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IUAV UNIVERSITADEGLI STUDI Dipartimento di Progettazione Architettonica, Dottorato di ricerca in Composizione Architettonica FORMA E MONUMENTO La città europea contemporanea tra immagine e immaginario Enrico Lain, architetto PhD 09/05/2003

FORMA E MONUMENTO - la città europea contemporanea tra immagine e immaginario

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IUAV UNIVERSITA’ DEGLI STUDI – Dipartimento di Progettazione Architettonica, Dottorato di ricerca in Composizione Architettonica

FORMA E MONUMENTO La città europea contemporanea tra immagine e immaginario

Enrico Lain, architetto PhD 09/05/2003

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PREMESSA ALLA PUBBLICAZIONE SU ACADEMIA.EDU

Dopo più di dieci anni dalla conclusione del mio percorso di ricerca all’interno del dottorato di ricerca in composizione architettonica (IUAV, Venezia) ho deciso di pubblicarne i primi tre capitoli, che mi sembrano ancora i più validi per il loro descrivere (seppur parzialmente) il panorama delle varie ontologie che hanno caratterizzato il pensiero urbano moderno. Giustamente, nel medaglione di tesi, il mio relatore (il prof. Gianni Fabbri, che ho ammirato per l’infinita pazienza e umanità dimostrata di fronte ad un indisciplinato cronico come il sottoscritto) ha sottolineato il carattere esistenziale ed esplorativo del mio lavoro. Queste le sue misurate parole: “l’itinerario labirintico seguito dal Lain è stato la ricerca di un proprio fondato punto di vista, di una propria soggettività interpretante, che fosse in grado di dare misura e confini allo sterminato orizzonte di pensiero che, da molteplici ambiti disciplinari, descrive, rappresenta, interpreta la contemporaneità”. Naturalmente il mio pensiero ha maturato ulteriori punti di vista, senza tuttavia ritenersi mai soddisfatto delle letture critiche sulla città contemporanea che (in oltre un decennio) si sono ulteriormente stratificate nel mio apparato critico. Se dovessi qui riassumere brevemente quello che reputo una benevola debolezza del pensiero critico formale e compositivo è la sua invisibile disaffezione per la concretezza dei contesti urbani. Negli ultimi anni, infatti (dopo la definitiva scomparsa della postmodernità e un vuoto spaventoso di critica, solo parzialmente colmato dai critici), le questioni che la modernità e i (neo)razionalisti hanno ritenuto collaterali alla città (le politiche, il diritto all’autodeterminazione poetica dei cittadini, l’ambiente, la sostenibilità, l’upcycling delle parti abbandonate) sono diventate globalmente centrali. Questo nuovo contesto ridefinisce l’ambito in cui riposizionare la mia tesi. Essa appartiene più alla storia della critica (scivolando a volte nella critica della storia) che non alla riflessione poetica sul progetto di architettura. Quest’ultima si dovrà, oramai, percorrere sul campo, riprogettando il nostro secolo urbano. Il presente testo è un estratto della tesi originale, da cui ho tolto le immagini e la bibliografia, per snellezza. Naturalmente (oggi) potrete trovare amplia iconografia in rete in merito agli edifici citati nel testo. Buona lettura. Enrico Lain, architetto Padova, 18 dicembre 2015

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CAPITOLO PRIMO

FORMA E MONUMENTO

1. Premessa. I limiti di una riflessione sul tempo presente vanno chiariti. L’intento, qui, non è certamente

didascalico, né propriamente sistematico. Non avremo la pretesa di dar conto delle innumerevoli teorie contemporanee dell’architettura, o di categorizzare la complessità dei fenomeni riscontrabili, oggi, internamente alla disciplina dell’architettura, quanto di tentare di ricostruire un possibile paradigma della contemporaneità, in grado di supportare l’articolazione delle riflessioni che seguiranno.

I sintomi precedentemente descritti (si trattava di New Working and Living Conditions in

Cities – workshop in Venice [2000], Archsho(w)p – workshop su estetiche e nuove forme della

socialità [2001], Documenta 11 – mostra internazionale di arte e architettura, Kassel [2002], n.d.a.), seppur raccolti nel corso di un periodo estremamente limitato, hanno la fondamentale caratteristica di essere delle evidenze, e di aprire ad alcune questioni che sembravano avere ormai una loro risposta, diremmo una forma compiuta. Affrontare le problematiche che sorgono dai sintomi è di certo una strada impervia, il cui rischio sempre presente è quello dell’estensione. La delimitazione, e in alcuni casi la riduzione, divengono quindi modalità utili al pensiero critico, con tutti i rischi che tali modi portano con sé. Tuttavia, riconosciuti tali limiti, la riflessione sul presente risulta un’operazione ricca di spunti e di riaperture, ma anche di apparenti contraddizioni legate alla difficoltà di stabilire di volta in volta una distanza critica. Scrive a tal proposito Karl Jaspers che “la conoscenza del mio mondo è l’unica via per conquistare – prima di tutto nella mia coscienza – il senso dei limiti di ciò che è possibile, e di giungere poi a formulare nella realtà giusti progetti e a prendere ferme decisioni; e per formarmi, infine, quelle concezioni e quelle idee che mi conducono a riconoscere, nella realtà umana, la luce di ciò che è trascendente. (…) Scopo di questa chiarificazione è di capire con la maggiore sicurezza possibile il proprio divenire cogliendolo nella particolare situazione in cui esso si

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trova. Le immagini di codesta situazione sono lo sprone mediante il quale ogni singolo individuo viene stimolato a ritrovare se stesso in ciò che veramente gli preme”1.

Il dato più evidente, riscontrato nei sintomi, è probabilmente il fatto che non esiste un’idea

unitaria della contemporaneità. La necessità è quella quindi di determinare un possibile paradigma per articolare in modo coerente le nostre riflessioni sulla forma e sul monumento. Il paradigma2 dovrà essere un modello interpretativo/critico/operativo che non contiene, al contrario dell’idea, alcuna necessità interna di una propria evoluzione storica. Il fondamento della formazione del paradigma sarà la convinzione che l’architettura sia costruzione logica e che, in senso inverso, ogni costruzione logica che sia in grado di porsi a fondamento autonomo di un progetto possa rappresentarsi mediante l’opera d’architettura.

In questo sta la possibilità, oggi di ritrovare la giustezza del progetto. Essa va intesa come verità contenuta nel progetto architettonico, in modo così indissolubile dalla sua costruzione da esserne codice genetico prima ancora di divenire forma. Tale esattezza, che Heidegger avvicina alla verità, sarà articolata, come vedremo, dalla tecnica e dal pensiero, prima di farsi linguaggio.

2. Linee di ricerca. Ragione fondamentale di questo metodo paradigmatico è la seguente: l’architettura, per sua

stessa natura, non mente. Essa è affermazione e conoscenza. Senza questo fondamento ogni paradigma perde di significato. Tuttavia, anche qui, valgono delle delimitazioni. Innanzitutto va chiarito cosa emerge sintomaticamente dal nostro presente e quali sono alcune delle ragioni di quella diffusa opinione che intende caratterizzare la nostra come un’epoca di crisi dell’architettura3. Esse possono essere delimitate a due ambiti generali, uno interno all’architettura e l’altro esterno ad essa.

Evidenza della crisi interna all’architettura è l’epifania dell’informe. A ciò non possiamo sottrarci semplicemente negandolo. Da qui una riflessione sulla forma diviene un’urgenza metodologica per non sottostare all’altro grande pericolo, ovvero il rimanerne sedotti, ammettendo, di conseguenza, che il progetto d’architettura può avere qualsiasi forma.

Evidenza della crisi esterna è il fatto che l’architettura sembra accogliere indifferentemente istanze provenienti da altre discipline, quasi che essa sia in uno stato di incompiutezza, ponendosi

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come pensiero debole, formato dal rifluire di agenti esterni al proprio ambito disciplinare. Da qui la necessità di ritrovare ciò che sembra essere stato dimenticato, ovvero le origini dell’architettura, prima del suo farsi disciplina. La riflessione su tali origini potrà aiutarci a chiarire un punto fondamentale, ovvero che la possibilità di una giustezza del progetto si fonda sul suo tendere al sacro. E tale dimensione sacrale, propriamente interna all’architettura, non poteva che condurci ad affrontare la complessità del concetto di monumento.

La riflessione duale su forma e monumento si pone quindi come traccia possibile per indagare il nostro presente. L’universalità di tale traccia sottende però una considerazione fondamentale, strettamente correlata alla contemporaneità, intesa qui come momento ultimo dell’Occidente: il problema che sta sul fondo della cultura occidentale è la terribilità del nichilismo, lo ha chiaramente dimostrato Emanuele Severino nei suoi testi4. Il divenire è il problema della contemporaneità, così come lo storicismo era il tema dominante della fine del XIX secolo. Il divenire è la matrice comune che conduce pericolosamente verso l’informe.

L’informe è crisi del pensiero, solo secondariamente crisi del linguaggio. E, se Severino ha ragione, e noi gli crediamo, l’affrontare questa crisi del pensiero passa inevitabilmente per una riflessione sulla tecnica. In questo ambito specifico si giustificano i numerosi riferimenti alla filosofia contenuti nelle pagine che seguono, percorsi utili per risalire all’origine e, di lì, ritrovare l’architettura attraverso la sua principale unità di forma e pensiero, ovvero la sua originaria dimensione politica. Provocatoriamente allora questo nostro lavoro si chiude, nel quarto capitolo, con il paragrafo Ritorno

alla città, in cui verrà affrontato il caso della città di Rotterdam, città europea senza centro. Si tratterà di un ritorno al fenomeno, in cui si evidenzieranno le incongruenze interne a una delle città più esemplari, per il suo carattere fortemente artificioso e transeunte, dell’esperienza architettonica olandese contemporanea.

Le linee della nostra ricerca assumono dunque la città come punto di arrivo, se non di ripartenza, in modo consapevolmente funzionale al particolare percorso della riflessione. Il tentativo è quello di articolare attraverso le trasformazioni del concetto di forma (e quindi dei suoi mutevoli rapporti con la cultura, il logos umano e la poetica dell’uomo faber) un possibile paradigma della contemporaneità come momento del ritorno alla dimensione politica dell’architettura. Al concetto di forma (un concetto mutevole e smisurato, ma che viene qui delimitato a fondamentale modalità di un pensiero poetico attraverso la sua misurazione nella composizione) viene affiancato il concetto-limite di monumento (che trattiene, in un nucleo denso e privo di narrazione, il rapporto della nostra civiltà

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con la memoria, con la dimensione politica, con il concetto di tempo e con il profondo senso progettuale della disciplina architettonica). La tensione tra i due concetti, uno appunto dia-logico (la forma) e l’altro silente (il monumento), introduce ad una riflessione sul tempo (concetto fortemente legato alla poetica e al projectum), dimensione finora trascurata ma sempre presente nell’architettura intesa come massimo artificio, luogo del pensiero poetico, dunque del fare.

3. Inaccessibilità della città contemporanea. Se da un lato le riflessioni paradigmatiche su forma, monumento e tempo tendono a

ricercare l’originaria dimensione politica dell’architettura, la polis rimane ancora inaccessibile nella sua ricca complessità. Rilevare qui l’inaccessibilità della città contemporanea significa mettere in rilievo il fatto che la città rimane ancora il punto nodale di ogni ricerca d’architettura, il dato evidente su cui si configura ogni possibile paradigma della contemporaneità. Per cui, nella definizione del nostro paradigma, dobbiamo porci nella possibilità di un pensiero logico inizialmente esterno alla città. Potremo così sospendere metalinguisticamente ogni articolazione critica, verificando le logiche interne al paradigma stesso, e quindi accedere nuovamente alla polis. Ulteriore ragione di tale sospensione è la necessità di porsi al di fuori delle logiche del supermodernismo (cfr. nota 3), il quale accetta di buon grado una visione superficiale della città, riducendola ad archivio stratificato di merci culturali.

Affermare che la città è divenuta inaccessibile significa condensare in un concetto delimitato il risultato di quella che potremmo definire un’economia politica dell’immaginario, effetto di una riduzione operata dal capitalismo avanzato sui sistemi di valori, al fine di ridurli a codici iconici privi di profondità. Dalla delimitazione del concetto potrà derivare il suo possibile superamento positivo, ovvero il ritorno alla città.

L’immaginario5, il cui luogo è la città, è divenuto il campo d’azione specifico della produzione, al punto che la città risulta di conseguenza appiattita in una sistema di segni e codici. Questa è un’evidenza rilevata dalla critica contemporanea (Ignasi de Solà-Morales, Jean-Luois Déotte, Scott Lash e John Urry tra gli altri), la quale ha nominato tale fenomeno museificazione. La museificazione della città è un’eredità culturale del post-moderno, il quale ha compiuto l’estrema

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riduzione del reale a puro dominio. In questo (e lo vedremo in seguito) c’è ancora traccia del grande progetto moderno illuminista, tuttavia dobbiamo rilevare il fatto che nella contemporaneità sembra essere stata rimossa la logicità che articolava il progetto moderno.

Scrive Ignasi de Solà-Morales: “uno spettro infesta ora non solo l’Europa ma l’intero mondo, originando un comune fenomeno estetico, la sparizione di quegli oggetti apparentemente reali che sono iscritti in questo immaginario recinto sacro a disposizione della cultura moderna. In effetti, il museo, col suo scopo apparente di salvaguardare gli oggetti di interesse (artistico, storico, antropologico, ecc.) li sottopone tutti all’identico processo di esibizione che inevitabilmente coinvolge un’operazione di sospensione delle loro precedenti caratteristiche. Gli oggetti (…) vengono strappati dalla loro sostanza culturale originale (liturgia, conflitto, comfort) per essere convertite primariamente in immagini. Immagini che servono come materiale per la storia dell’arte, per l’esperienza estetica, per l’identità nazionale, per l’idea di progresso, per lo spirito cosmopolita, ecc. Nemmeno l’architettura è immune a questo processo. La museificazione dell’architettura, seguendo ancora la tesi di Déotte, per i monumenti (segni di memoria) o per le rovine (testimonianze di un generico passare del tempo) li vede parimenti soggetti a questo stesso processo di esibizione che è destinato a produrre la loro scomparsa come oggetti legati a situazioni e significati specifici. Cesseranno di essere oggetti ordinari per entrare nella gloria in un universo in cui, grazie alla sospensione di ogni particolare qualità, sarà possibile includerli nel regno empireo dei valori trans-storici.”6.

Non intendiamo qui semplicemente ignorare tale fenomeno. Tenteremo di affrontare in modo positivo il paradosso insito nella seguente affermazione: se la museificazione tende a ridurre la città (e l’architettura) a sistema di codici privi di valori esiste nella contemporaneità una pulsione altrettanto forte verso la monumentalità. Questa forza sotterranea non riduce tuttavia il monumento a puro fenomeno estetico e compositivo, ma indaga quella dimensione sacrale che costituisce in certa misura il rimosso della nostra civiltà e il fondamento originario di ogni abitare.

Attraverso una necessaria riflessione sul sacro tenteremo di dar ragione di quest’ultima affermazione, indicando una via possibile per un ritorno alla dimensione politica dell’architettura. Il limite di queste nostre riflessioni sarà la convinzione che l’esistenza costituisca l’estrema possibilità per un’architettura, che intenda porsi in modo conoscitivo rispetto al reale, di indagare ancora una volta la città. Al di là di questo limite si porrà solamente il soggetto, ovvero un sub-jectum (letteralmente ciò che è posto a fondamento) che avrà il compito di assumersi la responsabilità di fondare, in ogni istante, la coesione necessaria al reale e la sua possibile critica.

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4. Accesso alla polis. L’accesso alla polis viene tentato dunque attraverso una riflessione sulla rappresentazione e

sulla rappresentatività, quindi sull’immagine, intesa non come semplice medium ma come modalità di indagine della stratificazione della città contemporanea. L’immagine è forse un intreccio possibile tra la polis, l’architettura, il tempo e la dimensione poetico/politica. Il ritorno alla polis avviene tramite il superamento del concetto di metropoli come unico orizzonte (del) possibile. La città torna ad essere fortemente politica, caratterizzata da una molteplicità di tempi e di paesaggi (artificiali), densificati rispetto alla diffusione infrastrutturale della metropoli.

5. Il pensiero e la città: continuità. Si tratta qui di dare ragione di alcuni assunti fondamentali, resi in forma di ipotesi aperte, per

le quali non ricercherà una dimostrazione. Sono delimitazioni atte a dare alle riflessioni che seguiranno una coerenza interna che tuttavia non intende imporre una definitiva conclusione alle tematiche che verranno via via affrontate.

Il tema del monumento nella contemporaneità racchiude il rapporto tra l’architettura e la città. Esso è divenuto uno dei temi dominanti nel dibattito svoltosi, soprattutto in ambito europeo, dopo la crisi della stagione del funzionalismo propugnato dai CIAM. La conclusione di questo percorso teorico e critico, che ha caratterizzato l’esperienza del Movimento Moderno, ha segnato un momento di forti riflessioni interne alla disciplina architettonica. I limiti tra il progetto architettonico e la pianificazione urbanistica divenivano tema di un dibattito acceso, in cui l’architettura reclamava a diritto la propria capacità disciplinare di essere strumento di conoscenza per dare forma a progetti urbani. Il rapporto conflittuale tra il tutto della città e le parti del progetto architettonico si evidenziava in tutta la sua problematicità. Il tema della possibilità della conoscenza del tutto attraverso il processo critico/teorico/progettuale applicato alle parti poneva il monumento come enigma.

Prima di affrontare il senso racchiuso nel concetto di monumento, rileviamo qui che probabilmente l’enigmaticità del monumento sta nella volontà della parte di porsi come tutto nel suo tendere ad essere nucleo denso di significato. Il monumento è una parte di città che è in grado di porsi in modo autonomo rispetto alla città stessa. Tale sua condizione originaria è un dato permanente, anche nella città contemporanea.

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Ha messo bene in evidenza le problematiche teoretiche del rapporto tra il tutto e le sue parti Massimo Cacciari, nel suo I frantumi del Tutto: “l’universale non è affatto totalità astratta, è il carattere delle differenze individuali; soltanto la presentazione delle particolarità concrete, del dettaglio storico, permette di cogliere l’universale. L’universale è sempre concreto. (…) Il buon Dio abita il particolare, ma in quanto esso sia hólos (ovvero tutto).”7

Medesimo atteggiamento ritroviamo in Aymonino quando scrive che “l’individualità, e quindi la riconoscibilità di ogni elemento si compone entro un insieme che ha la sua ragion d’essere proprio nella coerenza delle parti con il tutto. Questo procedimento assume nel proprio processo costitutivo uno dei ‘caratteri’ essenziali dell’architettura come fenomeno urbano, che è quello di porsi di volta in volta in ‘rapporto a’ (ad altre architetture esistenti, a un determinato paesaggio, a un sistema di infrastrutture, ecc.), di essere parte compiuta di un processo continuamente in divenire, ma tanto più rilevabile nel suo mutare quanto più le ‘parti’ sono architettonicamente risolte e composte tra loro.”8

La composizione della città attraverso parti formalmente compiute intesa da Aymonino nel 1969 si porrebbe dunque in contrapposizione dialettica con un atteggiamento più radicale (ma anche in certa misura privo di profondità conoscitiva) che intendeva risolvere, in quegli stessi anni, il rapporto tra il tutto e le parti attraverso la riduzione della complessità della città ad un singolo edificio a scala sovraurbana (si vedano le proposte del gruppo Superstudio, e il loro Monumento continuo, o le ipotesi megastrutturali di Yona Friedman e dei Metabolisti giapponesi).

L’atteggiamento di Aymonino apre a due questioni determinanti per le nostre riflessioni: da un lato tale suddivisione per parti della città si propone come condizione di una progettualità in grado di rendere leggibile, attraverso la forma e la rappresentazione, la complessità intrinseca della città (“tutto ciò va espresso, cioè rappresentato, ‘giudicato’ in modo evidente attraverso una proposta anche formale: allora si dà l’architettura alla città” poiché “una città sarà tanto più caratterizzata quanto più gli elementi spaziali e quelli interpretativi – le immagini urbane – tenderanno a sovrapporsi fino a divenire indispensabili gli uni agli altri; ma tale indispensabilità può essere un ‘giudizio’ solo reinterpretando ogni volta tutti gli elementi in gioco e reinterpretare significa progettare” 9), dall’altro lato vengono poste le premesse per concepire la città contemporanea come un luogo in cui si assiste ad un fenomeno che potremmo definire di scollamento, o di continua frammentazione delle sue stesse parti in una molteplice stratificazione di livelli (spaziali, temporali e funzionali) che costituiscono il fenomeno della progressiva scomparsa dell’idea di centro10 (scomparsa che costituisce le premesse dell’ “impossibilità di realizzare la città contemporanea attraverso un unico ‘metro’ linguistico.”11)

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6. Formazione del paradigma. Il carattere fortemente europeo di queste riflessioni va ricondotto a due ambiti chiaramente

distinguibili. Da un lato vi è il dato storico della ricostruzione post-bellica, con tutta la sua problematica tensione vero il futuro e la sua intima necessità di trattenere presso di sé memoria del passato al fine di costituire, attraverso essa, una possibile identità. Dall’altro lato ritroviamo un percorso parallelo nel pensiero dell’Occidente, nel suo continuo interrogarsi sulla propria origine e sulla tecnica che aveva costituito lo strumento della distruzione di città e uomini. I temi che sorgono dall’intreccio di questi due ambiti sono il centro (in cui storia, morfologia e sacralità sembrano essere intimamente correlati) e il vuoto.

Questi temi costituiscono il paradigma interno alla città; la loro tensione dialogica rappresenta il processo continuo della sua formazione, la quale si articola come pensiero conoscitivo

e progettuale prima di essere propriamente forma,. Tale paradigma continua a costituire la radice intima dell’architettura e dunque il suo fenomeno principale, ovvero la città.

Ma come dovremmo considerare la città, o meglio il suo tendere sempre più a farsi concetto? “La città è dunque un luogo artificiale di storia in cui ogni società giunta a diversificarsi da quelle precedenti tenta, mediante la rappresentazione di se stessa nei monumenti architettonici, l’impossibile: segnare cioè quel tempo determinato, al di là delle necessità e dei motivi contingenti per cui gli edifici furono costruiti. (…) E la bellezza di una città è data proprio dalla contraddizione esistente tra l’assunto iniziale (il motivo per cui sorse il monumento) e la realtà continuamente mutevole dell’uso di tale eredità.”12 A cosa conducono queste considerazioni? A concepire la città come artificio, in cui la rappresentazione gioca un ruolo notevole per dare segno di un preciso tempo. Da questi punti prenderanno avvio le nostre riflessioni, interne alla disciplina architettonica, sul concetto di monumento.

7. La città come artificio. Concepire la città come artificio e non come manufatto è indice di un atteggiamento

metodologico, che costituisce il primo legame con la città contemporanea. Se il concetto di manufatto rinvia da un lato ad un tentativo di sottrarre la costruzione dell’architettura dalla problematicità della produzione e dall’altro lato alla necessità teoretica di affermare con forza il suo

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carattere di evidenza concreta, il concetto di artificio risulta più ampio e meno riduttivo, seppure parimenti delimitante. Esso principalmente permette di considerare la città in quanto fenomeno ancora inserito in un divenire, in una temporalità che tende al presente e che accoglie necessariamente anche istanze esterne al dato costruito (ovvero fattori economici, politici e culturali). Se ciò che si propone l’architettura è quello di dare lettura e di giudicare progettualmente la realtà della città allora il concetto di artificio risulta maggiormente consono a tale possibilità di lettura.

La città si configura come l’opera fondamentale della creatività umana, come il luogo privilegiato della continua verifica delle potenzialità dell’immaginario, della cultura e dell’artificio umano. La città fa proprie le istanze della fruizione dell’arte, ovvero desiderio, piacere, spaesamento, emozione, vertigine, realizzazione dell’immaginario. Considerare la città contemporanea come un artificio significa interpretarla come una cosa fondamentalmente innaturale creata dall’uomo. Si tratta di un concetto che intende ampliare quello di manufatto nella direzione di un’idea che comprenda sia la costruzione (e dunque il linguaggio, il logos) sia l’espressione. L’artificio si inserisce nella storia umana con un’autonomia maggiore. La città come artificio sembra essere più sensibile alla vicinanza semantica che sussiste tra città e civiltà.

Va rilevato, tuttavia, che la città come artificio apre a questioni contingenti che non potremmo ignorare. Dalla loro rilettura dipende la possibilità di trovare la via per quel ritorno alla città di cui parlavamo in precedenza. Considereremo quindi l’architettura in quanto fenomeno principale di una città, manifestazione delle sue tensioni interne verso l’unità. In questo suo essere fenomeno l’architettura assume in sé la duplicità di del rapporto, risolto in ogni progetto, tra il suo essere costruzione (e dunque il suo rapportarsi alla tecnica e alla materia) e il suo essere pensiero logico (tendendo quindi ad una stretta analogia tra compiutezza della forma e completezza di pensiero).

Dovremo interrogarci, attraverso i concetti di forma e monumento, su quale sia la correlazione tra la città come artificio e i suoi artefici, giungendo a dovute delimitazioni che riconducono alla giustezza del progetto d’architettura. Anticipando quanto verrà affrontato in seguito nel corso delle nostre riflessioni (cfr. Capitolo quarto), oggi assistiamo ad una straordinaria autonomia del pensiero poetico. Tuttavia tale autonomia non va considerata come un soggettivismo, al contrario essa è fenomeno della totale artificializzazione del reale e della scomparsa del naturale. Si viene a creare così un rapporto intimamente duale tra soggetto e città, che conduce il soggetto ad essere effettivamente fondamento dell’artificio. Il soggetto poetico è costretto a delimitare, oggi più che mai, l’autonomia delle proprie poetiche attraverso le logiche interne al pensiero.

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La complessità sottesa al concepire la città come artificio porta quindi ad una ricchezza interpretativa che permette inoltre di affrontare positivamente la separazione, sempre più evidente nella contemporaneità, tra il sentire collettivo e la sua rappresentazione nell’architettura, che è premessa fondante per la monumentalità. La ricchezza non è solo interpretativa, ma anche progettuale, poiché “mette in luce le possibilità dialettiche di mutamento positivo” (Aymonino). In questa apertura esplicitamente progettuale sta, in definitiva, il superamento dell’impossibilità della storia, nel riconoscimento del fatto che l’architettura, oggi più che mai, non si pone come necessaria (e dunque determinata dalla sua sola funzione) ma come possibilità. E’ in tale possibilità che si fonda il progetto come tensione verso il futuro.

L’apertura al possibile porta ad altre considerazioni. Da un lato si pone la necessità di una delimitazione di campo. Quali sono, infatti, i fondamenti dell’architettura? Non si corre forse il rischio, in tale apertura al possibile, di porre le premesse ad una pericolosa dissoluzione della disciplina architettonica nella dimensione caotica del divenire? La delimitazione che si oppone a questo pericoloso horror vacui è il considerare l’architettura nella sua accezione primaria e originale: essa è opera dell’intelletto umano che oppone il proprio ordine logico al caotico naturale. In questo suo specifico rapporto con l’origine e con il fare poetico dell’uomo si fonda il suo essere premessa per ogni abitare. Senza assumere questo suo carattere esistente si incorrerà certamente nella dissoluzione della disciplina architettonica. Ma vale la pena, qui, di rammentare un altro pericolo, ovvero quello derivante da una contrapposta chiusura al possibile. Infatti, rifiutando un confronto con un pensiero poetico del mondo, l’essere fenomeno dell’architettura si risolverebbe in pura narrazione, in isolamento, ovvero tenderebbe a quella museificazione di cui abbiamo accennato in precedenza.

“Occorre che il dato artificiale non abbia un unico scopo (rispondenza funzionale), ma ne abbia molteplici; complessi e talvolta contraddittori (rispondenza ai modi d’uso); che permetta cioè di usare gli spazi costruiti, aperti e coperti, vuoti e pieni, fissi e mobili rispetto ai due parametri fondamentali della nostra presenza fisica: quello temporale (la città rispetto alla propria storia) e quello spaziale (la città rispetto alla propria estensione) in modo da confermare il continuo passaggio – nelle scelte collettive – dalla necessità alla possibilità.”13

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8. Forma e contemporaneità. Abbiamo affermato in precedenza che il concetto di monumento si affianca a quello di

forma, sottolineando in tal modo che entrambi i concetti contribuiscono al fondamento di quella che si sta rivelando come la possibilità di un pensiero conoscitivo e politico del reale. In analogia con quanto abbiamo cercato di rendere evidente per le trasformazioni del concetto di monumento tenteremo ora di dar ragione dalle trasformazioni del concetto di forma. E’ necessario innanzitutto rilevare quali sono le problematiche aperte dalla forma in quanto concetto.

La forma costituisce un nodo fondamentale per quanto riguarda l’intera cultura Occidentale: l’arte, l’architettura, la filosofia del linguaggio, ma anche la scienza. Perché si è indagato il ruolo della forma nella nostra civiltà? Perché essa è fondamentalmente legata a una serie problematica di ‘questioni irrisolvibili’, ovvero continuamente aperte. Non si pone qui il dubbio sull’efficacia della composizione, quanto sulle questioni che appaiono sintomaticamente problematiche nella contemporaneità. Il titolo di questa ricerca non intende indicare una risoluzione definitiva alle questioni della forma da un lato e del monumento dall’altro, non intende nemmeno indicare una trattazione esaustiva dei due ambiti (che articolano in modo alquanto complesso il rapporto tra le dimensioni dell’ermeneutica, dell’estetica, della linguistica, della storia e della disciplina architettonica). Forma e monumento vengono intesi non come risultato o fine o dato culturale, quanto come differenti modalità di relazione con il presente. Dalla loro interazione sorgono alcune questioni chiave che tentano di individuare quali potrebbero essere i punti in grado di riavvicinarsi alla dibattuta contemporaneità;

La forma è un concetto che fonda l’intera Modernità; essa concerne, ad una prima e superficiale analisi, il rapporto, la relazione che la nostra cultura ha instaurato con la materia in-formale da un lato e con la verità dall’altro. Seguendo l’ipotesi, tutta moderna, che l’architettura sia fondamentalmente disciplina conoscitiva si giunge immediatamente a riconoscere che la forma, per l’architettura, viene ad essere concetto primario. Si tratta dunque di articolare, in modo più approfondito, quali sono le articolazioni (anzitutto storico/critiche prima che disciplinari) che determinano il rapporto che è venuto a stabilirsi tra forma e disciplina architettonica. Quanto interessa in questa sede non sono tanto quelle articolazioni che si sono sedimentate attraverso i secoli di pratica architettonica, quanto le articolazioni problematiche, quelle che si rivolgono all’origine del problema. Rivolgersi all’origine è un’operazione necessaria per comprendere anzitutto quali siano i fondamenti disciplinari dell’architettura, quelle origini che sembrano (in base ai fenomeni

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riscontrati e alle tante critiche rivolte all’architettura della contemporaneità) essersi apparentemente indebolite. La nostra convinzione è che si sia verificato un generale indebolimento teorico a priori, al di là del quale si comprende che quanto oggi appare problematico è determinato al contrario dalla resistenza di tali fondamenti.

