22
1 NOTA INTRODUTTIVA Stefano Lucarelli Raccolgo qui di seguito alcune letture alle quali ho fatto riferimento nel corso delle lezioni di Economia Monetaria da me tenute nei mesi di Ottobre e Novembre del 2007. I primi due scritti sono due interventi del 2001 e del 2002 di Augusto Graziani a proposito del ruolo della Banca Centrale Europea (Bce). La tesi espressa è che - nonostante le affermazioni dei documenti ufficiali che affermano che l’Unione monetaria europea dispone di competenza esclusiva nel campo della politica monetaria dell’area dell’euro – la Bce non ha di fatto assunto su di sé la politica monetaria di tutti i paesi aderenti all’Unione monetaria europea. La Bce non è totalmente indipendente dalle banche centrali nazionali: fissa le direttive, ma sono le singole banche centrali nazionali a metterle in pratica; inoltre le banche di credito ordinario dei singoli paesi membri tengono le proprie riserve ciascuna presso la banca centrale nazionale. Tre semplici constatazioni fanno sorgere il sospetto che il sistema sia fragile: 1) la Bce affida l'emissione dei biglietti alle banche centrali nazionali (ogni banconota ha la sigla dello stato che la produce); 2) La storia insegna che il vero prestatore di ultima istanza è sempre uno stato. Può la Bce fungere da prestatore di ultima istanza? 3) Un tasso di inflazione moderato comune a tutti i paesi europei resta un’illusione. Ciò significa che i paesi aventi un tasso di inflazione superiore a quello degli altri corrono i rischio di un disavanzo nei conti con l’estero. Questo non può più essere corretto con la svalutazione della moneta nazionale, il che comporta per questi paesi l’aumento dei rischi di depressione commerciale. La debolezza politica dell’area dell’Euro è al centro delle analisi condotte da Marcello de Cecco, di cui di seguito sono raccolti nove interventi apparsi sui quotidiani nazionali tra il giugno 2006 e l’ottobre 2007. I ragionamenti esposti fanno tesoro delle analisi tradizionali sulle variabili che influenzano i tassi di cambio, e soprattutto dell’idea già di Keynes che la tendenza normale di un’economia monetaria di produzione è la crisi. Il mercato valutario rappresenta la cassa di risonanza degli equilibri geo-politici che si instaurano. L’analisi economiche delle monete e dei mercati internazionali conduce inevitabilmente a considerazioni politiche. De Cecco nota come il dollaro sia sottovalutato nei confronti dell’euro, la principale moneta con la quale si scambia oggi il dollaro sui mercati dei cambi esteri. Nonostante il tasso di riferimento della Fed sia superiore a quello della BCE (4.50 per cento contro il 4 per cento al 12.11.07), gli operatori continuano a vendere dollari e comprare euro. Perché? Questa domanda impone un’analisi sui rapporti che intercorrono fra Stati Uniti, Giappone e Cina. Al di là degli schemi teorici proposti dagli economisti delle diverse scuole, e al di là degli esercizi econometrici sulla trasmissione della politica monetaria, la comprensione degli equilibri valutari presuppone sempre un’attenta lettura del quadro macroeconomico globale e delle caratteristiche socio-istituzionali oltre che economiche che caratterizzano le grandi aree geo- politiche. AUGUSTO GRAZIANI, professore di Economia Politica presso l’Università La Sapienza di Roma è uno degli economisti più impegnati nella formulazione di un pensiero alternativo, tanto in economia teorica quanto in politica economica. E’ stato Presidente della Società Italiana degli Economisti ed è membro della Accademia dei Lincei. Nel 1993-1994 è stato Senatore della Repubblica. Oltre che per i suoi contributi sulla teoria monetaria della produzione è noto per i suoi scritti sull’economia italiana e sulla storia del pensiero economico. MARCELLO DE CECCO, professore di Storia della finanza e della moneta alla Scuola Normale dal 2003. Le sue attività di ricerca riguardano problemi di teoria, politica e storia monetaria e finanziaria, nonché, più recentemente, problemi teorici e storici inerenti la genesi ed il funzionamento dei mercati. Ha collaborato e condotto ricerche presso alcune fra le più importanti istituzioni finanziarie e di ricerca nazionali e internazionali: l’Ufficio Ricerche storiche della Banca d’Italia, l’Ufficio Studi del Fondo Monetario Internazionale, la Banca nazionale del Lavoro, il Wissenschafts Kolleg di Berlino, e altri

Economia Monetaria, Ottobre 2007, Letture, "La debolezza dell'Unione Monetaria Europea"

  • Upload
    unibg

  • View
    1

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

1

NOTA INTRODUTTIVA

Stefano Lucarelli

Raccolgo qui di seguito alcune letture alle quali ho fatto riferimento nel corso delle lezioni di

Economia Monetaria da me tenute nei mesi di Ottobre e Novembre del 2007. I primi due scritti sono due interventi del 2001 e del 2002 di Augusto Graziani a proposito del

ruolo della Banca Centrale Europea (Bce). La tesi espressa è che - nonostante le affermazioni dei documenti ufficiali che affermano che l’Unione monetaria europea dispone di competenza esclusiva nel campo della politica monetaria dell’area dell’euro – la Bce non ha di fatto assunto su di sé la politica monetaria di tutti i paesi aderenti all’Unione monetaria europea. La Bce non è totalmente indipendente dalle banche centrali nazionali: fissa le direttive, ma sono le singole banche centrali nazionali a metterle in pratica; inoltre le banche di credito ordinario dei singoli paesi membri tengono le proprie riserve ciascuna presso la banca centrale nazionale. Tre semplici constatazioni fanno sorgere il sospetto che il sistema sia fragile: 1) la Bce affida l'emissione dei biglietti alle banche centrali nazionali (ogni banconota ha la sigla dello stato che la produce); 2) La storia insegna che il vero prestatore di ultima istanza è sempre uno stato. Può la Bce fungere da prestatore di ultima istanza? 3) Un tasso di inflazione moderato comune a tutti i paesi europei resta un’illusione. Ciò significa che i paesi aventi un tasso di inflazione superiore a quello degli altri corrono i rischio di un disavanzo nei conti con l’estero. Questo non può più essere corretto con la svalutazione della moneta nazionale, il che comporta per questi paesi l’aumento dei rischi di depressione commerciale.

La debolezza politica dell’area dell’Euro è al centro delle analisi condotte da Marcello de Cecco, di cui di seguito sono raccolti nove interventi apparsi sui quotidiani nazionali tra il giugno 2006 e l’ottobre 2007. I ragionamenti esposti fanno tesoro delle analisi tradizionali sulle variabili che influenzano i tassi di cambio, e soprattutto dell’idea già di Keynes che la tendenza normale di un’economia monetaria di produzione è la crisi. Il mercato valutario rappresenta la cassa di risonanza degli equilibri geo-politici che si instaurano.

L’analisi economiche delle monete e dei mercati internazionali conduce inevitabilmente a considerazioni politiche. De Cecco nota come il dollaro sia sottovalutato nei confronti dell’euro, la principale moneta con la quale si scambia oggi il dollaro sui mercati dei cambi esteri. Nonostante il tasso di riferimento della Fed sia superiore a quello della BCE (4.50 per cento contro il 4 per cento al 12.11.07), gli operatori continuano a vendere dollari e comprare euro. Perché? Questa domanda impone un’analisi sui rapporti che intercorrono fra Stati Uniti, Giappone e Cina.

Al di là degli schemi teorici proposti dagli economisti delle diverse scuole, e al di là degli esercizi econometrici sulla trasmissione della politica monetaria, la comprensione degli equilibri valutari presuppone sempre un’attenta lettura del quadro macroeconomico globale e delle caratteristiche socio-istituzionali oltre che economiche che caratterizzano le grandi aree geo-politiche.

AUGUSTO GRAZIANI, professore di Economia Politica presso l’Università La Sapienza di Roma è uno degli economisti più impegnati nella formulazione di un pensiero alternativo, tanto in economia teorica quanto in politica economica. E’ stato Presidente della Società Italiana degli Economisti ed è membro della Accademia dei Lincei. Nel 1993-1994 è stato Senatore della Repubblica. Oltre che per i suoi contributi sulla teoria monetaria della produzione è noto per i suoi scritti sull’economia italiana e sulla storia del pensiero economico.

MARCELLO DE CECCO, professore di Storia della finanza e della moneta alla Scuola Normale dal 2003. Le sue attività di ricerca riguardano problemi di teoria, politica e storia monetaria e finanziaria, nonché, più recentemente, problemi teorici e storici inerenti la genesi ed il funzionamento dei mercati. Ha collaborato e condotto ricerche presso alcune fra le più importanti istituzioni finanziarie e di ricerca nazionali e internazionali: l’Ufficio Ricerche storiche della Banca d’Italia, l’Ufficio Studi del Fondo Monetario Internazionale, la Banca nazionale del Lavoro, il Wissenschafts Kolleg di Berlino, e altri

2

La Rivista del manifesto Gennaio 2001

SEGNALI DI CONFLITTO Augusto Graziani

Nel 1998, alla vigilia dell'introduzione dell'euro, gli esperti prevedevano per la nuova valuta il destino di valuta forte: ciò perché l'euro raccoglieva un mercato finanziario anche più vasto di quello americano, perché comprendeva nel suo paniere valute tra le più forti e stabili, perché poggiava su una struttura produttiva comprendente alcune fra le industrie più avanzate del mondo. Come sappiamo, queste previsioni sono state ampiamente smentite da una svalutazione continuata dell'euro rispetto al dollaro, che ormai ha raggiunto e superato il 30%. L'andamento declinante dell'euro come valuta comune di undici paesi europei ha portato con sé un capovolgimento della politica valutaria italiana. In passato, quando l'Italia riusciva a condurre una politica valutaria autonoma, il tentativo era sempre quello di attuare una linea differenziata: tenere il cambio stabile, o addirittura in lieve rivalutazione, nei confronti del dollaro, allo scopo di evitare che una svalutazione facesse crescere i costi delle importazioni, a cominciare dalle fonti di energia (il petrolio greggio è appunto quotato in dollari), fino alle importazioni di prodotti tecnologici quali brevetti e attrezzature elettroniche. Si deve ricordare che nel 1975 le esportazioni verso l'area del dollaro (Stati Uniti e paesi Opec) superavano di poco il 17%, mentre le importazioni sfioravano il 30%; nel 1999 le esportazioni verso l'area Usa-Opec sono scese al 13% del totale, ma le importazioni sono scese assai di più e si aggirano intorno al 10% delle importazioni totali. Viceversa, nei confronti del marco tedesco, la lira veniva lasciata slittare allo scopo di agevolare le esportazioni verso l'area europea. Il caso più esplicito di questa linea si ebbe fra il 1975 e il 1979. Abbandonato il sistema di Bretton Woods, non ancora instaurato il Sistema monetario europeo, vigeva un sistema di pagamenti internazionali basato su cambi flessibili. L'allora governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi perseguiva per l'appunto una strategia di cambi differenziati lungo le linee ora indicate. Nel giro di due anni, la lira si svalutò di oltre il 10% rispetto al marco tedesco. Una strategia simile venne seguita dalle autorità monetarie italiane nel quadriennio 1992-96, quando l'Italia abbandonò il Sistema monetario europeo e acquisì lo status di valuta fluttuante. L'Unione monetaria europea ha reso definitivamente impossibili pilotaggi di questo genere. Dal primo gennaio 1999, l'euro (e con esso forzosamente la lira) si è svalutato di un buon 25% nei confronti del dollaro e del 30% nei confronti dello yen, mentre il cambio con le altre valute europee è ormai irrevocabilmente fisso. È indubbio che la situazione strutturale del commercio estero italiano è cambiata nel corso degli ultimi anni. Nel 1991, l'Italia esportava il 63,1% dei propri prodotti verso i paesi dell'Unione europea e il 6,9% verso gli Stati Uniti; nel 1999, la quota di esportazioni verso l'Unione europea era scesa al 57,4% mentre la quota degli Stati Uniti era salita al 9,5%. Tuttavia le linee di fondo restano le stesse. Nei confronti dei mercati europei, le esportazioni italiane perdono competitività. Infatti, sebbene l'inflazione italiana possa dirsi ormai debellata, rimane sempre la tendenza dei prezzi italiani a crescere di più (o a cadere di meno) di quelli tedeschi, e questo maggior tasso di inflazione non può più essere compensato da una svalutazione della lira rispetto al marco. Al tempo stesso, la rivalutazione del dollaro rispetto all'euro rende più costose le importazioni e costituisce un pericolo costante di inflazione importata. Negli ultimi tempi, alla rivalutazione del dollaro si è aggiunto l'aumento del prezzo del petrolio greggio, che rappresenta un ulteriore fattore di inflazione proveniente dall'esterno. Su questo terreno, non sarà inutile ricordare che l'aumento del prezzo del petrolio colpisce gli Stati Uniti assai di meno rispetto ai paesi europei. In primo luogo per una ragione di prezzo: gli Stati Uniti sono colpiti soltanto dall'aumento del prezzo del greggio, mentre i paesi dell'euro vedono

