25
353 Biotecnologie agricole: proprietà intellettuale, conoscenza tradizionale e beni pubblici Maria Fonte* Sommario: 1. Introduzione – 2. La concentrazione oligopolistica e il controllo delle sementi – 3. La privatizzazione della ricerca e della materia vivente – 4. Il dominio pubblico della conoscenza non è una tragedia – 5. La commedia dei beni collettivi: nuove e vecchie forme di produzione, nuovi e vecchi diritti – 6. La biodiversità e la conoscenza tradizionale come “beni collettivi” – 7. Considerazioni conclusive. 1. Introduzione 1 Negli anni ’80 del secolo scorso una “grande trasformazione” ha interessa- to il mondo della ricerca agricola: l’estensione dei diritti di proprietà intellet- tuale alle innovazioni riguardanti la materia biologica. Le implicazioni di que- sta rivoluzione per il futuro della produzione alimentare sono ancora poco chiare e poco discusse tra coloro che hanno a cuore la sorte del comparto. Il rischio cui si va incontro è l’erosione del dominio pubblico in due ambiti par- ticolarmente importanti: la conoscenza e le sementi. Il rafforzamento della proprietà intellettuale e soprattutto la globalizzazione dei regimi proprietari esclusivi tramite l’implementazione dell’accordo sui Trips (Trade-Related a- spects of Intellectual Property Rights) della Wto (World Trade Organization), si traducono infatti, in meno risorse per la ricerca pubblica agricola e maggiori costi per la diffu- sione della conoscenza, regimi proprietari privati ed esclusivi sulle risorse genetiche, che trasfor- * Università di Napoli Federico II. 1 Quest’articolo riprende e approfondisce alcuni temi trattati in due pubblicazioni preceden- ti: Fonte (2005; 2004b). Agricoltura – Istituzioni – Mercati, n. 3/2006 Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

Biotecnologie agricole, proprietà intellettuale, conoscenza tradizionale e beni pubblici

  • Upload
    unina

  • View
    0

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

353

Biotecnologie agricole: proprietà intellettuale, conoscenza tradizionale e beni pubblici Maria Fonte*

Sommario: 1. Introduzione – 2. La concentrazione oligopolistica e il controllo delle sementi – 3. La privatizzazione della ricerca e della materia vivente – 4. Il dominio pubblico della conoscenza non è una tragedia – 5. La commedia dei beni collettivi: nuove e vecchie forme di produzione, nuovi e vecchi diritti – 6. La biodiversità e la conoscenza tradizionale come “beni collettivi” – 7. Considerazioni conclusive.

1. Introduzione1

Negli anni ’80 del secolo scorso una “grande trasformazione” ha interessa-

to il mondo della ricerca agricola: l’estensione dei diritti di proprietà intellet-tuale alle innovazioni riguardanti la materia biologica. Le implicazioni di que-sta rivoluzione per il futuro della produzione alimentare sono ancora poco chiare e poco discusse tra coloro che hanno a cuore la sorte del comparto. Il rischio cui si va incontro è l’erosione del dominio pubblico in due ambiti par-ticolarmente importanti: la conoscenza e le sementi. Il rafforzamento della proprietà intellettuale e soprattutto la globalizzazione dei regimi proprietari esclusivi tramite l’implementazione dell’accordo sui Trips (Trade-Related a-spects of Intellectual Property Rights) della Wto (World Trade Organization), si traducono infatti, in – meno risorse per la ricerca pubblica agricola e maggiori costi per la diffu-

sione della conoscenza, – regimi proprietari privati ed esclusivi sulle risorse genetiche, che trasfor-

* Università di Napoli Federico II. 1 Quest’articolo riprende e approfondisce alcuni temi trattati in due pubblicazioni preceden-

ti: Fonte (2005; 2004b).

Agricoltura – Istituzioni – Mercati, n. 3/2006

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

354

mano la millenaria pratica di selezione delle sementi dal proprio raccolto da parte degli agricoltori in una pratica illegale e pongono le basi per un si-stema globale della proprietà intellettuale contestato da numerosi paesi. Il dibattito sui brevetti nelle biotecnologie si muove spesso su

un’impostazione dicotomica, che, come fa notare Boyle (2003), ripropone grosso modo argomenti ormai classici. Alcuni difendono i brevetti in nome dell’incentivo alla ricerca, altri mettono in luce i pericoli insiti in una politica di estensione indiscriminata di titoli proprietari ai beni del dominio pubblico. Più recentemente, tuttavia, il panorama si va articolando su posizioni più dif-ferenziate.

Nell’ambito teorico, l’economia istituzionale e l’economia regionale (Ho-dgson, 2000; Ostrom, 1990; Beccattini, 1989; Garofani, 2003), la letteratura sul capitale sociale e sulla conoscenza tradizionale (Bowles, Gintis, 2002; Co-ombe, 1998 e 2005; Tobin, 2003), il dibattito economico-giuridico sulla pro-prietà intellettuale (Boyle, 2003; Benkler, 2002 e 2004), conducono al ricono-scimento di vecchie e nuove forme organizzative di produzione e di governo diverse dal mercato, dall’impresa o dallo stato. Si tratta di forme collettive e interattive di produzione di beni e servizi, governate in modo informale e de-centrato tramite un insieme di norme sociali e consuetudinarie, che Bowles and Gintis (2002) chiamano la community governance. Bisogna sottolineare che non ci si riferisce soltanto a persistenze di sistemi sociali tradizionali, ba-sati sul dono e sulla reciprocità, ma anche a forme di produzione che perdura-no o fioriscono ex novo nel cuore della società della conoscenza, come la pro-duzione libera di software. In alcuni casi, queste forme sociali di produzione offrono soluzioni efficienti a problemi, che né il mercato né lo stato sono in grado di risolvere. Esse sono pertanto considerate organizzazioni complemen-tari, non sostitutive del mercato e dello stato.

Da un punto di vista politico, queste posizioni teoriche sono rafforzate dal dibattito scaturito, non solo in ambito Wto, ma anche Wipo, Cbd e Unctad2, attorno all’applicazione dell’accordo sui Trips e alle sue conseguenze sulla biodiversità, sulla conoscenza tradizionale e sul folklore. Questo dibattito ha messo l’accento sull’origine culturale (etnocentrica quindi) e sulla natura so-stanzialmente ingiusta dei sistemi proprietari che si vogliono estendere a tutte le società sul pianeta terra, sancendo una crisi di legittimità del sistema globa-le della proprietà intellettuale.

L’obiettivo principale di quest’articolo è di proporre una riflessione su questi temi, concentrando l’attenzione sulle agrobiotecnologie, ma tenendo conto che

2 Rispettivamente: World Trade Organization; World Intellectual Property Organization;

Convention on Biological Diversity; United Nations Conference on Trade and Development.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

355

alcuni dei problemi in discussione sono attuali su più arene, dal gene, al ciber-spazio, dalla musica, alla gestione del prestito dei libri nelle biblioteche, che l’applicazione di una direttiva europea richiede cessi di essere gratuito3.

La pervasività dei campi toccati dal tema della proprietà intellettuale do-vrebbe convincerci che una grande trasformazione è effettivamente in atto e che un dibattito più aperto è necessario, per evitare che l’opinione prevalente sia plasmata principalmente o anche esclusivamente dalle politiche promozio-nali e commerciali delle grandi corporations con interessi nel settore.

Prima di toccare questi temi, illustrerò brevemente i processi di concentra-zione oligopolistica nel comparto delle biotecnologie agricole, che stanno ra-pidamente portando al controllo del mercato delle sementi da parte di pochi grandi gruppi agrochimici transnazionali. Questa concentrazione è il contesto economico in cui bisogna collocare la trasformazione in atto dei sistemi di proprietà intellettuale per capirne la reale portata.

2. La concentrazione oligopolistica e il controllo delle sementi La ricerca biotecnologica riguarda più campi, dalla gnomica, alla proteomica,

alla bioinformatica e trova applicazione in più settori tecnologici, dalla medicina, all’agricoltura, all’economia ambientale. Le applicazioni industriali più discusse, tuttavia, riguardano gli organismi geneticamente modificati (Ogm) usati per ot-tenere varietà di piante con caratteristiche desiderate (piante transgeniche).

