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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
La fede debole di Gianni Vattimo
Guido Baggio
1. Introduzione
Il rapporto tra fede e filosofia si rivela in Vattimo particolarmente controverso
per la prospettiva ambivalente che egli introduce all'interno della riflessione filosofica e
teologica sulla religione e che, proponendo un nuovo paradigma interpretativo delle
scritture, da un lato stimola ed incalza tanto i credenti quanto gli atei, dall'altro sembra
voler piegare sofisticamente la riflessione a favore di una personale giustificazione della
propria fede.1 Questa ambivalenza dell'interesse di Vattimo per una lettura filosofica del
religioso e per una intepretazione positiva del cristianesimo attraverso il concetto di
“indebolimento” si sviluppa a partire dalla constatazione del fenomeno sociologico
diffuso di un ritorno della religione a seguito di un periodo in cui, dopo il crollo delle
metanarrazioni, all'ateismo dogmatico e ideologico si è andato man mano sostituendo
un ateismo dell'indifferenza.2 La sua proposta teoretica si inserisce quindi in una lettura
1 Rimando al sito ufficiale www.giannivattimo.eu (sett. 2015) per l'approfondimento bio-bibliografico di
Gianni Vattimo e a www.filosofico.net/vattimo.htm (sett. 2015), per le sintesi del suo pensiero e delle sue
opere. Per un primo approccio alla riflessione sul religioso di Gianni Vattimo precedente ai più noti
Credere di credere (1996), di Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (2002) e di Il futuro
della religione. Carità, ironia, solidarietà (2005), è possibile fare riferimento a La traccia della traccia,
un breve saggio presente nel volume Religione, che raccoglie i contributi di un incontro seminariale
tenutosi a Capri tra il 29 febbraio e il 1 marzo 1994 che aveva per tema la rinascita del fenomeno
religioso da riflettere alla luce dello spirito del tempo moderno. Cfr. J. Derrida e G. Vattimo (a cura di),
La religione, Laterza, Roma-Bari 1995.
2 Cfr. H. G. Gadamer, La religione e le religioni, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit.,
pp. 19 ss. Secondo Gadamer l'ateismo indifferentista si radica su un processo sociale in cui
l'industrializazione ha assunto i tratti di una religione dell'economia e le leggi dello sviluppo industriale e
tecnico hanno determinato sempre più il destino dell'uomo, portando con l'aumento della qualità della
vita, oltre ad un atteggiamento di adattamento, anche una perdita dello spirito di servizio, forza vitale di
un sentimento religioso. Sul ritorno del religioso come fenomeno socialogico rimandiamo a F. Crespi,
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
della condizione odierna, tanto socio-culturale quanto filosofica, di dissoluzione delle
categorie concettuali forti della tradizione del pensiero occidentale e di
ridimensionamento del valore positivo della razionalità tecno-scientifica e logica, alla
luce di una prospettiva di superamento dei meccanismi di dominio e dei processi di
legittimazione esercitati dalle autorità sia metafisico-epistemologiche che etico-religiose
ed economico-politiche.3 Il filosofo torinese sottolinea il carattere positivo della
secolarizzazione, carattere che trova la sua espressione teoretica nel nichilismo
nietzscheano e nella critica di Heidegger alla metafisica e al pensiero logico-calcolante,
e che approda nella prospettiva dell'ontologia debole alla valorizzazione di una
ermeneutica del messaggio cristiano come condizione di una nuova fruizione di esso,
più personale, maggiormente aperto ad una praxis pluralista e democratica in quanto
contrapposta ad una visione dogmatica e autoritaria.
Risulta allora possibile comprendere la fede debole di Vattimo e cogliere la sfida
che essa lancia ai credenti e agli atei solo attraverso una riflessione che cerchi di
coinvolgere in un discorso unitario ontologia, etica, religione e fede. Come vedremo
nelle pagine seguenti, infatti, la promozione vattimiana del valore emancipativo del
messaggio cristiano di salvezza come frutto di una continua interpretazione e
ricontestualizzazione deriva dallo stretto intreccio delle questioni etiche e di fede alla
questione ontologica della “verità”. La sua riflessione si muove in tal modo attorno alla
coppia dicotomica verità/credenza, indicando nella credenza tanto l'“opinare” connesso
alla dimensione etica della praxis, quanto l'“affidarsi” nel senso del “dare fiducia”
L'esperienza religiosa nell'età post-moderna, Donzelli, Roma 1997, in part. pp. 11 ss.
3 Articolando l'itinerario speculativo di Gianni Vattimo, Giovanni Giorgio colloca la sua rilettura “debole”
del Cristianesimo nella terza fase, che a partire dagli anni Novanta interessa il nostro Autore in
ripensamenti che portano a radicalizzare la sua ontologia ermeneutica (G. Giorgio, Il pensiero di Gianni
Vattimo. L'emancipazione della metafisica tra dialettica ed ermeneutica, Franco Angeli, Milano 2006). In
particolare, la lettura che Giorgio rintraccia nella radicalizzazione da un'ermeneutica orientata
dialetticamente ad un'ermeneutica orientata in senso nichilistico, il fulcro del suo percorso teoretico. Tale
radicalizzazione trova particolare conferma nella «(dis)torsione nichilistica del Cristianesimo» che trova
«nella categoria di secolarizzazione il suo concetto decisivo» (ivi, p. 245).
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
all'Altro – fede in Cristo – e all'altro – fede nella condivisione comunitaria. Su questo
punto si collega la consapevolezza del binomio riflessione filosofica/religione e la sua
declinazione in ambito etico.
2. Oblio dell'essere e ontologia dell'attualità come condizione di possibilità
di una riflessione sul ritorno della religione
Vattimo interpreta il fenomeno del ritorno del sentimento religioso nella
modalità di una esperienza che implica necessariamente una pratica della riflessione. A
partire dal ritorno della religione come carattere «essenziale dell'esperienza religiosa»,4
egli evidenzia due aspetti alla base di questo ritorno nei suoi modi concreti e nella
riflessione filosofica, aspetti che però non spiegano il fenomeno, rivelandosi solamente
punti di partenza preliminari per una riflessione critica sul suo carattere e valore.
Il primo aspetto indica nel ritorno dell'interesse per la religione il frutto delle
contingenze storico-sociali che caratterizzano il passaggio dall'era moderna all'era
postmoderna e che, seguendo il filosofo torinese, che su questo si affianca al collega
francese Jean-François Lyotard,5 possono essere rintracciati nei rischi globali di una
guerra atomica nel secondo dopoguerra e nella correlata minaccia alla democrazia,6
4 G. Vattimo, La traccia nella traccia, in J. Derrida e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit., p. 76.
5 Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2002; Id., Il postmoderno spiegato ai
bambini, Feltrinelli, Milano 1987. Cfr. Anche G. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondadori, Milano
2007.
6 Dopo la seconda guerra mondiale, la presa di coscienza della capacità autodistruttiva dell’uomo,
espressa nell’utilizzo delle scoperte della tecnoscienza per fini contro l’umanità, lascia la società
completamente destabilizzata. Già Heidegger aveva denunciato proprio questa sensazione di totale
impotenza dinanzi al potere distruttivo del pensiero calcolante che aveva portato a immaginare e ideare la
bomba atomica: «Nessun singolo uomo, – scriveva Heidegger nel 1955 – nessun gruppo di uomini,
nessuna commissione, per quanto composta dai più eminenti tra gli uomini di stato, gli scienziati ed i
tecnici, nessuna conferenza di leaders economici e di capitani d’industria ha il potere di frenare o di
dirigere il corso storico dell’era atomica. Nessuna organizzazione composta soltanto da uomini è in grado
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
nella paura ecologica,7 nel rischio di manipolazione genetica,8 nella minaccia del
fondamentalismo islamico. A ciò si lega una contingenza socio-culturale che si rifà alla
perdita di senso e alla associata paura che sembra inevitabilmente accompagnare la
società consumistica e che rende gli individui sempre più isolati in un mondo
paradossalmente sempre più “connesso”.9 Questi aspetti contingenti si mostrano nella
loro “estremizzazione” una minaccia all'essenza stessa dell'umanità e, almeno in parte,
sono alla base del ritorno della religione nell'esperienza umana.
Il secondo aspetto vede da parte della filosofia l'interpretazione del ritorno del
religioso da prospettive diverse sebbene strettamente intrecciate. La fine delle
di giungere al dominio su quest’epoca. L’uomo dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e
inerme, in balia dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo di oggi
rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo, il pensiero meditante contro il pensiero puramente
calcolante». (M. Heidegger, L’abbandono, il melangolo, Genova 1989, p. 36).
7 L’ecologismo, ovvero una sensibilità maggiore per il rispetto della terra e delle sue risorse nasce negli
anni ’70, in concomitanza con la crisi energetica e la rimessa in discussione della sostenibilità di uno
sviluppo economico basato sull'idea di progresso infinito e su una produzione e consumo di beni
illimitata.
8 Negli anni Novanta gli esperimenti sulla clonazione erano già molto avanzati (nel 1972 si era avuta la
clonazione di un frammento di DNA e nel 1979 la prima clonazione di mammiferi attraverso la
formazione multipla di embrioni da uno solo) e portarono, nel 1996, alla clonazione della primo
mammifero da una cellula adulta (la pecora Dolly).
9 La sociologa della scienza Sherry Turkle ha analizzato gli effetti psicologici che le tecnologie
informatiche hanno sull'individuo, evidenziando l'illusione che le nuove tecnologie della comunicazione
digitale offrono di una maggiore intimità e minor isolamento da parte degli individui (cfr. S. Turkle,
Insieme ma soli, Codice, Torino 2012). Julien Mauve, fotografa parigina, ha affermato, spiegando il suo
progetto artistico “Lonely Window”, che l'interfaccia digitale ha totalmente cambiato il modo con il quale
percepiamo e interagiamo con il mondo esterno, insegnandoci nuovi modi di comunicare senza parlarsi e
vedersi: «lo schermo diventa una finestra, che apre ad un nuovo mondo, introducendo al contempo un
nuovo tipo di solitudine» (http://www.julienmauve.com/lonely-window/. Ultimo accesso settembre 2015).
Di parere opposto è Eric Klinenberg, il quale sostiene invece che la qualità della vita delle persone che
vivono da sole, fenomeno che si è andato sviluppando in particolare negli ultimi anni, si rivela tutt'altro
che problematico, presentando al contrario aspetti positivi (Cfr. E. Klinenberg, Going Solo: The
Extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone, Penguin, New York NY 2012).
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
metanarrazioni, ovvero dei sistemi teoretici e politici che hanno caratterizzato, a partire
dall'illuminismo, il processo di emancipazione umana e lo sviluppo della tecnica e della
scienza e delle nuove forme di governo, ha rimesso in questione le dinamiche di
legittimazione sociale che ad esse si riferivano. Con l'abbandono di ogni
fondazionalismo a giustificazione della società e dello sviluppo moderno, il ritorno al
religioso sembra agli occhi di Vattimo la risposta alla ricerca del fondamento che la
filosofia e il pensiero critico non sono più stati in grado di fornire.
Ora, secondo Vattimo se il prendere atto di questi due aspetti permettesse di
spiegare la perdita di senso e il ritorno al religioso, la questione sarebbe in tal modo
risolta, giacché basterebbe rintracciare nell'epoca contemporanea una «storicità della
condizione attuale in termini di un puro e semplice erramento», un allontanamento «dal
fondamento sempre presente e disponibile», che per questa stessa ragione ha prodotto
anche «una scienza e una tecnica “disumane”».10 La soluzione che si presenterebbe
sarebbe quella di un abbandono della storicità e un ritorno alla condizione autentica del
permanente nell'essenziale. In altri termini, si tratterebbe di accettare di ritornare a
pensare Dio come fondamento essenzialistico, all'interno di schemi metafisici che lo
collocano come il totalmente Altro fuori dal tempo e dalla storia, fondamento dal quale
e verso il quale gli ex-istenti gettati nella condizione esistenziale storica si muovono.