3

crescere il prezzo del greggio in valuta locale non soltanto per l'aumento del prezzo in dollari ma anche per la svalutazione progressiva dell'euro. Ma vi è anche una seconda ragione di privilegio degli Stati Uniti. Alla stipulazione del Trattato del Nafta ( North American Free Trade Agreement ) che, entrato in vigore nel 1994, ha creato una zona di libero scambio fra Stati Uniti, Canada e Messico, gli Stati Uniti riuscirono a includere una clausola (Art. 605 del trattato) a loro particolarmente favorevole. Questa prevede che il Canada, che attualmente esporta negli Stati Uniti più della metà della propria produzione, non può ridurre le proprie forniture se non nel caso in cui si riducano anche le risorse interne. Grazie a questa clausola, gli Stati Uniti pompano liberamente greggio dal Canada, mentre i paesi dell'euro non dispongono di risorse equivalenti. Abbiamo detto che l'adesione all'Unione monetaria ha imposto all'Italia un capovolgimento nella politica valutaria. La stessa diagnosi non vale invece per la Germania. Negli anni dei cambi flessibili, e anche negli anni successivi del Sistema monetario europeo (al quale la Germania aderì nel 1978 e l'Italia l'anno successivo), la Germania ha perseguito una politica valutaria particolare. In apparenza la Germania ha più volte accettato di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; però ognuna di questa rivalutazioni è stata inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto essere tenendo conto dell'andamento dei prezzi interni in Germania e negli altri paesi. Siccome la Germania ha sempre realizzato una stabilità dei prezzi interni, mentre negli altri paesi si registrava, in misura maggiore o minore, un processo di inflazione, il risultato è stato che il marco, pur rivalutandosi in termini monetari, si svalutava in termini reali. Le esportazioni tedesche univano così al vantaggio strutturale della superiorità tecnologica anche quello di prezzi relativi decrescenti. La Germania venne infatti accusata di praticare una politica 'neomercantilistica'. Oggi la Germania può continuare lungo le medesime linee. Il tasso di inflazione tedesco è inferiore a quello degli altri paesi, il che dovrebbe condurre a una rivalutazione del marco; ma poiché il marco si muove a cambi fissi con gli altri dieci paesi aderenti all'euro, di fatto il marco, in termini reali, continua a svalutarsi. La medesima diagnosi vale per i rapporti con il dollaro: il marco si svaluta in termini nominali in quanto incorporato nell'euro, ma in termini reali gode di una svalutazione aggiuntiva dovuta alla bassa inflazione tedesca. Torniamo al caso italiano. La svalutazione dell'euro avvantaggia le esportazioni italiane sui mercati del dollaro; ma il più alto tasso di inflazione, accoppiato ai cambi europei ormai fissi, le danneggia nell'area del marco. Questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Sono passati i tempi in cui la grande industria si mostrava cedevole di fronte alle richieste sindacali di aumenti salariali, riservandosi poi di ottenere un pronto compenso sotto forma di aumento dei prezzi. Il tutto reso possibile dall'atteggiamento conciliante dalle autorità monetarie: anzitutto sotto forma di un allargamento del credito, per fare fronte alle maggiori anticipazioni salariali, e poi di una svalutazione della lira per evitare perdite di competitività. Oggi, fissati inesorabilmente i cambi europei, trasferito il controllo della moneta dalla Banca d'Italia alla Banca centrale europea (Bce), ogni aumento dei salari incide direttamente sui profitti e non può più essere compensato da un aumento dei prezzi e da una svalutazione della lira. In teoria l'aumento dei salari potrebbe essere compensato da un aumento di produttività, e una corretta gestione industriale indicherebbe questa come la via da seguire. Ma l'industria italiana ha prescelto una strada diversa, quella della compressione del costo del lavoro. Il trasferimento progressivo della base produttiva dalla grande impresa all'impresa piccola e media, il proliferare dei contratti atipici, il lavoro nero, sono altrettanti mezzi per ridurre i costi, aumentando l'intensità del lavoro e ridimensionando drasticamente il livello della paga. I vantaggi che l'industria italiana ne trae nell'immediato sono indiscutibili. Più dubbie sono le conseguenze a lungo termine. Un'industria basata su produzioni tradizionali, che si regge sulla compressione continua del costo del lavoro, è un'industria destinata a risultare perdente nel mercato internazionale. Altri paesi si avvalgono di costi del lavoro ben più bassi di quelli italiani e, grazie a questi, ottengono quote di mercato crescenti. La svalutazione dell'euro è servita a compensare le difficoltà per gli esportatori verso l'area del dollaro; se l'euro dovesse riguadagnare terreno, anche questa compensazione parziale verrebbe meno.

4

La posizione centrale del dollaro La svalutazione dell'euro rispetto al dollaro viene attribuita a molteplici fattori: il tasso di sviluppo maggiore dell'economia americana che lascia sperare profitti crescenti per gli investitori, i tassi di interesse più alti nel mercato americano che promettono compensi più elevati per gli speculatori. Le dichiarazioni del governatore Duisenberg, che di tanto in tanto ricorda che la Bce non intende difendere con decisione il corso dell'euro, non fanno ovviamente che incoraggiare i movimenti speculativi verso l'area del dollaro. L'uno e l'altro elemento convergono nel provocare un flusso di capitali verso i mercati finanziari americani, flusso che produce un'immediata svalutazione dell'euro. Non va dimenticato peraltro che la rivalutazione del dollaro risale a epoche che precedono la nascita dell'euro. Il corso del dollaro ha cominciato a risalire dal 1995, non soltanto rispetto al marco ma anche rispetto allo yen. L'andamento crescente delle quotazioni del dollaro non è estraneo all'esplosione della crisi asiatica nel 1997. Il crollo finanziario delle economie asiatiche deve ancora trovare una spiegazione soddisfacente e forse è ancora presto per formulare una versione esauriente di quanto è realmente accaduto. Gli eventi che hanno aperto la strada alla crisi delle borse asiatiche potrebbero invece essere collegati al grande rialzo del dollaro. Nell'aprile 1995, al suo punto più basso, il dollaro valeva 1,39 marchi tedeschi; da allora ha avuto inizio un movimento ascendente che ha portato il corso del dollaro, nei primi giorni dell'agosto 1997, a sfiorare la quota di 1,90 marchi; per poi restare, nei primi mesi del 1998, sugli 1,81/1,82 marchi. Qualcosa di simile è avvenuto per lo yen: dagli 84 yen dell'aprile 1995, il dollaro è passato ai 133 dei primi giorni di gennaio 1998, per attestarsi intorno ai 125. Per i paesi del Sudest asiatico, che prima della crisi avevano ancorato le rispettive valute nazionali al dollaro, ciò ha comportato una rivalutazione inattesa e non voluta della propria moneta rispetto allo yen e alle valute europee. Le esportazioni dei paesi asiatici non potevano non risentire di questa rivalutazione del 40% e oltre; paesi abituati a vedere le proprie esportazioni crescere al 20% all'anno, con un aumento del reddito annuo del 7-8%, si sono visti mettere rapidamente fuori mercato dal grande apprezzamento del dollaro, al quale la loro valuta era legata. Il Fondo monetario internazionale (Fmi), prontamente intervenuto, ha consigliato una politica di liberalizzazione immediata dei mercati valutari e di piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, ha rifiutato di seguire queste prescrizioni e, in un momento successivo, lo stesso presidente del Fmi, il francese Camdessus 1, ha riconosciuto la ragionevolezza di questa posizione. Negli altri paesi, la fuga di capitali, ormai liberi da ogni controllo, ha prodotto drastiche svalutazioni della moneta nazionale (fino al 50% rispetto al dollaro). Quando, uno dopo l'altro, quei paesi hanno sganciato la loro valuta dal dollaro ed effettuato drastiche svalutazioni (il won coreano e il baht thailandese si sono svalutati del 50% rispetto al dollaro), imprese e banche che si erano indebitate in dollari o in yen hanno visto improvvisamente raddoppiare il peso del debito. Hanno così avuto inizio i crolli di borsa e i fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri navali) hanno dichiarato lo stato di insolvenza. La svalutazione delle monete asiatiche, unita alla catena di fallimenti e al dissesto delle imprese industriali, ha aperto la strada ad acquisizioni di imprese locali da parte di capitali stranieri. Germania, Francia, Olanda si sono affrettate ad acquisire quote rilevanti delle industrie manifatturiere coreane, mentre i capitali finanziari americani acquisiscono le imprese produttrici di servizi pubblici in Brasile. Tali acquisizioni avvengono con il beneplacito del Fmi, che anzi raccomanda l'inserimento di quote significative di capitale straniero e ha imposto ai paesi asiatici caduti sotto la sua tutela di attenuare i limiti dapprima vigenti sull'ingresso di capitali stranieri nella proprietà finanziaria di imprese appartenenti ai settori strategici. Persa ogni autonomia nella politica economica, questi paesi, che in molti settori minacciavano di diventare pericolosi concorrenti dell'industria statunitense, diventeranno fertili mercati, aperti alle importazioni di prodotti americani.

5

I paesi dell'Estremo Oriente hanno mostrato una vigorosa capacità di ripresa. Nel corso del 2000, lo yen si è anche lievemente rivalutato rispetto al dollaro, il che aiuta l'industria americana a ripararsi dall'invasione di prodotti giapponesi. La condotta della Banca centrale europea Tutti gli osservatori, commentando la caduta dell'euro, si rivolgono alla Bce con toni di rimprovero, anche se è difficile stabilire se la debolezza dell'euro venga lamentata soltanto per motivi di prestigio o anche per ragioni di sostanza. Come che sia, la caduta dell'euro, non importa se dovuta a debolezza dell'economia europea nella sua struttura produttiva o alla capacità dei mercati finanziari americani di attrarre moneta speculativa, ha posto la Bce di fronte a dilemmi difficili da superare. Il rimedio immediato sarebbe evidentemente quello di rialzare decisamente i tassi di interesse in modo da frenare i movimenti di capitali speculativi verso i titoli quotati in dollari. Sennonché questa sarebbe una manovra condannata da tutti: dalle imprese, che chiedono tassi di interesse miti per proteggere i propri profitti; dalle autorità di governo che vedrebbero crescere i costi del debito pubblico e riaffacciarsi lo spettro di un disavanzo crescente; dai cultori di teoria economica, che sottolineano gli effetti depressivi di un rialzo dei tassi di interesse, che scoraggerebbe gli investimenti e stroncherebbe la ripresa dell'economia faticosamente raggiunta. In vista di queste critiche, la Bce si è limitata a piccoli rialzi del tasso di riferimento; ma questi hanno reso palese agli speculatori che la Bce non intende allinearsi ai tassi americani e tanto meno superarli, il che ha reso ancora più sicuri gli speculatori nella loro azione contro l'euro. Ad accrescere le perplessità della Bce resta poi un argomento di fondo: la svalutazione dell'euro piace agli esportatori, che si vedono regalare guadagni di competitività su tutti i mercati dell'area del dollaro. L'euro visto dall'area del dollaro Se prendiamo in considerazione l'area del dollaro, noteremo che qualcosa sta cambiando nell'atteggiamento verso l'euro. La forza del dollaro e la debolezza dell'euro, mentre avvantaggiano gli esportatori europei, espongono l'industria americana a perdite di competitività: infatti, la bilancia commerciale degli Stati Uniti è gravemente passiva. Gli osservatori sottolineano il fatto che da alcuni anni vi è stato un cambiamento nella situazione finanziaria americana: mentre in passato il disavanzo estero si accoppiava al disavanzo del bilancio federale (il cosiddetto 'accoppiamento dei disavanzi'), oggi sussiste un disavanzo solo, quello esterno, perché il bilancio federale si chiude in attivo. Si può quindi dire, applicando un ragionamento un tantino contabile, che l'indebitamento verso l'estero, non potendo provenire dal settore pubblico, che chiude i conti in attivo, è per intero a carico del settore privato; e poiché le imprese americane continuano a fare profitti, l'indebitamento ricade per intero sui consumatori. Ma, ci si chiede: quanto a lungo potranno le famiglie americane continuare a indebitarsi? È forse possibile considerare questa situazione come stabile e capace di protrarsi indefinitamente nell'avvenire? La risposta di molti è negativa. Negli Stati Uniti cominciano infatti a comparire segni di preoccupazione nei confronti di quella che a loro pare una sfacciata svalutazione dell'euro. Qualcosa di simile si verificò nel 1993-94 di fronte a quella che gli americani giudicavano una sfacciata svalutazione competitiva dello yen, con conseguente irruzione di merci giapponesi sui mercati americani. Oggi cominciano infatti a comparire nei quotidiani americani lamentele degli industriali che denunciano come la caduta dell'euro metta in difficoltà le imprese americane (si leggono di tanto in tanto titoli del tipo: "Cheap Euro Hurts Profits"). Lagnanze di questo tenore provengono da imprese come la Dupont , leader nel settore chimico, ma anche da imprese di settori meno prestigiosi, come la McDonald (regina del fast food , pasti veloci e veleno immediato), o la Gillette (antica signora delle lame per barba). Ne è prova il fatto che quando, nei mesi di ottobre e novembre, la Bce ha effettuato qualche timido intervento diretto nel mercato dei cambi e ha ottenuto piccole temporanee riprese dell'euro, essa non è stata lasciata sola; assieme alla BCE sono intervenute la Federal Reserve, la Banca del Canada, la Banca del Giappone.

