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Antonello Catani Fra parola e immagine Perché lo spirito della vita rianima le cose che ci circondano, solo per mezzo della parola. E.A.T. Hoffmann, La chiesa dei gesuiti di G. 1. E’ noto come in un quadro i colori assumano riflessi diversi a seconda della luce, ed è altrettanto noto come qualcosa di analogo accada anche col riverbero e la risonanza delle parole: col trascorrere del tempo, al loro significato originario se ne sovrappongono degli altri, che talvolta lo alterano fino a trasformarlo spesso in qualcosa di nuovo e irriconoscibile ma altrettanto carico di conseguenze. A tale processo non sono sfuggite alcune nozioni cruciali forgiate dall’antica cultura greca, come per esempio “mito”, “storia” e “idea”, che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo difficilmente sottostimabile nell’auto- rappresentazione del mondo occidentale. Già per i Greci, mythos, in quanto considerato favola e invenzione, esprimeva un qualcosa di opposto a história, che in Erodoto ha il senso di “ricerca di informazioni” fatta allo scopo di preservare dalla dimenticanza eventi realmente accaduti. 1 Dal canto suo, perlomeno all’origine, il termine idea, nella cui radice si sovrappongono le nozioni di vedere e sapere, aveva il significato di “apparenza, forma”. Fu poi Platone a trasformare le forme, ma quindi anche le immagini, in copie decadute e imperfette di un mondo extra-sensibile che si sottrae allo sguardo. Analogo processo di progressiva astrazione avvenne del resto con la stessa parola theoreín - da cui il moderno “teoria” - che originariamente aveva il senso di assistere a una rappresentazione e cerimonia religiosa. Stranamente speculari a quelli sopra menzionati sembrano essere inoltre altri due termini, “poesia” e “tecnica”, fra di loro affini ma per molti verso ormai antitetici. Il senso originario di poietés 1 Cfr. Erodoto, Le Storie, Clio, I.

Fra parola e immagine

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Antonello Catani

Fra parola e immagine

Perché lo spirito della vita rianima le cose che ci circondano, solo per mezzo della parola. E.A.T. Hoffmann, La chiesa dei gesuiti di G.

1. E’ noto come in un quadro i colori assumano riflessi diversi a seconda della luce, ed è altrettanto noto come qualcosa di analogo accada anche col riverbero e la risonanza delle parole: col trascorrere del tempo, al loro significato originario se ne sovrappongono degli altri, che talvolta lo alterano fino a trasformarlo spesso in qualcosa di nuovo e irriconoscibile ma altrettanto carico di conseguenze. A tale processo non sono sfuggite alcune nozioni cruciali forgiate dall’antica cultura greca, come per esempio “mito”, “storia” e “idea”, che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo difficilmente sottostimabile nell’auto-rappresentazione del mondo occidentale. Già per i Greci, mythos, in quanto considerato favola e invenzione, esprimeva un qualcosa di opposto a história, che in Erodoto ha il senso di “ricerca di informazioni” fatta allo scopo di preservare dalla dimenticanza eventi realmente accaduti.1 Dal canto suo, perlomeno all’origine, il termine idea, nella cui radice si sovrappongono le nozioni di vedere e sapere, aveva il significato di “apparenza, forma”. Fu poi Platone a trasformare le forme, ma quindi anche le immagini, in copie decadute e imperfette di un mondo extra-sensibile che si sottrae allo sguardo. Analogo processo di progressiva astrazione avvenne del resto con la stessa parola theoreín - da cui il moderno “teoria” - che originariamente aveva il senso di assistere a una rappresentazione e cerimonia religiosa. Stranamente speculari a quelli sopra menzionati sembrano essere inoltre altri due termini, “poesia” e “tecnica”, fra di loro affini ma per molti verso ormai antitetici. Il senso originario di poietés 1 Cfr. Erodoto, Le Storie, Clio, I.

(poeta) era infatti quello di “fabbricante, inventore”, per via di poiò, che esprimeva, appunto, “fare”. Ma anche texné (da cui, tecnica) aveva il senso di “abilità nel fabbricare qualcosa”,2 nè più nè meno del suo omologo latino ars,3 che però ha dato luogo a “arte”, ma non a “tecnica” in senso stretto, salvo che nel linguaggio metaforico. All’origine, dunque, sia poietés che texnìtes (colui che esercita la texné) servivano ad indicare chi sa fabbricare qualcosa che non si ritrova allo stato naturale. Nel corso del tempo il termine poietés si specializzò fino a trasformarsi semplicemente in “poeta”: inventore e fabbro, sì, ma di parole. Ancora più significative l’evoluzione e le successive differenziazioni del termine texnìtes. All’originario “artigiano” si sarebbe sovrapposto e aggiunto il termine kallitèxnes, “artista”, letteralmente, “fabbricante del bello”, mentre l’erasitèxnes – letteralmente, “amante delle arti” – avrebbe imprevedibilmente finito per assumere un significato in fondo dispregiativo, e cioé, quello di “dilettante”, e quindi di colui che si dedica a qualche arte o argomento in maniera occasionale e saltuaria. I motivi di questa curiosa caduta di valore sono assai complessi e non possono essere certo affrontati in queste pagine. Una cosa però vale almeno la pena di annotare: essi non hanno presumibilmente nulla a che vedere con l’esigenza di una specifica abilità inerente la nozione originaria di arte. Semmai, suggeriscono una certa impazienza, una diffidenza nei confronti di ciò che appare come capriccio individuale e attitudine puramente ludica, non votati entrambi, quindi, a dei fini pratici e, soprattutto, non inseriti in un sistema gerarchico di competenze e verifiche. Fra l’altro, almeno nella percezione popolare, un’analoga diffidenza e una sorta di latente perplessità aleggiano anche sulla figura dell’artista in quanto tale, a cui, a torto o a ragione, vengono attributi idee e comportamenti eccentrici rispetto a quelli dell’uomo comune. Il risultato più paradossale dell’evoluzione del termine texné è comunque che l’originaria interscambiabilità di “costruito”e di “bello” (in quanto ben eseguito) ha finito per sfociare nell’attuale scissione fra arte e tecnologia, che ormai obbediscono a criteri ed esigenze dissimili, se non opposte. Anche se talvolta la preoccupazione della forma e dell’attrattività esterna sono comuni ad entrambe, vedi il caso del design di una vettura o di un mobile, è però anche chiaro che le componenti estetiche dell’opera d’arte sono in linea di principio ormai assenti da un prodotto tecnologico, mirato all’uso pratico.

Tutte le suddette stratificazioni semantiche rappresentano categorie essenziali alla comprensione della natura e del ruolo della letteratura e delle arti figurative. Entrambe a loro modo fabbricano delle rappresentazioni, ma queste oscillano fra concretezza e 2 Cfr. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire de mots. 2 voll. Paris (1968) 1984, II, p.1112.3 Cfr. A. Ernout- A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Paris (1965) 2001, pp.47-49.

