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ITALIANISTICA Rivista di letteratura italiana ANNO XXXIX · N. 2 MAGGIO/AGOSTO 2010 PISA · ROMA FABRIZIO SERRA EDITORE MMX estratto issn 0391-3368 issn elettronico 1724-1677

Il passo di Nerina : memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze

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ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

ANNO XXXIX · N. 2

MAGGIO/AGOSTO 2010

PISA · ROMA

FABRIZIO SERRA EDITORE

MMX

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724-

1677

ITALIANISTICARivista

di letteratura italiana

Periodico quadrimestrale diretto daDavide De Camilli, Bruno Porcelli

*Comitato di consulenza:

Johannes Bartuschat, Lucia Battaglia Ricci, Lina Bolzoni,Maria Cristina Cabani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,

Guglielmo Gorni, François Livi, Martin McLaughlin, Cristina Montagnani,Emilio Pasquini, Lino Pertile, Gianvito Resta, Luigi Surdich

*Redazione:

Sara Boezio, Ida Campeggiani, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto,Maiko Favaro, Eugenio Refini

*Inviare i dattiloscritti e i volumi per recensione, omaggio o cambio a

«Italianistica», presso Dipartimento di Studi Italianistici, Facoltà di Lingue,Via dei Mille 15, i 56126 Pisa, tel. e fax **39 050 553088

*«Italianistica» is a Peer-Reviewed Journal

IL PASSO DI NERINA.MEMORIA, STORIA E FORMULE DI PATHOS

NELLE RICORDANZE*

Fabio Camilletti

Le ricordanze di Leopardi (1829) descrivono un’esperienza di straniamento, in cui gli spazi fisici della‘casa’ si fanno altrettanti loci memoriæ e il soggetto è colto dall’irrompere di ricordi che credeva se-polti. Analizzando Le ricordanze alla luce della nozione freudiana di perturbante, il saggio interro-ga l’ambiguità leopardiana tra memoria individuale e mito-illusione come deriva della concettua-lizzazione illuministica della storia, e suggerisce la presenza sotterranea, nel testo, del mitologemadella ‘ninfa’. La ricordanza, in Leopardi, è un warburghiano Nachleben der Antike, in cui remini-scenza e mito si confondono, riassunti nella grazia del ‘passo’ della ninfa-Nerina.

Leopardi’s poem Le ricordanze (1829) describes an experience of estrangement, through which thephysical spaces of the ‘house’ become as many loci memoriæ, and the subject is overpowered by thereturn of allegedly buried memories. While analyzing Le ricordanze in the light of the Freudian uncanny, this essay questions Leopardi’s ambiguity between individual memory and myth-illusionas an outcome of Enlightenment conceptualizations of history, and suggests the subterraneanpresence, within the text, of the mythologem of the ‘nymph’. Memory, in Leopardi, is a Warbur-gian Nachleben der Antike, in which reminiscence and myth are confounded and sublimed in the gra-cious ‘step’ of the nymph Nerina.

Ogni epoca è capace di vedere solo quei simboli del-l’Olimpo che può riconoscere e assimilare in virtù dellosviluppo dei suoi strumenti di visione interiore.

A. Warburg

[…] Fantasmi, intendo […]Le ricordanze (26 agosto-12 settembre 1829), v. 81

Condannato […] a quest’orribile e detestata dimora […]Lettera a C. Bunsen, 5 settembre 1829

1.alle stanze di Palazzo Leopardi alle stanze della poesia,1 quel che si mette in sce-na nelle Ricordanze è un gioco di rimandi, di rifrazioni, che dall’«albergo ove abitai

* Per i Canti, ho seguito l’edizione G. Leopardi, Canti, a cura di E. Peruzzi, Milano, Rizzoli, 19982, dove per loZibaldone ho fatto riferimento a Idem, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991. Seguendoun uso ormai consolidato, cito lo Zibaldone indicando di seguito il numero di pagina e la data dei singoli frammen-ti. Per gli altri scritti ho fatto riferimento a: Scritti e frammenti autobiografici, a cura di F. D’Intino, Roma, Salerno Editrice, 1995; Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di G. B. Bronzini, Venosa, Osanna, 1997; Tutte le poe-sie e tutte le prose, a cura di L. Felici e E. Trevi, Roma, Newton Compton, 1997. Nel riprodurre citazioni leopardianemi sono limitato a traslitterare i caratteri greci. Questo saggio è stato concepito nell’ambito e col supporto di unafellowship al Berlin Institute for Cultural Inquiry, nel quadro di una ricerca più ampia su immagine, ‘fantasma’ e perturbante freudiano: colgo l’occasione per ringraziare i colleghi, lo staff e il direttore dott. Christoph Holzhey.

1 Blasucci usa «liriche», conformemente alla voluta indeterminatezza leopardiana sui generi metrici dei Canti(L. Blasucci, I tempi dei «Canti», in Idem, I tempi dei «Canti». Nuovi studi leopardiani, Torino, Einaudi, 1996, pp. 177-

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fanciullo» si fa pressoché immediatamente parola poetica: tra i due – intermediaria, equasi referente comune – sta, appunto, la memoria, oggetto del canto che il ritorno al«borgo selvaggio» contribuisce a riattivare. Non ci si illuda – l’ha scritto di recente, conparole molto puntuali, Alberto Folin1 – che il ritorno a casa sia semplicemente quello,fisico, a Recanati: il «tornare ancor per uso» a contemplare le stelle è, anzitutto, stupo-re nello scoprirsi ancora capaci di provare ‘illusioni’, a «ragionare» con esseri inanimaticom’è abitudine degli ‘antichi’ e dei ‘fanciulli’.2 E, tuttavia, quello delle Ricordanze è eresta anche un nostos nel senso più pieno, mitico del termine:3 ritorno ai luoghi dellagiovinezza, che accosta – al riaffiorare delle ‘illusioni’ – una consapevolezza disincanta-ta che produce parola.

Non parlo di ‘luoghi’ a caso: perché, nel fluire degli endecasillabi sciolti – a sottoli-neare il movimento rapsodico del pensiero, a far coincidere fin dentro la forma dellacanzone l’andamento danzante dell’affastellarsi delle ‘ricordanze’4 – una delle trameche, esili, possono scorgersi è precisamente quella relativa ai «luoghi» (v. 137), ai loci fisicidella casa che si fanno altrettanti loci memoriae. Le finestre, anzitutto, che rimandano algiardino e alle «voci alterne» provenienti dabbasso, e da cui poi ci si allarga all’orizzonte,al «lontano mar» e ai «monti azzurri»;5 la «buia stanza», da cui si sente il «suon dell’ora/

218: cfr. pp. 180-183). Sulla natura metrica delle Ricordanze, cfr. ivi, 202-203. Piuttosto che di ‘stanze’, Blasucci parlapiù correttamente di «lasse»: mantengo tuttavia il primo termine, perché più evocativo all’interno del mio di-scorso. La loro suddivisione risulta netta e definita fin dall’autografo; d’altro canto, Le ricordanze segnano l’iniziodi una pratica di incorporazione delle varianti, tra parentesi, fin dentro il testo, quasi a suggerire un procedimen-to compositivo più fluido, condotto sul filo di associazioni concettuali e affinità sonore (cfr. quanto, sulla scia diMoroncini, nota Emilio Peruzzi in Leopardi, Canti, cit., pp. 471-472, nota).

1 «È importante sottolineare che l’inatteso ritorno non va individuato in quello che Leopardi effettua concre-tamente nella casa paterna, quanto nel rinvenire alla capacità di ‘contemplare’, cioè di rivedere il mondo nel suoimpianto mitico» (A. Folin, Leopardi e il canto dell’addio, Venezia, Marsilio, 2008, p. 96). Su Le ricordanze cfr., in ge-nerale, le pp. 94-112.

2 Si veda il celebre passo del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica in cui Leopardi sostiene che «quel-lo che furono gli antichi, siamo stati noi tutti» (Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 972-973). È da a notare come ladialettica animato/inanimato sia anche il primo esempio – desunto da Ernst Jentsch – che Freud sceglie, nel saggiosul Perturbante, per dare una prima definizione di Unheimliche: «Jentsch ha rilevato come caso particolarmente adat-to “il dubbio che un essere apparentemente animato sia vivo davvero e, viceversa, il dubbio che un oggetto privodi vita non sia per caso animato” [Zweifel an der Beseelung eines anscheinend lebendigen Wesens und umgekehrtdarüber, ob ein lebloser Gegenstand nicht etwa beseelt sei], e si è richiamato all’impressione provocata da figure dicera, da pupazzi e da automi [Wachsfiguren, kunstvollen Puppen und Automaten]» (S. Freud, Il perturbante, inIdem, Opere, traduzione di S. Daniele, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006, ii, pp. 755-801: p. 768; per il testotedesco faccio riferimento a S. Freud, Das Unheimliche, in Idem, Gesammelte Werke, Frankfurt am Main, Fischer,2005, xii, pp. 227-268). ‘Perturbante’ è la più comune traduzione italiana di Unheimliche, ed è anche quella che – inquesta sede – scelgo di adoperare: sulle implicazioni del termine, oltre ovviamente al saggio di Freud, cfr. l’intro-duzione a G. Berto, Freud, Heidegger Lo spaesamento, Milano, Bompiani, 1999, pp. 1-9; per una discussione sulle pos-sibili traduzioni italiane, che difettano tutte dell’implicito riferimento alla sfera semantica dell’oikonomía, della ‘ca-sa’ contenuto nel termine originale, cfr. p. 2, nota. Il concetto freudiano di perturbante ha avuto, com’è noto, una singolare fortuna nella critica letteraria, nell’estetica, nella filosofia. Per una panoramica generale cfr. N. Royle,The Uncanny, Manchester, Manchester University Press, 2003 e quanto scrive sempre Berto, cit., pp. 10-12. Su unsingolare caso di «kunstvolle Puppe» legata a Leopardi, interessante M. A. Rigoni, Un Elzeviro. Opere d’arte per amo-ri mancati, in Giacomo Leopardi. Viaggio nella Memoria, a cura di F. Cacciapuoti, Milano, Electa, 1999, pp. 147-148.

3 Lonardi parla, per questi versi, di una memoria dell’Iliade nella traduzione montiana, che trasferisce su Leo-pardi – attraverso l’evocazione del tema mitico del ritorno – la «delicatezza» di Achille nel dialogo con la madreTeti (G. Lonardi, L’oro di Omero. L’«Iliade», Saffo: antichissimi di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 13-14).

4 «[…] al di là di ogni disegno logico o cronologico, l’avvicendarsi delle lasse riflette lo stesso ondeggiamentointeriore dell’io poetante, con una successione di “respiri” in cui sembra realizzarsi l’idea di una poesia come tra-duzione sensibile del “tempo dell’anima”» (Blasucci, I tempi dei «Canti», cit., p. 203).

5 Nelle Ricordanze, la finestra di Palazzo Leopardi si riverbera in quella – «deserta», «onde / mesto riluce dellestelle il raggio» – di Nerina. La finestra appare del resto elemento cardine dell’erotica leopardiana: in A Silvia, èchiaro, ma già in un canto popolare trascritto nello Zibaldone nell’aprile del 1820 («Fàcciate alla finestra, Lucio-

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Dalla torre del borgo» e da dove lo sguardo si volge all’interno della casa; «Quella log-gia colà», «queste dipinte mura, / Quei figurati armenti, e il Sol che nasce / Su romitacampagna»; «queste sale antiche», «queste / Ampie finestre»; e, infine, «colà […] la fon-tana», a rievocare meditazioni di suicidio prima che si passi ai «luoghi» di Nerina – la fi-nestra, ancora, i colli, e «ogni fiorita / Piaggia».

È chiaro, dunque, come le ‘ricordanze’ trovino nella casa il loro referente primario:‘casa’ in senso ampio, naturalmente, spazio familiare legato all’infanzia e all’origine,qualcosa di simile a ciò che in tedesco si indica col termine Heim e che è decisamentepiù di uno spazio fisico – essendo lo Heim, essenzialmente, un perimetro affettivo, l’am-bito della ‘familiarità’, il luogo in cui l’‘Io’ si sente ‘a casa’.1 In qualche modo, anzi, loHeim è definito precisamente dalle ‘ricordanze’, dalla memoria: è il luogo «ove non è co-sa / Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro / Non torni, e un dolce rimembrarnon sorga», e che diviene pertanto House of Life, ‘casa della vita’;2 oppure lo spazio do-ve – per traslare il discorso in altri termini – ogni significante rimanda a un preciso si-gnificato, in base a un ‘codice’ determinato di cui si conosce la chiave.3 Leopardi stesso,nel rispondere alle osservazioni di Ludovico di Breme sul Giaour di Byron – negli ap-punti dello Zibaldone stesi all’inizio del 1818, e che avrebbero costituito l’ossatura del Di-scorso di un italiano intorno alla poesia romantica – aveva incluso, tra gli elementi che do-vevano costituire una sorta di ‘correlativi oggettivi’ del patetico,4 «la campana del luogonatio, (così dic[e Breme]) e io aggiungo la vista di una campagna, di una torre dirocca-ta ec. ec.» (Zib., 15): aggiunta pleonastica (e tanto più importante, verrebbe da dire, inun’ottica di memoria inconscia), che accostava al ‘natio’ (heimlich: ma cfr. anche «Que-sta Terra natal» di Ricordanze, v. 141) due elementi-cardine dell’immaginario leopardia-no, la torre e la campagna, che sembrano stare – nello Zibaldone – come sintagmi sal-damente correlati, di norma legati all’area semantica del vago e dell’indefinito.5

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la,/Decco che passa lo ragazzo tua»: Zib., 29), e a cui fa seguito un altro – riportato nel maggio dello stesso me-se – che proprio degli «sguardi innamorati e schivi» di A Silvia sembra essere il nucleo originario («Io benedico chit’ha fatto l’occhi / Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati»). Sempre a proposito di canti popolari, si veda infine lo stram-botto marchigiano (rintracciato con varianti nel Pesarese, nel Maceratese e nel Fermano) che Bronzini ha colle-gato proprio a questo passo delle Ricordanze: «Passo e ripasso e la finestra è chiusa; / non ce la vedo più l’innamo-rata, / non ce la vedo più come era prima; / quella che cerchi è morta e sotterrata» (G. B. Bronzini, Leopardi e lapoesia popolare dell’Ottocento, Napoli, De Simone, 1975, p. 92). Sulla finestra come «icona leopardiana» si veda F. Fer-rucci, Il formidabile deserto. Lettura di Giacomo Leopardi, Roma, Fazi, 1998, pp. 94-96.

1 «La parola heimlich è […] collegata alla domesticità (Häuslichkeit), all’essere a casa (heimatlich) o alla socievo-lezza (freundnachbarlich)» (A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, trad. diB. Del Mercato, Torino, Einaudi, 2006, p. 27). «Disons,» dice Lacan, «si ce mot [Heim] a un sens dans l’expériencehumaine, que c’est là la maison de l’homme. Donnez à ce mot de maison toutes les résonances que vous voudrez,y compris astrologiques» (J. Lacan, Le Séminaire. Livre x: L’angoisse (1962-1963), éd. par J.-A. Miller, Paris, Seuil, 2004,p. 60, lezione del 5 dicembre 1962).

2 Immagine vittoriana, che dà il titolo alla sequenza di sonetti The House of Life di D. G. Rossetti (1881) e al-l’autobiografia intellettuale di M. Praz, La casa della vita, Milano, Adelphi, 1979.

3 Per il concetto di codice semiotico cfr. U. Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, pp. 53-57e 71-200. Eco è tornato sul tema in Idem, Semiotica e filosofia del linguaggio, iii ed., Torino, Einaudi, 1997, pp. 255-258.

4 Leopardi stesso chiarisce, nelle stesse pagine, la natura ‘oggettiva’ di tali correlazioni, oggettiva nel senso dispontanea e senza che sia necessaria alcuna artificialità: «Che cosa è che eccita questi sentimenti negli uomini? Lanatura, purissima, tal qual’è, tal quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non proccurate mica a bel-la posta, ma venute spontaneamente: quell’albero, quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella selva, quel mon-te, tutto da per se, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in nessunissimo modo di dover eccitare questisentimenti, nè ch’altri ci aggiunga perchè li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. In somma questi oggetti, insommala natura da per se e per propria forza insita in lei, e non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti»(Zib., 15-16).

