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150 - Il Risorgimento nel cinema italiano. Prima parte. martedì 20 dicembre 2011 di Pasquale Iaccio Presentiamo per il nostro mensile, la prima parte di un lavoro dello storico del cinema Pasquale Iaccio, dedicato al rapporto tra il cinema e la storia risorgimentale. Un rapporto non semplice che ripercorre con diverse sensibilità e spunti critici il risorgimento e quindi la nostra unità nazionale. Un cinema che non è stato mai di genere ma che ha offerto opere che sono autentiche pietre miliari del nostro cinema. «Pensate a quanto è affascinante l’avventura del nostro Risorgimento: la storia di un gruppo di giovani, coraggiosi, che dalla lettura dei grandi classici della nostra lingua e dei grandi contemporanei trovarono il coraggio di concepire e poi realizzare l’indipendenza nazionale. Tante storie che si intrecciano partendo da luoghi, esperienze differenti che riescono, quasi per miracolo, a trovarsi unite su un obiettivo chiaramente definito: unità, libertà. Il nostro Risorgimento è una miniera di storie appassionanti che aspettano di essere raccontate».  Sono parole che Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, indirizzava nel 2002 ai cineasti italiani ricevendo i candidati al premio David di Donatello. La rappresentazione del Risorgimento sullo schermo, nel corso del Novecento, non ha fatto che riflettere le contraddizioni con cui si è arrivati al processo di unificazione e i molti equivoci insoluti che hanno accompagnato il cammino dello stato unitario, compresa la, per lungo tempo irrisolta, questione meridionale. Paradossalmente, ma non troppo, la debolezza di questo processo non ha riguardato solo il periodo precedente l’Unità d’Italia che, come si è visto, e stato quanto mai incerto e contraddittorio. Anche il periodo successivo al 1861, non ha registrato iniziative e progetti di lunga gittata in grado superare le debolezze del processo unitario.

Cinema e risorgimento 1e 2 parte

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150 - Il Risorgimento nel cinema italiano. Prima parte.martedì 20 dicembre 2011 di Pasquale Iaccio

Presentiamo per il nostro mensile, la prima parte di un lavoro dello storico del cinema Pasquale Iaccio, dedicato al rapporto tra il cinema e la storia risorgimentale. Un rapporto non semplice che ripercorre con diverse sensibilità e spunti critici il risorgimento e quindi la nostra unità nazionale. Un cinema che non è stato mai di genere ma che ha offerto opere che sono autentiche pietre miliari del nostro cinema.

«Pensate a quanto è affascinante l’avventura del nostro Risorgimento: la storia di un gruppo di giovani, coraggiosi, che dalla lettura dei grandi classici della nostra lingua e dei grandi contemporanei trovarono il coraggio di concepire e poi realizzare l’indipendenza nazionale. Tante storie che si intrecciano partendo da luoghi, esperienze differenti che riescono, quasi per miracolo, a trovarsi unite su un obiettivo chiaramente definito: unità, libertà. Il nostro Risorgimento è una miniera di storie appassionanti che aspettano di essere raccontate». Sono parole che Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, indirizzava nel 2002 ai cineasti italiani ricevendo i candidati al premio David di Donatello.

La rappresentazione del Risorgimento sullo schermo, nel corso del Novecento, non ha fatto che riflettere le contraddizioni con cui si è arrivati al processo di unificazione e i molti equivoci insoluti che hanno accompagnato il cammino dello stato unitario, compresa la, per lungo tempo irrisolta, questione meridionale. Paradossalmente, ma non troppo, la debolezza di questo processo non ha riguardato solo il periodo precedente l’Unità d’Italia che, come si è visto, e stato quanto mai incerto e contraddittorio. Anche il periodo successivo al 1861, non ha registrato iniziative e progetti di lunga gittata in grado superare le debolezze del processo unitario.

La formazione di un grande stato mediterraneo non è stata inoltre legittimata da un grande movimento popolare, né equilibrata dalla partecipazione delle forze sociali e politiche che ne facevano parte. I difetti che erano alla base del processo unitario e un sentimento nazionale non molto solido e dai caratteri ambigui, spesso sconfinato nelle degenerazioni del nazionalismo, (soprattutto in epoca fascista), hanno impedito che si formasse un sentimento di solida e condivisa di identità nazionale. Anzi, oggi siamo forse nel momento più critico da quando il nostro paese fu costituito e, alla lista dei vecchi nodi storici, se ne è aggiunto uno del tutto nuovo: la “questione settentrionale”. Come si è riflesso questo processo di carattere storico sul cinema italiano?

La risposta è semplice e complicata allo stesso tempo. Il cinema italiano ha trattato il Risorgimento e l’Unità d’Italia fin dai suoi primi vagiti, ma non è riuscito a creare un filone compatto o semplicemente un “genere”, come è avvenuto in America, con il western, o nell’Unione Sovietica, con il cinema della rivoluzione. Né tanto meno ha dato vita ad un’epica attraverso lo schermo. E un’epica non si ebbe nemmeno con la vittoriosa Grande Guerra che, tra l’altro, completò definitivamente il lungo processo di unità nazionale.

A guardar bene, una vera e propria epica non si ebbe nemmeno con la Resistenza e la grande fiammata della stagione neorealista, presto interrotta da quel grumo di contraddizioni, speranze tradite, avversioni governative e tentativi di restaurazione che caratterizzarono l’inizio degli Anni Cinquanta. E inoltre, nonostante il clima propizio che si è respirato in alcune epoche (età giolittiana, periodo fascista, anniversario del centenario nel 1961) e il carattere “istituzionale” che un tema come l’Unità d’Italia poteva costituire, il cinema italiano, in tutta la sua storia, non ha prodotto più di cinquanta opere sull’argomento, includendo anche quelle in cui l’evento è delineato solo sullo sfondo. E da questo numero limitato di film, quelli che emergono dagli stereotipi e dalla convenzioni più scontate, sono una esigua minoranza.

