendere per libertà? “Libertà da” ogni costrizione e

legame? O piuttosto “libertà di” scegliere in piena facoltà? E in che modo la “libertà da”

ogni costrizione è realmente libertà? Ma soprattutto, è possibile una “libertà da”

costrizioni nel momento in cui accettiamo il fatto di essere “gettati” in un contesto

storico, sociale, culturale precostituito? Non è forse, la “libertà da”, un'idea che radica la

propria giustificazione nella tendenza di assolutizzazione e radicalizzazione delle

categorie concettuali? Non è forse anche la “libertà da” un residuo di una prospettiva

che trova la propria legittimazione in metanarrazioni ideologiche (penso in particolare

qui all'ideologia neo-liberista odierna)? E se parliamo di “libertà di” scegliere per sé,

89 Ivi, p. 11-12.

90 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 5.

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proprio perché non vi è una libertà che possa essere completamente staccata da

condizionamenti, in che modo è possibile scegliere per se stessi? Vattimo si richiama a

MacIntyre per sostenere che la vita buona è quella in cui posso decidere che cos'è per

me la vita buona. Ma, mi chiedo, non devo anche essere in grado di decidere, e per

essere in grado non devo forse avere gli strumenti per poter valutare, discernere,

scegliere in autonomia e in piena facoltà? E per decidere in autonomia e piena facoltà

non devo innanzitutto poter vivere dignitosamente, ovvero avere la possibilità di

formare adeguatamente le mie capacità di discernere, capire innanzitutto cosa significa

“vita buona” e quindi valutare ciò che può essere la vita buona per me (senza magari

venire subdolamente condizionato da messaggi “subliminali”)? Devo, in altre parole,

essere educato al riflettere e allo scegliere,91 e questo è possibile solo attraverso la

91 Come ha notato Christopher Lasch, nella società consumistica la riduzione della scelta a questione di

“gusto” nell'immediato ha portato a fraintendere la libertà di scelta al mantenersi aperta la libertà di

scelta: in tal modo si giunge a screditare l'idea di conseguenze e responsabilità per le proprie scelte e in

ultima istanza ad una astensione dalla scelta stessa perché basata su una scelta immediata che si

“consuma” nell'immediato: «Se non implica la possibilità di stabilire una differenza, di mutare il corso

delle cose, di dare il via a una catena di eventi che potrà anche risultare irreversibile, l'idea di scelta nega

la libertà che pretende di sostenere». (C. Lasch, L'io minimo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 24). Nel suo

romanzo magistrale, Infinite Jest, David Foster Wallace scriveva: «Qualcuno che aveva autorità, oppure

avrebbe dovuto avere autorità e non l’ha esercitata [...] in un tempo passato vi ha fatto dimenticare come

scegliere, e cosa. Qualcuno ha fatto dimenticare al tuo popolo che era l’unica cosa importante, scegliere.

[...] Qualcuno ha insegnato che i templi sono per i fanatici solamente e ha portato via i templi e ha

promesso che non c’era necessità per i templi. E adesso non c’è rifugio. E niente mappa per trovare il

rifugio di un tempio. E tutti voi incespicate nel buio, in questa confusione fatta di permissività. La ricerca

senza fine di una felicità della quale qualcuno vi ha fatto dimenticare le vecchie cose che erano quella

felicità e la rendevano possibile. [...] La vostra libertà è libertà-da [...] è una libertà dalla costrizione e

dall’imposizione. [...] [Ma] Non si è solo liberi-da. Non tutti gli obblighi vengono dall’esterno. Voi

fingete di non vedere questo. Dov’è la libertà-di. Come fa la persona a scegliere liberamente? Come

scegliere qualcosa di diverso dalle scelte ingorde dei bambini se non c’è un padre pieno di amore a

guidare, informare, insegnare alla persona come scegliere? Come ci può essere libertà di scegliere se non

si impara come scegliere? [...] Il padre ricco che si può permettere sia le caramelle sia il cibo per i suoi

figli: ma se lui strilla “Libertà!” e permette al suo bambino di scegliere solamente quello che è dolce, di

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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i

credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.

promozione della capacità di esercitare il pensiero critico, di valutare ciò che è possibile

fare e ciò che è ammissibile nel rispetto altrui. Su questo aspetto possiamo forse

rintracciare un punto di convergenza con la distinzione vattimiana dei tre significati del

verbo potere: il koennen tedesco, ovvero l'essere capaci di fare; il dürfen, ciò che è

eticamente possibile; e ciò che è ammissibile consensualmente nel contesto umano in

cui viviamo e che comporta la dimensione morale dell'agire secondo il principio del

rispetto dell'altro. Il rischio, a mio avviso, è una estremizzazione di quest'ultimo

significato, una possibilità alla quale Vattimo sembra non porre adeguata attenzione.