Cosa esiste prima della forma? Esiste la materia senza forma, il caotico, l’ule, ovvero ciò che per gli antichi greci era la foresta, la selva. La forma è ciò che l’uomo impone alla materia senza forma operando in modo demiurgico. Sorgono così almeno due distinte problematiche: da un lato quali siano i principi che determinano quale forma l’uomo impone al senza forma, e successivamente in che modo egli forma ciò che era prima senza forma. Si aprono così due ambiti che ancora riguardano la modernità: da un lato la verità dei principi e dall’altro le tecniche che infondono tale verità formali nel risultato di questo processo di formazione. Si tralascia qui momentaneamente il ruolo dell’uomo all’interno di tale processo, in che modi sia stato inteso questo ruolo nel corso dei secoli, quale sia la libertà di tale ruolo. Dunque, schematizzando, originariamente si riconoscono le seguenti problematiche:

fondamento della forma come processo di formazione apre al problema della poetica; verità della forma apre al problema del linguaggio e della rappresentazione; tecnica apre al problema del rapporto con la natura. Tale delimitazione del problema è funzionale alla nostra trattazione, che intende ripartire

dalla forma, e dunque dal suo indissolubile rapporto con la disciplina architettonica e non direttamente da questioni sociologiche o economiche, per evidenziare quanto sta accadendo nella contemporaneità.

9. Origini del concetto di forma. La ricchezza semantica degli etimi greci per tradurre forma dimostra indubbiamente quanto il

concetto di forma costituisse uno dei punti nodali (se non addirittura il principale) della cultura greca. La forma risolve nel proprio interno il modo di conoscere il mondo, di costruirlo mediante la tecnica, di tradurre nel visibile la verità. Quest’ultima rappresenta il grande problema della cultura greca e continua ad essere, con intensità differenti nel corso dei secoli, il nucleo più denso e problematico dell’Occidente. La forma (che potremmo intendere per tali ragioni propriamente forma occidentale)

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sintetizza e nello stesso tempo (in ogni tempo) riapre le problematiche relative alla bellezza e alla verità, al sensibile e al trascendente. Non intendiamo chiaramente risolvere qui tali problematiche, tuttavia riteniamo sia indispensabile ricercare il fondamento logico della forma, non solo per la sua capacità evidente di determinare un ordine, appunto, logico del fare umano ma anche per il suo divenire, nel corso del tempo, concetto. La capacità della forma di farsi concetto andrà ritrovata (e fondata) attraverso un progressivo allontanamento del sensibile dalla natura (intesa, in senso greco, principalmente come informe). Se la forma sintetizza in sé l’artificio logico operato dal fare dell’uomo è su di essa che si può fondare, concettualmente, sia la possibilità di un logos sia l’emancipazione dell’uomo stesso dall’informe naturale. Allora il mondo formato dall’uomo sarà un insieme di forme possibili articolate secondo una logica. Il loro dia-logo costituirà l’ambito di una ricercata armonia tra forme (parti) in costante accordo. Ogni frattura e ogni continuità tra le parti diverrà il punto nodale di una composizione logica. Fratture e continuità, poiché originate da forme, non potranno che articolarsi in modo logico, ovvero costituiranno il principale dato umano dell’intero processo.

I tre principali etimi greci che definiscono la forma: morphè, ovvero forma, figura, aspetto esteriore, ma anche statura fisica di persona, in alcune accezioni il termine indica anche la persona stessa; per Omero morphè sta a significare la bellezza; la definizione successiva del termine viene data da Platone, che nella Repubblica usa morphè come apparenza; Aristotele la utilizza invece come principio formale; eidos, derivante dalla radice indoeuropea fid- (da cui poi deriva il latino video), significa originariamente (ovvero prima di Platone) aspetto esteriore nel senso di ciò che si vede; nella retorica indica forma del discorso, stile; per Tucidide indica invece forma di

governo, mentre per Platone (che ne forza il significato originario, come rileva accuratamente Heidegger14) significa idea, ovvero ciò che non è visibile; Aristotele, dal canto suo, indica con eidos la causa formale; va notata qui inoltre l’analogia tra fid- e fos-, da cui derivano theos e theoria, ovvero dio e teoria, intesi entrambi come ciò che viene alla luce, ciò che si mostra; schêma, ovvero maniera, modo, forma grammaticale, forma geometrica, forma del discorso, ma anche forma di danza (posizione), modo di comportamento, ma anche stampo, forma che plasma la materia; da schêma deriva habitus in latino, che, come vedremo in seguito, determina il nostro abitare.

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A questi si aggiungono poi altri due etimi, che riguardano più specificamente la forma come processo operato dall’artefice:

tùpos, ovvero stampo, impronta, formina plàsis, che deriva da plasso, che indica plasmare, forgiare un materiale, l’atto di dare forma; da plàsis deriva plasma, che indica forma, figura plasmata

La forma nel mondo greco appare analoga al logos. Forma e logos sono concetti intermedi a

due grandi separazioni originarie: quella tra ordine e disordine e quella tra percezione sensibile (aísthesis) e pensiero (noûs). Questa analogia fonda, per l’architettura greca, il principio secondo cui l’ordine architettonico non possa che rispecchiare il sistema di leggi che regolano l’intero kòsmos. Queste leggi sono intrinseche, non evidenti, non sensibili. Compito dell’architetto e di ogni artefice (poiētés) è quello di assicurare che tale analogia si costituisca. Dobbiamo a Platone l’originario nascondimento delle leggi del cosmo in ciò che non è evidente o sensibile. Non sarà la morphè ad essere principio logico formale, ma l’ eidos. Gli occhi ingannano, la verità si nasconde, diviene, con Aristotele, metafisica. Forma e logos hanno una modalità specifica (e profondamente problematica) di relazionarsi al nascondimento: l’imitazione (mímēsis). Se in Platone l’imitazione (come modalità del rapporto analogico, nell’agire umano, tra eidos e morphè) e la tèchnē (come articolazione, interna al fare poetico, del rapporto tra forma e materia) costituiscono due ambiti problematici, in Aristotele essi vengono in un certo modo risolti: secondo il filosofo ellenico “tutto quello che viene prodotto dall’uomo, quindi anche la sua architettura, si fonda sulla tèchnē considerata come strutturazione intellettuale che presiede all’opera, nel senso che ogni atto poetico nasce dal rapporto tra una determinata forma e una determinata materia.”15 La tecnica, nella successiva rielaborazione del pensiero ellenistico operata da Vitruvio (che rimarrà fondamentalmente valida fino al XVIII secolo), non potrà che essere mimetica, ovvero ricercherà sempre nella natura quelle leggi sovrasensibili che assicurano la verità di ogni costruzione. Il carattere naturale e mimetico della tecnica costituirà le basi, per tutta la modernità, della validità del rapporto forma/funzione. Se tuttavia il dato naturale non viene considerato immutabile nel proprio carattere, ma sostanzialmente potenza (secondo la concezione aristotelica) allora l’imitazione della natura non porterà a forme ma a processi dinamici. Questo differente atteggiamento, ancora mimetico, fonderà le basi dell’organico nella modernità. Il funzionale e l’organico quindi hanno la medesima radice mimetica, per entrambi la natura (o al più il suo concetto) sta a fondamento dell’origine di ogni forma.

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Il terribile compito dell’architetto-demiurgo sarà quello di non potersi più fidare dello sguardo per percepire i principi formali (della verità e dunque del bello) ma del proprio logos. Si fondano così, nella cultura classica greca, le premesse per un’autonomia della logica. Quando scompare il suo termine di paragone metafisico, infatti, l’uomo non potrà che fidarsi di ciò che gli resta, ovvero il proprio pensiero logico, matematico e geometrico. Oppure si darà un’altra possibilità: fondare il

possibile sul proprio pensiero, assumendosi ancora più profondamente il ruolo demiurgico che gli è sempre appartenuto. Questa difficile via conduce ad una assunzione di libera responsabilità, risolvibile solo attraverso una necessaria riflessione sul soggetto. Tuttavia il mondo greco non compie tale riflessione, le leggi del kòsmos appartengono ancora all’uomo, anche se il suo destino è tragicamente segnato. Nel Coro dell’Antigone scrive Sofocle: (l’uomo) scoprì le leggi del vivere insieme nella città

costruendosi un riparo contro la pioggia e la stagione invernale

(…) (e così imparò) l’uso del linguaggio

e il moto veloce dell’intelletto

10. Limiti della forma. Il concetto di forma per il pensiero greco (classico ed ellenico) viene codificato nella cultura

latina dal De Architectura di Vitruvio. La forma, per Vitruvio, rimane quella concettualmente elaborata da Aristotele. Dobbiamo attendere l’Umanesimo per ritrovare le premesse culturali della successiva elaborazione moderna della forma. La Modernità accentua la separazione tra eidos e morphè, che la cultura greca era riuscita a trattenere nell’unità mimetica, vedendosi costretta a riconoscere il ruolo primario della cultura in quella occupazione del possibile che costituisce l’atteggiamento originario del moderno. E’ attraverso la cultura che ogni fare viene ricondotto alla verità al di là di ogni pericoloso relativismo. La cultura assicura così un principio di verità al logos, il quale può porsi, per la prima volta, non solo in termini conoscitivi ma anche progettuali, in un atteggiamento di dominio sul mondo. Il logos pone la necessità di estendere, attraverso l’ampliamento del concetto di misura, il proprio potenziale possesso del mondo. Se il logos è ciò che genera la cultura, allora la cultura

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comincia, nell’Umanesimo, a sovrapporsi alla natura. Il fenomeno culturale che dà maggiore evidenza a questo processo è la prospettiva. Vedremo in seguito come la nascita del concetto di cultura, unitamente a quello di produzione, determini conseguenze notevoli per i modi di concepire il tempo e lo spazio fino alla contemporaneità. Se infatti per il mondo greco era il ritmo ad articolare lo spazio rispetto al tempo, con l’Umanesimo sarà lo spazio ad essere categoria principale, si misurerà dunque il tempo rispetto ad esso. L’architettura si fa conoscenza progettuale e modalità dell’agire sullo spazio.

L’autonomia della cultura determina altre notevoli conseguenze, soprattutto nel XV e nel XVI secolo. Se infatti essa permette la nascita della Modernità come occupazione del possibile, essa porta anche ad una apertura all’immaginario. L’Alberti può, grazie alla cultura, fondare l’autonomia intellettuale dell’architetto e immaginare le origini dell’architettura. La stessa matrice culturale determina la possibilità del pensiero utopico del XVI secolo. L’inconoscibile non è più la natura, essa è divenuta propriamente un fondo a disposizione dell’uomo. L’inconoscibile è l’intero ambito del possibile che l’immaginazione e l’intelletto possono indagare rendendolo conosciuto. Potenza della cultura, riflessa nel reticolo prospettico: le lingue, i codici, le grammatiche, ma anche interi paesi come Utopia, possono essere inventate. La cultura è riduzione e dunque astrazione, essa apre alla possibilità dell’immaginario come alterità e all’artificiale come ambito dell’agire umano. Non è possibile comprendere la questione della rappresentazione senza tener conto di questo passaggio epocale.

La forma acquista così, alle origini della modernità, un ruolo positivo. Essa non si pone più come nel mondo greco in modo problematico tra il visibile e l’invisibile, ma articola il rapporto tra il possibile, l’immaginario, e il conosciuto. La forma non limiterà più l’horror vacui dell’informe, ma delimiterà l’invenzione di mondi possibili. In questo riconosciamo le premesse, che serpeggeranno per tutta la modernità e che risulteranno evidenti nella contemporaneità, per una autonomia della

forma. La Modernità conosce la potenza della forma come apertura al possibile nel XVI e nel XVII

secolo, in cui il possibile e l’immaginario si incontrano con l’infinito. L’apertura all’infinito determina, in prima analisi, la necessità di una densificazione dei dualismi in unità complesse. Per indagare l’infinito senza perdersi in esso l’uomo è costretto a determinarsi come monade indissolubile. Solo determinando a priori questa paradossale unità del molteplice l’individuo può ancora costituirsi nella possibilità di conoscenza dell’infinita possibilità del reale. Il molteplice come articolazione dell’infinito è evidenziato dall’esplosione del punto di vista della prospettiva rinascimentale nella molteplicità dei

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punti di vista delle rappresentazioni barocche. Il reticolo prospettico si articola nel tentativo di contenere questa molteplicità, ripiegandosi: nascono le geometrie proiettive e le anamorfosi. Alla prospettiva centrale si sostituisce la prospettiva accidentale, si pongono le basi estetiche per la perdita del centro.

Ancora di più la monade leibniziana si pone come unica centralità densa possibile. Nel riportare le riflessioni di Michael Serres sulla geometria conica, Deleuze afferma che “in un mondo dell’infinito, o della curvatura variabile, che ha perduto ogni centro, l’importanza di sostituire il punto di vista al centro in declino” conduce ad un nuovo modello ottico “per una ‘architettura della visione’”, determinando “lo statuto dell’oggetto, che esiste soltanto attraverso le sue metamorfosi o nella declinazione dei suoi profili. (…) Il punto di vista è, in ogni campo di variazione, potenza di ordinare il

caso, condizione del manifestarsi del vero.”16 Il rapporto tra infinito e monade, tra informe e forma, si risolve nella tensione del visivo. Analogamente lo sviluppo del calcolo infinitesimale assicura la conoscibilità logica del possibile: l’individuo è il centro di ogni processo formale. Questo apparato teoretico conduce a due conseguenze notevoli. Da un lato il visivo individuale sarà anche il visivo sociale, da cui deriva l’importanza della monumentalità per il XVII secolo. Secondo Dorfles è il carattere profondo dell’unità spaziale nel visivo a determinare questo tendere verso il monumentale17, poiché il monumento sottende alla rappresentazione nel suo essere opera architettonica e sociale. Dall’altro lato l’importanza teoretica dell’individuo conduce ad una concezione della composizione della forma secondo il ritmo piuttosto che secondo una metrica. Nel suo Rinascimento e Barocco, Wölfflin afferma che “il movimento (…) appare come una serie ritmica in contrapposto con una serie metrica”. Vedremo in seguito che la questione del ritmo è fondamentale per comprendere il carattere politico e sociale del monumentale. Il ritmo, infatti, permette la misura dello spazio attraverso il tempo dell’uomo, ovvero attraverso il rapporto tra il proprio corpo e il mondo.

Non possiamo poi dimenticare il ruolo ricoperto dalla nascente scienza moderna e dalla prima produzione industriale nel delimitare la questione della forma nel XVII secolo. La tecnica della lavorazione della ghisa “può infatti manipolare tutte le forme in ogni modo.”18

Di fronte all’informe del possibile e ad un pensiero che si pone in modo sempre più autonomo nei confronti della natura il concetto di forma si pone come processo, come ambito di un transito logico. Ritroviamo questa riflessione nella seconda metà del XVIII secolo, nelle posizioni di Laugier sulla capanna originaria, riportate nel suo Essai sur l’architecture: per Laugier la capanna originaria non è solo un archetipo ma anche una procedura che assicura, fin dalle origini, il rapporto,

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attraverso la tecnica, tra l’uomo e la natura. L’essenza dell’architettura “sta nella sua logica costruttiva.”19 Si costituisce così, nel XVIII secolo, un nodo concettuale indissolubile, articolato tra forma, tecnica e artificio.

11. Autonomia della forma. Cruciale nelle nostre riflessioni sulle trasformazioni del concetto di forma è la comparsa, nel

1750, di Aesthetica di Baumgarten. Nasce l’estetica come disciplina autonoma, si determina teoreticamente la possibilità di “pensare alle arti come a modi del conoscere e non solo del fare.”20

Ulteriore conseguenza dell’estetica è la fondamentale autonomia concettuale della forma: le forme possono essere prodotte dal pensiero, esse costituiscono in tal modo il fenomeno più evidente dell’indipendenza dell’uomo dalla natura. Il testo di Baumgarten prefigura il pensiero romantico e la sua problematica del genio. Il genio sarà individuo libero e autonomo, i limiti del suo agire saranno il tema dominante del pensiero kantiano: il tempo e lo spazio costituiranno, in accordo con la scienza moderna, il recinto del suo operare e del suo pensiero. Non intendiamo qui approfondire le connessioni tra la cultura romantica e quella idealista, quanto ci interessa rilevare è la caduta del valore fondativo della mimesi. La tecnica e l’estetica conoscono un periodo denso di trasformazioni interne tra il XVIII e il XIX secolo, trasformazioni che si intrecciano con i profondi mutamenti politici in ambito europeo di quello stesso periodo storico. La caduta della mimesi è la premessa teoretica di una totale indipendenza della forma: se il moderno era caratterizzato da un’apertura verso il possibile e dalla sua occupazione secondo una logica del dominio, la nascente contemporaneità si caratterizza per un’apertura del comporre verso il progettare. Il possibile, grazie alla tecnica e ad una forma intesa come concetto logico, diviene realizzabile. Evidenza di questo passaggio è la concreta realizzazione degli insediamenti residenziali di matrice positivista, come il Familisterio realizzato da Godin a Guise nel 1859-1870. L’autonomia della forma (nell’arte, nell’architettura, ma soprattutto nella città) impone la ricerca di un nuovo termine in grado di determinare un equilibrio possibile. Ciò porterà, come abbiamo visto in precedenza, ad un recupero storico della tradizione e al concetto del monumento. Il progetto sarà da allora progetto della memoria passata e pro-jectum del futuro possibile.

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Si costituiscono così le basi culturali della contemporaneità, segnate dalle due grandi rivoluzioni: la Rivoluzione francese e la Rivoluzione industriale. Per entrambe la forma diviene concetto nodale in grado di assicurare un controllo del mondo: la forma politica e la forma della produzione determinano una diffusione dell’estetico, il quale costituirà una problematica centrale per tutto il XX secolo. Posta di fronte alla problematica della produzione industriale, la cultura contemporanea tenterà di articolare la dualità originaria della forma, ovvero quella intrinseca processualità logica che segna il transito tra eidos e morphè. Il campo di queste riflessioni rimane la tecnica, di fronte alla quale la forma risulterà l’estrema possibilità di una dimensione umana del mondo artificiale. Se eidos e morphè, nella cultura classica, erano forme del rapporto tra l’uomo e il trascendentale, esse risultano in un certo modo riunite nel concetto contemporaneo di forma, mentre schèma, attraverso la sua traduzione latina habitus, condurrà all’abitare. La riunificazione di eidos e morphè è possibile solo passando attraverso l’eliminazione dalla cultura contemporanea di ogni trascendenza metafisica, tale per cui la forma si pone in modo autonomo, pur mantenendo in sé tracce della propria processualità logica. Nell’abitare rimarranno invece racchiuse le questioni esplicitamente politiche del rapporto progettuale che lega l’uomo al proprio mondo/ambiente/habitat; gli ambiti specifici dell’abitare saranno la tecnica e il sacro (il quale non implica necessariamente una trascendenza, ma, al limite, la memoria dell’origine).

12. Forma e logotecnica: fondamento del paradigma. La forma acquista tutta la sua dirompente problematicità nella cultura estetica del

Novecento. Scrive Mario Perniola: “è implicito (…) nel concetto di forma il riferimento ad alcunché di oggettivo e stabile, che sembra convenire molto bene all’essenza dell’opera d’arte: nei confronti del continuo ed inarrestabile scorrere del tempo, l’appello alla forma manifesta la pulsione a superare il carattere effimero, caduco, perituro del vivere. Tuttavia sbaglierebbe chi considerasse l’esperienza estetica novecentesca come motivata soltanto dall’ammirazione per l’infinita stabilità della natura o per la permanenza di un ‘monumento più perenne del bronzo’: ciò che anima l’appassionante vicenda del formalismo novecentesco non deriva semplicemente dal desiderio di vincere la morte nella contemplazione o nella produzione di entità imperiture. La pulsione verso la trascendenza che sta alla base dell’estetica della forma non si arresta dinanzi alla bellezza della natura, che

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rinnovandosi ciclicamente resta sempre uguale a se stessa, né dinanzi alla bellezza dell’oggetto artistico la cui stabilità sembra sfidare i secoli (…). L’estetica della forma novecentesca sembra occupare invece uno spazio intermedio tra la divinizzazione della forma e la sua demonizzazione, tra l’esaltazione della bella apparenza e la sua denigrazione, tra idolatria e iconoclastia.”21

Ciò che una possibile storia dell’estetica (che nasce come indagine sulla verità del sensibile per poi rivolgersi alla verità del bello), di tutta l’estetica (ovvero dell’arte ma anche dell’architettura), evidenzierebbe è la necessità da parte della cultura occidentale di ricondurre la forma all’uomo, ovvero di riportarla al di qua della trascendenza, al più intendendola come un tramite con la trascendenza.

Tenteremo di ritrovare questo carattere fondamentalmente processuale della forma, carattere che spesso è stato ridotto al suo essere risultato di un processo formativo/conoscitivo. In questa continua traslazione del concetto di forma tra l’universale e il particolare, tra il visibile e l’invisibile, tra l’essere dato sensibile e categoria di conoscenza sta tutto il problema della metafisica e del sacro nell’occidente.

Perché rivolgersi al sacro? Perché se la forma nella contemporaneità ha raggiunto uno statuto di autonomia, non più teso ad un rapporto con la natura, si tratta qui di definire quali siano gli orizzonti possibili di tale autonomia. Dobbiamo comprendere che tale condizione della forma deriva dal lungo processo di occupazione del possibile della modernità. Il risultato della modernità è infatti la scomparsa dell’orizzonte naturale e della metafisica, ovvero di quella forma delle forme di cui abbiamo parlato in precedenza (cfr. § 9. Origini del concetto di forma). Il nuovo orizzonte, che abbiamo tentato di descrivere anche per la città, è quello dell’artificiale. Anche qui dobbiamo necessariamente soffermarci sulle conseguenze derivanti da questa affermazione. Se nella teoria classica dell’architettura l’orizzonte mimetico della disciplina era la natura, di fronte alla quale, modernamente, l’architettura si poneva con una logica di dignitoso dominio, nel totalmente artificiale della contemporaneità l’architettura non potrà più porsi che in relazione con se stessa, artificio tra gli artifici.

Condizione analoga a quella del soggetto contemporaneo (cfr. Capitolo 4), essa impone l’abbandono di ogni metafora organica e macchinistica (poiché tali metafore avevano la necessità di un orizzonte naturale). Di fronte a tale autonomia la forma non può che porsi in uno stato di relazione continua con se stessa, per cui dalla metafora si giunge all’analogia, ovvero al continuo rimando. Lo stesso linguaggio, i cui limiti di autosignificanza sono stati rivelati dall’ipertrofia e dal pastiche post-moderno, è condotto ad essere da un lato retorica e dall’altro concetto.

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Ma il misurarsi con il concetto implica una riflessione sulle logiche e sui paradigmi prima che sulle linguistiche. In questa condizione di autoreferenzialità della forma e del soggetto (e quindi anche dell’architettura) dobbiamo chiederci quale sia la possibilità, oggi, di stabilire un fondamento in grado di ricondurre l’architettura a se stessa, dal momento che essa sembra aver subito una dissoluzione nell’informe. Riteniamo che il dato originario dell’architettura sia, per quanto detto finora, il suo essere logica, il suo essere possibilità di un pensiero progettante; questa sua logicità è, oggi, il dato più evidente e irrinunciabile dell’architettura. E’ su di essa che oggi si riaprono questioni determinanti, che conducono alla dimensione poetica come capacità, da parte del soggetto, di articolare nuovamente tecnica, costruzione e forma nell’autoreferenzialità contemporanea dell’architettura.

Se questa condizione deriva dalla scomparsa del principio normativo della natura, per comprendere il contemporaneo dobbiamo risalire alla separazione originaria dalla natura, ovvero alla dimensione del sacro sottesa nel monumentale. Solamente comprendendo la densità delle relazioni compositive (e, come vedremo nel capitolo seguente, anche politiche) sottese al sacro, riusciremo a delineare adeguatamente la condizione contemporanea.

La metafisica e il sacro rappresentano in modi differenti il rapporto che l’uomo occidentale ha con il concetto di unità, che è caratteristica fondamentale per quanto riguarda la definizione del centro. Articolando poi la metafisica e il sacro rispetto alla disciplina architettonica potremmo ridurre queste due grandi ambiti alla forma da un lato e al tempo dall’altro. Metafisica e sacro non sono perfettamente scindibili in due ambiti distinti, essi ammettono reciproche contaminazioni, che qui possiamo riconoscere nella questione specifica della tecnica.

La metafisica è la trascendenza della forma, è, per riduzione, la verità della forma. Quando Platone forza il termine greco eidos per ricondurlo al significato di verità invisibile della forma visibile costituisce un al di là della forma che fonda il concetto occidentale di metafisica. Tutto ciò che viene creato dall’uomo attraverso il suo fare (poiein) si rivolge alla metafisica come forma delle forme, come fosse un illimitato fondo immutabile che assicura la verità di quanto viene fatto. Tale concetto limita necessariamente il fare all’ambito della mimesi della natura in quanto manifestazione sensibile della metafisica. Essa però non rivela le sue forme, quanto piuttosto le contiene. Ogni atto poetico dovrà interrogare la natura, rivelarne i caratteri formali e fondare su di essi il proprio fare. Heidegger, ultimo grande pensatore della metafisica, indica questo processo come disvelamento: “la pro-duzione conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza. Pro-duzione si dà solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza. Questo venire si fonda e prende avvio in ciò che chiamiamo

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disvelamento. I greci usano per questo la parola aletheia. I romani la traducono con veritas. Noi tedeschi diciamo Warheit (verità) e la intendiamo comunemente come esattezza (Richtgkeit) della rappresentazione.”22

Riflettiamo ora sull’origine del sacro. Esso è fondamento di un principio di realtà, intendendo la realtà come ciò che può essere indagato dal pensiero, ciò che ha forma evidente, ordine visibile. Ciò che è reale è sacro perché ha il suo fondamento su di un sacrificio: l’uomo sottrae all’indeterminato (all’informe) della natura ciò che gli necessita, dandogli, attraverso questa sottrazione, forma. Il reale non altro principio fondante che quello di essere il caotico reso riconoscibile attraverso la sua messa in forma. Il sacrificio da cui si origina il sacro è il tentativo da parte dell’uomo faber di ricostituire l’integrità (l’unità) della natura attraverso un’offerta apotropaica, propiziatoria. Memoria di questa origine del sacro sono la radura e il tempio, atto originario, duplice, di sottrazione dalla natura di uno spazio vuoto e della successiva delimitazione di esso attraverso un recinto (il temenos), che ha la funzione di separare la forma ordinata (e quindi sacra) dal caotico naturale.

Metafisica e sacralità riguardano dunque entrambi la funzione originaria della forma di creare un ordine che si opponga al caotico.

Lo spazio (architettonico) sarà quindi, originariamente, il primo prodotto di questo processo di formazione: lo spazio consacrato avrà forma mentre lo spazio profano sarà a-morfo. Il kósmos identificherà la fragile unità di questo spazio consacrato e messo in forma; in esso sarà possibile la geometria, ovvero la misura; in esso sarà possibile la costruzione; in esso sarà possibile la composizione, poiché il caotico naturale verrà ad-domesticato (ovvero sarà reso luogo per l’abitazione, la domus, dell’uomo) e suddiviso in elementi messi a disposizione per ogni ulteriore processo di formazione; in esso sarà possibile, in ultima istanza, abitare. Dunque il nostro paradigma (articolato tra il centro e il vuoto) ha le proprie radici in una riflessione sull’origine e sul suo essere fondamento dell’abitare.

La creazione del kósmos riguarderà un processo di dare forma alla natura attraverso la tecnica in funzione dell’abitare. Originariamente la tecnica è strumento fondativo del sacro e si pone invece in modo problematico rispetto alla metafisica. La tecnica, potremmo dire, accoglie la dualità originaria che fonda anche l’architettura nel suo duplice carattere di artificio e liturgia, rituale. La tecnica costituirà dunque in certa misura il limite interno dell’architettura, proprio perché conserva, unitamente all’idea di forma come processo, memoria dell’origine del kósmos, memoria archetipica che si riscopre negli etimi.

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Potremmo anzi affermare che la tecnica, nella cultura classica, in certa misura, si pone come un a-priori rispetto alla formazione. La tecnica, soprattutto quella costruttiva, è, originariamente, sacrale. Scrive Roberto Masiero: “il passaggio dal mondo preistorico a quello storico è caratterizzato da una progressiva normalizzazione del sacro. La sua terribilità dionisiaca è lentamente, ma inesorabilmente, diventata pietra, si è fatta monumento. E’ rimasto qualcosa di quella terribilità nelle pietre ben lavorate? C’è qualcosa che sta prima della stessa possibilità che il tempio sia imago mundi? Detto in altri termini, Apollo, che è ordine e misura, nasconde forse in sé Dioniso? Nelle belle forme ci sono ancora i segni del tremendo? Quando si pensa al bello bisogna, forse, prima pensare al sacro?”23

La possibilità che pensare alla bella forma significhi anche un pensare al sacro rimanda ad una questione fondamentale per la nostra ricerca. Se ammettiamo che il monumento debba recare in sé la terribilità del sacro, ovvero se il monumento debba conservare in sé traccia di quel fondamento originario, così vicino all’unità da esserne sempre momento immediatamente successivo, allora la nostra ricerca dovrà ripercorrere i sentieri rarefatti e dimenticati del sacro. Se il sacro non fosse più la memoria archetipica più profondamente nascosta nel monumento, se fosse rimasto solamente il carattere monumentale come pura materialità in cui la forma astratta si manifesta costruttivamente allora dovremmo ammettere anche che non esista più una città in cui sia possibile abitare, una città in cui la forma non indica più alcun processo, ma un puro gioco matematico geometrico. Non si tratta qui di ipotesi nostalgiche, si tratta al contrario di ricordare quali siano i fondamenti originari della disciplina architettonica. Se il sacro fonda originariamente la misura del mondo, allora l’architettura, come disciplina conoscitiva, si rivolge continuamente al sacro. Senza questa continua rifondazione dell’origine (diremmo meglio ricordo dell’origine, poiché stiamo parlando del monumento) il progetto d’architettura che intenda essere monumento si perde inevitabilmente nella concezione estetica (intesa qui nel senso di apparenza monumentale) e funzionale.

Senza il ricordo dell’origine il monumento diviene accumulazione archivistica di permanenza storica. Questo non preclude l’esistenza del monumento, tuttavia produce almeno due conseguenze: da un lato trascina il monumento-permanenza verso lo storicismo, verso una dimensione compiuta del tempo24, che si pone in modo assoluto rispetto al tempo, memoria scritta, depositata negli annali; dall’altro preclude in modo determinante la possibilità di riconoscere la città attraverso il processo (tutto architettonico) di formazione-progettazione della città stessa. In altre parole non si intende qui assumere un atteggiamento di critica negativa a quello che potremmo definire progetto storico di

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conoscenza della città, tuttavia si vuole mettere in risalto il fatto che tale atteggiamento, radicalizzato e reso assoluto, corre il rischio di considerare la città come un documento la cui lettura non ha altro interesse se non quello di condurre alla museificazione.

Il progetto di un monumento deve sottendere un rapporto col sacro, ma per questo, come abbiamo visto, anche un rapporto con la tecnica. In questo, originariamente, si fonda il carattere del monumentale, ovvero su una dimensione che chiameremo logo-tecnica. Cosa identifica tale dimensione? In che modo essa può assumersi il compito del progetto del monumento? L’intera ricerca tenterà di dare risposta a tali quesiti, nell’intenzione di ritrovare la dimensione politica del monumento e della città contemporanea25.