Ma il filosofo torinese non ritiene soddisfacente una tale soluzione. In realtà, alla
luce del significato positivo del messaggio cristiano della caritas, che egli rintraccia nel
processo di secolarizzazione dell'esperienza religiosa, è solo a partire dal duplice aspetto
del ritorno alla religione nello spirito del tempo moderno che la riflessione filosofica
può «riconoscere e mettere in luce le radici comuni a queste due forme del “ritorno”»
per cercare di far chiarezza su un fenomeno che, nel contesto odierno, si mostra molto
più complesso di un mero guardare “nostalgico” al sacro.11
10 G. Vattimo, La traccia nella traccia, cit., p. 77.
11 Ivi, p. 78.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
2.1. Tra Heidegger e Nietzsche
Il rapporto che Vattimo cerca di esplicitare tra filosofia e coscienza di un'epoca si
radica sulla riflessione che egli sviluppa a partire dalla rimessa in discussione
dell'eredità del pensiero occidentale. In particolare, egli si richiama alla riflessione
heideggeriana sulla fine della metafisica e il dispiegamento della scienza-tecnica (del
pensiero calcolante).12 Come è noto la riflessione di Heidegger sulla fine della
metafisica e sulla crisi del valore veritativo del pensiero logico, si fonda sulla denuncia,
che prende il via nelle prime pagine di Essere e tempo, di un oblio dell'“essere” come
principio fondante la realtà, oblio messo in atto proprio all'interno della metafisica che,
con la sua volontà di racchiudere anche il fondamento ultimo nelle maglie logiche, ha
cercato di dominare la natura e l'uomo. Da un'impostazione del pensiero occidentale
così delineata ha assunto sempre più importanza un pensiero logico-calcolante la cui
esaltazione ha portato al dominio della realtà da parte della razionalità tecno-scientifica.
La metafisica dell'oggettività si è ridotta così ad un pensiero che identifica la verità
dell'essere con la calcolabilità, la misurabilità e la manipolabilità dell'oggetto della
tecnica e della scienza. «La scienza moderna – scriveva Heidegger – non […] è alla
ricerca di una “verità in sé”»,13 ma è un modo dell'oggettivazione calcolante dell'ente,
ovvero ciò che coglie l'ente scientificamente. Da qui, l'utilizzo del sapere strumentale al
dominio sulla realtà. Il destino dell'uomo si rivela quindi quello delineato dal
nichilismo, ovvero il superamento di ogni tipo di verità metafisica, di quel pensiero che
identifica l'essere con il dato oggettivo, e la presa di coscienza del carattere essenziale
dell'uomo in quanto Esser-ci, il suo essere-per-la-morte.
La condizione esistenziale storica dell'uomo si lega al carattere inevitabilmente
ermeneutico del pensare che si radica su due assunti fondamentali: il primo è il
ritrovarsi dell'Esserci nel mondo, che gli appartiene; il secondo è che nel suo ritrovarsi
12 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2001, p. 23: «Ogni ontologia, per quanto dispongadi un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intentopiù proprio, se prima non ha sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questachiarificazione come il suo compito fondamentale».13 Ivi, p. 258.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
nel mondo, in un qui e ora determinati, esso può solamente interpretare ciò che trova,
poiché il qui ed ora determinati sono la «tradizione più o meno esplicitamente
afferrata», che sottrae all'Esserci «la capacità di guidarsi da sé, di ricercare e di
scegliere».14 La tradizione, prendendone il predominio, copre ciò che tramanda,
impedisce l'accesso alle fonti e ne travisa il significato.
Ed è nel filosofare «come espressione riflessa di tematiche che […] sono storia
dell'essere, momenti costitutivi dell'epoca...»,15 che Vattimo indica la possibilità di
rintracciare la radice comune del bisogno religioso e della nuova legittimazione che la
religione assume nella filosofia odierna. È infatti un movimento chiaramente
heideggeriano il suo, nei termini in cui Heidegger pone il problema di una storia della
metafisica sclerotizzata da rendere nuovamente fluida:
Se il problema dell'essere stesso deve venire in chiaro quanto alla propria storia, bisogna
che una tradizione sclerotizzata sia resa nuovamente fluida e che i veli da essa accumulati
siano rimossi. Questo compito è da noi inteso come la distruzione del contenuto
tradizionale dell'ontologia antica, distruzione da compiersi seguendo il filo conduttore del
problema dell'essere, fino a risalire alle esperienze originarie in cui furono raggiunte quelle
prime determinazioni dell'essere che fecero successivamente da guida.16
14 Ivi, p. 35. Questo è il problema della filosofia occidentale, da Parmenide in poi. E da qui si hal’appello, più esplicato nel corso del pensiero di Heidegger, sul ritorno alla tradizione Pre-socratica. Ciòche ne “La nascita della tragedia” Nietzsche auspicava per la cultura tedesca.15 G. Vattimo, La traccia nella traccia, cit., p. 78.
16 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 36. Come è noto, Heidegger interruppe Essere e Tempo,
deviando in seguito la propria riflessione sulla ricerca di nuovi sentieri di pensiero in grado di esplicitare
ciò che il linguaggio della tradizione filosofica non ha saputo cogliere. E se in Che cos’è metafisica?
(1929), scritto due anni dopo Essere e Tempo, Heidegger mostrava come la logica non possa essere in
grado di rispondere correttamente alla domanda sull’essere, essendo l’essere il ni-ente, ovvero l’origine
dell’ente, egli insisterà sulla possibilità di cogliere il niente, ovvero l’essere solamente «attraverso
un’esperienza fondamentale del niente» (M. Heidegger, Che cos'è metafisica, in Segnavia, Adelphi,
Milano 2002, p. 65), ovvero «nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia (Angst)» (Ivi, p. 67), che è
«l’essenziale impossibilità della determinatezza» (Ibid.), l’impossibilità della rappresentazione
concettuale dell’origine. In quanto sospesi nell’angoscia, possiamo raggiungere «quell’accadere
dell’esserci nel quale il niente è manifesto, e dal quale si deve partire per interrogarlo» (Ivi, p. 68).
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
L'ontologia vattimiana si pone allora come una possibilità per la rilettura del
moderno all'esterno della visione forte di Cartesio, Kant e Hegel, i quali innalzavano il
soggetto a statuto epistemologico fondamentale di verità. Vattimo riconduce la
dissoluzione del soggetto razionale, forte, proprio dell'Aufklärung, allo smascheramento
nietzschiano della superficialità della soggettività autocosciente, ovvero della coscienza
che il soggetto ha di se stesso in relazione alle dinamiche di forza nei rapporti di
dominio della società, dinamiche che si esprimono nella possibilità di mentire secondo
regole sociali condivise, utilizzando un sistema di metafore imposto dalla società e
degradando a “finzioni poetiche” le metafore che permettono al soggetto singolo di
esprimersi attivamente. I contenuti della coscienza che riguardano il mondo
fenomenico, si rivelano così «“finzioni” regolate dalle convenzioni sociali».17
3. Il ritorno del religioso come sfida dell'oltreumanità
Se il bisogno religioso deve essere sondato attraverso il pensiero filosofico,
secondo Vattimo questo ritorno non deve sfociare in una “dimostrazione” della necessità
del religioso, ovvero non deve giustificare metafisicamente il fenomeno. Si tratterebbe,
altrimenti, di un mero re-agire all'appello dell'essere che si dà nella condizione
esistenziale dello spirito del tempo. Riflettere sul ritorno del religioso nella
problematicità dell'odierno significa accettare nietzscheanamente la sfida
dell'oltreumanità e guardare all'oltrepassamento della metafisica non come al richiamo
ad una condizione ideale di autenticità come risposta al dominio tecno-scientifico e
consumistico, ma come un disporsi «a oltrepassare la metafisica attraverso un ascolto
non reattivo del destino tecnico dell'essere stesso».18 In altre parole, si tratta di porsi, a
partire dalla condizione inautentica in cui ci troviamo, in quello stato di accoglimento e
17 G. Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 82-3.18 Id., La traccia della traccia, cit., p. 79.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
al contempo di ascolto critico «sul carattere non accidentale del darsi, per noi,
dell'esperienza religiosa come ritorno».19
L'atteggiamento così designato non è però quello di un relativismo storicistico.
Al contrario, si tratta, secondo il pensatore torinese, di prendere consapevolezza che
l'essere è evento e in quanto tale si manifesta nella sua datità come eventi che accadono,
aperture storiche. Ed è possibile assumere tale atteggiamento attraverso ciò che Vattimo
indica come ontologia debole o ontologia dell'attualità: una ontologia che è tale solo
nel suo domandarsi «“che cosa ne è dell'essere” nella nostra condizione presente».20 Un
domandare che si ha solo attraverso un pensiero che sia pensiero della fruizione,
pensiero che fruisca delle forme spirituali del passato con lo scopo di emanciparsi e
consentire la formazione di un'“etica postmoderna” opposta alle etiche metafisiche dello
“sviluppo”, della “crescita”, del “novum” come valore ultimo; un pensiero che sia
pensiero della contaminazione, che interpreti l'esperienza attraverso le vie del
linguaggio, attraverso un'ermeneutica di tutti i linguaggi che ci appaiono lontani ed
estranei. Un pensiero, in altri termini, che nella sua impresa interpretativa si rivolga ai
molteplici contenuti sia verso i messaggi del passato che verso i contenuti del sapere
contemporaneo per ricondurli ad una unità della molteplicità. Come scrive Vattimo:
Si tratterà, in altre parole, di scoprire e di preparare la manifestazione delle chances ultra- o
post-metafisiche della tecnologia planetaria. Questa Verwindung si farà ovviamente anche
ricostituendo la continuità fra tecnologia e tradizione passata dell’occidente; nel senso
indicato dalla tesi heideggeriana della tecnica come continuazione e compimento della
metafisica occidentale. […]
Quali sono le determinazione che la metafisica ha attribuito all’uomo e all’essere?
Sono, anzitutto, le qualifiche di soggetto e oggetto, che hanno costituito il quadro in cui si è
consolidata la nozione stessa di realtà. Perdendo queste determinazioni l'uomo e l'essere
entrano in un ambito schwingend, oscillante, che a mio avviso si deve immaginare come il
mondo di una realtà 'alleggerita', resa più leggera perché meno nettamente scissa tra il vero
19 Ivi, p. 80.
20 Id., Una bio-etica postmetafisica, in D. Antiseri, G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa
nell'era postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 7.
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e la finzione, l'informazione, l'immaginazione: il mondo della mediatizzazione totale della
nostra esperienza nel quale già, in larga misura ci troviamo. È in questo mondo che
l'ontologia diviene effettivamente ermeneutica, e le nozioni metafisiche di soggetto e
oggetto, anzi di realtà e di verità-fondamento, perdono di peso. In questa situazione, si deve
parlare secondo me di 'ontologia debole' come sola possibilità di uscire dalla metafisica –
per la via di una accettazione-convalescenza-distorsione che non ha più nulla
dell’oltrepassamento critico caratteristico della modernità. Può darsi che in questo risieda,
per il pensiero postmoderno, la chance di un nuovo, debolmente nuovo, cominciamento.21
3.1. Ermeneutica dell'esperienza religiosa tra linguaggio mitologico e
demitizzazione
Il primo elemento che si presenta in questa figura del ritorno è l'identificazione
della religione con la sua positività, ovvero con il suo accadere, che nella filosofia della
religione potrebbe essere indicato come creaturalità. Il ritorno della religione si
identifica come positività, intesa quest'ultima in due sensi strettamente connessi e
intrecciati: come fattualità, cioè accadere nelle condizioni storiche contingenti, e quindi
come fatto; e come creaturalità, ovvero come dipendenza da un'eventualità originaria. Il
mantenersi nell'ascolto critico significa allora mantenersi in equilibrio sul crinale di
questa positività, tra dimensione storica concreta e dimensione non strutturale
dell'eventualità e della libertà:
Render giustizia al significato dell'esperienza del ritorno vorrà dire perciò, anzitutto,
mantenersi nell'orizzonte di questo duplice senso della positività: creaturalità come concreta
determinatissima storicità; a anche viceversa, storicità come provenienza da una origine
che, in quanto non metafisicamente strutturale, essenziale, ha anche tutti i tratti della
eventualità e della libertà.22
21 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 19982, pp. 188-189.