Le piante transgeniche più diffuse appartengono a quattro specie (soia, mais, colza e cotone) e sono modificate per incorporare due caratteri: la resi-stenza al glifosate (un particolare erbicida a largo spettro, che facilita la colti-vazione su larga scala delle colture industriali) e la resistenza ad alcuni insetti del mais e del cotone (la piralide del mais, la ‘bolla del cotone’). Nel 2005 le piante transgeniche coprivano una superficie di circa 90 milioni di ettari (tab. 1), 86 milioni dei quali distribuiti in cinque paesi (fig. 1): Stati Uniti, Argenti-na e Brasile (soprattutto soia), Canada (colza), Cina (cotone).

Le nuove piante incorporano un modello tecnico di grande agricoltura spe-cializzata e industrializzata. I prodotti da esse ottenuti sono destinati in modo prevalente all’alimentazione animale. Per quel che ci riguarda è importante sottolineare che lo sviluppo delle biotecnologie applicate all’agricoltura (o a-grobiotecnologie) ha portato al controllo del mercato delle sementi da parte delle imprese agrochimiche, tramite acquisizioni e fusioni (Fonte, 2004 2005).

3 Vedi: Campagna Non pago di leggere, sul sito:

http://www.nopago.org/index.php?page=puntottobre05.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

35

6

Fo

nte:

Jam

es, 2

005.

Figu

ra 1

– D

ove

sono

col

tivat

e le

pia

nte

tran

sgen

iche

(200

5, 9

0 m

ilion

i di e

ttari

in to

tale

)

Usa

55%

Arg

entin

a 19%

Bra

sile

10

%Can

ada 6

%

Cin

a 4%

Altr

i 5%

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

357

Tab. 1 – Principali piante transgeniche coltivate per carattere trasferito (2005) Impresa Ettari

(milioni) (%) sul totale delle superfici

di quella specie Soia tollerante all’erbicida 54.4 60 Mais tollerante all’erbicida 3.4 4 Cotone tollerante all’erbicida 1.3 2 Colza tollerante all’erbicida 4.6 5 Mais Bt 11.3 13 Cotone Bt 4.9 5 Mais Bt/tollerante all’erbicida 6.5 7 Cotone Bt/tollerante all’erbicida 3.6 4 Totale 90.0 100% Fonte: James, 2005. Tab. 2 – Le prime dieci imprese nel mercato degli agrochimici (2004)

Impresa Vendite di agrochimici

(mil. di dollari Usa)

Quota del mercato globale dei pesticidi

(%) 1. Bayer (Germania) 6.120 17 2. Syngenta (Svizzera) 6.030 17 3. Basf (Germania) 4.141 12 4. Dow (Usa) 3.368 10 5. Monsanto (Usa) 3.180 9 6. Dupont (Usa) 2.211 6 7. Koor (Israele) 1.358 4 9. Sumitomo (Giappone) 1.308 4 9. Nufarm (Australia) 1.060 3 10. Arista (Giappone) 790 2 Fonte: Etc Group, 2005. Tab. 3 – Le prime undici imprese nel mercato delle sementi (2004)

Impresa Vendite (milioni di dollari Usa)

1. Monsanto (Usa) + Seminis (acquisita da Monsanto nel marzo 2005)

2.277 + 526

2. Dupont /Pioneer (Usa) 2.600 3. Syngenta (Svizzera) 1.239 4. Groupe Limagrain (Francia) 1.044 5. KWS AG (Germania) 622 6. Land O’ Lakes (Usa) 538 7. Sakata (Giappone) 416 8. Bayer Crop Science (Germania) 387 9. Taikii (Giappone) 366 10. DLF – Trifolium (Danimarca) 320 11. Delta & Pine Land (D&PL, Usa)

(il 15 agosto 2006 la Monsanto e D&PL annuncia-no di aver firmato un accordo per l’acquisizione di D&PL da parte della Monsanto)

315

Fonte: ETC Group, 2005.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

358

Tab. 4 – Alcuni dati sulla posizione dominante della Monsanto nel mercato delle se-menti transgeniche

Monsanto La più grande imprese sementiera nel mondo

– Nel 2004 la Monsanto con i suoi diritti proprietari sulle sementi e/o sui tratti gene-

tici controlla l’88% della superficie agricola totale seminata con sementi transge-niche.

– Secondo la Monsanto, i suoi tratti genetici biotecnologici coprono 71 milioni di ettari nel 2004, su 81 milioni di ettari seminati con piante transgeniche (statistiche ISAAA) in quell’anno.

– Quota delle piante transgeniche della Monsanto per specie: – Soia GM – 91% della superficie totale seminata con soia transgenica (area totale:

48 milioni di ettari; area Monsanto: 44 milioni) – Mais GM – 97 % (area totale: 19 milioni di ha; area Monsanto: 18,7 milioni di ha) – Cotone GM – 63,5% (area totale: 9 milioni ha; area Monsanto: 5,7 milioni di ha) – Colza GM – 59% (area totale: 4,3 milioni di ha; area Monsanto: 2,5 milioni ha).

Con l’acquisizione di Seminis, nel 2005, Monsanto acquista una posizione domi-nante anche nel mercato delle sementi dell’ortofrutta, nel quale era prima assente. Seminis fornisce circa 3.55 varietà di sementi in 150 paesi.

Il 15 agosto 2006 la Monsanto e Delta &Pine Land, impresa leader nel mercato delle sementi di cotone, annunciano di aver firmato un accordo per l’acquisizione di D&PL da parte della Monsanto. L’acquisizione è soggetta alle revisioni e all’autoriz-zazione delle autorità competenti in Usa. Fonte: ETC Group 2005 (i dati riportati sono basati su dati della stessa Monsanto e dell’ISAAA).

Nel 2005 le prime dieci imprese agrochimiche controllavano l’84% del

mercato globale dei prodotti agrochimici, stimato in 35.400 milioni di dollari Usa (Etc Group, 2005). Tra le prime sei grandi imprese agrochimiche si tro-vano i principali attori del mercato delle sementi (tabb. 2 e 3). In particolare la Monsanto, che occupa il quinto posto tra le imprese agrochimiche, è la prima impresa sementiera. Se il mercato mondiale delle sementi nel suo complesso è sotto il controllo di pochi oligopoli, quello delle sementi transgeniche è a li-velli di quasi monopolio. Nel 2004 circa l’88% delle superfici coltivate con sementi transgeniche rimandavano alla Monsanto per quel che riguarda la proprietà delle sementi o dei tratti tecnologici in esse incorporati. Nello stesso anno la Monsanto controllava il 91% della soia transgenica coltivata, il 97% del mais, il 63% del cotone, il 59% della colza (tab. 4).

È in questo contesto che vanno collocate le trasformazioni della ricerca a-gricola e dei regime di proprietà intellettuale in agricoltura, di cui tratteremo nei prossimi paragrafi.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

359

3. La privatizzazione della ricerca e della materia vivente Fino agli anni ’80 del secolo scorso, le piante e gli animali, interi o nelle

loro parti, non erano brevettabili. Ciò per varie ragioni, alcune attinenti alle caratteristiche della materia biologica ritenute in contrasto con i requisiti del brevetto industriale4, altre di ordine morale. Era possibile, tuttavia, (sin dagli anni ’30, del secolo scorso) proteggere le nuove varietà vegetali tramite titoli speciali, riconosciuti dalla legislazione di alcuni paesi industrializzati. Nel 1961 le varie legislazioni nazionali per la protezione delle varietà vegetali fu-rono inquadrate in una Convenzione internazionale, che costituiva l’Upov (Union pour la Protection des Obtentions Végétales) e riconosceva i cosiddet-ti “diritti dei costitutari”, di coloro cioè che “costituiscono” (non “creano” o “inventano”…) una novità vegetale (plant breeders’ rights, o, in breve, pbr). Questi si differenziano dai diritti brevettuali perché contengono due esenzioni fondamentali: l’esenzione dei ricercatori e quella degli agricoltori (chiamata anche “privilegio degli agricoltori”). Grazie alla prima, i ricercatori, anche se innovatori mossi da intenti commerciali, possono utilizzare liberamente, ossia senza necessità di autorizzazione e di pagamento di diritti, le nuove varietà a scopi di ricerca. Il privilegio degli agricoltori, a sua volta, permette all’agri-coltore di usare e di scambiare, senza alcuna richiesta di licenza, parte del rac-colto come semente per l’anno successivo, continuando in tal modo la sua tra-dizionale attività informale di selezione.