5 «Perciò [la curiosità] potrà esser la cagione immediata di questo effetto, (vale a dire che se l’anima non pro-vasse piacere nella vista della campagna ec. non desidererebbe l’estensione di questa vista), ma non la primaria […]

Ora, si sa come l’Heimliche abbia – diciamo così – per sua natura, una certa tendenzaa riversarsi nel proprio opposto, il perturbante (Unheimliche):1 e che è precisamentequella forma di angoscia che si manifesta nel familiare, quando questo si palesi in for-ma straniata, nel momento in cui qualcosa di estraneo e destabilizzante si insinua – con-taminandolo – nello spazio heimlich della ‘casa dell’Io’.2 Il perturbante è dunqueun’esperienza estetica che si costituisce su una tensione tra homely e unhomely, tra pros-simità e distanza: sentimento indefinibile e soggettivo, per ammissione dello stessoFreud,3 il perturbante è un je ne sais quoi astrattamente legato alla sfera dell’angoscia.4Senza per ora azzardare una definizione di ‘perturbante leopardiano’, noteremo tutta-via che una tensione tra familiare e non-familiare sembra essere, in qualche modo, co-stitutiva della stessa poetica del ‘vago’ e dell’‘indefinito’: discutendo nello Zibaldone temidel dibattito tardosettecentesco come quelli del sublime e della grazia,5 infatti, Leopardi

L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando inuno spazio immaginario […]» (Zib., 171, 12-23 luglio 1820); «[…] è notabile che l’anima in una delle dette estasi, ve-dendo p.e. una torre moderna, ma che non sappia quando fabbricata, e un’altra antica della quale sappia l’epocaprecisa, tuttavia è molto più commossa da questa che da quella. […] Come allorchè vediamo una vasta campagna,di cui pur da tutte le parti si scuopra l’orizzonte» (1429-1430, 1º agosto 1821); «[…] richiamar l’idea di una campagnaarditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle […] Una fabbrica una torre ec. ve-duta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacis-simo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.» (1430-1431, 1º agosto 1821); «All’uomo sensibile e immagi-noso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggettisono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una cam-pana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono» (4418,30 novembre 1828). Cfr. anche «Siccome torre / In solitario campo» (Il pensiero dominante, vv. 18-19) e, naturalmente,«D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna» (corsivi miei). Sui versi del Passero solitario sivedano alcune interessanti riflessioni in Lonardi, cit., pp. 46-48. Sull’immagine della torre in Leopardi, Gaetanopropone come fonte la Enquiry di Burke, dove essa – in quanto elemento di verticalità – era già stata promossa a«icona del sublime settecentesco» (R. Gaetano, Giacomo Leopardi e il sublime, Soveria Mannelli, Cz, Rubbettino,2002, p. 319). La suggestione burkeana non sembra dare comunque conto del persistere ossessivo dell’immaginenella memoria leopardiana, riverberata anche in contesti – come l’enumerazione rovinistica – a cui sarebbe in teo-ria estranea: è il caso di All’Italia e delle «erme / Torri» evocate nei versi iniziali. Sulla loro incongruenza rispettoal genere letterario e iconografico del rovinismo tardosettecentesco cfr. F. Fedi, Mausolei di sabbia. Sulla cultura fi-gurativa di Leopardi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997, pp. 15-25.

1 Da notare come anche Alberto Folin sembri riecheggiare, proprio a proposito delle Ricordanze, la nota defi-nizione freudiana di Unheimlichkeit come «un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essaestraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione [etwas dem Seelenleben von alters her Vertrautes, das ihmnur durch den Prozeß der Verdrängung entfremdet worden ist]» (Freud, Il perturbante, cit., p. 786): «A ben guar-dare […] l’appellativo [“vaghe stelle dell’Orsa”] suona, più che come un’invocazione, come un riconoscimento diqualcuno che è stato un tempo familiare, e che – come tale – inaspettatamente si ripresenta invitando al saluto»(Folin, Leopardi e il canto dell’addio, cit., p. 96).

2 O, ribaltando la questione come fa Jacques Lacan, quando «L’homme trouve sa maison en un point situé dansl’Autre au délà de l’image dont nous sommes faits. Cette place», continua Lacan, «représente l’absence où noussommes. A supposer, ce qui arrive, qu’elle se révèle pour ce qu’elle est –à savoir que se révèle la présence ailleursqui fait cette place comme absence –, alors, elle est la reine du jeu, elle s’empare de l’image qui la supporte, et l’ima-ge spéculaire devient l’image du double, avec ce qu’elle apporte d’étrangeté radicale. […] elle nous fait apparaîtrecomme objet, [elle] nous [révèle] la non-autonomie du sujet» (Lacan, cit., p. 60, lezione del 5 dicembre 1962).

3 Il perturbante, cit., pp. 759-760. La natura vaga e indeterminata del concetto di Unheimliche è stata recente-mente rediscussa da A. Masschelein, A Homeless Concept. Shapes of the Uncanny in Twentieth-Century Theory andCulture, «Image & Narrative. Online Magazine of the Visual Narrative», January 2003, online: http://www.ima-geandnarrative.be/uncanny/anneleenmasschelein.htm.

4 Lacan fa di Das Unheimliche il punto di partenza del suo seminario sull’angoscia del 1962-1963: «personne», di-chiara Lacan, «ne semble même s’etre aperçu qu[e] [l’article de Freud sur l’Unheimlichkeit] est la cheville indi-spensabile pour aborder la question de l’angoisse» (Lacan, cit., p. 53).

5 Per quanto riguarda il rapporto di Leopardi col dibattito estetico sul sublime, si veda anzitutto Gaetano, cit.,e, per una genealogia del concetto in relazione alle fonti classiche, Lonardi, cit., pp. 57-92. Tratterò del problemadella grazia più avanti.

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pare situare l’esperienza del godimento estetico in un’area indefinibile tra piacere e pathos, individuando l’effetto poetico in pratiche di distanza e straniamento nel fami-liare1 oppure come ricerca di familiarità nell’altro.2 Tale tensione è, nelle Ricordanze,presente a un livello profondo, articolato e intimo: anzi, sembra costituirne l’ossaturain senso quasi strutturale, riflessione che apparirà forse meno peregrina considerandocome il perturbante, nella lettura di Freud (del resto largamente indebitata alla tradi-zione letteraria del romanticismo tedesco, da Schelling a Hoffmann),3 si leghi a filo doppio proprio alla memoria, alle ‘ricordanze’, all’anamnesi di «tutto ciò che dovrebberestare segreto, nascosto e che invece è affiorato [alles, was ein Geheimnis, im Verbor-genen bleiben sollte und hervorgetreten ist]».4

Alle Ricordanze, la definizione di Schelling – e che Freud adopera a più livelli, da quel-lo prettamente analitico del rimosso individuale alla strada (sfortunatamente non per-corsa, e che sarà uno dei punti di partenza di Michel de Certeau)5 di un’applicazione delmodello a processi storico-culturali6 – si applica in modo singolarmente multiforme: se-polti i ricordi d’infanzia e d’adolescenza, ma sepolta anche la capacità di provare illu-sioni, essi tuttavia riaffiorano, destando un sentimento di stupore («io non credea») e at-tivando una meditazione sul passato che è personale e universale, interiore e al tempostesso storica. L’ambiguità leopardiana è la stessa di Freud, anche perché analoga ne èla matrice illuminista:7 ciò che è nascosto e tuttavia riaffiora è sia una memoria perso-

1 «Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle qualiessendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. Oppure situazione trasportata alla profondità della notte, o al mattino […]» (Zib., 36).L’immagine ritorna, come si sa, nelle Ricordanze. Si veda anche, sempre dallo Zibaldone: «Da quella parte della miateoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino ideeindefinite, si spiega perchè piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scoprala sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce, e i vari effettimateriali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogooggetto ec. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo odoggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec.quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, frale rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il ri-flesso che produce p.e. un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro;tutti quegli oggetti in somma che per diverse materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec.in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell’ordinario ec.» (1744-1745, 20 settembre 1821). Lostesso «Sempre caro […] ermo colle» dell’Infinito è uno spazio familiare in cui la «siepe» si fa tramite per un’evo-cazione dell’alterità.

2 Un esempio efficace è la Pisa trasfigurata in Recanati da cui sorge l’ispirazione per A Silvia: «Io sogno sempredi voi altri, dormendo e vegliando: ho qui in Pisa una certa strada deliziosa, che io chiamo Via delle rimembranze:là vo a passeggiare quando voglio sognare a occhi aperti. Vi assicuro che in materia d’immaginazioni, mi pare diesser tornato al mio buon tempo antico» (lettera a Paolina Leopardi, 25 febbraio 1828: Tutte le poesie e tutte le prose,cit., p. 1360).

3 Le influenze letterarie di Freud sono oggetto di numerosi studi. In questa sede, mi limito a rimandare a M.Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Torino, Einaudi, 2001.

4 Il perturbante, cit., p. 766. Com’è noto, Freud mutua questa definizione da Schelling, citato nel dizionario dellalingua tedesca di Daniel Sanders.

5 Cfr., in particolare, M. de Certeau, L’écriture de l’histoire, Paris, Gallimard, 1975, pp. 337-419, e Idem, Histoireet psychanalyse entre science et fiction, Paris, Gallimard, 1987.

6 Cfr. F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1997, pp. 15-26.7 ‘Illuminismo’ è qui essenzialmente definizione di comodo: di là dall’ente monolitico immaginato almeno a

partire da Horkheimer e Adorno (M. Horkheimer, Th. W. Adorno, Dialektik der Auf klärung. PhilosophischeFragmente, Amsterdam, Querido, 1947), il concetto è stato di recente ripensato in maniera anche radicale (per undibattito aggiornato cfr. Illuminismo. Un vademecum, a cura di G. Paganini e E. Tortarolo, Torino, Bollati Borin-ghieri, 2008). In questa sede, intendo ‘illuminismo’ essenzialmente come una modalità critica di analisi diretta con-tro errori rintracciati nella ‘tradizione’, e che è precisamente la prospettiva culturale da cui si muove il giovane Leo-

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nale legata all’infanzia che una memoria di tipo antropologico legata all’‘infanzia’ del-l’umanità, a quel feticcio (leopardiano, ma anche del Freud di Totem e tabù) che sono gli‘antichi’. Lo «spirito» individuale, che «ha percorso lo stesso stadio che lo spirito uma-no in generale» (Zib., 143), svela la stessa doppiezza che si ritrova in Das Unheimliche: ilperturbante nasce dall’incontro con un passato che era stato ‘sepolto’ (dalla maturitàdel soggetto divenuto ‘filosofo’, o da una cultura che sia stata proprio dalla filosofia ‘il-luminata’) e che tuttavia si ripresenta, in forma straniata, dinanzi agli occhi.1

È evidente, dunque, come nelle Ricordanze riaffiori – debba riaffiorare – il mito: ‘er-rore popolare’ nel senso più autentico del termine – Carlo Ginzburg ha mostrato conchiarezza come il termine mythos abbia, nella tradizione occidentale, un uso fortemen-te legato all’area semantica della ‘favola’, del ‘discorso non vero’, precisazione che tuttavia era già in Leopardi, con singolari echi nella Scienza nuova di Vico2 – cui tutti ab-

pardi nello stendere il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: sul modello della ‘critica’, cfr. L. Bianchi, Criticae libero pensiero, in Illuminismo. Un vademecum, cit., pp. 88-102. La letteratura secondaria sul rapporto di Leopardicon l’illuminismo è per il resto sterminata: riguardo al discorso sugli ‘errori’, mi limito a rimandare ad A. Maz-zarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni, Napoli, Liguori, 1996 e alla relativa bibliografia. Sul Saggiosi veda anche R. Damiani, Le «credenze stolte». Leopardi e gli errori popolari, in Idem, L’impero della ragione. Studi leo-pardiani, Ravenna, Longo, 1994, pp. 7-55. Quanto a Freud, si veda, in particolare, quanto scrive Orlando, Illumi-nismo, barocco e retorica freudiana, cit., p. 16, proprio parlando di Das Unheimliche: «Nell’esempio più esplicito cheFreud stesso ci abbia mai fornito di estrapolazione del modello formale, dalla rimozione a qualcos’altro, questoqualcos’altro non è dunque che il superamento razionale di credenze arcaiche, cioè precisamente il processo dell’illuminismo». L’illuminismo di Freud è stato sostenuto e argomentato, in particolare, da P. Gay, Freud, una vita per i nostti tempi, Milano, Bompiani, 1988; Storia e psicoanalisi, Bologna, Il Mulino, 1989; Un ebreo senza dio. Freud,l’ateismo e le origini della psicoanalisi, Bologna, il Mulino, 1989. Cfr. anche Y. Oudai Celso, Freud e la filosofia antica.Genealogia di un fondatore, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 37-39.

1 «L’analisi dei casi in cui compare l’elemento perturbante ci ha ricondotti all’antica concezione del mondopropria dell’animismo; tale concezione era caratterizzata dagli spiriti umani che popolavano il mondo, dalla so-pravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici, dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magiache su questa onnipotenza era costruita, dall’attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persine e co-se estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con le quali il narcisismo illimitato di quella fase dell’evoluzionesi opponeva alle esigenze irrecusabili della realtà. Sembra che noi tutti, nella nostra evoluzione individuale, ab-biamo attraversato una fase corrispondente a questo animismo dei primitivi, che questa fase non sia stata supe-rata da nessuno di noi senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestarsi [Es scheint, daß wiralle in unserer individuellen Entwicklung eine diesem Animismus der Primitiven entsprechende Phase durchge-macht haben, daß sie bei keinem von uns abgelaufen ist, ohne noch äußerungsfähige Reste und Spuren zu hin-terlassen], e che tutto ciò che oggi ci appare ‘perturbante’ risponda alla condizione di sfiorare tali residui di atti-vità psichica animistica e di spingerli a estrinsecarsi» (Il perturbante, cit., p. 785). I termini del Discorso di un italianopossono essere tradotti in quelli, freudiani, di animismo e onnipotenza infantile senza che il senso ne venga mi-nimamente alterato: «quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche se-colo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei di-letti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gliastri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indiffe-rente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennan-do, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e glialberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficiati ca-rezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio» (Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 973).

2 Cfr. C. Ginzburg, Mito, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Torino, Einaudi, 1996, i, pp.197-237. Leopardi aveva tuttavia già precisato come «l’antico e il primitivo significato di fabula, non era favola, madiscorso, da for faris, quasi piccolo discorso, onde poi si trasferì al significato di ciancia, nugae, e finalmente di finzionee racconto falso. Appunto come il greco mythos nel suo significato proprio, valeva lo stesso che logos, […] e da Ome-ro non si trova, cred’io, adoperato se non in questa o simili significazioni […]. Poi fu trasferito alla significazionedi favola» (Zib., 497-498, 13 gennaio 1821). Su questa riflessione etimologica – che giustifica come Leopardi sovrap-ponga spesso i due significanti, come nella Primavera o nell’indice allo Zibaldone del 1827 (dove alla voce Favole sirimanda a Mitologie) – si veda L. Felici, L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche» e «disperati affetti», Ve-nezia, Marsilio, 2005, pp. 69-71, anche per un raffronto con un’analoga considerazione vichiana. Rimando infine aM. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla Nuova Mitologia, trad. di F. Cuniberto, Torino, Einaudi, 1994, pp. 122 e sgg.,per quanto riguarda il ruolo del mito e il suo rapporto col linguaggio nel dibattito del romanticismo tedesco.

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biamo creduto, nell’infanzia o in epoche ‘arcaiche’, e che per l’uomo ‘civilizzato’ è di-venuto ‘illusione’. Si può dunque dire che l’‘illusione’ leopardiana – in quanto ‘errore’e ‘falsità’ – è intrinsecamente, e fino a un livello etimologico, mito/favola:1 e a volte insenso letterale, come in Alla sua donna, dove – nel trattare dell’illusione par excellence, ecioè l’amore – il mito riaffiora come tra le righe, tra le pieghe di un’excusatio non petita,rimandando a tentazioni gnostiche già avvertite nell’adolescenza.2 Non si tratta, peral-tro, dell’unico caso in cui un elemento mitico riaffiora sotto lo schermo di un lapsus, ov-vero oltre le ‘intenzioni d’autore’: è singolare, p. es., che Leopardi, nell’elaborare la pro-pria teoria del sublime, adoperi – in maniera presumibilmente inconscia – una triadeterminologica («passioni morti tempeste») che rimanda, strutturalmente, a un passo delSaggio sopra gli errori popolari degli antichi;3 il rimando crea un ponte per cui le ‘favole an-tiche’, rintracciate nel vasto corpus dell’irrazionale classico,4 si fanno ‘memoria dotta’che si lega (in un processo, quasi, di spostamento e condensazione del rimosso) alla ‘me-moria autobiografica’5 di determinati terrori infantili.6 E, del resto, si può dire che lostesso Zibaldone trovi il proprio momento aurorale in un accostamento (forse inconscio)di materiali ‘dotti’ elaborati nel Saggio e memoria individuale: in maniera ambigua, la‘favoletta’ di Aviano (citata monca, come del resto già nel trattato giovanile) si trova alegarsi oscuramente al «cane di notte dal casolare al passar del viandante», a stabilire unparallelismo tra il lupo della favola e i cani di Ecate degli Errori popolari, di cui quello di«Palazzo bello» è parente neanche troppo lontano.7

1 Fatto salvo il modo ambiguo con cui Leopardi si rapporta alla nozione di ‘mito’, e che conduce all’uso «piut-tosto raro e del tutto personale» che la mitologia ha nella sua opera (Felici, L’Olimpo abbandonato, cit., p. 17). Vaanche detto che Felici – a cui rimando anche per una bibliografia sul tema – esclude dalla sua riflessione «eventualimitologemi “nascosti”, che possono costituire interessanti chiavi d’interpretazione per alcune poesie» (ivi, p. 27,nota), e che sono invece precisamente l’oggetto del mio discorso.