Qui si radica a mio avviso la questione della capacità di esercitare la “libertà di”

scegliere ciò che è la vita buona per me. La questione rimane dal mio punto di vista

ancora aperta e richiede forse una valutazione anche della dimensione sociale, di quella

psicologica, biografica, narrativa, di ontogenesi della capacità critica. Chi ha la

coscienza di decidere, di riflettere, di discernere, deve essere lasciato libero di decidere,

ma deve anche essere messo nelle condizioni di poter decidere liberamente. Vale allora

qui la domanda che anche Mauro Mantovani muove a Vattimo e all'opposizione che egli

evidenzia tra verità e libertà, ovvero tra dimensione della conoscenza e dimensione

dell'agire:

perché la verità dovrebbe costituire un grave ostacolo per la libertà? È proprio così fondata

la loro divaricazione, tanto che dall’orizzonte della conoscenza e dell’essere sembra deve

scomparire il valore della verità mentre nell’orizzonte dell’agire umano la libertà è tale solo

se sganciata dalle “pesanti catene” (dogmatiche) della morale?.92

Mantovani sostiene, a mio avviso a ragione, che senza la verità, «la stessa

autentica libertà viene compromessa, perché la loro saldatura ontologica ed etica

mangiare solo caramelle e non la zuppa di piselli e il pane e le uova, allora suo figlio diventa debole e

malato: e l’uomo ricco che strilla “Libertà!” è un buon padre?» (D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi

2006, pp. 383-84).

92 M. Mantovani, op. cit., p. 115.

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permane come fondamentale e – se rettamente intesa – irrinunciabile».93 Ed è

assolutamente condivisibile la critica, che Mantovani condivide con Armando Matteo,

che l'ipervalutazione “formale” dell’amore, come principio su cui fondare serenamente

qualsiasi codice etico, tenda a trasformarlo in un puro principio disincarnato e

disincarnante.94 Su questa linea, anche Girard, che con la sua opera ha permesso a

Vattimo «di capire l'essenza eventuale e storico-progressiva del Cristianesimo e della

modernità»,95 non condivide l'idea vattimiana che sia possibile vivere in un mondo di

verità relative eliminando al contempo le ansie e le nevrosi che caratterizzano il nostro

tempo.96 Girard non riesce ad accettare l'idea che la storia della rivelazione abbia avuto

un cammino lineare, progressivo e soprattutto che abbia una prospettiva positiva del

proprio corso, così come la indica Vattimo. Il cristianesimo è sì creativo, sostiene

l'antropologo francese, ma tale creatività è tanto liberatoria quanto distruttrice: «Quando

per mezzo del Cristianesimo ci si sbarazza del sacro, vi è una salvifica apertura

all'agape, alla carità, ma c'è anche una apertura a una possibile violenza superiore».97

Una volta che il meccanismo sacrificale è stato messo in crisi e superato, una nuova fase

storica si apre, che pone in essere una ricerca in cui la storia stessa diventa terreno di

sperimentazione per nuovi meccanismi di equilibrio; da qui l'ideologia democratica, la

tecnologia, il capitalismo, la società mass-mediatica, la mercificazione della natura

umana. Ma se al giorno d'oggi ci troviamo ad affrontare un terrorismo che è riuscito a

portare delle persone a sconfiggere e neutralizzare le tecnologie più sofisticate per

uccidere degli innocenti, «allora dobbiamo renderci conto che ci troviamo in un mondo

93 Ivi, p. 116.

94 Ivi, p. 120. Cfr. A. Matteo. Della fede dei laici. Il cristianesimo di fronte alla mentalità postmoderna,

Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p. 96.

95 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa,

Massa 2006, p. 7.

96 Cfr. P. Antonello, Introduzione, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su

cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Massa 2006, p. xv.

97 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, cit., p. 13.