Il filone risorgimentale non ha una sua compattezza ideologica e nemmeno un punto di vista uniforme, oltre a non essere un “genere”. Le opere sono assai difformi e possono essere comprese entro tutti, o quasi, i generi cinematografici: dal film di guerra o d’azione alla vera e propria commedia. Tra questi due estremi troviamo, in grandi quantità, il melodramma, il film musicale, quello biografico, quello politico per arrivare ad un genere popolare dominato da un carattere tutto italiano, e cioè il film sui “briganti”. In altre parole, l’arco della rappresentazione va dalle opere schiettamente celebrative a quelle altrettanto dichiaratamente critiche dei modi e dei risultati del processo costitutivo del nostro paese. E come si sarebbe potuta creare un’epica su quello che fu soprattutto un capolavoro diplomatico di Cavour? Non a caso, il conte primo ministro e artefice del processo unitario, è un personaggio poco rappresentato perfino nelle opere dichiaratamente celebrative, come ad esempio Viva l’Italia di Roberto Rossellini.

E ancora, gli eventi che più si sarebbero prestati per ispirare un’epica cinematografica sono, in definitiva, delle sconfitte (militari o delle idee) a cominciare dall’impresa di Pisacane. La Repubblica Romana, che avrebbe potuto essere quello che per gli USA fu Fort Alamo, le poche volte che è stata trattata, è stata più di imbarazzo, per le implicazioni democratiche, repubblicane e antipapali che comportava. “Più che dei film ho fatto dei necrologi”, dichiara il regista Luigi Magni che ha spesso trattato quel periodo. E gli stessi film sul “brigantaggio”, in cui gli “indiani” erano i contadini del Mezzogiorno, come potevano “celebrare” quello che era un brutale fenomeno di repressione militare operato dall’esercito del nuovo stato? Per non parlare di altri episodi, come la stessa impresa dei Mille,

che finì per tradire le idee repubblicane di Garibaldi. Dopo la “consegna” del Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele, perfino nel film celebrativo di Rossellini, si vede l’eroe che, sconsolato, ripensa alla frase con cui il futuro re d’Italia lo ha congedato: «Mettetevi alla riserva!>>.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’irruzione del presente e il neorealismo, non facilitano film sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. «E’, tuttavia, nella costellazione del neorealismo che si lamenta, sin dagli inizi, l’assenza del tema risorgimentale; assenza che, in sede culturale, ha scarse attenuanti, rappresentando il Risorgimento e la formazione dello Stato unitario una delle chiavi per comprendere i successivi sviluppi, i ritardi e gli arresti, gli antagonismi e le lacerazioni che hanno travagliato gli itinerari percorsi dalla nazione.

Nonostante prefiggesse di tuffarsi nella società italiana, nei suoi malanni e nella e nella ricerca di nuovi parametri sociali e morali, il neorealismo prestò più attenzione al presente che al passato ed era altresì logico che così fosse, sentendosi i più desti cineasti impegnati a rispondere ai quesiti urgenti e a rivelare la vera Italia agli italiani dopo un’orgia di cartapesta, di menzogna e di dopolavoristici idilli». Solo nel 1949 Mario Costa, con Cavalcata d’eroi, ritorna a parlare del tema, ma non si discosta dalla solita storia d’amore con i fatti storici sullo sfondo. Nel 1951 Raffaello Matarazzo inaugura quello che può essere considerato un filone, o una variante, del tema generale: il brigantaggio meridionale.

Nel 1942, per la verità, Luigi Zampa aveva già portato sullo schermo la figura di Michele Pezza, in funzione anti-britannica, girando Fra’ Diavolo. Ma è nel dopoguerra che il tema dei briganti diventa prevalente. Lo si potrebbe definire un sottogenere, se il filone di film sul Risorgimento fosse un vero e proprio genere. Vi fa ricorso anche Mario Soldati, con Donne e briganti, del 1950, dedicato ancora a Michele Pezza, interpretato da Amedeo Nazzari, o Mario Camerini che sposta il periodo all’inizio del Novecento per mettere in scena la vicenda di un altro celebre personaggio: Il brigante Musolino, in un film dello stesso anno. (Camerini ritornerà sul tema nel 1961 con I briganti italiani). L’anno dopoPietro Germi gira, sullo stesso tema, uno dei film che considero più riusciti nel delineare, attraverso uno stile spettacolare, i termini di una questione meridionale che non si riusciva a superare perché non si riusciva a capire. Ai tempi dell’Unità d’Italia, in cui la vicenda era ambientata, come negli anni del dopoguerra, quando il film venne girato. Germi aveva già affrontato il problema del Sud, guardando al presente e parlando dell’emigrazione, con Il cammino della speranza. Ritorna al Sud con un film ambientato subito dopo l’unificazione (che somiglia tanto una annessione) con Il brigante di Tacca del

Lupo del 1951, tratto da un racconto di Riccardo Bacchelli. Il capitano dei bersaglieri, uomo del Nord, interpretato dal solito Amedeo Nazzari, vede nelle ribellioni meridionali solo fatti criminali e non malesseri sociali; e come tali li reprime.

La realtà è molto più complessa, come fa capire l’ex funzionario borbonico Francesco Siceli, interpretato da Saro Urzì, che nella finzione cinematografica vede prevalere, alla fine, le sue ragioni. Questo film anticipa molti dei temi che Vancini, con uno stile diverso, porterà sullo schermo in seguito girando Bronte. E fin dalla didascalia iniziale, mette al centro della vicenda il problema del “brigantaggio”. «1863. Col disfacimento del regno borbonico, l’Unità d’Italia è appena compiuta. L’entusiasmo che il passaggio liberatore di Garibaldi aveva appena suscitato tra le popolazioni meridionali, si era in gran parte spento. I contadini, oppressi da una povertà antica, erano portati ad attribuirne la colpa al governo piemontese, e rimpiangevano il re di Napoli. Così, tra i resti dispersi dell’esercito borbonico e i contadini del Sud miseri e delusi, si sviluppava il fenomeno del brigantaggio, che impegnò lungamente i soldati del Nord in una crudele guerriglia». Curioso, ma non certo casuale, che anche in questo incipit di inquadramento storico si parli di “governo piemontese” dopo la costituzione del Regno d’Italia. Il film non ebbe successo e suscitò critiche soprattutto per come erano rappresentati i bersaglieri; ma, anche in questo caso, è significativo che gli strali si concentrassero sul particolare che qualcuno di essi si mettesse in tasca l’argenteria, durante una perquisizione, e non sul fatto, ben più grave, che tutti attuassero feroci decimazioni della popolazione e la distruzione di interi villaggi.