2 Cfr. C. Galimberti, Un mot sous les mots nella ‘Canzone alla sua Donna’?, in Idem, Cose che non son cose. Saggisu Leopardi, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 87-97.

3 «Passioni morti tempeste ec. piacciono egregiamente benchè sian brutte per questo solo che son bene imi-tate» (Zib., 2). Cfr. il cap. ii del Saggio: «La voluttà, la libidine, il pallore, la febbre, la tempesta, ebbero tempii ed in-censi» (Saggio, cit., p. 67).

4 Uso qui la fortunata espressione di E. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley, University of CaliforniaPress, 1962.

5 Per il concetto di ‘memoria dotta’ cfr. G. B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, Einaudi, 1974.Negli studi contemporanei sulla memoria si preferisce tuttavia parlare di ‘memoria semantica’, concetto introdot-to da Endel Tulving nel 1971 e con cui si indica la «memoria a lungo termine necessaria per la comprensione e perl’uso del linguaggio» (cfr. F. J. Schermer, Memoria semantica, in Dizionario della memoria e del ricordo, a cura di N.Petes e J. Ruchatz, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 330-331). La ‘memoria autobiografica’ concerne invece quel-le informazioni che hanno avuto eco nella sfera emotiva (cfr. A. Weber, Memoria autobiografica, ivi, pp. 314-316).

6 Sui ‘terrori infantili’ di Leopardi si veda anzitutto R. Damiani, All’apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,Milano, Mondadori, 1998, pp. 20-22 Si vedano poi E. Gioanola, Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995,pp. 144-148, e Idem, Psicanalisi e interpretazione letteraria, Milano, Jaca Book, 2005, pp. 49-140.

7 Si tratta della favola in versi De nutrice et infanti, che Leopardi leggeva probabilmente in un’edizione di Fedroe Aviano pubblicata a Padova nel 1721. Leopardi cita la favola nel cap. viii del Saggio (cfr. p. 143) e la parafrasa nelprimo paragrafo dello Zibaldone, in entrambi i casi focalizzando l’attenzione sulla prima parte, relativa alla mi-naccia del lupo fatta al bambino dalla nutrice, ed elidendo completamente la natura umoristico-misogina del-l’apologo. Non è difficile legare il lupo di Aviano ai cani di Ecate rievocati nelle pagine immediatamente prece-denti del Saggio (pp. 138-139): più dibattuto è stato il ruolo della ‘favoletta’ nello Zibaldone, considerata fin dall’iniziodel xx secolo il frammento di un progettato rifacimento del Saggio (G. A. Levi, Note di cronologia leopardiana,«Giornale storico della letteratura italiana», liii, 1909, pp. 232-270), ma di cui è stata discusso il rapporto col para-grafo immediatamente precedente, anche a causa della congiunzione «onde» che la introduce. Se Bonifazi legavadirettamente l’apologo al «cane di notte» di «Palazzo bello» (N. Bonifazi, La libera traduzione leopardiana di una fa-vola di Aviano nel proemio dello ‘Zibaldone’, in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore, a cura di A.Dolfi e A. Mitescu, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 31-41), l’ipotesi è stata messa in discussione da Giuseppe Pacella, Leo-pardi, Zibaldone, cit., iii, p. 463, e, più recentemente, da L. Felici, La luna nel cortile. Capitoli leopardiani, Soveria

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 47

2.

Le ricordanze paiono dunque situarsi su un crinale analogo: in cui il luogo fisico (da unaparte «Palazzo bello», dall’altro casa Leopardi) si fa locus memoriae che riattiva la remi-niscenza dell’antico, con tutta l’ambiguità e la vastità di accezioni che questo termineha nell’opera leopardiana. Non è forse un caso che il processo memoriale si attivi per lamediazione di immagini: consacrate come veicolo privilegiato dell’anamnesi da una va-sta tradizione classica e rinascimentale ricostruita in primo luogo da Frances Yates, tra-dizione forse non ignota allo stesso Leopardi.1 Anche qui, il processo è ambiguo: le im-magini visuali sono anzitutto percepite in forma interiore, da un inner-standing point;sono phantasmata, nel senso pienamente greco e aristotelico del termine, ‘immagini nelcuore’ di un ‘palazzo della memoria’ che solo frammentariamente e sporadicamentecoincide col palazzo reale.2

[…] Qui non è cosaCh’io vegga o senta, onde un’immagin dentroNon torni, e un dolce rimembrar non sorga.Dolce per se; ma con dolor sottentraIl pensier del presente, un van desioDel passato, ancor tristo, e il dire: io fui.Quella loggia colà, volta agli estremi

Mannelli (Cz), Rubbettino, 2006, pp. 24-26. Personalmente, trovo che l’immagine del «cane di notte dal casolareal passar del viandante» sia evidentemente ecatea, e che la ripresa dell’Aviano del Saggio stia come suggello dellastessa atmosfera sulfurea, se proprio di cani e viandanti aveva parlato Leopardi nel Saggio stesso («Certamente, co-me bene osserva Erasmo, la precauzione usata dagli antichi di portar seco del pane nell’andar vagando di notte,era molto opportuna a causa dei cani che infestavano le strade»: Saggio, cit., p. 139): mi trovo dunque d’accordocon quanto scrive D’Intino (Scritti e frammenti autobiografici, cit., p. 54, nota), a cui rimando per altre ricorrenze deltema nell’opera leopardiana. Non so invece se l’immagine alla p. 106 dello Zibaldone («Le genti per la città dai lo-ro letti nelle lor case in mezzo al silenzio della notte si risvegliavano e udivano con ispavento per le strade il suoorribil pianto ec.», aprile 1820) sia mai stata connessa alle grida notturne di Ecate rievocate nel Saggio: «Era cosaindegna […] che gli stessi Dei […] passeggiassero di notte e prendessero sollazzo in ispaventar chi dormiva e inmolestare chi camminava per le strade […]. Ecate metteva urli e schiamazzava per le strade in un modo inferna-le. “Nocturnisque Hecate triviis ululata per urbes”, dicea Didone presso Virgilio; ed Apuleio invocando la Luna,“Regina del cielo”, esclamava, “o tu sii Cerere inclita madre delle messi… o la sorella di Febo… o Proserpina terribile per gli urli notturni”» (Saggio, cit., p. 138). Su questo tema, e sulle peregrinazioni intellettuali del giovaneLeopardi tra gli ‘errori popolari degli antichi’, affascinante la ricostruzione romanzesca di M. Mari, Io venìa piend’angoscia a rimirarti, Venezia, Marsilio, 1998.

1 Sull’‘arte della memoria’ e le immagini cfr. anzitutto i contributi di Frances Yates (The Art of Memory, Chica-go, Chicago University Press, 1966), Mary Carruthers (The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture,Cambridge, Cambridge University Press, 1990), Lina Bolzoni (La stanza della memoria, Torino, Einaudi, 1995). Sulruolo della memoria nell’opera leopardiana cfr., per ora, i contributi raccolti in Giacomo Leopardi. Viaggio nella Memoria, cit.

2 Si può notare come questa sia precisamente l’impasse in cui cade la stessa psicoanalisi, e cioè l’indistinguibi-lità tra ‘realtà’ e phantasme (preferisco il termine francese, che corrisponde all’italiano ‘fantasia’ – erotica, di sedu-zione – ma che al tempo stesso conserva il legame con la nozione greco-aristotelica di ‘fantasma’). L’ambiguitàs’interseca con l’origine stessa della psicoanalisi, e si conserva – «irrisolta», scrive Berto, cit., p. 4 – lungo l’interopercorso intellettuale di Freud: quelle che Freud credeva reminiscenze di seduzione paterna nelle sue pazienti iste-riche si rivelano altrettanti fantasmi, fino a fargli concludere – nella celebre lettera a Fliess del 21 settembre 1897 –che nell’analisi dell’inconscio «è impossibile fare distinzione tra verità e scena emozionale [man die Wahrheit unddie mit Affekt besetzte Fiktion nicht unterscheiden kann]» (S. Freud, Aus den Anfängen der Psychoanalyse. 1887-1902.Briefe an Wilhelm Fließ, Frankfurt am Main, Fischer, 1962, p. 187; cfr. anche Lavagetto, Freud la letteratura e altro,cit., pp. 82-84)). In Al di là del principio di piacere, quindi – nota sempre Berto – Freud giunge a riconoscere «la ne-cessaria improprietà dei concetti e del linguaggio di cui si serve: una Bildersprache, che proprio per questo non puòrispecchiare l’oggettività delle cose, ma che, nello stesso tempo, non può fare del tutto a meno di crederci, di ca-dere nell’autoinganno, di dimenticare l’elemento di finzione» (Berto, cit., p. 4).

48 Fabio Camilletti

Raggi del dì; queste dipinte mura,Quei figurati armenti, e il Sol che nasceSu romita campagna, agli ozi mieiPorser mille diletti allor che al fiancoM’era, parlando, il mio possente erroreSempre, ov’io fossi. […]

(vv. 55-67)

Ora, l’«immagin dentro» non è – chiaramente – mero sinonimo di ‘ricordo’: il «dentro»è, certo, riferito a «non torni»; e tuttavia l’enjambement lo stinge inevitabilmente su «im-magine», riecheggiando l’idea dell’immagine dentro (al cuore) della mnemotecnica clas-sica,1 paradigma di un ‘pensare per imagines’ che trova la propria origine nella teoria ari-stotelica della memoria.2 Analogamente, negli scritti autobiografici noti come Vitaabbozzata di Silvio Sarno, la menzione di «figurati armenti» scatenava una catena di li-bere associazioni (‘rimembranze’, ancora, imagines), che tuttavia non erano affatto «dol-ci», ma legate ai temi – quasi ossessivi in Leopardi3 – del senso del dovere, delle aspet-tative paterne, dei timori infantili:

Canto dopo le feste; Agnelli sul cielo della stanza, suono delle navi, Gentiloni (otium est pater ec.),Speziali (chierico), dettomi da mio padre ch’io dovea essere un dottore, Paure disciplinazione not-turna dei missionari […]4

Limitiamoci a notare come l’immagine dipinta e quella ‘interiore’ vengano a coincide-re: la ‘ricordanza’ svela, incorporata nell’oggetto, l’‘illusione’, attraverso la metonimiadi «cielo» per ‘soffitto’ o la sinestesia del «suono delle navi» dipinte.5 Dietro a tali ‘ricor-danze’, tuttavia, sta il terrore: meglio, le «paure disciplinazione notturna dei missiona-ri», che sono peraltro parenti prossime – l’aggettivo «notturna» è riferito a «disciplina-zione», ma contamina evidentemente il significante che precede – degli «assidui terror»delle «mie notti» riferite nelle Ricordanze. Possibile che l’origine del passo del Silvio Sar-no sia il celebre episodio dei «bruttacci» riferito dal Memoriale di Monaldo;6 possibile an-che che il luogo dove erano alloggiati i «confrati» fosse l’‘alcova della notte’, recente-mente scoperta, le cui «dipinte mura» – un soldato in atto d’invitare al silenzio, un leonesdraiato, una «romita campagna», una civetta – sono disseminate di simboli legati allearee semantiche del sonno e della notte. E non sarebbe certo il caso di insistere su similinotazioni biografiche se uno dei cartigli sul muro non riportasse il versetto dei Salmi«non timebis a timore nocturno» (Salmi xc, 5), largamente usato nelle preghiere e nel-

1 Si può rammentare come la mnemotecnica sia – anche – un’erotica: cfr. I. Petru Culianu, Eros e magia nelRinascimento. La congiunzione astrologica del 1484, Milano, il Saggiatore, 1987.

2 Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 19932.3 Cfr. il già citato contributo di Gioanola, Psicanalisi e interpretazione letteraria, cit., pp. 49-140, e F. D’Intino, I

misteri di Silvia. Motivo persefoneo e mistica eleusina in Leopardi, «Filologia e critica», xix, 2, 1994, pp. 211-271: pp. 219-222.4 Scritti e frammenti autobiografici, cit., 50-51.5 L’immagine era già stata ricordata nel Discorso di un italiano: «Io stesso mi ricordo di avere nella fanciullezza

appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono così dolce che tale non s’ode in questo mondo; io mi ricor-do d’essermi figurate nella fantasia, guardando alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d’una mia stanza, talibellezze di vita pastorale che se fosse conceduta a noi così fatta vita, questa già non sarebbe terra ma paradiso, ealbergo non d’uomini ma d’immortali». Ciò mostra, scrive Leopardi con espressione volutamente ambigua, co-me sia «manifesta e palpabile a chicchessia la prepotente inclinazione al primitivo […] Imperocché dal genio chetutti abbiamo alle memorie della puerizia si deve stimare quanto sia quello che tutti abbiamo alla natura invaria-ta e primitiva […] e le immagini fanciullesche e la fantasia che dicevamo, sono appunto le immagini e la fantasiadegli antichi» (Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 973).

6 Cfr. Damiani, All’apparir del vero, cit., p. 20.

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le liturgie serali e la cui eco sembra estendersi, per Leopardi, negli anni, dal Saggio sopragli errori popolari degli antichi fino alle Ricordanze.1 Il cap. viii del Saggio – quello che si di-lunga sugli aspetti più sulfurei del mito ecateo, che include la ‘favoletta’ di Aviano e chesi chiude con la tirata contro i racconti terrificanti delle nutrici, talmente vibrante da farpensare a esperienze personali2 – è intitolato infatti Dei terrori notturni: e perché il timordel biblista (e della polemica illuminista contro gli ‘errori’)3 diventi «terrore» è Leopar-di stesso a spiegarlo, nello Zibaldone.

Altro è il timore altro il terrore. Questa è passione molto più forte e viva di quella, e molto più av-vilitiva dell’animo e sospensiva dell’uso della ragione, anzi quasi di tutte le facoltà dell’animo, edanche de’ sensi del corpo. Nondimeno la prima di queste passioni non cade nell’uomo perfetta-mente coraggioso e savio, la seconda sì. Egli non teme mai, ma può sempre essere atterrito. Nes-suno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato.

(Zib., 2803-2804, 21 giugno 1823)4

Il titolo Dei terrori notturni si mostra dunque come una citazione ambigua, che – nel tra-durre il versetto biblico – si trova ironicamente a includere i termini dell’aporia tardo-il-

1 È probabilmente superfluo ricordare come il titolo originario del frammento Odi, Melisso sia Lo spavento notturno: curioso che, nell’autografo, Leopardi abbia sostituito con tale titolo quello – precedente – de Il Sogno,quasi a sottolineare una sostanziale intercambiabilità tra sogno e incubo (per l’accostamento tra Odi, Melisso e ilSaggio, cfr. E. Peruzzi, Odi, Melisso, in Idem, Studi leopardiani, Firenze, Olschki, 1987, ii, pp. 75-138: pp. 78-79). In-teressante poi notare come il versetto successivo del salmo reciti «[non timebis] A sagitta volante in die a negotioperambulante in tenebris ab incursu et dæmonio meridiano». Se ciò che «perambul[at] in tenebris» ricorda gli deidel Saggio, che «passeggia[vano] di notte e prende[vano] sollazzo in ispaventar chi dormiva», nel capitolo vii Leo-pardi cita proprio il Salmo xc: «E che cos’altro è il Demonio meridiano mentovato nei Salmi, se non il Demonioche apparisce o infierisce maggiormente nel meriggio?» (Saggio, cit., 126). Sulla conoscenza leopardiana del librodei Salmi, si veda P. Rota, Presenze della Bibbia in Leopardi, in Idem, Lune leopardiane. Quattro letture testuali, Bolo-gna, clueb, 1997, pp. 107-130: pp. 111-118.

2 La favola di Aviano è infatti, come s’è detto, un testo essenzialmente ironico, dalla morale misogina, incen-trato intorno al bon mot con cui il lupo chiude la questione con sua moglie. Leopardi, e già nel Saggio sopra gli erroripopolari degli antichi, elide invece completamente la seconda parte, focalizzando l’attenzione esclusivamente sullaminaccia della nutrice: la favola ne risulta tronca (e di fatto incomprensibile), cambiando radicalmente di segno efacendosi di conseguenza apologo sulla cattiva abitudine delle donne di terrorizzare i bambini. È stato notato come – nel redigere questa parte del Saggio – Leopardi si esprima con particolare virulenza, tanto da far pensarea reminiscenze personali: la citazione erronea (in questo caso, perché marcatamente sbilanciata) sembrerebbe cor-roborare tale ipotesi, risultando una sorta di lapsus (o, meglio, di omissione più o meno intenzionale) che tradisceuna particolare tensione emotiva.

3 È nel timor che la critica illuminista riconosce generalmente l’origine della religione e della superstizione.Cfr. Mazzarella, cit., p. 21, nota.