22 Id., La traccia della traccia, cit., p. 81.
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
Vattimo si pone qui in una prospettiva ambivalente, in cui si ha il passaggio
argomentativo che porta il segno del suo coinvolgimento personale nell'interesse per la
filosofia della religione e la teologia. Ma è proprio questo mantenersi nell'ambivalenza
che gli permette di sviluppare la sua riflessione sul crinale tra immanenza e
trascendenza. Come egli scrive:
L'esperienza religiosa come esperienza della positività nel senso che si è indicato sembra
piuttosto condurre a una radicale messa in questione di ogni tradizionale figura del rapporto
tra filosofia e religione. Il ritorno del religioso che viviamo nella coscienza comune e, in
termini diversi, nel discorso filosofico (dove cadono gli interdetti metafisici, scientistici o
storicistici, contro la religione) si presenta come una scoperta della positività che ci appare
identica, nel suo senso, con il pensiero della eventualità dell'essere a cui la filosofia
perviene a partire dalla meditazione di Heidegger. La constatazione di questa identità, se
vuole corrispondere radicalmente al suo stesso contenuto, non può rimanere una semplice
constatazione. È proprio il pensiero della eventualità dell'essere a escludere che qui si possa
trattare di una stessa struttura metafisica esperita da due modi di pensiero diversi. La
positività o eventualità richiama l'attenzione sulla provenienza.23
Il limite che Vattimo rintraccia nella storia della religiosità “metafisica” è
proprio quello di pendere completamente o verso una o l'altra parte: verso la parte della
storicità dell'esistenza, per cui la creaturalità trova la sua espressione nella finitezza
dell'essere che porta con sé la necessità di un salto di fede in Dio e nella trascendenza; o
verso l'identificazione della positività con il determinismo storico e quindi con una
immanentizzazione della trascendenza.
La sua prospettiva si pone quindi in una condizione liminare, in quella posizione
pre-metafisica ma pur sempre filosofica, in quanto pre-epistemologica. Il superamento
della prospettiva razionalistica e soggettivistica non può infatti accadere che
mantenendosi nell'ambivalenza del pensiero che, nella prospettiva esclusivamente
filosofica, chiama in causa la necessità di aprirsi ad una concezione non metafisica della
verità, alludendo al suo carattere estetico, nel senso di “narrativo”. La dimensione
23 Ivi, p. 86.
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
estetica si mostra, più che opposta, pre-liminare alla conoscenza logica, nei termini in
cui quest'ultima è rintracciabile nella filosofia del soggetto forte. Per tale motivo non è
all'epistemologia che Vattimo si richiama ma all'ermeneutica del linguaggio mitico
come al modo per poter fruire dell'evento dell'essere senza ricadere nella posizione
metafisica di dominio del fenomeno religioso. Egli fa appello infatti alla mitologia come
linguaggio appropriato non a conoscere ma a narrare eventi, quindi come dimensione di
esposizione di una storia che non è però scienza dei fatti storici, quanto piuttosto
possibilità di mantenere il duplice senso della positività nella forma di mito.
Il riferimento vattimiano è ovviamente alle opere di due maestri che ne hanno
segnato il percorso filosofico, Filosofia della libertà di Pareyson e Verità e metodo di
Gadamer. Dal primo Vattimo accoglie l'idea del mito come unica via di accesso ai fatti
che sfuggono alla razionalità, così che gli eventi della realtà divina e della sua relazione
con la natura umana rientrino in una storia che non si può teorizzare ma solo narrare
attraverso il mito, in grado di esprimere tanto la verità rivelata quanto la dimensione
storica e artistica dell'evento.24 In tal modo l'interpretazione filosofica del mito che si
presenta nell'arte e nella religione come verità inoggettivabili, «che si rivelano solo
occultandosi e che solo in quel modo si possono dire», assume la natura di
un'ermeneutica dell'esperienza religiosa, che si proponga tanto di chiarirne il significato
ampiamente umano quanto di trarne sensi che siano filosofici, cioè universali o largamente
universalizzabili, tali da coinvolgere nell'interesse, se non nel consenso, tutti gli uomini,
credenti o non credenti.25
Da Gadamer Vattimo accoglie invece il rifiuto dell'opposizione tra mito e logos,
tra tradizione e ragione. Tale opposizione si rivela fallace per l'imprescindibilità da parte
della ragione storica dai condizionamenti esercitati dalla tradizione e dall'autorità ad
essa connessa. L'idea che tra autorità e uso della ragione sussista un'opposizione si
24 Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1994, in part. pp. 99-
149.
25 L. Pareyson, Filosofia della libertà, il melangolo, Genova 1989, p. 18.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
rivela errata per il semplice fatto che una coscienza storica non può mai rivolgersi a
fenomeni ripetibili; piuttosto la tradizione, a cui si connette l'autorità che ad essa si
riferisce, si rivela sempre «un momento della libertà e della storia stessa», che si fa
tradizione non «in virtù della forza della persistenza di ciò che una volta si è verificato»,
ma in quanto la tradizione viene accettata, adottata, coltivata.26
Ma di questi riferimenti il filosofo torinese rifiuta la volontà di “verità”, che
caratterizza la prospettiva pareysoniana con la sua idea di rintracciare nel mito una via
di problematizzazione della verità rivelata, giungendo a rintracciare nella sofferenza il
«luogo della solidarietà fra Dio e l'uomo»,27 e quella gadameriana, secondo la quale il
mito della tragedia greca in quanto funzione dell'imitazione, della rappresentazione, è
un carattere conoscitivo del vero in quanto conoscenza dell'essenza.
Nel suo ricorso al mito in quanto linguaggio in grado di narrare, Vattimo precisa
che esso va completato proprio per evitare ogni sua residua possibilità di riduzione della
positività dell'esperienza religiosa a pura creaturalità, proprio per evitare «la tendenza
ad assumere il pensiero mitico in una sorta di astrattezza astorica, e la difficoltà persino
di distinguere il mito cristiano da quello greco».28 Il mito assume qui il compito di
mantenere quell'ambivalenza inclusiva dei due sensi della positività, storica e creaturale,
immanente e trascendente insieme. Ed accoglie al suo interno anche una prospettiva
dell'identificazione nella filosofia della religione dell'Altro come irruzione nell'orizzonte
storico, salvo però limitarne il carattere di pura negazione della storicità e nuovo inizio
assoluto.
Vattimo riconduce al mito la capacità di includere i contenuti positivi
dell'esperienza religiosa della condizione presente non completamente traducibili in
termini di razionalità argomentativa: il bisogno di perdono, il modo di confrontarsi con
l'enigma della morte e con quello del dolore, l'esperienza della preghiera.29 Per questo la
26 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 330.
27 L. Pareyson, Filosofia della libertà, cit., p. 33.
28 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 82.
29 Ivi, p. 83.
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dimensione del mito si deve accompagnare ad un processo di demitizzazione: dei
dogmi, «contro ogni monopolio gerarchico di un'interpretazione 'letterale' o descrittiva
della Scrittura, che ci dica, detto brutalmente, 'come è fatto Dio'»;30 della morale nei
termini di una dottrina e una disciplina così come viene presentata dalla Chiesa.31 Tale
demitizzazione viene indicata da Vattimo come mutamento prospettico, come
spostamento dell'attenzione dell'esperienza religiosa dal senso di colpa e dal peccato al
bisogno di perdono, indicato da Vattimo come l'espressione di «uno dei tratti della
specifica storicità in cui oggi l'esperienza religiosa si ripresenta»,32 e che viene a
sostituire una intensità del senso di colpa e una radicalità dell'esperienza del male che
invece si connettono ad una concezione metafisica e soggettivistica della dimensione
religiosa.
In questo processo di demitizzazione e riassestamento prospettico ruolo centrale,
come abbiamo sostenuto, riveste il rapporto tra essere e linguaggio, che comporta tanto
una attenzione all'ermeneutica anziché all'epistemologia, all'idea di un indebolimento
delle categorie metafisiche, e all'indebolimento della nozione di verità, quanto un
ritorno alla verità dei testi sacri che esprimono la nostra condizione storica nel
linguaggio proprio della tradizione ebraico-cristiana. Vattimo mette quindi in atto una
ritorsione del proprio pensiero, un movimento di ritorno che chiama in causa un
processo ermeneutico di rilettura e reinterpretazione del linguaggio della tradizione alla
luce della Wirkungsgeschichte, della “storia degli effetti”. In altre parole, si appella ad
una ermeneutica adeguata a mettere in luce la realtà della storia nella realtà della
comprensione storica, ad un processo di comprensione che tenga conto della tradizione
in cui è inserito.33 Una ermeneutica del testo biblico, secondo Vattimo dovrebbe, in
30 G. Giorgio, op. cit., p. 258.
31 Ibidem.
32 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 83.
33 Su questo punto cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 350. Vattimo accoglie all'interno della sua
ermeneutica aspetti del pensiero di Schleirmacher, in particolare della sua idea del carattere
precipuamente interpretativo del pensiero filosofico. L'opera vattimiana su Schleirmacher (G. Vattimo,
Scheiermacher filosofo dell'interpretazione, Mursia, Milano 1986 [1968]) rappresenta uno dei passaggi
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questa prospettiva che mantiene centrale il carattere storico della coscienza e le
possibilità di comprensione delle condizioni contingenti dell'esistenza, accogliere come
altro aspetto della positività il fatto che «i testi sacri che improntano la nostra esperienza
religiosa sono dati all'interno di una tradizione che li tra-manda anche nel senso che la
sua mediazione non li lascia sussistere come oggetti immodificabili».34 A partire da
Sant'Agostino la teologia cristiana è sin dalle sue basi una teologia ermeneutica:
la struttura interpretativa, il tramandamento, la mediazione e, forse, la deiettività non
riguardano solo l'annuncio, la comunicazione di Dio con l'uomo; caratterizzano la stessa
vita intima di Dio, che proprio per questo non si può pensare nei termini della immutabile
pienezza metafisica (rispetto alla quale, appunto, la rivelazione sarebbe solo un episodio
“successivo” e un accidente, un “quoad nos”).35
Questo è per così dire il passo verso lo spostamento dell'attenzione dal senso di
colpa e dall'esperienza della radicalità del male al bisogno di perdono. Si tratta di una
ermeneutica che permette di orientare cristianamente la vita attraverso la
consapevolezza della sua storicità, del fatto che la sua verità, «è solo quella che di volta
cruciali nel percorso teoretico del pensatore torinese, oltre che un momento significativo degli studi
italiani sulla filosofia ermeneutica di Schleirmacher. Per un approfondimento rimandiamo al capitolo
ottavo di C. Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del “pensiero debole” di G. Vattimo. Per
un itinerario nel Logos postmoderno, LAS, Roma 1999. Va però qui notato che mentre nell’ermeneutica
romantica espressa da Schleiermacher scopo dell’interpretazione era la negazione della distanza
temporale tra autore e interprete, l’ermeneutica di Gadamer, e con essa quella vattimiana si rivela
concentrata sulla manifestazione delle attività dell’uomo sulla base della propria possibilità di
comprensione. Secondo Gadamer, l’ermeneutica di Schleiermacher si rivela peculiare di una
interpretazione psicologica che si esprime in «una sorta di comportamento divinatorio, un trasportarsi
nella complessiva costituzione spirituale dell’autore, un cogliere “l’intimo svolgimento” della redazione
di un’opera, una ripetizione dell’atto creatore. La comprensione è dunque una riproduzione che si riporta
alla produzione originaria, un “riconoscere il conosciuto” (Boeckh), “decisione embrionale” intesa come
il punto intorno a cui si organizza la composizione» (H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 226).