Le esenzioni previste dall’Upov sono molto importanti ai fini della libertà di ricerca, della diffusione delle conoscenze e della conservazione della biodiversi-tà. Esse sanciscono, anche a livello di regime di proprietà intellettuale, il ricono-scimento di un’eccezionalità dell’agricoltura come attività produttiva legata alla materia vivente e ad un bisogno essenziale dell’uomo, l’alimentazione.

Tali esenzioni, molto ampie fino al 1990, sono state limitate con l’Atto Upov 1991. Le restrizioni sono una risposta al clima globale tendente ad un rafforzamento dei regimi di proprietà intellettuale e alla pressione competitiva dei brevetti, la cui applicazione, come strumento di protezione, era stata ormai estesa alla materia vivente.

Nel 1980, infatti, negli Stati Uniti, sotto l’incalzare della nascente industria biotecnologica, una sentenza della Corte Suprema sul caso, divenuto famoso, Diamond vs. Chakrabarty dichiara l’applicabilità dei brevetti alle innovazioni

4 Nelle legislazioni dei diversi paesi, sono generalmente considerati come “materia oggetto di brevetti” “un manufatto”, una “composizione di materia” o un “prodotto dell’ingegno dell’uomo”. È difficile classificare le piante o, più in generale, ogni organismo vivente, in una di queste categorie. È aperta alla discussione anche la questione se una nuova varietà risponde al requisito della “novità” richiesto dalla legislazione brevettale.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

360

riguardanti la materia vivente. Nella sentenza si sostiene che “il fatto che i mi-croorganismi … siano vivi… (è) senza importanza legale” ai fini della legge sui brevetti. Da allora, negli Stati Uniti, sempre tramite sentenze della Corte Suprema, l’applicabilità dei brevetti è stata estesa a tutte le forme viventi (ec-cetto l’organismo umano nella sua interezza) e alle loro parti: cellule, sequen-ze geniche, genoma, considerando in tal modo superati sia gli ostacoli giuridi-ci che quelli di ordine etico alla brevettabilità del vivente.

Anche nell’Unione Europea la direttiva 98/44/EC sulla “Protezione giuri-dica delle invenzioni biotecnologiche”, del luglio 1998, introduce un regime di protezione brevettuale per le innovazioni biotecnologiche. Essa stabilisce la brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche che riguardano le piante, quan-do la loro applicazione non è confinata ad una particolare varietà5, ma ad una pluralità di varietà.

La legislazione europea è considerata quasi un atto dovuto nella misura in cui i paesi dell’UE (Unione Europea) aderiscono alla Wto. Tra gli accordi del-la Wto, infatti, ha una notevole importanza l’accordo sui Trips, che sancisce l’obbligo di “rendere disponibili i brevetti per tutti i tipi di invenzioni, sia di prodotto che di processo, in tutti i campi della tecnologia” (art. 27.1) e di “provvedere alla protezione delle varietà vegetali o tramite brevetti o tramite un efficace sistema sui generis o tramite la combinazione dei due sistemi” (art. 27.3b). L’importanza dell’accordo dei Trips sta nel tentativo di estendere geograficamente, quasi a livello planetario (fanno infatti parte del Wto circa 150 paesi), l’applicazione dei brevetti al settore farmaceutico e agricolo, che generalmente sono esclusi da quell’obbligo nei paesi in via di sviluppo (Pvs).

La brevettazione delle innovazioni sul vivente ha due implicazioni principali per quanto attiene la produzione alimentare. Comporta una spinta verso la priva-tizzazione della ricerca per l’agricoltura e una privatizzazione delle risorse ge-netiche. La ricerca per l’agricoltura si sposta sempre più dalle università e dai centri pubblici alle imprese private, che restringono la circolazione delle cono-scenze fino al momento in cui esse sono incorporate in un’innovazione brevetta-ta e, tramite l’imposizione di una royalty, fanno aumentare i costi della sua diffu-sione. Le grandi imprese agrobiotecnologiche, d’altra parte, consolidano la loro posizione sui mercati acquisendo il controllo dell’industria sementiera e configu-randosi come grandi oligopoli agrochimici, produttori, cioè di sementi transgeni-che resistenti ai prodotti chimici da esse stesse prodotti. L’innovazione agricola è sempre più coordinata non dal mercato, ma da grandi oligopoli privati.

5 Nel caso di applicazione dell’innovazione ad una sola varietà, questa può essere protetta

dal certificato del plant breeder, secondo l’Atto del 1991 (regolamento n. 94/2100, Privativa comunitaria per ritrovati vegetali).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

361

4. Il dominio pubblico della conoscenza non è una tragedia I finanziamenti pubblici per la ricerca in agricoltura sono aumentati nel

corso del XX secolo, alimentando vasti incrementi nella produttività del setto-re. Pardey e Beintema (2001) ricordano che con un leggero aumento della su-perficie coltivata (da 1,4 nel 1961 a 1,5 miliardi di ettari nel 1998) si alimen-tano nel 1998 il doppio di persone di quarant’anni prima.

L’aumento di produttività che ha caratterizzato lo sviluppo agricolo nel XX secolo non deve essere dato per scontato. Esso è piuttosto “il risultato di un’interazione positiva fra agricoltori, produttori di inputs e un sistema di ri-cerca e di assistenza tecnica abbondantemente sostenuto da finanziamenti pubblici, che hanno prodotto e diffuso gratuitamente innovazioni e conoscen-ze” (Pardey, Beintema, 2001, p. 1; corsivo mio).

Con l’avvento delle nuove biotecnologie e con il rafforzamento dei regimi di proprietà intellettuale che le imprese biotecnologiche hanno sollecitato, la diffusione gratuita di conoscenze e di innovazioni sarà sempre più difficile e limitata, soprattutto nei paesi poveri.

Fare ricerca diventa più difficile e costoso. Due ricercatori di biomedicina, Heller e Heisenberg (1998), hanno parlato del rischio degli anticommons, os-sia degli ostacoli che si vengono a creare ai ricercatori quando conoscenze di base nella filiera innovativa sono brevettate già ad uno stadio iniziale del pro-cesso di ricerca. Al contrario della “tragedia dei commons”, di cui ha scritto Hardin nel 1968, in questo caso un eccesso di titoli di proprietà, elevando i costi di transazione, crea ostacoli ad un efficiente funzionamento del mercato. Le grandi imprese private, con un portafoglio tecnologico diversificato, di so-lito superano i problemi di anticommons con accordi per licenze reciproche sui propri brevetti. Questa soluzione risulta invece più difficile per i centri di ricerca pubblica, che non hanno una cultura di brevettazione delle loro inno-vazioni (cfr. caso del golden rice). Il risultato complessivo, rilevante soprat-tutto per i Pvs, è la minore disponibilità di innovazione nel dominio pubblico.

Vista da una prospettiva economica, la conoscenza è un bene intangibile, dotata delle caratteristiche di quello che gli economisti chiamano il “bene pubblico”: “non rivalità” e “non escludibilità”. Non rivalità significa che l’uso di un’idea da parte di più persone contemporaneamente non impedisce, osta-cola o sminuisce l’uso che di essa può fare il suo primo creatore; piuttosto, l’ampia diffusione della nuova conoscenza accresce i vantaggi a beneficio di tutti. Non escludibilità sta ad indicare che il bene è per sua natura scarsamente appropriabile, cioè che è difficile se non impossibile impedire che un’unità del bene soddisfi un infinito numero di utilizzatori a costi marginali prossimi allo zero. Fuori dal gergo disciplinare, significa che colui che per primo ha conce-

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

362

pito un’idea innovativa, non appena la comunica ad un amico ne perde la ca-pacità di controllo (e di conseguenza gli è difficile appropriarsi dei benefici economici che possano derivare da eventuali applicazioni industriali o com-merciali della “sua” idea).