4 Cfr. anche Zib., 262 («Lo spavento e il terrore sebbene di un grado maggior del timore, contuttociò bene spesso sono molto meno vili, anzi talvolta non contengono nessuna viltà: e possono cadere anche negli uominiperfettamente coraggiosi, al contrario del timore. P.e. lo spavento che cagiona l’aspetto di una vita infelicissima onoiosissima e lunga, che ci aspetti ec. Lo spavento degli spiriti, così puerile esso, e fondato in opinione così pueri-le, è stato (ed ancora è) comune ad uomini coraggiosissimi», 5 ottobre 1820) e 531-532 («Lascio stare il timore e lospavento proprio di quell’età (per mancanza di esperienza e sapere, e per forza d’immaginazione ancor vergine efresca): timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e chimere proprio solamente di quell’età, e di nessun’altra;timor delle larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali, spaventose per quell’età e indifferenti poi, co-me maschere ec. ec. (V. il Saggio sugli Errori popolari degli antichi.) Quest’ultimo timore era così terribile in quell’età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra età,di produrre in noi angosce, smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi. L’idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agita-va frequentemente in quell’età, aveva un non so che di sì formidabile e smanioso, che non può esser paragonatocon verun altro sentimento dispiacevole dell’uomo. Nemmeno il timor dell’inferno in un moribondo, credo chepossa essere così intimamente terribile. Perchè la ragione e l’esperienza rendono inaccessibili a qualunque sortadi sentimento, quell’ultima e profondissima parte e radice dell’animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il detto timore»: 20gennaio 1821).

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luministica che percorre il Saggio: l’uomo «coraggioso e savio» – protetto secondo il biblista da Dio, e secondo il Leopardi adolescente dalla liberazione dai pregiudizi di un«secolo illuminato»1 – non teme, e tuttavia può essere atterrito dall’inesplicabile, da «terrori» (notturni) che hanno la propria origine nell’infanzia, nei racconti terrificanticon cui si pretende di indurre i bambini all’obbedienza. Il «terrore» diviene dunque la forma principale della ‘paura’ in cui si trova a incorrere l’uomo éclairé:2 paura irraziona-le, spontanea e senza appello, che non si nutre del «timore» nevrotico del bambino, del-l’uomo superstizioso o dell’‘antico’ (il cui ‘sistema paradigmatico’, potremmo dire, con-templa già da sé il soprannaturale),3 ma che sorge precisamente dalla coscienza del vero,facendosi ancora più atterrente proprio nel suo sorgere dall’inspiegabile.4 Il terrore è co-sì qualcosa che l’uomo ‘civilizzato’ (o più semplicemente adulto) scopre suo malgrado,senza volerlo, con stupore: o, meglio, ritrova, allo stesso modo – possiamo credere – incui può a tratti riscoprire il piacere di «tornare ancor per uso a contemplar[e]» le stelle.

3.

Le ricordanze vivono dunque sul filo di una tensione tra passato e presente, in cui il presente si definisce in rapporto al passato e in tale scarto trova la propria autolegitti-mazione (e, insieme, la parola poetica). Si può anzi dire che, in qualche modo, l’Io poetico delle Ricordanze possa prendere la parola proprio in quanto ha cristallizzato il passato, l’ha allontanato, sepolto, reso altro-da-sé: autocoscienza dolorosa, che relati-vizza e distanzia ciò che è stato, in una sorta di sepoltura di cui l’uso del passato remotosi fa suggello.

[…] con dolor sottentraIl pensier del presente, un van desioDel passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

(58-60)

1 Saggio, cit., p. 61.2 Un analogo lessico su temi analoghi si trova nel De l’Allemagne (1813), dove Madame de Staël analizzava «la

source inépuisable des effets poétiques en Allemagne, la terreur», notando come «les revenant set les sorciers plai-sent au peuple comme aux hommes éclairés». L’analisi di Madame de Staël si pone sullo stesso crinale leopardia-no, tra ‘errore’/‘illusione’ e ‘verità’, traendone tuttavia conclusioni altamente divergenti: «Presque toutes les opi-nions vraies ont à leur suite une erreur; elle se place dans l’imagination comme l’ombre à côté de la réalité; c’estun luxe de croyance qui s’attache d’ordinaire à la religion comme à l’histoire; je ne sais pourquoi l’on dédaigne-rait d’en faire usage». Si assiste comunque a un analogo interesse per i ‘racconti delle nutrici’: «Il est probable»,scrive la Staël, «que les événements racontés dans l’Iliade et dans l’Odyssée étaient chantés par les nourrices avantqu’Homère en fit le chef-d’œuvre de l’art» (Madame de Staël, De l’Allemagne, éd. par S. Balayé, Paris, Flamma-rion, 1968, i, pp. 237-238).

3 Uso il concetto di paradigma nel senso definito da Th. S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chi-cago, Chicago University Press, 1970, tenendo conto delle recenti elaborazioni fatte in merito da G. Agamben, Si-gnatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 11-34.

4 «L’illuminismo sarebbe dunque, per definizione, necessaria premessa dell’esperienza del sinistro e della let-teratura che la valorizza […]. La sopravvivenza dell’irrazionale durante il processo attivo dell’illuminismo, chebrucia pregiudizi e illusioni, non fa che aggiungere l’allegria della fiammata alla volontà di incenerire […]. Quan-do invece il processo è ufficialmente compiuto da lungo tempo, e si è aperta la fase passiva del sinistro (tardo-sette-centesca, ottocentesca in letteratura), non è più dato trarre sollievo da quella sopravvivenza se non a prezzo di unestraniato raccapriccio» (Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, cit., p. 17). Emblematici, per Orlando,«quei versi di Musset dove si immagina a passeggiare, sullo sfondo notturno [delle immagini nostalgiche del castello in decadenza e del convento devastato], il fantasma vampirico non di altri che del distruttore Voltaire – attirato nel sinistro delle cose stesse che è accusato con rancore infantile di avere distrutte […]. Una lettura ‘post-illuministica’ della letteratura romantico-borghese non mi sembra in prospettiva più arbitraria, a non voler diremeno necessaria, che quella preilluministica dei classici del secondo Seicento» (ivi, p. 26).

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 51

Tra «il pensier del presente» e il «van desio / Del passato», quindi, non si snoda – sarà or-mai chiaro – solo il rimpianto di un trentunenne disilluso: è l’invenzione stessa della sto-ria che è qui in gioco, della storia in quanto pratica discorsiva sottesa al moderno, e cheproprio in rapporto all’alterità del passato definisce la propria ragion d’essere («il dire:io fui»). E che quello verso il passato sia un «van desio» è aporia – prima che leopardia-na – neoclassica: elemento costitutivo, si può dire, del sogno stesso, tardosettecentesco,dell’antico. Il raffronto del frontespizio della Geschichte der Kunst des Althertums (1764)con quello delle Vite vasariane (1568) evidenzia come, già per Winckelmann, l’‘antico’non sia qualcosa che si risvegli (e che dunque pertiene ancora, in qualche modo, al pre-sente, situandosi con esso in una prospettiva di sostanziale continuità, pure segnata dainterruzioni) ma un’alterità (un corpus di principi, un organon, scrive Georges Didi- Huberman) che irrompe con potenza chiarificatrice in un quadro di saperi che è già sto-rico.1 «[L]es livres, souvent, sont dédiés aux morts», scrive ancora Didi-Huberman:«Winckelmann a d’abord dédié son Histoire de l’art à l’art antique parce que, à ses yeux,l’art antique était mort depuis bien longtemps».2 Ugualmente, nel frontespizio ai Mœursdes sauvages amériquains comparés aux mœurs des premiers temps (1724) del gesuita france-se Joseph-François Lafitau, l’alterità geografica e culturale dei nativi americani viene definita attraverso una prospettiva di tipo storico che oggettivizza e cristallizza come al-tro da sé la stessa antichità mediterranea: statue, medaglie, frammenti dell’antico –quelli che diventeranno i feticci della filologia antiquaria, scienza che ugualmente andràa costituirsi a partire da una prospettiva storica (e rovinistica) del classico3 – sono affastellati, oggetti desueti,4 al suolo, mentre l’angelo del tempo (preannuncio di quellodella storia che infesterà la riflessione di Walter Benjamin?)5 indica alla musa scriventela purezza edenica di ‘selvaggi’ visti come veri e propri ‘fossili viventi’.6

La storia stessa in senso moderno, del resto (come ha evidenziato a più riprese, an-cora, Michel de Certeau) si costituisce essenzialmente come una pratica di oggettiva-

1 «Winckelmann […] représenterait, dans le domaine de la culture et de la beauté, le tournant épistémologiqued’une pensée de l’art à l’âge – authentique, déjà ‘scientifique’ – de l’histoire» (G. Didi-Huberman, L’image survi-vante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris, Minuit, 2002, p. 13, ma cfr. in generale tutta l’in-troduzione, pp. 11-26). 2 Ivi, p. 16.

3 Sulla filologia antiquaria cfr. anzitutto S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Bari,. Laterza, 19973.4 Riprendo l’espressione da F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità,

robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, condividendone l’idea che il ‘desueto’ sia singolarecifra del moderno.

5 «L’angelo della storia […] Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una so-la catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi» (W. Benjamin, Tesi di filoso-fia della storia, in Idem, Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 75-86: p. 80).

6 «Se si osserva il frontespizio dell’opera, che Lafitau s’era preoccupato di comporre e di spiegare, si nota chel’antichità cui egli fa appello è composta (il paesaggio antico del frontespizio) e composita (con Iside, Osiride,Astarte, la Diana di Efeso ecc.), è un’antichità da decifrare come “l’indizio di una primitività”. È anche un’antichitàdi rovine e in rovina: bisogna costruirla “archeologicamente”, ascoltare ciò che non dice più o che ormai non puòpiù che mormorare: bisogna farla parlare. Lafitau va dai selvaggi agli antichi, ma anche, e ugualmente, dagli an-tichi ai selvaggi. In questo movimento di va e vieni da lui instaurato il selvaggio (vivente) permette di far parlare“il morto antico, ma i selvaggi non possono esser intesi che come la voce di morti”, eco sonore d’una antichità di-ventata muta anch’essa» (F. Hartog, Il confronto con gli antichi, in I Greci. Storia Cultura Arte Società, cit., i, pp. 3-37:pp. 22-23, e cfr. tutto il saggio per una definizione e una storia del rapporto antichi/moderni). La questione delrapporto antichi/‘selvaggi’ – è evidente – è centrale anche in Leopardi: su Leopardi e le popolazioni amerinde cfr.il recente contributo di M. Balzano, I confini del sole. Leopardi e il nuovo mondo, Venezia, Marsilio, 2008. Sul frontespizio dell’opera di Lafitau cfr. anche M. de Certeau, Histoire et anthropologie chez Lafitau, in Naissance del’ethnologie? Anthropologie et missions en Amérique, xvie-xviiie siècle, éd. par C. Blankaert, Paris, Cerf, 1985, pp. 63-89,e P. Vidal-Naquet, The Black Hunter. Forms of Thought and Forms of Society in the Greek World, transl. by A. Sze-gedy-Maszak, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1986, pp. 129-133.

52 Fabio Camilletti

zione del passato che è assimilabile alla sepoltura, alla relazione con qualcosa che è mor-to e – dunque – irrimediabilmente separato dal presente. La pratica storiografica hadunque qualcosa del necromantico o – per esprimersi con termini più propriamente ot-tocenteschi – del medianico (lo spiritismo nasce, certamente non a caso, alla metà delxix secolo),1 facendosi evocazione (perturbante) di persistenze fantasmatiche, di qual-cosa «che doveva restare segreto, nascosto e che invece è affiorato».2 Probabilmente nonera per mera boutade che Aby Warburg parlasse del Bilderatlas Mnemosyne come di una «storia di fantasmi per adulti [Gespentergeschichte für ganz Erwachsene]»:3 la soprav-vivenza delle immagini è un Nachleben der Antike, una forma di non-vita e al tempo stes-so di vitalità meccanica che richiama quella dello spettro, del revenant. E di cui il Bilderatlas – opera per la quale è stata ipotizzata un’influenza della struttura degli alta-ri cerimoniali Hopi – si trova a essere il luogo deputato di evocazione, schermo su cui idaimones si trovano a interagire.4

Si può dunque dire che il racconto perturbante (o, più precisamente, fantastico)5 è,in qualche modo, un primo espediente di cui il xix secolo si serve per esplicitare la propria relazione perturbante di fronte alla storia: è nella letteratura fantastica che il‘fantasma’ si fa segno per interpretare la sopravvivenza di un passato divenuto ‘altro’,allo stesso modo in cui il tema della ‘casa infestata’ diviene cifra di una relazione tensi-va fra il soggetto e lo spazio dello Heim, d’una ‘inabitabilità’ dello spazio heimlich che staper segno di un Io che non è più sicuro in casa propria.6 E non è forse un caso che siaFreud che Warburg abbiano pagato il loro tributo alla narrativa fantastica: il primo costruendo letteralmente Das Unheimliche intorno a Hoffmann e dedicando un saggioalla Gradiva di Jensen (e, su un altro piano, stendendo le proprie relazioni di casi clinicisecondo una struttura e uno stile largamente debitori sia della ghost che della detectivestory ottocentesche);7 il secondo dando vita – assieme ad André Jolles – all’abortito pro-getto del carteggio su «Ninfa», parente stretto del genere del ‘ritratto perturbante’.8

1 Sulle origini dello spiritismo e sulla sua relazione con la modernità si veda il recente contributo di S. Ci-gliana, La seduta spiritica. Dove si racconta come e perché i fantasmi hanno invaso la modernità, Roma, Fazi, 2007.

2 «Anche il tentativo di conoscere il passato è un viaggio nel mondo dei morti» (C. Ginzburg, Storia notturna.Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1998, p. xxxviii).

3 Citato in E. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, trad. di P. A. Rovatti e A. Dal Lago, Milano,Feltrinelli, 2003, 244 e nota.

4 Sul Bilderatlas Mnemosyne cfr. K. W. Forster, K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’«Atlante dellaMemoria», a cura di M. Centanni, Milano, Bruno Mondadori, 2002; per la precisazione sugli altari Hopi, cfr. p. 38.

5 Secondo la nota definizione di T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970.6 Nell’Unheimliche, «L’Io non è padrone a casa propria»; la casa stessa «si rivela intaccata da ciò che, per suo stes-

so statuto, dovrebbe escludere: l’estraneo, l’esterno, l’ignoto, l’altro» (Berto, cit., p. 5). Vidler nota come «Das Un-hemliche [sia] un modello che mette il desiderio di ‘casa’ e la lotta per raggiungere la sicurezza domestica di fron-te a quel che ne sembra l’opposto: la homelessness reale e intellettuale» (Vidler, cit., p. 14).

7 Su Gradiva si veda la prefazione di Mario Lavagetto a W. Jensen, S. Freud, Gradiva, trad. di R. Oriani, Por-denone, Studio Tesi, 1992, pp. vii-xvii. Sulle strutture narrative in Freud, si vedano anzitutto de Certeau, Histoireet psychanalyse, cit., pp. 107-136, e Lavagetto, Freud la letteratura e altro, cit. Ginzburg ha mostrato la parentela trail metodo di Freud e quello di Holmes (C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Il segno dei tre. Hol-mes, Dupin, Peirce, a cura di U. Eco e Th. A. Sebeok, trad. di G. Proni, Milano, Bompiani, 1983, pp. 95-136).

8 Cfr. Gombrich, cit., pp. 99-116. Gombrich lega scopertamente le pagine di Warburg sulla Ninfa ad osses-sioni tipicamente fin-de-siècle: «oggi», scrive, «è facile rilevare che lo stesso Warburg […] considerò una parte del materiale storico con occhio deformato in senso romantico» (pp. 104-105). Kurt Forster ha parlato, per la Ninfa,di «fantasia maschile tardo-vittoriana», «perfetta incarnazione di un desiderio erotico» (Forster, Mazzucco,cit., p. 16); ugualmente, Georges Didi-Huberman ha accostato la Ninfa warburghiana a varie figure femminili difine ’800- inizio ’900 (Idem, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Milano, il Saggiatore, 2004, pp. 11-12). D’al-tro avviso, Roberto Calasso accusa la biografia di Gombrich d’essere «priva di qualsiasi congenialità con il sog-getto», e aggiunge: «Sarebbe sviante attribuire questo» – il doppio volto della Ninfa di Warburg, cioè, da appa-

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 53

Ora, simili ‘fantasticherie’ sono – come si sa – quanto di più estraneo ci possa esse-re alla poetica leopardiana: e meglio d’ogni altra cosa varrà l’esempio dell’uso che Leopardi fa, nella Ginestra e nei Paralipomeni della Batracomiomachia, del rovinismopompeiano, di un tema – cioè – di particolare rilevanza per la narrativa fantastica ottocentesca (dalla Arria Marcella di Gautier alla stessa Gradiva), tanto da poter essereconsiderato uno dei fulcri della relazione perturbante dell’età post-illuminista con l’antico.1 E tuttavia, in qualche modo, è possibile (come s’è visto) leggere Le ricordan-ze come l’irrompere d’una Unheimlichkeit nello spazio familiare dello Heim: qualcosadi strutturalmente prossimo al tema gotico-romantico della ‘casa infestata’, e in cui tuttavia – con un secolo d’anticipo rispetto al Freud di Der Wahn und die Träume in W.Jensens Gradiva e di Das Unheimliche – la casa dove ‘ci si sente’ è essenzialmente ‘la ca-sa dell’io’, e dove i fantasmi (che il delirio situa in un passato remoto, lo spazio – piùemotivo che storico – degli ‘antichi’)2 sono invece, precisamente, ‘ricordanze’, me-morie infantili. Cosicché, e per il tramite della teoria delle ‘illusioni’ – soluzione, a suomodo, dell’aporia in cui incapperà Freud nel Das Unheimliche, l’indistinguibilità tra memoria individuale e memoria collettiva, tra infanzia del soggetto e reminiscenzedell’‘infanzia dell’umanità’3 – la poesia leopardiana si trova a rispondere all’impasse,tutta moderna, tra storia e memoria, a essere il luogo in cui l’‘antico’ (o l’infantile) tornano a rivivere.

Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità dellecose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita,quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi an-che in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, onelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunquealtra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappre-sentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta.

(Zib., 259-260, 4 ottobre 1820)

Non sfuggirà, in queste righe, una sottotrama vampirica: ciò che è morto riacquista –«momentaneamente» – vita, una vita da revenant, sia chiaro, un rianimarsi temporaneoche è l’unico concesso alle ‘illusioni’ dopo la «strage» compiuta dalla ragione4 (e che è

rizione incantevole alla sua «variante sinistra e terrorizzante», la «cacciatrice di teste» – «a una tarda manifesta-zione del culto che ebbe la grande décadence per le dark ladies» (R. Calasso, La follia che viene dalle ninfe, in Idem,La follia che viene dalle ninfe, Milano, Adelphi, 2005, pp. 11-44: pp. 40-41). Per un primo orientamento sul tema del‘ritratto perturbante’ si vedano i due contributi di P. Pellini, Generi, ideologie, dettagli. Sul “Capolavoro sconosciu-to” di Balzac, Lecce, Manni, 1999, e Idem, Il quadro animato. Tematiche artistiche e letteratura fantastica, Milano, Edi-zioni dell’Arco, 2001.

1 Sul rapporto di Leopardi col tema delle rovine di Pompei ed Ercolano si veda anzitutto Fedi, cit., pp. 32-62.Sulla relazione tra la scoperta di Pompei e il perturbante ottocentesco cfr. Vidler, cit., pp. 53-64.

2 Si tratta precisamente del caso di Gradiva, dove l’intelletto cosciente maschera con una spiegazione sopran-naturale (il ripresentarsi dello spettro di una fanciulla morta nell’incendio di Pompei) il riemergere di un ricordoinfantile. Lavagetto fa notare come Freud, contro ogni evidenza (e contro la testimonianza dello stesso Jensen)presupponesse un analogo ricordo d’infanzia dell’Autore, sublimato nella ‘formazione di compromesso’ della fin-zione letteraria (pref. a Gradiva, cit., pp. xi-xvii).

3 Si tratta di un’altra delle tensioni irrisolte della psicoanalisi freudiana, che emerge con particolare evidenzanegli scritti di taglio più antropologico e storico-religioso dello stesso Freud (Totem e tabù, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Il disagio della civiltà), relativa alla sopravvivenza di determinate strutture di carattere miti-co-narrativo.

4 «Di questo bello aereo, di queste idee [infinite] abbondavano gli antichi, abbondano i loro poeti, massime ilpiù antico cioè Omero, abbondano i fanciulli veramente Omerici in questo, […] gl’ignoranti ec. in somma la na-tura. La cognizione e il sapere ne fa strage, e a noi riesce difficilissimo il provarne» (Zib., 170, 12-23 luglio 1820).

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lo stesso fuggevole, recuperato incanto che sta dietro – a un duplice livello, biograficoe tematico – alle Ricordanze). Le illusioni si comportano dunque, in qualche modo, co-me le ombre dei morti nell’Odissea, spettri bramosi della vita – quantunque tempora-nea – offerta dal sangue. È dunque solo nell’istante – nel frammento, nel dettaglio –che l’antico può tornare a brillare: come oro, quell’«oro di Omero» di cui, con bellaespressione, parlava di recente Gilberto Lonardi.1 Che «il buon Dio si nascond[a] neidettagli», questa citazione quanto mai abusata di Warburg, si applica dunque a Leopar-di in maniera singolarmente calzante: l’antico (il numinoso) agisce in maniera sotter-ranea, allusiva, il mitologema2 s’insinua nelle pieghe del testo, nei particolari, nelle as-sonanze, riverberandosi tra i testi. E ancora Lonardi si trovava a rimarcare, in A Silvia,il ritorno di un «antico pathos della forma […] poetico-religiosa omerica», notando co-me «Aby Warburg avrebbe potuto parlarne […] come di una antica pathosform».3 La Pa-thosformel warburghiana, del resto, non è fenomeno esclusivamente visuale:4 lo intuivagià Ernst Robert Curtius, quando – nel licenziare Europaïsche Literatur und lateinischesMittelalter – vi apponeva una dedica alla memoria, appunto, di Aby Warburg, a indica-re come la sopravvivenza dell’antichità non si snodasse solo nella memoria extra-ver-bale delle immagini, ma fin dentro i topoi, le metafore, i generi;5 e – del resto – la stes-sa definizione warburghiana di Pathosformel riecheggiava sospettosamente l’uso deltermine ‘formula’ nei lavori di filologia omerica di Milman Parry.6 Ed è chiaro come laricerca dell’antichità nei dettagli – lo spirare della brezza, gli «accessori in movimento[bewegtes Beiwerk]» – trovi significative assonanze nell’operazione leopardiana stessa,tesa all’individuazione dell’ombra, del sapore dell’antico in «topoi e modi o forme-ar-chetipo del passato lontanissimo della poesia (e insieme, a volte, del sacro)».7 Non è for-se un caso che Lonardi parli di Pathosformel proprio riguardo A Silvia, testo in cui il ri-torno dell’antico si situa nel movimento e nel canto, e dove il movimento prende vitanel ricordo come imago agens memoriale riattivata da una città – Pisa – divenuta Reca-nati per consonantia. Come Le Ricordanze, A Silvia si regge su una trama di ricordi edevocazioni, fantasmi che s’addensano intorno a un’immagine di giovinezza femminile

1 Lonardi, cit.: cfr., in part., la p. 9.2 Adopero liberamente la nozione di ‘mitologema’ quale definita in C. G. Jung, K. Kerényi, Prolegomeni allo

studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1942. 3 Lonardi, cit., p. 146.4 Agamben ha mostrato ampiamente come la meccanica della Pathosformel si articoli su una dialettica tra og-

getto, fantasma/immagine e parola, facendo cadere – in questa ars memorialis che è anche ars erotica – la distinzio-ne fra il linguistico e il visuale. Oltre al già citato Stanze, cfr. anche Agamben, Infanzia e storia. Distruzione del-l’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 2001, pp. 18-23, e Idem, Ninfe, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.Sulla Pathosformel warburghiana cfr. anche S. Ferretti, Il demone della memoria. Simbolo e tempo storico in Warburg,Cassirer, Panofsky, Casale Monferrato, Marietti, 1984, pp. 1-81.

5 Cito dall’ed. italiana (Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, trad. di M. Can-dela e A. Luzzatto, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 3): va anche detto che la grandezza dell’intuizione di Curtius(che pure mostra di conoscere Warburg quasi esclusivamente attraverso la mediazione di Panofsky) è ancora piùsorprendente se confrontata al semplicismo con cui Curtius stesso mostra di considerare il rapporto tra lettera-tura e arti figurative («Poiché la scienza della letteratura si occupa di “testi”, è perduta se non fa uso della filolo-gia: questa non può essere sostituita né dall’intuizione né da alcuna visione di essenze. Per la “scienza dell’arte” ilcammino è più facile: essa lavora con quadri – e con fotografie. Non vi è nulla di incomprensibile. Per capire le li-riche di Pindaro dobbiamo faticosamente applicarci, non così per capire il fregio del Partenone», p. 23). Curtius di-chiara tuttavia in nota, di distinguere la «scienza dell’arte» «dalla scienza storica della storia dell’arte» (ibidem).

6 Per il parallelismo cfr. Agamben, Ninfe, cit., p. 16.7 Lonardi, cit., p. 21. Per quanto riguarda il caso specifico delle sopravvivenze omeriche nei dettagli, cfr. ivi,

pp. 9-56.

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 55

troncata: e – ad accentuare il sapore warburghiano dell’operazione – entrambe questeimmagini hanno nomi di ninfe.1

Line 413: a nymph came pirouetting.In the draft there is the lighter and more musical:413: A nymphet pirouetted.

V. Nabokov, Pale Fire

4.

Chi è Nerina? Importa poco, qui, naturalmente, l’identificazione biografica – con MariaBelardinelli, o chicchessia.2 Nerina – ultima nella catena delle evocazioni – è l’ultimo epiù potente degli spettri di cui «odo / Questi luoghi parlar»: che, alla maniera di un ge-nius loci, infesta i luoghi (fisici e memoriali) di un’infestazione che si nutre d’assenza, eche però (come insegna Simone Weil)3 non è che un’altra forma della presenza, quellacon cui si manifesta chi non è (più).4

Nerina, come del resto Silvia, è ninfa: nel nome – entrambi, si sa, sono mutuati dall’Aminta di Tasso – ma anche in senso più profondo ed etimologico, significandonymphe, di là dall’aspetto mitologico, la giovinetta, Frauentypus ri-scoperto nel suo potenziale erotico dalla letteratura libertina e poi illuminista5 e a cui Leopardi stessoavrebbe dedicato, nel 1828, una celebre pagina dello Zibaldone6 (e non è forse un caso

1 Per l’incipit delle Ricordanze, Fubini e Bigi (Canti, a cura di M. Fubini ed E. Bigi, Torino, Loescher, 1971) propongono una reminiscenza di Tasso, Rime, 175, 1: «Vaghe Ninfe del Po, Ninfe sorelle».

2 Segnalo almeno, in questa sede, il curioso caso della Nerina di Paul Heyse, novella pubblicata a Berlino nel1875, in cui le Ricordanze si fanno spunto per il racconto di un ‘amore segreto’ del poeta.

3 S. Weil, L’ombra e la grazia, Milano, Bompiani, 2002, p. 26.4 «La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissi-

mo, abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait» (Zib.,4492, 21 aprile 1829). Cfr. Assenza, in R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979, pp. 33-37,e in Idem, Le discours amoureux. Séminaire à l’École pratique des hautes études 1974-1976 suivi de Fragments d’un discoursamoureux: inédits, éd. par C. Coste, Paris, Seuil, 2007, pp. 418-426. Si veda anche P. Fédida, L’absence, Paris, Galli-mard, 1978.

5 È nella letteratura libertina del tardo Seicento-primo Settecento che l’immagine di femminilità giovane oadolescente (la cosiddetta ‘jeune fille’) viene cristallizzata come oggetto di desiderio autonomo: cfr. anzitutto M.Delon, Le savoir-vivre libertin, Paris, Hachette, 2000 e, per una prospettiva non solo letteraria, S. Petit-Skinner,L’homme et la sexualité, in Histoire des mœurs, éd. par J. Poirier, Paris, Gallimard, 1990-1991, ii, pp. 929-971, e L. Krey-der, La passion des petites filles. Histoire de l’enfance féminine de la Terreur à Lolita, Arras, Artois Presses Université,2003. Nel romanzo dei Lumi tale ‘tipo femminile’ subisce una significativa metamorfosi, facendosi anzitutto quel-lo della ‘sedotta’ (cfr. le analisi ancora attuali di P. Fauchery, La destinée féminine dans le roman européen du dix-hui-tième siècle 1713-1807. Essai de gynécomithie romanesque, Paris, Armand Colin, 1972; P. Hoffmann, La femme dans lapensée des lumières, Paris, Ophrys, 1977; e P. Saint-Amand, Séduire ou la passion des Lumières, Paris, Klincksieck, 1987)e quindi quello della ‘fanciulla perseguitata’, che trova la sua declinazione più estrema nelle varie metamorfosi del-la Justine sadiana. Il merito di aver accostato per la prima volta l’eroina degli Infortunes de la vertu a quelle di Ri-chardson, Anne Radcliffe e ‘Monk’ Lewis, in una linea che arriva fino alla Gretchen del Faust e alla Lucia manzo-niana, è anzitutto di Praz (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, a cura di P. Colaiacomo, Firenze,Sansoni, 1999, p. 103): ma è solo con il saggio di d’Arco Silvio Avalle Da Santa Uliva a Justine che il tema è sta-to debitamente individuato in un nucleo narrativo sorto nell’alveo dell’agiografia protocristiana e quindi riverbe-ratosi in area erotico-libertina (Idem, Da Santa Uliva a Justine, in A. N. J. Veselovskij, Sade, La fanciulla persegui-tata, a cura di d’A. S. Avalle, Milano, Bompiani, 1977, pp. 7-33).

6 «Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormen-te a mantenere, una passione. […] Ma veram. una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle suevoci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto, al-legra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioven-tù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o voi nel guardarla concepite in lei e perlei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore, insomma, quelprimissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi

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che Vladimir Nabokov, in Lolita, recuperi proprio il diminutivo elisabettiano nymphet, aindicare quelle «maidens who […] reveal their true nature which is not human, butnymphic [that is, demoniac]»).1

Nell’opera leopardiana, le ninfe sono presenze che s’affacciano in maniera tutto som-mato obliqua, ma sempre legata – in modo quasi sotterraneo – al demonico (o demo-niaco). È il caso del Saggio, dove le ninfe fanno capolino saltuariamente, collegate a Pano ai fauni,2 ma soprattutto dello Zibaldone, dove Leopardi nota (è il dicembre 1821) unasostanziale intercambiabilità, per gli scrittori del medioevo italiano, tra i termini nym-pha e Lamia, a suggerire una possibile reminiscenza folklorica deviante rispetto alla cul-tura dotta.3 E se l’analisi leopardiana sembra anticipare alcuni risultati delle modernericerche sul folklore in merito alla sopravvivenza di figure classiche nelle tradizioni sullefate e sul ‘piccolo popolo’,4 ciò che è importante notare è come qui Leopardi sfiori un

un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idead’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci deside-rio di posseder quell’oggetto» (Zib., 4310-4311, 30 giugno 1828). Cfr. quanto scrive in proposito F. D’Intino (Il mo-naco indiavolato. Lo ‘Zibaldone’ e la tentazione faustiana di Leopardi, in Lo ‘Zibaldone’ cento anni dopo. Composizione, edi-zioni, temi, a cura di R. Garbuglia, Firenze, Olschki, 2001, ii, pp. 467-523: p. 478), anche per scorgere – oltre le(eccessive?) reticenze leopardiane – la matrice profonda di questa immagine di nymphet, più legata di quanto sem-brerebbe alle sue omologhe francesi e tedesche: se in queste righe – come già in A Silvia – si delinea l’immagined’una Gretchen leopardiana, ugualmente «victime de l’enfer» (I misteri di Silvia, cit., p. 215), è chiaro anche comela «metafora guerresca» del canto pisano (ivi, p. 225 e nota) si riverberi nel «modèle militaire» che caratterizza illessico libertino della seduzione (Le savoir-vivre libertin, cit., pp. 51-66).

1 V. Nabokov, The Annotated Lolita, ed. by A. Appel Jr., London, Penguin, 1991, p. 16. Sul termine nymphet cfr.la nota di Alfred Appel (ivi, pp. 338-340): sulle implicazioni mitologiche del termine e sui legami dell’opera di Nabokov con l’elaborazione del tema della ninfa in Warburg (di cui Nabokov poteva aver avuto notizia per il tramite di Panofsky) cfr. A. Sbrilli, Le mani fiorentine di Lolita. Coincidenze warburghiane in Nabokov, «Rivista di Engramma», 43, 2005, online www.engramma.it, e il saggio di R. Calasso, La sindrome Lolita, in Idem, La follia cheviene dalle ninfe, cit., pp. 45-50.

2 Nel capitolo vii (Del meriggio) Leopardi cita l’ode di Orazio a Fauno («Faune, Nympharum fugientum ama-tor», p. 123) e accenna alle ninfe al bagno attraverso Callimaco (p. 128) e la narrazione del bagno di Diana in Ovi-dio (p. 129). In generale, il concetto di ‘demone meridiano’ pare essere strettamente connesso al culto delle ninfe:secondo Erwin Rohde, esso sarebbe essenzialmente una metamorfosi di Empusa, creatura ninfico-demoniaca delseguito di Ecate. Cfr. quanto scrive Agamben, Stanze, cit., p. 6, nota, che – significativamente – rimanda proprioal Saggio per una definizione del ‘demone meridiano’. Nel capitolo sui Terrori notturni, quindi, Leopardi parla di«Ninfe scherzose [che] erano oltre ogni credere insolenti in tempo di notte» (p. 139).