34 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., pp. 84-5.
35 Ivi, p. 85. Cfr. Id., Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, p. 57.
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in volta si produce attraverso le “autenticazioni” che avvengono in dialogo con la storia,
e con l’assistenza dello Spirito come ha insegnato Gesù».36
La diversità degli approcci interpretativi alle nozioni di soggetto, Dio, mondo,
che Vattimo evidenzia,37 permette di assimilare alla prospettiva biblica e teologica la
tematica filosofica, heideggeriana, dell'“eventualità dell'essere”, e di vedere questa
analogia come due modi differenti di incontrare lo stesso dato – l'eventualità dell'essere
appunto, eventualità che proviene dalla tradizione ebraico-cristiana che non può però
rientrare in una stessa struttura metafisica, poiché pone l'attenzione sulla provenienza di
questa stessa struttura. Tale provenenienza, la teologia trinitaria, chiama ad un ritorno da
una prospettiva evangelica e non metafisica.
3.2. L'incarnazione come positività e fine della violenza del Sacro
L'esperienza religiosa come esperienza della positività è dunque in grado di
rimettere in discussione il tradizionale rapporto tra filosofia e religione. Il ritrovamento
della provenienza dalla teologia trinitaria della filosofia, proprio perché arricchito da
una consapevolezza storica – la capacità di leggere i segni dei tempi – e da una
consapevolezza del processo ermeneutico – una sorta di autocoscienza della coscienza
interpretativa – permette così di superare le aporie che hanno caratterizzato nel passato
il ritorno al fondamento, alla “provenienza”. Con questa nuova consapevolezza, il
riconoscere la propria provenienza dalla teologia trinitaria permette alla filosofia di
rivelare il carattere non puramente contraddittorio di quelle aporie e di mantenere quella
ambivalenza che potrebbe ricadere nell'equivocità se vista da una prospettiva logico-
metafisica, ma che, come il paradosso della fede, si mantiene però al livello della
eventualità dell'essere, in quella apertura che però non deve essere ripensata in termini
puramente essenzialistici per non cadere nella trascendenza completamente slegata dal
36 Id., Credere di credere, cit., p. 45.
37 Ivi, p. 78 ss.
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“segno dei tempi”.
A questo riguardo Vattimo prende le distanze dalla filosofia di Lévinas e dalla
sua esperienza religiosa come irrompere dell'Altro. Allo stesso modo critica la teologia
dialettica di Karl Barth, non accettando il “salto nella fede” per accedere al totalmente
Altro rispetto all'uomo e al mondo. Vattimo rifiuta proprio l'aspetto metafisico-
naturalistico che una tale dottrina assume della natura di Dio, che si rivela trascendente,
imperscrutabile.38 Al posto dell'affidamento ad un atto di grazia, Vattimo sostiene al
contrario l'idea di lasciare aperta l'eventualità radicale dell'essere, che viene a delinearsi
come evento specificamente cristiano della «kènosis», dell'incarnazione di Dio. Come
egli scrive:
Quella eventualità radicale dell'essere che il pensiero post-metafisico incontra nel suo
sforzo di liberarsi dalla cogenza del semplicemente-presente non si lascia comprendere solo
alla luce della creaturalità, che resta nell'orizzonte di una religiosità “naturale”, strutturale,
pensata in termini essenzialistici. Solo alla luce della dottrina cristiana dell'incarnazione del
figlio di Dio sembra possibile, per la filosofia, concepirsi come lettura dei segni dei tempi
senza che ciò si riduca a una pura registrazione passiva del corso dei tempi.39
Solo alla luce dell'incarnazione di Dio, che non è verità ultima, ma da dove
proviene il problema della verità, ovvero da dove proviene quel rapporto problematico
tra filosofia e rivelazione religiosa e quel pensiero post-metafisico dell'eventualità
dell'essere, è possibile accogliere l'eventualità dell'essere come segno dei tempi. Ciò non
comporta una negazione di ogni forma di presenza, di positività, quanto il fare appello
ad un tipo di pensiero da pensare solo attraverso la prospettiva dell'incarnazione:
È solo in quanto ritrova la propria provenienza neo-testamentaria che questo pensiero post-
metafisico può configurarsi come un pensiero della eventualità dell'essere non ridotto alla
pura accettazione dell'esistente, al puro relativismo storico e culturale. Se si vuole: è il fatto
38 G. Vattimo, Credere di credere, cit, p. 50 ss. Cfr. M. Cinquetti, Dio tra trascendenza e “kènosis”.
Dialogo a distanza tra Karl Barth e il “pensiero debole”, in «Filosofia e teologia» (2003/2), pp. 324-337.
39 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 88.
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dell'incarnazione che conferisce alla storia il senso di una rivelazione redentiva, e non solo
di un confusivo accumularsi di avvenimenti che turbano la pura strutturalità del vero essere.
Che la storia abbia un senso redentivo (o, in linguaggio filosofico, emancipativo) pure, o
proprio, essendo storia di annunci e risposte, di interpretazioni e non di “scoperte” o
dell'imporsi di presenze “vere”, questo è qualcosa che diventa pensabile solo alla luce della
dottrina dell'incarnazione.40
Non si tratta quindi di accogliere un relativismo della verità, quanto una apertura
all'interpretazione, all'idea che il segno dei tempi condiziona anche la possibilità di
aprirsi alla provenienza stessa del pensiero religioso e filosofico. Il fatto che non vi
siano verità da scoprire ma che la storia presenti segni e annunci da interpretare, anche
per parlare di verità, porta con sé una rinuncia di sicurezza, la rinuncia di una presenza
rassicurante. L'idea che non ci siano fatti ma solo interpretazioni non è un fatto certo,
sostiene Vattimo, ma a sua volta solo un'interpretazione. Ed è in questa prospettiva che
egli “interpreta”, appunto, il senso del nichilismo: non come una metafisica del nulla,
ma come un «indefinito processo di riduzione, assottigliamento, indebolimento».41
In questa prospettiva il principio della caritas cristiana consente di mantenere
l'ambivalenza e ambiguità che permette di superare l'impasse della coscienza moderna
dinanzi alla rivelazione cristiana, e di smascherare i miti di cui la dottrina è troppo
satura, miti che hanno pretesa veritativa ma che non reggono alla prova della ragione.42
La convinzione di Vattimo che non esistano fatti ma solamente interpretazioni
pone in essere una scelta di campo a favore di un cristianesimo che evidenzia il Cristo
fatto uomo, il quale giunge nella storia per romperne la temporalità. In particolare,
40 Ivi, p. 89. Per una lettura critica dell'interpretazione vattimiana di kènosis rimandiamo a J. R. Martínez,
op. cit., pp. 439-68. Una delle critiche che Martínez muove all'uso che Vattimo fa della nozione di kènosis
è di non aver compreso il valore centrale che nel cristianesimo riveste la resurrezione, affidandosi
principalmente ad interpretazioni di certa cristologia scolastica che non ne dava alcuna importanza
salvifica (Ivi, pp. 454 ss.).
41 Ivi, p. 89.
42 Cfr. G. Vattimo, Credere di credere, cit., p. 64. Cfr. R. Ottone, Ontologia debole e caritas nel pensiero
di Gianni Vattimo, in «La Scuola Cattolica», 132 (2004), pp. 171-203.
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Vattimo indica nella parusìa di cui parla Paolo proprio l'evento che spezza la
temporalità storicista.43 Così, tanto il Da-sein heideggeriano quanto il cristiano paolino,
si caratterizzano per la thlipsis, la rinuncia al senso e la perdita delle certezze. Da questa
prospettiva si delinea la possibilità di una fede senza dogmi, senza contenuti, in grado di
accogliere l'autentico messaggio cristiano della kènosis. Questa prospettiva assume una
valenza esistenziale ancora più forte se si evidenzia il fatto che uno dei testi principali
della riflessione vattimiana sulla fede, Credere di credere, è scritto in prima persona,
chiamando quindi in causa nella riflessione direttamente l'esperienza di vita e di fede
dell'Autore (ed è forse in questa deangolazione prospettica che va rintracciato il segno
di un coinvolgimento personale e diretto del pensatore torinese che motiva a partire
dalla prospettiva filosofica del pensiero debole il proprio credo e la propria
“testimonianza” di fede). Ma introducendo anche la riscoperta del cristianesimo
all'interno del percorso del pensiero filosofico che ha portato alla fine della metafisica e
alla desacralizzazine della divinità, la sua umanizzazione, con la rimessa in discussione
del ruolo autoritario del Dio dell'Antico Testamento. L'incarnazione assume quindi
significato in quanto segno paradossale del processo di secolarizzazione della religione.
Indebolimento dell'essere, indebolimento dell'autorità divina, indebolimento
dell'ontologia, indebolimento della teologia.44
Se centrale era prima la nozione di creaturalità del Vecchio Testamento, ora
l'attenzione è rivolta a quella dell'incarnazione come espressione dell'indebolimento del
divino, indebolimento che, seguendo Vattimo, è tale per la sua struttura kènotica, ovvero
per lo svuotamento che nella prospettiva teologica indica la privazione della divinità
compiuta da Cristo nel farsi uomo. In questo “annientamento” che Gesù Cristo fa di sé,
43 Id., Dopo la cristianità, cit., pp. 129-42.
44 Cfr. Id., Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, p. 27. Cfr. G. Giorgio, Il pensiero di Gianni
Vattimo, cit., p. 24: «Non solo dunque la secolarizzazione del Cristianesimo, ma anche il Cristianesimo
come secolarizzazione». Cfr. J. R. Martínez, op. cit., p. 380: «Vattimo habla de secularización en un
sentido amplio, pues no se rifiere sólo a la pérdida de influencia de lo explícitamente religioso». Su
questo punto cfr. anche F. Crespi, op. cit., pp. 63-68
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facendosi “schiavo e diventando simile agli uomini”,45 Vattimo ritrova il processo di
indebolimento che il Dio attua, il rifiuto all'onnipotenza per farsi debole tra i deboli. Ed
è proprio per questo movimento rivoluzionario e paradossale che la religione cristiana si
è da subito posta come religione intimamente umana, distanziandosi dalla religione
naturale in cui Dio si esprime nella potenza devastatrice della natura.
Ciò porta a vedere l'indebolimento dell'Essere come analogo alla dissoluzione
della violenza del sacro. Il Dio castigatore che necessita della vittima sacrificale per
trovare appagamento alla propria ira, viene per così dire spiazzato dal farsi vittima del
Dio stesso. Gesù liquida con il suo farsi vittima il nesso tra violenza e sacro, che
trovava, seguendo la prospettiva antropologica di René Girard a cui Vattimo si riferisce
indicando nella secolarizzazione l'effettiva realizzazione del cristianesimo quale
religione non sacrificale,46 nella religione naturale il meccanismo vittimario essenziale
per ristabilire l'ordine del legame sociale sconvolto da conflitti causati dal carattere
intimamente competitivo dell'essere umano e alla sua tendenza a processi di mimesis
sociale, ovvero a desiderare le stesse cose che desiderano gli altri, tendendo in tal modo
ad un tipo di conflitto che alimenta circoli viziosi di violenza. In questo contesto, che
alimenta la crisi della stabilità sociale, un'alterazione dell'unanimità mimetica, la vittima
sacrificale assumeva il ruolo di capro espiatorio: scelta per ragioni arbitrarie, essa
polarizzava la violenza collettiva e la sua uccisione serviva a ristabilire la concordia
sociale.47 Per Girard, la morte di Dio è reale, nel senso che è la morte della vittima
45 Paolo, Lettera ai Filippesi, 2, 7.
46 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa,
Massa 2006, p. 8.