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trasfigurazione simbolica, fra la libera invenzione e l’imitazione della realtà. Se la letteratura deve per sua natura affidarsi a dei segni, a cui è negato ogni concreto specchio fisico, le arti figurative sono al contrario il luogo privilegiato dell’immagine, essa sola lasciata a rappresentare il mondo, ancorché muta. Diversamente dal contiguo mondo islamico, dove la proibizione delle immagini agì come deterrente al fiorire o allo sviluppo delle arti figurative, tutta la cultura occidentale, fatte salve alcune meteoriche e periferiche resistenze - vedi l’iconoclastia bizantina - non ha mai cessato di elaborare entrambe queste modalità espressive. La straordinaria capacità di analisi e di modulazione ma anche l’inerente astrazione collegata alle parole, da una parte e, dall’altra, la maggiore rigidità ma anche capacità di sintesi delle immagini costituiscono solo alcune delle differenze formali esistenti fra letteratura e arti. Ve n’è un’altra non meno significativa. Per sua stessa natura, il linguaggio è costituito da flussi, non solo di suoni ma anche di nomi e concetti. La rappresentazione è dunque costruita tramite la loro articolazione, il loro dinamismo. Inoltre, l’azione può spesso svolgersi in tempi e luoghi diversi. Non così le arti figurative, dove linee, colori e prospettive sono coagulati e irrigiditi in un’immagine singola, statica e senza tempo. Anche quando essa implica il movimento, si tratta sempre di un’allusione. E’ infatti la fantasia dell’osservatore che deve poi proseguire e far avanzare i gesti o lo slancio di un corpo, animare le figure di una scena, immaginarne le premesse, gli esiti. L’artista è stato infatti costretto a isolare una situazione, un atteggiamento, uno sguardo fra gli innumerveoli che avrebbe potuto scegliere. In tal modo, mentre statue e dipinti rappresentano un momento, catturato in tutta la sua drammaticità, e insomma un tributo all’attimo fuggente, la rappresentazione letteraria, specie quella romanzesca, replica spesso proprio il fluire degli eventi e degli atti nelle loro articolazioni e nel loro divenire. Tutto ciò che in una pittura è rappreso e concentrato in una singola immagine, in un romanzo – più che in una poesia – si diffonde invece in mille rivoli, in una continua alternanza di protagonisti e di descrizioni fisiche, annotazioni psicologiche, pensieri e azioni. Tutto ciò sembrerebbe dover necessariamente condurre a due modi di rappresentare, a due linee, per così dire, che non s’incontrano mai. Come vedremo più avanti, questo è vero, ma solo in parte. Se infatti non ci si accosta alla letteratura e alle arti con un approccio solo estetico, che ne privilegi le diversità e gli aspetti formali, è facile mostrare come poi entrambe abbiano delle sorprendenti affinità e solidarietà d’intenti e, spesso, anche dei comuni fantasmi. Inoltre, se plasticità e concretezza sono alcune delle caratteristiche di fondo delle arti, ciò non significa che anche la letteratura, nei casi più felici, non sappia diventare a suo modo plastica, soprattutto quando concetti e idee prendono la forma di immagini e queste, a loro volta, di concetti. Tale capacità non sembra corrispondere a un’epoca ben precisa, visto che compare in

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scrittori radicalmente diversi fra loro come Pindaro e Li-Po, ma anche Hölderlin, E. Jünger e lo stesso D’Annunzio, le cui capacità descrittive sono state miopemente intese come mero estetismo. Ma ritorniamo ora a quei concetti sopra citati, che includono non a caso quello di “mito” e di texné. Le intime relazioni fra il primo e la nozione di poeta o il narrare in generale sono evidenti. Non a caso il romanzo antico greco e latino rappresenta uno stadio successivo, più disincantato e umanizzato rispetto al mondo dei miti, popolato di dèi ed eroi ma pur sempre un modo di raccontare. Col trascorrere del tempo, scomparvero gli dèi e rimasero gli eroi e le eroine, sopravvissuti fino ad oggi, sia pure con maschere diverse, nella moderna letteratura romanzesca. E se poi la poesia appare a prima vista più lirica, sognante ed introversa del mito o del romanzo, rimane il fatto che poeti come Omero, Dante ma anche Pound hanno saputo produrre affreschi ed epopee, dove non è minore la potenza dell’affabulazione e del raccontare. Ma “narrare” non presuppone di per sè una tradizione scritta, visto che, da Omero ai Veda o ai bardi celtici, e dall’antico Canone Buddista alle Sure del Corano, per non parlare delle lezioni vive di Platone, lo strumento originario non è il segno scritto ma la voce, il “dire” tramandato da discepolo in discepolo e da generazione in generazione. Raccontare non presuppone insomma necessariamente la scrittura, allo stesso modo in cui l’atmosfera fosca e di terrore di una tragedia può essere evocata anche senza una rappresentazione scenica, e cioè, tramite la semplice lettura, come notava a suo tempo Aristotele.4 Ogni trasposizione scenica di un dramma non aggiunge nulla al suo contenuto originario, semmai ne costituisce solo una delle possibili esemplificazioni visive. Ciò che in realtà viene aggiunto è, per via di un pubblico che assiste, l’elemento della coralità, della partecipazione collettiva. Ma proprio questo, come vedremo meglio più avanti, tradisce la ritualità latente di ogni rappresentazione teatrale. La diffusione di materiali di scrittura sempre più facili da fabbricare e poi l’introduzione della stampa hanno insomma solo permesso di trascrivere e annotare più facilmente il contenuto di una narrazione, ma non ne hanno alterato la sostanza volatile e incorporea, diretta alla mente piuttosto che all’occhio. Del resto, i collegamenti del linguaggio col mondo fisico, concreto e tangibile, si sono verosimilmente persi già in tempi remoti, man mano che aumentavano le esigenze di astrazione e di rappresentazione simbolica. Tracce di quell’antichissimo stadio sono tuttavia rimaste nelle scritture di certe lingue antiche, che originariamente esprimevano cose e concetti tramite ideogrammi che li rappresentavano fisicamente. Così, per esempio, nell’egiziano antico il segno di un bastone ricurvo serviva ad esprimere la nozione di “zappa” (mr) o tre linee ondulate e sovrapposte quella di “acqua”(nt), mentre nelle fasi più antiche dell’accadico era col 4 Cfr. Aristotele, Poetica, XIV, 1-10.

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segno della stella che veniva espressa la nozione di “cielo” o di “dio (an, ìl)”.5 Alla volatilità, dunque, e al tessuto per definizione invisibile delle parole, strumento tanto del mito che dell’affabulazione romanzesca e poetica e che possono fare a meno anche del segno scritto, corrisponde in pittura e scultura la prepotente concretezza fisica dell’immagine, delle linee, dei colori e degli stessi materiali. Le arti, e in particolare scultura e pittura, sono infatti materiche per eccellenza: marmo, pietra, metalli, tela, pigmenti, olii e collanti ne sono gli strumenti di base. Quale differenza rispetto allo scrittore e al poeta, che, anche nei casi più complessi, lavorano la massimo con labili figure retoriche, nuovamente invisibili e impalpabili! Se in entrambi i casi il risultato è ottenuto tramite una specifica abilità costruttiva, è però anche vero che solo nel primo si ha una reale aderenza ai sensi. A tali dissimili strumenti espressivi corrispondono limiti e opportunità, quasi drammaticamente e fatalmente inversi. Mentre romanziere e poeta sono condannati ad evocare perennemente sul filo della memoria, per così dire, a occhi chiusi, è l’occhio che invece governa e agisce in pittura e scultura. La percezione passa attraverso i volumi e le forme, imitazioni riconoscibili di qualcosa che esiste in natura o che comunque, anche quando è trasfigurazione e fantasia, continua ad avere un rapporto con essa. Tutta l’arte antica, ma anche quella moderna fino ad almeno la prima parte del XIX secolo sono state guidate da questa tendenza mimetica. Le forme del mondo naturale percepito dai sensi costituivano in ogni caso il modello o il termine di riferimento di uomini, animali e piante, ma anche di santi e dèi. Tuttavia, a partire all’incirca dalla seconda metà del XIX secolo quella sorta di ancestrale cordone ombelicale iniziò a lacerarsi, in modo tale che le arti figurative si sono progressivamente allontanate non solo dai canoni classici della rappresentazione ma proprio anche dal realismo. Nulla è rimasto infatti del mondo naturale o del corpo umano, così come appare ai sensi, in tante opere di Kandinsky, Braque o lo stesso Dalì o Picasso, per non parlare di Mondrian o di Klee. La stessa arte bizantina o quella medioevale, così imbevute di misticismo e di sete di trascendenza, rimanevano pur sempre infinitamente più ancorate all’evidenza del mondo sensibile e della realtà quotidiana. Molta arte moderna, al contrario, pare animata da un irresistibile impulso a ricercare nuove modalità espressive, curiosamente vicine all’essenzialità di certa arte primitiva (e anche di quella preistorica), oppure ad esplorare altre dimensioni, costruite non più con volumi, prospettive e forme familiari alla coscienza, ma quasi estratte dai livelli più magmatici e inquietanti dell’inconscio. Così, la de-composizione delle forme può raggiungere le modalità estreme della geometrizzazione, della

5 Cfr. G. Conti, Rapporti fra egiziano e semitico nel lessco egiziano dell’agricoltura. Firenze, 1978, pp.53-57 e passim; R. O. Faulkner, A concise dictionary of Middle Egyptian, Oxford, 1976, p.125; P. Naster, Chrestomathie accadienne, Lovanio, 1941, p, 3.