6

A questo punto, si profila un conflitto di interessi fra economia europea e area del dollaro. Se qualcosa cambierà nelle sorti dell'euro, ciò, più che alla condotta della Bce, sarà dovuto al confronto con le autorità monetarie dell'area del dollaro.

7

La Rivista del manifesto Luglio 2002

LA MONETA AL GOVERNO Augusto Graziani

Allorché si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato finanziario maggiore di quello statunitense; per di più, alcune delle valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo. Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea, nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen si è svalutato del 10% sul dollaro). Per l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco, in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei. La strategia dei cambi differenziati era stata ufficialmente inaugurata fra il 1975 e il 1979 (il sistema di Bretton Woods era crollato fin dal 1971 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e l’Italia si muoveva in regime di cambi flessibili). La Banca d’Italia era allora retta da Paolo Baffi, sostenitore convinto di questa strategia, ed altrettanto diffidente sulle possibilità che la lira italiana riuscisse a rispettare i vincoli che, a partire dal 1979, le sarebbero stati imposti con l’adesione, avvenuta nel febbraio del 1979, al Sistema monetario europeo. Questi lasciò che nel giro di un paio di anni la lira perdesse oltre il 10% del suo valore rispetto al marco. Una strategia non dissimile venne nuovamente adottata fra il 1992 e il 1996, quando la lira uscì dal Sistema monetario europeo e per quattro anni tornò ad essere una valuta liberamente fluttuante. Questa linea trovava una sua ragion d’essere nella situazione di fatto: nel 1975 le esportazioni verso l’area del dollaro (Stati Uniti e paesi Opec) superavano appena il 13% delle esportazioni italiane, mentre le importazioni italiane dagli stessi paesi si aggiravano sul 25% del totale; era quindi corretto considerare l’area del dollaro come area italiana di importazione, mentre l’Europa (intesa come i paesi che oggi costituiscono l’Unione europea), che assorbiva oltre il 55% delle esportazioni italiane, andava vista come tipica area di sbocco. Oggi (dati del 2001), le esportazioni italiane verso l’area del dollaro si muovono ancora intorno al 13% del totale, ma le importazioni, sempre in termini relativi, si sono ridotte e non vanno al di là dell’11-12% del totale. I paesi dell’Unione europea restano dominanti, ma ad essi si aggiungono nuove destinazioni e provenienze. Un’inchiesta molto accurata riguardante il settore industriale della provincia di Brescia, uno dei comprensori che può essere considerato tipico dell’industria esportatrice del Nord, rivela un declino consistente della quota di esportazioni dirette in Germania dopo il 1985; al tempo stesso, poiché l’industria del Centro-Nord sta trasferendo le fasi più elementari del processo produttivo verso l’Europa dell’est (nel caso della provincia di Brescia, sembra che il paese favorito sia la Romania), nasce un movimento crescente di esportazioni e importazioni di semilavorati con paesi non appartenenti all’Unione europea (1).

8

Tuttavia, nonostante i cambiamenti in atto, il problema messo a fuoco da Baffi quasi trent’anni fa, non è stato superato, in quanto le esportazioni italiane, oggi come allora, vanno perdendo competitività nei mercati europei. Ciò dipende dal fatto che, sebbene rispetto ai primi anni ottanta il problema dell’inflazione si possa considerare oggi del tutto superato, tuttavia il livello dei prezzi monetari italiani tende ancora a crescere più dei prezzi monetari tedeschi: nei primi quattro mesi del 2002, l’indice generale dei prezzi al consumo in Germania segnava un aumento dell’1,9% sull’anno precedente, mentre per l’Italia l’aumento corrispondente superava il 2,5%. Questa lieve inflazione strisciante non può più essere compensata da una svalutazione della lira rispetto al marco. Al tempo stesso, l’apprezzamento del dollaro rispetto all’euro, apprezzamento durato oltre tre anni, rende le importazioni italiane più costose e conferma il pericolo di un’inflazione importata. Tale pericolo diventerebbe ancora più concreto se il prezzo del petrolio dovesse volgersi nuovamente all’aumento. Se ciò dovesse accadere, i paesi europei sarebbero colpiti due volte, sia per l’aumento del prezzo del greggio in sé, sia per la graduale svalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Ogni aumento di prezzo del greggio colpisce invece gli Stati Uniti una volta sola, dal momento che il greggio è quotato direttamente in dollari. Inoltre, l’economia degli Stati Uniti gode di un secondo privilegio. Il Trattato del Nafta (North American Free Trade Agreement), in vigore dal 1994, ha creato una zona di libero scambio comprendente Stati Uniti, Canada e Messico. Alla firma del trattato, gli Stati Uniti fecero includere una clausola particolarmente vantaggiosa (contenuta nell’articolo 605 del Trattato), secondo la quale il Canada, che già esporta verso gli Stati Uniti circa la metà del proprio petrolio, non potrà ridurre le proprie forniture se non nel caso in cui si riscontri una riduzione nelle sue risorse. Grazie a questa clausola, gli Stati Uniti pompano petrolio a discrezione dal Canada, mentre i paesi europei devono comprare greggio dal Medio Oriente al prezzo fissato unilateralmente dall’Opec. Mentre, come abbiamo detto, l’ingresso nell’Unione monetaria europea ha imposto all’Italia un rovesciamento della sua linea tradizionale di politica valutaria, lo stesso non si può ripetere della Germania. Quando in Europa vigevano cambi flessibili (ad esempio fra il 1973 e il 1978) e anche successivamente, quando entrò in vigore il sistema monetario europeo, la Germania fece in modo di mettere in pratica una sua politica valutaria particolare (2). In linea di principio, la Germania accettò più di una volta di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; ma le successive rivalutazioni del marco furono sempre minori di quanto il differenziale di inflazione avrebbe richiesto per ripristinare il cambio reale precedente. Poiché per molti anni la Germania godette di una sostanziale stabilità dei prezzi, mentre gli altri paesi europei non potevano evitare una lenta ma continua inflazione, con il risultato che il marco tedesco, sebbene ufficialmente rivalutato in termini monetari, in realtà si andava svalutando in termini reali. L’industria tedesca riusciva in tal modo ad accoppiare la sua superiorità tecnologica al vantaggio derivante dalla possibilità di mettere in vendita i propri prodotti a prezzi relativi decrescenti. Questa strategia procurò alla Germania l’accusa di praticare una politica neomercantilista (3). Oggi la Germania riesce ancora a seguire la stessa linea. Per molti anni il tasso di inflazione tedesco è stato inferiore rispetto a quello di altri paesi europei. In condizioni diverse, questa situazione potrebbe indurre le autorità monetarie tedesche a lasciar che il marco si rivaluti sui mercati; ma, da quando le valute europee sono fuse in una moneta unica secondo le parità fissate alla mezzanotte del 31 dicembre 1998, questo non può più avere luogo. Di conseguenza, le esportazioni tedesche si avvantaggiano di una competitività crescente, come se il marco venisse continuamente svalutato. Il marco tedesco dunque, non soltanto, in quanto incorporato nell’euro, ha perso terreno in termini nominali rispetto al dollaro, ma si avvantaggia di un’ulteriore svalutazione in termini reali, grazie al tasso di inflazione più basso rispetto agli altri paesi europei. Col passare del tempo, i tassi di cambio iniziali fissati all’avvento dell’euro divengono sempre meno realistici. Riflessi dell’Unione monetaria sui divari regionali I divari regionali, ed in particolare il divario fra Nord e Sud, restano fra i problemi non risolti del paese. Le conseguenze negative dell’Unione monetaria sono cosa di cui il Mezzogiorno ha fatto esperienza fin dall’unificazione politica di quasi un secolo e mezzo fa. Oggi si ritorna a parlare in termini pessimistici delle ripercussioni che

9

l’unificazione monetaria europea potrà esercitare sull’economia del Mezzogiorno. La teoria delle unioni monetarie mostra che le conseguenze di eventi esterni negativi non sono mai simmetriche e colpiscono più gravemente le regioni deboli rispetto alle regioni dinamiche. Le industrie tradizionali delle regioni meridionali saranno colpite negativamente dalla concorrenza proveniente da altri paesi europei come la Spagna o la Grecia, che possono giovarsi di costi del lavoro più bassi; e lo svantaggio potrà essere aggravato dalla presenza di diseconomie esterne, dovute all’inadeguatezza delle infrastrutture come strade, ferrovie, aeroporti, telecomunicazioni e servizi in generale. Sebbene una svalutazione della lira del Sud contro la lira del Nord non sia nemmeno concepibile, qualcosa di non molto lontano venne suggerito in passato, quando si ventilò la possibilità di una svalutazione virtuale, da applicarsi non già ai movimenti effettivi di merci, ma almeno alle analisi costi-benefici effettuate per la valutazione degli effetti della spesa pubblica. Una pratica simile avrebbe i suoi vantaggi in quanto, producendo un aumento dei costi di importazione, darebbe luogo a una collocazione più favorevole in graduatoria per gli investimenti che fanno maggiore ricorso a produzioni locali. Altri, sottolineando il fatto che una svalutazione della moneta locale esercita sui movimenti di merci conseguenze simili a quelle di una riduzione dei salari, ne deducono che i sindacati non dovrebbero insistere per applicare salari uguali in tutto il territorio nazionale e dovrebbero invece accettare il principio di salari territorialmente differenziati in relazione alla produttività del lavoro in ogni regione. Non si può ignorare d’altro canto che, per quanto possa sembrare paradossale, il processo di globalizzazione dell’economia e l’unificazione monetaria europea non hanno mancato di produrre anche conseguenze positive per l’economia del Mezzogiorno. Come si è già ricordato, numerose imprese del Nord hanno dislocato fasi della produzione in altri paesi, là dove il costo del lavoro è più basso e la legislazione a tutela dell’ambiente meno rigorosa. Anni addietro i paesi favoriti furono quelli dell’Estremo Oriente. Oggi le imprese privilegiano l’Est europeo, la Turchia, l’Albania. Questa misura estrema di riorganizzazione a grande distanza resta tuttavia appannaggio delle imprese dotate di dimensione e di capacità finanziaria adeguate per affrontare lo sforzo necessario. Le imprese minori, egualmente poste sotto pressione dalla concorrenza, ma non in grado di trasferirsi in paesi lontani, decentrano parte delle loro attività nelle regioni del Sud. Ha così preso avvio la così detta ‘linea adriatica’ dello sviluppo, seguita ormai da incursioni sempre più profonde nell’entroterra. Ne risulta il sorgere di un numero crescente di piccole imprese, molte delle quali lavorano, direttamente o indirettamente sulla base di commesse provenienti dal Nord. Sviluppi simili suscitano giudizi molto svariati. Alcuni salutano la nascita di questa popolazione di piccole imprese come un punto di svolta nello sviluppo industriale del Mezzogiorno. Nell’opinione di costoro, l’antica politica dei grandi impianti, messa in atto negli anni sessanta e settanta ad opera di imprese private e pubbliche, rappresentò una forzatura ed un grave errore di strategia; viceversa, la nascita di imprese minori, frutto di iniziativa locale spontanea, potrebbe condurre finalmente a trapiantare anche nel Mezzogiorno l’esperienza felice dei distretti industriali che hanno fatto la fortuna di tante regioni dell’Italia centrale (4). Non mancano peraltro giudizi nettamente opposti: si fa rilevare che le imprese minori del Mezzogiorno vivono per lo più come imprese sommerse, occupano lavoro irregolare, violano le norme di sicurezza, non rispettano le prescrizioni riguardanti l’ambiente di lavoro. Imprese di questa natura non potrebbero diventare la via di ingresso del progresso tecnologico, e non farebbero che consolidare l’arretratezza industriale della regione, sia pure a livelli di reddito più elevati. Alla popolazione crescente delle microimprese, viene contrapposta – come esempio di sviluppo assai più promettente – la presenza di un numero limitato ma significativo di nuove imprese ad alta tecnologia nel settore dell’informatica (5). I poteri della Banca centrale europea Sorge qui il problema del controllo dell’inflazione nei paesi europei e delle funzioni attribuite alla Banca centrale europea. È diffusa l’opinione che la Bce abbia assunto tutti i poteri dapprima affidati alle singole banche centrali nazionali e che, quindi, il controllo completo della politica monetaria si trovi oggi nelle sue mani. Secondo questo modo di vedere, la Bce, quanto a struttura e poteri, sarebbe sorta come istituzione del tutto simile alla Federal Reserve americana. E infatti, quando la Bce venne ideata, era impressione unanime che essa