47 Cfr. R. Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987; Id., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano
1992. Vattimo fa però particolare riferimento per elaborare la propria tesi a R. Girard, Delle cose nascoste
sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983. Cfr. G. Vattimo, Girard e Heidegger: Kènosis e
fine della metafisica, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, pp. 63-73, pubblicato per la prima
volta in B. Dieckmann (a cura di), Das Opfer – aktuelle Kontroversen. Religions-politischer Diskurs im
Kontext der mimetischen Theorie, Lit Verlag, Münster 1999. Sull'influenza di Girard su Vattimo e sulla
nozione di Kènosis cfr. J. R. Martínez, Relación entre cultura posmoderna y cristianismo en Gianni
Vattimo, Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca 2015, pp. 362-85.
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sacrificale per antonomasia. In quanto tale si pone come principio destrutturante dei miti
arcaici, della religione come sapere sulla violenza degli uomini poiché Cristo accetta di
donarsi come «(auto)sacrificio».48 Con il cristianesimo si viene ad imporre un nuovo
punto di vista, quello della vittima innocente e dell'arbitrarietà della sua
colpevolizzazione da parte della società. Cristo, con l'incarnazione e il sacrificio, rompe
il nesso sacrificale e ristabilisce un nuovo principio: quello del perdono: «Se la
modernità non permette più di credere nel meccanismo vittimario, ciò appartiene
positivamente alla storia della salvezza […] la rivelazione della connessione tra il sacro
e la violenza accade insieme con, e solo attraverso, l'incarnazione di Cristo, la
kènosis».49
Da qui, allora, la necessità per Vattimo di assumere il credere nella salvezza
come uno sforzo per «capire, anzitutto, che senso hanno i testi evangelici per me, qui,
adesso; in altre parole, leggere i segni dei tempi, senza alcuna riserva che non sia il
comandamento dell'amore».50
3.3. Il pensiero gioachimita nel discorso filosofico vattimiano sulla fede debole
Il “fatto” che non ci siano fatti ma solo interpretazioni si collega al tema della
“morte di Dio”, che non significa la fine di ogni riflessione religiosa, come abbiamo
visto, ma l'apertura ad una trasvalutazione della cristianità, proprio nella vocazione
all'indebolimento come storia di salvezza. Vattimo sostiene infatti che siano stati i fedeli
ad uccidere Dio e che la sua scomparsa dal mondo non sia il segno dell'Alterità, quanto
del suo farsi finito dissolvendo la sua trascendenza. Per sostenere la propria tesi egli fa
riferimento principalmente alla teologia di Giocchino da Fiore, nella quale rintraccia la
48 R. Girard, Non solo interpretazioni, ci sono anche i fatti, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede
debole?, cit., p. 81.
49 G. Vattimo, Girard e Heidegger: Kènosis e fine della metafisica, cit., pp. 71-72.
50 Id., Credere di credere, cit., p. 65.
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possibilità di una alternativa alla teologia dogmatico-disciplinare.51 Come nota
Mantovani, la consonanza con l’insegnamento di Gioacchino deriva a Vattimo proprio
«a partire dalla considerazione della fine della metafisica, dell’essere come evento e
come destino di indebolimento»,52 che inserisce la filosofia nell’eredità del messaggio
ebraico-cristiano. Vattimo ritiene infatti che la distinzione di Gioacchino da Fiore
nell'avvento dei tre regni, del Padre dell'Antico Testamento, del Figlio e dello Spirito
Santo, permetta di offrire una spiegazione teologica del processo di secolarizzazione e
di indicarla come una terza età nella storia dell'umanità e nella storia della salvezza, il
regno della salvezza con l'età dello Spirito, nel quale il senso della salvezza assume un
valore sempre più spirituale. Come egli scrive:53
Interpretata alla luce degli insegnamenti di Gioacchino la morte di Dio ucciso dai fedeli, e
cioè la secolarizzazione su cui si è costruita la modernità, assume un significato che
riprende, ma anche completa e trasforma profondamente, io credo, il senso in cui molta
teologia cristiana di oggi ha parlato di secolarizzazione e persino di morte di Dio come
eventi legati alla rinascita della religione.54
La cristianità postmoderna si caratterizza quindi per l'attenzione posta alla
kènosis, da interpretare non come negazione di Dio ma come interpretazione di Gesù
delle profezie «che egli stesso è»,55 il rapporto più intenso di carità tra Dio e l'umanità, il
suo amore per le sue creature. E, all'interno della prospettiva vattimiana, secondo la
quale il linguaggio mitico permette di interpretare gli eventi narrati nella Scrittura come
51 Sui riferimenti gioachimiti in G. Vattimo rimandiamo a M. Mantovani, Gioacchino da Fiore nel
pensiero di Gianni Vattimo, in “Florensia”, XVIII-XIX (2004/2005), pp. 97-122.
52 Ivi, p. 110.
53 G. Vattimo, Oltre l’interpretazione, cit., p. 61.
54 Id., Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002, p. 40. Il
riferimento a Gioacchino viene da Vattimo preso dall'opera di Henri de Lubac, La posterità spirituale di
Gioacchino da Fiore, 2 Voll., Jaca Book, Milano 1980-1983. In particolare, l'eredità spirituale
gioachimita in Novalis, Schelling, Schleiermacher.
55 G. Vattimo, Credere di Credere, cit. p. 62.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
narrazione di eventi storici che avvengono nella contingenza dei “tempi moderni” senza
pretesa di verità, in Gioacchino egli rintraccia, con le dovute distanze dal suo
“letteralismo profetico”,56 la prima formulazione della rivelazione come evento storico
che continua a tracciarsi nella storia per opera dello Spirito Santo. Esso permette così di
non arrestarsi ad una conoscenza “oggettiva” della Scrittura, quanto di giungere ad una
comprensione più piena e perfetta, sulla base di una esegesi figurale di fatti passati che
indica la storia della salvezza come una «profezia rivolta al futuro»:57
Ciò che mi sembra valido del suo insegnamento, proprio dal punto di vista della filosofia
che si colloca oltre la metafisica, è l’idea di una storia della salvezza che accade oggi come
spiritualizzazione del cristianesimo - Si tratta dunque di chiarire il nesso tra
spiritualizzazione e indebolimento, da un lato, e di mostrare dall’altro, che la nostra cultura
attuale manifesta segni riconoscibili di una trasformazione che si lascia interpretare appunto
in quei termini.58
Rintracciamo allora nel riferimento al pensiero gioachimita proprio lo scopo che
abbiamo visto caratterizzare l'ontologia debole: «preparare la manifestazione delle
chances ultra- o post-metafisiche della tecnologia planetaria […] per la via di una
accettazione-convalescenza-distorsione che non ha più nulla dell’oltrepassamento
critico caratteristico della modernità […] di un nuovo, debolmente nuovo,
cominciamento».59 E ciò attraverso una prospettiva che si radica in una «storia di
salvezza in quanto vicenda che prepara il trasferimento del reale sul piano delle qualità
secondarie, dello spirituale, dell’ornamentale; potremmo persino aggiungere, forse, del
virtuale».60 Una salvezza che però chiama in causa una spiritualizzazione che potrebbe
56 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 33.
57 Ivi, p. 33.
58 Ivi, p. 48.
59 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 19982, pp. 188-189. Cfr. Id., Dopo la cristianità,
cit., p. 59: « l'umanità dispone delle possibilità (tecniche, concettuali, politiche, materiali eccetera) per
cominciare a realizzare il regno del senso».
60 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 56.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
apparire facile e moralmente disimpegnata, essendo l'ideale della salvezza prefigurata
«intensamente connotato in senso estetico e poetico».61 Ma, continua Vattimo
queste connotazioni sono le uniche che possono riempire la figura, altrimenti vuota, della
“conclusione” della vicenda umana, comunque questa conclusione si voglia immaginare:
sia, cioè, che la si pensi come télos dell'emancipazione che dà senso alla vita di ognuno di
noi pensata entro gli invalicabili limiti della nascita e della morte terrene, sia che la si pensi
come una condizione che si attuerà nella vita eterna dopo la morte. Anche in questo
secondo caso - così ha insegnato Gioacchino e così anche pensa la (mia) filosofia - la
salvezza deve cominciare nell'al di qua, altrimenti tutta la storia della sua preparazione
perderebbe di senso, il gioco sarebbe affidato ad una divinità trascendente
indipendentemente dalla nostra capacità di rapporto - della quale, dunque, sarebbe meglio
non parlare nemmeno.62
L'idea che si debba fruire esteticamente dei significati è da una parte la nota
denuncia della fine della metafisica, dall'altra la possibilità di interpretare la continuità
tra storia sacra e storia profana. Riprendendo e rimodulando la prospettiva filosofica
rortyana, Vattimo sostiene che senza la carità non si potrebbe spiegare la democrazia,
l'orrore per la guerra, la distinzione tra pubblico e privato:
stiamo vivendo nell'età dello Spirito. Vale a dire, viviamo in un'epoca che attraverso la
scienza e la tecnologia può fare a meno della metafisica e del Dio metafisico, in un'epoca
nichilista. Un'epoca in cui la nostra religiosità può svilupparsi finalmente nella forma di una
carità che non dipenda più dalla verità. Non c'è più alcuna ragione di dire che “amicus Plato
sed magis amica veritas” – il principio sulla base del quale la Chiesa (le Chiese) in passato
uccise gli eretici di ogni tipo. Non c'è (non ci dovrebbe essere) altro che carità, accoglienza,
verso l'altro.63
61 Ivi, p. 58.
62 Ibidem.
63 Id., Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, p. 69.
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4. Il costruirsi della verità tra tolleranza e convivenza
In sintesi, il cristianesimo che ha in mente Vattimo è un cristianesimo attento al
contesto storico in cui si dispiega, in cui la salvezza deve essere storicizzata e
interpretata; in cui ognuno ha una provenienza, all'interno della storicità in cui si trova
“gettato”, e ha il compito di costruire la salvezza. In tal senso la secolarizzazione
assume quel valore di positività proprio di una «prosecuzione e interpretazione de-
sacralizzante del messaggio biblico»,64 che origina dal ventre stesso del cristianesimo,
tanto perché «l'ermeneutica come filosofia dell'interpretazione poteva sorgere solo
nell'ambito della tradizione ebraico-cristiana»,65 rimanendone però profondamente
segnata, quanto e più profondamente per il fatto che con l'incarnazione l'indebolimento
è continuato con l'attenzione al soggetto moderno (di Cartesio, Kant e Hegel) che si è
separato sempre più da Dio e dalla religione “al di fuori dei limiti della ragione”,
secolarizzandone il messaggio.66
L’attenzione di Vattimo si dirige su ciò che la religione ritiene di pensare, ma
egli non si interessa semplicemente di valutare se confutarla o accettarla. Egli pone in
essere una sfida di grande urgenza. La religione si mostra come un tema non palpabile,
in quanto si adatta alle labilità della società, richiamando con questa sua
indeterminatezza di confini una necessità di definizione e affermazione identitaria che
porta all'opposizione e scontro tra da una parte gli assolutismi religiosi fondamentalisti e
dall'altra un ateismo slavato che si è accompagnato alla fine di tutte le grandi narrazioni
legittimanti sistemi metafisici, etici, politici.