Gli economisti riconoscono un fallimento del mercato nella gestione dell’informazione e della conoscenza (Arrow, 1972; Demsetz, 1970; Gros-sman, Stiglitz, 1980). La teoria economica rileva infatti un conflitto tra gli in-centivi necessari alla produzione dell’informazione (che richiederebbero l’attribuzione di titoli proprietari) e l’efficienza della sua diffusione, che ri-chiederebbe il libero accesso. Se, quindi, l’informazione è diffusa a costi pros-simi allo zero non ci sarebbe alcun incentivo a generarla, ma se si pone un co-sto alla sua diffusione (derivante dall’attribuzione di un titolo di proprietà), il mercato dell’informazione non è più efficiente6.

Queste caratteristiche della conoscenza, derivanti dalla sua stessa natura, possono essere viste come un fattore positivo, dal punto di vista sociale, per le esternalità positive che esse creano; o negativo, perché sono un disincentivo alla ricerca privata. In assenza di protezione brevettuale, chi ha investito in Ricerca e Sviluppo può, a causa dell’imitazione, perdere il controllo dei risultati della propria attività e non riuscire a recuperare i costi dell’investimento fatto.

I corni del dilemma sono, dunque: come creare e mantenere un ambiente favorevole all’investimento privato, pur mantenendo bassi i costi della diffu-sione dell’innovazione, che i brevetti tendono a far aumentare?

L’equilibrio tra i due obiettivi è importantissimo, perché se si esagera “dal lato della protezione” si rischia di creare dei monopoli con poteri di controllo molto forte sulle attività innovative, che finiscono per ostacolare la nascita di nuovi creatori (questo è, secondo alcuni studiosi ed operatori, quanto è avve-nuto con Microsoft). In mancanza di un adeguato livello di protezione, invece, si favoriscono i free riders se non addirittura il plagio e la pirateria.

La teoria economica non ha una risposta certa e definita a questi problemi. Si tratta, piuttosto, di verificare caso per caso, a livello empirico, gli effetti d’incentivo provocati dalla proprietà intellettuale contro i suoi costi, in termini di efficienza, sia statica (prezzi di monopolio), che dinamica: ostacoli alla diffu-sione dell’innovazione e all’emergere di nuovi creatori, al perseguimento di o-biettivi di lungo periodo tramite la diversità di approcci e l’esplorazione di più campi del sapere, obiettivi che solo la ricerca pubblica può perseguire (Winter, 1993; Malerba, Torrisi, 2003; Callon, 1994; Gambardella, Pammolli, 2003).

L’economia dell’innovazione ci invita, insomma, a tenere presente che, a causa della presenza di esternalità positive, le imprese private hanno incentivi

6 I brevetti sono, infatti, considerati un compromesso, un second best dall’economia liberista.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

363

sub-ottimali a produrre conoscenza. Solo il sistema pubblico può tenere conto dei vantaggi complessivi, individuali e collettivi (Gambardella, Pammolli, 2003; Fonte, 2004b).

Perciò, dal punto di vista teorico, le soluzioni più efficienti al problema della produzione dei beni intangibili dovrebbero prevedere il ricorso ad un in-sieme di strumenti (Ostrom e Ostrom, 1977), che comprendono modalità di-verse di produzione pubblica sostenute tramite la tassazione, interventi mirati a incentivare la produzione privata del bene tramite l’assegnazione di diritti di proprietà o, infine, (risorsa generalmente poco considerata nelle politiche), l’incentivazione di forme sociali e collettive di produzione dell’innovazione.

La privatizzazione e la creazione di mercati non è l’unico strumento efficien-te nella gestione delle risorse, specialmente quando si tratta della produzione di beni pubblici come la conoscenza, che ha una lunga tradizione sia di produzione decentrata in istituzioni diverse dalle imprese, basata su motivazioni extra-economiche di “prestigio e curiosità intellettuale” (Arrow, 1962 in Gambardel-la, Pammolli, 2003), sia di ampia diffusione basata sul libero accesso.

Molta della confusione teorica che regna nel dibattito sui beni pubblici la dobbiamo al famoso articolo di Hardin (1968) prima citato. Hardin era un eco-logo e microbiologo dell’Università della California di Berkeley. In quello che è diventato il suo articolo più famoso, l’interesse principale dell’autore riguarda il problema della sovrappopolazione. In una prospettiva neo-malthusiana, la tesi sostenuta da Hardin concerne la necessità di limitare il libero accesso al “diritto di riproduzione”, al fine di controllare la sovrappopolazione del pianeta ed evi-tare l’esaurimento delle risorse. Per svolgere quest’argomento, egli riporta l’esempio di un pascolo ad accesso libero (a pasture open to all), considerato come rappresentativo della logica economica dei “beni comuni”. Più autori (O-strom, 1990) hanno osservato che i pascoli comuni non erano ad accesso com-pletamente libero, ma, piuttosto, regolamentato da complesse norme comunita-rie. Una prima distorsione del ragionamento di Hardin è dunque quello di iden-tificare i “beni pubblici” con i “beni comuni” e questi con i “beni a libero acces-so”. In ogni caso, la soluzione prospettata da Hardin non è l’allocazione di titoli di proprietà privata, ma la regolamentazione del diritto, attraverso mutual coer-cion, mutually agreed upon by the majority of people affected7.

Nonostante molte delle tesi sostenute da Hardin non sarebbero condivise in una visione liberista e libertaria dell’economia e della società8 (Thompson, 2000), sta di fatto che la metafora della “tragedia dei beni comuni” è divenuto

7 «Misure obbligatorie concordate reciprocamente dalla maggioranza delle persone interessate». 8 Ricordiamo che il Paese che ha adottato più decisamente la soluzione prospettata da Har-

din per affrontare il problema della sovrappopolazione è la Cina comunista.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

364

il principale argomento di persuasione della economia liberista quando si vuo-le invocare una politica di privatizzazione, specialmente dopo la caduta dei regimi comunisti.

5. La commedia dei beni collettivi: nuove e vecchie forme di produzione, nuovi e vecchi diritti Il rafforzamento generalizzato dei regimi di proprietà intellettuale di tipo

privatistico ed esclusivo, nei vari campi dell’informazione, della cultura, della farmaceutica e delle biotecnologie, rivela un atteggiamento distorto a favore della proprietà privata individuale (di un inventore, di un’impresa), con una conseguente sottovalutazione dei suoi costi sociali.

Quest’evoluzione è in completa dissonanza con i risultati di numerosi studi in campo economico, sociologico, giuridico, i quali mettono in risalto che: – l’innovazione è il risultato di uno sforzo cumulativo e collettivo, che pog-

gia sulle conoscenze acquisite nel corso del tempo e dall’interazione di numerosi soggetti, spesso con una cultura comune;

– dal punto di vista degli incentivi alla produzione dei beni pubblici, nella storia non mancano esempi di produzione efficiente di beni e servizi senza l’incentivo del compenso economico derivante da un titolo di proprietà (la ricerca universitaria, il free software; la conoscenza tradizionale, le attività di volontariato…). Meno citato dell’articolo di Hardin, l’articolo di Carol Rose “The comedy

of the commons” (1986) illustra e analizza numerose situazioni empiriche, in cui la gestione collettiva dei beni comuni non solo non è sfociata in tragedia, ma anzi ha rappresentato una forma di gestione più efficiente della proprietà privata o pubblica del bene. In Governing the Commons (1990), Elinor O-strom mette in luce la stabilità e l’evoluzione delle istituzioni per l’azione col-lettiva, partendo dall’assunzione della capacità degli agenti di interagire tra loro, di auto-organizzarsi e di auto-governarsi.