13. Origini e trasformazioni del monumentale. La genesi e le trasformazioni del concetto di monumento costituiscono un punto importante

per le nostre riflessioni. Non intendiamo dar conto qui dell’intero corpo teorico che si è sviluppato attorno a tale concetto, quanto piuttosto delimitare a partire da esso quei principi che riteniamo determinanti per la nostra trattazione.

Il concetto di monumento storico è precedente al riconoscimento della città in quanto luogo

primo dell’agire umano. Esso risale al XVIII secolo, ed è originariamente articolato secondo un recupero museologico della tradizione storica e per le sue valenze estetiche. Le discipline che si occupavano del monumento erano quindi la storia e la storia dell’arte. Esso era inteso alla stregua di documento di un passato disincarnato, non era ancora inteso nella sua accezione di rappresentazione di valori universali o di identità di un popolo. Nell’ambito specifico dell’architettura compare il concetto, per certi versi analogo, di monumento architettonico figurativo. Il disincarnato della storia risulta analogo all’emblematica astrazione delle forme utilizzate nel monumento figurativo: il tempo eterno e sospeso costituisce la categoria che domina incontrastata in tale figurazione. “In questa nuova fase si ritorna alle forme pure ed elementari della geometria: si ricercano le superfici lisce, la grandiosità delle masse, la calma solenne e l’espressione di tutto ciò che è eterno e indistruttibile. Ci si accorge ora che l’architettura raggiunge nel monumento commemorativo e in quello funerario la sua espressione più pura.”26 L’architettura tende al monumentale per mostrare alle generazioni future la grandezza della propria epoca. E la grandezza

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del XVIII secolo risiede nella propria particolare propensione al deismo, in cui la divinità rimane oscura, impersonale e sconosciuta. Il culto dell’eternità contiene il senso originario dell’architettura, il suo essere progetto del fondamento. Questa è l’originaria matrice culturale e cultuale del monumento architettonico. Essa è legata indissolubilmente ad una forte concezione rappresentativa dell’architettura, la quale aveva il compito di innalzare monumenti per celebrare una visione totalitaria della società. Il monumento costituisce un cosmo a sé stante, non ha alcun rapporto con la città intesa come luogo dell’agire umano. Esso ha un rapporto profondo con la trascendenza, con l’invisibile. Internamente è oscuro, quasi impenetrabile, mentre esternamente rinvia alla grandiosità del pensiero illuminista.

L’artefice umano lo concepisce come idea, separandosene immediatamente per dimenticare di esserne stato lui stesso l’artefice. Il luogo della sua rappresentazione non è tanto la città quanto la campagna, l’immutevolezza del monumento ha la necessità di avere la ciclicità temporale della natura come cornice. La contemplazione del monumento costituisce così l’unico rapporto possibile tra l’eterno e l’umano.

Il primato della visione monadica barocca costituisce in questo periodo le basi per l’individualismo illuminista. In tale individualismo è il soggetto che nel suo sguardo assoluto assicura coerenza alla complessa rappresentazione dell’infinito. Monade e infinito si pongono, nell’epoca barocca, in un rapporto di reciprocità. L’individuo monadico si presenta come unità completa e assoluta, assicura quindi un fondamento stabile di fronte alla complessità delle forme barocche. Anzi, esse assumono una propria trascendente stabilità proprio grazie allo sguardo assoluto dell’individuo. Il passaggio all’epoca illuminista mantiene culturalmente il ruolo fondante del soggetto monadico, forzando tuttavia un passaggio fondamentale dal primato della visione al primato del pensiero assoluto, senza tempo e senza luogo. E’ il pensiero assoluto che ha la potenza di stabilire una logica di dominio sul mondo. E tale dominio si manifesta in forme assolute che manifestano quanto sia solamente l’individuo la vera divinità per l’individuo stesso. Tuttavia tale ricorsività deve necessariamente essere spezzata. La divinità allora deve venire necessariamente nascosta

nell’ombra che viene ottenuta all’interno del monumento architettonico. Solo così l’individuo potrà credere.

Nel XIX secolo la cultura occidentale comincia a riflettere sulle conseguenze per la città del nascente capitalismo. La produzione industriale costringe a porre la città al centro della cultura. Questo passaggio epocale è lungo e ricco di contraddizioni interne. L’individuo libero rimane ancora il fondamento dei fenomeni culturali. Scrive Lewis Mumford che “base di questo sistema,

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nell’ideologia del tempo, era considerata la cellula-individuo: nel garantire la sua proprietà, nel proteggere i suoi diritti, assicurare la sua libertà di scelta e di iniziativa, consistevano tutti i doveri del governo. Questo mito dell’individuo libero da vincoli era in realtà la traduzione democratica del concetto barocco del principe assoluto: ogni uomo intraprendente cercò allora di essere un despota nell’ambito del suo diritto.”27 I fenomeni della congestione urbana, dello sviluppo potenzialmente illimitato della “città paleotecnica” e della sua complessiva caoticità conducono alla necessità di ripensare il rapporto tra la città e i suoi abitanti.

Nel 1867, in Das Kapital, Karl Marx sviluppa il concetto di soppressione della differenza tra città e campagna e nel 1864 Cerdà conia il neologismo urbanistica per dare un nome alla scienza

delle città. Si viene a determinare così da un lato un legame strettissimo tra la città e la produzione capitalistica e dall’altro il riconoscimento della città in quanto luogo primo della civiltà occidentale. Tuttavia il culto settecentesco della ragione doveva trovare il proprio campo di applicazione solamente nell’ambito della produzione, mentre la città rimaneva luogo di una generale dissoluzione strutturale e formale. “Gli edifici del passato sopravvissuti, fra i quali ce n’erano molti utili, suscettibili di diventare con una trasformazione, idonei ad una vita di livello più alto che non gli edifici che li rimpiazzavano, furono spazzati via in quasi tutte le città in sviluppo, durante l’Ottocento, in una furiosa febbre demolitrice.”28 Se, secondo Mumford, l’industrializzazione fu la causa principale di questo “collasso della forma”, alla fine del XIX secolo si sviluppò un antitetico culto dell’antico.

Le sue premesse culturali vanno ritrovate nelle riflessioni di John Ruskin29 sul valore, in quanto patrimonio storico del passato, degli ambienti urbani. Per Ruskin la città antica è preziosa innanzitutto per motivi morali: essa ha il potere di radicarci nella temporalità e nello spazio. Tuttavia tale radicamento si fonda su “una reminescenza generale, vaga, come un rumore (voicefulness) che pervenisse, sordo e confuso, fino ad un osservatore ben installato, qui ed ora, nel presente della sua storicità.”30 Il monumento non ha più quella voce chiara che gli architetti rivoluzionari gli avevano affidato, essa comincia a divenire sempre più silente di fronte al boato della produzione industriale. Le riflessioni di Ruskin conducono a due risultati determinanti: da un lato esse evidenziano come il patrimonio storico possa contenere una diffusa umanità, di cui si può essere ancora partecipi empaticamente. Il concetto di manufatto accoglie questa particolare accezione morale del patrimonio storico come reminescenza del fare artigianale (e dunque pre-industriale) dell’uomo. Questa propensione per il patrimonio pre-industriale evidenzia ancora uno straordinario intreccio tra il suo lato poetico (ovvero derivante dal poiein, dal fare umano) e il suo lato documentaristico. Non si è ancora compiuta quella separazione tra il monumento come documento storico e monumento come

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espressione poetica. Dall’altro lato si pone in evidenza come, nel nome di un sentire che viene romanticamente delegato all’individuo, si costituiscano, a partire dalle riflessioni di Ruskin, le premesse per l’introduzione, all’interno della città, di una molteplicità di tempi. Vedremo in seguito (cfr. Cap. 2) come questo rifletta pienamente la cultura capitalistica allora nascente. Si pongono dunque, nella seconda metà del XIX secolo, le premesse per una concezione culturale della produzione che si svilupperà pienamente con il post-moderno. Le ipotesi di un ritorno al mondo pre-industriale avanzate da Ruskin conducono quindi, sul lungo periodo, a un effetto opposto a quanto proponevano. Infatti la determinazione di parti di città da preservare come patrimonio storico tende inevitabilmente alla parcellizzazione di tempo e di spazio che costituisce la premessa della produzione capitalistica.

Il primo straordinario effetto del pensiero ruskiniano è la nascita di un pensiero museale, corroborato dalla forza idealistica della Storia. Il pensiero museale è caratterizzato dalla conservazione del documento storico, sia esso una parte di città, un edificio o un oggetto. Si evidenzia così lo scollamento di quell’unità empatica che accoglieva in sé il dato poetico, il dato documentaristico e la possibilità da parte dell’individuo di parteciparvi attraverso il sentimento. In questo passaggio “la città antica perde la sua storicità divenendo storica.”31 Il problema diventerà allora quali siano i modi di porsi nei confronti del patrimonio storico e in che modo la Storia possa costituire una disciplina in grado di fondare ciò che sembra ormai essere irrimediabilmente perduto. Lo storicismo critico di Viollet-le-Duc e di Sitte si pone questo problema, ricercando criticamente nella città antica quei modelli sovrastorici in grado di costituire un sistema morfologico ed estetico nel presente. Viollet-le-Duc e di Sitte riconoscono l’impossibilità del ritorno alla città pre-industriale, tuttavia, attraverso le loro modellizzazioni, credono in un recupero di ciò che per loro è il dato immutabile e sovrastorico. Tuttavia Viollet-le-Duc è consapevole che la pesantezza della memoria storica (il lato più conservativo del pensiero museale) può minare questa propugnata ricerca di modelli. Per tale ragione si spinge, nei suoi Entretiens sur l’architecture, in una apologia dell’oblio: “A tutti quanti ci dicono oggi ‘Seguite un’arte nuova che appartenga al nostro tempo’ rispondiamo ‘Fate sì che ci si possa scordare di quest’enorme ammasso di sapere e di critica (…) Fate che il secolo del dubbio non esista più, che tutte le tradizioni non abbiano ad essere minate da questo dubbio, tutti i sistemi capovolti (…); dateci istituzioni tutte d’un pezzo, costumi e gusti non ricollegati al passato (…). Fate sì che ci si possa dimenticare di tutto quanto si è fatto prima di noi. Allora avremo un’arte nuova ed avremo fatto ciò che non si è mai visto; perché se è difficile per l’uomo imparare, gli è ben più difficile dimenticare.”

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Il monumento si pone quindi, alla fine del XIX secolo, come un concetto intimamente duale. Se da un lato esso accoglie la possibilità di contenere in sé quei modelli che costituivano la città pre-industriale (e per questo esso è, in una logica che si opponga all’intima confusione della città industriale, fondamento teorico di un nuovo ordine), dall’altro lato esso costituisce anche il principio di un pensiero museale, che non intende superare criticamente la concezione memoriale del passato. Tale concezione memoriale conoscerà, con il fenomeno attuale della mercificazione

culturale, un intenso sviluppo nel XX secolo. Viollet-le-Duc rilevava la necessità dell’oblio come premessa di una distanza critica dalla

continuità avvolgente del passato, continuità che tuttavia assicurava il fondamento stesso delle sue modellizzazioni. Dobbiamo quindi spingerci, in questa nostra ricerca sul concetto di monumento, verso i grandi sconvolgimenti culturali, politici e sociali che segnarono la prima metà del XX secolo. Le Guerre Mondiali costituirono infatti una netta cesura nella continuità storica, rilevando in modo macroscopico le conseguenze terribili della tecnica e determinando la distruzione di intere città. Queste sono le radici del Movimento Moderno, il quale ebbe il compito di ricostruire il mondo occidentale.

14. I Nove Punti sulla monumentalità. La rottura della continuità venne così a costituire le premesse di una nuova riflessione sulla

monumentalità in termini positivi. Nel 1943 Sigfried Giedion, segretario permanente dei CIAM, scrisse il manifesto per una nuova monumentalità che tentava di rivolgersi al proprio presente in termini esplicitamente progettuali. Per la prima volta un manifesto culturale rilevava la possibilità di costruire nuovi monumenti per dare ragione di una necessità intimamente politica del monumento. Così Frampton descrive il contesto culturale dei Nove punti sulla monumentalità di Giedion, Legèr e Sert: “E’ ironico il fatto che la fine della Nuova tradizione e il trionfo del Movimento moderno dovessero coincidere con una reazione in favore della monumentalità, che proveniva dal cuore del Movimento stesso (…). Questo manifesto programmatico – destinato a diventare la sintesi dell’VIII CIAM del 1952 – formulava un approccio molto acuto al problema della rappresentazione, che sembra altrettanto valido quanto lo era al momento in cui fu espresso per la prima volta. In primo luogo vi è il riconoscimento del fatto che né la monumentalità della Nuova tradizione, né il

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funzionalismo del Movimento moderno erano in grado di rappresentare le aspirazioni collettive del popolo. (…) Negli anni che seguono il 1943, la questione della rappresentazione – il fondamentale problema del significato in architettura – si ripresentava costantemente, sempre accolta dalla repressione e dal rifiuto, oppure dalla sua evasiva riduzione nei limiti dell’espressione, supposta spontanea e perciò popolare, della pubblicità e dei mass media, nel quadro dell’economia dei consumi.”32

Riportiamo qui la traduzione completa dei Nove Punti33: 1- I monumenti sono punti di riferimento umani che gli uomini hanno creato come simboli dei loro

ideali, dei loro obiettivi e delle loro azioni. Essi sono destinati a sopravvivere al periodo che li ha

generati, e costituiscono una eredità per le generazioni future. In quanto tali, costituiscono un

legame tra passato e futuro.

2- I monumenti sono l’espressione delle più alte aspirazioni culturali dell’uomo. Devono soddisfare

l’eterna esigenza del popolo di tradurre la sua forza collettiva in simboli. I monumenti più vitali

sono quelli che esprimono il sentimento e il pensiero di questa forza collettiva del popolo.

3- Ogni periodo passato che ha formato una reale cultura aveva il potere e la capacità di creare

questi simboli. I monumenti sono, quindi, possibili solo nei periodi in cui esistono una coscienza

e una cultura unificanti. Periodi che esistono per un breve momento sono stati incapaci di creare

monumenti duraturi.

4- Gli ultimi cento anni hanno visto una svalutazione della monumentalità. Questo non significa

affatto che vi sia un’assoluta mancanza di monumenti o di esempi architettonici, che pretendono

di servire a questo obiettivo, ma i cosiddetti monumenti di data recente sono diventati, con rare

eccezioni, degli involucri vuoti. Essi non rappresentano in alcun modo lo spirito e il sentimento

collettivo dei tempi moderni.

5- Il declino e il disuso della monumentalità è la ragione principale del fatto che gli architetti

moderni hanno deliberatamente ignorato il monumento e si sono rivolti contro di esso.

L’architettura moderna, come la pittura moderna e la scultura moderna, dovevano intraprendere

una difficile via. Cominciò affrontando i problemi più semplici, gli edifici più utilitari come le

abitazioni a basso costo, le scuole, gli edifici per uffici, gli ospedali e altre strutture simili. Oggi gli

architetti moderni sanno che gli edifici non possono essere considerati unità isolate, che devono

essere incorporati nei più vasti schemi urbani. Non ci sono frontiere tra l’architettura e

l’urbanistica, così come non ci sono confini tra la città e la regione. La correlazione tra di essi è

necessaria. I monumenti dovrebbero costituire gli accenti più forti in questi vasti schemi.

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6- Ci troviamo di fronte ad un nuovo passo. Le trasformazioni postbelliche nella struttura

economica complessiva delle nazioni possono portare con sé l’organizzazione di una vita

comunitaria nella città che è stata praticamente trascurata fino a questo momento.

7- Il popolo vuole che gli edifici che rappresentano la vita sociale e comunitaria forniscano

qualcosa di più che una risposta funzionale. Essi vogliono che venga soddisfatta la loro

aspirazione alla monumentalità, alla gioia, all’orgoglio e all’eccitazione. La soddisfazione di

questa richiesta può essere ottenuta mediante nuovi significati espressivi, anche se non è

compito facile. Le seguenti condizioni sono essenziali: essendo il monumento l’integrazione tra il

lavoro del pianificatore, dell’architetto, del pittore, dello sculture e del paesaggista, richiede una

stretta collaborazione tra tutti loro. Questa collaborazione non è stata raggiunta negli ultimi cento

anni. Molti architetti moderni non sono in grado di affrontare questo lavoro integrato. Il compito di

raggiungere il monumentale non poteva esser loro affidato. Come regola, quelli che governano e

amministrano i popoli, brillanti come sono in determinati campi, rappresentano l’uomo medio del

nostro periodo nei loro giudizi artistici. Come questo uomo medio, sperimentano una

separazione tra i loro metodi di pensiero e i loro modi di sentire. Il sentire di coloro che

governano e amministrano le nazioni non è allenato ed è ancora imbevuto degli pseudo-ideali

del diciannovesimo secolo. Questo è il motivo per cui essi non sono in grado di riconoscere le

forze creative del nostro periodo, che da sole potrebbero costruire i monumenti o gli edifici

pubblici che potrebbero essere integrati nei nuovi centri urbani che possono formare una vera

espressione della nostra epoca.

8- Devo essere pianificati luoghi per i monumenti. Ciò sarà possibile una volta che la

ripianificazione venga riportata ad una larga scala che creerà grandi spazi aperti nelle decadenti

aree delle nostre città. In questi spazi aperti, l’architettura monumentale troverà quella propria

localizzazione che ora non esiste. Gli edifici monumentali non possono essere ammucchiati

negli scompaginati siti di ogni distretto. Solo quando si otterrà questo spazio i nuovi centri urbani

potranno nascere.

9- Sono disponibili materiali moderni e nuove tecniche: strutture metalliche leggere; archi di legno

lamellare; pannelli di differenti tessiture, colori e dimensioni; elementi leggeri come coperture

che possono essere sospese da grandi impalcature di legno a coprire luci praticamente

illimitate. Elementi mobili possono costantemente variare l’aspetto degli edifici. Questi elementi

mobili, cambiando posizione e generando ombre quando vengono mossi dal vento o da sistemi

meccanici, possono essere sorgente di nuovi effetti architettonici. Durante le ore notturne, colori

e forme possono essere proiettate su vaste superfici. Queste proiezioni possono essere

generate sugli edifici per pubblicità o propaganda. Questi edifici dovrebbero avere grandi

superfici piane progettate per questo scopo, superfici che oggi non esistono. Queste grandi

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superfici animate dall’uso di colore e movimento in un nuovo spirito offrirebbero campi

inesplorati ai pittori di murales e agli scultori. Elementi naturali, come alberi, piante e acqua

completerebbero il quadro. Potremmo raggruppare questi elementi in ensamble architettonici: le

pietre che sono sempre state usate, i nuovi materiali che appartengono al nostro tempo, e il

colore in tutta la sua a lungo dimenticata intensità. Paesaggi artificiali verrebbero correlati ai

paesaggi naturali e agli elementi organizzati nelle nuove e vaste facciate, a volte estendendosi

per molte miglia, che si mostrerebbero a noi tramite una vista aerea. Questo sarebbe

contemplato non solo durante un volo rapido ma anche da un elicottero fermo nell’aria.

L’architettura monumentale sarà qualcosa in più che strettamente funzionale. Essa avrà

riconquistato il suo valore lirico. In questi layout monumentali, l’architettura e l’urbanistica

potranno ottenere una nuova libertà e sviluppare nuove possibilità creative, come quelle che

abbiamo cominciato a sentire nelle ultime decadi nei campi della pittura, della scultura, della

musica e della poesia.

Alcune considerazioni su questo manifesto del 1943 servono a individuare i punti salienti della nostra ricerca. Non intendiamo qui riaprire questioni irrisolvibili (e irrisolte) sul rapporto tra l’architettura e l’urbanistica, o tra architettura e arti (poesia, pittura, musica), ma ci interessa rilevare come si presentasse urgentemente in quel 1943 la necessità di una tensione positiva verso un superamento. Storicamente riconosciamo il fatto che quello che era stato probabilmente voluto da un Giedion immigrato negli Stati Uniti non sia stato mai ufficialmente pubblicato, se non come documento appunto storico del clima della cultura architettonica di quel periodo. Riconosciamo anche il fatto Giedion ricercasse la monumentalità attraverso una modalità che potremmo definire riduttivamente sovrastorica, considerando la tecnica come problema (e anche come pericolo, a partire dal suo Mechanization takes command del ’38, fino alla conferenza tenuta da M. Heidegger nel novembre del ’53 a Monaco) ma anche come mezzo in grado di ricondurre ad una unione delle

arti, attraverso la quale superare l’idea di progresso a favore di una generale umanizzazione del mondo34.

Il punto di vista di Giedion, che chiamò a collaborare con lui nella stesura dei Nove Punti lo spagnolo Sert, membro dei CIAM, e il pittore cubista Léger, può apparire intriso di una ‘nostalgia del futuro’, tuttavia pone le basi di un possibile pensiero sulla monumentalità che ha dato i suoi frutti (nascosti) nella stessa Europa.

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Si tratta di fenomeni, e questi fenomeni introducono a delle problematiche, parte delle quali verranno affrontate qui di seguito. Non si ha la pretesa qui di risolvere tali problematiche (esse sono, appunto, irrisolvibili), ma di riaprire alcune questioni per riportare ad una riflessione sul ruolo politico dell’architettura.

15. Il monumento come concetto. Il monumento pone una questione determinante per l’architettura, ovvero il rapporto tra

monumentalità e costruzione. Lo scontro si svolge nel campo della funzione: ricordiamo l’affermazione di Adolf Loos, secondo il quale “soltanto una piccolissima parte dell’architettura appartiene all’arte: il sepolcro e il monumento. Il resto, tutto ciò che è al servizio di uno scopo, deve essere escluso dal regno dell’arte”.

Il monumento si pone dunque propriamente come opera nella quale è in gioco il rapporto tra arte e architettura, tra utile e inutile, tra progetto e memoria storico-retrospettiva, tra estetica e politica.

In quanto costruzione il monumento è un’eccezione. La sua diversità lo rende identificabile dal suo contesto, per carattere o per dimensioni.

In quanto memoria esso permette il ricordo (e allora ricade nel tempo storico) o esorta al pensiero. Sintomatico è il termine tedesco che indica il monumento, ovvero Denkmal, composto di denk ( che deriva da denken, ovvero pensare) e mal (che indica sia l’esortativo di denk che il momento). Dunque Denkmal è interpretabile sia come momento di pensiero che come forma imperativo esortativa di denken, ovvero pensa. Si nota qui una singolare differenza con l’origine latina del nostro monumento, che deriva dall’imperativo esortativo di monēre (da cui appunto monito e monumentum). Infatti il Denkmal contiene l’esortazione al pensiero più che l’imposizione di un monito, è quindi un concetto più dia-logico, nel senso che è il pensiero cristallizzato nel monumento a divenire presente per tutti i presenti, in un’accezione più partecipativa che non storica.

Il monumento corre il rischio dunque di divenire residuale, parte architettonica di un processo di accumulazione storica che solo una contemplazione estetico-museale può analizzare e interpretare. Abbiamo visto come questo comporti, all’interno di una logica di mercificazione

culturale, il caso estremo della museificazione della città stessa, intendendo per questo fenomeno la

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feroce riduzione dell’architettura (sia quella valorizzata come documento storico, sia quella realizzata in epoca recente) a pura merce di consumo visivo.

Altre questioni si aprono poi quando consideriamo le modalità attraverso le quali il monumento così definito diviene nodo di relazioni fondamentali tra l’uomo e la sua intima necessità di riconoscere se stesso nelle proprie opere. Perché, ricordiamolo ancora una volta, il monumento è sempre costruzione. Esso è il momento progettuale più enigmatico poiché l’uomo, di fronte ad esso, si trova direttamente in rapporto con una dimensione originaria, sacrale, e quindi terribile. L’uomo faber ha il difficile compito di costruire monumenti per poi necessariamente dimenticare di esserne stato l’artefice. Perché dimenticare questa potente dimensione demiurgica? Perché l’origine è sempre terribile, ogni fondazione è sempre sacrificale; l’oblio (potremmo anche dire il silenzio) quindi è necessario per sopportare il peso dell’atto demiurgico. Il monumento rappresenta ciò che non è visibile, come la Medusa, che trasformava gli uomini in pietra con uno sguardo. Dovremo dunque indagare a fondo queste affermazioni, ricercando in altre discipline il loro fondamento.

In rapporto ad una civiltà (e ci rivolgiamo qui brevemente all’antropologia e all’etnografia) il monumento è strettamente connesso all’idea di centro come ciò che ha funzione ordinatrice proprio per il suo essere memoria sacrale di una dimensione ancestrale. Esso è memoria della separazione originaria dell’ordine dal caos, fondamento di un assetto sistematico dello spazio, “concretamente realizzato dall’architettura e, in particolare, dai monumenti architettonici. Il monumento quindi darà ordine e sarà linguaggio.”35 Articolando ulterormente la nostra riflessione in direzione dell’uomo, spostandoci per un istante nella mitologia psicoanalitica, scopriamo che il monito del monumento è analogo a quello del totem, che identifica anch’esso un centro attraverso il carattere terribile del sacrificio originario. Questo carattere, talmente nascosto nella nostra idea di monumento da essere, psicoanaliticamente, definibile come rimosso, conduce (e lo vedremo in seguito) all’origine sacrale dell’architettura stessa, prima del suo farsi disciplina. Il senso del passato, nel totem-monumento, è un senso nuovo se paragonato a quello storico: il passato è ciò che va continuamente ricordato (potremmo dire anche ri-pensato) perché esso possa essere il più terribile dei moniti e la più radicale memoria del fondamento stesso della libertà poetico-demiurgica dell’uomo. Senza questo senso sacrale il concetto di monumento rischia di rimanere incompleto, incapace di costituire un centro. E il sacrificio originario a cui ci riporta terribilmente il monumento-totem è forse il medesimo in grado di ricondurci alla città attraverso una dimensione politica che ci sembra più che dimenticata rimossa dal Novecento, il quale si è proposto la produzione di un’architettura senza monumenti. Ci sembra di riconoscere tuttavia che questo proposito abbia prodotto fenomeni straordinariamente paradossali,

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tra cui ricordiamo qui il dibattito sulla conservazione e il restauro delle stesse opere del Movimento Moderno. Sicuramente questa è una traccia labile, troppo nascosta per poter determinare a partire da essa l’affermazione di un principio, tuttavia è inevitabile riconoscere che il Movimento Moderno non sia riuscito ad annullare il monumento come nodo problematico dell’architettura.

Da qui giungiamo ad affermare che la riflessione aperta nel ’43 da Giedion era il tentativo di affrontare positivamente questa nascosta terribilità del monumento e della questione sottesa della tecnica; da qui prende avvio la nostra riflessione su quanto è esterno al monumento, rivelando il fatto che non è possibile un’architettura senza monumenti, essi rappresentano storicamente le vicende più complesse dell’architettura, quelle che rimangono ripiegate ed enigmatiche, pronte a far divenire presente il pensiero di un passato che si attualizza. Il pensiero, nel monumento, si ritrova (tornando ancora nell’ambito degli etimi) nella derivazione di monere dalla radice greca mne-ma (che significa ricordare, far sapere), da cui si forma l’antico germanico man, ovvero uomo, inteso come colui che pensa, ma anche il latino mens (ovvero mente, pensiero). L’intreccio risulta evidente: il ricordare è un conoscere ma anche un pensiero. Il monumento dunque, oltre ad essere un monito e traccia di una memoria (sia essa storica o attualizzata, dunque memoria viva), permette all’uomo-cittadino di esser tale, ovvero di rapportarsi in modo attivo ad un pensiero senza il quale non potrà realizzare la propria esistenza.

16. Il post-moderno e l’esaurimento del monumentale. Vale la pena qui di proporre una breve riflessione relativa al passaggio dalla post-modernità

alla contemporaneità per quanto riguarda le interconnessioni tra il concetto di forma e quello di monumento. Sosteniamo infatti che la post-modernità abbia in un certo modo esaurito il concetto di monumento, rinviando alla forma la conservazione della memoria. La forma, nella post-moderna, si pone in modo compiuto, propriamente elementare, tendendo ad essere segno e scrittura, al limite non-scrittura e non-lingua. Ritroviamo così una forte analogia con quelli che sono stati definiti sistemi

formali, in cui la funzione linguistica interna al linguaggio viene ulteriormente articolata dalla funzione metalinguistica, esterna al sistema formale stesso. Ciò permetterebbe di superare quell’incompiutezza connaturata ad ogni sistema formale, il quale può misurarsi anche con elementi non-linguistici.

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E’ stato rilevato che la funzione metalinguistica è funzione propriamente umana: è l’uomo, con l’uso del proprio linguaggio, ad assicurare una certa circolarità tra i sistemi formali e il metalinguaggio. Rilevava questa condizione lo stesso Tafuri in apertura al suo La sfera e il labirinto, ponendo la manipolazione metalinguistica delle forme storicizzate come condizione di una pratica critica dell’architettura: “la manipolazione delle forme ha sempre un obiettivo che trascende le forme stesse: è questo costante ‘al di là dell’architettura’ che costituisce la molla che fa scattare i momenti di rottura della ‘tradizione del nuovo’.”36 Vedremo in seguito che l’immersione nella superficie, posta come condizione della post-modernità, determini una necessaria uscita teorica. Se da un lato le riflessioni di Peter Eisenman, che riproporremo in seguito, si pongono come una stasi a-temporale nel transito continuo tra architettura e quella che Eisenman definisce non-architettura, l’atteggiamento di Tafuri si indirizza verso una verifica costante della continuità della tradizione, una prova continua di una composizione teorica, critica e storica che vede nel montaggio ejzenšteiniano il proprio alter-ego poetico. Le risposte di Eisenman e Tafuri intendono articolare la ricchezza della dimensione metalinguistica, rilevando quanto la principale problematica della post-modernità sia il rapporto progettuale con il tempo. Se infatti Eisenman intende ritrovare la dimensione concettuale e senza tempo della composizione per sottrarre la disciplina architettonica alla paratatticità dello storicismo post-moderno, Tafuri affronta la storia per rilevarne le discontinuità in grado di ricondurre la storia stessa ad essere dia-logica, ovvero strumento potente per l’architettura che intenda porsi in modo conoscitivo rispetto al reale. “L’atto critico consisterà in una ricomposizione dei frammenti, una volta storicizzati: nel loro ‘rimontaggio’. (…) la completa storicizzazione delle molteplici componenti ‘non linguistiche’ di un’opera avrà, in tal senso, due effetti: quello di spezzare il circolo magico del linguaggio obbligandolo a rivelare le fondamenta su cui riposa; quello di permettere il recupero della ‘funzione’ del linguaggio stesso.”37

La post-modernità aveva portato alle estreme conseguenze il rapporto tra memoria e linguaggio. Se abbiamo iniziato a dimenticare quando abbiamo iniziato a scrivere, allora il limite del linguaggio, per l’architettura, sarà la trasformazione del monumento a puro testo. Il monumento diviene documento, ovvero lingua morta. Esso sarà luogo della scrittura, piuttosto che luogo del dialogo. E il post-moderno ha forzato ulteriormente questo rapporto tra linguaggio e architettura determinando la propria memoria storica a partire dall’autonomia del linguaggio. In questo senso possiamo affermare che la post-modernità ha esaurito il monumentale attraverso la sovrapproduzione di monumenti.