A questo riguardo ne segue la possibilità di quella che Vattimo indica come una
nuova idea di cristianesimo, che non faccia più riferimento al senso di colpa e
all'esperienza della morte, come abbiamo visto, ma alla carità, quella carità alla base del
64 Id., Credere di credere, cit., p. 34.
65 Id., La traccia della traccia, cit., p. 84. Cfr. Id., Storia della salvezza, storia dell'interpretazione, in
“Micromega”, 3 (1992), pp. 105-12.
66 Cfr. Id., Oltre l’interpretazione. Il significato dell’ermeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari
1994, p. 62.
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bisogno di perdono. Sul piano del rapporto tra filosofia e religione, questo aspetto si
rivela prolifico perché tematizza in termini differenti il problema della tradizione del
significato che assume valore nei termini della sua possibile interpretazione rivolta ad
una praxis etica.
La desacralizzazione pone come unico limite alla secolarizzazione come deriva
infinita, l'atteggiamento caritatevole verso il prossimo,67 atteggiamento alla base di un
cristianesimo dell'amicizia unito nello Spirito, ripreso poi da Vattimo come espressione
della nuova forma del cristianesimo.68 Il che pone in essere una distinzione tra il
cristianesimo e la sua realizzazione storica, la cristianità.
La proposta vattimiana è infatti, in ultima istanza, quella di reintrodurre il
pensiero cristiano all’interno dello studio della filosofia alla luce, però, di una rilettura
teologica sui generis, che ne evidenzi sia la dimensione storica della trinità che la
possibilità di una prospettiva in cui la presenza divina sia più personale e meno
trascendente.
Se si cerca di considerare la possibilità che Vattimo cerca di aprire, la questione
principale che ha voluto portare all'attenzione è quella del passaggio dal contenuto
logico (debole) alla praxis della fede. Per Vattimo la parola del filosofo, così come
quella del credente, è la sua praxis. E la praxis si ha nella dimensione etica che trova il
suo campo di azione nella visione liberale che alla mentalità metafisica esplicitamente
razionalista sostituisce un soggetto che non si prende così drammaticamente sul serio.
Questo aspetto si richiama esplicitamente alla prospettiva che Vattimo condivide
con il neo-pragmatista americano Richard Rorty, il quale, assumendo che la
strutturazione dell'esperienza umana sia ineludibilmente mediata dal linguaggio, indica
l'ermeneutica come unica via per far fronte all'incommensurabilità di discorsi di cui
67 Id., Credere di credere, cit., p. 27.
68 Come scrive Mantovani: «Per il nostro Autore una fede concepita metafisicamente, un Credo e un
debes forti e non rivisitati secondo l’interpretazione debolistica dell’essere e secondo il principio della
carità, non hanno più spazio in una religiosità autentica: il vero cristianesimo si può porre, in questo
senso, come non religioso» (M. Mantovani, Gioacchino da Fiore nel pensiero di Gianni Vattimo, cit., p.
103).
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l'epistemologia non riesce a rendere conto.69 Secondo Rorty, infatti,
Non c’è ragione metafisica in base alla quale gli uomini debbano essere capaci di dire delle
cose incommensurabili, né alcuna garanzia che essi continuino a farlo. È solo per la nostra
buona (da un punto di vista ermeneutico) o cattiva fortuna (da un punto di vista
epistemologico) che essi hanno fatto questo nel passato.70
L'ermeneutica non è quindi un modo differente di conoscere, quanto un modo di
«cavarsela» dopo che la pretesa epistemologica di conoscere il mondo “così come si dà”
ha mostrato i suoi limiti e l'impossibilità di raggiungere il proprio scopo.71 L'attività
ermeneutica si inserisce come «tentativo di edificare (noi stessi o altri)», «operando
connessioni tra la nostra propria cultura e qualche cultura esotica o un qualche periodo
storico, oppure tra la nostra disciplina e un’altra disciplina che sembri perseguire scopi
incommensurabili in un vocabolario incommensurabile». Il discorso edificante ci
trarrebbe «fuori dai nostri vecchi io con la forza dell'estraneità», aiutandoci a diventare
«degli esseri nuovi».72 Ciò comporta un nuovo atteggiamento da parte del soggetto post-
metafisico che si relaziona con il mondo e con Dio, un atteggiamento liberale e ironico,
perennemente in dubbio sulle credenze su se stesso e sul mondo che il vocabolario di
cui si dispone, il linguaggio in cui il soggetto fa parte e di cui è parte, costruisce,
consapevole che i propri dubbi non possono essere risolti da argomenti formulati con il
69 Rorty distingue tra l'epistemologia che si occupa del commensurabile attraverso quello che Kuhn ha
definito discorso sul normale, e l'ermeneutica che si occupa invece dell'incommensurabile servendosi del
discorso sull'anormale. Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
70 R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004, p. 695.
71 Ivi, p. 713: «Sarebbe un bel guadagno per la chiarezza filosofica se già avessimo consegnato la
nozione di 'conoscenza' (cognition) alla scienza predittiva, e avessimo smesso di preoccuparci dei 'metodi
di conoscenza alternativi'. Non varrebbe la pena di combattere sulla parola conoscenza (knowledge), se
non fosse per la tradizione kantiana secondo cui essere un filosofo significa disporre di una 'teoria della
conoscenza', e per la tradizione platonica secondo cui è ‘irrazionale’ l’azione che non si basa sulla
conoscenza della verità delle proposizioni.»
72 Ivi, p. 721.
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vocabolario a disposizione e che considera non possibile rintracciare un vocabolario che
sia più universale degli altri.73 Così, anche la figura di Dio va accettata per l'influenza
storica che ha avuto e va riconsiderata con ironia, ovvero con quel distacco che permette
di non prendere come definitiva e ultima la propria posizione, la propria cultura, il
proprio vocabolario – a questo riguardo paradigmatica è l'affermazione di Vattimo:
«non crediamo al Vangelo perché sappiamo che Cristo è risorto, ma crediamo che Cristo
sia risorto perché lo leggiamo nel Vangelo».74 La religione non deve quindi rientrare
nell'arena epistemica ed anzi, essa può assumere valore al giorno d'oggi solo se si
mostra indifferente alla controversia tra teismo e ateismo.75
A differenza di Rorty, però, il quale si dichiara ateo, sebbene non nel senso di
negare alla credenza nel divino il valore di una ipotesi empirica che troverebbe la sua
confutazione nella migliore spiegazione scientifica dei fenomeni, quanto nel senso di un
rifiuto di ingerenze ecclesiastiche nelle scelte politiche,76 e che rintraccia il mutamento
73 Rorty, che si muove da una tradizione analitica, indica nei nostri enunciati sui fatti e gli oggetti delle
nostre esperienze ciò che conta realmente. Non è possibile infatti uscire dai differenti linguaggi che sono
dati dalle tradizioni e sono quindi contingenti e connessi ad una certa condizione storica. Egli rintraccia
nel modello narrativo il processo di autodescrizione che pone in essere una richiesta di riconoscimento da
parte degli altri. La descrizione si sostituisce all'inferenza propria dell'argomentazione logica, e attraverso
il confronto di differenti final vocabolaries, l'insieme di espressioni che producono effetti pratici e non
“mezzi trasparenti” per rappresentare la realtà, permette di applicare il metodo che consiste nel
“ridescrivere gruppi di oggetti o eventi con un gergo pieno di neologismi, nella speranza che gli altri
siano spinti ad adottarlo e ampliarlo”. La ridescrizione di noi stessi consiste così nel confrontare i
differenti final vocabularies di altri autori al fine di costruirci un'identità che sia il migliore possibile. Cfr.
R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari 1990. Cfr.
R. M. Calcaterra, The Linguistic World: Rorty's Aesthetic Meliorism, in L. Koczanowicz (ed.), Beauty,
Responsibility, and Politics. Ethical and Political Concequences of Pragmatist Aesthetics, Rodopi, New
York-Amsterdam, March 2014, pp. 93-109.
74 G. Vattimo, L'età dell'interpretazione, in R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione. Carità, ironia
e solidarietà, Garzanti, Milano 2005, p. 52.
75 R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, in R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione, cit., p. 40; 44.
76 Rorty considera infatti le istituzioni ecclesiastiche dannose per le società democratiche, prediligendo
l'idea di una privatezza dell'esperienza religiosa. Cfr. R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, cit., p. 37.
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storico decisivo negli eventi accaduti nel tardo Diciottesimo secolo,77 Vattimo indica
nell'evento storico dell'incarnazione il passaggio decisivo che porta ad assimilare il
bisogno di perdono con ciò che potremmo chiamare, in termini rortyani, la ricerca di un
vocabolario della “trascendenza”, ovvero un “supplemento” trascendente – «che è
insieme desiderio di rispondere alla domanda dell'altro, e appello a una trascendenza
capace di colmare l'insufficienza delle nostre risposte» – e che è allo stesso tempo il
richiamo alle tre virtù teologali della tradizione cristiana – la fede, la speranza e la
carità. Se il senso del sacro per Rorty può risiedere solo nel futuro, nella speranza di
«una civiltà globale in cui l'amore sarà senza sforzo la sola legge»,78 per Vattimo
perdono, morte e dolore, preghiera sono modi di esperire «una “appartenenza” che è
anche provenienza e, in qualche senso che è difficile precisare ma che sperimentiamo
nella stessa esperienza del ritorno, deiettività»,79 ovvero come recupero di una
condizione perduta.
In breve, per quanto accolga l'idea di una fede debole come individuale, Vattimo
rintraccia nel messaggio cristiano il senso redentivo, e sebbene lo interpreti come
dissoluzione delle pretese della oggettività,80 indica crocianamente nell'esplicita
assunzione della nostra storicità cristiana la possibilità di dar conto della nostra
condizione esistenziale storica e concreta. L'idea “non possiamo non dirci cristiani”
mostra, nella condizione storica odierna, dopo il dissolvimento delle metanarrazioni e la
demitizzazione di ogni autorità veritativa e politico-emancipativa, che «la nostra unica
possibilità di sopravvivenza umana è riposta nel precetto cristiano della carità».81
Credere che si crede assume quindi nel credente Vattimo la disposizione di chi,
nonostante le contingenze storiche imperniate di ateismo indifferentista, si affida alla
77 Ovvero nella coincidenza tra rivoluzione francese e movimento romantico, quando gli intellettuali
«incominciarono a discutere del potere dell'immaginazione umana». R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della
religione, cit., p. 70.
78 Ivi, pp. 44-45.
79 G. Vattimo, La traccia della traccia, cit., p. 84.
80 Cfr. G. Vattimo, L'età dell'interpretazione, cit., p. 53.
81 Ivi, p 57.
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fede, e proprio per questo suo affidarsi si attiva quotidianamente alla storia della
salvezza e della rivelazione, dedicandosi agli altri e attuando un'etica del rispetto e della
solidarietà. Potremmo parlare della sua espressione di fede come di una sorta di “etica
caritatevole del discorso”, che attraverso la speranza di poter credere in un'epoca priva
di fondamenti certi, permetta di accogliere un atteggiamento pluralista, multiculturalista
e contengentista come unico approccio alla verità di fede e di azione. Vattimo è per così
dire un cristiano “comunitario” (più che “comunitarista”), che accoglie una concezione
del sive del rapporto tra cristianità e Occidente: esse si coappartengono e conservano gli
elementi costitutivi dell'Occidente e della modernità.82
La sfida che egli pone sembra allora quella di intendere la debolezza divina e
ontologica come giustificazione della “tolleranza”, come ciò che, prima di ogni forma di
accettazione, richiede una apertura all'Altro. La fede vattimiana sembra una fede
riflettente, che permette di comprendere l'altro attraverso la mediazione dello spirito.