Per il resto, sembra che il tema dell’Unità d’Italia non appassioni né gli autori, né il pubblico. Si fatica a trovare altri titoli di un certo interesse. Eran trecento… La spigolatrice di Sapri del 1952 con soggetto e regia di Gian Paolo Callegari sull’impresa sfortunata di Pisacane. Oppure Camicie rosse rimasto nelle cronache del cinema più per le vicissitudini produttive (fu iniziato da Goffredo Alessandrini e terminato da un giovanissimo Francesco Rosi) che non per la riuscita dell’opera, in cui Anna Magnani interpretava Anita Garibaldi. Il film comincia e finisce con la scena, drammaticissima, della morte di Anita “nella fattoria Guiccioli nei pressi di Ravenna”, come recita la didascalia iniziale.

Si trattava di una coproduzione italo-francese con un cast di tutto rispetto. E gli sceneggiatori non erano da meno: Enzo Biagi, Renzo Renzi, Mario Serandrei e Sandro Bolchi. Il film non è altro che la lunga e tormentata fuga verso Venezia di Garibaldi dopo la caduta della Repubblica romana. Il generale, come lo chiamano i suoi uomini, racconta la sua odissea in prima persona e vede morire o disperdersi la legione dei volontari che avevano combattuto a Roma. Oltre alle vicissitudini produttive, l’opera presenta un tasso di retorica eccessivo e frasi come questa pronunciata da Anita: «Sono ancora in tanti ad aver fede in te e saranno sempre di più a seguirti fino alla gloria. Io credo in te, io vorrei avere tanti figli da farti un esercito. Io credo in te Josè». Il finale non è da meno. «Così è morta la mia eroica compagna», conclude il suo racconto Garibaldi e, prima della parola fine, si vede un garrire di bandiere in dissolvenza su due monumenti (veri) di Garibaldi e Anita a cavallo. Il tutto immerso in una musica intensa di carattere risorgimentale. Non stupisce l’insuccesso del film, nonostante la presenza della Magnani e di Raf Vallone, nelle vesti di uno scultoreo eroe dei due mondi.

La prova migliore di quegli anni fu probabilmente La pattuglia sperduta di Pietro Nelli, girata nel 1952 ma uscita nelle sale, con scarso successo, solo due anni dopo. «… uno dei tentativi di rileggere il Risorgimento sulla falsariga di esperienze democratiche e con il sussidio di antenne storiografiche abbastanza ricettive. […] Nelli filma un Risorgimento tutto “dal vero”, la campagna sepolta e addormentata nella nebbia, il sacrificio umile del fantaccino, i volti rugosi dei contadini, gli attori ignari delle smaliziate tecniche invalse nel professionismo. Il suo è un dimesso controcanto in polemica con la pomposità solenne e ridondante delle celebrazioni ufficiali e con l’iconografia bolsa e paludata». Questo film fu mandato a Cannes ma, come accadeva in maniera non infrequente in quel periodo, venne osteggiato più che incoraggiato dalle autorità italiane. La ragione era sempre la stessa (ieri come oggi). Il film, che aveva un sapore neorealista ed era tutt’altro che retorico, metteva in cattiva luce un non meglio precisato spirito nazionale.Ma, a meno che non si voglia citare i celebri film di Visconti, Senso del 1954 e Il Gattopardo del 1963, (che, trattandosi di Visconti, fanno storia a sé), non si può dire che il Risorgimento o l’Unità d’Italia siano temi che interessino gli italiani.

Negli Anni Cinquanta ebbe più fortuna, produttiva e di pubblico, un filone di film di genere vagamente nazionalista e revanscista dedicato al “valore” del soldato italiano delle varie armi che, seppure sconfitto durante il conflitto mondiale, dimostrava nei singoli episodi di non essere inferiore al nemico. “Non il valore mancò, ma la fortuna”, sembra essere il filo rosso di un genere che cercava di oscurare il neorealismo resistenziale, di pochi anni prima, e che si contrapponeva ad ogni riscoperta del percorso di fuoriuscita dal fascismo. Si dovettero attendere le trasformazioni, sociali, politiche e “censorie” (nel senso di allargamento delle maglie della revisione), degli anni del boom, perché declinassero i film che abbiamo definito “nazionalisti” e si affermasse compiutamente un filone di opere storiche dedicate al fascismo, alla guerra mondiale e alla riscoperta della Resistenza.

Era comunque indice di una scarsa familiarità degli italiani e dei nostri autori con argomenti di carattere risorgimentale. Alla questione dedicava un circostanziato articolo Lino Miccichè denunciando le manchevolezze sia della storiografia, sia della cinematografia di casa nostra.«Mentre c’è voluto uno studioso inglese, Mack Smith, per risvegliare i nostri interessi storiografici nei confronti del Risorgimento, nelle patrie scuole si continua ad insegnare, con poche varianti, che Garibaldi disse a Bixio "Qui o si fa l’Italia o si muore" e che, a Teano, Garibaldi caracollò verso Vittorio Emanuele II dicendo "Saluto il re d’Italia" e che questi rispose "saluto chi l’ha fatta"». Miccichè - come si vede - criticava sia la storia aneddotica insegnata nelle scuole, sia il disinteresse della stessa storiografia ufficiale nei riguardi dei fatti risorgimentali. Ma la cinematografia italiana di carattere storico non ne

usciva certo con tutti gli onori. Miccichè infatti faceva un rapido conteggio dei film italiani girati dal 1930 al 1960 e scopriva che, tolti i film in costume, la pattuglia dei film "storici" era alquanto ridotta: «- basterebbero le dita di una mano: 1960 di Alessandro Blasetti (1934), La pattuglia sperduta di Pietro Nelli (1954), Senso di Luchino Visconti (1954), Viva l’Italia di Roberto Rossellini (1961).