La letteratura sociologica ed economica sui network (spesso basata sull’analisi dei network innovativi, come negli studi di Callon 1988 e 1994 e Latour 1988 e 1989) rileva le caratteristiche delle “reti” come una peculiare forma organizzativa di produzione scientifica e tecnologica in cui le relazioni interpersonali e la fiducia hanno un ruolo di centrale importanza. La letteratu-ra sui distretti industriali e sui sistemi locali di produzione (Beccattini, 1989, 2000; Garofano, 2003), considera il “territorio” come un meccanismo di coor-dinamento della produzione e dello scambio basato sulla “community gover-nance” (Bowles, Gintis, 2002).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

365

Vari economisti hanno cercato di studiare le motivazioni alla base dell’azione volontaria o in ogni modo “disinteressata” rispetto all’incentivo del denaro. Ad es. Lerner e Tirole (2002) hanno cercato di individuare le mi-cro-motivazioni alla base della partecipazione volontaria alla creazione di sof-tware nel Free Software Movement9, mettendo in luce motivazioni socio-psicologiche e gratificazioni intrinseche.

In particolare è qui di interesse il dibattito, teorico ed empirico, sulle motiva-zioni socio-psicologiche all’azione economica e sulla relazione tra queste e le mo-tivazioni monetarie10. Lo studio, relativamente recente, considerato più sistema-tico e completo a riguardo è quello di Frey (1997) (vedi Benkler, 2004 e 2006).

Il punto teorico rilevante nel dibattito è il seguente: che relazione esiste tra motivazione socio-psicologia e motivazione monetaria? Può un incentivo mo-netario far diminuire, piuttosto che accrescere, il livello di un’attività svolta su base volontaria? Se le due motivazioni vanno in parallelo, vale a dire sono in-dipendenti l’una dall’altra, stabilire, ad esempio, un compenso monetario per un’attività volontaria, come ad esempio le donazioni di sangue, non dovrebbe far diminuire le donazioni, ma anzi potrebbe far aumentare il sangue raccolto (tesi sostenuta da Arrow, 1972). Se, invece, le due motivazioni sono correlate negativamente tra loro, l’istituzione dell’incentivo monetario può portare ad una diminuzione della quantità assoluta di sangue raccolto. Numerosi autori (citati da Benkler, 2002 e 2004) hanno affrontato questo problema, sia racco-gliendo evidenza empirica sia elaborando modelli analitici e sperimentali.

Frey (1997) mostra che il livello di un’attività svolta per motivazioni non-monetarie può ridursi dopo l’introduzione di una ricompensa monetaria. Que-sta conclusione è particolarmente importante, perché stabilisce che la produ-zione di beni e servizi basata sull’azione volontaria, può essere minacciata (crowded out) da scelte istituzionali errate, come la messa in atto di sistemi d’incentivazione monetaria. D’altra parte, si sottolinea che potrebbe essere u-

9 Il movimento del Software libero è nato nel 1983, quando Richard Stallman ha annunciato il progetto G-not-Unix (Gnu) e la creazione della Free Software Foundation. L’obiettivo del movimento è di produrre sofware libero dai vincoli delle licenze proprietarie. Per alcuni quest’obiettivo è vissuto come un imperativo morale (un software libero per una società più libera). Per altri, più pragmaticamente, il software libero è un valore sociale ed economico, ma non implica una condanna di tutto il software proprietario. La Free Software Foundation si ba-sa su una licenza d’uso particolare, la Gnu General Public Licence (Gnu Gpl), detta anche co-pyleft, in opposizione a copyright. Essa pone come condizione d’uso del software, distribuito liberamente, l’impegno a mettere a disposizione il risultato del proprio lavoro, che contiene o è derivato dal programma, alle stesse condizioni della Gpl.

10 Questo dibattito è qui ripreso seguendo Benkler (2004), il quale ricorda lo studio di Titmuss (1970) sul confronto tra il sistema delle donazioni di sangue negli Usa (a pagamento) e nel Regno Unito (basato sulle donazioni volontarie), dibattito cui ha partecipato anche Arrow (1972).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

366

tile, in casi di fallimento del mercato e dello stato, mettere in atto politiche ad hoc per sostenerla11.

Il caso della produzione libera di software ha suscitato molto interesse, so-prattutto per il fatto che non si tratta, in questo caso, di sopravvivenze di for-me “precapitalistiche”, bensì di forme organizzative favorite dalle nuove con-dizioni tecnologiche delle società più avanzate.

Benkler (2002, 2004 e 2006) in particolare usa questo caso per dimostrare, tramite un modello analitico12, la specificità di quella che lui chiama la “pro-duzione sociale condivisa” e la necessità di pensare a politiche adatte a soste-nerla. Si tratta di una forma di produzione e di scambio con meccanismi di coordinamento nettamente differenziati dal meccanismo dei prezzi (mercato) o del comando (impresa). Non è un sistema destinato a sostituire gli altri mo-delli di produzione13, ma può essere superiore a loro quando, per esempio, si tratta di allocare la creatività umana e altri beni, non necessariamente pubbli-ci, in condizioni tecnologiche particolari.

L’Autore (2004) individua una serie di circostanze, sociali e tecnologiche della società dell’informazione che rende oggi, in talune circostanze, tale for-ma più vantaggiosa.

11 Alla stessa conclusione arrivano Bowles e Gintis (2000). Secondo loro la “community

governance”, basata sull’interazione ripetuta e frequente di un gruppo di persone, funziona me-glio in alcuni casi: quando, ad esempio, le interazioni tra i soggetti sono complesse o quando le informazioni rilevanti non sono facilmente verificabili e i problemi non possono essere regolati con contratti completi (mercato) o dall’intervento esterno dello stato.

12 Ogni individuo razionale prima di intraprendere un’azione valuta la ricompensa totale: R = M + H + SP, dove M = ricompensa monetaria, la cui utilità marginale decresce al crescere della disponibilità

di denaro; H = ricompensa edonistica intrinseca, derivante dall’azione intrapresa; SP = ricompensa socio-psicologica, legata alle funzioni sociali e culturali di un’azione. La funzione è resa interessante dal fatto che, mentre si assume che H sia una variabile indipen-

dente, M e SP possono essere correlati tra loro positivamente o negativamente. Nel caso in cui le due variabili sono negativamente correlate, un aumento della ricompensa monetaria, può, in certe situazioni, disincentivare, piuttosto che incentivare, l’azione. Individui, la cui utilità marginale del denaro è bassa e per i quali il valore della remunerazione socio-psicologica è elevata, potrebbero intraprendere un’azione solo all’interno di un modello di organizzazione non-proprietario. Ad e-sempio, una persona benestante potrebbe essere indotta a fare un lavoro che implica distribuire pasti a tavola, solo nel contesto di un’associazione umanitaria. O, ancora, lasciare una mancia a casa di un amico, dopo un invito a cena, potrebbe cancellare ogni ulteriore invito a cena.

13 Anche Bowles e Gintis (2000) sostengono che “le politiche dovrebbero riconoscere e mi-gliorare le complementarità fra mercato, stato e comunità”.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

367

Quando lo stato della tecnologia risulta in un eccesso di capacità ampiamente di-stribuito in piccole porzioni tra un numero grande di persone, la “produzione sociale condivisa” è più efficiente del mercato… Più basso è l’ammontare di capacità in ec-cesso posseduta da ciascun proprietario relativamente all’ammontare totale richiesto per la produzione, più alti sarebbero i costi di transazione necessari per raggiungere la funzionalità richiesta dal mercato e più alta la differenza di costi tra mercato e “con-divisione sociale” (Benkler, 2004)14.

Nel caso della produzione volontaria su Internet, le “capacità in eccesso”

sono costituite dal tempo che ciascun individuo vuole dedicare a quell’attività di creazione e dalla capacità di comunicazione e di elaborazione dei personal computer, capacità distribuite in piccole porzioni tra un ampio numero di per-sone. Rispetto alla necessità di coordinare un così vasto numero di proprieta-ri/lavoratori, la forma di produzione basata sulla condivisione sociale permette di abbassare notevolmente i costi di transazione. Essa offre, in primo luogo, un vantaggio nell’allocazione delle risorse umane ai diversi compiti del pro-cesso produttivo (minor costo opportunità dell’informazione): rispetto agli al-tri due modi di organizzativi, perde meno informazioni su chi sia il più adatto a svolgere determinati compiti lavorativi. Ognuno può infatti allocarsi da sé ai compiti che più gli sono congeniali, mentre i risultati del suo lavoro sono va-lutati da “pari”. In secondo luogo, rimuovere la proprietà e i contratti, alla ba-se dei principi organizzativi della collaborazione, permette ad un gruppo più ampio di potenziali collaboratori (di quanti potrebbero essere vincolati da un’azienda o da un contratto), di interagire con un insieme più ampio di risor-se intellettuali (di quante potrebbero essere mobilitate da un’impresa o da un contratto), nella ricerca di nuovi progetti e opportunità di collaborazione (effi-cienza allocativa).