Come scrive Derrida:
«il concetto di tolleranza, strictu sensu, appartiene anzitutto a una sorta di domesticità
cristiana. È letteralmente, intendo, con questo nome, un segreto della comunità cristiana. È
stato coniato, emesso e posto in circolazione in nome della fede cristiana […]. La lezione
di tolleranza è stata anzitutto una lezione esemplare che il cristiano pensava di poter dare
lui solo al mondo, anche se spoesso doveva imparare a capirla lui steso. Sotto questo
aspetto, tanto l'Aufklärung quanto i Lumières sono stati di essenza cristiana.83
Si tratta di una tolleranza, radicata nella debolezza, che rispetta l'alterità come
singolarità, e tale rispetto viene così inteso come religio, legame, scrupolo, ritegno,
distanza, disgiunzione.84
Suo scopo è quello di concentrarsi «sulla possibilità di costruire un'etica fondata
82 Cfr. Id., Dopo la cristianità, cit., pp. 75-88.
83 J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, in J. Derrida
e G. Vattimo (a cura di), La religione, cit., pp. 23-24.
84 Ivi, p. 25.
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sull'accordo tra individui diversi»,85 basata su un politeismo di valori, come
«tradizionalisti multiculturali».86 Ciò significa riferirsi alla tradizione in cui stiamo,
considerando però la tradizione come tutto l'insieme di cose all'interno delle quali
compiamo le nostre scelte in base non ad un criterio di verità assoluta ma in base alla
carità: «scelgo soprattutto quelle interpretazioni e quelle soluzioni che mi permettono di
guardare l'altro senza vergognarmi».87
Egli interpreta il messaggio cristiano della carità come la base per una società
della tolleranza, nella quale il nostro atteggiamento nei confronti del prossimo si basa
non su di una descrizione oggettiva della sua o mia natura umana «ma perché l'ho
ricevuto come un valore che risulta dalla tradizione in cui mi trovo, in una serie di
insegnamenti che remotamente risalgono fino a Gesù Cristo».88 Da qui allora la
possibile interpretazione del pensiero debole come pensiero dei deboli.
Vattimo propone così la possibilità di costruire un pensiero etico che non sia
scoperto o accettato, ma che sia il frutto di una prospettiva consensualistica, fondata
sulla negoziazione, la cui origine egli riconduce proprio alla religione cristiana:
soltanto grazie al fatto che il cristianesimo mi ha liberato da tutti gli idoli, ed anzi dall'idolo
della verità e oggettività, posso iniziare a dare ascolto con attenzione alle esigenze degli
altri, del mio prossimo, al politeismo dei valori […] Il cristianesimo ci ha insegnato infatti
che la verità senza la carità non ha senso. Così, quando penso che devo amare il mio
prossimo, non credo che questo dovere corrisponda a una proposizione conoscitiva, alla
quale aderire perché è scritto da qualche parte, ma anzitutto un insegnamento, o un invito,
che mi proviene da qualche parte, da qualcuno. […] Devo amare il prossimo perché sono
stato a mia volta amato, e ciò coincide semplicemente con il mio trovarmi “gettato” in un
orizzonte storico-destinale, come direbbe Heidegger, al di fuori del quale non posso
nemmeno pensare la mia esperienza, e che mi fa preferire determinati criteri e modi di
85 Id., Una bioetica post-metafisica, in D. Antiseri, G. Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa
nell'era postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 8.
86 Ivi, p. 9.
87 Ibidem.
88 Ivi, p. 10.
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comportamento rispetto ad altri.89
Ma una società in cui il dibattito e il consenso assumono valore di costruzione
dell'eticità non può che porsi il problema della formalizzazione razionale di questa
apertura. Il riferimento ovviamente è qui ad Habermas e alla sua “etica del discorso”.
Perchè il problema è, come ha ben presente Vattimo, capire se, posta la carità come
principio di ogni possibile confronto per la costruzione di un pensiero etico, quindi
come apertura all'accoglienza delle ragioni dell'altro, la questione rimane se i codici che
rispettino tale principio siano frutto di accordi, di convenzioni, e quindi di una
dimensione della razionalità, o se si radichino in qualcosa di più profondo, in una
“provenienza” più, per così dire, fondamentale e fondazionale. Forse è in questa
prospettiva maggiormente comprensibile l'ambiguità vattimiana del “credere di
credere”, in cui il primo credere assume il valore di un opinare con un certo margine di
incertezza, e il secondo della convinzione e della fede.90 Secondo Vattimo, il fatto è che,
una volta acquisito il principio del rispetto reciproco, tutto il resto assume valore di
convenzione e può diventare oggetto di uno storico consenso di retorica sociale.
Questa posizione si rivela in parte problematica perché il principio del rispetto
chiama in causa il principio della libertà, un principio che può essere (ed è stato) spesso
strumentalizzato. Cosa si deve intendere per libertà? “Libertà da” ogni costrizione e
legame? O piuttosto “libertà di” scegliere in piena facoltà? E in che modo la “libertà da”
ogni costrizione è realmente libertà? Ma soprattutto, è possibile una “libertà da”
costrizioni nel momento in cui accettiamo il fatto di essere “gettati” in un contesto
storico, sociale, culturale precostituito? Non è forse, la “libertà da”, un'idea che radica la
propria giustificazione nella tendenza di assolutizzazione e radicalizzazione delle
categorie concettuali? Non è forse anche la “libertà da” un residuo di una prospettiva
che trova la propria legittimazione in metanarrazioni ideologiche (penso in particolare
qui all'ideologia neo-liberista odierna)? E se parliamo di “libertà di” scegliere per sé,
89 Ivi, p. 11-12.
90 Id., Dopo la cristianità, cit., p. 5.
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proprio perché non vi è una libertà che possa essere completamente staccata da
condizionamenti, in che modo è possibile scegliere per se stessi? Vattimo si richiama a
MacIntyre per sostenere che la vita buona è quella in cui posso decidere che cos'è per
me la vita buona. Ma, mi chiedo, non devo anche essere in grado di decidere, e per
essere in grado non devo forse avere gli strumenti per poter valutare, discernere,
scegliere in autonomia e in piena facoltà? E per decidere in autonomia e piena facoltà
non devo innanzitutto poter vivere dignitosamente, ovvero avere la possibilità di
formare adeguatamente le mie capacità di discernere, capire innanzitutto cosa significa
“vita buona” e quindi valutare ciò che può essere la vita buona per me (senza magari
venire subdolamente condizionato da messaggi “subliminali”)? Devo, in altre parole,
essere educato al riflettere e allo scegliere,91 e questo è possibile solo attraverso la
91 Come ha notato Christopher Lasch, nella società consumistica la riduzione della scelta a questione di
“gusto” nell'immediato ha portato a fraintendere la libertà di scelta al mantenersi aperta la libertà di
scelta: in tal modo si giunge a screditare l'idea di conseguenze e responsabilità per le proprie scelte e in
ultima istanza ad una astensione dalla scelta stessa perché basata su una scelta immediata che si
“consuma” nell'immediato: «Se non implica la possibilità di stabilire una differenza, di mutare il corso
delle cose, di dare il via a una catena di eventi che potrà anche risultare irreversibile, l'idea di scelta nega
la libertà che pretende di sostenere». (C. Lasch, L'io minimo, Feltrinelli, Milano 2004, p. 24). Nel suo
romanzo magistrale, Infinite Jest, David Foster Wallace scriveva: «Qualcuno che aveva autorità, oppure
avrebbe dovuto avere autorità e non l’ha esercitata [...] in un tempo passato vi ha fatto dimenticare come
scegliere, e cosa. Qualcuno ha fatto dimenticare al tuo popolo che era l’unica cosa importante, scegliere.
[...] Qualcuno ha insegnato che i templi sono per i fanatici solamente e ha portato via i templi e ha
promesso che non c’era necessità per i templi. E adesso non c’è rifugio. E niente mappa per trovare il
rifugio di un tempio. E tutti voi incespicate nel buio, in questa confusione fatta di permissività. La ricerca
senza fine di una felicità della quale qualcuno vi ha fatto dimenticare le vecchie cose che erano quella
felicità e la rendevano possibile. [...] La vostra libertà è libertà-da [...] è una libertà dalla costrizione e
dall’imposizione. [...] [Ma] Non si è solo liberi-da. Non tutti gli obblighi vengono dall’esterno. Voi
fingete di non vedere questo. Dov’è la libertà-di. Come fa la persona a scegliere liberamente? Come
scegliere qualcosa di diverso dalle scelte ingorde dei bambini se non c’è un padre pieno di amore a
guidare, informare, insegnare alla persona come scegliere? Come ci può essere libertà di scegliere se non
si impara come scegliere? [...] Il padre ricco che si può permettere sia le caramelle sia il cibo per i suoi
figli: ma se lui strilla “Libertà!” e permette al suo bambino di scegliere solamente quello che è dolce, di
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promozione della capacità di esercitare il pensiero critico, di valutare ciò che è possibile
fare e ciò che è ammissibile nel rispetto altrui. Su questo aspetto possiamo forse
rintracciare un punto di convergenza con la distinzione vattimiana dei tre significati del
verbo potere: il koennen tedesco, ovvero l'essere capaci di fare; il dürfen, ciò che è
eticamente possibile; e ciò che è ammissibile consensualmente nel contesto umano in
cui viviamo e che comporta la dimensione morale dell'agire secondo il principio del
rispetto dell'altro. Il rischio, a mio avviso, è una estremizzazione di quest'ultimo
significato, una possibilità alla quale Vattimo sembra non porre adeguata attenzione.
Qui si radica a mio avviso la questione della capacità di esercitare la “libertà di”
scegliere ciò che è la vita buona per me. La questione rimane dal mio punto di vista
ancora aperta e richiede forse una valutazione anche della dimensione sociale, di quella
psicologica, biografica, narrativa, di ontogenesi della capacità critica. Chi ha la
coscienza di decidere, di riflettere, di discernere, deve essere lasciato libero di decidere,
ma deve anche essere messo nelle condizioni di poter decidere liberamente. Vale allora
qui la domanda che anche Mauro Mantovani muove a Vattimo e all'opposizione che egli
evidenzia tra verità e libertà, ovvero tra dimensione della conoscenza e dimensione
dell'agire:
perché la verità dovrebbe costituire un grave ostacolo per la libertà? È proprio così fondata
la loro divaricazione, tanto che dall’orizzonte della conoscenza e dell’essere sembra deve
scomparire il valore della verità mentre nell’orizzonte dell’agire umano la libertà è tale solo
se sganciata dalle “pesanti catene” (dogmatiche) della morale?.92
Mantovani sostiene, a mio avviso a ragione, che senza la verità, «la stessa
autentica libertà viene compromessa, perché la loro saldatura ontologica ed etica
mangiare solo caramelle e non la zuppa di piselli e il pane e le uova, allora suo figlio diventa debole e
malato: e l’uomo ricco che strilla “Libertà!” è un buon padre?» (D. Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi
2006, pp. 383-84).