Cinque film, ed alcuni tra essi tutt’altro che capolavori». Le spiegazioni andavano dalle distorsioni operate dalla storiografia fascista sulla storia patria alla rinuncia allo sguardo retrospettivo della stagione neorealista. Tuttavia non poteva non colpire una mancanza così evidente del nostro cinema su un tema che, per gli italiani, avrebbe potuto essere quel che per gli Americani era il film western. Di epica o di creazione di un mito, al di là dei soliti aneddoti o le solite frasi fatte, neanche a parlarne. Nei cinque film ricordati da Miccichè, differenti tra loro per il clima in cui furono realizzati e per la qualità degli autori, non c’è traccia, tranne in uno forse, né di un’epica sul Risorgimento, né di un tentativo di creare cinematograficamente il mito di Garibaldi, che pure era diffuso in una vasta fascia interclassista della popolazione italiana. La cosa è ancora più rilevante se si paragona la nostra ad altre cinematografie e ad altri periodi durante i quali il cinema riuscì a tradurre a livello di massa una vulgata storica in cui il nazionalismo o l’ideologia (o entrambe assieme) sono alla base di un vero e proprio

genere.

Si pensi agli Stati Uniti d’America o all’Unione Sovietica o - se si vuole - all’Italia d’inizio secolo in cui un film come Cabiria aveva svolto una potente funzione di fascinazione imperialista. Ma non poteva crearsi un’epica cinematografica sul Risorgimento per ragioni che vanno ben oltre le

manchevolezze presenti nel mondo del cinema.Un’epica implica una concordanza di fondo, un sentire comune, una visione collettiva e una tradizione storiografica condivisa degli avvenimenti, una memoria storica rappresentativa e patrimonio di tutta la nazione, almeno per grandi linee. Questo non si è verificato dall’Unità in poi.

Non ci riuscì nemmeno il fascismo, che pure aveva buoni motivi per innestare il suo avvento in un alveo che giustificasse il "naturale" completamento di un processo storico che partiva dal Risorgimento, passava per la prima guerra mondiale e si concludeva nell’era luminosa inaugurata da Benito Mussolini. La memoria storica degli italiani, dal Risorgimento in poi, è stata conflittuale e lacerata. Il Risorgimento fu visto da una parte del paese più come un’annessione che come un’unificazione. E poi rimase in piedi, fino all’età giolittiana, il problema della partecipazione dei cattolici alla vita pubblica e, fino ai Patti Lateranensi, la spinosa questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Dei due film di Visconti, tutto si può dire, tranne che alimentassero il mito del Risorgimento. Senso era stato perfino falcidiato dalla censura in una lunga parte del racconto riguardante la battaglia di Custoza.

Il Gattopardo riprendeva invece la visione crepuscolare di Tomasi di Lampedusa filtrata dalle lenti di Visconti e richiamava una tesi storiografica, come lo stesso Visconti tenne a precisare, che è quella del Risorgimento come rivoluzione mancata, della questione meridionale irrisolta. Ciò che si evince è la lenta e inarrestabile decadenza di un mondo, il declino di vecchie classi sociali e l’emergere di nuove, anche se "gattopardescamente" il trapasso avviene in uno stato di (apparente) immobilità. Il cambiamento riguarda la classe egemone; l’immobilità riguarda il mondo contadino. «Col punto di vista di Lampedusa, e diciamo pure con quello del suo protagonista, il principe Fabrizio – ha dichiarato al sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico – io concordo non soltanto fino al limite del momento analitico dei fatti storici e delle situazioni psicologiche da essi derivanti, ma oltre questo limite: vale a dire laddove è adombrata loro considerazione pessimistica di quei fatti. Il pessimismo del principe di Salina porta quest’ultimo a rimpiangere la caduta di un ordine che per quanto immobile era sempre un ordine, mentre il nostro pessimismo si carica di volontà, e in luogo di rimpiangere la caduta di un ordine feudale e borbonico mira a postularne uno nuovo. Ma in conclusione partecipo anch’io della definizione del Risorgimento come “rivoluzione mancata” o meglio “tradita”». Un Risorgimento con molte ombre e poche luci. Un’Unità d’Italia con ancor più rimpianti e nodi irrisolti.

La situazione non era molto cambiata nemmeno con il clima celebrativo del centenario dell’Unità che vide la realizzazione del rosselliniano Viva l’Italia, uno dei pochi in cui - tra l’altro - si dà una certa consistenza alla figura di Garibaldi. Un film, quello di Rossellini, che, come La presa di Roma del 1905, più che vederlo come un’opera a sé, va inquadrato come una pagina dell’album delle manifestazioni del 1961. Rossellini tenta una difficile operazione, antiretorica e apologetica allo stesso tempo, riproponendo, in uno stile pacato anticipatore del cinema didattico della maturità, le frasi celebri e le icone visive dell’impresa dei Mille.

Un’operazione che non riscuote il successo sperato. A cui si aggiunge, poco dopo, lo sfortunato Vanina Vanini sulle vicende di alcuni carbonari nella Roma papalina. Un film che, per vicissitudini produttive e cattiva accoglienza della critica, finì per circolare in una versione non riconosciuta dall’autore ed ebbe perfino meno successo del precedente. «Ciascuno a proprio modo, il Visconti di Il Gattopardo e il Rossellini di Viva l’Italia! lambiscono una linea di demarcazione in cui la storia e il Risorgimento si configurano come impalcatura di un progressivo affievolirsi della capacità di oggettivare i processi storici e sociali, solleticandone i nervi sensibili. Sopravviverà la tematica del mancato dialogo fra le classi popolari e gli artefici del Risorgimento in cui alle istanze democratiche sono state inflitte castrazioni; sopravviverà la tematica di una borghesia inetta e tra le più povere e pavide, ma si sdrucciolerà su uno sbracato senso comune e sulle bucce di un fatalismo incomparabile ai modelli rosselliniani e viscontiani».

Negli anni del boom, dominati sia dall’ansia di capire e cavalcare la grande trasformazione, sia di fare i conti, storiograficamente e cinematograficamente, col fascismo, il tema risorgimentale poteva sembrare lontano e rimanere nell’ombra. Ma, quando fu ripreso, soprattutto nel decennio degli Anni Settanta, lo si fece con proposte che furono molto innovative, a dir poco, rispetto al passato. Si pensi ai film di Luigi Magni, dei fratelli Taviani, di Ennio Lorenzini e soprattutto di Florestano Vancini. Quest’ultimo provocò un vero scandalo che tracimò dagli ambienti del cinema a quelli della politica, della vita sociale e perfino della ricerca storica. Nessuno, fino ad allora, si era spinto tanto in là da pensare di rappresentare una ricostruzione dell’impresa garibaldina così dissacrante come quella che Vancini e i suoi sceneggiatori proposero con Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, girato nel 1970 ma uscito solo due anni dopo.