Riconoscere che la “condivisione sociale” è più efficiente del mercato in determinate situazioni ha notevoli implicazioni di politica economica. Per e-sempio, quando si è di fronte a proposte politiche per cambiamenti istituziona-li che riguardano pratiche di produzione e di scambio, bisognerebbe conside-rare i loro effetti non solo sulla produzione di mercato, ma anche sulla produ-zione per “condivisione sociale”. L’estensione di vecchie pratiche istituzionali (estensione dei diritti di PI, tra cui il copyright) sotto nuove condizioni tecno-logiche può minacciare, piuttosto che migliorare la capacità di una società di produrre e fornire quel bene (ad esempio il software, la biodiversità).

14 In altri termini, quando le interazioni sono complesse e le informazioni sul comportamen-

to degli attori sono difficili da raccogliere e verificare, si ha generalmente un fallimento del mercato e dello stato. In questi casi promuovere una forma sociale di attività economica può essere più efficiente (vedi anche Bowles, Gintis, 2002).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

368

Nel mercato dell’informazione seguire una logica massimalista (Aoki, 1998), vale a dire massimizzare i diritti privatistici di proprietà intellettuale, può essere un approccio sbagliato, se il fine è usare in modo efficiente il capi-tale umano disponibile.

L’economia istituzionale ha evidenziato i costi associati al funzionamento dei regimi di proprietà. Demsetz (1970), infatti, sostiene che è conveniente stabilire un sistema di proprietà privata quando i benefici derivanti da una tale struttura sono superiori ai suoi costi.

I costi della creazione di titoli proprietari sono sia indiretti (costi opportu-nità: perdita di benessere sociale), sia diretti: costa definire i diritti, monitorare le violazioni, punire i colpevoli (Rose, 1998). I costi diretti variano a seconda della natura del bene: la protezione dei diritti di proprietà è più semplice (me-no costosa) quando il bene è più facilmente “appropriabile” (ad es. la terra); è più complessa (più costosa) per i beni intangibili.

I diritti di proprietà, d’altra parte, sono utili, dal punto di vista dell’eco-nomia, perché limitano la litigiosità delle persone sull’uso delle risorse scarse, e favoriscono il commercio e, quindi, la specializzazione. Tuttavia, nel caso di beni difficilmente appropriabili (come i beni intangibili), l’attribuzione di tito-li proprietari privatistici può far può aumentare, invece che diminuire, la liti-giosità. Non sempre è quindi desiderabile convertire le risorse in proprietà privata individuale.

Ciò può derivare dal fatto che (Rose, 1998): – è difficile stabilire diritti completi. L’asimmetria nella distribuzione dei di-

ritti può creare distorsioni e ingiustizie. In questi casi, invece che portare pace sociale e benessere, i diritti di proprietà fomentano conflitti, inegua-glianze e sono distruttivi delle risorse stesse.

– La risorsa si configura, per sua natura, come un tutto difficilmente scom-ponibile in blocchi di diritti proprietari. Secondo alcuni ecologi, la natura e i beni ambientali hanno queste caratteristiche. Per questo si oppongono alla creazione di “diritti ibridi” (i diritti di emissioni) e invocano, invece, la ne-cessità della regolamentazione pubblica. In alcuni di questi casi può essere efficiente per l’economia promuovere

forme istituzionali e organizzative intermedie tra la proprietà individuale e la regolamentazione pubblica, anche se ci si addentra in aree legali molto com-plesse. Le difficoltà, tuttavia secondo Rose (2004), non sono solo di natura tecnica. C’è una difficoltà culturale, nella società moderna cresciuta sui valori dell’individualismo, nel riconoscere non solo il valore, ma anche la sola esi-stenza dei “beni collettivi”. Le difficoltà si acuiscono quando ai portatori dei diritti è attribuito uno status improprio: le donne, i popoli indigeni, gruppi in-definiti di persone le cui atività sanno più di “partecipazione politica che di un accordo contrattuale ben definito” (Rose, 2004).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

369

6. La biodiversità e la conoscenza tradizionale come “beni collettivi”

Il rafforzamento dei regimi di proprietà intellettuale sulle innovazioni ri-

guardanti la materia vivente minaccia non solo la ricerca pubblica, ma anche un altro dominio collettivo importante per l’agricoltura: la riproduzione delle sementi, quindi la biodiversità e la conoscenza tradizionale.

Le multinazionali agrobiotecnologiche hanno portato avanti le loro strategie di concentrazione lungo due vie. Hanno acquisito le principali imprese semen-tiere, fino alla scomparsa di una industria sementiera indipendente dall’industria agrochimica. Hanno organizzato una forte azione di lobbying per il rafforza-mento dei diritti di proprietà intellettuale esclusivi, che ha riguardato sia il ger-moplasma sia le conoscenze ad esso associate, con due conseguenze molto ne-gative dal punto di vista ambientale e sociale: la negazione del diritto secolare degli agricoltori di riutilizzare parte del proprio raccolto come semente, l’appropriazione da parte del detentore del titolo di proprietà delle innovazioni e delle conoscenze incorporate nelle varietà tradizionali (Tsioumanis et al., 2003).

L’attribuzione di titoli di proprietà sulle invenzioni biotecnologiche, dive-nuta un obbligo internazionale con l’accordo sui Trips, è, quindi, all’origine di una nuova forma di scambio ineguale nel mercato globale delle risorse geneti-che. Il prezzo valorizza e remunera le nuove tecnologie, ma non la materia prima e le innovazioni tradizionali incorporate nelle sementi o nel materiale genetico utilizzato per le trasformazioni. La diffusa percezione di questa in-giustizia ha minato le basi della legittimità dell’accordo sui Trips.

Le società tradizionali, molto più efficacemente delle società moderne, hanno conservato la diversità delle specie biologiche e hanno elaborato ed ac-cumulato conoscenze sulle loro caratteristiche, sulle pratiche di coltivazione o di allevamento, sul loro uso sostenibile. Presso queste società, le risorse gene-tiche sono generalmente gestite in modo collettivo.

Fino a tempi recenti, a parte la curiosità degli antropologi, la scienza mo-derna non riconosceva un grande valore a tali risorse (sementi, piante e cono-scenze). Oggi, invece, anche grazie alle biotecnologie, la conoscenza tradizio-nale sulle risorse genetiche delle piante coltivate o selvatiche è integrata nello sviluppo di prodotti “moderni” (farmaci, prodotti chimici e nuove varietà di sementi) e di conseguenza il loro valore è cresciuto enormemente.

Dal punto di vista delle istituzioni globali della proprietà intellettuale, si è venuta tuttavia a creare una situazione in qualche modo paradossale.

A livello locale e comunitario, le risorse genetiche e le conoscenza tradi-zionali sono beni collettivi, gestiti secondo usi e costumi propri delle diverse comunità o tribù e tramandati oralmente da generazione in generazione. A li-

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

370

vello globale, esse sono invece considerate “dominio pubblico” liberamente disponibili. Il dominio pubblico non è protetto come “bene di tutti”, è piutto-sto considerato “res nullius”, qualcosa di cui il primo arrivato può appropriar-si liberamente, senza chiedere permessi e senza pagare costi.

Al contrario, sin dagli anni ’70, l’industria “della conoscenza” dei paesi ricchi, esibendo grandi cifre di perdite economiche a causa della pirateria, ri-chiede e ottiene, con l’accordo sui Trips, un trattato internazionale per la pro-tezione globale dei diritti di proprietà intellettuale, forgiato sul modello delle legislazioni occidentali.

C’è da aggiungere che, alcuni paesi, tra cui gli Stati Uniti (sezione 102 del-la legge sui brevetti) e il Giappone, hanno una legislazione brevettuale per cui la “conoscenza orale” dei paesi stranieri non è riconosciuta come “prior art”, che impedisca la richiesta e la concessione di un brevetto.