92 M. Mantovani, op. cit., p. 115.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
permane come fondamentale e – se rettamente intesa – irrinunciabile».93 Ed è
assolutamente condivisibile la critica, che Mantovani condivide con Armando Matteo,
che l'ipervalutazione “formale” dell’amore, come principio su cui fondare serenamente
qualsiasi codice etico, tenda a trasformarlo in un puro principio disincarnato e
disincarnante.94 Su questa linea, anche Girard, che con la sua opera ha permesso a
Vattimo «di capire l'essenza eventuale e storico-progressiva del Cristianesimo e della
modernità»,95 non condivide l'idea vattimiana che sia possibile vivere in un mondo di
verità relative eliminando al contempo le ansie e le nevrosi che caratterizzano il nostro
tempo.96 Girard non riesce ad accettare l'idea che la storia della rivelazione abbia avuto
un cammino lineare, progressivo e soprattutto che abbia una prospettiva positiva del
proprio corso, così come la indica Vattimo. Il cristianesimo è sì creativo, sostiene
l'antropologo francese, ma tale creatività è tanto liberatoria quanto distruttrice: «Quando
per mezzo del Cristianesimo ci si sbarazza del sacro, vi è una salvifica apertura
all'agape, alla carità, ma c'è anche una apertura a una possibile violenza superiore».97
Una volta che il meccanismo sacrificale è stato messo in crisi e superato, una nuova fase
storica si apre, che pone in essere una ricerca in cui la storia stessa diventa terreno di
sperimentazione per nuovi meccanismi di equilibrio; da qui l'ideologia democratica, la
tecnologia, il capitalismo, la società mass-mediatica, la mercificazione della natura
umana. Ma se al giorno d'oggi ci troviamo ad affrontare un terrorismo che è riuscito a
portare delle persone a sconfiggere e neutralizzare le tecnologie più sofisticate per
uccidere degli innocenti, «allora dobbiamo renderci conto che ci troviamo in un mondo
93 Ivi, p. 116.
94 Ivi, p. 120. Cfr. A. Matteo. Della fede dei laici. Il cristianesimo di fronte alla mentalità postmoderna,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p. 96.
95 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa,
Massa 2006, p. 7.
96 Cfr. P. Antonello, Introduzione, in R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su
cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Massa 2006, p. xv.
97 R. Girard, G. Vattimo, Verità o fede debole?, cit., p. 13.
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In M. Marin, J. Kuruvachira (a cura di), Le ragioni dell’ateismo: spunti di dialogo per i
credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
aperto a possibilità che prima non c'erano»,98 e che evidenziano i rischi di una
prospettiva di abbandono di riferimenti sicuri e certi rispetto alla contingenza e relatività
delle esistenze singole.99
Condividendo tali critiche, credo sia comunque possibile affrontare la questione
della verità e libertà da una prospettiva leggermente diversa, che ci permetta di
accogliere un'idea di verità inclusiva di differenti prospettive. Non si tratta, ben inteso,
di appoggiare una visione relativistica. Si tratta piuttosto di porre in luce la questione
della verità salvaguardandola da derive autoritaristiche strumentalizzanti sul piano
etico-politico in tutti i sensi. Questa è forse la preoccupazione maggiore di coloro che
con Vattimo hanno voluto negare una nozione troppo forte e rigida di “verità” (penso ad
esempio a Richard Rorty o a Jean-François Lyotard), senza però porre adeguata
attenzione al rischio di una strumentalizzazione parimenti assolutista di posizioni anti-
veritative. Ma se tale negazione viene interpretata come una minaccia sul piano
ontologico e gnoseologico, spostando la prospettiva su di un piano etico essa può
assumere un valore differente, poiché sposta l'attenzione dalla dimensione della
conoscenza a quella dell'agire. Mi rendo conto che può sembrare un tentativo di difesa
della posizione vattimiana. In realtà ciò che cerco di evidenziare è il modo in cui essa
chiama ad una azione, contro la re-azione che segue all'accettare un sistema
rassicurante. La proposta di Vattimo di entrare nella Babele del pluralismo postmoderno
e farsi portatore dell'idea di laicità da parte del cristianesimo, si dimostra non accettabile
98 Ivi, p. 23.
99 A queste critiche va aggiunta anche quella avanzata da Berti, il quale rintraccia in Vattimo una
interpretazione riduttiva del cristianesimo che mette in luce solo una parte del messaggio, ovvero quello
dell'assunzione della natura umana di Dio, dimenticando che così facendo Egli non perde la sua natura
divina. Come nota Berti al riguardo: «se Cristo non fosse più Dio, quale valore avrebbe la sua amicizia
per noi, cioè in quele modo questa ci potrebbe salvare?». E. Berti, Credere di credere: l'interpretazione
del cristianesimo di G. Vattimo, in «Studia patavina», LXIV, 2 (1997), p. 63. Berti evidenzia inoltre come
nell'ammissione di Vattimo del sentimento di dipendenza da Dio implica l'accettazione di un principio
trascendente riconducibile alla metafisica (Ivi, p. 65).
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
nel momento in cui interpreta il carattere chenotico come relativista,100 poiché così
facendo egli rende l'incarnazione il simbolo non tanto della negazione della soggettività
forte, quanto di una riduzione ad una soggettività inesistente, incapace di giungere ad
una prospettiva veritativa sulla realtà. Ma se si potesse interpretare, dalla stessa
prospettiva laica che propone Vattimo, il carattere chenotico in termini di un pluralismo
di prospettive anziché di relativismo, questo forse potrebbe aiutare ad accogliere una
visione che, perdendo elementi di superstizione, non elimina l'idea di una fede come
“prospettiva” oggettiva composta da vari punti di vista. Si tratta quindi di fare appello
non tanto all'abbandono della propria fede, né ad una esperienza del “noi” che la
comunità cristiana vive, un noi che richiama un'idea di identità che, come deve
ammettere lo stesso Vattimo, è un rischio che «ogni discorso non puramente intimistico
e solipsistico deve affrontare, anche quando pretenda di parlare in termini puramente
empiristici»,101 quanto di rendere tale identità comprensibile, fruibile da chi non rientra
in questo “noi”, attraverso un nuovo paradigma linguistico.
Limitare il campo delle pretese veritative significa accettare la natura fallibile
dell'uomo nella ricerca della verità e lasciare spazio al campo dell'agire comunicativo,
senza abbandonare le proprie credenze, ma rendendole disponibili ad una pratica del
confronto nell'esercizio delle libertà proprie ed altrui.102 Non si tratta qui di una
religiosità “morbida” dei cattolici dell'Europa meridionale, come contrapposta a quella
che ispirò la Riforma protestante.103 Ovviamente, serve avere una direzione, una
100 G. Vattimo, Addio alla verità, cit., p. 58.
101 Ivi, p. 59.
102 Cfr. A. Matteo, Della fede dei laici, cit., pp. 159-160: «L'essere umano è caratterizzato
fondamentalmente dalla libertà e dalla storicità, che insieme dicono il carattere drammatico della sua
esistenza […] vivere significa decidere, ovvero lasciar cadere alcune possibilità a favore di quella per la
quale io rischio la mia esistenza in una perenne tensione verso il domani e nella continua frizione che si
crea nell'intreccio delle libertà mia e di coloro che mi sono di fatto accanto. […] L'esistenza cristiana si
configura essenzialmente come partecipazione alla libertà e alla dimensionalità del vivere di Cristo:
tensione feconda tra prossimità a Dio, riconosciuto come Abbà, e vicinanza concreta ai fratelli e alle
sorelle.»
103 Cfr. G. Vattimo, Addio alla verità, cit., p. 63.
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
formazione, una capacità di discernimento, ma tale conoscenza deriva dallo stimolare la
capacità critica dell'uomo, stimolarlo ad usare la propria coscienza per discernere,
valutare le conseguenze delle proprie scelte, assumere la responsabilità di esse e
apprendere a darne ragione.104 È infatti assolutamente condivisibile l'idea che la
multiculturalità non possa sussistere senza punti di orientamento a partire dai valori
acquisiti nel contesto culturale e sociale di riferimento. Così come è condivisibile l'idea
che tra i valori del cristiano ci sia una coincidenza tra amore e verità, tra riabilitazione
del debole, della vittima, direbbe Girard, e la verità che tale riabilitazione come un
volano alimenta: la responsabilità di ognuno, in quanto essere sociale, per le
conseguenze delle proprie scelte nei confronti propri e degli altri.105
Potremmo allora tentare una possibile lettura postmoderna della caritas cristiana
alla luce dell'idea rortyana (evitando però tutto il suo impianto ateistico) di carità intesa
come la tendenza ad accogliere l'esperienza altrui e farla propria, esperienza intesa in
questo senso come l'insieme delle pratiche esercitate dagli altri e apprese attraverso la
partecipazione alla vita comune (e qui nuovamente la nozione di mimesis viene in
soccorso).106 D'altronde, anche nella tradizione filosofica analitica autori come Quine e
soprattutto Davidson hanno indicato nel principle of charity un principio fondamentale
nell'esperienza del dialogo.107 Esso si rivela, come nota Calcaterra, il principio che
permette di riconoscere coloro che parlano un linguaggio differente dal nostro come
«individui dotati di un insieme di credenze, intenzioni, desideri e sentimenti che si
intersecano profondamente nella comunicazione con gli altri».108 Ciò permette di
concepire un piano della comunicazione in cui assumono rilevanza i sentimenti umani,
104 Su questo punto cfr. R. M. Calcaterra, Individuale, sociale, solidale: dissonanze e armonie, in Id. (a
cura di), Semiotica e fenomenologia del sé, Nino Aragno, Torino 2005.
105 Cfr. C. Larmore, Pratiche dell'io, Meltemi, Roma 2006.
106 R. Rorty e G. Vattimo, Il futuro della religione, cit., p. 64.
107 Cfr. W. V. O. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 77 ss.; D. Davidson, Verità e
interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 19-94.
108 R. M. Calcaterra, Individuale, sociale, solidale: dissonanze e armonie, cit., p. 32.
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
nella misura in cui ciascuno di noi tende a percepirli come un aspetto imprenscindibile della
propria identità, dunque, cerca di difenderne la validità mettendo in opera quella 'normale'
attitudine degli esseri dotati di pensiero e linguaggio ad attingere a criteri di giustezza
oggettiva e di verità socialmente riconoscibili.109
E questo vale a maggior ragione nel contesto in cui ci muoviamo per quanto
riguarda il sentimento religioso e la difesa della sua validità da parte della persona di
fede nel contesto di formazione dell'opinione e della volontà comune.
5. Conclusione
In Introduzione alla Cristianità, Ratzinger ha evidenziato come la nozione di
schesis (σχέσις), evidenzi il valore rivoluzionario che la nozione di relazione ha assunto
grazie al pensiero trinitario. Inserendo questa idea nella nostra riflessione, potremmo
assumere la nozione di schesis (σχέσις), di relazionalità, come tendenza ad enfatizzare
l'ontologia trinitaria dinanzi alla questione del legame tra l'unità concettuale dell'essere e
la diversità metafisica degli esseri, per evidenziare in particolar modo come la relazione,
la comunione, la persona, siano nozioni che chiamano necessariamente in causa la
dimensione etica della tolleranza e dell'accoglienza.
Alla luce di un mutamento della cultura occidentale, avvenuta a partire dalla
Riforma e dall’Illuminismo, l'accentuazione alla dimensione della relazionalità come
condizione causale e dimensione ineludibile dell'identità, aiuterebbe forse ad affrontare
visioni del mondo estranee attraverso una condivisione della proprie verità, e una loro
rimessa in discussione in base a contesti di dialogo differenti.
L'aspetto interessante che Vattimo evidenzia nella sua riflessione è quello che
indica nella prospettiva cristiana il carattere della debolezza come valore anziché come
difetto, offrendo così un modo di accettazione della natura umana come imperfetta e
relazionale, bisognosa di affidarsi all'Altro, e di promozione di un modello di società
109 Ivi, p. 34.
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credenti, LAS, Roma 2016, Isbn 9788821310775, pp. 363-396.
che impari ad arginare le pretese assolutistiche e fondazionaliste che guidate da un
ideale di perfezione irraggiungibile nel qui ed ora della condizione esistenziale umana,
alimenta meccanismi di oggettivazione, strumentalizzazione e mercificazione della
natura umana.
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