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scansione in piani e volumi anonimi o addirittura in semplici punti, mentre il collage arriva fino al ripudio del fabbricare ex-novo, sostituendolo con una deriva caotica e sconnessa di immagini, lettere e simboli spesso presi in prestito dagli scarti e residui della vita quotidiana. A sua volta, anche il maggiore realismo nel nudo sembra spesso tradursi nella rappresentazione solo di ciò che è deforme o laido, contrariamente all’arte classica o anche rinascimentale, dove invece la rappresentazione del corpo umano era ispirata a degli ideali di bellezza e di proporzioni auree. Anche qui non si tratta solo dell’abbandono dei modelli classici: il mutamento è ben più profondo e radicale. Per millenni l’elemento essenziale e comune alla rappresentazione delle immagini di tante civiltà era la compattezza dei volumi, l’orrore del vuoto, la definizione dei contorni. Per rendersene conto, basterebbe solo citare il busto del faraone Zoser o quello di Nefertiti nell’arte egiziana, i rilievi assiri o anche quelli ittiti e licio-frigi, l’elegante continuità e nitidezza degli affreschi minoici, la sinuosa armonia della statuaria greca o la costante preoccupazione per l’articolazione dei dettagli nella pittura occidentale fino ad almeno la metà de XIX secolo. Nulla di più lontaneo ed estraneo a tanta arte moderna, ossessionata dalla disarticolazione delle immagini, ormai incurante o incredula nei confronti del dettaglio e insomma alla ricerca di una nuova essenzialità. Paradossalmente, tale estraniamento dalla forma chiusa e definita, la vaghezza dei contorni e lo scarso o nullo realismo riavvicinano questo tipo di arte alla tendenziale astrazione della parola senza però raggiungerne le complesse capacità di definizione. La ricerca di una nuova essenzialità sembrerebbe inoltre avvicinare l’arte moderna a quella dell’arte primitiva o anche preistorica, ma anche qui le differenze sono notevoli. Per rendersene conto, basterebbe prendere in esame la scultura delle Cicladi. E’ vero che anche in quest’ultima le figure sono ricondotte ai loro minimi termini geometrici ed è inoltre indiscutibile l’indifferenza verso il dettaglio, solo che tutto ciò non era dettato dall’insofferenza verso precedenti e ingombranti modelli. L’arte classica, con i suoi canoni, con i suoi irraggiamenti psicologici, con le sue preoccupazioni estetiche è infatti ancora di là da venire. L’artista delle Cicladi, così come quello delle tante Dee Madri balcaniche, più che da preoccupazioni estetiche è ancora sollecitato da curiosità primordiali: il mistero della identità maschile e femminile e della fertilità o, come nei bronzetti nuragici, l’autorità del capo, la figura del guerriero. Attribuire quindi la semplicità di linee relativa a tale essenzialità di interessi a una mera rozzezza espressiva o a un’insufficienza tecnica equivarrebbe a sottovalutarne un elemento di gran lunga più profondo e determinante. In realtà, quella semplicità, la scarsa o nulla complicazione psicologica dell’arte primitiva e preistorica sono il risultato di una freschezza mentale, di una “naturalezza” ormai inconcepibili all’uomo moderno, la cui

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sensibilità e percezioni sono oberate da un millenario stratificarsi di enti e categorie. Da un certo punto di vista, infatti, oltre che a un progressivo agguerrimento tecnologico, l’evoluzione della civiltà corrisponde a un’inarrestabile complicazione e ragnatela di relazioni simboliche che crescono su sé stesse in maniera pressoché esponenziale. Non è un caso se le rivoluzioni stilistiche, sia in arte che in letteratura, hanno sempre corrisposto a un rigetto, a una stanchezza nei confronti delle ipoteche formali del passato, alla ricerca di una nuova verginità espressiva. Così, anche nel caso dell’arte moderna la tendenza verso l’essenzialità sembra corrispondere a un atto di ribellione, a un’insofferenza nei confronti del “mondo-come-è-diventato”, a una confusa ricerca di nuove forme, che spesso inevitabilmente si traducono in “non-forme”. Ma su questo ritorneremo più avanti.

Se la recente evoluzione delle arti figurative sembra dunque sfociare in imprevedibili convergenze con la letteratura – l’immagine che tende all’astrazione o comunque non sembra più basarsi sull’imitazione del mondo fisico - noi ci rendiamo però conto che queste ultime agivano già da lungo tempo, sia a livello di temi che di contenuti. L’arte religiosa, non solo occidentale, è infatti talmente impregnata di miti da essere spesso una replica e variante visiva di questi ultimi. Le vicende divine narrate sulle pareti delle piramidi e nel Libro dei morti egiziani ricompaiono sotto forma di immagini in rappresentazioni analoghe, allo stesso modo in cui praticamente ogni episodio biblico o dei vangeli ricompare negli affreschi e nei dipinti dell’arte bizantina e di quella europea, giusto per limitarci all’arte e alla letteratura occidentali, anche se lo stesso potrebbe dirsi per le letterature e per le arti del vicino e dell’estremo oriente. Ma le arti figurative replicano i percorsi della letteratura o comunque le sue stesse fasi anche quando il contenuto della rappresentazione-narrazione non è più di ispirazione religiosa. Il fascino dell’oriente, per esempio, tipico della letteratura europea della seconda metà del XIX secolo – basti pensare a Salambò – riappare immutato nei soggetti esotici di tanta pittura coeva. Lo stesso Fromentin, autore dell’intimistico Dominique, si dedica con non minore impegno e successo a dipingere scene e personaggi nord-africani. Ancora, il personaggio della donna fatale, dalla She di R. Haggard all’Antinea di Pierre Benoit, non manca di ossessionare pittori come Gustave Moreau, giusto per fare solo un esempio. Il personaggio non è del resto una creazione degli scrittori e artisti del XIX e XX secolo. Per quanto non riconoscibile a prima vista, esso è stato quasi regolarmente presente nell’iconografia di Adamo ed Eva, dal Medio Evo fino ai nostri giorni, sotto le spoglie mistificanti del serpente che induce Eva a cogliere il frutto proibito dall’albero del bene e del male. Nonostante le forme serpentine, il volto femminile ne tradisce la vera identità: si tratta di una donna, fra l’altro, con i capelli immancabilmente rossicci. Il suo nome (non scritto) è Lilith... Già i testi Babilonesi la conoscono come demone femminile che