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Le modalità attraverso le quali si è compiuto questo passaggio potrebbero essere riassunte in quattro punti principali: ossessione per la memoria intesa come archivio del possibile, sovrapproduzione di significato, esplosione delle logiche e interferenze di scala tra gli elementi formali. Se la modernità è fondamentalmente l’occupazione del possibile, la post-modernità si rivela come il momento in cui il possibile si sovrappone quasi completamente al dicibile. La memoria è racchiusa nei testi e ogni testo produce memoria. All’anonimia di parte dell’architettura della prima metà del Novecento fa da contrappunto la straordinaria sovrapproduzione di linguaggi del post-moderno, giungendo al limite per cui ogni opera è un universo linguistico autonomo, denso di forme e di metafore che giocano per rimandi interni. Questa autonomia dei linguaggi rende difficile il riconoscimento di logiche comuni, di denominatori in grado di ricondurre un’opera all’altra senza far ricorso ad altri ambiti disciplinari. L’assenza di tali logiche fondanti costringe gli architetti a comporre con le sole forme, chiuse nella loro apparenza dopo che hanno perduto la loro originaria processualità. Queste le cause che sembrano determinare le interferenze scalari tra le singole forme della composizione: una volta dimenticata la propria densità processuale, la forma non può che crescere, deformarsi, colorarsi, ovvero ipertrofizzare la propria apparenza, divenire puro fenomeno.

Dovremmo quindi chiederci se l’esaurimento del monumentale possa essere superato nella contemporaneità recuperando le profondità originarie che abbiamo tentato di descrivere per i concetti di forma e monumento.

17. La Gasometer City a Vienna. Prima di affrontare ulteriori questioni teoretiche a riguardo di quanto è racchiuso nel concetto

di monumento, riteniamo sia necessario porre qui un caso emblematico del passaggio tra la metropoli e la città contemporanea. Abbiamo affermato in precedenza che il paradigma che si pone alla contemporaneità articola i due grandi temi del centro e del vuoto. Il loro rapporto costituisce uno stato di tensione continua che genera densificazione e dispersione nelle categorie dello spazio e del tempo. Abbiamo tentato di ricostruire le ragioni storiche e culturali che hanno condotto a questo paradigma, risalendo, attraverso le trasformazioni del concetto di monumento, alla modernità e all’intenso dibattito culturale che ha avuto la nascente metropoli come ambito di indagine.

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Ci sembra adeguato proporre qui il caso emblematico della recente riqualificazione, a Vienna, del complesso dei quattro gasometri a Simmering, localizzati nella parte sud-occidentale della città. Esso rivela un’articolazione possibile delle tematiche fin qui affrontate e una loro evidenza nella definizione dei modi del contemporaneo.

Ad uno sguardo d’insieme i quattro gasometri pongono un tema architettonico complesso, ovvero la possibilità di introdurre la residenza (funzione determinante per la storia più recente della città di Vienna) all’interno di un involucro vuoto. La complessità del tema deriva da un lato dalle difficoltà intrinseche ai concetti di riutilizzo e rifunzionalizzazione di un complesso dismesso dal 1981, dall’altro lato da problematiche derivanti dal carattere del rivestimento esterno.

Progettati dall’ingegnere berlinese Schimming fecero parte di un impianto per la produzione del gas per l’illuminazione stradale viennese che entrò in funzione nel 1899 e venne dimesso nel 1981.

Il fatto straordinario, oltre alle loro dimensioni, è il loro involucro in mattoni a faccia a vista, il quale riprende i caratteri tipici dell’edilizia residenziale inglese. Un triplo ordine di aperture inutili nascondeva gli enormi serbatoi metallici di 72 metri di altezza, per un diametro di 64,9 metri. La forza di questo monumento dell’archeologia industriale risiede nella sua artefatta apparenza estetica. Il carattere dei gasometri non aveva alcuna attinenza con la propria funzione, anzi, accentuava un certo distacco tra l’involucro denso e il loro vuoto interno. Possiamo tuttavia riconoscerne la valenza monumentale proprio a partire da tale eccezionalità. L’immagine che essi fornivano al proprio intorno (anonimo e senza alcuna emergenza) era così forte da preservarli dalla semplice demolizione. Essi, in un certo modo, costituivano per la metropoli di Vienna un caso particolare: edifici dal carattere monumentale ma fondamentalmente introverso, senza alcuna funzione di rappresentatività civica.

Probabilmente, in origine, vi era la necessità di concretizzare, tramite il carattere dei gasometri, l’idea dell’immagine industriale della città di Vienna. Scrive infatti Lewis Mumford che “l’officina del gas illuminante entro i confini delle città ne divenne un nuovo tratto caratteristico. I grandi serbatoi innalzavano la loro mole nel paesaggio urbano, potenti strutture nella scala delle cattedrali.”38

I gasometri di Simmering si pongono così come un caso particolare del rapporto tra una città e il proprio patrimonio storico, ma anche delle relazioni che intercorrono tra il sistema a scala metropolitana e la residenza. Infatti essi si pongono come una soluzione architettonica a scala urbana ad una problematica derivante dalle recenti logiche adottate dalla pianificazione di Vienna. Il

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dato aggiuntivo è l’incognita derivante dal loro carattere e dalla loro forma, peculiarità che hanno condizionato in modo determinante il risultato architettonico dell’insieme.

Il progetto in esame si inserisce nel piano urbanistico di Vienna denominato Step 94, il quale adotta una logica di sviluppo assiale contro il precedente sviluppo concentrico. La logica assiale rispecchia le posizioni di Roland Rainer, nel suo Programma per Vienna del 1962, e sviluppa in modo operativo una concezione dello sviluppo urbano lungo gli assi insediativi. A determinare questa scelta è stata principalmente il notevole sviluppo del sistema infrastrutturale lungo le direttrici nord-est, sud e sud-est. Arnold Kontz, direttore dello Stadtplannung di Vienna, afferma che “lungo assi di espansione che coincidono essenzialmente con le principali direttrici di traffico, la città si sviluppa con notevole densità edilizia, il che garantisce l’integrità degli spazi verdi protetti nella periferia. Tra gli assi degli insediamenti residenziali sono inseriti cunei verdi che si riconnettono con l’anello verde che circonda Vienna.” (Casabella, n. 665, marzo 1999). Il grande patrimonio immobiliare della città di Vienna (dovuto principalmente alle realizzazioni dei grandi blocchi edilizi nel corso del suo periodo rosso tra il 1919 e il 1937) costituisce anche un limite interno allo sviluppo della città, poiché risulta notevolmente oneroso per l’amministrazione il mantenimento di un patrimonio immobiliare principalmente costituito da grandi blocchi d’affitto vecchi di ottant’anni e con una densità abitativa molto elevata.

Lo Stadtplannung di Vienna dunque si articola seguendo il seguente paradigma: abbandono del sistema di crescita concentrico, mantenimento dei vuoti (le aree verdi costituiscono un altro felice patrimonio viennese, risultando circa il 52% dell’intero territorio comunale) e dispersione delle densità abitative risultanti dal suo periodo ‘rosso’. In queste logiche si inseriscono lo sviluppo urbano a bassa densità e il recupero di aree metropolitane dismesse, previsti entrambi dallo Stadtplannung del 1994. Il piano di recupero dei gasometri di Simmering appartiene a questo ambito operativo.

Per la loro mole e il loro carattere essi hanno un’identità riconoscibile, che ha accumulato in sé la memoria della trasformazione metropolitana di Vienna. Se infatti le stazioni di Otto Wagner testimoniano quanto accade al di sotto di Vienna e la compressione spaziale derivante dalle connessioni metropolitane, l’industria del gas illuminante reca traccia dell’introduzione di un tempo artificiale nella città, un tempo che comincia a non essere più legato ai cicli naturali del giorno e della notte. I gasometri di Simmering possono essere quindi definiti monumenti metropolitani, privi di funzione e in grado di porsi in modo autonomo nei confronti del loro contesto, al pari delle stazioni della metropolitana di Wagner. Il loro essere permanenza è strettamente legato alla loro rappresentatività, indipendentemente da una ricaduta di tale permanenza sulla morfologia del loro

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intorno. Essi sono dotati infatti di identità e riconoscibilità, al punto che questa loro caratteristica li ha preservati dalla demolizione e ha determinato (unitamente ad altri fattori) il successo finanziario di un’operazione di riqualificazione costata attorno ai 150 milioni di euro.

In quanto monumento metropolitano i gasometri di Simmering costituiscono, per le nostre riflessioni, un punto notevole di contatto tra la metropoli e la città contemporanea. Infatti se la post-modernità aveva esaurito il monumentale, il moderno radicale contemporaneo si spinge nel riconoscimento della rappresentatività del patrimonio storico, muovendosi sulla soglia sottile che separa la rappresentazione dal consumo nel visivo. Il moderno radicale mostra la propria necessità interna di ridefinirsi nell’identità residua, fino a quando non si darà la possibilità teoretica di ricondurre al soggetto il fondamento stesso dell’identità. In altri termini se il Moderno si era in gran parte spinto nella direzione dell’anonimia, fino a riconoscere in essa il pericolo di una totale perdita dell’identità, e se il post-moderno ha invece tentato di ipertrofizzare gli ultimi residui di riconoscibilità attraverso dei fuori scala, il moderno radicale fa proprio quello scollamento di cui abbiamo parlato in precedenza (cfr. § 5. Il pensiero e la città). Alla moltiplicazione dei livelli compresenti nella metropoli si oppone (a riequilibrare la complessità del sistema) un tentativo di ripensare il monumentale attraverso un dialogo possibile, non soltanto a tra gli edifici e la morfologia ma anche tra la città e il soggetto. Questa la ragione che pone in evidenza quanto la rappresentatività dei gasometri sia l’unica loro permanenza.

Le contraddizioni che sorgono inevitabilmente da questo atteggiamento che potremmo definire di transito dialogico sono evidenti nel risultato della riqualificazione dei gasometri di Simmering. Tuttavia la complessità della città contemporanea non può probabilmente venire risolta in modo definitivo, certamente non prima di averne riconosciuto i paradigmi interni.

La prima trasformazione dei gasometri è avvenuta negli anni Ottanta, quando al loro interno venne organizzata la mostra 100 Anni di Socialdemocrazia; successivamente, dal 1993 al 1998, la XXX Production li utilizzò per allestirvi grandi rave parties. La curvatura del soffitto e del pavimento rendevano la percezione del particolare spazio vuoto un’esperienza unica per le circa 4.000 persone coinvolte nell’evento audiovisivo. Nel 1995 il fondo per la promozione dell’economia di Vienna (Vienna Business Agency) promosse un vasto piano di recupero dell’area inteso a ricavare 700 nuove unità abitative, due gallerie commerciali ai piani inferiori e una sezione dell’archivio storico di Vienna. Il progetto venne affidato a quattro architetti (Jean Nouvel, Coop Himmelblau, Manfred

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Wehdorn e Wilhelm Holzbauer), ed è stato completato nel 2000 sotto la direzione di Martin Kiekenap, Manfred Wehdorn e Rüdiger Lainer.

L’intervento, se si esclude la grande torre ripiegata di Coop Himmelblau, si nasconde all’interno dei gasometri, pur celebrando la galleria commerciale come un esterno (con passages tra le zone di ristoro che celebrano con false piazze la forte centralità dello spazio interno). La curvatura del piano rialzato, che aveva reso l’interno uno spazio particolarmente affascinante per le precedenti manifestazioni audiovisive, è stata mantenuta solamente dal progetto di Coop Himmelb(l)au, riportata anche nello scudo esterno, una grande torre per abitazioni che affianca uno dei gasometri.

Il tema della centralità è determinante per i quattro progetti realizzati all’interno dei gasometri. A ben vedere si tratta di quattro centralità seriali, che tendono ad annullarsi vicendevolmente. Per tale motivo si è tentata una loro articolazione mediante un passage che tuttavia non rappresenta più la soglia benjaminiana tra lo spazio pubblico e lo spazio privato, quanto piuttosto un circuito del consumo. Il passage diviene il luogo del transito del consumatore, al quale non si propone più alcuna promenade, ma un circuito che conduce direttamente all’adiacente cinema multisala dalle trasparenze oscene. Solamente il progetto di Coop Himmelb(l)au spezza la successione di centri proponendo un’assialità che conduce all’esterno, nella torre per abitazioni che si presenta come un solido volutamente privo di carattere e dalla forma che recepisce la propria configurazione dalla curvatura del gasometro a cui è collegata. La torre, pur sollevandosi su grandi pilotis dal terreno, accentua, unica, la possibilità di un esterno.

I complessi abitativi si sviluppano in modo radiale rispetto ad una centralità che appare superficiale. La centralità è solamente una risultante della forma circolare dell’involucro esterno originario, essa non corrisponde ad alcun centro significante: è la forma ad assumere significato in sé, proiettando tale auto-significanza sui quattro progetti realizzati.

Essa determina quella che potremmo qui definire la morfologia artificiale della Gasometer City, una forma chiusa e perfettamente riconoscibile dalle tangenziali che circondano Vienna, al punto che essa è in grado di comprimere e curvare la torre dei Coop Himmelb(l)au, la quale risulta inevitabilmente attratta dall’autonomia della curvatura dei gasometri.

L’inconsistenza della centralità (ovvero il suo non rimandare ad altro che a se stessa) risulta evidente nella necessità di accentuare ogni centro con piazze coperte attorno alle quali si sviluppano le vetrine del centro commerciale che occupa interamente il piano rialzato. Le coperture in acciaio e vetro di queste piazze artificiali sono poi luogo di un’installazione permanente: manichini antropomorfi e drappi colorati celebrano con gli stilemi della public art l’occupazione del centro da

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parte del sistema del consumo. Il vuoto diviene quindi un luogo denso di riflessioni, un gioco di rimandi continui tra le merci e i consumatori che vi passano attraverso. Se, come abbiamo affermato in precedenza, il monumentale è fondamento progettuale dell’abitare la città, la Gasometer City tenta di invertire il processo, determinando la logica per cui l’abitare è il fondamento del monumentale. I manichini antropomorfi servono a forzare questa logica, ponendosi come corpi aggiunti, ma statici. Nessun ritmo articola lo spazio, anzi, lo spazio interno è spazio esterno, senza che tra essi sia possibile nessun ulteriore rapporto dialogico.

Molte questioni rimangono irrisolte nel caso della Gasometer City, la quale, tuttavia, funziona come una città, autonoma, riconoscibile, coi propri servizi alla residenza e connessa al più vasto sistema metropolitano viennese. La sua autonomia e la sua densità ci spingono ad affermare che effettivamente ci troviamo di fronte ad una straordinaria sovrapposizione di livelli che entrano pericolosamente in contatto tra loro: il dato storico, il tempo, lo spazio, la forma e la rappresentazione si condensano in quattro nuclei abitativi, ricchi di soluzioni dovute alla tecnica. Dovremo tentare di dipanare questa densità contemporanea, ricostruendo, per quanto possibile, le radici della contemporaneità e del suo tempo.

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Note al capitolo primo 1 JASPERS K., Die Geiste Situation der Zeit, Berlino – Lipsia, 1933, pp. 41 – 50. In SEDLMAYR H., Verlust der Mitte, Otto Müller Verlag, Salisburgo, 1948 – ed. italiana Perdita del centro, ed. Borla, Roma, 1983. 2 Paradigma deriva dal tardo latino paradīgma (dal greco parádeigma), e indica in generale un modello linguistico. Ciò che è paradigmatico si differenzia da ciò che è, invece, sintagmatico per le sue relazioni con il contesto. Infatti è paradigmatico ciò che è in grado di porsi in modo sistematico al di fuori del contesto. Il paradigma non cerca il senso interno ma una sistematizzazione logica del discorso, al limite che senza paradigma non è possibile alcun discorso. Il paradigma deve porsi come tramite tra contesto e testo in modo biunivoco (testo<paradigma>contesto). La ricerca del paradigma dipende, per queste sue caratteristiche, sia dal testo che dal contesto, viene formato da essi. Nello specifico delle nostre riflessioni il paradigma non può che prendere avvio dai sintomi del contemporaneo. 3 Il riconoscimento di una crisi dell’architettura nella contemporaneità è analogo a quanto si è affermato in relazione all’assenza di un’idea unitaria. La critica architettonica di matrice olandese sostiene che a causa della scomparsa della dimensione politica nel progetto architettonico si assiste oggi ad una divergenza critica. Tale divergenza si articola in una duplice interpretazione del contemporaneo, il quale da un lato tenderebbe a dissolvere l’architettura nella produzione di immagini e dall’altro lato aprirebbe ad un’architettura intesa come sistema interdisciplinare in grado di ricevere nuovi impulsi propositivi dall’architettura del paesaggio, dall’arte, dall’urbanistica e dall’ingegneria civile. Secondo Hans Ibelings (cfr. il suo Artificial Landscapes- Contemporary architecture, urbanism, and landscapes in the Netherlands). Noi tenteremo di mostrare come al supermodernismo olandese si contrapponga un modernismo radicale, per il quale la reintroduzione di un’irrinunciabile dimensione politica costituisce la possibilità logica di ricondurre l’architettura alla città. 4 Si veda SEVERINO E., Tecnica e Architettura, ed. Cortina, Milano, 2003. 5 Va rilevato qui il fatto che il rapporto tra città, rappresentazione e immaginario sottende a due possibili vie: da un lato si dà la possibilità di appiattire tale rapporto nella direzione di un dissolvimento della città nelle immagini (si ha così una sovrapposizione statica di immagine e immaginario, con un conseguente impoverimento del rapporto tra la città e l’abitante); dall’altro lato, attraverso un recupero della profondità dell’immagine si dà la possibilità di una riapertura del rapporto dinamico tra città e immaginario (cfr. Capitolo 3 - Sull’immagine). Si vedano a riguardo le ricerche di Kevin Robins (cfr. § La città nel territorio visivo, in Oltre l’immagine), il quale afferma che “la città esiste intorno a noi e anche vive dentro di noi. E’ un luogo d’esperienza e soprattutto d’espressione di gruppo” (p. 176). 6 DE-SOLA’ MORALES I., Dall’eredità culturale al parco a tema, riportato in trad. italiana negli Apparati. 7 CACCIARI M., I frantumi del tutto, saggio pubblicato in Casabella n. 684 – 685. 8 AYMONINO C., Architettura come fenomeno urbano, in Gruppo Architettura, Per un’idea di città, ed. Cluva, Venezia, 1984, p. 47. 9 Ibidem, p. 45. 10Nella sezione conclusiva del suo Perdita del centro, Sedlmayr mette in relazione la scomparsa della sacralità dall’arte con un epocale senso di dissoluzione dell’immagine dell’uomo. In questo ritroviamo l’evidenza della perdita del centro, inteso soprattutto come centralità significante. E’ attraverso il centro che risulterebbe possibile risalire all’identità (dell’uomo e dei suoi manufatti). Assumendo il risultato teoretico delle ricerche di Sedlmayr a fondamento della nostra riflessione sul centro e sulla sua perdita nella città contemporanea intendiamo ricondurre il concetto di centro al suo ruolo paradigmatico, al di là di considerazioni storiche o conservative. 11 AYMONINO C., Architettura come fenomeno urbano, op. cit., p. 53. 12 Ibidem, p. 44. 13 AYMONINO C., Rapporti urbani e modi d’uso dell’architettura, in Per un’idea di città, op. cit., p. 71. 14 HEIDEGGER M., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, ed. Mursia, Milano, 1976. Scrive Heidegger che “a tanti secoli di distanza noi non siamo più in grado di misurare che cosa significa il fatto che Platone abbia osato adoperare la parola eidos per indicare ciò che dispiega il suo essere in tutto e in ciascun ente. Eidos significa infatti, nel linguaggio quotidiano, l’aspetto che una cosa visibile presenta al nostro occhio corporeo. Eppure, Platone pretende da questa parola che, in modo del tutto inconsueto, essa indichi appunto ciò che non è e non può mai divenire percepibile con gli occhi del corpo. (…) Idea non indica solo l’aspetto non sensibile di ciò che è visibile sensibilmente. Aspetto, idea, si chiama anche ciò che costituisce l’essenza in quello che si può udire, toccare, sentire, che è comunque accessibile.”, p. 15. 15 MASIERO R., Estetica dell’architettura, ed. Il Mulino, Bologna, 1999, p. 34 16 DELEUZE G., La piega, Liebniz e il Barocco, ed. Einaudi, Torino, 1990, p. 32. 17 DORFLES G., Architetture ambigue, ed. Dedalo, bari, 1984, p. 24. 18 MASIERO R., Estetica dell’architettura, op. cit., p. 112 19Ibidem, p. 117 20Ibidem, p. 120.

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21 PERNIOLA M., L’estetica del Novecento, ed. Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 47-48. 22 HEIDEGGER M., La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, op. cit., p. 9. Si viene a delineare qui la ragione che ha condotto a dedicare un intero capitolo al tema dell’immagine e della rappresentazione come ambito del rapporto tra disvelamento e verità dell’architettura. 23 MASIERO R., Estetica dell’architettura, op. cit., p. 20. 24 Henri Bergson la definisce la definisce virtuale contrapponendola all’attuale del presente. 25 Il tempio-recinto, che potremmo identificare come monumento originario per la nostra civiltà occidentale, deriva dal greco témnō, che indica la separazione mediante un taglio, separazione originaria dell’unità in kósmos e ule. Il tempio-recinto reca memoria di questa unità nel suo essere spazio formato, sacrale, memoria di una metafisica che da allora la civiltà occidentale tenterà di rimuovere. La nostra ricerca non intende tuttavia indagare se tale rimozione abbia avuto definitivamente luogo, ovvero se oggi esistano o meno un ambito metafisico o un ambito sacrale, altre discipline si occupano di questo aspetto della nostra civiltà. Ciò che a noi qui interessa è mettere in luce, per quanto concerne le origini dell’architettura, prima ancora del suo costituirsi in quanto disciplina, gli ambiti problematici che ancora emergono come rimosso, al fine di individuare alcune linee guida per una riflessione sulla contemporaneità. Il grande progetto dell’occidente, ovvero la rimozione della metafisica da un lato e del sacro dall’altro, conduce ad una situazione limite che si evidenzia nelle attuali riflessioni in ambito filosofico (e non solo) sulla definizione del soggetto, del suo carattere individuale e della sua libertà. Noi non giungeremo ad affrontare queste problematiche, tuttavia seguiremo questa direzione all’interno della disciplina dell’architettura, riconoscendole il suo fondamento conoscitivo. 26 SEDLMAYR H., Perdita del centro, op. cit., p. 35. 27 MUMFORD L., La cultura delle città, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, p.135. 28 Ibidem, p. 187. 29 RUSKIN J., The Seven Lamps of Architecture, Londra, 1894, The Lamp of Memory, § 4, p. 185. 30 CHOAY F., L’orizzonte del posturbano, ed. Officina, Roma, 1992, p. 36. 31 Ibidem, p. 37. 32 FRAMPTON K., Storia dell’architettura moderna, ed. Zanichelli, Bologna, 1986, pp. 262 –263. 33 La versione completa dei Nove Punti è stata tratta da in lingua originale da OCKMAN J., Architecture Culture 1943 – 1968, ed. Rizzoli NY, New York, 1993. La loro traduzione è stata in parte tratta da Frampton (op. cit.) e completata dall’Autore. 34 Ricordiamo qui, e lo vedremo più accuratamente in seguito, che anche Xenakis, collaboratore di Le Corbusier nei progetti del Padiglione Philips e del convento alla Tourette, nella presentazione della sua tesi di dottorato tenuta nel maggio del ’76 a Parigi e intitolata Arti/scienze: leghe, premetteva la sua convinzione che l’arte potesse costituire una unità tra le scienze, la tecnologia e l’umanità. 35 MASIERO R., Ciò che le parole non sanno dire, in MONTINI ZIMOLO P. (a cura di), Il progetto del monumento tra memoria e invenzione, ed. Mazzotta, Venezia, 1997, p. 25. 36 TAFURI M., La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, ed. Einaudi, Torino, 1980, p. 20. 37 Ibidem, p. 21. 38 MUMFORD L., op. cit., p. 183. .

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CAPITOLO SECONDO

SUL TEMPO

1. Tematiche della contemporaneità. Abbiamo visto come il concetto di monumento rinvii alla memoria, all’oblio, ma anche al

pensiero di ciò che non si deve vedere, ma che deve parimenti essere mostrato. L’ambito che costituisce il fondo della nostra riflessione è, lo ricordiamo, il sacro. Il nodo attorno a cui si svolge questa nostra riflessione si articola dunque tra le seguenti coppie diagrammatiche1:

1- memoria/oblio 2- presente/passato 3- visibile/invisibile 4- pensiero/forma

Essi non sono temi, ma si pongono come coppie che preludono a temi possibili, attraverso la loro ulteriore articolazione in tematiche che hanno la funzione di ricondurci ai fenomeni, dai quali siamo partiti come sintomi della nostra contemporaneità e ai quali torneremo per verificare le nostre riflessioni. Le principali tematiche che derivano dalle coppie diagrammatiche sono le seguenti:

1- la questione del tempo

2- la questione della rappresentazione

3- la questione della poetica.

Si noterà qui che le tematiche inevitabilmente articolano tra loro le coppie diagrammatiche, proprio perché la nostra riflessione è un dispiegarsi continuo che ammette dei transiti tra le categorie. Non abbiamo la pretesa infatti di costruire uno schematismo ma di riannodare alcune questioni che riteniamo fondino la nostra contemporaneità e di ritrovare le trame che hanno da loro origine.

Quanto cercheremo di affrontare in questo capitolo sarà la possibilità di un’uscita da quelle mitologie ausiliarie che hanno caratterizzato la modernità, al fine di ritrovare la matrice del contemporaneo al di fuori di esse. Se la città è luogo della molteplicità di tempi e di spazi tenteremo

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di ritrovare il suo centro attraverso il riconoscimento della possibile centralità del soggetto e del suo tempo. Solo attraverso il tempo è possibile il superamento di quella condizione di crisi della

modernità delineata da Harvey quando scrive che: “se (…) il tempo è sempre memorizzato non come fluire, ma sotto forma di ricordi di luoghi e spazi di cui si è avuta esperienza, allora la storia deve davvero lasciare il posto allo spazio, quale materia fondamentale di espressione sociale. L’immagine spaziale acquista allora un importante potere sulla storia.”2 Uscire dal tempo memorizzato per rientrare nel tempo progettato è una via percorribile per tentare di fondare nel soggetto (e nel tempo presente della sua esistenza) la possibilità di una costruzione logica del

centro. Per ritrovare il tempo presente dobbiamo necessariamente riconoscere i limiti delle mitologie

ausiliarie della tradizione e della macchina. Esse erano risultate validi sostituti della scomparsa dell’orizzonte metafisico e erano state poste come sistemi di riferimento di un pensiero moderno del mondo. Il rinviare a mitologie ausiliare la possibilità di una ricostruzione del centro si era reso necessario, secondo Lefebvre, a partire dagli inizi del XX secolo: “intorno al 1910 un certo spazio era distrutto. Era lo spazio del senso comune, della conoscenza, della pratica sociale, del potere politico, uno spazio fino ad allora celebrato, nel linguaggio di ogni giorno e nel pensiero astratto, come l’ambiente e il canale della comunicazione. (…) Lo spazio euclideo e lo spazio prospettivista erano scomparsi quali sistemi di riferimento, insieme con altri luoghi comuni del passato quali la città, la storia, la paternità, il sistema tonale della musica (…)”.3

La possibilità di una ricostruzione del centro (storicamente o funzionalmente definito) attraverso di esse sembra essersi esaurito, oggi, sotto il carico delle aspettative che ad esse venivano rivolte. Nemmeno l’utopia è più in grado di sostenere un possibile paradigma della contemporaneità, poiché la narrazione critica non conduce più ad un altro mondo o ad un altro modo. Ciò che rimane è il presente, ed esso impone uno sguardo poetico, assoluto e terribile, senza ulteriori rimandi o dilazioni.

2. Memoria e oblio. Una breve riflessione sulla memoria e sull’oblio articolano ulteriormente il concetto del

monumento che stiamo tentando di spiegare in tutta la sua pregnanza. Il saggio La ‘verità’ del

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monumento, di Umberto Curi4, costituisce la prima traccia della nostra riflessione. Esso parte dalla considerazione fondamentale che abbiamo in precedenza enucleato: il monumento è memoria ma anche oblio, in esso i due termini, apparentemente contrapposti in modo dialettico, si compenetrano. Affrontare tale rapporto di reciprocità ci aiuta a comprendere, appunto, quale sia la verità del monumento.

Cosa significa dimenticare? Se la memoria è una “conservazione di tracce” l’oblio è la cancellazione di tali tracce, un “grattar via”, un render liscio. A ciò conduce il termine latino ob-

liviscor, che indica appunto il levigare. L’atto dello scordare è letteralmente un uscire fuori dai luoghi

della memoria, significato che si ritrova nel latino ex-cordata, nel tedesco ver-gessen e nell’equivalente inglese for-get. Non si dà dimenticanza senza memoria.

Sant’Agostino, uno dei padri del pensiero occidentale, riconosce che memoria e dimenticanza sono strettamente correlate, al punto che la dimenticanza, più che la memoria, costituisce un limite insuperabile, indizio dell’origine. Nelle sue Confessioni scrive: “Quando, dunque, mi ricordo della memoria, è la memoria stessa che mi si presenta; quando invece mi ricordo della dimenticanza, mi si presentano sia la memoria sia la dimenticanza: quella è il mezzo con cui ricordo, questa è l’oggetto che ricordo (…). Cioè: colei che ci fa dimenticare è presente affinché non ce ne dimentichiamo. Da ciò si dovrà forse dedurre che la dimenticanza non è presente nella memoria quando la ricordiamo, ma c’è la sua immagine, poiché se ci fosse essa stessa, non ci farebbe ricordare, bensì dimenticare? (…) Se dunque nella memoria si conserva la dimenticanza non in se stessa ma nella sua immagine, senz’altro una qualche volta ci fu anche la dimenticanza stessa, di modo che se ne potesse cogliere l’immagine.”5

Le premesse per una tentata separazione tra memoria e oblio erano già state individuate da Platone nel pericolo della scrittura, tramite la quale la memoria perde il suo carattere di transito (di cui l’oblio è necessariamente la contro parte). Scrive Curi: “la scrittura – osserva Platone – in quanto induce l’anima a ricercare la verità fuori di sé, in segni o tracce esterne, anziché in se stessa, incoraggia l’inerzia e la pigrizia. La scrittura può essere utile alla mneme, alla memoria come mero magazzino, ma non giova affatto, anzi nuoce alla memoria come anamnesis, come esercizio attivo di rimemorazione, come forma di mnemosyne.”

L’esercizio attivo del ricordare è misterico, tale è la traccia ritrovata poi nella Teogonia di Esiodo. E questo fondamento del ricordare ci permette di comprendere quanto la poetica (la cui pratica è protetta dalle Muse, figlie della divinità greco arcaica Mnemosyne) sia debitrice alla memoria. La parola cantata della poesia ci fa riscoprire l’invisibile, ovvero ciò che, secondo Curi, non

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può essere espresso in forma logica. La poetica si porrebbe così come tramite tra il nostro logos, il nostro linguaggio e l’invisibile. Ma quanto accade nella condizione contemporanea, per la quale scompare la metafisica (che costituisce la forma dell’invisibile), è la trasformazione di questa tensione dialettica della poetica verso l’invisibile. La poetica, infatti, non può più rivolgersi all’invisibile, poiché esso è irrimediabilmente assente. Posta di fronte al solo visibile la poetica non può che porsi, essa stessa, come (unica) possibilità di fondamento di una logica.