Accade quindi che, mentre si trattano le proprie conoscenze come beni privati, si ritiene legittimo appropriarsi delle conoscenze altrui senza pagare alcun compenso. Si deve dunque chiamare “pirata” chi riproduce senza auto-rizzazione un CD musicale anche per un uso non commerciale, ma non il ri-cercatore pubblico o privato che, dopo una spedizione presso una comunità indigena, brevetta l’innovazione basata sulle conoscenze lì acquisite. Quest’asimmetria è stata rilevata con forza da Vandana Shiva:

Gli Stati Uniti hanno accusato il Terzo Mondo di biopirateria. La stima delle mancate

royalties è di 202 milioni di dollari l’anno per i prodotti chimici per l’agricoltura e di 2,5 miliardi per quelli farmaceutici. Secondo uno studio del Dipartimento del commercio e-stero del 1986, le imprese Usa sostengono di aver perso 23,8 miliardi di dollari all’anno a causa dell’inadeguata protezione della proprietà intellettuale. Ma se si include nel calcolo il contributo degli agricoltori e dei popoli nativi del Terzo Mondo […] i ruoli si invertono e gli USA sarebbero debitori verso il Terzo Mondo di 302 milioni di dollari di royalities agricole e di 5,1 miliardi per i prodotti farmaceutici (Shiva, 1999, pp. 75-76).

Il rafforzamento e l’estensione su scala globale dei regimi di proprietà in-

tellettuale originati nei paesi ricchi ha fatto, per contrasto, emergere la neces-sità di immaginare nuovi modi per proteggere le risorse culturali e biologiche (le risorse genetiche e le conoscenze tradizionali ad esse associate) dei paesi poveri (Aoki, 1998; Tobin, 2004). Tanto più che, mentre si è riconosciuto il loro interesse per la scienza moderna e la loro importanza per una larga parte della popolazione mondiale, la conoscenza tradizionale e la biodiversità sono minacciate da un tasso di erosione senza precedenti15. Si pone quindi il pro-

15 Principalmente a causa della diffusione di modelli tecnologici e di politiche nazionali e internazionali distruttivi.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

371

blema di come fermare tale erosione e come garantire le condizioni per la pro-tezione e lo sviluppo della biodiversità (Girsberger, 2000).

La biodiversità è creata attraverso l’interazione tra le comunità umane e gli ecosistemi locali. Porsi il problema della conservazione e della protezione del-la biodiversità significa salvare il dinamismo di questo nesso, assicurando alle popolazioni che hanno creato e conservato la diversità biologica le condizioni di vita per poter continuare a fare ciò (Coombe, 2001).

L’esigenza di ripristinare un certo livello di giustizia internazionale nella gestione della conoscenza e della tecnologia, si intreccia inestricabilmente con l’esigenza di garantire altri diritti, non solo “intellettuali”, ma “umani”: il di-ritto alla sovranità alimentare, all’identità culturale, ad essere attori della ge-stione delle proprie risorse.

Non si tratta quindi solo di riformare il regime di proprietà intellettuale per combattere la biopirateria dei paesi ricchi, ma anche di riconoscere nuove forme di diritti socio-economici, che, da un lato, diano il potere alle comunità tradizionali di regolare l’accesso alle risorse genetiche, dall’altro, fermino l’erosione e creino le condizioni per la tutela della diversità culturale integrata con la diversità biologica.

La contestazione dei diritti di proprietà intellettuale ha portato alla ribalta problemi, tensioni e conflitti più generali e profondi, che la Wto, la Wipo e la stessa Cbd, in quanto organizzazioni specialistiche, non sono in grado, da so-le, di gestire. Problemi che, d’altra parte, sono ineludibili se si vuole ridare le-gittimità ai Trips e alle istituzioni globali per la protezione della biodiversità16.

7. Considerazioni conclusive Pur non essendo intangibile, come la conoscenza, la semente è una risorsa

fisica particolare. È materia vivente, che si riproduce con facilità. Presenta in qualche misura le caratteristiche dei beni pubblici: è difficilmente appropria-bile e scarsamente rivale. La sua produzione è poco costosa e, nella lunga sto-ria dell’agricoltura, è sempre stata una risorsa ampiamente distribuita. La ca-pacità innovativa nel miglioramento delle varietà vegetali ed animali, sia quel-la informale degli agricoltori, che quella formale, portata avanti nelle universi-tà, è stata, per lungo tempo, basata su un modello di produzione decentrato, cooperativo e inclusivo, che ha contribuito alla conservazione e allo sviluppo (piuttosto che all’esaurimento) di numerose specie e varietà, ossia della biodi-

16 Ricordiamo che la revisione dell’art. 27.3b dei Trips è in corso da ben cinque anni e non

ha portato ancora a risultati concreti.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

372

versità. Questo modello è ancora dominante in tante comunità di agricoltori in numerosi paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, e nei centri di ricerca pubblici, sebbene sempre più minacciato. La Convenzione sulla biodiversità riconosce il contributo fondamentale delle tecniche e delle conoscenze tradi-zionali dei popoli indigeni alla conservazione della biodiversità e allo svilup-po sostenibile (art. 8j).

È opinione comune degli esperti, che la biodiversità è, invece, diminuita con l’industrializzazione dell’agricoltura e con la Rivoluzione Verde (Esqui-nas Alcàzar, 1991). Entrambe sono state accompagnate da innovazioni istitu-zionali, che hanno introdotto forme di appropriazione esclusiva delle sementi, basate su misure legislative (Plant Variety Protection Act) o sul segreto com-merciale (nel caso delle varietà ibride). La diffusione delle agrobiotecnologie rafforza questa tendenza, per il modello tecnico (basato sulle monocolture in-dustriali) e istituzionale (l’introduzione del brevetto sulle innovazioni riguar-danti la materia vivente), che esse promuovono.

Il tentativo di creare un mercato globale delle risorse genetiche porta dunque con sé una doppia minaccia: una di natura più specificamente ambientale, l’erosione della biodiversità; l’altra di natura economico-sociale, l’erosione del-le risorse genetiche come dominio pubblico e/o collettivo. Sebbene così formu-late sembrino minacce molto astratte, la posta in gioco è molto elevata: riguarda l’equilibrio della vita sul pianeta e la sopravvivenza di milioni di agricoltori po-veri, che attorno alle risorse genetiche hanno costruito un sistema complesso di sussistenza e di relazioni sociali, che non risponde alle regole del mercato.

Mentre la teoria economica non dà indicazioni certe sul legame di causalità tra regime di proprietà intellettuale e innovazione, la storia insegna che un uso libero e una gestione comune hanno creato condizioni più favorevoli alla con-servazione sostenibile delle risorse genetiche. Nella misura in cui la libera di-sponibilità o la proprietà comune delle risorse genetiche ne stimolano l’uso diversificato, promuovono anche la conservazione della biodiversità.

Nella tendenza generale alla privatizzazione delle risorse intellettuali e na-turali, possiamo citare almeno due esempi controcorrente. Il primo è il Tratta-to Internazionale sulle Risorse genetiche per l’agricoltura e l’alimentazione. Negoziato nell’ambito della Commissione per le risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione della Fao, il Trattato ha creato un Sistema mul-tilaterale di scambio, che mira a proteggere le risorse genetiche custodite nelle banche del germoplasma del Consultative Group on International Agricultu-ral Research (Cgiar) come “bene comune”, non appropriabile privatamente e liberamente disponibile alla comunità internazionale nel rispetto di condizioni comunemente stabilite e condivise (Fowler, 2003; Fonte, 2004).

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

373

Il secondo esempio è più direttamente ispirato dal Free Software e dalla tradizione delle pratiche innovative informali degli agricoltori tradizionali. Il movimento per una biotecnologia liberamente accessibile, Biological Innova-tion for Open Society (Bios), sostenuto dall’organizzazione Cambia (Center for the Application of Molecul Biology to International Agriculture), tenta di aggirare il potere oligopolistico delle multinazionali agrobiotecnologiche, mettendo a disposizione dei ricercatori della comunità internazionale, spe-cialmente dei paesi poveri, tecnologie innovative sulla base di accordi di con-divisione reciproca.