Si trattava di andare a cercare, come notava lo stesso Leonardo Sciascia, uno degli sceneggiatori, il classico «scheletro nell’armadio». Qui non si parlava solo di rivoluzione agraria mancata o di speranze di riscatto sociale andate deluse, come nei due film di Visconti, ma si descrivevano, con una minuzia quasi contabile, ben due stragi; quella degli abitanti di Bronte nei riguardi dei notabili del posto e quella successiva attuata dall’eroe (fino ad allora indiscusso) Nino Bixio, dopo un processo sommario di poche ore in cui la condanna era stata decisa in partenza. Il tutto era fatto precedere da una scena, crudelissima, esemplare di una condizione di secolare semischiavitù in cui vivevano i braccianti siciliani (la scena delle frustate al padre e al figlio da parte di uno dei maggiorenti che poi pagherà cara la sua

azione). L’epilogo non era meno spietato, con la fucilazione all’alba dei cinque condannati dalla corte marziale, preceduta da un lungo e cadenzato avvicinamento al momento fatale, che a più d’uno ha ricordato il finale di Orizzonti di gloria.

In Bronte era reso ancora più drammatico e, se possibile, odioso per l’esecuzione sommaria e ripetuta due volte di Frajunco, il pazzo del villaggio, a cui non era bastato raccomandarsi alla Madonna del Rosario per scampare alla morte. Un epilogo di rara, eppure documentata, spietatezza a cui si sommava la sorte di quei centocinquanta brontesi inviati da Bixio a Catania per finire nelle patrie galere. Tra la premessa e l’epilogo vi era posto anche per la rappresentazione di una parte della Sicilia a sovranità limitata, con la Ducea, una curiosa proprietà extraterritoriale degli eredi di Orazio Nelson nel cuore dell’isola, per graziosa concessione dei Borboni, come ricompensa della sanguinosa repressione dei patrioti napoletani nel 1799. La spietata repressione comandata da Nino Bixio era, in parte, dettata dalla necessità di non dispiacere un paese, come l’Inghilterra, che stava favorendo l’impresa dei Mille.

Anche questa involontaria coincidenza non faceva che confermare, in maniera quasi beffarda, le ambiguità di un processo storico che, con la liberazione garibaldina della Sicilia, avrebbe dovuto sancire l’affermazione degli ideali del liberalismo e la sconfitta del governo borbonico.

(continua)

(nelle due foto dall’alto in basso: Florestano Vancini e Luchino Visconti durante la lavorazione del Gattopardo.

150 - Il Risorgimento nel cinema italiano. Seconda parte.martedì 3 gennaio 2012 di Pasquale Iaccio

Eccoci alla seconda parte del lungo intervento del Prof. Iaccio dedicato al cinema italiano e il Risorgimento. Dagli anni settanta, un periodo storico estremamente ideologico e conflittuale, all’ultima opera di Mario Martone: "Noi credevamo", uscito nel 2011.

Il Risorgimento nel cinema italiano. Prima parte.

A parte il caso particolare di Bronte, che resta un esempio a sé del corto-circuito che la commistione tra cinema e storia può generare, in quello stesso periodo altre originali “rivisitazioni” hanno ripreso temi ottocenteschi e risorgimentali per una interpretazione della storia in cui il presente, e cioè il momento e il clima che avevano suscitato la riscoperta, avevano un ruolo determinante.

Ci riferiamo in particolare ai fratelli Taviani e ad un corpus omogeneo che Luigi Magni ha dedicato ai temi della Roma papalina e al potere temporale della Chiesa. Per i Taviani si possono ricordare San Michele aveva un gallo del 1971 e il successivo Allonsanfan del 1974. L’uno e l’altro, per un verso, vanno molto al di là del tempo in cui le opere sono ambientate e investono temi universali del passato e del presente, per l’altro verso, sono la risposta a stimoli che trovano la loro origine nel clima di caduta delle illusioni e di crisi delle ideologie dell’epoca in cui furono girati.

A questo proposito è interessante riportare una riflessione degli stessi registi che mettono in guardia dai pericoli dell’ideologia e, probabilmente, anche da una visione troppo meccanica e definita dei significati dei loro film. Sembrano anche orientarsi nelle loro opere sempre più verso la dimensione individuale e ridefinire in maniera ancor più originale e iperbolica il rapporto che hanno intessuto tra cinema e storia.

«Ci mettiamo in sospetto quando sentiamo parlare di ideologia. Ci ha rassicurato la sostituzione che qualcuno ha fatto usando "senso del film" al posto, appunto, di ideologia. Questo termine ci riporta a precedenti preoccupazioni aberranti: ideologia come falsa coscienza, come sovrastruttura

diaframmatica tra noi e le cose; ideologia anche, almeno nell’accezione italiana, come assoluta preminenza dell’uomo politico, dell’uomo storico. Oggi le nostre radici materialistiche ci portano a una posizione polemica verso ogni forma di ideologia che ponga l’accento su atteggiamenti storicistici tout court. Ci interessa, oggi, ritrovare anche l’uomo biologico, l’uomo nelle sue strutture di base: l’istinto della sopravvivenza nell’amore e nell’orrore della morte, quei "dati costanti della condizione umana che sotto l’istinto sessuale, l’indebolimento della vecchiaia (con le relative ripercussioni psicologiche), la paura della morte propria e il dolore per la morte altrui"».

Risulta ora più chiara, anche dal punto di vista dell’analisi storico-politica, l’interpretazione che si può ricavare dalle opere della maturità dei due fratelli registi in cui la dimensione individuale viene esaltata

da un sentimento di consapevole solitudine presente in alcuni dei  protagonisti, a partire daSan Michele aveva un gallo. Involuzione, crepuscolo, restaurazione (con o senza maiuscola) sembrano dimensioni, individuali e storiche, che attraggono sempre più la riflessione dei due fratelli: «La restaurazione non ci appare solo come quel fatto di potere e di classe che fondamentalmente è, ma come una forza che punta su quanto di regressivo, di restauratorio - ed inconfessato - è in ciascuno di noi, anche in chi la combatte. Confessiamo tutto quello che nel momento della ricerca e dell’azione, soprattutto collettive, riusciamo a superare, e che nel momento del ristagno e dell’attesa rimuoviamo con una violenza pari al suo rifluire. La rimozione genera paralisi. Dobbiamo liberarcene. E’ quanto abbiamo cercato di fare con Allonsanfan, ed è stata un’operazione faticosa e sgradevole».