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seduce e tormenta la fantasia maschile. Da lì appare irresistibilmente migrare: prima nella Bibbia, poi nei testi egiziani di Nag Hammadi e, successivamente, nei cabalisti spagnoli, che la considerano la “prima” Eva. Ma il personaggio non sembra conoscere frontiere, perché lo ritroviamo anche negli affreschi di tante chiese scandinave medioevali, nelle Fiandre dei fratelli Limbourg (Les tres riches heures del duca di Berry), in Masolino da Panicale, Michelangelo e Filippino Lippi, ma poi anche in Blake, John Collier (Lilith, 1892) e Kenyon Cox. Dietro il plurimillenario velo teologico che ha sempre mistificato tale figura, non è difficile scorgere le spoglie mascherate di un’antichissimo conflitto: il serpente, alias la prima Eva, evoca l’ansia maschile nei confronti del potere di seduzione della donna, potere tanto grande da renderne sempre incerta l’obbedienza nei confronti dell’uomo.6 Analoga osmosi fra arti e letteratura appare del resto anche di fronte al tema così pervasivo e totalizzante della passione erotica. Se da sempre quest’ultima ha affascinato l’immaginario dell’occidente, è sorprendente notare come la mancanza quasi regolare di realismo sessuale nella Grande Letteratura e nelle opere dei Maestri della pittura sia praticamente identica. Nessuna grande opera letteraria e nessuna grande pittura, antiche o moderne, hanno mai osato rappresentare il sesso in fieri, oltrepassando quindi le soglie dell’erotismo latente. Lo stesso L’origine du monde (1866) di Courbet, che, come noto, rappresenta una vagina leggermente dischiusa, non costituisce a questo proposito un’eccezione: anch’egli si guarda bene da umanizzare i genitali femminili, restituendo loro la totalità del corpo. Il suo, non è un nudo, ma solo una sezione anatomica. Contrariamente all’erotismo così concreto e spontaneo di tanta scultura indiana classica o a quello non meno esplicito dello shunga - le incisioni erotiche su legno giapponesi - del periodo di Edo (1600-1868) di artisti come Utamaro o Hokusai, l’arte occidentale dei Maestri ha sempre mostrato reticenza e disagio nei confronti del realismo erotico, dell’umanizzazione (ma quindi anche della legittimazione) dell’erotismo. Salvo rarissime eccezioni, il tema non fu mai considerato degno di espressione artistica, con la conseguenza che ad esso si dedicarono di solito artisti minori, più intenti a sollecitare curiosità morbose di collezionisti e nobili che non a rappresentare ed esplorare in profondità la dimensione propriamente erotica della passione. I motivi di tale ritrosia non hanno ovviamente nulla a che vedere con un’ipotetica mancanza di capacità espressive e di dettaglio – a dimostrarlo, basterebbe citare la pittura fiamminga o il realismo, ai limiti della pedanteria, di scrittori come Flaubert e Zola – ma hanno in parte a che fare con le ipoteche del Cristianesimo, che peraltro inasprì e consolidò istanze già esistenti in Platone e, prima di costui, nel misticismo degli Orfici. Ma anche questi fattori non sono 6 Sulla figura di Lilith e della prima Eva, vedi, per esempio: S. Hurwitz, The first Eve. Historical and psychological aspects of the dark feminine. Einsiedeln, 1999; The Nag Hammadi Scriptures (ed. by M. Meyer), New York, 2007, pp. 197, 214-215 e passim.

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sufficienti a spiegare l’angoscia nei confronti del sesso, che molte culture hanno sempre mostrato, anche là dove quest’ultimo era venerato e rappresentato, come abbiamo appena finito di sottolineare. In realtà, i motivi reconditi di tale ritrosia, semplicemente più accentuata e isterica nell’arte occidentale, vanno probabilmente cercati in livelli ancora più oscuri, e cioé in un ancestrale complesso psichico, che pare accomunare sesso e morte, come Freud e Ferenczi hanno suggerito in alcune delle loro opere più seminali e provocatorie.7 Non è poi un caso se, tanto in letteratura che nelle arti, la figura dell’eroe, nelle sue valenze più vicine all’originario senso del termine – semi-dio8 – sia praticamente scomparsa per cedere il posto a protagonisti meno gloriosi, più umili e spesso anche così intimamemente deboli e tormentati. L’eroe o il santo trionfante, circonfusi ora di sanguigna vitalità e ora di spirituale bellezza – da Siegfried e al Balder delle saghe nordiche e alle tante rappresentazioni di San Giorgio che uccide il drago o a quelle di San Sebastiano, che rimane apollineo nonostante il suo corpo sia trafitto dalle frecce – da tempo trovano scarse repliche nell’immaginario artistico. Sono i vinti, gli orridi, le figure grottesche ad affascinare pittori come Toulouse-Lautrec o Grosz, giusto per fare alcuni esempi. Nonostante la sua eclisse in letteratura e nelle arti figurative, la figura dell’eroe, nelle sue aureole più o meno mistiche, è tuttavia ricomparsa, sotto le fattispecie del patriota, nei movimenti nazionalistici del XIX secolo e, più recentemente - in questo caso, con maggiore aderenza all’antica nozione di semi-dio e di essere superiore - nei feuilletons ma anche nei fumetti e nei films di avventura, che costituiscono anch’essi il sintomo di un’esigenza mai tramontata a livello collettivo. La più cinica e disincantata evoluzione dell’Arte propriamente detta trova insomma i suoi limiti nella mentalità popolare, più disposta a sognare e bisognosa di ottimistiche proiezioni. Ma l’intima solidarietà di atteggiamenti e di sensibilità che lega arti figurative e letteratura fa sì che anche i rispettivi travagli espressivi e il ripudio dei canoni tradizionali siano poi a loro volta nuovamente vissuti in modo analogo e con impressionanti punti di contatto. La frammentazione del personaggio in una serie di flussi interiori – in scrittori come Svevo o Joyce – o il verso libero in poesia sono infatti del tutto speculari al venir meno dei contorni certi nel tratteggio del corpo umano e alla dissoluzione delle prospettive in pittura e nella scultura. La rima e il metro non sono del resto solo degli accorgimenti escogitati al fine di rendere più suadente un’immagine poetica. Essi sono prima di tutto - o erano - un modo per differenziare il linguaggio poetico da quello della prosa. Esiste dunque un’intima relazione fra la musica e la poesia tradizionale costruita in base a rigidi criteri metrici: il ritmo. Non è a questo

7 S. Freud, Al di là del principio del piacere, Milano, 2003. S. Ferenczi, Thalatta. Psicolanalisi delle origini della vita sessuale, Roma, 1965.8 Cfr. Chantraine, Op. cit. I, p. 417.

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punto un caso che così spesso anche molta musica moderna non sia più a sua volta caratterizzata da architetture ben definite o da temi sviluppati secondo rigorosi criteri melodico-tonali al modo di un Johan Sebastian Bach. Anche in questo tipo di musica – basta pensare a compositori come Berg, Henze o Ligeti – prevalgono incerte derive sonore, la disarticolazione della frase musicale alla ricerca di vibrazioni originarie. E’ perduto e scomparso, in questa sonorità erratica, il filo d’Arianna del tema. Tutto ciò spiega probabilmente il fascino esercitato dalla musica polifonica e rinascimentale in tanti musicisti moderni, da Vaughan Williams a Respighi, a Casella e allo stesso Pärt. Ritornando ora al nostro argomento specifico, la destrutturazione del romanzo, il verso libero, l’abbandono della forma chiusa e definita in pittura e scultura, incluso l’abbandono della tonalità in musica, non sono insomma delle semplici coincidenze, ma tutti fenomeni intimamente apparentati da una comune radice: una profonda crisi nei confronti della rappresentazione del mondo o perlomeno circa la possibilita che quest’ultimo possa o debba corrispondere a un qualcosa di attingibile e definito e, perciò, anche rappresentabile e catturabile nella sua interezza. E’ chiaro a questo punto quanto tale evoluzione sia per molti versi simile ma anche opposta a quella della moderna tecnologia. Anche quest’ultima ha cessato da lungo tempo di imitare e completare l’oggetto naturale – per esempio, lo strumento di offesa è ormai il priettile detonante, anziché l’antico bastone-mazza – solo che la sua tendenza alla manipolazione della natura e la fiducia nella possibilità di replicare puntigliosamente oggetti e funzioni la rendono diametralmente opposta alla sua antica compagna di latte - l’arte nelle sue varianti espressivo-formali – che, al contrario, mostra sfiducia nei confronti della forma definita, nella possibilità di catturare e replicare una realtà certa e non volatile.