10

dovesse diventare la vera Banca centrale di tutti i paesi partecipanti, al punto che non mancò chi denunciò come improprio l’aver affidato poteri così estesi a un’istituzione sottratta a ogni controllo democratico da parte degli elettori (6). Viceversa, come ha ricordato di recente Steiger, divenne presto chiaro che non sarebbe stato così (7). La Bce fissa il tasso ufficiale di sconto (il così detto tasso di riferimento) per tutti i paesi partecipanti. Ma, al di là di questo, essa non esercita alcun vero controllo sulla quantità di moneta e, cosa ancor più importante, non svolge alcuna funzione di prestatore di ultima istanza in caso di crisi. Inoltre, la Bce non ha alcuna competenza sul controllo del cambio fra euro e altre valute, controllo che è rimasto affidato al Consiglio dei ministri degli Esteri dei paesi dell’Unione. Questi poteri limitati della Bce trovano riscontro anche nella struttura istituzionale dei suoi organi. La Bce è governata da un Comitato esecutivo di sei membri, in linea di principio assolutamente indipendente dai governi dei paesi partecipanti (il fatto stesso che i componenti del Comitato esecutivo siano in numero inferiore rispetto al numero dei paesi partecipanti viene addotto a riprova della totale indipendenza fra Comitato e governi). Però, al di sopra del Comitato esecutivo esiste un altro organismo, il Consiglio direttivo, nel quale sono presenti, accanto ai sei membri del Comitato, i Governatori di tutte le Banche centrali nazionali. Costoro sono attualmente in numero di dodici e quindi, se concordi, potrebbero facilmente mettere in minoranza il Comitato esecutivo. Naturalmente, secondo le regole che si è data l’Unione europea, anche i Governatori delle Banche centrali nazionali sono indipendenti dai rispettivi governi; ma è cosa nota, e sovente fatta notare, che i legami fra governi e Banca centrale sono invece molto stretti in tutti i paesi. Questa struttura lascia sospettare che le singole Banche nazionali godano ancora di poteri di fatto non trascurabili per quanto riguarda il controllo della quantità di moneta; circostanza questa ulteriormente confermata dal fatto che i criteri applicati nel valutare la carta commerciale presentata al risconto sono tuttora diversi in ogni paese. La Bundesbank si vanta ad esempio di applicare criteri molto più rigorosi di altre banche centrali (potrebbe esservi un’allusione alla Banca d’Italia) nel valutare la solidità delle promesse di pagamento ammesse al risconto. La svalutazione dell’euro ha favorito le esportazioni italiane verso l’area del dollaro; al tempo stesso, il tasso di inflazione tendenzialmente più alto in Italia rispetto alla media europea rappresenta, in regime di valuta unica, uno svantaggio all’interno dell’area europea. In passato, vi furono epoche nelle quali l’industria italiana era sempre pronta ad accettare ogni aumento di salario, per quanto elevato, richiesto dai sindacati. La ragione di questo atteggiamento accomodante risiedeva nel fatto che le imprese sapevano di poter compensare l’aumento dei salari con un aumento dei prezzi di vendita. L’intera operazione era resa possibile dalle autorità monetarie, pronte ad accordare alle imprese il credito necessario per fare fronte a un monte salari accresciuto e disposte a lasciar slittare la lira rispetto alle altre valute in modo da evitare una perdita di competitività delle esportazioni. Oggi che la valuta europea è divenuta una valuta unica, mentre la fissazione del tasso di sconto è stata spostata dalle Banche centrali nazionali alla Bce, ogni aumento di salari, non potendo più essere compensato da un aumento dei prezzi e da una svalutazione della moneta nazionale, finisce con l’incidere immediatamente sui profitti. Gli aumenti di salario possono oggi essere compensati soltanto da aumenti corrispondenti della produttività, ottenuti grazie all’ingresso del progresso tecnico. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una politica industriale corretta. L’industria italiana ha scelto viceversa una strada diversa e precisamente quella di puntare sulla compressione del costo del lavoro. Spostando la produzione dalla grande industria ai piccoli opifici decentrati, concordando con il sindacato una proliferazione di contratti di lavoro atipici, sviluppando l’impiego del lavoro irregolare e sommerso, l’industria italiana ha messo in atto altrettanti strumenti per aumentare la produttività e ridurre drasticamente il costo del lavoro. Il vantaggio immediato di questa strategia è indiscutibile. Le conseguenze di lungo periodo sono molto più dubbie. Un’industria basata sui settori tradizionali, che sopravvive nella ricerca continua di una compressione del costo del lavoro, è destinata a perdere terreno nel mercato internazionale. Un numero crescente di paesi in via di sviluppo può contare su un costo del lavoro assai più basso

11

di quello italiano e, infatti, l’industria di quei paesi sta guadagnando quote di mercato crescenti. La svalutazione dell’euro ha consentito di guadagnare competitività nell’area del dollaro; ma se, come a volte sembra debba accadere, la tendenza dovesse capovolgersi e l’euro riguadagnare terreno, questa compensazione parziale sarebbe destinata a scomparire. La strategia della Banca centrale europea La svalutazione dell’euro, che essa sia dovuta alla debolezza dell’economia europea o al fatto che i mercati finanziari americani risultano più attraenti per i capitali speculativi, pone alla Bce problemi di non facile soluzione. Numerosi osservatori, nel commentare il declino dell’euro, non hanno risparmiato critiche alla Bce, accusata di non aver difeso la moneta europea con sufficiente energia. In realtà, si potrebbe discutere sul se la debolezza dell’euro sia dovuta a valutazioni negative dei mercati o sia tollerata dalla Bce per più concrete ragioni economiche. Un rimedio immediato, volto a rafforzare il corso dell’euro, sarebbe quello di aumentare i tassi di interesse, nella speranza che, aumentando il rendimento dei titoli nell’area europea, le fughe di capitali verso l’area del dollaro vengano scoraggiate. In realtà, i tassi vigenti negli Stati Uniti si sono ridotti e, da oltre un anno, il tasso della Bce è stato più alto del tasso praticato dalla Riserva Federale; ma questo non ha esercitato alcun influsso tangibile sull’andamento del cambio fra euro e dollaro. Inoltre un aumento dei tassi praticato dalla Bce sarebbe fortemente criticato da molte parti: dalle imprese, che chiedono tassi di interesse miti per proteggere i profitti, dagli esportatori, che vedono con favore il deprezzamento dell’euro che favorisce le esportazioni, dai responsabili governativi, sempre tormentati dallo spettro del debito e dal timore di accrescere il disavanzo del bilancio pubblico, dagli studiosi, che sottolineano le conseguenze negative che tassi di interesse elevati producono sugli investimenti e sul livello di occupazione. Non si può escludere che siano state proprio motivazioni di questo genere a indurre la Bce ad aumentare il tasso di riferimento soltanto in misura ridotta: dal 3% iniziale fino al 4,75% nell’ottobre 2000 e, a partire dal maggio 2001, a ridurlo nuovamente fino a portarlo al 3,25 attuale. Difficile immaginare quali potranno essere gli sviluppi futuri. Non si può evitare il sospetto che l’euro finisca col diventare una valuta strutturalmente debole, con circolazione prevalentemente locale. Nei secoli passati, il regime della doppia circolazione era accettato come normale: le monete auree (come il fiorino di Firenze o il ducato di Venezia) venivano usate nei grandi commerci ed erano la moneta degli scambi con l’estero, mentre le valute locali minori, esposte alla tosatura e alla svalutazione frequente, venivano usate per il pagamento dei salari e per il commercio al dettaglio (8). La coesistenza pacifica fra euro e dollaro potrebbe realizzarsi attraverso una divisione simile delle funzioni di ognuna delle due valute. La posizione centrale del dollaro La svalutazione progressiva dell’euro rispetto al dollaro viene attribuita a cause diverse: il tasso di sviluppo più veloce degli Stati Uniti, che induce gli investitori a sperare in profitti crescenti, o i tassi di interesse più elevati vigenti nei mercati finanziari americani, che assicurano rendimenti più elevati ai capitali finanziari. In passato, le affermazioni ripetute del Governatore Duisenberg – che sottolineava il fatto che la Bce non avrebbe attuato una difesa a oltranza del corso dell’euro – non hanno fatto che incoraggiare i movimenti di capitali speculativi verso l’area del dollaro e provocare una progressiva svalutazione dell’euro. Non bisogna dimenticare d’altro canto che la rivalutazione del dollaro aveva avuto inizio anche prima che l’euro venisse creato. Il cambio del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese aveva cominciato a crescere fin dal 1985 e la crisi asiatica del 1997 non aveva fatto che rafforzare questa tendenza. Per i paesi del Sud-est asiatico, che avevano legato la loro valuta al dollaro, questo movimento rappresentò una rivalutazione – non voluta – della propria valuta nazionale rispetto allo yen e alle valute europee. Una rivalutazione che raggiunse anche il 40% ed esercitò un inevitabile e grave influsso negativo sulle esportazioni dei paesi asiatici. Paesi che avevano visto le proprie esportazioni crescere anche del 20% all’anno, e insieme crescere il proprio reddito nazionale al 7-8% all’anno, si trovarono repentinamente messi fuori mercato. Il Fondo monetario internazionale intervenne con la prescrizione di liberalizzare totalmente i mercati dei cambi e consentire piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, si rifiutò di

12

applicare queste indicazioni e, in un momento successivo, l’allora direttore del Fondo, il francese Camdessus, riconobbe la fondatezza delle sue ragioni. In altri paesi, le fughe di capitali, ormai svincolate da ogni controllo, produssero svalutazioni violente delle monete nazionali (fino al 50% rispetto al dollaro, come fu il caso del won coreano o del bath tailandese). Quando tutti questi paesi, l’uno dopo l’altro, ebbero distaccata la propria valuta dal dollaro, imprese e banche che si trovavano gravemente indebitate in dollari videro improvvisamente raddoppiato l’onere del proprio debito espresso in valuta nazionale. Questo fu l’inizio dei crolli di borsa e di fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come i gruppi Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri) dichiararono lo stato di insolvenza. La svalutazione delle valute asiatiche, insieme allo stato di crisi di tanti gruppi industriali, aprì la strada all’ingresso di capitali stranieri, che si affrettarono ad acquistare imprese in crisi. In questa corsa, i paesi europei (Francia, Germania, Olanda) non furono da meno degli Stati Uniti. Tutto questo ebbe luogo con il compiacimento del Fondo monetario. In precedenza, molti paesi asiatici avevano posto limiti alla presenza di capitali stranieri, specie nelle industrie considerate strategiche. Ora, invece, il Fondo incoraggiava la presenza di capitali stranieri nell’industria nazionale, nella convinzione che questa fosse fonte di buona amministrazione e di efficienza produttiva. Perduta ogni possibilità di condurre una politica monetaria o industriale autonoma, i paesi asiatici sono divenuti un mercato fertile, aperto alle importazioni di prodotti statunitensi. D’altro canto, non va sottovalutato il fatto che qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto all’euro. La forza del dollaro e la debolezza dell’euro, se giocano a favore delle esportazioni europee, comportano una perdita di competitività dell’industria statunitense. Non vi è da stupirsi se la bilancia commerciale degli Stati Uniti resti perennemente passiva. Inoltre, come molti fanno osservare, mentre in passato il disavanzo esterno andava di pari passo con un disavanzo nel bilancio del Governo federale (la così detta situazione dei disavanzi gemelli), oggi, dal momento che il bilancio del Governo federale chiude in attivo, rimane in vita il solo disavanzo esterno. Si dovrebbe dire quindi che il disavanzo esterno, non essendo più riconducibile alla spesa pubblica, è interamente dovuto al settore privato; e poiché i profitti delle imprese statunitensi non si sono annullati, il debito dovrebbe ricadere per intero sui consumatori. Ma, si chiedono alcuni osservatori, per quanto tempo le famiglie americane potranno continuare ad accrescere i propri debiti? È davvero possibile considerare questa situazione come stabile e capace di riprodursi indefinitamente nel tempo? Non pochi sarebbero inclini a dare a questi interrogativi una risposta negativa. Negli Stati Uniti cominciano a comparire segni di insoddisfazione per questa svalutazione dell’euro, che alcuni iniziano a considerare come voluta e sleale. Qualcosa del genere si era manifestato nel 1993-94, quando gli Stati Uniti si trovarono di fronte a quella che veniva considerata una svalutazione competitiva dello yen, con conseguente invasione di merci giapponesi nei mercati americani. Anche oggi cominciano a comparire lamentele, da parte di imprese grandi e piccole. Potrebbe qui nascere un conflitto di interessi fra l’industria americana e quella europea. Vi è quindi da attendersi che, se qualcosa cambierà nella politica valutaria europea, questo avverrà più per pressioni provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico che non per interesse diretto dei paesi europei. I segni di rivalutazione dell’euro, che cominciano a comparire sporadicamente, potrebbero allora segnare un’inversione di tendenza. Dubbi e prospettive Le prospettive di ripresa dell’economia, ancora gravemente incerte, sono oggi il tema dominante del dibattito. Di fronte ad una produzione industriale che stenta a riprendere vigore, sembra evidente a molti che un intervento delle autorità economiche sarebbe necessario. La natura e le modalità di tale intervento sono peraltro più difficili da individuare. Un rilancio della domanda globale sarebbe, secondo i canoni elementari della politica economica, la misura più immediata ed efficace. I limiti di una manovra simile sono peraltro altrettanto evidenti. Un aumento della domanda globale, realizzato nella sola economia italiana isolatamente presa, comporterebbe, attraverso un aumento corrispondente delle importazioni, un disavanzo della bilancia commerciale. Poiché l’Italia è ormai legata ai paesi europei in una valuta unica, il disavanzo si tradurrebbe in un indebitamento equivalente verso l’estero, che alla lunga non sarebbe