3 «Gli scrittori latini adoperarono Lamia in senso di strega, o fata ec. e negli scrittori del trecento ella si trova,credo sempre, in senso di ninfa, tanto che i volgarizzatori di quel tempo, dove i testi latini dicono nympha, tradu-cono regolarmente Lammia. Questa voce non la poterono dunque avere dagli scrittori latini, che l’adoprano in al-tro senso, ma dal volgare, il quale, come il volgo fu divenuto cristiano, e considerò le ninfe, e le altre deità del pa-ganesimo come demonj, e mali spiriti, cominciò e costumossi a chiamar Lammie le ninfe de’ Gentili. […]. Ovverointendo per Lammie le fate delle quali a que’ tempi si discorreva, e la cui idea somiglia a quella delle streghe ec. ele fate essendo una specie di ninfe, e viceversa, prevalse questo costume di confonder le ninfe colle Lammie, tuttecose che dimostrano un uso volgare, e una perpetua conservazione della voce Lamia e dell’idea che significava, odi un’idea analoga alla medesima, nel volgare latino fino ai primordi dell’italiano […]. E chi sa che gli stessi anti-chi latini (e greci) volgarmente non dicessero Lamia per ninfa? Considerando cioè la ninfa come un ente miste-rioso, e di misterioso potere, qual è appunto la Lamia» (Zib., 2300-2304).

4 Sui percorsi che dalle ninfe classiche conducono alle fate medievali cfr. il seminale studio di L. Harf-Lanc-ner, Morgana e Melusina. La nascita delle fate nel Medioevo, trad. di S. Vacca, Torino, Einaudi, 1989, pp. 9-14, che tut-tavia assegna ad Alfred Maury (1843) il merito di aver suggerito per primo «di vedere nelle nostre fate le discen-denti delle antiche Parche e delle ninfe» (p. 9). Nello spostare l’analisi dalla ‘cultura dotta’ a quello che oggichiameremmo folklore, e nell’individuare le sopravvivenze di una religione originale in fossili linguistici e in quelleche si potrebbero definire le ‘smagliature’ della cultura dominante, Leopardi pare tuttavia anticipare – fatte le de-bite differenze – il C. Ginzburg di Storia notturna: per la ripresa di alcuni temi sollevati da Ginzburg in rapportocon la sopravvivenza delle ninfe classiche in area mediterranea cfr. E. Guggino, Fate, sibille e altre strane donne, Palermo, Sellerio, 2006. Interessante (e a parziale conferma dell’ipotesi leopardiana) il fatto che, ancora nei primianni del xx secolo, le fate greche conservassero nella tradizione popolare il nome di Neráïdes (ivi, pp. 120-122).

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‘antico’ che non è più quello (com’era, ancora, nel Saggio) delle auctoritates, ma che siavvicina a una percezione quasi etnografica dell’antichità, rivelando una religiosità po-polare oscura e sotterranea (e decisamente opposta al classicismo winckelmanniano)che si perpetua e sopravvive (ancora, un Nachleben) nel linguaggio. In altre parole, Leo-pardi si trova a toccare la doppiezza, l’ambiguità essenziale del numinoso arcaico: quel-la doppiezza che avrebbe avvertito il giovane Aby Warburg nel contemplare la «ninfa»del Ghirlandaio in Santa Maria Novella, quando avrebbe scritto a Jolles che essa era «unospirito elementare, una dea pagana in esilio»;1 e che anni più tardi – nella conferenza diKreuzlingen sul Rituale del serpente – avrebbe rivisto nel simbolo, appunto, del serpen-te, alla ninfa legato da una relazione ambigua.2 E se nella lettera l’intuizione è come an-nichilita, sotto lo schermo della nota filologica e di un’aristocratica presa di distanza dal-la «classe abbandonata ai pregiudizi dell’infimo volgo» (Zib., 2304), la ninfa («giovinettaimmortal», come la luna del Canto notturno)3 riappare – nei Canti – con la stessa dop-piezza, la stessa tensione alterna e bipolare.4

Ora, tale tensione si manifesta anzitutto nel movimento: e, del resto, proprio nella re-sa del movimento nell’iconografia rinascimentale Aby Warburg avrebbe rintracciato –di là dalle teorie espresse da Lessing nel Laocoonte, che demandavano alla scultura la re-sa della staticità, dove solo la poesia poteva esprimere il mutamento – la persistenza piùtenace dell’antico, contribuendo a incrinare il culto per i motivi statici del classicismogoethiano e winckelmanniano.5 E tuttavia tale tensione tra staticità e moto – e che ètensione fra poesia e arti figurative, o, se vogliamo, fra tempo e istante – era già, em-

1 Citato in Gombrich, p. 113.2 Il legame tra serpente e ninfa è stato sviluppato da Calasso, La follia che viene dalle ninfe, cit., pp. 11-44: le due

figure si sarebbero riunite, nel Medioevo, nell’immagine della fata Melusina (Idem, La letteratura e gli dei, Milano,Adelphi, 2001, p. 36).

3 «La giovinetta è personificazione classica (Kore-Persefone), con l’aggiunta dell’infinito charme che la giovi-netta vera ha sull’anima leopardiana. Fare poesia è impossibilità di rinunciare ad inanimare-personificare tuttoquel che sembra muto di persona e di anima. Il vocativo giovinetta rompe il silenzio della luna silenziosa, la ri-conduce per forza di nostalgia nel cerchio degli esseri animati. E la giovinetta è intatta (almeno, nell’immagina-zione poetica e religiosa) kat’exochén. Per sottrarla alla caducità propria della giovinezza, Leopardi aggiunge: immortale. La laicità leopardiana procede sempre come una rarefatta, e tuttavia decisa a non estinguersi, liturgia»(G. Ceronetti, Intatta luna, «Belfagor», 25, 1970, pp. 97-103: p. 99).

4 «L’image – parce que réglée sur les pouvoirs de l’inconscient – se joue des contradictions logiques: il semblebien que Warburg n’ait pas eu besoin de la théorie freudienne pour observer chaque jour cette inquiétante labili-té du materia qu’interroge l’historien de l’art. Il lui a suffi d’un “regard embrassant” sur les traditions littéraires etles déplacements iconographiques de la “nymphe”: ne fût-ce qu’à constituer son archive, il se trouvait de plain-pied dans ce que, plus tard, Georges Dumézil devait appeler “l’ampleur et l’imprécision des nymphai”. Mortelle etimmortelle, endormie et dansante, possedé et possédante, secrète et ouverte, chaste et provocante, violée et nym-phomane, secourable et fatale, protectrice de héros et ravisseuse d’hommes, être de la douceur et être de la hanti-se, Ninfa assure bien la fonction structurale d’un opérateur de conversion entre des valeurs antithétiques qu’elle “po-larise” et “dépolarise” alternativement, selon la singularité de chaque incarnation» (Didi-Huberman, L’imagesurvivante, cit., p. 348).

5 Cfr. Gombrich, cit., pp. 46-65, e – nello specifico – le pp. 47 e 56-57: Warburg arriva a queste conclusioni nelsuo lavoro su Botticelli del 1893, ora in A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cul-tura raccolti da Gertrud Bing, a cura di G. Bing, trad. di E. Cantimori, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pp. 1-58. Nonva dimenticato come l’operazione warburghiana agisca in parallelo all’attività di quello che è stato chiamato il‘Circolo di Basilea’, ovverosia a quella rivalutazione di una grecità ‘oscura’e preclassica che si riflette nelle operedi Bachofen, Nietzsche, Rohde e Burckhardt: è stato rimarcato come tale operazione culturale, ispirata dalle sco-perte delle civiltà micenea e cretese da parte di Schliemann ed Evans, trovi significative consonanze nell’uso delmito greco e della metafora archeologica da parte di Freud (Oudai Celso, cit., pp. 26-31). Warburg stesso, poi, ve-deva in Burckhardt e Nietzsche – e specialmente nel primo, abile a non cadere «vittima del romanticismo» – gli«iniziatori dell’onda mnemica» che aveva portato il passato a rivivere al di là dell’utopia neoclassica: con termino-logia che dà da pensare, Warburg parlava di Burckhardt come di un «necromante in piena coscienza», che era re-stato «un illuminista», «costruendosi la sua torre di veggente» (citato in Gombrich, pp. 220-221).

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brionalmente, leopardiana: se nel gennaio 1822 Leopardi, nello Zibaldone, aveva affer-mato la necessità, per le arti, di esprimere quelle che oggi definiremmo ‘formule di pa-thos’ («o pittura, o scultura, o poesia […], se non ha per soggetto veruna passione, [o so-lamente qualcuna troppo poco viva] è sempre posposta a quelle che l’esprimono,ancorché con minor perfezione nel loro soggetto»: Zib., 2361), due anni più tardi, rian-dando alla Corinne di Madame de Staël, avrebbe esplicitamente legato la passione al mo-vimento, notando che

Una statua, una pittura ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchènon bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a se, ancorchè in una galleriad’altre mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s’elle sono di atto riposa-to ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione, quella, anche in seguito, ci diletta più diqueste. Così non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio della pittu-ra e scultura solamente il riposo delle figure, ma s’inganna, testimonio l’esperienza. ec. ec.

(Zib., 4021-4022, 24 gennaio 1824)

Il primo embrione di tale estetica del moto era tuttavia già del 1820, quando Leopardi –commentando un passo dell’Essai sur le Goût di Montesquieu, e nello specifico dal capi-tolo sul Je ne sais quoi – s’era trovato in disaccordo con l’autore riguardo al concetto di‘grazia’: rilevando (con terminologia squisitamente warburghiana) come «la grazia or-dinariamente consiste nel movimento: e diremo così, la bellezza è nell’istante, e la gra-zia nel tempo», e che «Lo svelto, il leggero, parimente ha a che fare con la grazia» (Zib.,199 e 202, 4-9 agosto 1820).1 Ora, il concetto di ‘grazia’ ha un posto a sé nella semanticainterna dell’opera leopardiana: nell’ottobre del 1821 Leopardi parlerà addirittura di unapropria «teoria della grazia», a definire una serie di riflessioni – partite proprio dalle os-servazioni di Montesquieu – che delineano una costellazione del ‘grazioso’ addensataintorno a concetti come la «piccolezza», la naïveté, lo «straordinario nel bello» (o, nel1828, il «brutto nel bello»).2 La «grazia» leopardiana, problema di stile e segno dell’anti-co,3 sembra legarsi saldamente al moto e alla leggerezza, intesi tuttavia come elemen-ti che turbano la fissità del «bello»:4 la grazia «accompagna naturalmente ciò che è stra-

1 Cfr. anche: «La vispezza e tutti i movimenti, e la struttura di quasi tutti gli uccelli, sono cose graziose» (Zib.,221, 21 agosto 1820); «Alle volte la vivacità (sia del viso, o dei movimenti, o delle azioni ec.), alle volte la languidezzae flemma è madre di grazia» (257, ottobre 1820).

2 «La grazia in somma per lo più non è altro che il brutto nel bello. Il brutto nel brutto, e il bello puro, sonomedesimamente alieni dalla grazia» (Zib., 4416, 25 ottobre 1828).

3 Di un antico, peraltro, sentito in prospettiva esplicitamente storica: «[…] l’eleganza e la grazia de’ Trecenti-sti la sentiamo noi molto più che quel tempo che li produceva; molto più di quegli stessi scrittori, i quali forse nonvollero nè cercarono d’esser graziosi, ma pensarono solo a scrivere come veniva, e a dir quello che dovevano; nès’accorsero della loro grazia: e lo stesso dico de’ parlatori di quel tempo. Lo stesso delle pronunzie o dialetti fore-stieri ec. i quali riescono graziosi fuor della patria, non già in patria» (Zib., 1325, 14 luglio 1821); «Per un esempio ein conferma di quanto ho detto altrove, che l’eleganza, la grazia ec. dello scrivere antico, la semplicità de’ concet-ti e de’ modi, la purità ec. della lingua, sono o in tutto o in parte piaceri artifiziali, dipendenti dall’assuefazione edall’opinione, relativi ec. e fanno maggior effetto in noi, e ci piacciono più che agli stessi antichi, a quegli stessiscrittori che ci recano oggidì tali piaceri ec. ec. si può addurre il Petrarca, e il disprezzo in che egli teneva i suoiscritti volgari, apprezzando i latini che più non si curano. Egli certo non sentiva in quella lingua illetterata e spre-giata ch’egli maneggiava, in quello stile ch’egli formava, la bellezza, il pregio e il piacere di quell’eleganza, di quel-la grazia, naturalezza, semplicità, nobiltà, forza, purità che noi vi sentiamo a prima giunta. Egli non si credeva nèpuro (in una lingua tutta impura e barbara come giudicavasi la italiana, corruzione della latina) nè nobile, nè ele-gante ec. ec. L’opinione, l’assuefazione ec. o piuttosto la mancanza di esse glielo impedivano» (1579-1580, 28 ago-sto 1821).

4 «Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse volte la grazia o delle forme o delle maniere deriva da unabellezza e convenienza nelle cui parti non esiste veramente nessun contrasto, ma che però risulta da certe partiche non sogliono armonizzare e convenire insieme, benchè in questa tal bellezza e in questo tal caso convenga-

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niero» e non familiare (4293, 21 settembre 1827), ponendosi chiaramente sotto il segnodell’alterità, dell’aura che interviene a disturbare un quadro dato.1

Il movimento grazioso, per Leopardi, è dunque – di base – qualcosa di estraneo: ciòche è grazioso è presenza irriducibilmente ‘altra’, monstrum che s’insinua nella fissitàiconica del ‘bello’ alludendo a un altrove. Conosciamo questa estraneità: è quella per-cepita, ancora, da Warburg, quando nota – nell’affresco di Ghirlandaio dedicato alla Na-tività della Vergine – una figura d’ancella che si muove dalla destra, attraversando il di-pinto con una leggerezza che sembra stridere con la fissità statuaria delle altre. Quellafigura – che Warburg chiama Ninfa – è estranea, altra, perturbante: non fa parte del qua-dro, viene da un altro tempo e luogo, e la sua grazia ha in sé qualcosa di così visceral-mente, arcaicamente pagano da stonare col tono cristiano, con la natura di ex voto deldipinto.2 Ninfa – corpo femminile in movimento – è dunque l’antico: un antico che simanifesta nello stile, nella levità e nella grazia, e che in un particolare – il passo – rias-sume e simboleggia il tempo. Proprio in una dialettica tra tempo e movimento Leo-pardi situava il dominio della grazia, del Je ne sais quoi:3 anche lì si trattava di qualcosache gli ‘antichi’ possedevano naturalmente, e che i moderni possono solo recuperare

no; ovvero da parti che non sogliono trovarsi riunite insieme, benchè trovandosi, sempre armonizzino: onde es-sa bellezza è diversa dalle ordinarie, benchè sia vera bellezza, cioè intera convenienza ed armonia. In tal caso ilcontrasto è estrinseco ed accidentale, non intrinseco: in tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, manon dalla bellezza in quanto bellezza, bensì in quanto bellezza non ordinaria, e di genere diversa dalle altre: cosìche la grazia anche in questo caso deriva dal contrasto, non delle parti componenti il bello, ma del tutto, cioè diquesto tal bello, col bello ordinario; e dalla sorpresa che l’uomo prova vedendo o sentendo una bellezza diversada quella ch’egli suole considerar come tale, il che produce in lui un contrasto colle sue idee. Questo caso, da cuinasce la grazia, non è raro» (Zib., 2831-2832, 27 giugno 1823).

1 La «teoria della grazia» leopardiana non è stata finora oggetto di grande attenzione critica: di là dalla prefa-zione di Prete e dall’introduzione di Cacciapuoti al volume sulla Teorica delle arti dell’edizione tematica dello Zi-baldone (G. Leopardi, Teorica delle arti, lettere ec. Parte speculativa. Edizione tematica dello ‘Zibaldone di pensieri’ sta-bilita sugli ‘Indici’ leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2000, rispettivamente pp. xi-xii elxxvi-lxxxv), segnalo per ora Gaetano, cit., pp. 371-394. Sul je ne sais quoi si veda anzitutto P. D’Angelo, S. Ve-lotti, Il ‘non so che’. Storia di un’idea estetica, Palermo, Aesthetica, 1997; sull’estetica della grazia ancora valido il‘classico’ R. Bayer, L’esthétique de la grâce, Paris, Alcan, 1933. Si veda anche il recentissimo M. Rossi Monti, Il cie-lo in terra. La grazia fra teologia ed estetica, Torino, utet, 2008, dove però Leopardi non è citato che en passant. Il pro-blema della grazia è strettamente legato al concetto greco di Charis e alle divinità note come Charites, per moltiversi assimilabili – come si vedrà – alle ninfe: sul tema si vedano E. Schwarzenberg, Die Grazien, Bonn, Habelt,1966; K. Deichgräber, Charis und Chariten, Grazie und Grazien, München, Heimeran, 1971; e B. MacLachlan,The Age of Grace, Princeton, Princeton University Press, 1993. Sull’etimologia del termine latino Gratia e le sue ap-plicazioni in ambito estetico e religioso, cfr. C. Moussy, Gratia et sa famille, Paris, puf, 1966.