Se la scomparsa degli aèdi e dei bardi è stata sostituita dal libro scritto e, in tempi moderni, da una vera e propria marea cartacea che sembra rappresentare la prova irrefutabile del diffondersi del gusto letterario e del suo superamento della cultura di corte, nel caso delle arti figurative la presunta democratizzazione di tale processo mostra più facilmente la sua fragilità. Nonostante le riproduzioni stampate, l’opera d’arte originale, quella sola che in fondo trasmette tutta la magia e il mistero di linee, colori e prospettive, rimane un possesso elitario, anche se non necessariamente fruito. E qui non deve ingannare la pletorica disponibilità di musei ed esposizioni. La distanza fra la frettolosa visita a un museo o a un’esposizione e la sotterranea assimilazione visiva delle pale di un altare, degli affreschi di un Maestro in una chiesa ma anche delle sculture di un tempio indù, quando la partecipazione al culto era un atto frequente o anche quotidiano, non potrebbe essere più abissale. Salvo pretendere di poter intendere e digerire nello spazio di pochi minuti ciò che un artista ha

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spesso portato a termine dopo mesi o anni di duro lavoro, è chiaro che la comprensione, il non epidermico assorbimento di un’opera d’arte o perlomeno la sua familiarità richiedono osservazioni non saltuarie e occasionali ma al contrario ripetute e ben sedimentate. In mancanza di tali presupposti, ogni altra fruizione è irrevocabilemente condannata a delle meteoriche sensazioni e costituisce anch’essa una modalità di consumo, ancorché ammantata di estetismo. Paradossalmente, una delle conseguenze della desacralizzazione della società è stata anche quella di far decadere, che piaccia o meno, una delle fonti di maggiore ispirazione nella storia dell’arte occidentale. Quest’ultima sarebbe impensabile senza la seminale presenza di Giotto, Bosch, Dürer, Michelangelo o El Greco, solo per fare alcuni esempi. Ma la loro opera sarebbe a sua volta impensabile senza lo stimolo dell’ispirazione religiosa che ne sta alla base. E tale opera, anch’essa in genere arte di corte, compresa quella dei Papi, proprio per la sua destinazione liturgica, era tendenzialmente ben più popolare di quanto non lo sia l’arte moderna, potendo essere quotidianamente fruita dal più ricco al più umile. Il retaggio aulico delle arti figurative non è dunque scomparso, ma si è solo occultato in virtù del conclamato mito della diffusione della cultura, che mistifica come fruizione estesa ciò che in fondo rappresenta un ulteriore esempio di consumo, lasciando tuttavia invariata la dimensione aristocratica del possesso. Nell’inarrestabile processo di mercificazione di cui soffre la civiltà capitalistica, che ha trasformato anche le competizioni fisiche in opportunità di lucro, era quasi inevitabile che anche le arti, letteratura compresa, non si sottraessero a tale tendenza. Ed ecco così la riproduzione e diffusione cartacea di tante opere, prima geloso possesso solo di pochi privilegiati, che alimentano l’illusione della fruizione estesa della pittura e della scultura. Qui non è il caso di sviluppare l’argomento, ma è chiaro che esiste una perfetta analogia fra tale illusione e quella relativa alla diffusione della “cultura”in generale. In realtà, cò che si diffonde e arriva teoricamente fino al largo pubblico è spesso solo la versione rimasticata e edulcorata di un sapere omologato e depurato dei suoi germi più inquietanti. Sono del resto i cosiddetti “classici” ad essere stampati e ristampati in edizioni economiche, ma non tutti, e non certo gli autori meno noti. Questi ultimi, le nuove ricerche, le idee eterodosse, le pubblicazioni più dotte continuano in genere a rimanere fuori dai circuiti popolari, se non altro per banali motivi di costi. Insomma, tanto la diffusione della riproduzione cartacea dell’opera d’arte quanto quella della letteratura corrispondono a una modalità spesso impoverita dei loro potenziali e dei loro pieni contenuti. Ma se l’opera d’arte originale, in quanto prodotto unico e tendenzialmente prezioso, appare più che mai come un emblema e simbolo di potere e ricchezza sarebbe tuttavia falso pensare che ciò sia un fenomeno tipico solo della civiltà moderna. Si tratta infatti di un atteggiamento assai più antico: da millenni la “bella” statua,

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mosaico, dipinto, affresco, quelli cioé in cui si fondono armonia, grazia e carica simbolica, sono sempre stati un indissociabile complemento della ricchezza e del potere. Che ciò valga anche per culture che non hanno prodotto una civiltà urbana, lo dimostra la preziosità e superba fattura di tanti gioielli celtici oppure sciti. In altre parole, proprio a causa della sua bellezza estetica o nonostante essa, ben più che la parola e l’idea, l’oggetto artistico si è sempre trovato in bilico fra l’esasperazione del mondo sensibile e il suo superamento simbolico, fra la ricerca della forma e un ruolo latente di feticcio.

2. Arti e letteratura attraversano dunque analoghe crisi formali ed espressive, e in più tradiscono solidarietà di temi e motivi. Tutto ciò rimanda a un comune e più profondo livello, costituito dalla loro funzione, per molti versi poco appariscente. Uno dei vezzi del filtro idealistico di cui è imbevuta la cultura occidentale è quello di attribuire a queste due forme creative una sorta di immanente nobiltà, di considerarle cioé come un’ulteriore dimostrazione del superiore livello spirituale ed intellettuale dell’uomo rispetto agli altri organismi. A questa ottimistica prospettiva ne va comunque aggiunta un’altra, più realistica ma non meno significativa. Chi osservi le pitture rupestri del Sahara o quelle europee del Paleolitico, non potrà non notare la regolare presenza del mondo animale. Quando ancora lo spirito benigno del grano non era stato asservito e addomesticato dalle comunità primitive, gli animali erano ad un tempo i supremi avversari ma anche i datori di vita di queste ultime. Rappresentarli con abilità tale da quasi ricrearne la presenza sui massi svettanti nelle antiche praterie del nord Africa o sulle pareti umide e buie di caverne dai cunicoli tortuosi dei Pirenei costituiva un atto propiziatorio, anticipazione e preparazione del loro dominio. Allo stesso modo, quando Omero rievoca il mondo solo in parte favoloso della società micenea, o gli Indiani e i Cinesi quello non meno favoloso del Mahabaratha e dei primi Imperatori leggendari, l’affabulazione è sempre alla ricerca di un illo tempore di fondazione, quello da cui tutto ha avuto origine e perciò anche modello ed esempio per le generazioni presenti e future. Del resto, cosa sono ogni verso, ogni racconto, ogni pittura efficacemente fabbricati se non appunto rappresentazioni esemplari di stati d’animo e travagli psichici o di personaggi e situazioni? Esse additano ciò che l’uomo comune può anch’egli percepire, intuire, desiderare o soffrire, ma senza poterlo esprimere o rappresentare, perché egli non è esperto nell’arte del dire e del fare. “Artistico” è allora ciò che riesce a fissare in parole o immagini un momento o una possibilità della realtà in modo tale da renderli validi e rappresentativi, ma non meramente in senso estetico. Rappresentativo è prima di tutto ciò che incorpora aspirazioni ed esperienze collettive o che riesce ad oggettivare una modalità