13

sostenibile. Logica vorrebbe allora che interventi analoghi di rilancio della domanda venissero messi in atto da tutti i paesi europei con un’azione concorde per la ripresa dell’attività economica. Ma, come risulta ormai in modo indubitabile, un’azione comune su questo terreno incontra lo sbarramento irremovibile della Germania. D’altro canto, la situazione italiana presenta alcune peculiarità che non possono essere ignorate. Mentre altrove la disoccupazione è fenomeno diffuso, nel nostro paese regioni caratterizzate da occupazione più che piena si contrappongono ormai nettamente a regioni afflitte da disoccupazione strutturale. L’Italia Nord-orientale ha ormai varcato i limiti della piena occupazione: gli imprenditori si sottraggono lavoratori gli uni con gli altri e alcuni sono costretti a rinunciare a progetti di espansione per mancanza di mano d’opera. Le possibilità di impiego sono ormai alla portata di tutti, al punto che i giovani, non resistendo alla tentazione del guadagno, abbandonano gli studi scolastici prima di averli portati a compimento, con grave pregiudizio della loro formazione personale e, a lungo andare, del paese in generale. Se non fosse per i lavoratori provenienti dai paesi extraeuropei, l’espansione avrebbe subito una battuta d’arresto già da tempo. In altre regioni, la disoccupazione è legata a problemi di ristrutturazione industriale: la crisi della Fiat è un esempio macroscopico del ridimensionamento di un’impresa, che porterà inevitabilmente con sé problemi gravi di disoccupazione locale. Il problema autentico della disoccupazione è tuttavia concentrato nel Mezzogiorno. Qui, come si è detto in precedenza, le prospettive di aumento dell’occupazione sono legate in misura crescente al decentramento proveniente da imprese del Nord. Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale. note: 1 E. Marelli, F. Spinelli, Rapporto sull’internazionalizzazione delle imprese bresciane, Brescia, AIB, 2001. 2 C. Thomasberger, Schlingerkurs oder externe Stabilisierung? Anmerkungen zur Politik der deutschen Bundesbank, «Weltwirtschaftliches Archiv», n. 5, 1993, pp. 265-85. 3 H. Hagemann, On Some Macroeconomic Consequences of German Unification, in H. Kurz ed., United Germany and the New Europe, E. Elgar Aldershot, 1993, pp.89-107; P. Ciocca, La politica economica della Germania Federale, in V. Valli ed., L’economia tedesca, Etas-Libri, 1981, pp. 97-138. 4 G. Viesti, Come nascono i distretti industriali, Laterza, 2002. 5 A. Del Monte, Esiste un nuovo Mezzogiorno?, «l’Industria», 2002, n. 1. 6 S. de Brunhoff, The European Plan for the Creation of a Single Currency, in Money in Motion. The Post-Keynesian and Circulation Approaches, a cura di G. Deleplace e E. Nell, New York, MacMillan, 1996, pp. 716-24. 7 G. Heinsohn, O. Steiger, The Euro-System and the Art of Central banking, «Studi economici», 2002, n. 1. 8 C. Cipolla, Moneta e civiltà mediterranea, Neri Pozza, 1957, capp. II e III.

14

Affari e Finanza dell’1 ottobre 2007

Mini dollaro, l'Europa paga per tutti

Marcello De Cecco

Due prezzi dominano la congiuntura mondiale: il prezzo del greggio e quello del dollaro in termini delle altre principali monete. Ha fatto molta impressione e continua a riempire le prime pagine dei giornali la caduta della moneta americana, specie in termini di euro. In effetti, dal punto più basso dell´euro, che si raggiunse cinque anni fa attorno a 0,82, la risalita della moneta europea è stata molto forte, fino agli oltre 1,40 attuali. Non è ancora un raddoppio, ma forse lo diventerà nei prossimi mesi. Il prezzo del petrolio è quadruplicato negli stessi cinque anni, ha ripetuto cioè la performance che ricordiamo ancora come crisi petrolifera a metà degli anni settanta. Si dice anche che ora il petrolio significa molto meno di trent´anni fa, per l´economia mondiale, che l´intensità petrolifera delle produzioni mondiali è molto diminuita. Questo forse non è vero, specie per quanto riguarda i trasporti privati. Le auto vanno ancora a benzina a nafta o a gas e rispetto agli anni settanta nel mondo ce ne sono molte di più. I trasporti merci, nel frattempo, hanno decisamente preferito la gomma e abbandonato relativamente il ferro. E gli aerei vanno ancora a cherosene, anche se ne consumano relativamente meno, così come auto e camion consumano meno benzina e gasolio. Ma si vola, si trasporta e si viaggia in auto molto di più di trent´anni fa. Usiamo anche molto più gas di prima, ma i prezzi del gas si sono ancorati stabilmente a quelli del petrolio. Quest´ultimo, a sua volta, si muove inversamente al cambio del dollaro in euro. Malgrado le molte parole, il petrolio si vende ancora in dollari, e i paesi produttori guardano al cambio più importante della moneta americana e si regolano di conseguenza. Ed è bene che ciò duri, perché, quando l´euro si rivaluta, come ora accade, recuperiamo parte dell´aumento dei prezzi in dollari di petrolio e altre materie prime. Forse la minore importanza della dinamica dei prezzi del petrolio dipende anche dal fatto che i prezzi di molti prodotti di rilevante consumo, importati da paesi a bassi salari e bassa protezione ambientale, sono scesi mentre quello del petrolio aumentava. La somma algebrica, tra i due tipi di prezzi, per i consumatori di tutto il mondo, è dunque cambiata poco. E questo è servito a distogliere l´attenzione dai prezzi del petrolio e dei suoi derivati. Tutti o quasi gli osservatori della scena petrolifera mondiale pensano che nei prossimi dodici mesi il prezzo del greggio scenderà dai picchi che ha raggiunto. Ma quanto è flessibile veramente, nel breve periodo, la domanda di benzina o di gasolio da riscaldamento negli Stati Uniti? Solo i fattori climatici possono influenzare la seconda. La prima è poco flessibile, per la mancanza di modi di trasporto alternativi. Per fortuna lo swing producer, l´Arabia Saudita, conta di più quando la domanda è alta o bassa e interviene a rinforzare la tendenza in atto, attenta però a non distruggere la gallina dalle uova d´oro, l´economia mondiale. Ci aspettiamo che lo faccia nei prossimi mesi, a rinforzare la caduta del prezzo. Le aspettative degli osservatori sono altrettanto sicure per quanto riguarda il cambio dell´euro col dollaro. Certo la Bce non sarà, nei prossimi dodici mesi, soggetta alle pressioni alle quali sarà fatta segno la Fed da parte politica, perché in Europa non ci sarà entro il 2008, un evento politico dello stesso rilievo e altrettanto soggetto alla dinamica congiunturale interna, delle elezioni presidenziali americane. Il dollaro dunque continuerà a indebolirsi, anche se forse non alla stessa velocità che ha mostrato negli ultimi tempi. I tassi americani scenderanno di più di quanto faranno quelli della Bce, e gli esportatori europei dovranno rassegnarsi a condizioni concorrenziali peggiori nei confronti dei loro concorrenti americani, giapponesi, cinesi e asiatici in generale. La pressione politica sulla Bce non sarà la stessa di quella americana sulla Fed, malgrado le alte grida che già leva Sarkozy contro il suo compatriota Trichet, anche perché all´interno della Unione monetaria ci sono paesi come la Germania che per proprio merito godono di condizioni competitive migliori e che quindi mostrano di preferire il cosiddetto modello Bundesbank, basato sulla stabilità monetaria e su quella dei prezzi interni ottenute con la autoregolamentazione sindacale e delle imprese. Su questa posizione la Germania troverà ancora alleati all´interno della Unione monetaria, se il cambio dell´euro non si scosterà molto dai livelli, molto elevati, che ha attualmente raggiunto. Se procederà verso 1,50 e oltre, non solo la signora Merkel resterà isolata a difendere la Bce, ma è probabile che cambierà idea anche lei, sulla spinta di pressioni interne al suo paese. Solo allora vedremo una Bce impegnata in una politica attiva del cambio. Quanto è probabile questa eventualità? Tutto dipende da come si comporteranno, nei confronti del dollaro, le monete asiatiche, che come è noto sono regolate nei loro movimenti dalle autorità monetarie e politiche. Se Cina, Giappone, Corea e India accetteranno una corposa rivalutazione delle loro monete col dollaro, non sarà necessario che la Bce intervenga a mitigare la pressione del dollaro sulla sua moneta. Il peso della svalutazione americana sarà dunque assorbito anche dai principali creditori degli Stati Uniti. Ma quanto è realistica questa possibilità? Poco per quanto riguarda la moneta cinese, forse un po´ di più per quella giapponese, perché può darsi che continui il rimpatrio dei fondi che i risparmiatori di quel paese hanno investito in fondi esteri ad alto rendimento.