Vedremo nell’ultimo capitolo come la questione della poetica nell’architettura contemporanea, tenti di oltrepassare la concezione classica descritta da Curi, concezione ancora fondamentalmente metafisica, attraverso un superamento della tecnica in quella che definiremo logotecnica, che possiamo ulteriormente definire come una scrittura che si fa essa stessa pensiero, non più tramite con l’invisibile. La logotecnica cristallizza nella forma un pensiero che pretende di porsi come limite estremo del visibile, assumendo su di sé il tragico e il terribile. La logotecnica è il pensiero del sacro, e dunque pensiero dell’origine. Vedremo come, straordinariamente, ciò sia stato possibile anche attraverso quella esplosione epocale che l’immagine ha conosciuto nel contemporaneo.

3. Tempo umano e pensiero. Torniamo alle riflessioni di Curi su memoria e oblio. Linguaggio, poetica e tecnica vengono a

porsi come un’articolazione del nostro rapporto con il sacro, con ciò che è invisibile ma raggiungibile attraverso la poesia, a patto che, in tale rapporto con l’origine, il tempo umano venga sospeso.

Questa è la premessa fondamentale al raggiungimento della verità, ovvero che non esista il tempo. “Rendendo possibile alla fine di ricongiungersi con l’inizio, l’esercizio di memoria si fa conquista della salvezza, liberazione dal divenire e dalla morte. All’opposto, la dimenticanza è intimamente legata al tempo umano, a questo tempo della condizione mortale il cui flusso, che mai si ferma, è sinonimo di inesorabile necessità. La memoria è dunque esaltata come potenza che realizza l’uscita dal tempo e il ritorno al divino. (…) Il tempo a cui rinvia, come somiglianza, la memoria è la negazione radicale del tempo umano, la cui qualità è quella di una potenza instabile e distruttiva, e cioè quella stessa potenza che presiede alla dimenticanza e alla morte. (…) (La

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memoria) tende a cancellare la dimensione crono-logica del tempo, mettendoci a contatto con una presenza viva che non tramonta.”

Questa concezione della verità del monumento si pone in modo analogo a quel lungo processo di desacralizzazione del monumento, processo che, come abbiamo detto, si pone a fondamento degli attuali fenomeni di museificazione delle città ‘storiche’. Il fuori dal tempo del monumentale ha la pretesa di porsi in modo apollineo, pacato, fissato di fronte all’umano. Viene cancellata, in questa concezione metafisica del monumentale, la traccia dell’origine a favore di un radicamento fiducioso in ciò che è stato. Il tramite tra ciò che è stato e ciò che è presente, la premessa per una corrispondenza duratura tra i due tempi (quello passato e quello presente) è data dalla possibilità di un riconoscimento della continuità nel tempo della forma. Tuttavia risulta necessario indagare a fondo le basi, nella contemporaneità, del tempo e di una possibilità del

riconoscimento della forma. Solo determinando la fondatezza di tali basi nella molteplicità contemporanea si darà nuovamente accesso al monumentale, e, di lì, alla città.

Non intendiamo qui dar ragione dell’eliminazione del sacro, poiché esso costituisce la matrice profonda di tutta la nostra civiltà. Esso è da assumere qui come fenomeno, al più come dato. Quanto interessa alla nostra ricerca è il rimosso del monumento (almeno per quanto concerne l’interpretazione di Curi del pensiero classico), ovvero quel tempo umano così terribile per la sua potenza distruttiva, per il suo essere un continuo stato di necessità.

E’ infatti nel tempo umano che colui che pensa costruisce i suoi monumenti, le sue città. A ben vedere il monumento stesso è determinato originariamente da una necessità, ovvero quella di rappresentare un’origine (che non è, per dirla con il temuto Nietzsche, Apollinea ma Dionisiaca, dunque terribile) che va, per questo, costantemente dimenticata. Ignorare questo convincimento significa riportare la dimensione umana, e dunque profondamente progettuale, ad un essere senza tempo che non appartiene al suo agire poeticamente per conoscere. Il pensiero è infatti un’azione, lo ricorda Sant’Agostino quando, interrogandosi su cosa significhi pensare scrive “quante di queste cose sono nella mia memoria, cose già da me scoperte, e, ora, come dicevo, a portata di mano, delle quali si dice che le abbiamo imparate e le conosciamo! Se però trascuro di rievocarle di tanto in tanto, esse vengono di nuovo sommerse e piombano nei loro più segreti recessi, e di là (poiché non hanno altra dimora che quella) bisogna che il pensiero le tragga fuori daccapo come fossero nuove, e daccapo le raccolga perché si possano apprendere, quasi le riunisca insieme come fossero state disperse. Da qui deriva la parola cogitare (…).”6

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L’atto del dimenticare, dell’oblio, è un tema forte quanto il ricordare. Scrive a riguardo Gadamer: “sarebbe ormai ora di liberare il fenomeno della memoria dal livellamento in cui lo riduce la psicologia delle facoltà e considerarlo invece come un carattere essenziale dell’essere storico-finito dell’uomo. Il rapporto di ritenere e ricordarsi appartiene, in un modo che per troppo tempo ci è sfuggito, al fenomeno del dimenticare, il quale non è solo perdita e mancanza ma, come ha sottolineato Nietzsche, una condizione di vita dello spirito. Solo attraverso il dimenticare lo spirito conserva la possibilità del rinnovamento totale, la capacità di vedere tutto con occhi nuovi, in maniera da fondere in una articolata unità ciò che è familiare con ciò che nuovamente gli appare”7.

Il pensiero si presenta così come un’azione (cogitare deriva infatti da co-ago), ripetuta perché mai perfetta. E ogni azione (umana) implica un tempo (umano) come sfondo. E’ questo tempo umano che interessa alla nostra ricerca, ovvero quella originariamente descritta dal mito platonico della pienezza di Kronos nel suo Politico.

4. Il mito della pienezza di Kronos: il tempo e l’origine della dimensione politica. Ciò che interessa a Platone, nel Politico, è innanzitutto delineare l’arte politica come

dimensione fondamentale per il governo della polis, della città. Senza entrare a fondo nella complessità del dialogo, ciò che a noi qui interessa è che l’arte politica diviene fondamentale quando la divinità ha abbandonato questo mondo. Si può leggere, infatti, in quella che è l’introduzione al mito della pienezza di Kronos, che “in una fase, il dio stesso guida questo universo nel suo procedere e lo accompagna nella sua rivoluzione; in un’altra, quando i periodi del tempo ad esso confacenti hanno ormai raggiunto la misura, invece lo lascia libero: esso allora, di nuovo, gira circolarmente in senso inverso, muovendosi da sé, poiché è un essere vivente ed ha avuto in sorte, da colui che lo ha composto dalle origini, l’intelligenza.”8

Il problema dell’arte politica si articola, per Platone, secondo le due questioni del tempo e dell’intelligenza dell’uomo, poiché l’uomo riconosce il proprio stato di necessità una volta che il dio ha lasciato libero l’universo. In tale libertà, che reca traccia dell’abbandono, costituisce l’uscita dall’eterno, dalla pienezza del presente. Nasce così, nel mito, il tempo dell’uomo. Da allora il problema dell’uomo sarà il ritrovare quel presente in cui si realizzava l’unità con la natura e il divino. Perché il tempo non può che appartenere all’uomo, essendo intrinsecamente legato ad esso, al suo

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continuo stato di necessità. A ben vedere quindi il problema di fondo di queste nostre riflessioni sul tempo non è ancora il giungere a definire quale sia il nostro presente, ovvero la nostra contemporaneità per poi arrivare a definirne un possibile paradigma, quanto piuttosto la comprensione del presente nella sua più intima ed enigmatica concezione. Perché il presente accoglie in sé la dimensione politica dell’uomo e dell’architettura, perché il presente reca innanzitutto traccia del corpo dell’uomo.

Il mito può essere così descritto: noi facciamo parte di un grande ciclo umano che ha avuto un inizio e avrà una fine, a noi seguirà un’altra grande generazione di uomini; la generazione che ci ha preceduto viveva nella pienezza del tempo, ovvero senza tempo, senza eventi che si susseguissero. Tutto il tempo era già dato, tutto era nel presente. Gli uomini comparivano nel mondo senza nascere (dunque senza dolore né sofferenza, senza concepimento né piacere), già adulti, già compiuti. Stavano nel mondo in armonia con la natura, gli animali e gli dei. Alla fine della loro vita semplicemente scomparivano, senza morte né sofferenza. La pienezza del tempo si traduceva, oltre che in un continuo presente, anche in una presenza. La natura, infatti, dava all’uomo tutto ciò di cui egli aveva bisogno: cibo, acqua, ordine. E l’uomo poteva perdere il suo tempo dialogando con gli animali e gli dei su cosa fosse il pensiero.

La pienezza del tempo (secondo il mito platonico) finì quando gli dei abbandonarono gli uomini, gettandoli da uno stato di pienezza ad uno stato di necessità. Gli uomini furono costretti, per sopravvivere, ad uccidere gli animali per cibarsi di loro, provando rimorso per la memoria ancestrale della passata pienezza del tempo, durante la quale gli animali non erano vittime ma compagni. Questa nuova grande generazione umana è quella a cui noi apparteniamo. Così Platone descrive la società umana: “per quanto riguarda gli uomini (…) privi della cura del dèmone che faceva da padrone e da pastore, mentre molte bestie, quelle che erano feroci per natura, si inselvatichivano, (…) rimasti deboli e indifesi, venivano sbranati da queste. In quei primi tempi erano ancora privi di mezzi e di tecniche: essendo venuto a mancare il nutrimento spontaneamente prodotto, non sapevano come procurarselo, perché nessuna necessità ve li aveva prima costretti. (…) Per questo, dunque, ci sono stati donati quelli che fin dall’antichità sono stati chiamati ‘doni degli dèi’, insieme con l’insegnamento e l’addestramento indispensabili: il fuoco da Prometeo, le tecniche da Efesto (…). E da questi doni sono derivate tutte quante le cose che innalzano la vita umana, dopo che gli uomini, come abbiamo appena detto, furono abbandonati dalla cura degli dèi e dovettero dirigersi e prendersi cura di se stessi (…).”9

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L’arte della politica secondo Platone costituisce il fondamento di ciò che abbiamo precedentemente indicato come dimensione politica, intendendo con essa quanto è stato dimenticato per portare il monumento alla dimensione senza tempo della contemplazione. Se l’uomo si riconosce in uno stato di necessità a cui far fronte con il suo solo pensiero e il proprio fare, allora fondamento della dimensione politica sarà la logotecnica, senza intendere con essa un dominio della tecnica o una macchinolatria, quanto piuttosto il raggiungimento, auspicato da Heidegger10, di quella concordanza tra poetica e tecnica, in cui mente e mano costituiscono un’unità.

La logotecnica (e con essa la dimensione politica) è quindi possibile solo accettando il tempo umano come dimensione pregnante della contemporaneità. L’interesse per il tempo non è quindi da intendersi, per la presente ricerca, come alternativa all’assenza di tempo propugnata da Curi per il raggiungimento della verità del monumento. Al contrario, riflettere sul tempo umano assume una precisa connotazione, un intendimento profondo, ovvero il recupero di una temporalità apparentemente dimenticata dall’architettura, una temporalità che, come stiamo vedendo, accoglie in sé proprio quell’originaria sacralità dell’architettura e del suo farsi fenomeno più alto che è il monumento. Senza interessarsi al tempo umano l’architettura non potrà che isolare se stessa nella contemplazione, rapportandosi ad una metafisica assente più che all’umano. Questa temporalità è quella dell’oblio necessario all’azione, quell’agere che identifica il cogito, ovvero il pensiero di un’umanità dotata di mente e corpo, in qualche misura pre-cartesiana.

5. Il rhythmos e il tempo dell’uomo nell’architettura. Tale unità di corporeità e pensiero era il limite dell’ideale lecorbuseriano, il limite del suo

tracciato regolatore, in cui la visione dell’ordine nello spazio non poteva escludere anche la sua profonda sensualità, ovvero il suo essere fatto esplicitamente per l’uomo, per tutti gli uomini. Alla misura dello spazio, al suo essere geometrico, si contrapponeva il suo essere ritmo. E’ il ritmo che pone infatti il primo rapporto tra la geometria (in quanto applicazione dell’aritmetica allo spazio) e l’uomo.

Ritroviamo questa riflessione comune a tutte le arti fin da Pitagora, passando per il De re

aedificatoria dell’Alberti e giungendo quindi fino a Le Corbusier. Il problema di fondo è l’armonia intesa come esatto accordo tra elementi, dunque come qualità sensibile, verità e bellezza

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dell’architettura. “La bellezza è accordo e armonia delle parti in relazione a un tutto al quale esse sono legate secondo un determinato numero, delimitazione e collocazione, così come esige la concinnitas, cioè la legge fondamentale e più esatta della natura”11. Il numero diviene il punto nodale di questa riflessione albertiana, poiché il numerus latino era strettamente legato al concetto di forma (intesa, come abbiamo visto per la romanità, in quanto schema, ovvero una forma strettamente legata all’ambito sociale e rituale). Il termine numerus, inoltre, in quella fondamentale sintesi del concetto di forma operata dalla cultura latina, traduceva, secondo J. J. Pollitt, sia arithmos (numero) sia rhythmos (che in greco significa forma, foggia, modello). Scrive Pollitt che “rhythmos e arithmos sono accomunati dal fatto di essere considerati entrambi fattori delimitanti. Rhythmos delimitava lo spazio allo scopo di produrre la forma, arithmos delimitava l’infinito allo scopo di produrre una quantità specifica”12.

Il ritmo diviene il punto nodale che articola architettura e musica alla ricerca dell’armonia, esso fonda il loro reciproco rapporto compositivo ma anche il loro rapporto con la matematica e la geometria. Il ritmo articola poi, a ben vedere, il complesso intreccio tra qualità e quantità (dello spazio e del tempo), poiché se la misura e il metro costituiscono le basi di una riconoscibilità strutturale è il ritmo a definire le qualità formali dello spazio e del tempo. Lo chiarisce bene Stravinskij quando, nella sua Poetica della musica, scrive: “le leggi che ordinano il movimento dei suoni richiedono la presenza di un valore misurabile e costante: il metro, elemento puramente strutturale, per mezzo del quale si compone il ritmo, elemento puramente formale.”13 E’ quindi il movimento attraverso lo spazio e il tempo a costituire il ritmo. E’ il movimento a determinare la nostra particolare esperienza dell’architettura, introducendo un ritmo nello spazio geometrico, dunque un tempo. E’ quindi il problema del ritmo a condurci ad una riflessione sul tempo umano.

Ciò che ci interessa profondamente non è qui il cogliere l’essenza di un tempo che si ponga banalmente come divenire rispetto alla persistenza di un tempo eterno, che sia cioè (paradossalmente) un tempo senza tempo, quanto piuttosto affermare che per riportare l’architettura ad essere nuovamente un’unità teorico-pratica che possa progettare il fondamento (ovvero l’archè dell’architettura) è necessario riconoscere per essa la possibilità di essere modalità di un pensiero

dell’eterno per il raggiungimento del presente. In altre parole la riflessione sull’architettura nella contemporaneità deve necessariamente

passare attraverso un duplice movimento: innanzitutto porsi nuovamente il sacro come orizzonte di senso, nella sua terribilità, e successivamente darsi come possibilità di pensiero dell’eterno attraverso il proprio riferimento all’origine. Solo così l’architettura potrà essere profondamente

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progettuale, dove qui progetto non si riferisce né alla tensione verso un futuro (secondo l’idea di progresso tecnologico) né ad un rifiuto della memoria del passato. Si tratta invece di affrontare il fatto che la possibilità progettuale che l’architettura ha di stabilire ordine passa inevitabilmente per il porre il passato nella sua propria dimensione inattuale14, che fonda ogni progetto non tanto per tradizione ma attraverso un processo attivo e consapevole di attualizzazione dei valori che il passato stesso accoglie.

Se effettivamente l’architettura può essere definita nei termini generali di arte dello spazio, risulta necessario comprendere quali sono state le articolazioni dei concetti di spazio e tempo a partire dalla loro aurea unità, che possiamo riconoscere storicamente fondata nel Rinascimento. Quando Giedion nel suo Spazio, tempo e architettura intendeva dar ragione positiva della condizione della modernità che descriveva, parimenti non nascondeva le sue perplessità di fronte alla situazione in cui versava l’architettura (e l’arte) alla fine della seconda guerra mondiale. Si trattava, per Giedion, di ritrovare proprio quell’unità perduta a causa della meccanizzazione e della tecnica, attraverso il riconoscimento di un’unità di intenti da parte di artisti e architetti, i quali potevano ricondurre la tecnica ad essere mezzo, privato della sua terribilità e della sua sempre più inquietante autonomia. Scrive Giedion, molti anni dopo (1962): “in Mechanization Takes Command io tentai di dimostrare attraverso l’elemento importantissimo della meccanizzazione come si giunse alla frattura tra pensiero e sentimento e che ogni generazione deve trovare la propria soluzione per lo stesso problema: come superare la frattura fra la realtà interna ed esterna ristabilendo l’equilibrio dinamico che governa i loro rapporti.”15 I sintomi che Giedion rilevava agli inizi degli anni ’60 evidenziavano questa profonda dinamicità nel rapporto tra lo spazio architettonico e il pensiero: “oggigiorno molti architetti si sentono turbati perché nell’architettura si manifestano tendenze plastiche come la Cappella di Ronchamps, 1955, oppure il Teatro dell’Opera a Sideney, 1957, di Joern Utzon, o il Salone delle Feste di Kunio Maekawa a Tokyo, 1961.”16 Queste tendenze, prima di essere indicative di un plasticismo formale che potrebbe essere inteso come semplice contrapposizione ai formalismi cartesiani del primo modernismo, vengono ricondotte da Giedion ad una necessità specifica di riformulare il concetto di spazio architettonico al fine di ritrovare l’origine stessa dell’architettura. Ciò che spinge lo storico svizzero, discepolo di Wölfflin, a indagare questi fenomeni plastici è probabilmente la necessità di ritrovare nell’architettura del suo tempo quella capacità di raggiungere nuovamente la dimensione del monumentale attraverso il recupero del sacro. E tale recupero poteva avvenire solamente attraverso la tensione dell’architettura verso l’arte. In questo consiste, per Giedion, la possibilità di uscire dall’orizzonte di pessimismo che aveva lui stesso delineato nel 1948,

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quando il dominio della tecnica sul mondo sembrava destinare l’occidente ad un totale annullamento dell’uomo e del suo pensiero. “Diventiamo consapevoli di certi pregiudizi che ci sono connaturati. Uno di essi è l’opinione che in architettura lo spazio si identifica con lo spazio cavo, cioè con lo spazio interno. Questa opinione si basa sull’esperienza degli ultimi 2000 anni. Dall’impero romano in poi esso è stato il maggior problema dell’arte di costruire. (…) Ma c’è un’altra concezione spaziale che vanta diritti per nulla minori; essa abbraccia le prime civiltà di carattere superiore quali l’Egitto, i Sumeri, e comprende perfino la Grecia. Tutte queste civiltà considerarono la conformazione dello spazio interno non come assolutamente essenziale. Siamo di nuovo sensibili allo spazio da cui emana la forza dei volumi, che risveglia in noi un’affinità emotiva con le origini dell’architettura. Noi sappiamo di nuovo che i volumi emanano spazio allo stesso modo che un involucro dà forma ad uno spazio interno.”17 Tali riflessioni articolano ulteriormente la bozza, scritta con Sert e Leger, sui Nove Punti sulla Monumentalità (cfr. Cap. primo §14). Le idee del manifesto del 1947 trovano una via meno tecnica per ricadere sullo spazio architettonico, e più esplicitamente sul vuoto18 che viene ad essere ambito di tensioni dinamiche tra i volumi degli edifici. E’ questo vuoto ad essere, secondo Giedion, la verità indicibile del sacro nell’architettura monumentale. E questo vuoto costituisce un ambito che precede la forma in sé, è l’ambito più proprio della rappresentazione, intesa come rapporto tra l’uomo e il monumentale. Continua Giedion: “le forme non sono limitate dalla loro estensione materiale, ma si dilatano e modellano lo spazio. Oggi, noi siamo di nuovo consapevoli che forme, superfici e piani non modellano soltanto lo spazio interno chiuso. Quali elementi fondamentali di volumi che si collocano liberamente nello spazio aperto, possiedono una pari forza che emana a grande distanza dalla estensione naturale. Quello che conta non è soltanto la mole delle Piramidi o la perfezione mai più ulteriormente raggiunta del Partenone. E’ il rapporto reciproco fra i volumi che rende la piena orchestrazione della prima concezione spaziale architettonica.”19

La scelta del termine ‘orchestrazione’ è perfetta. Essa richiama sia al concetto di armonia che a quello di ritmo, evidenziando una tensione positiva verso una possibile unità dello spazio nel monumentale. In questa stessa linea ritroviamo il pensiero di un giovane Le Corbusier (che sostenne di essere prima pittore e poi architetto), quando affermava che “determinando le rispettive distanze degli oggetti (l’uomo) ha inventato ritmi, dei ritmi percepibili all’occhio, chiari nei loro rapporti. E questi ritmi sono agli inizi del modo di agire umano.”20 Per comprendere a fondo le motivazioni che hanno spinto Giedion e Le Corbusier a rivolgersi all’origine e al mito nel tentativo di comprendere e fondare il pensiero poetico nell’architettura dobbiamo indagare le trasformazioni profonde che sono

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intercorse nei concetti di spazio e di tempo fino alla contemporaneità, affermando fin d’ora che oggi, più che mai, ciò che diviene pressante è il progetto del tempo.

Al di là di quelle che rileveremo essere le stratificazioni temporali all’interno della città contemporanea, il progetto del tempo nel monumento si rivolge al ritmo prima di essere tout court tempo umano e, quindi, politico. Il recupero del ritmo si presenta dunque come un superamento della generale crisi introdotta dal post-moderno, crisi che dobbiamo intendere come devianza dal progetto moderno. Dobbiamo altresì riconoscere che, dovendo dire quali siano le premesse culturali in grado di descrivere la contemporaneità, non possiamo che riconoscere ancora la presenza di alcune logiche fondamentali del moderno, anche se esse si sono fatte radicali, mettendo in luce quanto la molteplicità di tempi e di spazi sorti all’inizio del XX secolo abbia portato ad un progressivo scollamento degli spazi e dei tempi dell’architettura all’interno della città. Il monumento si pone quindi come una densificazione interna alla città, densificazione che riporta la città all’umano. Ma che accade della forma in tale processo? Forse la forma non si pone più come possibilità di controllo ma tende a farsi pensiero costruito. In questo modo essa collabora con il monumento per amplificare la sua densità al di là del suo essere continuamente consumato in quanto scrittura/immagine di un

tempo. Il monumento è ciò che consente al tempo di essere continuamente costituito; dunque il progetto del monumento è il progetto del tempo.

Il progetto del tempo permette inoltre di uscire dal rischio di una schizofrenia del presente verso cui il postmoderno ci ha condotti. Il presente va inteso quindi come momento fondante e dotato di profondità grazie al suo essere in rapporto costante con l’origine, dunque tramite il suo essere il momento del sacro. Tutto implode verso il presente, e può nuovamente essere messo a sistema solo se il presente viene riportato al suo ruolo fondamentale di unico vero nucleo di tempo (cosa che il postmoderno ha appiattito). A ben vedere significa riportare il tempo all’umano e strapparlo dal suo essere categoria produttiva. In altre parole se la condizione postmoderna può essere interpretata come una radicale fenomenologia culturale derivante da ragioni di carattere principalmente socio-economico (ci si riferisce qui al capitalismo), allora sarà necessario riportare il tempo alla sua principale connotazione, quella che Le Corbusier riconosceva nell’esperienza

dell’ordine architettonico, ovvero al principio del ritmo come consonanza tra lo spazio architettonico e il corpo umano. Per compiere questo fondamentale passaggio risulta necessaria una breve riflessione sul concetto di spazio e le sue trasformazioni attraverso la cultura (quindi nell’arte, nella scienza e nell’architettura) dal Rinascimento ad oggi, compiendo alcune riletture della critica della post-modernità.

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6. Dallo spazio al tempo. Il passaggio dal mondo medioevale, denso di qualità sensibili e fantastiche al Rinascimento

è un passaggio epocale. Il Rinascimento si pone come la matrice che fonderà il progetto illuminista, costituendone le categorie spaziali e temporali nei termini di una generale unità delle arti e delle scienze. La prospettiva rinascimentale, infatti, non riguardava solamente la rappresentazione del paesaggio e della città, essa è da intendersi come teoria in grado di regolare la corretta distribuzione e misurazione delle singole cose da disporre nello spazio, il quale si articola secondo le diverse categorie di spazio geometrico, spazio iconico e spazio architettonico. Si tratta di articolazioni dello spazio inteso come oggetto di osservazione e di conoscenza di azioni progettuali. Scrive Sandra Bonfiglioli: “la polis come spazio dell’ordinamento sociale e insieme istituzionale diviene il tema di riflessione e l’ambito di una sintesi progettuale che investe non solo il piano del disegno istituzionale, ma – tratto del tutto originale rispetto alla storia – l’organizzazione dello spazio urbano, la forma della città fisica, la città come dispositivo spaziale generatore di assetto sociale. (…) L’architettura e la città giocano un ruolo centrale nella cultura rinascimentale e sono assunti – dagli studi su quel periodo storico – come il terreno esemplare in cui si esprime l’intero spirito dell’epoca. Allora fra Umanesimo e Rinascimento fu possibile elaborare un dominio della ragione non separato bensì integrato all’operare e istituire un terreno unitario, la polis, cui ricondurre il senso e la verifica dell’operare e del progettare.”21

Le caratteristiche del senso dello spazio rinascimentale possono essere così delimitate: 1. esso è infinito, fortemente geometrico e sistematico. Ad esso si affianca un concetto di

tempo altrettanto infinito, separato dal senso più concreto del tempo sperimentabile; le ragioni di questa impostazione sono determinate dalla necessità di costituire un sistema di categorie altre rispetto alla pratica artigianale, in grado perciò di individuare la superiorità della pratica intellettuale;

2. esso è potenzialmente conoscibile ai fini di un controllo scientifico ed economico. Scrive Harvey che “la conoscenza geografica divenne un bene prezioso in una società sempre più conscia del valore di profitto. L’accumulazione di ricchezza, potere e capitale si legò alla conoscenza personalizzata e al controllo individuale dello spazio.”22 La geografia diviene una delle ‘missioni’ del Rinascimento. L’azione umana poteva occupare così uno spazio matematizzato;

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3. esso determina, come conseguenza, lo sviluppo del nazionalismo (grazie all’individuazione dei confini territoriali degli Stati) e della democrazia (grazie alla discretizzazione dello spazio fisico nel suo divenire spazio matematico).

Il grande progetto di modernizzazione illuminista fu debitore del concetto di spazio

rinascimentale, con la differenza che mentre per il Rinascimento lo spazio e il tempo erano infiniti per ragioni fondamentalmente teologiche (ovvero rispecchiavano il carattere infinito di Dio), per l’Illuminismo si trattava di categorie necessariamente umane, desacralizzate. Lo spazio e il tempo erano quindi infinitamente disponibili e privi di connotazioni sacrali, al fine di celebrare e facilitare la liberazione dell’Uomo e la sua emancipazione dalla natura. Questo è il carattere fondamentale del primo modernismo. Le mappe geografiche divennero in questo periodo più accurate e vennero private di tutti quegli elementi fantastici, legati alla religione, che avevano avuto origine nelle prime rappresentazioni medievali dello spazio: esse erano lo strumento fondamentale per l’organizzazione del mondo. “I pensatori illuministi (…) pensavano al controllo del futuro per mezzo dei poteri di predizione scientifica, dell’ingegneria sociale, della pianificazione razionale e dell’istituzionalizzazione di sistemi razionali di regolamentazione e controllo sociale. Essi in effetti si appropriarono dei concetti di spazio e tempo e li spinsero al limite estremo nel tentativo di costruire una società nuova, più democratica, più sana e più ricca.”23 Il tempo illuminista era fondamentalmente meccanicista e omogeneo; il passato e il futuro si equivalevano in modo simmetrico rispetto all’azione umana. Il risultato di questa universale omogeneizzazione del mondo è stata accuratamente rilevata da P. Bourdieu, il quale afferma che “come la mappa sostituisce lo spazio discontinuo e irregolare delle strade concrete con lo spazio continuo e omogeneo della geometria, così il calendario sostituisce con un tempo lineare, omogeneo e continuo il tempo concreto che è fatto di isole di durata incommensurabile, ciascuna con il proprio ritmo.”24

Questa omogeneizzazione dello spazio e del tempo determinò due conseguenze fondamentali alla nostra riflessione, e riassumono in modo puntuale l’acceso dibattito che si venne a creare attorno alle relazioni tra spazio omogeneo di matrice illuminista e potere (politico ed economico) attorno al 1848. Innanzitutto lo spazio omogeneo mette in crisi il concetto di luogo attraverso un processo di mercificazione dello spazio stesso. In secondo luogo si rileva che non vi può essere una politica dello spazio indipendente dalle relazioni sociali, per cui il concetto di spazio e il concetto di società vengono ad essere intimamente interrelati, soprattutto attorno al concetto di proprietà privata.

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Tra il XIX e il XX secolo l’idea di spazio e tempo divenne ancora più complessa. In linea generale risultava evidente quanto il concetto di omogeneizzazione dello spazio e del tempo risultasse ancora operativamente valida all’interno del grande progetto modernista, pur ammettendo al proprio interno delle compressioni locali.

Ciò che caratterizza questo tormentato periodo è infatti l’idea del molteplice: esistono tempi

diversi e spazi diversi, anche se la loro esistenza (e la loro caratteristica frammentarietà) è in qualche modo contenuta dall’omogeneità di spazio e tempo. Tale omogeneità assicura, come una grande trama mondiale che trae il proprio duplice scopo dall’emancipazione illuminista dell’uomo e dalla crescita del capitale, la possibilità che il molteplice possa essere inteso come un’articolazione dell’unità. Il molteplice è la risposta locale (interna alla metropoli ormai costituita nella sua fenomenologia compiuta) alle pulsioni di questo periodo. Esso si presenta come una frammentazione necessaria all’equilibrio del sistema di matrice illuminista. In questo periodo risulta evidente quanto il tempo sia divenuto ormai la categoria dominante all’interno del sistema di produzione del capitale, e la catena di montaggio di Henry Ford ne è il fenomeno più evidente. “Ford aveva mostrato come, con la spazializzazione del tempo, potevano essere accelerati i processi sociali e potevano essere aumentate le forze produttive.”25 Se il primo modernismo (quello propriamente illuminista) aveva trasformato il concetto di spazio omogeneo in strumento di dominio attraverso la geografia, questo secondo modernismo (quello in cui affondano le radici del Movimento Moderno) ha trasformato il concetto di tempo in strumento di produttività attraverso il capitalismo.