I Taviani in quest’ultimo film, affondano il loro bisturi nella crisi della coscienza di un rivoluzionario che, per tutta la vicenda, è inseguito dal proprio passato, rappresentato dal candore utopico dei suoi (ex) compagni: «Perché venite a riprendermi, ma dove credete di andare così mascherati. Sono venti anni che andate, venite, vi mascherate e corriamo dietro a faville che sono soltanto cenere. Dio mio, come mi siete venuti a noia, state diventando anche voi soltanto delle tremende abitudini!.

Fulvio è spietato con i suoi compagni; non meno che con se stesso. Lo testimoniano le modalità del suo tradimento (l’ultimo di una lunga serie) con cui li denuncia ad un frate.

Frate - Noi la ringraziamo.

Fulvio - Lei non deve ringraziarmi: lei deve assolvermi.

Frate - Assolvere vostra signoria...

Fulvio - Io sono uno di quei venti e sto tradendo i miei compagni.

Frate - A fin di bene, figliolo.

Fulvio - No! Per salvare la pelle [...] ...io lo rifarei.

Fulvio non "salva la pelle". Muore di lì a poco vittima di un destino beffardo e del suo ennesimo tradimento. Allonsanfan è un film sulla restaurazione post-napoleonica, come di altre "restaurazioni", o comunque le si vogliano chiamare, avvenute in seguito, ma è anche qualcosa di più. E’ la messa in scena ("glielo farò credere, io sono un grande attore" dice Fulvio, interpretato, non a caso, da un grande "attore" come Marcello Mastroianni, quando opera il suo primo "travestimento") di una crisi esistenziale e delle "sublimi" bassezze a cui può far ricorso anche il più puro dei rivoluzionari quando vede franare, dentro se stesso, l’idea a cui aveva sacrificato la giovinezza. Fulvio è un personaggio in cui ognuno di noi - come hanno rilevato gli stessi autori - in un momento particolare potrebbe specchiarsi. Fulvio è per questo un personaggio universale.

Per i film di Magni si può vedere come il regista scavi a fondo in una realtà storica fortemente regionale, la Roma papalina, ma al tempo stesso universale, il potere della Chiesa. Con Nell’anno del

Signore del  1969 e In nome del papa re del 1977 si immerge nei temi che gli sono cari e che affrontano il delicato problema storiografico e ideologico dei rapporti della Chiesa col Risorgimento e con i fermenti rivoluzionari che hanno percorso quel periodo storico. «Ho raccontato la lotta eterna della libertà contro la tirannide, libertà sempre perdente perché il potere è più forte. Come potere ho preso a modello uno dei poteri più assurdi mai esistiti, il potere del Papa Re, un potere temporale e spirituale al tempo stesso: quello che Mazzini chiamò “la vergogna civile d’Europa”. Questo però mi ha fatto passare erroneamente per “anticlericale” e mi ha dato un po’ di noia».

Grandi affreschi di un mondo popolare e gentilizio che si giovano dell’interpretazione di attori di primo piano e dell’immersione nelle botteghe degli artigiani, nei palazzi del potere, nelle sacrestie e nelle piazze, negli acciottolati limati dal tempo, nel dialetto della Roma ottocentesca. All’Ottocento risorgimentale Magni ritorna con altre due opere, come il film per la TV Il Generale, una delle poche dedicate alla figura di Garibaldi in anni relativamente recenti e un’altra incentrata su“Franceschiello”, ‘O re, l’ultimo dei Borbone di Napoli.

In questo film si racconta la storia dell’Unità d’Italia vista dalla parte degli sconfitti. Sconfitti ma non demonizzati, in linea con la visione personale, ma non immotivata, con cui il regista romano ha

guardato ai fatti del Risorgimento. Si guardi ai titoli e agli argomenti messi in scena da Magni: «In nome del popolo sovrano, sulla Repubblica Romana del ’49. Ma anche questa è una storia che finisce male, ne “L’anno del Signore” vengono decapitati Targhini e Montanari. In “In nome del Papa Re” vengono decapitati Monti e Tognetti. In In nome del popolo sovrano vengono fucilati (nell’ordine) Ciceruacchio e suo figlio Lorenzo, Giovanni Livraghi e Ugo Bassi. Più che dei film ho fatto dei necrologi. Alla fine si vedono sempre delle lapidi».

Alla ideale esposizione di lapidi, di cui parla Magni, se ne può aggiungere un’altra. Si tratta di una originale proposta di Ennio Lorenzini, Quanto è bello lu murire acciso del 1976, un film che racconta la spedizione di Carlo Pisacane al Sud, e il suo tragico epilogo, sulle ali della musica popolare e della ricerca dei luoghi. Lo stile è sobrio e “neorealista”, sia nell’uso della lingua, sia nell’impiego di molti attori non professionisti, sia soprattutto nelle ambientazioni esterne di un meridione impervio e sconosciuto ai più.

Del resto, la cifra documentaristica, con cui tutta la storia è condotta, è un tratto distintivo del film derivante dalle esperienze precedenti del regista. Innovativa è la funzione della musica, e dei versi dialettali, curati da Roberto De Simone, con una eccezionale valenza evocativa in cui traspare la riscoperta della tradizione del canto popolare, tipica degli anni in cui il film fu girato. Da questo punto di vista, il passato (della tradizione popolare ripreso con scrupolo filologico) e il presente (in cui la scoperta della tradizione assunse le dimensioni di un fenomeno culturale e politico di massa) si confondono e si sovrappongono.

Un’opera fatta di estremi che si tendono e cercano di combinarsi in un modo che forse non ha eguali. Fondamentale è il ruolo dell’utopia, “interpretata” da Stefano Satta Flores, che conferisce al protagonista due caratteri opposti: l’ansia concreta di immergersi nella cruda realtà del Sud interno, e quindi una vicinanza al mondo che vuole redimere, e, al tempo stesso, la consapevolezza di una inevitabile sconfitta, a cui bisogna votarsi, per accendere la speranza di un futuro cambiamento.