15

Che il 2008, specie per la discesa del dollaro e anche delle monete asiatiche che seguono la dinamica della moneta americana, porterà una notevole perdita di velocità delle principali economie europee, comincia ormai ad essere una previsione consensuale. Il nostro ministro dell´Economia dà prova di realismo, riducendo, a quel che pare, la previsione di crescita italiana per il 2007 e 2008 in maniera sensibile. In altre parole, a credere allo sganciamento dell´economia mondiale da quella americana, dopo qualche baldanzosa dichiarazione nei mesi scorsi, sembrano essere rimasti in pochi. E´ certo vero che la Cina è riuscita a spostare parte delle proprie esportazioni dagli Stati Uniti all´Europa. Ma questo aggrava anziché aiutare la situazione dei conti esteri europei, e non risolve, in maniera significativa, la vocazione cinese a servirsi, ancora per alcuni anni, del mercato americano come sbocco principale per le proprie merci. Si è messo in piedi tra Stati Uniti e Cina un rapporto solido, perché fondato sulle scelte produttive delle principali multinazionali americane. E´ noto che più della metà delle esportazioni cinesi sono prodotte dalle multinazionali, americane europee e giapponesi. Ma quelle americane si servono della produzione in Cina per soddisfare la domanda di beni di consumo a basso costo che proviene dalla media e piccola borghesia americana, un ceto gradualmente impoverito, in termini relativi, dalla redistribuzione dei redditi verso le imprese e verso i ricchi che ha avuto luogo negli ultimi decenni. Sarà esso a soffrire della frenata indotta dalla demoltiplicazione finanziaria in atto, che si protarrà ancora per parecchio, almeno a stare alle previsioni del Rapporto sulla Stabilità Finanziaria appena pubblicato dal Fmi. Se la Cina decidesse di rivalutare lo Yuan in maniera significativa, le imprese americane si sposterebbero altrove, pur di continuare a produrre merci a costo abbastanza basso da poter essere vendute alla clientela americana a basso reddito. E´ un sistema che ha fatto la fortuna di catene distributive come la Walmart nell´ultimo decennio. Mentre la Cina contribuisce a raffreddare nel modo detto l´inflazione americana e mondiale, essa ha cominciato a spingere nella direzione opposta per quanto riguarda la domanda di generi alimentari e di prodotti primari come ferro, rame e petrolio. Nel futuro prossimo non è prevedibile che l´enorme paese asiatico torni all´autosufficienza alimentare. La perdita di essa è parte dell´esperienza di sviluppo di tutti i paesi che hanno preceduto la Cina nell´industrializzazione. I cattivi raccolti, l´amore cinese per la buona cucina, e la spaventosa moria dei maiali, pilastro dell´alimentazione cinese nella misura di 500 milioni l´anno, aggiungono legna al fuoco. La domanda di importazioni alimentari e di materie prime industriali da parte cinese continuerà dunque, a meno che la crescita del gigante asiatico non si arresti bruscamente, come accadde all´Italia nel 1963-64. Ma in quel deprecabile caso, l´arresto non sarà per il famoso "vincolo estero" che bloccò noi, ma per una politica severa per combattere una eventuale inflazione elevata o per una perdita della capacità da parte delle autorità di controllare le fughe di capitali cinesi verso l´estero. Nel panorama mondiale, anche dopo la parziale esplosione della crisi finanziaria di quest´estate, resta il problema di fondo della impossibilità di sostituire in breve tempo la disponibilità americana a consumare più del proprio reddito corrente, con l´aiuto di sistemi finanziari all´uopo orientati. Lo scoppio della bolla immobiliare e il "credit crunch" che ne è seguito hanno tarpato le ali a quella disponibilità, forse temporaneamente e parzialmente, come appare dai dati sulla fiducia dei consumatori Usa. Non vediamo altri candidati pronti a sobbarcarsi l´onere del consumo eroico. Gli europei, con al centro i tedeschi, brillano per la loro opposta vocazione. Non amano indebitarsi per consumare quanto gli anglo-americani, e nemmeno per comprare o costruire case. Dallo Statistische Bundesamt apprendiamo che i lavoratori dipendenti tedeschi, l´anno scorso hanno portato a casa il reddito reale più basso degli ultimi vent´anni, circa 15.800 euro. Ora che hanno, come gli altri europei, da far fronte a prezzi alimentari fortemente rincarati, per colpa del tempo ma anche dei cinesi e della stupida e irresponsabile politica, in particolare americana, di utilizzazione dei cereali per produrre benzina, i lavoratori dipendenti tedeschi diverranno ancor più morigerati di quanto tradizionalmente sono. Altri europei, magari, sarebbero meglio disposti verso i consumi, ma il credit crunch seguito alla crisi finanziaria dell´estate renderà meno facile l´indebitarsi per consumare. Gli ultimi dati sulla fiducia degli uomini d´affari in Germania riflettono questo sentimento. Guai dunque in vista per i produttori del Made in Italy, a eccezione di quelli che sono riusciti ad affermarsi nelle vere produzioni di grande lusso. Ma quanti sono, e quanto contano sul totale? Per loro resta forte la domanda dei nuovi ricchi di tutto il mondo, che godono della enorme redistribuzione a loro favore di redditi e ricchezza. La maggioranza, tuttavia, produce per le classi medie e dovrà vedersela col super-euro, con la discesa della domanda americana e la stagnazione di quella giapponese e tedesca. Per quanto riguarda il settore metalmeccanico, che resta il vero cuore del sistema produttivo italiano, forse la tenuta della domanda di beni di investimento di provenienza asiatica, anche mediante sub forniture ai produttori tedeschi, potrà lenire in qualche misura la quasi certa discesa della domanda di auto e motoveicoli, indotta dalla diminuzione del credito facile e anche da problemi di saturazione e di concorrenza.

16

La Repubblica del 21 settembre 2007

Passagio di testimone

Marcello De Cecco

Il primo gennaio del 1999 nasceva ufficialmente l'euro. Dall'inizio se ne parlò come del vero contraltare al dollaro. Eppure, nato a un cambio di 1.1675 per dollaro, il nuovo nato cominciò a ruzzolare e continuò a svalutarsi. Quel che determinava la sua discesa era la politica restrittiva inaugurata da Greenspan per frenare il boom di borsa americano. Poi venne l'11 settembre e iniziò la risalita dell'euro. Di nuovo, la ragione stava nella politica di Greenspan, che dovette reagire all'attacco alle Torri iniettando liquidità nel sistema finanziario americano che minacciava di avvitarsi in un tremendo ciclo di deflazione e crisi finanziaria. La Bce ritenne di non doverlo seguire fino in fondo. La differenza tra tassi di interessi, a favore dell'Europa dei dodici, spiega la risalita dell'euro. All'inizio del 2002 la parità col dollaro è riguadagnata, e l'ascesa sale, preoccupando non poco i governanti e i banchieri europei, che vedono crescere la loro moneta fino al picco di 1.36 di fine dicembre del 2004. Con il rilancio dell'economia statunitense la corsa dell'euro frena e a fine 2005 torna a un più ragionevole livello, esattamente quello del gennaio 1999. A quel punto il nuovo timoniere della Bce, Trichet, scommette su una ripresa europea e comincia una decisa politica di rialzo dei tassi, parecchio dopo l'inversione di marcia di Greenspan. L'euro ricomincia a correre, anche perché la cura di Greenspan ha avuto effetto e l'economia americana ha rallentato e allo stesso tempo è scoppiata la bolla del mercato immobiliare americano. Corre tanto, spinto anche dalle esitazioni travestite da coraggio del professor Bernanke, nuovo presidente della Fede dalle vere e proprie sciocchezze che governo, banca centrale e regolatori finanziari commettono in Gran Bretagna, trovandosi a fronteggiare la prima corsa ai depositi che si ricordi in quel paese, patria della banca moderna, dal lontano 1866. Cosi arriviamo a ieri, quando la soglia psicologica dell'1.40 dollari per euro è finalmente superata. A fargliela scavalcare non è tuttavia il taglio dei tassi di riferimento dello 0.50% deciso due giorni prima da Bernanke, ma una sua importante conseguenza: la decisione, da parte delle autorità monetarie saudite, di non seguire la Fed, lasciando immutati i propri tassi. La loro moneta, come le altre dei paesi del Golfo, è da anni agganciata al dollaro, cosicché l'apertura di un differenziale positivo tra i loro tassi e quelli della Fed può voler mostrare la decisione saudita di sganciarsi dal dollaro, e quindi di seguire l'euro. I paesi del golfo sono in preda a una forte inflazione, indotta dal rincaro di tutti i generi alimentari che consumano e indirettamente dal livello da capogiro raggiunto dal prezzo del petrolio. Si prevede dunque che la decisione saudita sarà seguita dagli altri sceiccati. Potenza di un piccolo paese di enorme ricchezza. Esso ormai è in grado di dettare legge anche agli Stati Uniti. Si è accordato con la Russia per la gestione comune della politica dell'OPEC, compra aerei da caccia europei. Ora si sgancia, forse dal dollaro. La domanda che urge in tutti gli ambienti economici del mondo è dunque: è finalmente arrivata l'ora del passaggio di testimone tra dollaro ed euro come moneta di riserva mondiale? Afferma di crederlo il vecchio Greenspan, che ha dichiarato nei giorni scorsi alla rivista tedesca Stern che il dollaro è ancora in testa nella gara, ma non ha più un grande vantaggio rispetto all'euro. Dichiara Greenspan che alla fine del 2006 il 25% di tutte le riserve mondiali era ormai tenuto in euro, mentre in dollari era tenuto ancora il 66%. Ma, come moneta usata nei pagamenti tra paesi diversi, il dollaro non rappresentava più che il 43%, contro il 39% dell'euro. In effetti, in questi giorni molti dei paesi che hanno in tempi recenti accumulato più riserve sembrano aver seguito l'euro, nella sua ripida ascesa. Il rublo, lo yen, il won coreano, la rupia indiana si sono rivalutati. Tutto chiaro, allora? Comincia la rotta del biglietto verde? Altri elementi lo confermerebbero: le monete dei paesi emergenti, infatti, hanno cominciato a indebolirsi, e lo stesso hanno fatto i loro mercati azionari ed obbligazionari, quando la Fed ha tagliato il proprio tasso di riferimento l'altro giorno. Ma, poiché complesse sono le cose del mondo, il vero protagonista della scena monetaria mondiale, lo Yuan cinese, ha seguito il dollaro, addirittura svalutandosi nei suoi confronti e dunque perdendo ancor più valore verso le valute forti. Pochi giorni fa le autorità cinesi avevano annunciato di avere ormai più di 1400 miliardi di dollari di riserve, avendone accumulato per circa 600 miliardi dall'inizio dell'anno. Perché, in questa situazione di grandiosa sottovalutazione della loro moneta, insistono nel pilotarla verso il basso? Forse perché vogliono mostrare di avere sotto controllo il mercato dei cambi, al punto di generare un moto opposto a quello naturale per la loro moneta in circostanze di cambio libero. Forse perché usano controllare l'offerta di moneta, temendo fortemente una ventata inflazionistica, obbligando le banche cinesi a depositare dollari alla banca centrale. Forse perché temono non solo l'inflazione in casa, ma una riduzione delle proprie esportazioni negli Stati Uniti per il declinare del ciclo in quel paese. Il messaggio che viene da Pechino, dunque, rende assai più difficile la vita a chi guarda ai mercati dei cambi in questi giorni. Le banche cinesi comprano dollari e li sterilizzano presso la propria banca centrale. Questo in qualche modo riduce la pressione sulla moneta americana, ma aumenta anche la competitività delle merci cinesi.

17

Affari & Finanza del 30 aprile 2007

L'Euro forte piace solo alla Germania

Marcello De Cecco

Come in tutti i periodi di grande turbolenza, ogni giorno sulla economia mondiale e su quelle che la compongono le notizie si accavallano alle notizie. Molte di esse vanno nella stessa direzione, ma parecchie sono tra loro contraddittorie, rendendo particolarmente difficile una ragionevole attività di previsione dei movimenti futuri del ciclo mondiale. Ci sono casi facili, come quello della Cina. Con le Olimpiadi programmate per l’anno prossimo, quindi con le attività di costruzione da esse motivate in pieno svolgimento, è del tutto improbabile che le autorità cinesi si possano veramente permettere di prendere misure che rischino di far rallentare seriamente la corsa dell’economia che governano. Sebbene le esportazioni cinesi vengano subito dopo quelle tedesche ai primi posti nella classifica mondiale (i giapponesi sono stati spinti al terzo posto dalla inarrestabile corsa cinese) la domanda interna è ancora quel che determina il cammino economico della Cina. In particolare, come si sa, sono gli investimenti fissi a mostrare tassi di crescita di inverosimile dimensione, ma senza di essi la corsa dell’economia cinese rallenta seriamente. Poiché gli investimenti, specialmente in Cina, sono finanziati coi prestiti bancari, l’autorità monetaria cinese potrebbe, frenando il credito, far rallentare la corsa dell’intera economia.Ma, come s’è appena detto, metterebbe a rischio la perfetta riuscita delle Olimpiadi, alla quale la dirigenza cinese tiene moltissimo, per motivi di prestigio sia interno che internazionale. Quindi, escludendo gli imprevisti, la corsa della Cina continuerà ai ritmi furiosi mostrati negli ultimi tempi. Se ne riparlerà dopo la fine delle Olimpiadi. Anche l’altro gigante asiatico, l’India, sembra voler continuare a vivere pericolosamente, avendo da poco imparato a farlo. L’esempio cinese sembra aver contagiato seriamente i governanti e gli imprenditori indiani, e i rischi di una esplosione inflazionistica, presenti in India assai più che in Cina, le autorità indiane hanno appena dichiarato di essere disposte a correrli, pur di seguire i rivali oltre l’Himalaya nella loro folle corsa allo sviluppo.In entrambi i paesi, sebbene uno si regga con un peculiare totalitarismo e l’altro con una altrettanto peculiare democrazia, le classi dirigenti hanno scommesso tutto sullo sviluppo all’interno di una globalizzazione intesa in maniera profondamente mercantilistica e non possono diminuire il ritmo impresso alle loro economie senza giocarsi la propria permanenza ai posti di comando, sia essa assicurata da elezioni o da complessi movimenti all’interno delle fazioni del partito comunista cinese. Se cerchiamo invece di prevedere la crescita del PIL in tre importanti paesi, come gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone, le cose si fanno assai più complesse. Nel 2007 sembra cresceranno tutti e tre attorno al 2%. Ma in Germania si prevede una crescita dei prezzi dell’1.50%, negli Stati Uniti di più del 2%, mentre i Giappone i prezzi resteranno fermi o addirittura scenderanno di qualche decimo di punto. Queste previsioni diverse sui prezzi rendono assai diverso il probabile andamento delle politiche monetarie nei tre paesi. Negli USA un 2% di crescita rappresenta una discesa da un livello parecchio più elevato, in Germania esso è invece un ambito traguardo raggiunto dopo anni di stasi. Il Giappone conferma una ripresa recente, ma viene dopo anni di stagnazione e per questo non sembra ancora in grado di dare una decisa spinta all’insù ai prezzi, che registrarono addirittura parecchi anni di diminuzione. In aggiunta, negli Stati Uniti sono sempre i consumi interni a dare dinamismo al PIL, sebbene da molti anni riescano a farlo solo mediante una estrazione di valore, mediante accensione di debiti, dai patrimoni accumulati dai singoli, in particolare dagli immobili. Il settore industriale americano se la passa parecchio peggio di quanto mostri l’economia nel suo complesso, e ormai le esportazioni di merci sono arrivate a rappresentare stabilmente a malapena la metà del valore delle importazioni pure di merci. Germania e Giappone sono ancora le principali potenze industriali del mondo, e quindi il dinamismo delle loro economie è dato dalla produzione industriale e dalle esportazioni.Coi prezzi ancora stabilmente calmi, tuttavia, in Giappone la dinamica dei salari non preoccupa, mentre le autorità tedesche temono fortemente che il fenomenale dinamismo delle esportazioni di beni di investimento tedeschi inneschi una corsa dei salari. Ecco quindi tracciata la rotta diversa della politica monetaria nei tre paesi: la Banca centrale europea, che ha sostituito la Bundesbank come regista della politica monetaria per tutta l’Europa ma anche per la Germania, ha già dichiarato che gli aumenti salariali eccessivi minacciano la stabilità. Era la dichiarazione rituale che spettava alla Bundesbank, quando era lei a dirigere il concerto di politica economica tedesco e la BCE, che l’ha rimpiazzata nel ruolo, fa di tutto per non scontentare i suoi più autorevoli azionisti. E’ dato perciò per scontato che i tassi della BCE aumenteranno di un quarto di punto a giugno e forse addirittura di un altro quarto in autunno. Siamo agli ultimi giorni utili perché padronato e sindacati metalmeccanici si mettano d’accordo per evitare uno sciopero in Germania (l’ultimo, lo scorso anno, durò quattro settimane). Il padronato tedesco, come tutti i padronati, non è disposto a cedere, avendo offerto il 2.5% di aumento, alla richiesta del 6.5% avanzata dai sindacati. Ma, come tutti i padronati, non è nemmeno disposto a fare una battaglia all’ultimo sangue in un periodo in cui i beni di investimenti tedeschi vanno a ruba sui mercati mondiali dove tedeschi e giapponesi sono ormai gli unici fornitori di macchine veramente complesse. Per questo non hanno ancora dato segni di temere l’Euro in continuo rialzo sullo Yen (la rivalutazione della moneta era un altro metodo della vecchia BUBA in occasione di rinnovi contrattuali). E per questo credo che, dopo un inchino alle necessarie ipocrisie, essi concederanno ai sindacati dell’IG Metall un aumento generoso, anche perché le notizie che la stampa tedesca riporta