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aperto a possibilità che prima non c'erano»,98 e che evidenziano i rischi di una

prospettiva di abbandono di riferimenti sicuri e certi rispetto alla contingenza e relatività

delle esistenze singole.99

Condividendo tali critiche, credo sia comunque possibile affrontare la questione

della verità e libertà da una prospettiva leggermente diversa, che ci permetta di

accogliere un'idea di verità inclusiva di differenti prospettive. Non si tratta, ben inteso,

di appoggiare una visione relativistica. Si tratta piuttosto di porre in luce la questione

della verità salvaguardandola da derive autoritaristiche strumentalizzanti sul piano

etico-politico in tutti i sensi. Questa è forse la preoccupazione maggiore di coloro che

con Vattimo hanno voluto negare una nozione troppo forte e rigida di “verità” (penso ad

esempio a Richard Rorty o a Jean-François Lyotard), senza però porre adeguata

attenzione al rischio di una strumentalizzazione parimenti assolutista di posizioni anti-

veritative. Ma se tale negazione viene interpretata come una minaccia sul piano

ontologico e gnoseologico, spostando la prospettiva su di un piano etico essa può

assumere un valore differente, poiché sposta l'attenzione dalla dimensione della

conoscenza a quella dell'agire. Mi rendo conto che può sembrare un tentativo di difesa

della posizione vattimiana. In realtà ciò che cerco di evidenziare è il modo in cui essa

chiama ad una azione, contro la re-azione che segue all'accettare un sistema

rassicurante. La proposta di Vattimo di entrare nella Babele del pluralismo postmoderno

e farsi portatore dell'idea di laicità da parte del cristianesimo, si dimostra non accettabile

98 Ivi, p. 23.

99 A queste critiche va aggiunta anche quella avanzata da Berti, il quale rintraccia in Vattimo una

interpretazione riduttiva del cristianesimo che mette in luce solo una parte del messaggio, ovvero quello

dell'assunzione della natura umana di Dio, dimenticando che così facendo Egli non perde la sua natura

divina. Come nota Berti al riguardo: «se Cristo non fosse più Dio, quale valore avrebbe la sua amicizia

per noi, cioè in quele modo questa ci potrebbe salvare?». E. Berti, Credere di credere: l'interpretazione

del cristianesimo di G. Vattimo, in «Studia patavina», LXIV, 2 (1997), p. 63. Berti evidenzia inoltre come

nell'ammissione di Vattimo del sentimento di dipendenza da Dio implica l'accettazione di un principio

trascendente riconducibile alla metafisica (Ivi, p. 65).

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nel momento in cui interpreta il carattere chenotico come relativista,100 poiché così

facendo egli rende l'incarnazione il simbolo non tanto della negazione della soggettività

forte, quanto di una riduzione ad una soggettività inesistente, incapace di giungere ad

una prospettiva veritativa sulla realtà. Ma se si potesse interpretare, dalla stessa

prospettiva laica che propone Vattimo, il carattere chenotico in termini di un pluralismo

di prospettive anziché di relativismo, questo forse potrebbe aiutare ad accogliere una

visione che, perdendo elementi di superstizione, non elimina l'idea di una fede come

“prospettiva” oggettiva composta da vari punti di vista. Si tratta quindi di fare appello

non tanto all'abbandono della propria fede, né ad una esperienza del “noi” che la

comunità cristiana vive, un noi che richiama un'idea di identità che, come deve

ammettere lo stesso Vattimo, è un rischio che «ogni discorso non puramente intimistico

e solipsistico deve affrontare, anche quando pretenda di parlare in termini puramente

empiristici»,101 quanto di rendere tale identità comprensibile, fruibile da chi non rientra

in questo “noi”, attraverso un nuovo paradigma linguistico.

Limitare il campo delle pretese veritative significa accettare la natura fallibile

dell'uomo nella ricerca della verità e lasciare spazio al campo dell'agire comunicativo,

senza abbandonare le proprie credenze, ma rendendole disponibili ad una pratica del

confronto nell'esercizio delle libertà proprie ed altrui.102 Non si tratta qui di una

religiosità “morbida” dei cattolici dell'Europa meridionale, come contrapposta a quella

che ispirò la Riforma protestante.103 Ovviamente, serve avere una direzione, una

100 G. Vattimo, Addio alla verità, cit., p. 58.

101 Ivi, p. 59.

102 Cfr. A. Matteo, Della fede dei laici, cit., pp. 159-160: «L'essere umano è caratterizzato

fondamentalmente dalla libertà e dalla storicità, che insieme dicono il carattere drammatico della sua

esistenza […] vivere significa decidere, ovvero lasciar cadere alcune possibilità a favore di quella per la

quale io rischio la mia esistenza in una perenne tensione verso il domani e nella continua frizione che si

crea nell'intreccio delle libertà mia e di coloro che mi sono di fatto accanto. […] L'esistenza cristiana si

configura essenzialmente come partecipazione alla libertà e alla dimensionalità del vivere di Cristo:

tensione feconda tra prossimità a Dio, riconosciuto come Abbà, e vicinanza concreta ai fratelli e alle

sorelle.»