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dell’essere potenzialmente condivisibile, nel male e nel bene. Esemplari sono allora tanto le due figure reclinate del sarcofago degli sposi di Cerveteri, la Fornarina di Raffaello o il ritratto di Battista Sforza di Piero della Francesca quanto Madame Bovary di Flaubert, Don Chisciotte di Cervantes o Oblòmov di Gonciarov. Ciò che così diventa esemplare, ciò che assurge a tipo, nel senso in cui lo sono diventati l’Otello di Shakespeare, il Faust di Goethe o le innumerevoli rappresentazioni del volto del Cristo, sofferente o nella trasfigurazione della resurrezione, funge in realtà da specchio, esempio, garanzia e modello. Surretiziamente, allora, per quanto non in termini altrettanto vistosi, aèdi, bardi e insomma scrittori e poeti hanno avuto e continuano ad avere un ruolo in fondo non dissimile da quello degli sciamani di antica memoria o del sacerdote. Mito e romanzo sono solo forme diverse di un’identica ricerca di fondazione del mondo. Essi sono la perenne replica di tale ricerca, sia che essi descrivano dei riti di passaggio, la formazione del carattere di un individuo, una patetica storia d’amore, una favola felice oppure anche un’utopia, un mondo distorto o una catastrofe. Anche quando essi non celebrano l’ubi consistam, anche quando sono al contrario proiezione e spesso tormentata alternativa della realtà, alla loro base esiste però l’analoga necessità di un ordine superiore. Da tempi immemorabili la civiltà ha percepito il presente e la realtà stessa come un dato da abbellire, completare, se non addirittura da correggere e modificare. Ciò spiega il perché il mito dell’età dell’oro o il suo degenerare siano presenti pressoché sotto tutte le latitudini. Non a caso la Bibbia inizia con un’utopia - il paradiso dell’Eden – ma evoca anche un degenerare della Storia, che ha come suo ineluttabile complemento il Diluvio Universale. Lo spettro della fine del tempo e il compimento escatologico della Storia riaffiorano del resto immutati, e con ben maggiore plasticità, in certe opere di H. Bosch o nel Giudizio Universale di Michelangelo. Questa tendenza alla celebrazione dell’ubi consistam, al costante rinforzo dei modelli, è del resto alla base di tutta l’arte religiosa, occidentale e non. Assieme alla Bibbia e ai Vangeli, è stata soprattutto la moltitudine di quadri, sculture e affreschi sui Profeti, sulla vita di Cristo, sugli apostoli e sui martiri ad alimentare e consolidare la presenza del Cristianesimo nella civiltà occidentale. L’attuale identità e la stessa resistenza al tempo di quest’ultimo sarebbero ben diverse in mancanza di tale continuo nutrimento e rinforzo psicologico. E’ stata insomma l’arte, e non i prolissi e farraginosi trattati dei Padri della Chiesa, le summe di teologia o le stesse encicliche dei Papi a mantenere fresco e vivo il messaggio evangelico nella memoria visiva e nella vita quotidiana di innumerevoli generazioni, a cui rimasero con tutta probabilità ignoti tanto un Gregorio di Nissa e un Giovanni Crisostomo che un san Tommaso. Sono state, cioé, le innumerevoli rappresentazioni pittoriche dell’ultima cena ad imprimere con ben maggiore efficacia nella coscienza collettiva la celebrazione esemplare del rito dell’eucarestia, evocandone perennemente il momento di

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fondazione. Lo stesso accade con tutte le raffigurazioni della tentazione di Adamo ed Eva, dell’Annunciazione della Vergine o della crocefissione e resurrezione di Gesù. Per quasi due millenni, se si tiene conto dell’arte bizantina, questi episodi sono stati perennemente rappresentati, diventando immagini e compagni del vivere quotidiano della civiltà occidentale, soprattutto urbana. Così, nonostante le componenti stilistiche di tali rappresentazioni, che variano di epoca in epoca, non vadano trascurate, di gran lunga più significativa ne rimane la funzione sottostante, e cioè la continua riesumazione visiva, la riattualizzazione di ciò che si crede sia avvenuto in illo tempore.9

Anche se di tardiva applicazione rispetto alla narrazione evangelica, è stata così l’arte a fare da costante rinforzo e suadente coagulo alla liturgia, diventando un elemento essenziale della sua ritualità. Azione analoga, ancorché sotterranea e mistificata come ingenua affabulazione, ha esercitato la letteratura, soprattutto quando ha rievocato certi temi ancestrali. L’amore che nega, per esempio, l’inesorabile destino tragico che pare sempre riservato a tutte le passioni troppo intense e sfrenate, questi non sono capricci letterari o innocenti esercizi di scuola. Se in genere le grandi storie di amore finiscono male – vedi, per esempio, Antonio e Cleopatra di Shakespeare, Le affinità elettive di Goethe o la Anna Karènina di Tolstoi - non è insomma per un gusto del pittoresco. Al contrario, tali storie sono la perenne riattualizzazione di un conflitto fra le pulsioni più ribelli dell’animo umano e le esigenze del gruppo di controllarle e mitigarle. Il destino tragico delle passioni letterarie corrisponde in realtà a delle punizioni, della cui rappresentazione ed evocazione, consapevolmente o meno, lo scrittore si fa carico. Che poi tali punizioni siano ineffabilmente ammantate di destino o, come nel caso esemplare delle Affinità elettive, mistificate come rinunzia e sublime sacrificio, ciò fa parte del gioco degli specchi con cui la società occulta così spesso la violenza insita nei suoi modi di auto-preservarsi. Al di là e ben più in profondità della loro atmosfera apparentemente fantastica, tali storie costituiscono in realtà un preciso e costante rinforzo di modelli preventivi. L’analogia di funzione del poeta e dell’artista, il loro ruolo di collaboranti, se non addirittura di officianti in un rituale propiziatorio, di fondazione o anche normativo che viene perennemente replicato, trovano del resto conferme che ne escludono eventuali influenze di stampo romantico. Che l’uomo sia un essere dotato di straordinarie capacità mimetiche è infatti fuori di dubbio, così come è fuori di dubbio che, replicando un ancestrale processo biologico, l’aggregazione di più individui, e quindi il gruppo, sia la forma tradizionalmente più onorata di esistenza umana. Fatti salvi certi requisiti, quest’ultimo delega poi di fatto la rappresentazione del proprio ubi consistam, ma involontariamente

9 E’ quasi superfluo menzionare quanto questa prospettiva sia debitrice alle varie opere di M. Eliade, e in particolare a: Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et repétition, Paris 1949.

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anche dei propri fantasmi, a figure che per vocazione o per speciali abilità sono più in grado di assolvere questo compito. Se allo sciamano e al sacerdote è stato da tempo immemorabile affidato il compito di consacrare ritualmente certi importanti atti sociali o di lenire l’angoscia della morte, nonostante apparenze contrarie, lo scrittore e il poeta si sono ritrovati ad agire non solo come laudatores temporis acti ma anche come specchio e cassa di risonannza dei tabù e delle pulsioni latenti della società. Queste analogie di ruolo vanno notate e sottolineate. Così, per esempio, Virgilio celebra e legittima un regime e un’epoca; gli artisti del Partenone consacrano per il mondo pan-ellenico gli ideali estetico-religiosi di cui esso era imbevuto; Dante sferza ma in fondo anche esalta e irrigidisce un intero sistema culturale e teologico; l’arte bizantina e buona parte di quella europea dal XII ad almeno il XVIII secolo contribuiscono al perpetuarsi dei modelli biblico-evangelici dell’Europa cristiana, mentre gli scrittori e i poeti romantici esprimono e stimolano il progressivo rifiuto delle certezze illuministiche nella ragione e il sempre più imperioso abbandono a un vago misticismo naturale, preparando in tal modo anche l’avvento dell’individualismo ad oltranza, che è uno dei segni caratteristici della moderna civiltà occidentale. La rassegna potrebbe continuare ed essere ampliata ma, come si vede dagli esempi precedenti, la consacrazione del tempo e la riattualizzazione delle origini, il rinforzo dei modelli preventivi non sono l’unica funzione dello scrittore o dell’artista. Al lato opposto, infatti, sembrano da sempre esistere altre modalità che, più che celebrare, rassicurare ed esaltare, al contrario denunciano, rompono gli schemi, tendono a sovvertirli. Tali modalità sono premonizioni o sintomi di malesseri, di trapassi, di gestazioni di cambiamenti nella visione del mondo. Così, dietro etichette spesso pittoresche, come per esempio, “decadentismo”, “surrealismo”, “futurismo”, “dadaismo”, etc., si stagliano delle vere e proprie rotture di livello. Se l’atteggiamento mentale dietro tali etichette non corrisponde a una fiducia nella possibilità di rappresentare-fondare il mondo tramite i modelli classici, anch’esse però testimoniano di un’analoga preoccupazione circa il “come-è” e il “come-appare” il mondo. Se ora ritorniamo a quanto dicevamo in precedenza, e cioè, alla funzione recondita della letteratura e delle arti, apparà chiaro come esse costituiscano lo specchio sublimato e simbolico delle pulsioni più riposte della società. Variano gli strumenti espressivi, ma la loro intima solidarietà fa sì che le rispettive motivazioni e preoccupazioni siano simili. La caratteristica di arti e letteratura ma anche il loro potenziale pericolo per ogni autorità costituita -cosa che spiega il perché quest’ultima abbia regolarmente operato per addomesticare entrambe o addirittura tacitarle - risiede insomma nel fatto che entrambe sono imprevedibilmente ambivalenti. Possono cioé esaltare e consacrare, ma anche anticipare, esprimere angosce collettive, ammonire, denunciare e sovvertire. Ed ecco così Jules