18

quotidianamente, di enormi profitti delle imprese maggiori e di altrettanto grandi compensi ottenuti dai manager, insieme a quelle di alcuni eclatanti scandali industriali, stanno irritando profondamente l’opinione pubblica, e fanno apparire come assolutamente moderate le richieste dei metalmeccanici.Inoltre, se i produttori tedeschi hanno un solido margine di monopolio nelle esportazioni di impianti e macchine, gli altri produttori europei, che fanno beni di investimento semplici o beni di consumo anche sofisticati, ma ormai aggrediti dalla concorrenza asiatica, sono già sul piede di guerra nei confronti della politica della BCE. Hanno compreso che l’Euro la BCE lo vuole alto per tenere a freno padroni e sindacati nel negoziato salariale e non sono disposti a fare le spese del mantenimento dell’equilibrio competitivo dell’industria tedesca. I francesi, in particolare, hanno notevole sfiducia nel modello di politica economica gestito "alla tedesca" dalla BCE. Nelle elezioni presidenziali, i due principali candidati se la sono ripetutamente presa con tale politica, ed è forse per ridurre il malcontento gallico che la stessa Bce ha fatto in questi giorni sapere che presterà meno attenzione all’andamento dell’indicatore monetario chiamato M3, sempre in crescita eccessiva rispetto alla soglia di pericolo fissata dai monetaristi tedeschi che hanno fabbricato la pur breve "tradizione" di comportamento della banca centrale europea. Sperano in tal modo, a Francoforte, di togliere il panno rosso monetarista dagli occhi del toro gallico, per ridurne in qualche misura la furia. Saranno Trichet e i suoi colleghi, veramente in grado di resistere alle pressioni di Parigi, una volta deciso chi sarà il nuovo presidente, e mantenere la politica monetaria europea nella rotta fissata, di contrasto deciso delle tendenze inflazioniste che paventano? O la influenza congiunta del padronato tedesco, che vorrà far ricadere sui prezzi gli aumenti concessi ai metalmeccanici, e delle autorità politiche francesi, ma anche di altri paesi europei, sarà sufficiente a smorzare la crudezza della manovra monetaria della BCE così da far rallentare la corsa dell’euro nei confronti dello Yen e del Dollaro e di tutti i paesi che ormai seguono il dollaro nelle sue oscillazioni? Nelle capitali europee si è notato che ormai da molti mesi cinesi e giapponesi fanno a gara ad alleggerire i propri rispettivi, enormi surplus commerciali nei confronti degli Stati Uniti, dirottando le proprie merci verso l’Europa, con la complicità dell’euro forte, ma allo scopo di sottrarsi all’ira del Congresso americano, nel quale si delinea una sempre più pericolosa tendenza protezionista. E in Europa la lobby dei produttori è ancora assai più potente di quella dei consumatori, che invece è forte in Gran Bretagna e negli USA. Le esportazioni europee di servizi commerciali non sono importanti quanto lo sono quelle di USA e Gran Bretagna. Le imprese europee non sono in vendita, esattamente come non lo sono quelle cinesi e giapponesi. E nemmeno hanno, gli europei, una produzione sovrabbondante di carta finanziaria sia pubblica che privata da vendere ai paesi dell’Asia o a quelli produttori di petrolio. In tale linea produttiva si sono invece specializzati inglesi e americani. Si aggiunga poi che l’unica avventura industriale europea di successo, l’Airbus francotedesco, sta soffrendo non solo per i propri errori manageriali e tecnici, ma anche per la caduta del corso del dollaro, moneta in cui fattura il suo solo concorrente, la Boeing, e i suoi capi guardano con autentica paura ad un aggravarsi della caduta stessa nei prossimi mesi.Per questi motivi, un permanere della BCE sulla rotta di rigore monetario, dopo la conclusione dei rinnovi salariali in Germania, incontrerà il disappunto sempre più esplicito delle élite di governo europee. Finora, per i motivi già detti, il padronato tedesco ha richiesto che il timone monetario europeo fosse tenuto su quella rotta. Ma anche da paesi come la Spagna, alle prese con una bolla edilizia senza precedenti e la Finlandia e l’Irlanda, anch’essi molto dinamici anche industrialmente, è venuto l’appoggio alla BCE. Ora, tuttavia, il boom edilizio spagnolo ha già iniziato a sgonfiarsi, e una politica monetaria troppo severa potrebbe trasformare un graduale ridimensionamento in una pericolosa frana. Quanto a Irlanda e Finlandia, le loro rispettive industrie elettroniche non godono degli stessi vantaggi di monopolio delle esportazioni di impianti e macchine tedesche. Un euro troppo alto rischia di metterle in difficoltà nei confronti dei produttori asiatici.C’è il caso, dunque, che tra qualche settimana il consenso nei confronti della posizione della BCE cominci a ridursi notevolmente, mettendone alla prova la risolutezza nel tenere la barra nella stessa direzione. Una scivolata più seria e improvvisa di quelle che abbiamo finora registrato nel corso del dollaro servirà a togliere ulteriore vento alla vele della BCE, proprio perché essa si ripercuoterà principalmente sull’Euro, la sola moneta di ruolo internazionale che non sia espressione di una nazione. Essa è governata da un direttorio che non è legittimato a prendere misure di contrasto della rivalutazione oltre la diminuzione del proprio tasso di interesse a breve.

19

Repubblica Affari & Finanza del 25 settembre 2006

Nello scontro tra Dollaro e Yuan a pagare è l´Euro

Marcello De Cecco

Dalla fine di Bretton Woods nel 1971 e fino alla soglia del nuovo millennio, ogni volta che il conto corrente USA si è deteriorato seriamente, la moneta americana si è svalutata, fino a oltre il 20% nei confronti della media delle altre valute, ponderata per il peso del commercio estero, riuscendo a generare un surplus commerciale che ha riportato gradualmente il conto corrente americano in pareggio. Dal 2000 a oggi, invece, questo non è accaduto. Dal 2002 è iniziata una fase di svalutazione del dollaro, che ha perso circa il trenta per cento nei confronti dell´Euro, e il venti per cento nei confronti di tutte le monete, ma le partite correnti degli USA sono andate seriamente peggiorando, invece che migliorare. Gli Stati Uniti non sono attualmente il solo paese che registra un deficit così elevato (siamo ora attorno al 7% del PIL) del proprio conto corrente. La Spagna, ad esempio, ne ha uno percentualmente ancora più alto. Ma la Spagna è parte della Unione monetaria europea e gli altri paesi dell´UME vedono con simpatia il forte assorbimento di importazioni da parte spagnola, visto che il loro tasso di crescita, in media, non è eccelso. Non chiedono quindi, per ora almeno, alla Spagna di moderare la propria crescita assorbendo meno importazioni. Lo stesso, in grande, accade agli Stati Uniti, che con il loro gigantesco deficit costituiscono una parte importante della domanda per paesi che altrimenti crescerebbero poco, come il Giappone, o che vogliono crescere a tassi elevatissimi, come Cina, India e Brasile, in modo da accelerare la propria modernizzazione senza sacrificare la competitività internazionale delle proprie merci. Prendiamo la Cina. Dal 1995 tiene il proprio cambio ancorato al dollaro, ma nei precedenti dieci anni lo aveva rapidamente e ripetutamente svalutato, da circa tre yuan a circa otto yuan per dollaro, un gigantesco deprezzamento che le diede un vantaggio competitivo enorme, non compensato dall´inflazione. Se si calcola la parità del potere d´acquisto dello Yuan, questa sta al cambio in ragione di uno a quattro. Il cambio, cioè, dovrebbe oggi essere attorno a 2 yuan per dollaro. Di fronte a tale gigantesca discrepanza, non ci si deve meravigliare se in molti ambienti industriali americani si richieda con crescente vigore una forte rivalutazione dello Yuan. I cinesi, tuttavia, sono maestri nella ‘box con le ombre´ e sono riusciti, anche dopo le riunioni del G7 e del Fmi a Singapore, a cavarsela senza una reprimenda ufficiale, manovrando il cambio verso una minuscola rivalutazione in occasione del recente viaggio a Pechino del segretario del Tesoro Usa Henry Paulson. Questi conosce la dirigenza cinese assai bene, avendo visitato il paese ben settanta volte, nella sua carriera di grande banchiere d´affari. La sua dimestichezza con la dirigenza cinese lo ha portato, anche questa volta, a preferire la moderazione e le dichiarazioni pubbliche sfumate alla tracotanza dei vari congressmen americani. Egli sa bene che le riserve di valuta cinesi hanno raggiunto i mille miliardi, e che seicento di questi sono in dollari. Sa altrettanto bene che i cinesi non dipendono, come i giapponesi, dall´ombrello nucleare americano per la loro difesa, e che hanno, accanto agli Usa, vinto la seconda guerra mondiale, e per questo hanno un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che usano con prudenza ma con uno spiccato senso della realpolitik. La moderazione di Paulson non è quindi solo espressione della sua natura di banchiere d´affari, che preferisce il silenzio al clamore e il negoziato alla lite, ma è anche frutto del suo realismo. Non è possibile agli Stati Uniti chiedere e ottenere dalla Cina quel che imposero al Giappone negli anni settanta e ottanta, una gigantesca e dannosissima rivalutazione. I cinesi, d´altronde, non sono i soli a comparire nella lista delle monete sottovalutate. Anche lo Yen è molto al disotto del suo ragionevole valore, e anche nei confronti del Giappone ci si aspettava dal G7 e dal Fmi, a Singapore, una esortazione a riequilibrare il cambio, che non è venuta, così come non è venuta la condanna dei deficit gemelli americani. Lo Yen è particolarmente fuori equilibrio nei confronti dell´Euro, ma il giorno della sua rivalutazione non sembra ancora spuntare. Cinesi e giapponesi sono sulla stessa linea strategica nei confronti del cambio, e a loro si affiancano la Russia, l´Arabia Saudita e le tigri asiatiche eccetto la Corea. Una volta registrata la indisponibilità della gran parte dei paesi che hanno cambi fuori equilibrio a riallinearli, quale si è manifestata anche nelle recentissime adunanze internazionali, è necessario chiedersi se a ripianare tali squilibri, coi modi bruschi di una crisi valutaria internazionale, sarà nel prossimo futuro il mercato. Ma il mercato, è bene ricordarlo, funziona quando è messo in grado di funzionare. In questo contesto, ciò accade quando non esistono efficaci controlli che impediscano la libera contrattazione delle valute. E´ difficile vendere o comprare una valuta che non è disponibile sul mercato in grande quantità. Questo è vero della gran parte delle valute finora nominate, a eccezione dell´Euro e del Dollaro, del Franco Svizzero, della Sterlina inglese e degli altri paesi dell´area del dollaro (Australia, Canada, Nuova Zelanda). Quindi, un po´ paradossalmente, il riequilibrio il mercato può imporlo solo a queste valute, e tra loro. Ma i grandi squilibri commerciali, che la variazione dei cambi dovrebbe rimediare, gli Stati Uniti li hanno specialmente nei confronti di paesi che non permettono ai mercati valutari di funzionare liberamente, le cui valute non circolano in gran quantità a livello internazionale e che possiedono gigantesche scorte di riserve accumulate proprio per difendersi da attacchi speculativi.