Nel commiato di Pisacane dalla famiglia, inserito in un flash back, c’è la spiegazione del suo agire:

la moglie: “Tu ci lasci per inseguire un fantasma”.

Pisacane: “Non è un fantasma; è un’idea”.

la moglie: “E’ un’impresa senza speranza”.

Pisacane: “La speranza è proprio lì nel farlo”.

Sembra quasi che Lorenzini abbia messo in scena Fulvio, il protagonista di Allonsanfan dei Taviani, ma ripreso prima del “tradimento”. Un personaggio, quello di Lorenzini, che fa della sua integrità e della sua fedeltà all’idea rivoluzionaria, la ragione della sua vita; non meno che della sua morte. “La morte non è una brutta cosa”, dice il protagonista prima dell’epilogo, “quando arriva al momento giusto, né prima, né dopo”. Il Pisacane di Lorenzini-Satta Flores non accetta la caduta delle illusioni (degli Anni Settanta) o – meglio- forse ne è consapevole, ma reagisce nella maniera opposta a quella scelta da Fulvio: accetta il sacrificio nella certezza che il suo sangue servirà a fecondare la rivoluzione quando i tempi saranno maturi. “Non serve che moriamo tutti, basta il gesto. La morte di uno solo […] che qualcuno si prepari per altre imprese, per battaglie più fortunate”. Il finale mostra, in lontananza, un “ribelle” del posto, Antoni, che, visti i corpi dei congiurati trucidati, raccoglie qualcuna delle loro armi e si allontana per continuare la lotta.

La morale del film è recitata nel monologo dell’ufficiale borbonico, il maggiore De Liguoro, autore della repressione, che però, come in trance, riconosce le ragioni degli sconfitti (di oggi) e sembra antivedere la sconfitta del regno borbonico (di domani). Nella lettera-resoconto che comincia a dettare al re, dice che “l’odio aumenta” e che “le misure poliziesche non sono sufficienti”. Ben altro ci vorrebbe per risollevare le condizioni del Sud. Si spinge addirittura a porsi domande sulle reali intenzioni che avevano mosso la spedizione di Pisacane: “ma si proponeva veramente di vincere in battaglia?” E conclude con la lucida ammissione del vero scopo del suo nemico: “si proponeva di piantare una bandiera e l’ha piantata!”. “E l’odio aumenta”. Ma forse è già troppo tardi e lo stesso De Liguoro, interpretato da Giulio Brogi, finisce per strappare la lettera che aveva cominciato. In questo modo, nella versione di Lorenzini, Pisacane è il vero vincitore e la sua utopia non sarà stata inutile, come non è inutile continuare la lotta. “C’è il fuoco sotto la cenere, siamo venuti per soffiare sotto questo fuoco”. Tre anni dopo ci sarà l’impresa vittoriosa dei Mille.

La parabola dei film sul Risorgimento arriva ai nostri giorni con alterne fortune. In un modo o nell’altro, il Sud è presente, come lo era stato nel passato e forse ancora di più. Segno evidente di una ferita aperta che col passare del tempo non si è rimarginata. Le chiavi di lettura e di interpretazione sono diverse. Continua persino il filone del brigantaggio con Li chiamarono…briganti, 1999, di Pasquale Squitieri che riprende una vecchia vulgata del dopoguerra ma è interessante perché forse fa da battistrada a suggestioni e istanze che preannunciano qualcosa di simile ad un rivendicazionismo che guarda con favore al passato pre-unitario.

Un’opera senz’altro originale è Il resto di Niente del 2004, diretta da Antonietta De Lillo, una regista donna, dedicata alla figura di una donna protagonista della rivoluzione napoletana del ’99,

Eleonora  Pimentel Fonzeca. Bastano queste caratteristiche per considerarlo diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Il film ha una matrice letteraria e filtra gli avvenimenti della repubblica napoletana sulla base del romanzo storico di Enzo Striano. La regista e lo sceneggiatore Vincenzo Rocca hanno rinunciato, in partenza, alla capacità descrittiva della storia evenemenziale in favore di una analisi in profondità delle motivazioni dei personaggi, in particolare di Eleonora, delle spinte ideali che ne erano alla base, delle utopie che muovevano la pattuglia del rivoluzionari napoletani. Non storia materiale, descrittiva, falsamente obiettiva (come generalmente si crede debba essere la storia) ma storia delle idee, della filosofia, dell’utopia illuminista, che però ci aiuta a capire, meglio di tante cronache, i fondamenti ideali e sociali delle riforme illuministe al Sud, le sue radicali innovazioni e le sue fragilità (scarso contatto con le masse a cui si rivolgevano). Nel caso specifico, questa caratteristica spiega i motivi reali e quindi “storici” del fallimento della Repubblica del ’99. Per questa ragione il film non si può definire antistorico, come è stato detto con eccessiva modestia perfino dalla regista, ma storico in un altro senso: storico delle idee, della filosofia, dell’illuminismo napoletano e non solo.

Eleonora è un personaggio pienamente immerso nel suo tempo storico. Le idee, il comportamento, le pulsioni sono quelle di una donna, colta e intelligente, inserita nel flusso delle idee riformatrici della fine del Settecento. La sua eccezionalità, semmai, è di essere una donna che opera in un mondo di uomini, come pure di voler incidere sul presente traducendo nella pratica le istanze ideali dell’illuminismo.

E lo fa attraverso gli strumenti che ha a disposizione e nelle condizioni storico-sociali che si trova a vivere. Il film le rappresenta molto bene: Eleonora adopera la sua intelligenza, la cultura, il dialogo, gli stessi “mezzi di comunicazione” che ritiene più efficaci, dal giornale al cantastorie. Anzi, rispetto ai suoi compagni d’avventura, si dimostra molto meno velleitaria di quanto non lo siano gli uomini. Il suo fallimento, e il fallimento di quella pattuglia di rivoluzionari che diede vita alla Repubblica del ’99, è dovuto alla distanza incolmabile tra la radicalità del loro progetto e le condizioni storiche e sociali in cui doveva essere attuato. A questo punto si può anche far riferimento all’interpretazione storica dei fatti del ’99 che sia Striano sia De Lillo, in maniera intimista attraverso la figura centrale di Eleonora, danno di quegli avvenimenti e che si iscrivono in un contesto storiografico che vede la Repubblica del ’99 e il suo fallimento come un’occasione fallita del processo di rinnovamento del Regno. Le cui conseguenze (negative) si estenderanno al successivo periodo risorgimentale. La decapitazione della parte più innovativa, e in senso lato riformatrice, della classe dirigente napoletana è alla base della corrente storiografica che vede in questo avvenimento traumatico il motivo di una mancata svolta che ha condizionato negativamente il corso degli avvenimenti successivi del Mezzogiorno fino al periodo post-unitario.