Il principale risultato della modernità è dunque la riduzione di spazio e tempo da categorie a strumenti; in quanto strumenti essi potevano essere prodotti. Questo è stato il momento cruciale della definitiva rimozione del sacro dalla realtà, e il tentativo di un suo recupero attraverso la Storia e la Tradizione di matrice idealistica ha condotto da un lato allo sviluppo del tipo museale e dall’altro ai primi fenomeni di mercificazione culturale (nasce in questo periodo un attivo mercato antiquario e di prodotti artigianali stranieri). In questo contesto culturale l’universalismo di matrice illuminista e il particolarismo che connota la molteplicità nascente vanno visti come una dualità inscindibile. “Sarebbe sbagliato”, ci ricorda Harvey, “considerare queste due correnti di pensiero separate l’una dall’altra. Esse invece dovrebbero essere considerate come due correnti di sensibilità che scorrevano fianco a fianco, spesso all’interno di una stessa persona, anche quando una o l’altra delle due sensibilità diveniva dominante in un luogo e in un tempo particolari.”26

Il considerare spazio e tempo come strumenti di produzione e dominio (o di eroismi sovrastorici e rivoluzionari) è in stretta relazione con la crisi (ricca di spunti e di deviazioni) della

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cultura europea tra le due guerre mondiali. Le Corbusier riconosceva questa condizione nelle ultime parole del suo Vers une Architecture: “ Un grande disaccordo regna tra un modo moderno di pensare e una quantità soffocante di detriti secolari. E’ un problema di adattamento, dove i fatti oggettivi della nostra vita sono in causa. La società considera con forza una cosa: la otterrà o non la otterrà. Tutto qui; tutto dipende dallo sforzo che si farà e dall’attenzione che si accorderà a questi sintomi allarmanti. Architettura o rivoluzione. Si può evitare la rivoluzione.”

Lo stesso Le Corbusier doveva ricorrere al mito (il primo uomo, il primo insediamento, il primo temenos) per ritrovare un fondamento in un’epoca in cui il tempo e lo spazio erano sottoposti a continue modificazioni a causa dell’economia e della politica mondiali. Si assisteva ad una condizione paradossale in cui coesistevano il massimo della dissoluzione delle categorie spaziali e temporali e il massimo dello spirito avanguardista (di matrice ancora fondamentalmente illuminista), proiettato in una speculazione sul futuro. In questo periodo il modernismo si trova dunque tra i due pensieri-limite, da un lato quello dell’origine (il mito) e dall’altro quello del progresso. Entrambi i pensieri-limite ricercavano l’unità lacerata dall’universalismo capitalista e nazionalista, entrambi i pensieri erano destinati ad essere sconfitti, o per lo meno depotenziati.

In questo ambito specifico vanno ricercate le radici della contemporaneità, in cui i fenomeni legati ai sistemi economici sono ormai inestricabilmente connessi ai fenomeni culturali. Ad un primo sguardo, per quanto riguarda la nostra riflessione, risulta evidente che lo spirito eroico e avanguardista che aveva caratterizzato il Movimento Moderno e le Avanguardie storiche tramonta a partire dalla seconda guerra mondiale. Le ragioni di questo si ritrovano da un lato nell’impossibilità da parte dello spirito avanguardista di resistere alle continue accelerazioni spaziali e temporali determinate, in termini qui riduttivi, dalle strutture di produzione. Inoltre appare evidente l’indebolimento del progetto illuminista, che traeva, lo ricordiamo, le proprie ragioni da quella ricca unità di teoria, di prassi, di cultura e di politica che era caratteristica del Rinascimento.

Michele Foucault, nel suo saggio Of Other Spaces del 1967, tentava il recupero

dell’originaria sacralità dello spazio, riconoscendo come evidenza che esso, più del tempo, conservava una traccia del sacro: “nonostante tutte le tecniche di appropriazione dello spazio, nonostante l’intero network di conoscenze che ci permette di delimitarlo o di formalizzarlo, lo spazio contemporaneo forse non è interamente desacralizzato (in modo apparentemente diverso dal tempo, che è stato sottratto dal sacro nel XIX secolo).” La traccia del sacro nello spazio resiste ancora, per Foucault, nella pratica dello spazio, divenendo la ragione che fonda “un certo numero di opposizioni

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che rimangono inviolabili (…) per esempio tra lo spazio pubblico e lo spazio privato, tra lo spazio della famiglia e lo spazio sociale, tra lo spazio della cultura e lo spazio della funzione, tra lo spazio del piacere e lo spazio del lavoro. Queste distinzioni sono ancora fondate sulla presenza nascosta del sacro.”27

Le eterotopie di Foucault si ponevano in una logica di negazione necessaria dello spazio (inteso come strumento di dominio e di ordinamento), per assicurare l’esistenza di una dimensione dinamica e sacrale esterna, come uno specchio necessario allo spazio stesso per il proprio riconoscimento. “Dal punto fisso dello specchio scopro la mia assenza dal luogo in cui mi trovo dal momento in cui mi vedo al di là. Partendo da questo sguardo che è rivolto verso di me, dal terreno di questo spazio virtuale che si trova dall’altra parte del vetro, torno verso di me: comincio ancora a dirigere i miei occhi verso me stesso e a ricostituire me stesso lì dove sono.”28 Eterotopie, secondo Foucault, sono tutti quei luoghi che contengono nella propria densità, deviazione e rappresentatività altri luoghi e la loro ragione d’essere: i cimiteri, i teatri, i cinematografi, i giardini orientali, le fiere, i manicomi e le prigioni. Nell’ambito specifico della cultura occidentale particolari eterotopie sono le biblioteche e i musei. “L’idea di accumulazione, di stabilire una sorta di archivio generale, il desiderio di rinchiudere in un unico luogo tutti i tempi, tutte le epoche, tutte le forme, l’idea di costruire un luogo di tutti i tempi che sia esso stesso al di fuori del tempo e inaccessibile alla sua rovina, il progetto di organizzare in questo modo una sorta di perpetua e indefinita accumulazione del tempo in un luogo immobile, quest’intera idea appartiene alla nostra modernità.”29

Il postmoderno ha compiuto il processo di desacralizzazione di spazio e tempo, mostrando come la possibilità stessa dell’eterotopia (ovvero il suo poter essere altro, il suo poter essere specchio, la sua profondità) possa venire definitivamente metabolizzata all’interno di un generale ricircolo culturale che si contrappone all’accumulazione dei codici, delle forme e dei tempi. La recente mostra The Un-Private Houses, curata da Terence Riley per il Museum of Modern Art di New York (1999), è uno dei sintomi di una riflessione generale sull’impossibilità di compiere una netta distinzione tra lo spazio pubblico e quello privato in una contemporaneità in cui è sempre più difficile delimitare i luoghi del lavoro e, quindi, fissare delle tipologie che siano in grado di rispondere progettualmente a questo fenomeno (cfr. la sezione Sintomi del contemporaneo).

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7. Il tempo presente. Dobbiamo riconoscere il fatto che non possiamo rifiutare il confronto della cultura

contemporanea con quella delineata per il postmoderno, il quale rappresenta un periodo di transito tra la crisi dovuta alla “seconda modernità” (secondo quanto afferma Harvey) e la contemporaneità30. Se il postmoderno viene visto da Harvey e da Jameson come una generale fine del moderno nell’informe determinato dalla straordinaria circolazione di segni, codici, immagini e merci dovuta ad un ‘tardo-capitalismo’ o ad un ‘capitalismo avanzato’, allora risulta necessario riconoscere se effettivamente tale eclissi del moderno sia avvenuta, o se ci troviamo ancora di fronte al moderno, inteso come progetto unitario, o, nell’ambito della nostra disciplina, come possibilità del

progetto stesso. Ritengo che l’idea di tale eclissi del moderno vada ricercata nel fatto che la rimozione della sacralità dello spazio e del tempo e il loro essere assorbiti in una generale idea di produzione (al punto che il tempo è divenuto oramai un bene di consumo, e lo testimonia il recente mercato dell’intrattenimento) abbia condotto ad una perdita di senso del presente.

E’ a causa di questa fondamentale perdita che si pone la problematica del progetto inteso come esperienza conoscitiva e dialogica del reale. Dunque non è tanto il senso del reale ad essere messo in crisi dalla sovrapproduzione iconica del capitalismo avanzato, quanto il senso di un tempo presente come unico ambito temporale del progetto d’architettura. Per ritrovare la possibilità del progetto si dovrà quindi risalire al tempo presente e delimitare il fenomeno della sovrapproduzione iconica.

Sembra infatti necessario un recupero della profondità dell’immagine e della sua origine sacrale per ribaltare un malinteso, a riguardo dell’immagine, che appare ormai condiviso nelle critiche aperte alla società contemporanea. Tale rivalutazione del ruolo partecipativo dell’immagine (in un senso che deve molto alle riflessioni di Gadamer e alla sua visione ermeneutica dell’estetico) ha lo scopo di rilevare la debolezza dell’assunto per cui l’architettura ha perduto la propria unità identificativa a causa del suo essere divenuta fortemente segnaletica. Seguendo questa impostazione, che riduce l’architettura ad essere solamente il risultato di una produzione di segni, di

linguaggi e dunque di retoriche, si commetterebbe l’errore di considerare il progetto architettonico come rappresentazione assoluta, in cui la forma assumerebbe, di conseguenza, una valenza didascalica o identificativa, rimandando indefinitivamente ad altro da sé (ovvero ciò di cui verrebbe ad essere, appunto, segno iconico). A ben vedere tale impostazione rimuove la valenza stessa del progetto d’architettura, la sua poetica, il suo essere pensiero concreto, ammettendo il fatto che l’istantaneità a cui l’immagine tende nel sistema di sovrapproduzione di segni nel capitalismo

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avanzato sia l’unico ‘destino’ possibile dell’architettura. Questo è il malinteso che tenteremo di affrontare nel capitolo seguente, ammettendo che solo riconoscendo la possibilità di una profondità dell’immagine e una sua logica propriamente rap-presentativa sia possibile il recupero della forma come forma di pensiero del tempo presente.

Il recupero del tempo presente, nella sua intrinseca sacralità, si pone quindi come una necessità ineludibile per portare l’architettura alla sua originaria essenza. Vale la pena di precisare qui che tale atteggiamento non significa un ricercato ritorno al classico e alle sue forme, quanto il mettere in rilievo il fatto che non è possibile determinare per l’architettura alcun destino. Se le logiche del capitalismo avanzato hanno portato ad una straordinaria diffusione dell’estetico, tale per cui, come rileva Jameson, si assiste ad una “perdita di profondità” e ad una proliferazione di “superfici” (siano esse piane, curve o ripiegate), va riconosciuta nel progetto di architettura una stasi necessaria ed intrinseca alla sua realizzazione che lo pone sempre come momento di riflessione e conoscenza, al più un sintomo di processi interni ed esterni ad esso. Il progetto è sintesi, è evidenza logico-formale, qualsiasi sia la sua forma e qualsiasi sia la logica che lo ha determinato. Esso ha un lato terribile, in cui si fonda tutta la libertà responsabile dell’architetto: deve essere una risposta. Senza questa sua ragione d’essere esso è costretto a cedere il passo all’epifania continua di formalismi e all’ansia del nuovo.

In questa chiave si comprende come il recupero del senso del presente e della profondità dell’immagine siano necessarie per risolvere la tensione che si è venuta a creare tra un sistema culturale che intende ridurre l’architettura a segno e la possibilità di una poetica architettonica contemporanea. Attraverso tale recupero (che sottende una rimozione del rimosso, ovvero un recupero del sacro e della valenza logica e poetica della tecnica nell’artificiale) si avrà la possibilità di comprendere come il tempo debba essere ricondotto a rapporto con un’origine piuttosto che al solo ambito del trans-formale, che appare ora in tutta la sua connotazione fortemente riduttiva. In questa riduzione sta la debolezza del pensiero architettonico d’oltre oceano. La sua ossessione per il divenire conduce pericolosamente l’architettura ad essere codice tra i codici per il semplice motivo che si preferisce l’astensione formalistica ad una radicale posizione progettuale31. Secondo questo atteggiamento, che sintomaticamente proviene dai luoghi in cui il tardo capitalismo è più forte, l’architettura è fenomeno tra i fenomeni, forma tra le forme, immagine tra le immagini. Non solo, architettura, design e urbanistica perdono così non solo le loro distinzioni disciplinari ma anche le loro differenze scalari. L’uomo contemporaneo, immerso in questo divenire, viene ridotto a puro

sguardo, senza più alcuna possibilità di giudizio estetico, o di dialogo con il mondo costruito.

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8. La rappresentazione del limite e la sospensione del tempo. In un saggio di Peter Eisenman, The Representation of the Limit (1983)32, viene messo in

evidenza come di fronte ad un senso di ‘perdita del centro’, che conduce alla dissoluzione disciplinare dell’architettura, sia possibile ritrovare una “internità” nell’architettura stessa attraverso ciò che Eisenman definisce “non-architettura”. Si viene così a determinare la possibilità di una nuova coppia diagrammatica (architettura/non-architettura) grazie alla quale l’architettura stessa ritrova il proprio interno nella condizione di transito tra i due termini. Il fondamento di questa posizione teorica è lo sganciamento della rappresentazione dall’oggetto rappresentato attraverso il disegno. Il disegno tende ad essere diagramma concettuale, ovvero rappresentazione del pensiero architettonico che fonda il progetto, riconoscendo in questo una possibile uscita dalla sovraesposizione di forme caratteristica del postmoderno. L’atteggiamento di Eisenman si pone dunque in modo necessariamente contrapposto al postmoderno, secondo una modalità che potremmo definire di sospensione. Poiché il postmoderno ha portato ad una dispersione dei codici che compongono l’architettura, i diagrammi di Eisenman intendono sospendere tale dispersione riconducendoli al puro concetto.

Se il tema del saggio di Eisenman è la rappresentazione del limite (dell’architettura in quanto disciplina) il suo oggetto sono i Chamber Works di Daniel Libeskind (ricordiamo qui che Eisenman e Heijduk sono stati i primi maestri dell’architetto polacco). L’affinità tra Libeskind (con un passato da musicista virtuoso) e Eisenman è la stessa che lega quest’ultimo al filosofo francese Jaques Derrida: le loro riflessioni riguardano il codice linguistico nel suo essere fondamentalmente concetto, riconoscendo il fatto che proprio nel rapporto tra lettura e scrittura del linguaggio si nasconde la forza nascosta di un possibile pensiero del presente, al di là della storia, al di là della produzione e più profondo della superficiale piattezza postmoderna. Se il postmoderno infatti è populista (nell’accezione di Robert Venturi) e teso alla sovrabbondanza formale in funzione di un superficiale riconoscimento a-critico, la decostruzione riapre alla possibilità di una critica (e dunque ad una lettura approfondita e ad una scrittura concettuale).

Il primo movimento che caratterizza la decostruzione eisenmaniana è quindi una presa di distanza (critica), appunto una sospensione. E’ necessaria la definizione negativa di non-architettura per sospendere per un istante (e dunque sottrarre) l’architettura dalla sua dispersione in quanto codice. In questo modo l’architettura viene riportata ad una dimensione senza tempo (un tempo che

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va inteso, qui, come il tempo della produttività postmoderna), ad un momento riflessivo che precede ogni poetica. Ma questo primo movimento, questa sospensione è necessaria per permettere la poetica stessa, ovvero la possibilità di una rinnovata unità tra teoria e prassi architettonica. Solo così sarà possibile determinare un’uscita dall’empasse postmoderna e dalla sua logica del pastiche. Il superamento hegeliano, la sintesi degli opposti (architettura/non-architettura, passato/futuro) viene sospesa per il riconoscimento dell’atto del pensiero poetico, che comincia così a delinearsi come punto nodale di una riflessione sull’architettura nella contemporaneità.

Si raggiunge così una dimensione quasi classica, quella dei due piani mai confondibili, ma nemmeno sintetizzabili dialetticamente, quella dell’intreccio tra trama e ordito, della tessitura tra senso e voler-dire (secondo l’analisi che Derrida fa di Husserl). Piani quasi distinguibili, mai coincidenti, in cui il ruolo del concetto (inteso come ciò che sta tra senso ed espressione) diventa fondamentale, anche se si tratta di un ruolo scivoloso, almeno quanto l’identificazione del presente. Difficile, senza ammettere la sintesi, riuscire a concepire positivamente il concetto (per il linguaggio) e il presente (per il tempo). E’ una tensione che al di fuori della poetica (e dunque di un ruolo non solo assoluto ma determinante del soggetto) rimane zoppo, incompiuto. Infatti la riflessione eisemaniana (ma anche derridiana) è ancora legata ad un sistema di pensiero che opera sui frammenti alla ricerca di un tutto, ma che non intende minimamente interrompere tale ricerca per creare nuovamente (e poeticamente) il tutto.

Da qui lo stretto rapporto che lega forma e monumento, con un continuo transito attraverso il soggetto e la dimensione temporale del presente. Infatti la poetica della forma architettonica è dimensione strettamente presente, ma quando il soggetto diviene fondamento ontologico del mondo, il suo presente, anzi, meglio, il suo attuale (inteso come dimensione dell’atto in risposta ad uno spazio degli eventi) tende a ricostruire (meglio, a fondare istante dopo istante) l’originaria eternità, dunque tendendo al classico come sistema di pensiero. Si tratta di continue espansioni dell’istante, di esplosioni temporali che portano dall’istante all’eterno, in analogia con quanto afferma Deleuze quando dice che varianza e invarianza sono concausali, ovvero interrelate e non contrapposte. In questa logica ritroviamo la ragione che ci ha condotto al tentativo di dare una definizione di tempo

presente, al di là di ogni ulteriore sospensione. Attraverso il logos del diagramma è possibile uscire dalla desacralizzazione del tempo

compiuta, come abbiamo visto, dal postmoderno. Tale uscita, e sembra qui necessario affermarlo, non implica la determinazione della nostra contemporaneità come altra rispetto al moderno, al

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contrario definisce il nostro tempo come quello della modernità radicale, per la quale il postmoderno, oramai concluso, è stato solo una deviazione da un percorso tracciato per l’Occidente.

9. Il tempo come progetto. La possibilità del progetto si fonda, oggi, sulla possibilità di pensare il presente. Abbiamo

cercato di dar ragione di questa affermazione attraversando la storia del pensiero e dell’economia dell’Occidente, delimitando le nostre riflessioni secondo le trasformazioni incorse nelle categorie di spazio e di tempo. Il capovolgimento che ci è parso più significativo è stato determinato dalla possibilità di pensare lo spazio attraverso il tempo come alternativa alla prassi produttiva di pensare il tempo attraverso lo spazio (fenomeno che Harvey identificava per il fordismo denominandolo spazializzazione del tempo). Tenteremo ora di dar ragione del fatto che il riconoscere il tempo non implica determinare un processo di generatività nell’architettura, un suo continuo divenire biologico (secondo quanto sostiene, tra gli altri, Greg Lynn33), quanto piuttosto la possibilità di ritrovare il presente. Si tratta evidentemente di un bivio: da un lato la rivalutazione del tempo si pone come pensiero debole che ha la pretesa di una totale liberazione dell’architettura dai principi che la fondano, dall’altro la ricerca del tempo presente si evidenzia come pensiero forte e terribile, che ha lo scopo di riscoprire la fondamentale dimensione politica nell’architettura. Nel ricercare il presente noi seguiremo questa seconda via.

Martin Heidegger ha dedicato gran parte del suo lavoro alla riflessione sul tempo, e il suo fondamentale Essere e Tempo ne è testimonianza. Tuttavia, per questa ricerca, ci vedremo costretti a delimitare la mole delle sue riflessioni ad alcuni punti fondamentali, necessari per poter giungere alle questioni della rappresentazione e della poetica, che accolgono da un lato la dimensione ermeneutica e sociale del monumento nel suo porsi di fronte alla città e dall’altro la possibilità del progetto del monumento nella contemporaneità.

Riconosciamo innanzitutto in Heidegger l’atteggiamento del suo pensiero. Egli intende indagare l’uomo, la sua esistenza, la sua vita, ovvero, per usare la sua più conosciuta espressione, l’esserci. Il suo è un pensiero sull’uomo e per l’uomo, e la temporalità è la caratteristica più evidente dell’umanità: “l’esserci in quanto vita umana è primariamente un essere possibile, è l’essere della

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possibilità (…).”34 E, per determinare questa possibilità, Heidegger afferma che è necessario stabilirne i limiti: un limite superiore, ovvero l’eternità che non appartiene all’uomo, e un limite inferiore, ovvero la morte, profondamente umana. Prima di morire l’uomo compie tutta la sua possibilità, la sua intima ragione d’essere. E nel precorrere questa possibilità estrema sta il senso del tempo secondo il filosofo tedesco. “Il precorrimento, in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci.”35

Il tempo viene riportato all’uomo, il quale, propriamente, ne dà ragione. Non è più il tempo ‘astratto’ che ha perduto la sua sacralità. Esso, al contrario, venendo a delinearsi in ragione della morte (e dunque di un sacrificio futuro), è nuovamente sacrale. Questo recupero è determinante per la nostra riflessione, ci conduce nella direzione del sacro, verso la terribilità del monumento. Ma come ricondurre il senso sacrale del tempo all’architettura? Come individuare nuovamente la possibilità di un’architettura sacra?

Il considerare il rapporto tra l’uomo e il tempo come un’unità inscindibile conduce lo stesso Heidegger a riflettere sulle conseguenze di questa affermazione. L’essere temporale dell’uomo porta a considerare, di conseguenza, il fare dell’uomo, e propriamente il suo abitare ed essere creatore di

luoghi. Questo suo essere creatore di luoghi attraverso il costruire, è per il filosofo tedesco un riaffermare ciò che la lingua tedesca dice, nella convinzione che sia il linguaggio a contenere la ragione d’essere di ogni pensiero. “Che cosa significa dunque costruire? L’antica parola altotedesca per bauen, costruire, è buan, e significa abitare. Che vuol dire: rimanere, trattenersi.” E ancora “il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare.”36 In questo atto fondamentale del costruire-per-abitare sta la ricaduta della fondamentale temporalità dell’uomo.

Dunque, attraverso la comprensione di che cosa sia la temporalità deriva il concetto stesso di luogo, inteso come il modo in cui l’uomo abita il mondo. Questa concezione del luogo fonda a sua volta lo spazio, ben prima che esso divenga concetto strumentale (per la geometria, la matematica e la fisica). Abitando l’uomo produce spazio ed edifici, ed ogni produrre dovrà interrogarsi sulla tecnica di tale produzione e sull’apparire intrinseco ad ogni produzione. Infatti pro-durre contiene il suo significato originario di far apparire qualcosa tra le cose presenti per mezzo della technè, ovvero della tecnica. Ma tale apparire è presente, in analogia al ‘far essere presente’ contenuto nel termine rap-presentare. Dovremo interrogarci dunque su quanto la rappresentazione, nel monumento d’architettura, possa condurci al suo essere presente nel tempo.

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Solo attraverso il tempo presente possiamo nuovamente comprendere cosa significhi abitare, e dunque ritrovare la possibilità di un ritorno alla polis. Affermazione apparentemente scontata, ma alla luce di quanto abbiamo visto finora, in queste tracce che abbiamo cercato di seguire, profondamente terribile. Il pensiero sul monumento è quasi tautologico, quindi. Ci porta a pensare al pensiero (al Denkmal), a ricercare quel momento della pienezza del tempo di cui ci parlavano Platone e il suo mito contenuto nel Politico. “Costruire e pensare sono sempre, secondo il loro diverso modo, indispensabili per l’abitare. Entrambi sono però anche insufficienti all’abitare, fino a che attendono separatamente alle proprie attività, senza ascoltarsi l’un l’altro.”37

10. Il progetto del tempo: i pans de verre ondulatoires alla Tourette. Abbiamo visto fin qui che la riflessione sul monumento ci ha condotto attraverso alcuni punti

nodali della nostra contemporaneità: l’avvenuta rimozione del sacro, le trasformazioni di spazio e di tempo, la necessità di un recupero del presente e di una riflessione sulla rap-presentazione, l’importanza di una poetica per abitare il mondo e la conseguente unione intima tra il pensiero e la costruzione.

Ma il modo in cui noi architetti possiamo ritrovare il tempo, al di là della filosofia (che tuttavia ci ha aiutato a svelare la profondità enigmatica della parola monumento), rimane il ritmo, quell’articolazione dello spazio vuoto tra i volumi architettonici che Giedion citava riferendosi alla sacralità originaria dell’architettura. L’armonia come concetto che unisce architettura e musica, due arti che hanno vissuto nella prima metà del XX secolo lo stesso conflittuale rapporto con la produzione, dando risposte spesso analoghe alla loro intima necessità di rapportarsi con l’uomo piuttosto che con il mondo della merce culturale.

Ci sembra dunque sintomatica la collaborazione tra Le Corbusier, che come abbiamo visto precedentemente si è sempre dimostrato attento testimone dei passaggi epocali, e Iannis Xenakis, ingegnere e musicista. Xenakis, all’interno dell’atelier di Le Corbusier, si occupava principalmente dei calcoli strutturali, ma contemporaneamente il suo profondo interesse per la musica e le scienze lo spingeva ad essere attento testimone della composizione, architettonica e musicale. Nel 1953 venne affidato a Xenakis il suo primo progetto di architettura: il convento di Sainte-Marie-de-la-

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Tourette (a Eveux-sur-l’Arbresle) per l’ordine domenicano di Lione. L’impianto del convento è rettangolare: le celle chiudono tre lati, mentre il quarto è delimitato dalla grande aula della chiesa.

Mentre le celle prefabbricate riprendono il tipo delle camere d’albergo dell’Unitè d’Habitation di Marsiglia, la soluzione adottata per l’impianto del chiostro rappresenta il punto cruciale della composizione del convento. Esso infatti articola ulteriormente la riflessione che Le Corbusier ha condotto per la sua promenade nel corso degli anni. Il tema è denso di significati. La promenade è la forma più pura del rapporto tra l’uomo e l’architettura, punto di incontro tra il corpo umano (che Le Corbusier tenta di ridurre al modulor) e il corpo architettonico, tra il ritmo dell’incedere umano e il ritmo degli elementi verticali che compongono l’architettura. La promenade giunge ad essere così la vera qualità dell’architettura nella sua industrializzazione, il momento più alto in cui essa può mostrarsi ancora opera dell’uomo per l’uomo. La promenade di La Tourette acquista tuttavia significati ben più pregnanti. Innanzitutto essa occupa il chiostro del convento, dunque il luogo in cui si svolge la meditazione, passeggiando, misurando lo spazio e il pensiero attraverso il proprio incedere. Essa è dunque in posizione centrale rispetto all’impianto (posizione decisa fin dai primi studi di Le Corbusier a memoria dell’impianto di una chiesa di Mosca, “una sorta di scatola verticale con una rampa che dava accesso al suo centro”38), e questa centralità è rafforzata e resa simbolo (per ragioni anche funzionali e distributive) dalla sua pianta cruciforme.

Si poneva dunque la necessità di dare un carattere particolare alle due rampe incrociate che attraversavano il vuoto del chiostro. Esse avevano una funzione distributiva, ma la svolgevano in modo tale da dare continuità e misura all’intero complesso. Inoltre, durante la promenade, i monaci e i padri domenicani dovevano poter contemplare la natura contenuta nel chiostro. Xenakis, nel 1954, cominciò quindi a studiare in che modo comporre le grandi vetrate, ponendosi come scopo la creazione di uno spazio che assumesse un carattere quasi mistico, sacrale, contemplativo, che introducesse inoltre alla sacralità dell’aula della chiesa.

Il tema divenne un problema compositivo, che accoglieva sia l’architettura che la musica: il risultato furono i pans de verre ondulatoires, descritti più tardi in Modulor 2. Le ricerche compositive di Xenakis, di matrice profondamente umanista, portarono, in seguito, al progetto del Padiglione Philips (di cui parleremo nel capitolo seguente), rivelando ulteriori riflessioni anche sul ruolo dell’immagine come strumento per giungere al tempo presente attraverso un suo tendere al sacro. Sia i pans de verre ondulatoires che le curvature del Padiglione Philips rinviano alla possibilità di ripensare allo spazio esterno (e al suo ritmo umano) come un vuoto determinato dalla sensualità del tempo.

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Note al capitolo secondo 1 Per quanto riguarda il concetto di coppia diagrammatica si intende qui, seguendo un pensiero debitore al Millepiani di Deleuze, una possibile sospensione della sintesi idealista, della logica del superamento hegeliano. La coppia diagrammatica si pone come una continua articolazione tra i due enti che la compongono senza che nessuno dei due si annulli nell’altro. Il diagramma è, in questo, analogo alla condizione metalinguistica del paradigma. 2 HARVEY D., La crisi della modernità, ed. Il Saggiatore, Milano, 1997, p. 268. 3 LEFEBVRE H., La prodution de l’espace, Parigi, 1974. 4 CURI U., La ‘verità’ del monumento, in MONTINI ZIMOLO P. (a cura di), Il progetto del monumento tra memoria e invenzione, ed. Mazzotta, Milano, 2000. 5 SANT’AGOSTINO, Le confessioni, cfr. Libro X, § 16. 6Ibidem, cfr. Libro X, § 11. 7 GADAMER H. G., Verità e metodo, ed. Bompiani, 1983, pp. 38 e 39. 8 PLATONE, Il Politico, a cura di Maurizio Migliori, ed. Bompiani, Milano, 2001, p. 101. 9 PLATONE, Il Politico, op. cit., pp. 116 e 117. 10 “Una volta non solo la tecnica aveva il nome di techè. Una volta si chiamava technè anche quel disvelare che pro-duce la verità nello splendore di ciò che appare. Una volta si chiamava techè anche la pro-duzione del vero nel bello, techè si chiamava anche la poiesis delle arti belle. (…) Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte.” HEIDEGGER M., La questione della tecnica, op. cit., pp. 26 e 27. 11 LEON BATTISTA ALBERTI, De re aedificatoria, traduzione a cura di Orlandi G., Milano, 1966, IX.5, p. 816. 12 POLLITT J., The Ancient view of greek art: criticism, history and terminology, New Heaven-London, 1974. 13 STRAVINSKIJ I., Poetica della musica, ed. Studio Tesi, Pordenone, 1991, p. 21. 14 Sembra qui necessario proporre il pensiero di Henri Bergson relativo alla questione del tempo e della memoria. Nel suo Materia e Memoria del 1896, il filosofo francese descrive il ruolo attivo (e non archivistico) della memoria nel porsi come continuità tra passato e futuro. Così Deleuze descrive questa particolare concezione della memoria: “ci sono quindi due memorie, o due aspetti della memoria indissolubilmente legati, la memoria-ricordo e la memoria-contrazione. Se ci domandiamo quale sia la ragione di questa dualità della durata, la scopriremo nel movimento per il quale il presente che dura si divide a ogni istante in due direzioni, l’una orientata e dilatata verso il passato, l’altra contratta, e che si contrae verso il futuro.” (DELEUZE G., La memoria come coesistenza virtuale, in Il bergsonismo e altri saggi, ed. Einaudi, Torino, 2001, pp. 41 e 42). Il passato si viene a delineare, per Bergson, come una dimensione compiuta, assoluta, che definisce virtuale, mentre il presente assume una dimensione attiva, propriamente attuale, la cui peculiarità consiste, oltre che nel suddividersi continuamente in passato e futuro, nel rendere attuale il passato richiamandone attivamente i principi e i valori. 15 GIEDION S., Spazio, tempo e architettura, ed. Hoepli, Milano, 1984, p. XXXVIII. 16 Ibidem. 17 Ibidem, p. XL. 18 A riguardo del vuoto scrive Anthony Giddens che “la separazione del tempo e dello spazio e il loro costituirsi in dimensioni standardizzate e ‘vuote’ ha reciso i legami tra l’attività sociale e la sua ‘aggregazione’ nelle particolarità dei contesti di presenza. Le istituzioni disaggregate estendono notevolmente la portata della distanziazione spazio-temporale e, per avere questo effetto, dipendono dalla coordinazione nel tempo e nello spazio.” (in GIDDENS A., Le conseguenze della modernità, ed. Il Mulino, Bologna, 1994, p. 31). Il vuoto diviene ambito paradigmatico per una riflessione sul tempo in relazione alla possibilità di un ripensamento della dimensione politica nell’architettura, così come il centro è ambito per una riflessione sul sacro. Ritroviamo così le due articolazioni del nostro paradigma per la comprensione della contemporaneità. 19 Ibidem, p. XLII. 20 LE CORBUSIER, Verso un’architettura, ed. Longanesi, Milano, 1973, p. 55. 21 BONFIGLIOLI S., L’architettura del tempo, ed. Liguori, Napoli, 1990, pp. 72-73. 22 HARVEY D., La crisi della modernità, op. cit., p. 299. 23 Ibidem, p. 306. 24 BOURDIEU P., in Harvey, op. cit., p. 309. 25 HARVEY D., op. cit., p. 331. 26 Ibidem, p. 337. 27 FOUCAULT M., Of Other Spaces, in Other Spaces – The Affair of the Heterotopia, a cura di Roland Ritter, ed. HDA Dokumente zur Architektur, Graz, 1998, p. 26. Trad. italiana di E. Lain.