2 A suggerire la natura pagana della ninfa è anzitutto Jolles: «Chi è? Da dove viene? Dove l’ho incontrata pri-ma? Voglio dire, millecinquecento anni prima. Viene da un nobile lignaggio greco, e la sua antenata ha avuto unarelazione con qualcuno dell’Asia Minore, dell’Egitto o della Mesopotamia?» (citato in Gombrich, p. 102); dal can-to suo, Warburg si chiede: «Questa pianta così stranamente delicata ha davvero le sue radici nella sobria terra fio-rentina?» (ivi, p. 105). E, accanto alla definizione della ninfa come «spirito elementare, […] dea pagana in esilio»,aggiunge: «Se vuoi vedere i suoi antenati, guarda il bassorilievo sotto i suoi piedi» (ivi, p. 113). Riguardo alla gra-zia, Rossi Monti richiama quanto scrive Jean-Claude Schmitt sul concetto di gestus: «“il Medioevo ha valorizzatotutto ciò che coi gesti ha a che fare con la postura più che col movimento”: e i movimenti lenti e l’andatura so-lenne dei personaggi investiti di un potere sacrale (il papa, il re, il vescovo) imitano ed ostentano un’immobilitàche è il riflesso di quella divina. Anche nelle immagini sacre, nei dipinti e nelle statue di soggetto religioso si assi-ste a un “primato ontologico dell’immobilità”» (Il cielo in terra, cit., p. 113). È chiaro che la grazia della ninfa deri-va dal movimento, che turba e incrina la fissità sacrale dell’impianto dell’affresco: è il movimento la spia più evi-dente della sua ascendenza pagana.

3 «La danza è, dunque,per Domenichino [Domenico da Piacenza, autore nel xv secolo del trattato Dela arte diballare et danzare], essenzialmente un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in unaserie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento,bensì nell’immagine […] come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Maciò significa che l’essenza della danza non è più il movimento – è il tempo» (Agamben, Ninfe, cit., p. 14).

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nel dettaglio, nella rimeditazione sofferta e nella vigilanza della scrittura. A questa gra-zia leggera, legata al femminino e al passato, alla memoria e alla danza, la modernità ha dato il nome delle ninfe antiche: sono loro, scriveva Georges Didi-Huberman, che so-vrintendono alla nascita del moderno, abbiano esse l’aspetto della fanciulla di Ghirlan-daio o quello delle isteriche di Charcot, l’inquietante doppiezza del femminino deca-dente o l’asimmetria deambulatoria di Gradiva.1 Leopardi, nel muoversi sul crinale trastoria e memoria, tra leggerezza e naïveté, si trova dunque – in qualche modo – a dis-seppellire anch’egli la Ninfa: donna del passato, nel cui passo leggero la storia e l’anticosono riassunti e tornano a brillare.2

[…] eine Nymphe, die im Fliehen schon gefallen ist.F. Schlegel, Lucinde

5.

«Passasti». Il verbo si rifrange per quattro volte nell’ultima strofa, delineando un movi-mento che è quello di chi s’allontana: e che s’interseca – come già in A Silvia – con la ca-duta, lo stendersi al suolo e il giacere («Tu, misera, cadesti»; «E giacevi»), e che è spintadiscendente, come la storia dell’arte insegna, caratteristica delle ninfe.3 Ambiguo ecomplesso, ad ogni modo, il ‘passare’ di Nerina: perché sta anzitutto come preziosismoper ‘morire’, ma rimanda in filigrana a un’immagine molto cristiana, il ‘passare’ per laBabilonia terrestre reso ancor più terribile dall’assenza – in Leopardi – di una Civitas Dei.Lo sguardo metastorico delle Ricordanze si fa dunque – alla maniera degli affreschi me-dievali, in cui lo spettatore gode di una prospettiva ‘divina’, contemplando dall’esternoil brulicare delle faccende umane – sguardo assolutizzante:4 Nerina, contemplata dalpunto di vista della Natura, non è che una creatura dall’esistenza breve ed effimera, fa-gocitata da un movimento sadico e inumano di creazione e distruzione.5

1 «Non ci sono fate buone, donne savie e amorevoli, disposte a chinarsi sulla culla della modernità intellettua-le, tra il xix e il xx secolo, mentre si preparano i grandi sconvolgimenti della storia. Ci sono, invece, le ninfe: bel-le apparizioni ornate di panneggi, venute da non si sa dove, volteggianti nel vento, sempre conturbanti, non sem-pre sagge, quasi sempre erotiche, talvolta inquietanti […]. Così si presentano, tra tante altre apparizioni, ArriaMarcella di Théophile Gautier, Aurélia di Nerval, Hérodiade di Mallarmé, L’Eve future di Villiers de l’Isle-Adam, Luludi Wedekind, poi di Alban Berg, La donna senza ombra di Hofmannsthal, poi di Richard Strauss e, in seguito, Nadjadi André Breton… È noto che perché nasca qualcosa che possa definirsi moderna “scienza dell’anima”, occorreche Freud, nel 1885, veda levarsi le isteriche in crisi nel teatro anatomico di Charcot, alla Salpêtrière. […]. In mo-do analogo, perché nasca qualcosa che possa definirsi moderna “scienza delle immagini”, occorrerà un’appari-zione che con la stessa forza sappia rovesciare un’altra forma di sapere scolastico: la storia dell’arte» (Didi- Huberman, Ninfa moderna, cit., pp. 11-12). Può essere suggestivo ricordare come l’asimmetria nel camminare siasegno mitologico di un rapporto privilegiato col mondo degli inferi (Ginzburg, Storia notturna, cit., pp. 219-275).

2 «[…] regarder une image – comprise comme Leitfossil – revien[t] à voir danser tous les temps ensemble» (Didi-Huberman, L’image survivante, cit., p. 354).

3 «Si vuol sapere, allora, fin dove la Ninfa è capace di cadere. Le ninfe classiche già tendevano verso il suolo, siflettevano e spesso si adagiavano […]. Come l’aura di Benjamin, la Ninfa declina con i tempi moderni. In sensoproprio, non si può dire che invecchi, perché è un essere della sopravvivenza, e nemmeno che scompaia: sempli-cemente s’accosta al suolo» (Didi-Huberman, Ninfa moderna, cit., p. 15).

4 «La volonté de voir la ville a précédé les moyens de la satisfaire. Les peintures médiévales ou renaissantes fi-guraient la cité vue en perspective par un œil qui pourtant n’avait encore jamais existé. […]. Cette fiction muaitdéjà le spectateur médiéval en œil céleste. Elle faisait des dieux. En va-t-il différemment depuis que des procédurestechniques ont organisé un “pouvoir omni-regardant”. L’œil totalisant imaginé par les peintres d’antan survit dansnos réalisations» (de Certeau, Marches dans la ville, in Idem, L’invention du quotidien, i, Arts de faire, Paris, Galli-mard, 1980, pp. 171-198: p. 173).

5 Cfr. M. A. Rigoni, Leopardi, Sade e il dio del male, in Idem, Il pensiero di Leopardi, Milano, Bompiani, 1997, pp.103-114.

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In questo, Nerina (e non è forse un caso che nymphe indichi, sia in greco che in italiano, anche la crisalide) è femminino passante, transitorio: ‘passante’ in senso bau-delariano, naturalmente, «éclair» momentaneo e fuggitivo che è l’unico modo che lacontemporaneità conosce per ritrascrivere l’esperienza erotica della tradizione stilno-vistico-petrarchesca,1 e che nella teoria leopardiana della natura illusoria dell’amore tro-va una significativa rielaborazione.2 Non credo sia peregrino notare come in Leopardi,fin dagli scritti autobiografici giovanili, agisca – sotterraneo – il modello della Beatricedi Dante: nella meccanica di incontro, saluto e scrittura dell’episodio di Teresa Brini nel-la Vita abbozzata di Silvio Sarno,3 ma anche negli echi danteschi di A Silvia4 e fino alle ‘se-polcrali’, dove Leopardi procede a un sistematico annichilimento della tradizione stil-novistica e – parallelamente – della rielaborazione che egli stesso ne aveva fatto nei cantidi Aspasia. Beatrice, è chiaro, trova posto in Leopardi anzitutto come archetipo di mo-ritura puella: parallelamente, e in particolar modo nelle ‘sepolcrali’, il lessico dello Stil-novo («Immagine del ciel», «angelico aspetto»,5 e fino alla citazione dissimulata da Tan-to gentile adombrata nello «splendor vibrato / Da natura immortal su queste arene»6[«da cielo in terra a miracol mostrare»: v. 8]) viene ribaltato, a indicare come la signatu-ra rerum che dalla donna – per gli stilnovisti e per Dante – rimandava al cielo è oramairelazione vuota tra significanti tenuta in vita solo per virtù d’illusione. E tuttavia mi pa-re significativo rimarcare due fenomeni. Primo, che in Leopardi la ‘beatrice’ – già nelloStilnovo creatura eminentemente urbana, ‘caduta’ quasi dalle corti provenzali sulle stra-de delle città toscane – sembra vivere su una costante tensione tra ‘borgo’ e ‘città’: agliincontri con la Brini, Beatrice rustica, per le vie di Recanati, fa da contrappunto lo chocsperimentato davanti a una città – Roma – percepita anzitutto come luogo non propi-zio all’amore;7 ed è nella città (questa volta, Pisa) che si ricostruisce, nostalgicamente,

1 Trovo personalmente significativo che lo stesso Walter Benjamin, nell’analizzare A une passante, adoperasseun lessico singolarmente dantesco: «l’apparizione che affascina l’abitante della metropoli», aveva scritto, «lungidall’avere nella folla solo la sua antitesi, […] gli è arrecata solo dalla folla»; «[c]iò che contrae convulsamente il cor-po […] non è la beatitudine di colui che è invaso dall’eros in tutte le stanze del suo essere [das ist nicht die Beseli-gung dessen, von dem der Eros in allen Kammern seines Wesens Besitz ergreift]; ma ha piuttosto dell’imbarazzosessuale, come può sorprendere il solitario» (Idem, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., pp. 89-130:pp. 103-104). Il sostantivo «Beseligung», formato sul verbo beseligen (‘donare beatitudine’) e che presuppone dunque– implicito – un agente (‘beatrice’), è in questo senso spia eloquente; dove l’immagine delle «all[e] Kammern sei-nes Wesens» è scopertamente, apertamente duecentesca, nel rievocare le «camere» dove, nella Vita Nova, avevanosede gli spiriti vitale, animale e naturale (vn, 1, 4-8).

2 Prete ha rievocato A une passante sia a proposito di Alla sua donna (Idem, Finitudine e infinito. Su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 103-109) che di A Silvia (Idem, Un verso, in Giacomo Leopardi. Viaggio nella memoria, cit.,pp. 121-124). Si veda anche F. Camilletti, ‘On pleure les lèvres absentes’: ‘Amor di lontano’ tra Leopardi e Baudelaire,«Italian Studies», 64, 1, Spring 2009, pp. 77-90.

3 Scritti e frammenti autobiografici, cit., pp. 79-80 e 116-118. Cfr. la nota di Franco D’Intino alla p. 80 per l’ipotesidi un’influenza del saluto di Beatrice nella Vita Nova.

4 Ceragioli ha rimarcato come, nel periodo di gestazione di A Silvia, Leopardi si fosse procurato una copia de-gli Amori e rime di Dante di Ferdinando Arrivabene, pubblicati del 1823 (F. Ceragioli, Il percorso segreto della poesia,in F. Ceragioli, M. Andria, Il percorso della poesia. Giacomo Leopardi a Pisa (1827-1828), Pisa, ets, 2005, pp. 7-32: pp.27-28). Per rimanere nell’area semantica del nostro discorso, si può dire che – come Beatrice ‘passava’ per via, passava da fanciullezza a gioventù, e infine passava (tra-passava) di carne in spirito, dalla Terra al Cielo – Silvia è«passata» (v. 53); analogamente, come Beatrice è «di carne a spirto […] salita» (Purg., xxx, 127), Silvia sale «il limita-re / di gioventù».

5 Sopra il ritratto di una bella donna, rispettivamente vv. 22 e 35. 6 Vv. 26-27.7 Si veda la lettera a Carlo Leopardi del 6 dicembre 1822: «Lasciando da parte lo spirito e la letteratura […] mi

ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che forse voi credete che sia facile di far con esse nelle città gran-di. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovateuna befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. So-no passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vede-

62 Fabio Camilletti

il ricordo della propria Beatrice dagli occhi «ridenti». D’altro canto, e questo è il puntoche più mi preme, l’immagine di Beatrice si lega indissolubilmente a quella della nin-fa:1 l’espressione «ridenti e fuggitivi» accosta, nella forma del doppio aggettivo, il risodegli occhi di Beatrice alla natura inafferrabile delle ninfe, fin dall’antichità fugitivæ qua-si per definizione.

Torniamo dunque alle Ricordanze, dove – nel tempo dilatato della riflessione nottur-na – entra a un certo punto «il suon dell’ora / Della torre del borgo» (vv. 50-51): e se quel-la delle Ricordanze è una meditazione sullo scorrere del tempo, com’era stata quella –nella Sera del dì di festa, e con scelta terminologica analoga – su «come tutto al mondopassa / E quasi orma non lascia» vv. 29-30), l’ora (consacrata come passus ad mortem dalunga tradizione) sta quasi come emblema visibile di questo passare, di come «vola / Ilcaro tempo giovanil» (Le ricordanze, vv. 43-44). Fugitivæ, dunque, le ore, come le ninfe:ed è probabilmente a causa di questo se, fin dalla religione greca arcaica, le divinità no-te come Horaï si presentano strettamente connesse alle ninfe, fino a far supporre una discendenza comune (di cui – sarà interessante notare – fanno parte anche le Chari-tes/Grazie).2 La stessa Gradiva pare essere una delle Horaï, così come la ‘Flora’ di un ce-lebre affresco di Ercolano: di quest’ultima, con evidente lapsus (dato che la figura origi-nale non ha nulla del genere) Gérard de Nerval parlerà – in Sylvie – delle «Heures divinesqui se découpent, avec une étoile au front, sur les fonds bruns des fresques d’Hercula-num», immagine che ricorda curiosamente la «gioia» che «splendea» «in fronte» a Neri-na nelle Ricordanze.3

va manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza; e tuttele donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Reca-nati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciònon ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa co-me, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riducealle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d’una volta, e in ogni modo sono così pe-ricolose come sapete» (Tutte le poesie e tutte le prose, pp. 1225-1226).

1 Beatrice è del resto, e fin dal principio, Ninfa fiorentina quasi per antonomasia: e di ‘ninfe fiorentine’ (e fieso-lane) parlerà a più riprese quello che è forse il più acuto tra i primi commentatori di Dante, oltre che il primo adaver fatto definitivamente ‘cadere’ Beatrice dall’innominata cittade della Vita Nova alla Firenze ben definita del Trat-tatello in laude di Dante. «L’oggetto dell’amore – che Dante chiama “ninfa” soltanto in pochi, ma decisivi luoghi(nella terza epistola, nelle ecloghe, e, soprattutto, nel Purgatorio, dove essa costituisce una sorta di soglia fra il paradiso terrestre e quello celeste) – rappresenta, nei poeti d’amore, il punto in cui l’immagine o fantasma co-munica con l’intelletto possibile. […]. Di questo concetto-limite filosofico-teologico, Boccaccio fa invece il luogoin cui porre il problema, squisitamente moderno, del rapporto fra vita e poesia. La ninfa è, cioè, la quasi-reifica-zione letteraria dell’intentio della psicologia medievale (per questo Boccaccio, fingendo di accreditare un pettego-lezzo familiare, potrà trasformare Beatrice in una fanciulla fiorentina)» (Agamben, Ninfe, cit., pp. 47-48).

2 «The Muses, Charites, and Horai are groups closely allied to the nymphs, and they fulfill under other namesmany of the functions otherwise attributed to nymphs (e.g. causing the crops to ripe or producing inspiration).They are primarily cultic entities […]. There can be little doubts that the Muses and the Charites developed fromthe same ancestral stock as the nymphs and are in fact more specialized members of the same general group» (J.Larson, Greek Nymphs. Myth, Cult, Lore, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 7-8). I primi riferimenti lette-rari alle Horaï sono nell’Iliade, ma testimonianze si trovano lungo tutto l’arco della letteratura classica (tra gli al-tri Esiodo, Pindaro, Callimaco, Teocrito, Luciano, Nonno, Orazio, Ovidio, Stazio, Apuleio): a seconda degli auto-ri, il numero e la funzione delle Horaï muta, per quanto Larson rimarchi un’origine triadica simile a quella delleCharites e delle ninfe arcaiche (ivi, p. 259) che fa pensare alle tre Madri neolitiche di cui ha trattato Ginzburg, Sto-ria notturna, cit., pp. 99-129. Proprio Ginzburg evocava i legami tra le Madri del tempio siciliano di Engyon e le nin-fe, e, in generale, con una triplice divinità femminile a diffusione eurasiatica legata agli animali e alla caccia, e va-riamente metamorfizzata – nel mondo greco – in Artemide, Ecate o in immagini di ninfe.