Nel 2006 Lamberto Lambertini, con Fuoco su di me, dedicato alla sfortunata esperienza murattiana, coniuga la sensibilità letteraria con la sua esperienza teatrale in un gioco di rimandi culturali e di avvenimenti storici. Gioacchino Murat viene visto come un eroe romantico, tutto impeto e cuore, “nu bell’ommo”, come lo ricorda un proverbio napoletano, che precorre le passioni del Risorgimento. Anche questo, come quello della De Lillo, è un film intimista, nel senso che il regista riversa nelle immagini, spesso quadri singoli di un grande affresco d’epoca, memorie, ricordi familiari, paesaggi, noti e meno noti, il precipitato culturale e visivo che la letteratura romantica aveva costruito sull’icona napoletana. Il tutto rimanda a un clima, a una grandezza, tanto luminosa quanto effimera, a una mescolanza di tradizione e modernità, a personaggi storici e di fantasia che, tuttavia, danno il senso di una stagione di passaggio, di una parentesi, di una svolta storica tentata e non compiuta.

In tempi più recenti, nel 2007, c’è da notare che Roberto Faenza, in uno dei rari quadri d’insieme che il cinema ha messo in opera, è riuscito a trasporre per lo schermo il fluviale romanzo di Federico De Roberto, I viceré, che aveva scoraggiato una quantità di autori in precedenza, interpretandolo come un saggio di storia italiana di ogni tempo, con i suoi trasformismi, i suoi opportunismi, le sue miserie e i pochi cupi splendori. Il potere vale più dei valori, dei legami familiari, delle passioni politiche. Il potere è più importante perfino del danaro. Il film annulla quei lampi di romanticismo, da un lato, o di speranza in un futuro più o meno lontano, dall’altro, che pure sopravvivevano in opere altrettanto critiche girate in precedenza. Non ci sono personaggi positivi e se ci sono, saranno riassorbiti dalla ruota ciclica del potere. Sul lungo periodo, anche nella modernità, la storia si ripete sempre uguale a se stessa. Faenza ha avuto l’indubbio merito di non edulcorare, come invece è avvenuto di solito nelle opere televisive sullo stesso tema, il ruolo della Chiesa, o di parte di essa, e della “politica” di ieri (e di oggi, come il pubblico l’ha interpretata) nel tortuoso percorso post-unitario.

E’ infine uscito, tra le inevitabili polemiche che, come in altri momenti, non sono mancate per temi risorgimentali, Noi credevamo, di Mario Martone. Di questo eccellente lavoro di un autore non conformista, il minimo che si può dire è che, nel panorama delle reazioni, si è riproposto un vecchio “copione” di giudizi sommari e spesso “preventivi”, di accostamenti arditi tra passato e presente, di prese di posizione in cui il giudizio storico si confonde con la valutazione estetica e l’analisi “politica”. Si è verificata persino una iniziale difficoltà di distribuzione, a dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto persistente e pervicace sia, nonostante il cambiamento dei tempi e dei protagonisti, la diffidenza verso opere che trattino un argomento controverso come il Risorgimento e la storia in senso generale.

Come si vede, l’Unità d’Italia al cinema non è un tema scontato, come forse si poteva pensare, e soprattutto non è un tema in grado di esprimere un’epica e neppure una identità condivisa: «Nessun film d’ispirazione storica – ha scritto lo storico Aurelio Lepre – ha espresso la nostra identità con la stessa efficacia della commedia italiana. Eppure abbiamo vissuto vicende tragiche, che hanno coinvolto profondamente l’intera popolazione. Ma non ne abbiamo una memoria condivisa. E senza di essa non può esserci vero epos nazionale, né nella letteratura né nel cinema». In altre parole, le molte ombre che si ritrovano nella controversa rappresentazione del Risorgimento al cinema, non sono di carattere cinematografico ma di carattere squisitamente storico. E’ la nostra storia che, lungi da avere un percorso identitario, è stata ri-scritta secondo le suggestioni delle diverse epoche e delle diverse visioni ideologiche.

Un altro storico si spinge più in là. La nostra storia non è stata studiata a fondo e quindi non poteva che dare riflessi controversi anche nella rappresentazione cinematografica. Paolo Macry ritorna a ricordare che la questione meridionale è tutt’altro che risolta: «La liberazione (o la conquista) del Sud è un puzzle di situazioni simili, che attende ancora di essere sviscerato in modo analitico. Fuor di retoriche e giudizi semplificati. Va bene il museo della nazione, come efficacemente questo giornale ha chiesto [Il Corriere della Sera], ma non sarebbe male promuovere anche una più ampia ricerca storica, capace di lumeggiare la nascita controversa della patria. Com’è tuttora evidente, la grandi divisioni del paese non si superano rimuovendo o manipolando le loro radici».

I “riflessi controversi” dell’interpretazione del Risorgimento sugli schermi sono lo specchio fedele delle contraddizioni latenti, delle fiammate e delle rimozioni, dei nodi irrisolti, delle speranze deluse, delle

ferite aperte, delle divisioni persistenti della storia del nostro paese quando si confronta col processo fondativo della nazione italiana.

Foto tratta da "Allonsanfan" dei Fratelli Taviani

(Queste pagine sono in parte ricavate da un articolo pubblicato sulla rivista “Cinema Sessanta”, gennaio-marzo 2011. Una vasta trattazione della parabola del cinema dedicata al Risorgimento, ad opera sempre di Pasquale Iaccio, è contenuta in un libro in corso di stampa per la casa editrice Liguori di Napoli dal titolo “Antologia di Cinema e Storia”. Nell’antologia è contenuta anche una intervista al regista Mario Martone sul suo ultimo film Noi credevamo) .

Pasquale IaccioDocente di storia del cinema - Università di Salerno e Federico II di Napoli