103 Cfr. G. Vattimo, Addio alla verità, cit., p. 63.

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formazione, una capacità di discernimento, ma tale conoscenza deriva dallo stimolare la

capacità critica dell'uomo, stimolarlo ad usare la propria coscienza per discernere,

valutare le conseguenze delle proprie scelte, assumere la responsabilità di esse e

apprendere a darne ragione.104 È infatti assolutamente condivisibile l'idea che la

multiculturalità non possa sussistere senza punti di orientamento a partire dai valori

acquisiti nel contesto culturale e sociale di riferimento. Così come è condivisibile l'idea

che tra i valori del cristiano ci sia una coincidenza tra amore e verità, tra riabilitazione

del debole, della vittima, direbbe Girard, e la verità che tale riabilitazione come un

volano alimenta: la responsabilità di ognuno, in quanto essere sociale, per le

conseguenze delle proprie scelte nei confronti propri e degli altri.105

Potremmo allora tentare una possibile lettura postmoderna della caritas cristiana

alla luce dell'idea rortyana (evitando però tutto il suo impianto ateistico) di carità intesa

come la tendenza ad accogliere l'esperienza altrui e farla propria, esperienza intesa in

questo senso come l'insieme delle pratiche esercitate dagli altri e apprese attraverso la

partecipazione alla vita comune (e qui nuovamente la nozione di mimesis viene in

soccorso).106 D'altronde, anche nella tradizione filosofica analitica autori come Quine e

soprattutto Davidson hanno indicato nel principle of charity un principio fondamentale

nell'esperienza del dialogo.107 Esso si rivela, come nota Calcaterra, il principio che

permette di riconoscere coloro che parlano un linguaggio differente dal nostro come

«individui dotati di un insieme di credenze, intenzioni, desideri e sentimenti che si

intersecano profondamente nella comunicazione con gli altri».108 Ciò permette di

concepire un piano della comunicazione in cui assumono rilevanza i sentimenti umani,

104 Su questo punto cfr. R. M. Calcaterra, Individuale, sociale, solidale: dissonanze e armonie, in Id. (a

cura di), Semiotica e fenomenologia del sé, Nino Aragno, Torino 2005.

105 Cfr. C. Larmore, Pratiche dell'io, Meltemi, Roma 2006.

106 R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione, cit., p. 64.

107 Cfr. W. V. O. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 77 ss.; D. Davidson, Verità e

interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 19-94.

108 R. M. Calcaterra, Individuale, sociale, solidale: dissonanze e armonie, cit., p. 32.

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nella misura in cui ciascuno di noi tende a percepirli come un aspetto imprenscindibile della

propria identità, dunque, cerca di difenderne la validità mettendo in opera quella 'normale'

attitudine degli esseri dotati di pensiero e linguaggio ad attingere a criteri di giustezza

oggettiva e di verità socialmente riconoscibili.109

E questo vale a maggior ragione nel contesto in cui ci muoviamo per quanto

riguarda il sentimento religioso e la difesa della sua validità da parte della persona di

fede nel contesto di formazione dell'opinione e della volontà comune.

5. Conclusione

In Introduzione alla Cristianità, Ratzinger ha evidenziato come la nozione di

schesis (σχέσις), evidenzi il valore rivoluzionario che la nozione di relazione ha assunto

grazie al pensiero trinitario. Inserendo questa idea nella nostra riflessione, potremmo

assumere la nozione di schesis (σχέσις), di relazionalità, come tendenza ad enfatizzare

l'ontologia trinitaria dinanzi alla questione del legame tra l'unità concettuale dell'essere e

la diversità metafisica degli esseri, per evidenziare in particolar modo come la relazione,

la comunione, la persona, siano nozioni che chiamano necessariamente in causa la

dimensione etica della tolleranza e dell'accoglienza.

Alla luce di un mutamento della cultura occidentale, avvenuta a partire dalla

Riforma e dall’Illuminismo, l'accentuazione alla dimensione della relazionalità come

condizione causale e dimensione ineludibile dell'identità, aiuterebbe forse ad affrontare

visioni del mondo estranee attraverso una condivisione della proprie verità, e una loro

rimessa in discussione in base a contesti di dialogo differenti.

L'aspetto interessante che Vattimo evidenzia nella sua riflessione è quello che

indica nella prospettiva cristiana il carattere della debolezza come valore anziché come

difetto, offrendo così un modo di accettazione della natura umana come imperfetta e

relazionale, bisognosa di affidarsi all'Altro, e di promozione di un modello di società

109 Ivi, p. 34.

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che impari ad arginare le pretese assolutistiche e fondazionaliste che guidate da un

ideale di perfezione irraggiungibile nel qui ed ora della condizione esistenziale umana,

alimenta meccanismi di oggettivazione, strumentalizzazione e mercificazione della

natura umana.

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