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Verne anticipare genialmente tante evoluzioni tecnologiche o Th. Mann trasfigurare nel Doktor Faustus il destino tragico e demoniaco della Germania nazista. Non meno intensa premonizione e denuncia compaiono in una serie di scrittori dove la pestilenza finisce per simbolizzare l’angoscia per il futuro o l’incomprensibilità del male e del dolore: si pensi solo agli analoghi romanzi di Jack London, Mary Shelley o magari M. Ph. Shiel, senza tralasciare Manzoni o Camus. E come poi dimenticare Noi di Zamjatin, A brave new world di Huxley o 1984 di Orwell, dove viene lucidamente presagito l’avvento di quelle che E. Jünger definiva “potenze livellatrici”? Analoghe angosce e premonizioni sono state del resto espresse anche dalle arti figurative. La rottura della figura umana, la sua distorsione, la perdita della prospettiva, l’abbandono del modello classico del “bel corpo”, tipici di tanta arte moderna, sono il contraltare simbolico di quanto è avvenuto ad altri livelli, sia a livello sociale che scientifico. Così, non poteva esserci più “natura” nelle pitture dei futuristi, non solo perchè la civiltà moderna si era ormai invaghita delle macchine, ma anche perché essa è sempre più una civiltà urbana. La natura, in quanto paesaggio e dimensione non artificiale, è stata paradossalmente riscoperta dall’industria turistica, ma non dalla letteratura e dalle arti, a parte alcune eccezioni tipo Wiechert, mentre le riscoperte di Gauguin e Van Gogh, così affascinati dal richiamo della natura e del primitvo, sono in fondo una rondine che non fa primavera. Vi sono del resto ulteriori fattori non meno profondi che, se non hanno direttamente contribuito a far sentire i loro effetti nella dissoluzione del personaggio o nella de-composizione delle forme in letteratura e pittura, suggeriscono tuttavia un’affinità di prospettive anche in ateliers meno artistici quali i laboratori di fisica, anzi, uno scenario ancora più vasto e pervasivo. La quasi infinita divisibilità e scomposizione della materia in particelle sempre più piccole, al punto da non essere ormai più materia ma energia, l’emergere di geometrie alternative e di tensioni nascoste oltre la rassicurante (perché apparentemente controllabile) superficie euclidea dei corpi, la prepotenza con cui si impongono ritmi vorticosi di vita e abitudini sono elementi del tutto speculari a quelle che altrimenti apparirebbero come solitarie bizarrie figurative e capricciose distorsioni. In realtà, una solidarietà di fondo accomuna tali elementi all’abbandono pittorico della staticità o a quello dei volumi compatti, che si traducono nel crescente vorticismo e nell’ossessiva dissezione di tanta pittura moderna.

3. L’indissolubile solidarietà fra arti e spirito del tempo non elimina ovviamente la nostalgia di modelli che sembrano scontrarsi con quest’ultimo in quanto versione degradata di un illo tempore, anzi, in molti casi sembra solo acuirla. Eppure, sia che arti e letteratura esprimano l’auto-celebrazione di una cultura o la ricerca di un ubi

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consistam alternativo, nel corso dei millenni un’ulteriore patina sembra essersi sovrappposta a quella che rimane in fondo la loro funzione più intima. La stessa evoluzione semantica dei termini “arte” e “poesia”, richiamata all’inizio di queste pagine, lo suggerisce. Nel corso del tempo, la nozione così concreta del “fabbricare” insita in essi sbiadì, fino a lasciare al suo posto quella assai più evanescente del “bello”, codificata dalla cultura greca e poi ereditata dalla civiltà occidentale. Il senso estetico, la funzione puramente ludica hanno preso sempre più il sopravvento, almeno a livello cosciente, sulle più profonde e meno idealistiche implicazioni ed esigenze di quel “fare”. Che poi tale sopravvento abbia contribuito ad associare arte e letteratura a delle categorie puramente spirituali o indipendenti da tale processo evolutivo, ciò costituisce un ennesimo rigurgito del platonismo di cui è imbevuta la cultura occidentale. Il fatto che arte e letteratura, in quanto “fabbriche della creazione”, assolvano, al di là del loro carattere ludico-estetico, a delle vere e proprie funzioni rituali e normative, non significa ovviamente che questo sia lo scopo consapevole dell’artista nè che tale funzione si esplichi ogni volta con la stessa efficacia e pregnanza. E’ noto come in certe fasi culturali gli stili ma anche i temi si appesantiscano, si irrigidiscano e perdano la loro originaria freschezza e vitalità, dando luogo a ciò che viene di solito definito come “manierismo”. Un che di vitreo e di inaridito permea allora l’opera di artisti, romanzieri e poeti. Lì è ormai “la scuola” che prevale, non la perenne riscoperta del mondo tipica di ogni arte nella sua fase più vitale. Eppure, anche sotto il belletto stucchevole di tanta poesia, prosa e pittura, percepiamo come il riflesso impoverito e sbiadito di modelli e temi ancestrali. Insomma, ogni approccio meramente estetico alla letteratura e all’arte finisce per trascurare ciò che in fondo dovrebbe sempre essere alla base di ogni loro tentativo di comprensione, e cioé, il cui prodest, il loro perché. Salvo non ridurre “la fabbrica della creazione” a un capriccio della fantasia o a esercizi di stile, motivi ben più profondi spingono tendenzialmente chi ogni volta da una voce alle vibrazioni del pensiero, creando immagini e storie. Ma anche questo “ogni volta”, così individuale e personale, non si discosta in realtà da ciò che agisce nella fabbrica anonima e collettiva delle storie mitiche. A suo tempo, parlando dei miti indù, così osservava H. Zimmer:

[...] perché le storie non sono il prodotto di esperienze e reazioni individuali. Sono prodotte, conservate e controllate dal lavoro e dal pensiero collettivi [...] Crescono per l’assenso sempre rinnovato di generazioni successive. Vengono rielaborate, rimaneggiate, caricate di nuovi significati mediante un

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processo anonimo e un’accettazione collettiva di tipo intuitivo [...] I loro dettagli si imprimono nella memoria, imbevono e modellano gli strati più profondi della psiche.9