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28 Ibidem, p. 28. 29 Ibidem, p. 36. 30 Si veda a questo proposito il capitolo quarto, §1.Moderno, post-moderno e contemporaneo. 31 Dobbiamo riconoscere tuttavia che gli eccessi del trans-formale hanno avuto il merito di delineare la condizione-limite della rappresentazione assoluta e di ricondurre la forma a quel suo essere intimamente processuale che, come abbiamo visto in precedenza (cfr. Capitolo primo §9. Origini del concetto di forma), costituisce le sue origini. 32 EISENMAN P.,The Representation of the Limit, in RIZZI R. (a cura di), La fine del classico, ed. Cluva, Venezia, 1987. 33 LYNN G., Animate Form, Princeton Architectural Press, NY 1999. 34 HEIDEGGER M., Il concetto di Tempo, ed. Adelphi, Milano 1998, p.37. 35 Ibidem, p. 39. 36 HEIDEGGER M., Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, ed. Mursia, Milano 1976, p.97. 37 Ibidem, p. 107. 38 Si veda quanto scrive lo stesso Xenakis sulla propria esperienza progettuale con Le Corbusier nel saggio Il convento di La Tourette, in Le Corbusier (1887 – 1965), H. ALLEN BROOKS (a cura di), ed. Electa, Milano, 1993, pp. 182 e segg.

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CAPITOLO TERZO

SULL’IMMAGINE

1. Verso la profondità dell’immagine. Risulta necessario chiarire ulteriormente le riflessioni che ci hanno condotto all’immagine. Le

premesse sono già state in parte chiarite in precedenza (cfr. Cap. secondo §7. Il tempo presente), quando abbiamo affermato che di fronte all’assenza dell’invisibile metafisico il tempo presente non può che essere ritrovato nella rap-presentazione. Vedremo in seguito come essa si articoli, nella contemporaneità, tra il carattere dell’architettura da un lato e il suo riferirsi a memorie propriamente visive dall’altro (sarà il caso della Kunsthal di Rem Koohlaas a Rotterdam). La correlazione logica tra queste due articolazioni della rappresentazione sarà data dalla tecnica costruttiva e dalla possibilità di un riconoscimento della forma in quanto sistema costruito di pensiero.

Si delinea, attraverso l’immagine, la possibilità di giungere nuovamente ad una certa profondità, che sembra essere stata perduta attraverso il post-moderno. Riconosciamo quindi un primo dato evidente, ovvero che l’immagine costituisca un dato utile alla conoscenza e alla riflessione sulla città e sull’architettura1. Tale riconoscimento sottende la premessa già posta di un orizzonte totalmente artificiale, ma dobbiamo risalire al fondamento originario di questo spessore

dell’immagine al fine di dare ragione delle riflessioni che seguiranno senza incorrere nell’errore di scambiare un fenomeno con la sua causa.

Ci poniamo dunque un primo interrogativo: se oltre l’immagine non esiste più un orizzonte di senso invisibile da rappresentare, qual è il ruolo, oggi, dell’immagine? Un primo chiarimento viene da S. Agostino, quando, riflettendo sulle immagini e sul loro rapporto con la memoria, scrive che “è difficile dire se le cose si ricordano mediante le immagini oppure no. Nomino la pietra o il sole, ed essi non sono presenti ai miei sensi, mentre le loro immagini sono a disposizione della mia memoria. Nomino un dolore fisico, ed esso non è in me poiché non mi duole nulla; ma se la sua immagine non fosse presente nella mia memoria non saprei distinguerlo dal piacere. (…). Nomino l’immagine del

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sole ed essa è nella mia memoria; non rievoco infatti l’immagine di un’immagine, ma l’immagine stessa: essa è disponibile al mio ricordo.”2

L’immagine viene così riportata alla memoria, ma il suo rapporto con essa appare più problematico di quanto accada invece per il linguaggio, poiché l’immagine sembra essere pericolosamente più autonoma della parola nel ricondurci alla memoria e, di lì, alla verità. Tuttavia se la scomparsa dell’invisibile ha condotto al totalmente visibile dovremo affrontare questa pericolosità dell’immagine, rilevando che la sua terribilità non risiede nella sua autonomia ma nella sua origine sacrale.

Dobbiamo prima dar conto di un altro punto nodale del passaggio, che stiamo cercando di delineare, tra il post-moderno e il moderno radicale della contemporaneità. Infatti se il post-moderno ha indagato la forza dell’autonomia del linguaggio (cfr. Cap. quarto §1.Moderno, post-moderno e

contemporaneo), il moderno radicale si pone di fronte all’autonomia del visivo. Anche qui è necessario però chiarire che questo fenomeno non è causa ma effetto di una condizione contemporanea che ha superato quella post-moderna. Se il linguaggio è stato in certa misura strumento essenziale per la formazione dei paradigmi post-moderni e fondamento, nel XX secolo, dello spirito avanguardista e di quelle che abbiamo chiamato mitologie ausiliarie, oggi è il visivo ad essere chiamato, in tutta la sua problematicità, a dar conto della contemporaneità.

Ma perché rivolgersi all’immagine? E’ solamente una questione legata alle possibilità date dalle recenti tecnologie della rappresentazione o possiamo ritrovare delle radici più lontane in grado di fondare il visivo come alternativa possibile al linguaggio? Quanto cercheremo di delineare, qui, è il fatto che il visivo si pone come un punto notevole di contatto tra l’architettura, come sistema conoscitivo, e il reale, con un grado di complessità per certi versi superiore a quella del linguaggio. I sintomi che hanno condotto a questa affermazione vanno ricercati, oltre alla questione della rappresentazione digitale nell’architettura, nel rapporto che si è venuto a creare, nella contemporaneità, tra forma, pensiero e rappresentazione. Come vedremo nel capitolo successivo si delinea, oggi, una condizione notevole per cui il pensiero si fa immagine, così come, analogamente, si fa forma. La problematicità racchiusa nel visivo è evidente: mentre la parola crea inevitabilmente sistemi e stati di relazione attraverso la propria capacità discretizzante, l’immagine, analogamente alla forma, si pone in modo autonomo, sincretico e sintetico. Rileviamo tuttavia anche la ricchezza poetica dell’immagine. Là dove la scrittura poteva condurre sia alla dimenticanza che al raggiungimento dell’invisibile forma delle forme attraverso la poesia, l’immagine sembra oggi poter condurre poeticamente al logos umano.

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Si tratterà quindi di ritrovare le radici originarie dell’immagine, indagando infine un piccolo ma straordinario artefatto architettonico, il Padiglione Philips di Le Corbusier, uno dei suoi notevoli e dimenticati fuori tema, o, per dirla con Foucault, un’eterotopia che ha accolto le straordinarie intuizioni di un architetto che intendeva indagare fino in fondo il proprio tempo.

2. Contemplazione o incanto? Per ritrovare l’originaria profondità dell’immagine dovremo liberare la sua significatività disvelandola dalla seduzione che la riveste. Intendiamo qui dar brevemente conto di quella pericolosità intrinseca sia alla parola che all’immagine nel loro essere anche strumenti di seduzione e di incanto. Jean Baudrillard, nel suo Della Seduzione del 1979, dava conto di quella superficialità post-moderna di cui abbiamo parlato in precedenza, rivelando come nell’incanto prodotto dalle regole della seduzione (del segno, della parola e dell’immagine) si rendesse possibile solamente un gioco di continui rimandi, senza un orizzonte di senso in grado di fondare un sistema significante, e dunque conoscitivo. Di fronte al nulla della morte, che costituiva invece, come abbiamo visto, il fondamento dell’esistenza umana per Heidegger, ci si rivela l’incombenza del vuoto, dell’assenza. Là dove Heidegger rilevava la necessità di affrontare la terribilità di questo nulla, Baudrillard pone l’alternativa del gioco effimero del sedurre. Il suo carattere effimero risiede nel suo essere senza

tempo, nel senso di un istante che non può essere fondato nella durata, né tanto meno nel passato. “Il segreto”, scrive Baudrillard, “è saper giocare con questa morte in mancanza dello sguardo, in mancanza del gesto, in mancanza del sapere, in mancanza del senso.”3

L’incanto della seduzione trae origine da questa sua inutile superficialità che si gioca solamente sull’apparenza, secondo una logica che conduce all’impossibilità di conoscere la verità, o, per dirla con Baudrillard, la Legge, nel suo carattere trascendente. Nell’incanto della seduzione non c’è verità, ma nemmeno tempo. Ogni discorso diviene così pura apparenza, questa la pericolosità a cui tende l’artificiale “perché la seduzione sta nel segreto creato dalla levità dei segni dell’artificio, e non in un’economia naturale di senso, di bellezza o di desiderio.”4 Nell’orizzonte dell’artificiale Baudrillard rivela così un’unica possibilità, ovvero quella di porsi Regole e non Leggi, da seguire per il semplice fatto che, per Baudrillard, non esiste alternativa. “(…) Bisogna senz’altro liberarsi dall’idea che ogni nostra felicità derivi dalla natura, che ogni nostro godimento derivi dalla soddisfazione di un

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desiderio. Il gioco, la sfera del gioco ci rivela al contrario la passione della regola, la vertigine della regola, la potenza che deriva da un cerimoniale (…). Questa è la fascinazione del gioco, la passione cristallina che cancella la traccia e la memoria, che fa perdere il senso.”5 Eppure, rivolgendosi nuovamente al tempo, e ad un suo progetto, è possibile ritrovare la profondità perduta dell’immagine e la memoria del visivo, determinando un possibile fondamento di verità. Di fronte all’incanto della seduzione dell’immagine (ma anche della parola) si pone così quel recupero della sacralità del tempo presente che abbiamo cercato di delineare in precedenza e a cui ci hanno condotto le riflessioni sul monumentale. Per questa ragione affermiamo che è impossibile, nell’artificiale, liberarsi dal concetto di monumento, poiché senza di esso saremmo costretti ad accettare la superficialità della seduzione, per la quale non esiste più alcuna possibilità di giungere al senso delle cose. Andare oltre è impossibile, così come non è più data alcuna trascendenza: se l’architettura intende ritrovare, oggi, la propria possibilità conoscitiva, deve recuperare la propria origine sacrale come unico orizzonte di senso possibile nell’ambito del totalmente artificiale, dove il sacro, lo ripetiamo, non è altro che la memoria della separazione originaria dell’uomo dalla natura, senza rinviare ad altro. Per creare ordine l’uomo non può che porsi il sacro come limite estremo del proprio pensiero del mondo. Rivolgersi al sacro è quindi necessario per dar conto della possibilità di essere partecipi al proprio tempo, ovvero di poter con-templare per conoscere.

3. Sacralità originaria dell’immagine. Il rapporto tra immagine e sacro va quindi ritrovato al fine di dar conto di quella profondità in grado di condurci nuovamente alla contemplazione. Anche qui ci rivolgeremo all’origine etimologica dell’immagine. Il termine greco usato per ‘immagine’ è eidolon (da cui deriva il nostro idolo), il quale significa inizialmente fantasma dei morti, spettro, e solo in seguito immagine e ritratto. Jean-Pierre Vernant, nel suo Nascita d’immagini e altri scritti su religione, storia ragione6, descrive così le tre accezioni della parola ‘immagine’: onar è l’immagine del sogno, phasma è l’apparizione suscitata da un dio, psyche è il fantasma di un defunto. Anche l’origine del segno (in greco sema) è funeraria – per Omero sema cheein significa ‘erigere un sepolcro’. Secondo i greci immagine e parola hanno la medesima accezione originaria di sostituirsi al reale una volta sopraggiunta la morte. Immagine e parola nascondono e svelano la verità, in questo risiede la loro terribile duplicità.

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Il termine latino per ‘immagine’ è simulacrum, il quale indica lo spettro. Imago è il calco di cera del viso dei morti, che il magistrato portava ai funerali e che collocava nella propria casa in nicchie nell’atrio. Lo stesso termine figura originariamente significa fantasma. La religione romana, basata sul culto degli antenati, esigeva che essi sopravvivessero attraverso l’immagine (lo jus

imaginum era il diritto riservato ai nobili di ostentare in pubblico un doppio dell’avo7). Lo stesso termine rappresentazione, nella liturgia latina, designa un feretro vuoto su cui si stende un drappo mortuario per una cerimonia funebre. L’immagine nasce dunque in senso politico, per aumentare la visibilità del defunto ai fini della liturgia funebre. Riconosciamo così l’origine sacrale dell’immagine, chiamata originariamente a sostituire l’assenza al fine di nascondere la sua terribilità. L’immagine, in analogia alla forma, è chiamata ad un complesso rapporto con la trascendenza, di fronte alla quale non può che porsi, attraverso quei passaggi epocali che hanno condotto all’annullamento della metafisica, in modo autonomo. Tuttavia, come è accaduto per la forma, anche l’immagine reca traccia e memoria di questa sua condizione originaria, la quale non può esserle sottratta. L’immagine genera per Regis Debray il visivo come alternativa alla trascendenza: “il visivo è iniziato da quando abbiamo acquisito poteri sufficienti sullo spazio, sul tempo e sui corpi, da non temere più la trascendenza.”8

Dobbiamo quindi indagare cosa sia accaduto all’immagine nel momento in cui è cominciata la desacralizzazione del mondo, ovvero il momento in cui l’artificiale si è posto come unico orizzonte possibile di fronte alla scomparsa del naturale e in cui la parola e l’immagine hanno assunto a pieno titolo tutta la loro straordinaria autonomia significante.

4. Il ruolo conoscitivo dell’immagine. Il ruolo conoscitivo dell’immagine è interno al suo far parte della rappresentazione. La sua

valenza si fonda con la nascita della dimensione estetica e attraversa problematicamente la questione dell’opera d’arte dal XVIII secolo ad oggi. La possibilità di giungere alla verità della rappresentazione viene indagata dall’ermeneutica di Verità e Metodo, straordinaria opera di Hans Georg Gadamer, pubblicata nel 1960. Quanto ci interessa qui è risalire alla dimensione sociale e politica della rappresentazione attraverso l’immagine, al di là di quella sua originaria condizione mimetica che la poneva ancora in un rapporto stretto con il dato naturale.

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Gadamer infatti indaga il ruolo conoscitivo dell’immagine, distinguendo nella sua funzione rappresentativa due momenti fondamentali. Il primo momento vede l’immagine come pura rappresentazione, e dunque imitazione (mimesi), secondo la quale essa ha una funzione eminentemente conoscitiva. Il concetto di imitazione è sufficiente a fondare una teoria conoscitiva dell’arte e dell’architettura. Il secondo momento riguarda invece l’immagine come ritualità (adozione dello schema, dunque, al posto di quell’opposizione platonica tra eidos e morfè di cui abbiamo parlato in precedenza).

In questo secondo momento l’opera appartiene al mondo nel quale si presenta, la sua presentazione apre alla ritualità sacrale, all’opera teatrale e alla musica. L’immagine diviene ambito di transito tra l’azione dell’arte e l’azione umana, in un chiaro intento sociale. Dice Gadamer “la tesi è dunque che l’essere dell’arte non può venir definito in quanto oggetto di una conoscenza estetica, giacché all’opposto l’atteggiamento estetico è più di quanto esso stesso sa di essere. Esso è una parte del processo ontologico della rappresentazione.”9 Gadamer spiega questa ritualità dell’immagine (e del suo analogo della forma) attraverso la metafora del gioco: “il gioco è forma; e ciò significa che, nonostante il suo necessario rimando alla rappresentazione, esso è un tutto significativo che come tale può essere ripetutamente rappresentato e compreso nel suo proprio senso. La forma, dal canto suo, è anche gioco in quanto, nonostante questa sua ideale unità, raggiunge il suo essere pieno solo nelle singole rappresentazioni, nell’essere via via ‘giocata’. E’ la reciproca connessione di questi due aspetti quella che va sottolineata, contro l’astrattezza della ‘differenziazione estetica’.”10

Qui si presenta il carattere comunitario dell’immagine, che accoglie in sé sia l’unità che il transito: l’immagine si avvia ad essere prima rituale, poi processuale. Questo viene spiegato da Gadamer come un passaggio dalla differenziazione estetica (secondo la quale, in presenza della mimesi, l’immagine è quasi uguale all’oggetto della rappresentazione), alla non-differenziazione

estetica, tale per cui la forma-immagine acquista significato in sé, totale artificio che non si relaziona più con la natura ma con la socialità delle proprie rappresentazioni (presenza, dunque, di un pubblico). Scrive Gadamer a riguardo: “Ciò che abbiamo chiamato forma è tale in quanto si presenta come una totalità dotata di senso. Non è qualcosa che abbia una realtà in sé e poi ci si dia in una mediazione per esso accidentale; proprio nella mediazione raggiunge il suo essere proprio. La varietà delle esecuzioni o delle realizzazioni di una tale forma può dipendere quanto si vuole dall’interpretazione dell’esecutore, ma in ogni caso non può rimanere chiusa nell’intimo della sua soggettività, non può non presentarsi fisicamente davanti ad altri. Non si tratta dunque di una varietà

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puramente soggettiva di interpretazioni, ma di possibili modi di essere priori dell’opera stessa, la quale, in un certo senso, interpreta se stessa nella varietà dei suoi aspetti.”11.

Si intuisce, in questo passo di Gadamer, il tentativo di ricondurre l’estetica ad una forma di percezione sensibile attraverso il carattere sociale della rappresentazione12. E’ quindi il carattere astratto della forma-immagine a costituire quella pericolosità che abbiamo rilevato inizialmente per l’immagine. La stessa pericolosità rilevata anche per la tecnica: l’uso di immagine e tecnica al di fuori di una socialità è destinato a rendere astratta la stessa esistenza umana.

Il problema che si pone Gadamer è il seguente: se la forma-immagine è rappresentazione dell’opera, che ne è dell’identità dell’opera? In che modo essa si mantiene nel tempo delle diverse rappresentazioni? A ben vedere ciò riguarda anche la possibilità di ricondurre ad un unico paradigma, nella nostra contemporaneità, le dualità forma-immagine e monumento-tempo, valutando se da tale incontro possa aprirsi la possibilità di porre la dimensione politico-teleologica (ovvero progettuale) come filo rosso che competa principalmente alla disciplina architettonica.

Gadamer introduce quindi alla temporalità dell’estetico, criticando il principio (ancora profondamente legato ad una conoscenza mimetica del mondo) della a-temporalità dell’essere estetico. L’a-temporalità, secondo Gadamer, nasce solo come concetto negativo, considerabile all’interno di un ambito dialettico tra temporale e a-temporale. Ci troviamo ancora di fronte al sacro e alla sua originaria temporalità. Se si considera il sacro come l’inizio del tempo umano allora l’opera dell’uomo e la sua rappresentazione diverranno momenti decisivi del rapporto poetico dell’uomo con il proprio tempo. Il sacro si porrà così come una condizione-limite irraggiungibile, ma in grado di determinare un orizzonte possibile di senso.

L’identità della forma-immagine è assicurata qualora si consideri ogni rappresentazione originaria quanto l’opera stessa. Si tratta di una conseguenza fondamentale per la conoscenza della verità dell’opera, ovvero considerare la valenza ontologica dell’immagine. Se si ammette questa profondità dell’immagine, si deve parimenti riconoscere il fatto che essa acquista tutta la propria valenza rappresentativa solamente attraverso il suo riconoscimento da parte dell’abitante. Infatti come la forma-immagine assume significato nella sua rappresentazione sociale, così si deve considerare anche il ruolo attivo da parte di chi partecipa a tale rappresentazione, ovvero al theoros, lo spettatore, il quale potrà essere partecipe della verità dell’opera (compreso anche il suo rinnovarsi nel tempo attraverso la rappresentazione) solamente riconoscendosi nella contemporaneità.

Scrive a riguardo Gadamer: “in ogni modo, all’essere dell’opera d’arte appartiene la ‘contemporaneità’. (…). ‘Contemporaneità’ vuol significare qui qualcosa di individuale, che si

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presenta a noi, per quanto remota possa essere la sua origine, nel suo presentarsi acquista piena presenzialità. La contemporaneità non è dunque un modo di darsi nella coscienza, ma un compito per la coscienza, qualcosa che deve attivamente realizzare. Essa consiste nel rapportarsi alla cosa in modo che questa divenga ‘contemporanea’, ossia in modo che ogni mediazione sia superata in una totale presenzialità.”13

Dunque, portando al limite queste riflessioni, possiamo affermare che il monumento non può che essere contemporaneo per il suo tendere alla significatività dell’opera d’arte, e che il suo valore, la sua verità non appartengono al suo essere testo o documento, ma al suo essere presente in quanto opera dell’artificio umano (dunque della poetica dell’uomo). Il monumento diverrebbe così ciò che di più temporale esista, poiché il suo essere sempre-presente equivale al suo essere nel divenire; considerare il monumento compiuto nel suo essere preesistenza dotata di valore storico (che dunque rimanda ad un sistema di valori estrinseco al monumento stesso) è una limitazione del concetto di monumento a cui ci ha portato il considerare il tempo storico come unico tempo possibile.

5. Valenza fondante e spessore dell’immagine. Ciò che ci interessa qui è spostarci dalla forma come struttura che fonda la riconoscibilità

allo spessore significante dell’immagine, nel tentativo di comprendere in che modo il recupero di immagini d’architettura come memorie di un’esperienza collettiva della città si configuri più nella questione del carattere che non in quella della ricerca di un’unità formale riconoscibile. E’ il carattere ad essere manifestazione della forma-immagine? E in che modo si pone il carattere nella questione del gioco (politico), ovvero dell’esser-sociale della forma architettonica?

Gadamer, riflettendo sull’opera d’arte, si pone come ambito di indagine il quadro, inteso come quell’opera d’arte incorniciata (ovvero separata) dalle sue “connessioni vitali e dalle sue particolari condizioni d’accesso”14. Per il suo essere limite e per il suo determinare così la separazione dell’opera dal suo contesto, la cornice pone la problematica questione dell’unità. Il problema viene articolato, anche qui, in due momenti: in un primo momento, in quella che Gadamer intende come differenziazione estetica, l’unità/unicità dell’opera viene assicurata dalla cornice che ha nel tempo storico le sue radici di legittimazione; in un secondo momento la cornice impedisce,

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secondo l’indifferenziazione estetica, all’opera figurativa di essere un gioco sociale, così come accade invece alla musica e alla poesia. Seguendo queste riflessioni possiamo affermare che se intendiamo recuperare un ruolo fondante del monumentale (passando dalle considerazioni relative all’arte all’architettura) nel suo essere politico (ovvero di poter costituire ancora il senso della città) dovremo porci in quella indifferenziazione estetica rilevata da Gadamer e che definiamo qui come diffusione dell’estetico. In altri termini riconosciamo, attraverso l’ermeneutica, la possibilità di ritrovare la verità del monumento attraverso la diffusione dell’estetico che caratterizza la nostra contemporaneità. La dimensione sociale del gioco15, che per Baudrillard era indice di una irrimediabile superficialità, viene così recuperata attraverso il ruolo attivo del cittadino. E’ lui, soggetto e spettatore delle immagini che la città e i suoi monumenti gli possono offrire, a costituire il vero fondamento primo della contemporaneità.

La dimensione politica dell’architettura viene quindi ritrovata attraverso la sua possibilità di darsi come rappresentazione e come immagine dotata di uno spessore caratteriale. E questo suo spessore non può, per Gadamer, che fondarsi ancora sulla sua origine sacrale. “L’insostituibilità dell’immagine (nel mondo antico), la ‘sacralità’ a cui non si deve recare offesa, mi pare trovino la loro giustificazione adeguata proprio in questa ontologia dell’immagine. Ancora la sacralizzazione dell’arte che abbiamo visto verificarsi nel XIX secolo vive di questa eredità.”16 E ancora “nell’immagine l’originale presenta se stesso. Ciò non vuol dire necessariamente che esso abbia bisogno proprio di questa rappresentazione per manifestarsi. Si può presentare per ciò che è anche in modo diverso. Ma quando in tal modo si presenta, questo non è più un fatto accidentale, bensì appartiene al suo essere stesso. Ogni rappresentazione di questo tipo è un evento ontologico, e entra a costituire lo stato ontologico del rappresentato. Nella rappresentazione, questo subisce una crescita dell’essere, un aumento d’essere. Il contenuto proprio dell’immagine è definito ontologicamente come emanazione dell’originale.”17

Lo spessore dell’immagine conduce quindi, in ultima istanza, a rovesciare il fraintendimento platonico, a superare ancora poeticamente il principio induttivo (per cui la forma-immagine e il suo essere rappresentazione sono il risultato finale, la dipendenza da un pensiero critico che pone l’idea originaria a fondamento unico dell’esperienza del vero e del bello). Lo spessore dell’immagine fonda ontologicamente la possibilità dell’opera di farsi sociale e politica proprio nella sua specifica autonomia. “L’immagine ha in tal caso una sussistenza autonoma che agisce anche sull’originale. Propriamente è infatti solo attraverso l’immagine che l’originale diventa immagine originale, è solo in virtù dell’immagine che il rappresentato diventa davvero qualcosa che si dà in una immagine.”18

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La specificità di tale autonomia sembrerebbe fondare l’autoreferenzialità come limite del progetto contemporaneo di architettura che assuma in sé i caratteri del monumentale. In quest’ottica esso non rinvia ad un originale proprio perché esso si pone come ciò che fonda l’origine stessa. E’ solo attraverso l’autoreferenzialità che la rappresentazione si manifesta per la sua valenza ontologica e politica, ovvero non per il suo essere medium ma per il suo essere tra, in una riapertura, appunto al dia-logo. E’ attraverso la possibilità del dialogo che si pone in essere il monumentale, non attraverso il suo essere storico ma appunto attraverso il suo essere profondamente temporale, il suo essere sempre presente attraverso il suo farsi rappresentazione in senso stretto. “Colui il cui essere è così essenzialmente caratterizzato dal mostrarsi non appartiene più a se stesso.”19 E ancora “parola e immagine non sono semplici aggiunte illustrative, ma fanno sì che ciò che esse rappresentano sia davvero completamente ciò che è.”

L’immagine, contrariamente alla parola, nel suo essere partecipe non rimanda e non scompare nell’adempiere alla sua funzione di rimando. Essa si pone come un possibilità conoscitiva più densa rispetto alla parola, superando in un certo modo sia il segno che il simbolo. Questa l’analogia profonda che lega immagine e forma, analogia che si articola secondo la possibilità della forma di essere costruzione di un pensiero e il suo completamento, nel politico, ad opera della rappresentazione. In questa analogia si fonda la possibilità di un fondamento conoscitivo dell’autonomia della forma, per cui la poetica della forma diviene anche conoscenza.

L’immagine costituisce un plusvalore che non è solo conoscitivo (ovvero non costituisce un altro modo per conoscere l’opera) ma che è propriamente atto a verificare la presenza dell’opera. Tale presenza costituisce un carattere di partecipazione attraverso il gioco sociale. Potremmo affermare quindi che presente, gioco sociale e immagine si articolano reciprocamente nella cura della città. Questa articolazione è stata in un certo modo corrotta in quella che è stata definita precedentemente come museificazione della città. Possiamo ritrovare, attraverso le riflessioni condotte finora sul ruolo dell’immagine, una delle cause della museificazione nell’appiattimento dell’immagine, alla quale non viene concesso più di affermare la presenza dell’opera umana. L’appiattimento dell’immagine è stato probabilmente determinato dalla rimozione dell’idea del sacro (forse inscindibile dal politico), rimozione che ha trasformato l’immagine in simbolo e la forma in icona, attraverso una generale istituzionalizzazione dei segni che ha appiattito il loro carattere di transito.

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Gadamer riconosce nel monumento il momento più alto dell’architettura, proprio per analogia al carattere di rappresentatività dell’immagine. “Diciamo che una costruzione ben riuscita è ‘una soluzione felice’, intendendo con ciò che essa adempie perfettamente alla sua funzione e, insieme, che apporta qualcosa di nuovo al paesaggio urbano o campestre in cui è stata eretta. Anche l’opera architettonica rappresenta, con questa sua duplice connessione, un vero aumento dell’essere: è quindi opera d’arte.”20 E ancora “la scienza dell’arte guarda solo a quegli edifici che contengono in sé qualcosa che si impone al pensiero, e li chiama ‘monumenti architettonici’. Quando un edificio è un’opera d’arte, esso non rappresenta solo la soluzione artistica di un problema costruttivo posto dallo scopo e dal contesto dell’ambiente a cui l’edificio deve appartenere; ma porta fissati in sé stabilmente il proprio scopo e il proprio contesto, di modo che questi sono sensibilmente presenti in esso anche quando la destinazione originaria sia divenuta remota ed estranea. C’è qualcosa in esso che rimanda alla sua origine. (…) Le opere architettoniche non se ne stanno immobili ai bordi del fiume della storia, ma sono trascinate da esso. (…) Un edificio deve bensì essere la soluzione di un problema artistico e attrarre perciò su di sé l’ammirazione dell’osservatore. Ma nello stesso tempo deve inserirsi in una situazione di vita e non presentarsi come fine di se stesso.”21

Attraverso la problematica questione dell’immagine giungiamo così a quella che è la verità

politica del monumento, ovvero il suo essere profondamente partecipe della vita della città, senza alcun rinvio ad una trascendenza che vada al di là dell’uomo. Prima di ritornare, attraverso questa affermazione, alla poetica e alla città dobbiamo soffermarci su un esempio, forse controverso, della ricaduta della forza dell’immagine sull’architettura e di quella possibile reintroduzione del politico nella composizione dell’architettura e della città.