20

Ecco dunque il mercato intento a lavorare solo dove può, e cercare, come l´ubriaco della storiella, la chiave di casa perduta altrove sotto il lampione, perché è l´unico posto dove ci si vede. A fine novembre, passate le elezioni americane, verrà meno anche lo stimolo maggiore a vedere una rapida rivalutazione delle monete sottovalutate. E´ vero che un tempo novembre era il mese delle crisi valutarie, specie di quelle della sterlina. Dato che la moneta inglese è al momento tra le più sopravvalutate, possiamo aggrapparci a questa regolarità storica per scommettere su un suo prossimo deprezzamento. Ma le regolarità storiche insegnano anche che, recentemente, la sterlina ha seguito e non preceduto il dollaro nelle variazioni di valore. Torniamo così al nodo centrale e restiamo, a fine discorso, con una previsione troppo facile: che si rivaluti ancora l´Euro, nei confronti di dollaro e sterlina e magari anche dello Yen, opportunisticamente manovrato dalle autorità giapponesi, accentuando così, per l´indisponibilità dei veri colpevoli, uno squilibrio che sta già costando caro alla Unione Europea.

21

La Repubblica Affari & Finanza del 26 giugno 2006

Lo yen risale, la Fed tira un sospiro ma resta l´incognita petrolio

Marcello De Cecco

Circa tre mesi fa, la Banca centrale del Giappone ha tentato di metter fine ad una politica di continue e vigorose iniezioni di liquidità in una economia in preda ad una deflazione dei prezzi grave e persistente. In cinque anni aveva immesso 32 miliardi di yen, pari a più di 200 miliardi di euro, nel sistema finanziario giapponese, allo scopo di salvare le banche, ridotte ad un grave stato di illiquidità dal crollo dei valori delle loro partecipazioni azionarie. Una grossa fetta di quei fondi si è diretta verso il mercato finanziario internazionale, alimentando quello che si chiama il carry trade nei confronti dei mercati finanziari dei paesi emergenti, acquisti di loro titoli con denari presi a prestito in yen a tassi quasi inesistenti. . Questi movimenti hanno fatto lievitare i corsi azionari ed obbligazionari su tali mercati, in particolare quelli dell´America Latina e di paesi come la Turchia. Quando, nel marzo di quest´anno, la Banca del Giappone ha visto l´indice dei prezzi al consumo tornare finalmente su valori positivi, e quello del Pil indicare crescita, ha ritenuto fosse giunto il momento di riprendere il controllo della politica monetaria. Ha sottratto dopo cinque anni liquidità al mercato giapponese. Gli arbitraggisti internazionali si sono allarmati, hanno previsto una stretta di lunga durata da parte giapponese, e un consistente rialzo dello yen, moneta in cui sono denominati i loro debiti e hanno cominciato a ritirare fondi dai mercati dove li avevano collocati.Immediatamente, i corsi delle azioni e dei titoli a reddito fisso dei paesi emergenti sono crollati, e la grande speculazione internazionale ha reagito come quasi sempre fa in questi casi, comprando obbligazioni pubbliche americane. Questo movimento ha provveduto a tenere a galla il dollaro che, in conseguenza di un deficit delle partite correnti americane di circa il 7% del Pil, avrebbe dovuto ben altrimenti scendere nei confronti dell´euro e dello yen. Ma quella dell´Unione Europea è la sola grande moneta (finora) non gestita in maniera mercantilistica della propria banca centrale. Lo yen si muove solo a comando delle proprie autorità monetarie. Infatti, la discesa del dollaro era cominciata, ma poi si è arrestata e il cambio con l´euro è tornato sui suoi passi. Non è chiaro come questi eventi siano stati giudicati dal nuovo presidente della Federal Reserve. Il professor Bernanke, infatti, aveva esordito con dichiarazioni favorevoli al passaggio dalla pragmatica gestione Greenspan ad una politica monetaria basata sul concetto di inflation targeting, in poche parole ad una concentrazione sull´obbiettivo inflazione, da lui inteso come aumento dei prezzi superiore al 2%. Questo obbiettivo è quantitativamente parecchio più severo di quello seguito da Greenspan, sotto il cui mandato i prezzi americani sono aumentati spesso e volentieri del 3% e raramente di meno di tanto, a fronte di una crescita assai vigorosa dell´economia reale americana. Più che un fautore dell´inflation targeting, in verità Bernanke pare obbligato a fare la faccia severa dalla necessità di impedire il crollo del mercato del reddito fisso degli Stati Uniti, che non è fuori delle possibilità reali fin quando le necessità di finanziamento del deficit estero americano restano gigantesche e pressanti. Non si prevede una fine alla guerra irachena e le capacità di assorbimento di beni importati da parte del mercato americano sembrano sempre crescenti. Le decisioni giapponesi di por fine a cinque anni di denaro quasi gratuito hanno permesso alla Fed di smorzare la severità dei propri interventi. Tra qualche giorno ci sarà un altro aumento dei tassi di un quarto di punto percentuale, e in agosto probabilmente un´altra. Ma il drenaggio giapponese, col suo effetto sui mercati finanziari emergenti, rende il dollaro e i titoli di stato americani, insieme all´euro e ai titoli europei, beni rifugio per la speculazione internazionale e per i cittadini dei paesi emergenti. Così abbiamo assistito ad una solo moderata rivalutazione dell´euro in termini di dollari, e ad una altrettanto modesta ripresa dello yen nei confronti dell´euro e del dollaro, ben pilotata, come è consuetudine, dalla Banca del Giappone. Se si ha in mente anche un altro fenomeno manifestatosi negli ultimi anni, la graduale diminuzione percentuale delle riserve tenute in dollari dalla Cina, che segue una rapidissima loro accumulazione nel periodo immediatamente precedente, si comprende come debba in fondo esser tornata gradita agli Stati Uniti la nuova politica giapponese. Ancor più gradita sarà se ad essa la Banca del Giappone aggiungerà una graduale rivalutazione dello Yen. Ho appena detto che la Banca Centrale Europea non si comporta come la Banca del Giappone, non considera cioè il cambio in maniera strettamente mercantilistica. Sostiene che esso si determini sul mercato delle valute, come risultato del libero gioco della domanda e dell´offerta. Bisogna allora supporre che la politica restrittiva che la Bce dichiara di voler perseguire nei prossimi mesi sia veramente determinata dal timore che un eccesso di liquidità a basso prezzo possa alimentare la ripresa dell´inflazione, ovviamente scatenata dall´aumento fuori misura e persistente dei prezzi di prodotti energetici e metalli, preziosi e non. Per smorzare gli effetti dei loro annunci di mutato corso della politica monetaria, i signori Fukui e Trichet hanno anche dichiarato che le loro mosse saranno misurate e graduali. Questo sembra avere avuto qualche effetto sui mercati, anche se, a leggere le previsioni sui cambi a termine di euro e yen nei confronti del dollaro nei prossimi sei mesi, una notevole discesa della moneta americana è ancora all´ordine del giorno.

22

Ci stiamo dunque avvicinando al critico mese di agosto, che in anni recenti ha spesso portato con sé sommovimenti finanziari e monetari. E lo stiamo facendo con le tre principali banche centrali del mondo impegnate in una operazione di rialzo progressivo dei tassi. Come possano, in questi casi, evitare di verificarsi turbolenze sui mercati finanziari dei paesi periferici, con possibili conseguenze su qualche grande speculatore dei paesi centro, colto alla sprovvista dalla fine dell´abbondanza di liquidità nel mezzo di qualche gigantesca operazione, è abbastanza dubbio. Al momento, il posto della Cina, come principale assorbitore dei titoli di Stato americani lo hanno preso i grandi esportatori di prodotti petroliferi, paesi arabi, Russia e paesi del Caucaso. Questo comporta una dose notevole di nervosismo da parte dei mercati, perché sia la Russia che l´Arabia Saudita hanno con gli Stati Uniti relazioni difficili e soggette a improvvise oscillazioni. Entrambi i paesi sono noti per considerare l´accumulazione di riserve in dollari come strumento della politica estera. Il nervosismo dei mercati si desume dalla importanza che vengono ad assumere notizie come quella recente della caduta di un aereo militare americano sulla Corea del Nord. Supponiamo che agosto passi senza sconquassi e che trascorra in tranquillità dei mercati anche novembre, altro mese tradizionalmente critico per la finanza internazionale. Quale effetto avrà la politica di restrizione monetaria appena iniziata dalle tre principali banche centrali sull´economia mondiale? E´ da prevedere che la deflazione avrà inizio, come sempre accade, dalle economie periferiche. Lo avevo già scritto in un articolo di qualche mese fa, e per quanto riguarda la parte finanziaria, è già avvenuto, a maggio. Le borse di quei paesi si sono sgonfiate e il differenziale sui loro titoli ha cominciato a risalire. Il guaio è che quando questi fenomeni iniziano, essi tendono a prendere vigore in se stessi, perché gli speculatori seguono la corrente, quando pensano che essa si avvii in una direzione, dato che poco o nulla veramente sanno sui veri fondamentali delle economie periferiche. Ciò determina oscillazioni eccessive, sia in alto che in basso. . C´è un gruppo di paesi periferici che, dopo aver molto sofferto nelle crisi di fine secolo, ha deciso di accumulare vere riserve e di ridurre l´indebitamento estero a breve. Esempio è la Corea del Sud, ma ce ne sono anche altri, specie in Asia. Molti altri paesi periferici, invece, hanno accumulato riserve, ma esse sono in realtà debiti a breve in valuta, che possono dissolversi rapidamente. Questi sono i paesi veramente in pericolo se perdura la fase restrittiva appena iniziata al centro finanziario del mondo. Per quanto riguarda le conseguenze sulle economie del centro, invece, credo che le loro banche centrali siano del tutto in grado di togliere il piede dal pedale del freno se si accorgono che le conseguenze reali della restrizione mordono troppo nella carne viva delle loro economie. Il vero problema, per il centro del mondo, è che non è affatto certo che basti una lieve restrizione per fare sgonfiare sensibilmente i prezzi del petrolio e delle materie prime. I prezzi del petrolio, in particolare, sono controllati da pochi grandi produttori. Credere che una restrizione monetaria basti a farli scendere vuol dire credere che essi siano gonfiati da una massiccia speculazione che si finanzia sui mercati a breve. Ma le banche centrali continuano a dirci che i prezzi del petrolio sono in ascesa per motivi di carenza strutturale dell´offerta. Se è vero, come possono scendere se non con una massiccia deflazione della domanda e cioè con una seria caduta del tasso di crescita dei paesi centro? Dobbiamo dunque sperare che veramente l´alto prezzo del petrolio e delle materie prime sia conseguenza di una bolla speculativa finanziata dal credito facile degli ultimi anni. In tal caso, se si ha fortuna e le cose non sfuggono dalle mani dei controllori, la restrizione monetaria dei paesi centro sgonfia la bolla speculativa e l´economia reale non ne soffre seriamente. Anzi, gode della riduzione del tasso di inflazione che ne deriva. Il costo dell´aggiustamento lo sopportano i paesi periferici e il ceto degli speculatori, grandi e piccoli. Ma se c´è veramente carenza di petrolio sottoterra e sotto il mare, rispetto alla crescita della domanda mondiale, la cura monetaria iniziata dalle tre principali banche centrali deve, per sortire qualche effetto, infliggere alle economie reali dei paesi centro un salasso veramente serio, del tutto sproporzionato rispetto ai suoi obbiettivi. E´ un vecchio problema, quello degli effetti reali della politica monetaria, ma non sembra che le banche centrali sappiano oggi affrontarlo meglio di come sapevano molti decenni addietro.