Quel lavoro, quell’assenso e quella conservazione collettiva dei miti di cui parla Zimmer non si spiegano se non come dettati da un’esigenza di modelli a cui ispirarsi o a cui conformarsi, come abbiamo sottolineato in precedenza. Se l’opera dell’artista è più individuale del mito, se in un romanzo o in una pittura sono in genere riconoscibili le tracce o lo stile di chi li ha prodotti, anche qui però la specificità di certi temi e la loro replica incessante suggeriscono nuovamente l’influenza di esigenze non meno radicate e che vanno ben al di là dell’esperienza individuale del singolo artista. In realtà, anche nella sua opera riaffiorano – e come potrebbe essere altrimenti? – immemorabili pulsioni collettive. Soprattutto negli ultimi secoli la civiltà occidentale, anche qui alimentata da Platone e dal Cristianesimo, ha esasperato l’individualità fino a farne l’origine e il metro di paragone di ogni esigenza e valore. Ma in certe sue fasi precedenti o in altre culture, meno imbevute di narcisismo solipsista, non era tanto l’opera individuale che contava, quanto il tipo, l’uniformità con modelli tramandati di generazione in generazione. Era quell’inderogabile uniformità – vedi, nuovamente, l’arte bizantina - a rinsaldare nella coscienza la sicurezza e la garanzia dell’ubi consistam. Nononostante anche in simili casi non venisse meno il senso estetico dell’opera, proprio la rigida monotonia stilistica e tematica mostra come la preoccupazione maggiore riguardasse gli effetti attesi dall’elargizione del tema, che non potevano e non dovevano mutare. L’estetismo critico sembra al contrario ignorare questi elementi, concentrato com’é sull’aspetto formale, sull’attesa originalità di stile e di contenuto. E’ questa la ragione per cui molte opere sono poi relegate nei cosiddetti “generi”, ineffabile categoria con cui viene liquidato ciò che pare sprovvisto di genialità artistica. Un tipico esempio moderno è il cosiddetto “rosa”, utilizzato per la letteratura sentimentale (vedi Delly, E. Glyn o Liala), o il “thriller”, riferito a narrazioni dove un crimine e l’individuazione e punizione del suo autore sono al centro della trama. I modelli sottostanti questi generi, il fatto che così spesso essi replichino temi antichissimi, tutto ciò sfugge completamente all’approccio estetizzante sopra accennato, per sua natura incapace di illuminare il cui prodest di cui parlavamo in precedenza, e cioé, la funzione riposta di ogni creazione artistica, le emozioni e reazioni suscitate nel destinatario e fruitore. Non sempre, anzi, solo in alcuni casi tali reazioni sono filtrate da preoccupazioni ed esigenze estetico-formali. La lente dell’uditorio esteso, il filtro della stragrande maggioranza dei recipienti di un’opera d’arte non sono in genere così sofisticati: la ricezione 9 H. Zimmer, Miti e simboli dell’India, Milano (1946) 1993, p. 45.

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avviene in buona parte a livello emotivo, inconscio, subliminare. Il fatto non deve del resto scandalizzare o stupire: anche il magma sotterraneo presente in un’opera d’arte è stato per così dire eruttato dall’artista in buona parte a un livello analogo, salvo pretendere che la sua attività obbedisca a dei criteri di assoluta razionalità e consapevolezza. Se la prima modalità è quella tipica della critica d’arte o letteraria, la seconda è invece tipica della mentalità collettiva. Abbiamo insomma di fronte due atteggiamenti, paralleli ma contrapposti: quello collettivo, per il quale ogni rappresentazione riattualizza modelli ed esigenze ancestrali, e quello più astratto, ma anche mistificante, della critica estetico-letteraria, così spesso imbevuta di filtri ideologici di ogni sorta. Esempio lampante di tale contrasto è la diversità di atteggiamento nei confronti della cosiddetta “settima arte”, e cioé, il cinema. Al cinema popolare è sempre stato contrapposto il cinema d’autore, quello dei “classici”, si chiamino essi Flaherty, Eisenstein, Lang o Kurosawa. Quest’ultimo sarebbe superiore all’altro, e di fatto lo è, ma solo dal punto di vista dell’originalità e qualità formale delle sue immagini. In realtà, il cinema è solo un altro modo di narrare, e non a caso il suo oggetto e i suoi temi non sono affatto diversi da quelli della letteratura e spesso anche della pittura. Anche ogni storia cinematografica è, cioé, la proiezione visiva di una specifica possibilità del reale o della fantasia. Ma i modelli non variano: l’eroe, la fanciulla insidiata (tipica del romanzo greco-latino prima che della Pamela di Richardson), la passione amorosa, etc. Le stesse componenti del Bildungsroman agiscono in tante opere cinematografiche non meno che nel David Copperfield di Dickens o nel Meister di Goethe o ne Il rosso e il nero di Stendhal. Ancora, le saghe eroiche e di fantasia, oggi così di moda, sono la replica moderna di quelle antiche, mentre anche i colossals storici spesso non fanno altro che rinforzare psicologicamente dei modelli, ogni volta che rievocano gesta eroiche o di contenuto religioso: tipici, per fare solo due esempi, Lawrence of Arabia di D. Lean o The Ten Commandments di C. De Mille. Se la stragrande maggioranza di questo tipo di films non possiede particolari meriti stilistico-formali e neanche di scavo psicologico dei personaggi, non vi è però dubbio che essi assolvono efficamente alla perenne necessità della mentalità collettiva di assistere alla rievocazione e alla replica di storie eccellenti, quelle che diventano esempio e modello. Tutto ciò suggerisce come anche dietro questa tardiva forma d’arte continuino poi ad agire le stesse aspettative emotive esistenti nei confronti delle arti figurative e della letteratura in particolare. Il potere evocativo della musica, la persuasività dell’immagine e la ininterrotta fluidità del dire sono qui riuniti in una rappresentazione che tocca tutte le corde della sensibilità e dell’intelligenza e per la quale il termine così abusato di “spettacolo di evasione” costituisce una definizione inadeguata. Chi assiste a un film evade, sì, dalla sua realtà individuale, ma per re-immergersi o per associarsi a una realtà modello, nè più nè meno di chi legga un romanzo, assista a

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una tragedia o sosti di fronte a una pittura. Ovviamente, a differenza di un rappresentazione teatrale, che presuppone un pubblico e una coralità di spettatori, la crescente diffusione e utilizzo di strumenti magnetici di riproduzione – i cosiddetti “Dvd” – consente ormai una fruizione personale dei films, allo stesso modo che per un romanzo o per la visione di un quadro. Ma questa assenza di spettatori, questa solitudine strutturale, che sembra quasi l’opposto della coralità tipica di ogni rito religioso, non devono ingannare. Anche qui esiste un officiante del rito, ancorché invisibile e lontano – l’artista, il fabbro della rappresentazione – e anche qui viene celebrato un evento simbolico, che agisce sull’anima di chiunque sia disposto a farsi catturare dalla sua magia e ad immedesimarsi in esso. La pretesa delle religioni rivelate di offrire all’individuo l’unico e legittimo strumento di redenzione simbolica della realtà cozza insomma contro un’analoga ed evidente capacità radicata nelle arti e nella letteratura. Ma non si tratta solo di capacità di redenzione simbolica e di dimensione rituale: la perenne ricerca dell’ubi consistam, l’irresistibile impulso a ri-creare il mondo corrispondono anche a fabbricarne degli specchi. Sono tali specchi a fornire all’individuo una sorta di conferma al suo esistere, ne sono la trascrizione oggettivata, articolata, interpretata e valorizzata. Al di là dello stimolo estetico, assieme alla loro natura tendenzialmente rituale, un’ulteriore funzione delle arti in generale è proprio questa loro capacità di conferma psicologica. Il raccontare è anche un modo per raccontar-si, il contemplare una pittura o una scultura è anche un veder-si, ed entrambi sono un’indiretta conferma dell’esser-ci. Del resto, anche le emozioni e il travaglio dell’artista in un certo senso non esistono, non corrispondono a un qualcosa di separato e con esistenza propria finché non ricevono la loro conferma, prendendo forma in parole o immagini. Il risultato - e cioé, ogni opera d’arte - non è dunque solo l’oggettivazione degli impulsi dell’artista, ma anche un vero e proprio specchio della coscienza. Questo è negato alla tecnica, i cui prodotti, per quanto sofisticati, non riescono a fungere da analogo specchio simbolico-emotivo, ed è ugualmente negato alla filosofia o alle scienze fisiche, sempre per lo stesso motivo.

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