6. Il Padiglione Philips: l’architettura nella diffusione dell’estetico. Il Padiglione Philips appartiene all’ultimo periodo della produzione di Le Corbusier, un

periodo combattuto, caratterizzato da una riflessione generale da parte di uno dei principali maestri dell’architettura sulla questione della produzione e delle sue conseguenze per l’architettura. Abbiamo visto in precedenza come le problematiche della produzione abbiano determinato notevoli trasformazioni nelle categorie dello spazio e del tempo, al punto di costituire le basi culturali della

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nostra contemporaneità. Appartengono a questo periodo il progetto (non realizzato) per la ricostruzione del centro di Saint-Diè (1946), l’Unité di Marsiglia (1947-1952), la cappella di Ronchamp (1950-1955), Chandigarh (1951-1965), il convento della Tourette (1952-1960) e il Padiglione Philips (1958). Tutti progetti che indicano, a scale diverse, l’estremo tentativo di Le Corbusier di affrontare l’impossibilità di riunire la produzione e la forma nella forza poetica del linguaggio. Secondo Tafuri “la ‘contraddizione assorbita’ delle opere degli anni ’30 diviene, dal ’45 in poi, ‘la contraddizione esibita’. (…) L’equilibrio fra le ipotesi di radicale modifica dell’assetto urbano e territoriale e l’autonomia carica di conoscenza attribuita all’elaborazione formale è così spezzato. Le Corbusier, d’ora in poi, denuncia drammaticamente tale scissione, concentrandosi sull’ascolto delle risonanze provenienti dal fortuito incontro dell’immaginario con il reale.”22

Le esperienze ausiliarie a cui Le Corbusier si rivolge per una generale rivisitazione della propria poetica nel secondo dopoguerra sono, ancora una volta, le arti: la scultura e la pittura da un lato e la musica dall’altro. Nelle arti il linguaggio è ancora possibile, poiché, di fronte al nulla che si pone come orizzonte ultimo, solo l’arte sembra essere ancora in grado di determinare un ritorno all’origine, guardando nell’abisso. E nell’origine possono determinarsi nuove poetiche possibili, che porteranno Le Corbusier alla ricerca di paesaggi acustici e spazi indicibili.

Ci troviamo, seguendo ancora una volta il maestro svizzero, di fronte ad un momento drammatico della cultura architettonica che prelude al contemporaneo. Le Corbusier, come Giedion, giunge inevitabilmente a interrogarsi sul ruolo conoscitivo dell’architettura, evidenziando il fatto che solo attraverso il fare poetico è possibile superare l’impossibilità di una unità del linguaggio architettonico. Entrambi comprendono quanto la metropoli sia una realtà ormai inaccessibile da parte di un’architettura intesa come sola arte dello spazio. E’ sempre più evidente quanto lo spazio, nella metropoli, sia ormai esterno, ovvero il vuoto che si articola carico di tensioni tra gli edifici che lo racchiudono, lo delimitano, lo configurano. L’architettura non potrà allora che affrontare il silenzio della propria assenza prima di incaricarsi di dire cosa sta nel mezzo.

Abbiamo visto in precedenza come Giedion comprenda chiaramente quanto il ritmo che articola questo vuoto faccia riferimento ad un’architettura originaria (cfr. Cap. secondo § 5.Il ryitmhos

e il tempo dell’uomo nell’architettura), ma anche Le Corbusier, nella sua Chandigarh, si trova di fronte all’enigma del vuoto. A Chandigarh, infatti, “ci si accorge che i tre oggetti (l’Alta Corte, il Parlamento e il Segretariato) si lanciano appelli a distanza. La loro separazione è forzata, la riunificazione impossibile. La tensione che sprigiona dal loro inattingibile colloquio indica lo spazio che li separa come luogo in cui cercare la chiave del loro linguaggio. In quello spazio, è la ‘fossa

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della considerazione’, dominata dal monumento alla ‘main ouverte’. Una volta scesi nella fossa, i tre monumenti svaniscono: al colloquio impossibile fra i grandi Valori, succede il silenzio, l’invito a riflettere su di essi.”23 Attraverso questo vuoto è possibile finalmente giungere al terribile presente, unico fondamento di un progetto poetico. “Il presente è letto come spazio che spezza ogni rapporto fra processi di valorizzazione economica e autonomia della Parola. ‘Parlare’ è possibile solo assumendosi il carico di tale trauma.”24

Le Corbusier, prima di abbandonare la metropoli con il progetto di Chandigarh, si misura con essa per l’ultima volta in un progetto assolutamente nuovo, denso di questioni aperte, in cui la poetica assume la propria autonomia, tentando la difficile unione di forma, ritmo, segni e immagini. Si tratta del Padiglione Philips, il quale si misura con la metropoli attraverso l’Expo di Bruxelles del 1958.

Prima di dispiegare questa densità del Padiglione dobbiamo prima chiarire il suo contesto

culturale, ovvero affrontare le ragioni che fondano le Esposizioni internazionali (che hanno la propria origine storica nel decennio compreso tra il 1830 e il 1840) nel loro carattere tipicamente effimero. Esse si pongono come scopo ultimo il mettere in mostra la tecnica al fine di indicare, con malcelato ottimismo, un possibile futuro. Nel rilevare i sintomi della sua epoca (ancora il 1948, certamente un punto nodale per le riflessioni che stiamo conducendo) Hans Sedlmayr si sofferma sull’Esposizione, individuando in essa uno dei temi dominanti della contemporaneità, affermando che “per l’ingegnere, divenuto ora rivale dell’architetto, l’Esposizione può, in un certo senso, essere addirittura considerata ‘l’occasione’ unitaria. Essa è inoltre come il grande teatro, la più forte espressione simbolica dell’epoca capitalistica e del suo caos di forze e controforze.”25

L’Esposizione monumentalizza la tecnica, proponendo un’architettura in grado di essere completamente priva della sua origine sacrale. Il sistema costruttivo, originariamente basato sulla tecnologia dell’acciaio e del vetro, permette infatti un’architettura di dimensioni notevoli, smontabile, priva di espressione volumetrica, in cui la sovraesposizione alla luce diviene strumento per togliere alla luce la sua sacralità. “Poiché il limite verso l’esterno non è altro che una parete trasparente di vetro, cadono così i confini dell’edificio verso l’infinito. L’architettura diviene, essa stessa, infinita: lo spazio interno è soltanto parte di uno spazio esterno anch’esso infinito dove viene a stare come sotto una tenda trasparente. L’opposto della caverna e della fossa è così raggiunto.”26

L’Esposizione è quindi un luogo indirizzato fortemente al visivo: luce e trasparenza divengono simboli legati all’idea di progresso positivo che l’industrializzazione si sforza di mostrare,

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amichevolmente, al visitatore. Non intendiamo qui dar ragione di una critica morale a questi principi, ciò che risulta però fondamentale è che l’Esposizione determina, per l’architettura, un momento di svolta, una ricaduta verso un eccesso della visione che porta alla desacralizzazione dell’immagine. Nota infatti Sedlmayr: “a questo nuovo genere di architettura luminosa in acciaio e vetro è affine in spirito la pittura plein air caratteristica del periodo impressionistico (…). Questo nuovo genere di pittura divide inoltre con gli ingegneri il proprio metodo speculativo basato su cognizioni scientifiche; il suo veicolo è la fotografia.”27

La tendenza dell’Esposizione è quella dell’opera d’arte totale, massima espressione della metropoli. L’Esposizione è il momento in cui la metropoli si mostra in tutta la sua potenza, attraverso la tecnica. La costruzione si fa monumento, la tecnica si fa arte (dunque senza più uno scopo, svincolandosi dal suo essere strumento) nella grande Torre Eiffel del 1889.

Sospendendo per un istante ogni considerazione legata alle fenomenologie, cerchiamo di ricondurre il nostro discorso a quali siano le ragioni profonde dell’Esposizione. Abbiamo visto che essa aspira al ruolo di opera d’arte totale, ponendosi però nello spazio esterno invece che nello spazio interno (cavernoso e buio) del teatro. Cosa rimane degli ideali della Gesamtkunstwerke una volta compiuto questo passaggio nell’eccesso della visione? Innanzitutto viene meno l’estremo tentativo di un possibile recupero del mito. Ogni narrazione viene ridotta a visione, e di qui a spettacolo. Non è più possibile un tempo per la comprensione dell’enigmaticità mistica della Gesamtkunstwerke, alla contemplazione si sostituisce l’ansia dell’istante, la rincorsa del tempo reale. Se l’Esposizione ha una sua matrice di derivazione idealistica tesa al futuro possibile, dunque al progresso tecnologico, essa non ammette l’opposta tensione enigmatica all’origine e al mito. L’Esposizione sarà dunque la massima espressione, il fenomeno più evidente di una metropoli che si mostra come il dominio di una tecnica autonoma ed estetizzante, proprio perché volontà di potenza che tende a colonizzare il mondo.

Per tali ragioni possiamo ricondurre la Gesamtkunstwerke e l’Esposizione alla loro profonda analogia nel considerare la metropoli come unico scenario possibile. Dunque se, sintomaticamente, l’Esposizione, oggi, mostra tutta la propria impotenza (economica) e il proprio fallimento, dovremmo forse ritrovare la causa di ciò in un cambiamento epocale che riguarda la metropoli stessa. Si può parlare di crisi della metropoli, riferendoci così ad un sentire generalizzato e anche banale che sostiene oggi che sussista una crisi anche dell’architettura? E tale crisi, se realmente esiste, a che cosa sta portando? Quali sono le sue catastrofiche conseguenze? Accettando tale sentire ci sentiremmo obbligati al nuovo, nella speranza che esso possa condurre, come l’Angelo

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benjaminiano, ad una insperata salvezza. In cosa consiste questa salvezza se non nel raggiungimento di quell’unità lontana in cui teoria e prassi si mostravano come elementi complementari del pensiero progettante? E potrà la sola forma rispondere a questa speranza legittima? Oppure essa è stata sopravvalutata da una civiltà che è sempre più sedotta dall’istantaneità di un visivo che non ha più nulla a che fare con la sua originaria sacralità?

Riflettendo sulla complessità della città contemporanea (la quale è una sorta di nome collettivo che accoglie in sé tutte le città esistenti) Massimo Cacciari sostiene che “non vi è alcun dubbio che il territorio dove abitiamo costituisca una sfida radicale a tutte le forme tradizionali della vita comunitaria. Lo sradicamento che produce è reale. (…) Ora, è possibile vivere senza luogo? E’ possibile abitare dove non si danno luoghi? (…) Si abita la città soltanto; ma non è possibile abitare la città se la città non si dispone per l’abitare, e cioè non ‘dona’ luoghi. Il luogo è dove sostiamo; è pausa – è analogo al silenzio di una partitura. Non si dà musica senza silenzio.”28

Se l’ampiezza del possibile aumenta a dismisura generando sradicamento, le ragioni di questo sono apparentemente contingenti ad una disciplina architettonica che non veda nell’abitare il proprio punto critico. Di fronte alle dinamiche in campo, alle quali si chiede di dare una risposta, un progetto, risulta irrinunciabile tale punto fisso. L’abitare, non ridotto al tema dell’alloggio ma all’originaria creazione di luoghi, diviene una scelta fondante, una poetica che si ponga come misura nella dismisura. “Dovremmo inventare corrispondenze, analogie, tra il territorio post-metropolitano dove viviamo ed edifici, luoghi dove poter abitare; ‘inventare’, cioè, edifici che siano luoghi, ma luoghi per la vita post-metropolitana, luoghi che ne esprimano e riflettano il tempo, il movimento, che non riproducano le antiche segmentazioni dello spazio metropolitano, che siano piuttosto connessioni

viventi.”29 Inserito in questo contesto culturale, il Padiglione Philips si pone come il tentativo di

articolare, in un’opera architettonica dal carattere fortemente effimero, una risposta possibile a tali problematiche. Nonostante il suo tendere alla Gesamtkunstwerke attraverso una ricercata sintesi dei codici artistici, il Padiglione di Le Corbusier e Iannis Xenakis si pone in modo enigmatico di fronte all’architettura, alle arti, al ruolo delle immagini e a quello della tecnica. Da dove origina tale enigmaticità? Innanzitutto il Padiglione oppone una quasi totale opacità che è in contrasto con quell’eccesso della visione che abbiamo visto essere caratteristica dell’Esposizione. Questa sua tensione verso il sacro deve in certa misura essere nascosta al suo interno, poichè esso non può essere il luogo del sacro dal momento che la sua funzione rimane comunque legata alla

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spettacolarizzazione della tecnica. Il suo rivolgersi alla possibilità di un recupero dell’origine in uno spazio espositivo che, come abbiamo visto, nega il sacro è una scelta voluta da Le Corbusier, il quale non sembra voler abbandonare ancora la metropoli.

Nonostante fosse costruito interamente in calcestruzzo, il Padiglione Philips nega il sistema trilitico per rivolgersi invece alla tenda originaria. Anche nel Padiglione, dunque, l’architettura riscopre la sua origine tessile. La società belga Strabed, che, sotto la direzione di H. C. Duyster, fu incaricata di costruire il Padiglione, realizzò i gusci in cemento precompresso con uno spessore di 5 centimetri, spessore che permetteva al Padiglione di dare una buona risposta acustica all’esecuzione del Poème Èlectronique. La straordinarietà dei gusci autoportanti non risiedeva solamente nella loro sottigliezza, ma anche nel fatto che essi mantenevano un’incredibile congruenza tra la loro geometria e la loro costruzione. Il reticolo dei tiranti messi in tensione si articola infatti sulle relazioni geometriche utilizzate da Xenakis per determinarne la forma.

Prima di approfondire le ragioni che portarono alla forma del Padiglione dobbiamo ricostruire qui alcune delle vicende che condussero alla determinazione del suo programma. Louis C. Kalft, allora art director della Philips, si rivolse a Le Corbusier per la realizzazione di “un padiglione ove non fosse necessario esibire nessuno dei prodotti, ma una dimostrazione fra le più ardite degli effetti del suono e della luce, dove il progresso tecnico potrà condurci in avvenire.” Le Corbusier accettò l’incarico, tuttavia scelse di affidarne la direzione a Xenakis, il quale aveva dato prova, nel progetto del convento della Tourette, di essere dotato della capacità di articolare diverse discipline, quali architettura, ingegneria, musica e matematica. Profondamente affascinato dal misticismo matematico del Modulor, Xenakis stava lavorando alla sua prima composizione, Les Metastasis, che così descrive in Modulor 2 (sul quale, su invito dello stesso Le Corbusier, Xenakis pubblicò la prima pagina della partitura): “ Goethe diceva che l’architettura è una musica pietrificata. Dal punto di vista del compositore di musica si potrebbe invertire la proposizione e dire che la musica è un’architettura in movimento. (…) Nella composizione Les Metastasis (…) l’intervento dell’architettura è diretto e fondamentale grazie al Modulor.” E ancora: “per la fisica del XIX secolo il tempo era un parametro esterno alla natura delle leggi fisiche. Esso era uniforme e continuo. La meccanica relativistica ha polverizzato questo concetto approssimativo e ha incorporato la durata nell’essenza stessa della materia e dell’energia.”

Se le ricerche di Xenakis erano tese a determinare una continuità matematica e geometrica nella composizione, tale continuità era in apparente contrasto con la parcellizzazione del tempo che caratterizzava invece l’industrializzazione a cui si era sempre rivolto Le Corbusier. Ma il concetto di

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machine à habiter di Le Corbusier era la traccia di una ricerca continua, mirata a ricondurre la macchina all’abitare, al di là delle sue riduzioni funzionaliste. In questo concetto stava anche la consapevolezza che la forma, intesa nel suo essere schèma e quindi habitus, dovesse essere in sé la risposta principale ai problemi che si ponevano ad un’architettura il cui scopo e fondamento era l’abitare dell’uomo sulla terra.

Ulteriore articolazione di questa riflessione è insita nel concetto stesso di macchina. Esso racchiude tutta la complessità del pensiero tardo moderno (dopo il secondo dopoguerra) nella sua riflessione sul tema della produzione, dalla machine lecorbusieriana, passando per le macchine

celibi di Michel Carrouges (1954), arrivando alle macchine desideranti di Deleuze e Guattari (1972). La macchina si pone come “un sistema di tagli” che si interpongono nel flusso continuo della produzione senza opporsi alla continuità, anzi “la macchina non produce un taglio di flusso se non in quanto è innestata su un’altra macchina che si suppone produca il flusso.”30 In quest’ottica di continuità la macchina diviene un concetto determinante (e Le Corbusier, nella sua ricerca, lo aveva compreso) per tentare di stabilire un rapporto possibile tra la produzione e il soggetto. Infatti, se la macchina si pone come una momentanea sospensione del flusso di produzione, è in tale sospensione che il soggetto può definirsi. Nel Padiglione diventava determinante rappresentare tale continuità al fine di creare un luogo che potesse riferirsi concettualmente al proprio tempo produttivo, al suo continuo fluire. In questo spazio poteva poi essere ritrovato, positivamente, il soggetto, ovvero l’abitante.

In questa riflessione si articolano i glissando di Les Metastasis, che hanno la medesima struttura formale dei paraboloidi iperbolici utilizzati per determinare la forma del Padiglione, intendono indagare tale fluire del tempo, la cui continuità si rapporta ad una totalità piuttosto che alla sua suddivisione in elementi.

Gli elementi architettonici, che avevano la loro ragione d’essere nella chiara suddivisione tra il verticale e l’orizzontale, assumendo dunque un carattere naturale e trilitico, vengono ridotti a pure linee di tensione, ancora riconoscibili e sottoposte al concetto matematico che costituisce la legge interna della formazione del Padiglione. La tessitura del Padiglione è quindi la pura rappresentazione di un concetto, di un pensiero. In questo forse consiste la sua potente enigmaticità, al di là del suo essere formalmente identificabile in quanto tenda.

La forma del Padiglione sintetizza il senso poetico del fare dell’ultimo Le Corbusier. Le prime indicazioni che il maestro diede a Xenakis riguardavano la creazione di “uno stomaco capace di ingerire 500 ascoltatori-spettatori e di evacuarli alla fine dello spettacolo per far posto ai 500

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successivi.” A questo si aggiungevano alcuni schizzi riguardanti un’abbozzata forma a bottiglia, usuale thèmes-objet che Le Corbusier utilizzava anche nelle sue sculture e nei suoi dipinti. La bottiglia fungeva come un catalizzatore di composizione e rappresentazione, una forma che rappresentava direttamente se stessa. La forma di bottiglia viene data anche alla sua poesia-poema intitolata Poesia in forma di bottiglia, apparsa nel Modulor 2 del 1955. “Suona la bella parola, ti prego, / Che mi deve togliere da miseria”, recita ad un tratto la Poesia. Questo probabilmente lo spirito che porta Le Corbusier ad indicare a Xenakis a quale forma rivolgersi per il Padiglione, una forma poetica, concettuale, in grado di rivolgersi ad una trascendenza in fondo umana nonostante il suo contesto sia quello tecno-centrico dell’Esposizione di Bruxelles.

La bellezza del Padiglione sarà nella sua purezza esclusivamente matematica, così come accade per i thèmes-objets, i quali “presentano curve d’ordine matematico.” (Le Corbusier, “Il Purismo”, in L’Esprit Nouveau n. 4, gennaio 1921). Xenakis elaborerà in alcuni mesi, a partire dall’idea di stomaco e secondo le proprie ricerche compositivo-matematiche, la messa in forma di glissandi regolati da un’unità enigmatica di concetto, calcolo, poetica e costruzione. L’enigma sta nella rappresentazione architettonica dell’infinito determinato dalla successione aurea, utilizzata sia per il Modulor che per la determinazione della serie che sta alla base delle ripartizioni della tessitura strutturale del Padiglione. L’enigma è dunque concettuale, propriamente formale e compositivo poiché per Le Corbusier “la sostanza della composizione risiedeva in ciò che l’architetto sapeva sulle strutture formative ancor prima di trasformarle in ciò che appariva nella loro forma formata.”31

Lo spazio interno del Padiglione era regolato da necessità acustiche e proiettive, e i paraboloidi iperbolici ben si adattavano a tale programma. I suoni del Poème Èlectronique di Varèse e le immagini dei Poème Èlectronique di Le Corbusier si componevano in modo tale da collaborare alla determinazione di uno spazio immersivo, per il quale l’infinito architettonico dei paraboloidi di Xenakis fungeva da amplificatore. Nonostante fosse un luogo chiuso e opaco il Padiglione doveva rappresentare l’intera umanità, spingendosi verso l’infinito spaziale e temporale, in questo si può ritrovare il suo essere genealogicamente figlio della Gesamtkunstwerke. Tuttavia la sua maggiore densità spaziale e temporale (lo spettacolo del Poème Èlectronique durava circa otto minuti) e l’utilizzo di immagini proiettate piuttosto che di una rappresentazione teatrale ci riportano ai principi espressi nei Nove Punti di Giedion, per il quale la nuova monumentalità avrebbe dovuto necessariamente misurarsi, in termini positivi, con le nuove tecnologie.

Lo stesso Giedion, più tardi, nel 1969, scrisse che “la continua compenetrazione tra l’interno e l’esterno, tra volume e cavità, presto farà il suo ingresso nell’architettura: l’esterno e l’interno si

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pervadono in un rapporto costante, lo spazio esterno viene posto in relazione con quello interno. Nello spazio chiuso dell’interno si preannuncia l’esterno. Nell’asse longitudinale dell’edificio, là dove un tempo si ergevano i punti culminanti della cupola e della volta a botte, ora il soffitto scende verso il basso come se volesse comunicare la presenza dello spazio esterno. Al centro si trova il punto più basso delle travature a vista: stiamo di fronte ad una volta paraboloidica iperbolica, armata da funi di acciaio tese.”32 Lo spazio denso del Padiglione è, nell’idea di Le Corbusier, ambito della trasformazione poetica da spazio espositivo a luogo per l’uomo, per tutti gli uomini. L’originaria metafora organica e biologica dello stomaco cede il passo alla sintesi matematica generatrice di un ordine altro, riferito ad una messa in forma di uno slancio tensionale verso l’infinito e verso la compenetrazione con lo spazio esterno. Non troviamo metafora nel Padiglione Philips ma solamente concetto. E questa sua concettualità permette all’architettura (effimera) di porsi coerentemente in relazione con le immagini e con i suoni che si articolano nel suo interno.

Le immagini che Le Corbusier scelse per il suo Poème Èlectronique articolavano visivamente la sua fiducia immutata nei confronti del progresso tecnologico e delle trasformazioni che l’architettura poteva apportare a questo mondo. Dense di retorica comunicativa esse si articolavano in sette sequenze per la durata complessiva di otto minuti:

1. Genesi 2. Di terra e di spirito 3. Dall’oscurità all’alba 4. Divinità fatte di uomini 5. Così formano gli anni 6. Armonia 7. Per donare a tutti

Le immagini erano di un rigoroso bianco e nero, e narravano la storia dell’umanità secondo la personalissima accezione di Le Corbusier. Dalle origini scimmiesche dell’uomo si giungeva alle grandi Unités d’habitation per poi concludere con l’effige della Mano Aperta, l’ultimo (e forse unico per intenzioni) monumento lecorbusieriano. Alla sua comparsa sulle pareti ricurve del Padiglione una voce recitava: “riconosci questa mano aperta, la Mano Aperta innalzata come segno di riconciliazione, aperta per ricevere, aperta per donare.” La Mano Aperta concludeva poeticamente il

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Poème lecorbusieriano, così come, nelle intenzioni del maestro, avrebbe dovuto concludere il suo progetto per Chandigarh, ponendosi nel centro silenzioso della ‘fossa della considerazione’. Alla plasticità formale della Mano si aggiungeva, al di sotto, una cornice per guardare la catena dell’Himalaya, un orizzonte lontano, aperto, forse irraggiungibile. E, nella terra, al di sotto del nuovo orizzonte artificiale della fossa della considerazione, compare lo spazio per l’uomo, il luogo in cui abitare. Non più sollevato su pilotis ma radicato nel suolo silenzioso.

Un silenzio analogo compone il Poème Èlectronique di Edgar Varèse, in cui le immagini

sonore (secondo una definizione dello stesso Varèse) emergono da un silenzio che diviene così la vera fonte di continuità della composizione. Le immagini sonore occupavano l’intero spazio interno del Padiglione, grazie ad un particolare impianto acustico a tre canali costruito appositamente dai tecnici della Philips. Il suono poteva così espandersi, comprimersi o ruotare nello spazio, accentuando sia l’effetto di coinvolgimento da parte del pubblico, sia la continua trasformazione, nel corso della durata del Poème Èlectronique, dello spazio interno del Padiglione. L’immaginario messo in scena da Le Corbusier, con le sue aperture verso un futuro, veniva così accompagnato dalle immagini sonore di Varèse, le quali dilatavano o comprimevano lo spazio. In questa vertigine veniva poi messo in scena l’objet matematique come rappresentazione della regola matematica che fondava la vertigine stessa. Esso era il limite tra l’ordine e il caos, tra la forma e l’amorfo. Ancora una volta Le Corbusier si dimostrava grande maestro nell’articolare la coesistenza di complessità e cosmo attraverso l’articolazione di concetto e poetica.

La condizione dia-logica e il vuoto in cui essa genera il tempo dell’uomo diventeranno per l’architettura il tema da affrontare. In essi si troverà la possibile articolazione di un luogo per l’uomo e per il suo abitare il mondo. In essi continua ad essere racchiusa l’origine dell’architettura, prima di qualsiasi parola, a fondamento di ogni poetica.

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Note al capitolo terzo 1 E’ bene qui rilevare la complessità intrinseca al riconoscere la città attraverso le sue immagini. Poiché se esse possono effettivamente acquistare una profondità ontologica (ovvero in grado di far risalire, attraverso esse, alla verità e al significato della città, riaprendo così alla possibilità del dia-logo) è anche evidente il fatto che attraverso l’estrema possibilità di diffusione del visivo la città e l’architettura possono subire una riduzione a sistemi iconici, il cui unico scopo è quello di salvaguardare la possibilità di un’identificazione dei luoghi fine a se stessa. Anche in questo caso si mette in risalto che la contemporaneità deve necessariamente correre dei rischi, accettando il fatto che non possa, oggi, essere dato un senso unitario all’esistente senza ricorrere al fondamento dell’autonomia responsabile e libera del soggetto poetico. In altri termini la città e l’architettura assumono significato in quanto esiste un abitante in grado di leggere (ovvero di cogliere l’unità) di tale significanza. Le riflessioni sulla profondità dell’immagine sono tese a mettere in luce questa evidenza. A tal proposito si può fare riferimento alla recente pubblicazione del saggio di Gibson Per un approccio ecologico alla percezione visiva, nel quale viene posto un ragionevole dubbio sulla possibilità scientifica dell’effettiva esistenza dello spazio. Secondo Gibson lo spazio è convenzionale, al pari del linguaggio e della sua capacità di produrre continuamente simboli condivisibili, il che ci fa ragionevolmente riflettere sul fatto che l’architettura è effettivamente un gioco per la sensibilità umana. Si rinvia anche agli studi compiuti al MIT di Boston da parte di Kevin Lynch (pubblicati in L’immagine della città nel 1960), in cui si fa riferimento alla imageability della città (ovvero alla sua figurabilità), indicando per l’immagine ambientale le tre componenti basilari di identità, struttura e significato. Il primo componente fa riferimento alla possibilità di un riconoscimento della forma in quanto unità, il secondo alla necessità di individuarne la logicità e il terzo alla capacità di riconoscere nell’immagine un rimando significante ad altro da sé. Per quanto abbiamo affermato nel corso della presente ricerca noi tenteremo di rivolgerci principalmente alla possibilità di un riconoscimento della componente strutturale dell’immagine e della forma (cfr. Capitolo quarto). 2 SANT’AGOSTINO, Confessioni, op. cit., Libro X, § 15 – Ricordiamo le cose attraverso le loro immagini? 3 BAUDRILLARD J., Della seduzione, ed. Es, Milano, 1995, p. 88. 4 Ibidem, p. 96. 5 Ibidem, pp. 138 –141. 6 VERNANT J. P., Nascita d’immagini e altri scritti su religione, storia ragione, ed. Il Saggiatore, Milano 1982, p. 124. 7 HOMO L, in Le istituzioni politiche romane: dalla Città allo Stato, ed. Mursia. Milano 1975. 8 DEBRAY R., Vita e morte dell’immagine – una storia dello sguardo in Occidente, ed. Il Castoro, Milano, 1999, p. 34. 9 GADAMER H. G.,Verità e metodo, ed. Bompiani, 1999, p. 148. 10 Ibidem, p.149. 11 Ibidem, p. 150. 12 In una nota Gadamer richiama la questione liturgico-rituale della rappresentazione per la cultura latina: il termine, che era già familiare ai latini, acquista alla luce dell’idea cristiana dell’incaranzione e del corpo mistico un significato del tutto nuovo. Repraesentatio non significa più copia o raffigurazione riproduttiva, ma viene a indicare il ‘tenere il luogo di’, la rappresentanza. (…) Rapraesentare significa far essere presente”. (pp. 175-176). 13 Ibidem, p.160. 14 Ibidem, p.169. 15 La correlazione tra rappresentazione, immagine e gioco è evidente in un grande classico della cinematografia del secolo scorso, ovvero Playtime di Jacques Tati, completato nel 1967. Playtime è ambientato in una metropoli quasi anonima, ricostruita come città studio in un terreno incolto ad est di Parigi, vicino Vincennes. Solo il riflesso di alcuni monumenti famosi sui vetri degli edifici moderni indica che si tratta di Parigi. La città di Tati si estendeva su una superficie di 15 mila metri quadrati, gli edifici, nei quali si dovevano svolgere le riprese, furono interamente costruiti sino al quarto piano. Attorno agli edifici agibili si costruirono, su piattaforme mobili, le facciate di numerosi grattacieli in modo da consentire una infinita variazione della topografia della città. La struttura del linguaggio cinematografico adottata da Tati si relaziona perfettamente a quella della sua Tativille, infatti al racconto classicamente inteso, costituito da situazioni legate da rapporti di causa ed effetto, si sostituisce un’apparente disorganicità tematico-drammatica. La progressione narrativa si trasforma in un intreccio di rapporti, contrasti ed ambiguità tra le inquadrature; essa dipende, infatti, completamente dal ritmo e dalle componenti formali delle immagini (le linee verticali ed orizzontali delle architetture, la modulazione della luce, dell’ombra, dei rumori, dei suoni e delle traiettorie dei personaggi). Ogni inquadratura risulta essere in campo totale: tra lo spazio architettonico e i personaggi esiste un rapporto dialettico. Lo spazio circoscritto dall’inquadratura diventa luogo privilegiato in cui volumi, traiettorie dei personaggi, colori, rumori e suoni, sono sapientemente organizzati in modo da creare una dimensione

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spazio-temporale autonoma. La storia non rimanda a nessun passato o futuro, essa si dispiega nel presente assoluto dell’inquadratura. Si rinvia al saggio su Playtime curato da Christian Hubert per ANY n. 12. 16 Ibidem, p. 174. 17 Ibidem, p.175. 18 Ibidem, p.176. 19 Ibidem, p. 177. 20 Ibidem, p. 193. 21 Ibidem, pp. 192-195. 22 TAFURI M., DAL CO F., Architettura contemporanea, ed. Electa, Milano, 1976, pp. 351-352. 23 Ibidem, p. 357. 24 Ibidem. 25 SEDLMAYR H., Perdita del centro, op. cit., p. 65. 26 Ibidem, p. 69. 27 Ibidem, p. 70. 28 CACCIARI M., Nomadi in prigione, in Casabella n. 705. 29 Ibidem. 30 DELEUZE G., GUATTARI F., L’anti-Edipo – capitalismo e schizofrenia, ed. Einaudi, Torino, 2002, pp. 38-39. 31 CAPANNA A., Padiglione Philips, ed. Testo&Immagine, Torino, 2000, p. 22. 32 GIEDION S., Architektur und das Phänomen das Wandels die drei Raumkonzeptionen der Architektur, Ernst Wasmuth Verlag, Tübingen, 1969, pp. 84-85.

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