3 Sylvie, romanzo sul ricordo e sulla giovinezza che fugge, sembra dividere un’intimità segreta con Le ricor-danze, costruito com’è sui temi del nostos e della perdita dell’innocenza, sulla conflittualità tra città e villaggio, econ singolari sovrapposizioni di piani temporali (sottolineati, come nelle Ricordanze, dall’alternarsi di presente,imperfetto e passato remoto) che hanno fatto parlare della struttura di un ballet des Heures. La prossimità può

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 63

Il «suon dell’ora» – «casualità», scrive Luigi Blasucci,1 che dà l’inizio alla terza lassa –introduce quindi, occultamente, la presenza delle ninfe, di quelle nymphaï che (siano es-se Ore, o fanciulle destinate a morte precoce, conformemente all’estensione dell’areasemantica del termine greco) stanno come mitologema nascosto del canto: in qualchemodo, si può dire, l’area semantica del greco nymphe si riverbera nella lirica facendose-ne quasi cifra segreta, allegoria del tempo e del fuggire della giovinezza e delle sue il-lusioni.

6.

The river bears no empty bottles, sandwich papers,Silk handkerchiefs, cardboard boxes, cigarette endsOr other testimony of summer nights. The nymphs are departed.

T. S. Eliot, The Waste Land (1922)

Nerina, dunque, che si svela come «dea» dal «passo»? Michel de Certeau adoperava lacitazione virgiliana per sostenere la dimensione insieme retorica e dialettica del cam-minare, il suo farsi ragionamento e parola:2 in questo senso, la piena consonanza fra Lericordanze e il loro oggetto è evidente, il movimento ondivago e leggero del testo che siriverbera nella leggerezza danzante del passo di Nerina – danza soffusa d’orrore, certo,come la lirica lo è di malinconia, se la «gioia» che «splende» «in fronte» alla fanciulla passante ha il suo antecedente negli spartani pronti all’olocausto di All’Italia, quandoognuno «parea ch’a danza e non a morte andasse» (v. 94).

Del resto, questo sono le ninfe: esseri intermediari che costituiscono il punto di raccordo tra il soggetto e l’immagine: phantasmata, in senso pienamente aristotelico,verso i quali si apprende il desiderio del soggetto, e il cui godimento è demandato a unadelectatio morosa che si concretizza nella parola (poetica).3 S’è detto, correttamente, che

spingersi fino alla ricezione: anche Sylvie,come alcuni Canti, è parsa per decenni essere di base un idillio campa-gnolo di gusto neoclassico, e solo la lettura fatta da Proust nel Contre Sainte-Beuve ha permesso di scorgere come«le tinte di Sylvie non s[iano] quelle di un pastello classico», ma «di “un color porpora, di un rosa porpora di vel-luto purpureo e violaceo”» e che è un «effetto-nebbia» creato dall’intersecarsi di memoria e illusioni, fra le quali l’Ionarrante «non fa altro che girare in tondo […] come la falena impazzita che sbatta entro la coppa di un lampada-rio» (cfr. U. Eco, Rilettura di Sylvie, in G. de Nerval, Sylvie, Torino, Einaudi, 1999, pp. 91-165: rispettivamente al-le pp. 99 e 125). Il nome stesso della protagonista ha evidenti echi ninfico-leopardiani, così come la presenza delleore: le «Heures divines», certo, ma anche quelle dell’orologio che irrompe nel cap. 3, un orologio che – come lacampana della «torre del borgo» – «è un concentrato simbolico di tutto il racconto, […] perché è lì a dire (più allettore, forse, che a Jerard) che l’ordine dei tempi non lo ricupereremo mai» (ivi, p. 131). Si può dire, infine, che anche Sylvie, come Nerval stesso accenna in maniera ammiccante nell’ultimo capitolo («Je l’appelle quelquefoisLolotte, et elle me trouve un peu de ressemblance avec Werther, moins les pistolets, qui ne sont plus de mode»),è il romanzo romantico-wertheriano che l’autore non ha saputo (o voluto) scrivere.

1 Blasucci, I tempi dei ‘Canti’, cit., p. 203.2 De Certeau, Marches dans la ville, cit., pp. 179-187.3 È quella di phantasma la nozione con cui nel Medioevo cristiano viene generalmente spiegato il fenomeno

degli incontri (e degli amplessi) di mortali con fate/ninfe: come fa notare Harf-Lancner, nel De Nugis Curialium(1181-1193) Gualtiero Map «sembra prediligere le parole ‘fantasia’, ‘fantasma’, ‘fantasticus’, legate al registro magi-co o demoniaco dell’illusione dell’irrealtà»; «Gualtiero si serve […] di questo vocabolario ‘fantastico’ per designa-re degli esseri soprannaturali che si materializzano temporaneamente in forma umana», di modo che «nelle fatesi intuissero i demoni succubi senza mai designarli come tali» (Morgana e Melusina, cit., pp. 42-43). Caso analogonel commento all’Apocalisse di Goffredo d’Auxerre (1190), dove il protagonista di un aneddoto viene accusato di«ver sposato “un fantasma e non una donna” (“phantasticum aliquid”)», «“phantastica […] mulier”» (ivi, p. 45); nelcapitolo De lamiis er nocturnis larvis degli Otia Imperialia, Gervasio di Tilbury nota che «Molti uomini affermano[…] di aver visto dei Silvani o dei Pan, chiamati anche incubi o, dai Galli, “dusii”. Non oso affermare, a questo pun-to, che sia possibile per degli spiriti crearsi un corpo a partire dall’elemento aereo così da conoscere, attivamente

64 Fabio Camilletti

è nel fluire labile e fatto d’associazioni delle Ricordanze che Leopardi giunge a scrivereil romanzo autobiografico (il suo Werther, potremmo dire)1 progettato fin dalla giovi-nezza: ma è l’immagine danzante della ninfa a consentirglielo, la sintesi d’oggetto e forma, di parola e fantasma che sono le Ricordanze stesse. Non è un caso che, già nel-l’ottobre del 1820, Leopardi facesse seguire nello Zibaldone – a una meditazione che toc-ca il cuore stesso del problema della giovinezza fuggitiva, e in cui «ridenti» sono non acaso le «immaginazioni»2 – un passo come «Il suo divertimento era di passeggiare con-tando le stelle (e simili)» (Zib., 280, 16 ottobre 1820). In altre parole, la giovinezza che‘passa’ trova una risposta (illusoria, momentanea, effimera) in un «passeggiare contan-do le stelle»: quelle stelle salutate nell’incipit delle Ricordanze a indicare il ritorno, altret -tanto effimero, del mondo mitico delle ‘illusioni’, e dove il «passeggiare» è andatura diflâneur anche (possiamo supporlo) a livello retorico-intellettuale,3 movimento leggeroe indugiante, teso a prolungare l’incanto.

È dunque nel linguaggio, nella parola che ha luogo il possesso della ‘fuggitiva’, la Ne-rina/ninfa/Ora che è passata: l’Io poetico, con strategia retorica tipicamente leopar-diana, si reduplica in un’immagine femminile dalla giovinezza troncata,4 giungendo at-traverso questo riflesso a catturare e compiere il progettato roman. È solo nella parolache l’oggetto del romanzo (che è sempre, ammoniva Roland Barthes, il proprio passa-to, alterizzato nell’acedia dalla presa di coscienza di un lutto avvenuto)5 riesce a trasfi-gurarsi e farsi forma: impasse freudiana, questa di una necessaria Bildersprache per cat-turare le immagini/‘ricordanze’, e che è peraltro la stessa impasse leopardiana del farepoesia nonostante, della necessità di evocare illusioni per denunciarne la natura illusoria.

È l’emergere del mitologema ninfico, s’è detto, a consentire questa cattura: attraver-so la ninfa/Charis, la parola recupera quella grazia che dà al canto la sua leggerezza. Ese le ninfe sono partite dal mondo éclairé,6 e se l’incanto del «conta[re] le stelle» è per-

o passivamente, il piacere della carne, unendosi alle donne o sottostando al desiderio degli uomini. […] In ognicaso, sappiamo che degli uomini hanno fatto tale esperienza poiché alcuni sono stati gli amanti […] di fantasmiche vengono chiamati fate» (citato ivi, p. 45). È evidente come la nozione di phantasma non venga qui impiegata,a differenza di quanto sostiene Harf-Lancner, per sottolineare l’irrealtà delle epifanie fatate, quanto la loro naturademonica, di esseri intermediari – cioè – che si costituiscono «un corpo a partire dall’elemento aereo» (in maniera,cioè, pneumatico-fantasmatica) riflettendo il desiderio del soggetto che li guarda: donne immaginarie, dunque,proprio perché immaginate, secondo «[i]l vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio»(Agamben, Stanze, pp. 28-35 e 146-155: nello specifico, cfr. p. 151) È solo nella ‘stanza’ poetica, nota sempre Agamben,che il possesso dell’imago può definitivamente avere luogo: «il segno poetico appare come l’unico asilo offerto alcompimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia» (ivi, pp. 151-152).

1 Blasucci parla del concretizzarsi, nelle Ricordanze, della «discreta intenzione di “storia di un’anima”», in cui siassiste alla «presenza (poeticamente purificata) di alcune movenze “wertheriane”» alle quali Leopardi s’era ab-bandonato nella Sera del dì di festa (I tempi dei ‘Canti’, cit., pp. 202-203). Folin ricorda il giudizio di Fubini sulle Ri-cordanze come estrema concretizzazione del progetto leopardiano di Storia di un’anima (Leopardi e il canto dell’ad-dio, cit., p. 94, nota).

2 «Il giovane non ha passato tutto quello che ne ha, non serve altro che ad attristarlo e stringergli il cuore. lerimembranze della fanciullezza e della prima adolescenza, dei godimenti di quell’età perduti irreparabilmente,delle speranze fiorite, delle immaginazioni ridenti, dei disegni aerei di prosperità futura, di azioni, di vita, di glo-ria di piacere, tutto svanito. […] Ogn’istante che passa della sua gioventù in questa guisa, gli sembra una perditairreparabile fatta sopra un’età che per lui non può più tornare» (Zib., 279-280, 16 ottobre 1820).

3 Nel progetto per il giornale «Lo Spettatore fiorentino» del 1832, Leopardi riflette sull’intraducibilità in italia-no del termine flâneur, indicato appunto come attitudine intellettuale verso la leggerezza, l’eclettismo e l’‘inutili-tà’ (Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 1032-1033).

4 Cfr., p. es., D’Intino, I misteri di Silvia, cit., pp. 225-226.5 Cfr. R. Barthes, La préparation du roman I et II. Cours et séminaires au Collège de France (1978-1979 et 1979-1980),

éd. par N. Léger, Paris, Seuil, 2003, pp. 25-28.6 «Già di candide ninfe i rivi albergo, / Placido albergo e specchio / Furo i liquidi fonti. Arcane danze / D’im-

mortal piede i ruinosi gorghi / Scossero e l’ardue selve (oggi romito / Nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre /

Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ricordanze 65

duto quando l’infanzia è passata, è nella memoria che esse possono manifestarsi di nuo-vo, e nella parola poetica che possono arrestare, momentaneamente, la loro fuga. Nondimentichiamo l’affinità che le ninfe hanno con le Muse,1 e il loro portare «conoscenzaattraverso la possessione»:2 se la ninfolessia,3 «[i]l delirio suscitato dalle Ninfe, nasce […]dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal con-tinuo della coscienza»,4 appare chiaro che ‘ricordanze’ e ‘ninfe’ sono, in qualche modo,sinonimi.5 Warburg doveva averlo intuito, nell’intitolare Mnemosyne il suo atlante delleimmagini: ugualmente, le Ricordanze possono essere lette, fin dal titolo, come un tri-buto a Mnemosyne, e l’ambiguità che le soffonde – quella di una ‘casa dell’Io’ infestatadall’Altro, di una ‘dolcezza’ che si fonde col ‘dolore’ – segno della doppiezza della nin-fa, dell’aspetto al tempo stesso terribile e sublime della ninfolessia. La ninfa si fa dun-que emblema del potere magico e funesto del ricordo: e se è stato solo grazie a Nietz-sche, scriveva Warburg, che la modernità ha imparato a «vedere» Dioniso,6 è forse solonelle brume e nella leggerezza dei Canti che il moto danzante delle ninfe ha trovato unadelle sue prime, moderne incarnazioni.

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Meridiane incerte ed al fiorito / Margo adducea de’ fiumi / Le sitibonde agnelle, arguto carme / Sonar d’agresti Pa-ni / Udì lungo le ripe; e tremar l’onda / Vide, e stupì, che non palese al guardo / La faretrata Diva / Scendea ne’ cal-di flutti, e dall’immonda / Polve tergea della sanguigna caccia / Il niveo lato e le verginee braccia» (Alla primavera,vv. 23-38). Ritornano in questo versi molte delle immagini di cui abbiamo trattato: le ninfe e le fonti, il passo dan-zante, il meriggio e Pan, il bagno di Diana e quegli incontri di mortali con dèi e fauni (ma che in Leopardi, conabile strategia retorica, sono solo illusori) che avevano preoccupato Gervasio di Tilbury.

1 «[L]a parentela delle Ninfe con le Muse» è testimoniata dal fatto che, «come le Ninfe, anche queste ultimecantano, essendo dell’arte del canto le Maestre» (W. F. Otto, Le Muse e l’origine divina della parola e del canto, a cu-ra di S. Mati, Roma, Fazi, 2005, p. 22, e cfr. tutto il capitolo sulle ninfe [pp. 5-22] per il rapporto tra ninfolessia e pos-sessione delle Muse). 2 Calasso, La follia che viene dalle ninfe, cit., p. 48.

3 Cfr. Larson, Greek Nymphs, cit., pp. 11-20.4 Calasso, La follia che viene dalle ninfe, cit., p. 32.5 «Ninfa è la fremente, oscillante, scintillante materia mentale di cui sono fatti i simulacri, gli eídola. Ed è la

materia stessa della letteratura. ogni volta che si profila la Ninfa, vibra quella materia divina che si plasma nelleepifanie e si insedia nella mente, potenza che precede e sostiene la parola. Dal momento in cui quella potenza simanifesta, la forma la segue e si adatta, si articola secondo quel flusso» (Calasso, La letteratura e gli dei, cit., p. 37).

6 Citato in Gombrich, p. 166.

66 Fabio Camilletti

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SOMMARIOsaggi

Michele Rak, Psiche dalla scena alla fiaba. La fabella di Apuleius nella cultura baroc-ca tra Veneto e Toscana (primo tempo, ca. 1599-1620) 11

Fabio Camilletti, Il passo di Nerina. Memoria, storia e formule di pathos nelle Ri-cordanze 41

Ivan Pupo, Ingravallo innamorato e furioso. Appunti sul Pasticciaccio 67

noteAngelo Eugenio Mecca, La teoria politica delle macchie lunari 85Cristiano Lorenzi, Echi danteschi (e stilnovistici) nelle rime di Fazio degli Uberti 95Alberto Godioli, La prima satira di Ariosto e la poesia delle corti padane 115Francesca Strazzi, La sfida di Calvino: una lezione di ‘rapidità’. I mezzi di traspor-

to tra strutture narrative e semiologiche 129

critica e metodologiaAngela Borghesi, Per la genealogia di un saggista. Berardinelli tra i maestri 143

bibliografiaSaggisticaAlbert Dietl, Die Sprache der Signatur. Die mittelalterlichen Künstlerinschriften Ita-

liens (M. Ciccuto) 161A scuola con ser Brunetto: Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al

Rinascimento, a cura di Irene Maffia Scariati (M. Scarabelli) 162Chronica de origine civitatis Florentiae, a cura di Riccardo Chiellini (M. Ciccuto) 166Pisa crocevia di uomini, lingue e culture. L’età medievale. Atti del Convegno, Pisa, 25-27

ottobre 2007, a cura di Lucia Battaglia Ricci e Roberta Cella (L. Terrusi) 168Nouvelles études sur l’Ovide moralisé, réunies et présentées par Marylène Possamaï-

Pérez (M. Ciccuto) 172Virginia Cox, Women’s Writing in Italy. 1400-1650 (E. Refini) 174Marco Praloran, Le lingue del racconto. Studi su Boiardo e Ariosto (M. Favaro) 178«Una soma di libri». L’edizione delle opere di Anton Francesco Doni, a cura di Giorgio

Masi (G. Crimi) 180Re-Reading Leonardo.The Treatise on Painting across Europe, 1550-1900, ed. and introd.

by Claire Farago (M. Ciccuto) 185Maria Cristina Figorilli, Meglio ignorante che dotto. L’elogio paradossale in prosa

nel Cinquecento (L. D’Onghia) 188Il nuovo canzoniere. Esperimenti lirici secenteschi, a cura di Cristina Montagnani (G.

Alonzo) 194Marie-France Tristan, Sileno Barocco. Il cavalier Marino fra sacro e profano (A.

Lazzarini) 197Giancarlo Rati, La polemica intorno a L’Italiade e altri saggi su Angelo Maria Ricci

(M. Favaro) 199Ilenia De Bernardis, «L’illuminata imitazione». Le origini del romanzo moderno in

Italia: dalle traduzioni all’emulazione (E. Carriero) 201Umberto Saba, Versi dispersi, a cura di Paola Baioni (A. Biancheri) 205Ilaria Crotti, Mondo di carta. Immagini del libro nella letteratura italiana del Nove-

cento (G. Zagni) 206Eugenio Montale, Prose narrative, a cura di Niccolò Scaffai, con un saggio di

Cesare Segre (I. Campeggiani) 208Francesca Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter

Siti (G. Zagni) 213Notiziario 219Libri ricevuti 247