In un contesto di regolazione globale ostile, tuttavia, le iniziative della società civile da sole non possono essere sufficienti a risolvere i problemi e le sfide che la ricerca pubblica per l’agricoltura, la gestione della biodiversità e la valo-rizzazione delle conoscenze tradizionali dovranno affrontare nei prossimi anni.

Riferimenti bibliografici Arrow K.J. (1962), «Economic Welfare and the Allocation of Resources for Invention»,

Nelson R.R. (ed.), The Rate and Direction of Inventive Activity. Economic and So-cial Factors, Princeton University Press, Princeton.

Arrow K.J. (1972), «Gifts and Exchanges», Philosophy and Public Affairs, I, 4. Aoki K. (1998), «Neocolonialism, Anticommons Property, and Biopiracy in the (Not-

So-Brave) New World Order of International Intellectual Property Protection», In-diana Journal of Global Legal Studies, 6, 11, disponibile anche sul sito:

www.law.uoregon.edu/faculty/kaoki/site/articles/notsobrave.pdf. Becattini G. (1989), «Riflessioni sul distretto industriale marshalliano come concetto

socio-economico», Stato e Mercato, 25. Becattini G. (2000), «Lo sviluppo locale nel mercato globale: riflessioni controcorren-

te», QA – La Questione Agraria, 1. Benkler Y. (2006), The Wealth of Networks: How Social Production Transforms Mar-

kets and Freedom, versione on-line sul sito http://www.benkler.org. Benkler Y. (2002), «Coase’s Penguin, or, Linux and The Nature of the Firm», disponi-

bile sul sito: www.benkler.org/CoasesPenguin.html. Benkler Y. (2004), «Sharing Nicely: On Shareable Goods and the Emergence of Sha-

ring as a Modality of Economic Production», The Yale Law Journal, 114. Boyle J. (2003), «The Second Enclosure Movement and the Construction of the Public

Domain», Law and Contemporary Problems, 66, 1, 2, disponibile sui siti: http://www.creativecommons.org/ e http://www.law.duke.edu/pdf.

Boyle J. (2003b), «Enclosing the Genome: What the Squabbles over Genetic Patents Could Teach us», http://www.creativecommons.org/.

Bowles S., Gintis H. (2002) «Social Capital and Community Governance», Economic Journal, 112, 483.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

374

Callon M. (1994), «Is Science a Public Good?», Science, Technology and Human Values, 19, 4.

Callon M. (1988), La Science et ses réseaux. Genèse et circulation des faits scientifi-ques, La Découverte, Parigi.

Coombe R.J. (1998), «Intellectual Property, Human Rights and Sovereignty», Indiana Journal of Global Legal Studies, 659.

Coombe R.J. (2001), «The Recognition of Indigenous people and Community Tradi-tional Knowledge in International Law», St. Thomas Law Revies, 14, 275.

Demsetz H. (1970), «The Private Production of Public Goods», Journal of Law and Economics, 13, 293.

Esquinas Alcazar J. (1991), «Un sistema globale per la difesa delle risorse genetiche vegetali». Intervista a cura di Maria Fonte, La Questione Agraria, 44.

Etc Group (2005), Oligopoly, Inc. 2005, Concentration in corporate power, Commu-niqué n. 91, disponibile sul sito www.etcgroup.org.

Fonte M. (2005), «Diritti di proprietà intellettuale ed erosione del dominio pubblico nel futuro della produzione alimentare», Agriregionieuropa, a. 1, n. 3, disponibile sul sito www.agriregionieuropa.univpm.it.

Fonte M. (2004a), Organismi geneticamente modificati. Monopolio e diritti, Franco Angeli, Milano.

Fonte M. (2004b), «Proprietà intellettuale e dominio pubblico: il caso delle agrobio-tecnologie», QA – La Questione Agraria, 3.

Frey B.S. (1997) Not just for the money: An Economic Theory of Personal Motiva-tion, Edward Elgar Publisher, Northampton, MA.

Gambardella A., Pammolli F. (2003), «L’economia della conoscenza tra sistema pub-blico e incentivi privati», Malerba F. (a cura di), Economia dell’innovazione, Ca-rocci, Roma.

Garofoli G. (a cura di) (2003), Impresa e territorio, il Mulino, Bologna. Girsberger M.A. (2000), «Intellectual Property Rights and Traditional Knowledge:

background, terminology and issues arising», paper presented at the Workshop Biological Diversity and Biotechnology, march 9-11-2000, IEW-Webside.

Grossman S.J., Stiglitz J.E. (1980), «On the Impossibility of Informationally Efficient Markets», American Economic Review, 70, 393.

Hardin G. (1968), «The Tragedy of the Commons», Science, 162. Heller M.A., Eisenberg R.S. (1998), «Can Patent Deter Innovation? The Anticom-

mons in Biomedical Research», Science, 280, disponibile sul sito: www.sciencemag.org/cgi/content/full/280/5364/698.

Hodgson G.M. (2000), Evolution and Institutions: On Evolutionary Economics and the Evolution of Economics, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK.

James C. (2005), «Global Status of Commercialized Biotech/GM Crops: 2005», ISAAA Briefs No. 34. ISAAA, Ithaca, NY, disponibile sul sito:

http://www.isaaa.org/kc/bin/briefs34/es/index.htm. Latour B. (1989), La Science en Action, La Découverte, Paris. Latour B., Woolgar S. (1988), La vie de laboratoire: la production des faits scientifi-

ques, La Découverte, Paris.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

375

Lerner J., Tirole J. (2002), «Some Simple Economics of Open Source», Journal of In-dustrial Economics, 50, 2.

Malerba F. (a cura di) (2003), Economia dell’innovazione, Carocci, Roma. Malerba F., Torrisi S. (2003), «La politica pubblica», Malerba F. (a cura di), Econo-

mia dell’innovazione, Carocci, Roma. Ostrom E. (1990), Governing the Commons, Cambridge University Press, Cambridge. Ostrom V., Ostrom E. (1977), «Public Goods and Public Choices», workshop in Poli-

tic Theory and Policy Analysis, Indiana University, disponibile sul sito: http://sobek.colorado.edu/~mciverj/4224_syl.html.

Pardey P.G., Beintema N.M. (2001), «Slow Magic. Agricultural R&D. A Century af-ter Mendel», Iffpri Food Policy Statement, 36.

Rose C. (1986), «The Comedy of the Commons: Custom, Commerce and Inherently Public Property», University of Chicago Law Review, 53.

Rose C. (1998), «The several Futures of Property. Of Cyberspace and Folk Tales, E-mission Trades and Ecosystems», Minnesota Law Review, nov. 1998: http://cyber.law.harvard.edu/openlaw/eldredvashcroft/cyber/rose.html.

Shiva V. (1999), Biopirateria, Cuen, Napoli. Thompson P.B. (2000), «Grades and standard in the context of international trade:

some ethical considerations», Cahiers d’Économie et Sociologie Rurales, 55-56. Titmuss R.M. (1970), The Gift Relashionship: From Human Blood To Social Policy,

Allen & Unwin, London (ripubblicato nel 1997 da The New Press, New York, con introduzione di A. Oakley e J. Ashton).

Tobin B. (2004), «Towards an international regime for protection of traditional kno-wledge: reflection on the role of intellectual property rights», paper presentato alla International Conference on Bioethical Issues of Intellectual Property in Biote-chnology, 6-7 september 2004, Tokyo International Exchange Center, Tokyo, Ja-pan, disponibile sul sito: http://ipgenethics.group.shef.ac.uk/conference/papers/Tobin.pdf.

Tsioumanis A., Mattas K., Tsioumani E. (2003), «Is Policy Towards Intellectual Pro-perty Rights Addressing the Real Problems? The Case of Unauthorized Appropria-tion of Genetic Resources», Journal of Agriculture & Environmental Ethics, 16, 6.

Winter S. (1993), «Patents and Welfare in an Evolutionary Model», Industrial and Corporate Change, 2.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.

377

Alfredo Massart Ringrazio la collega per questa veramente completa e chiara esposizione di

principi generali e linee economiche che ci ha illustrato. Nel vedere l’atten-zione di molti giovani presenti, mi deriva l’obbligo di ringraziare il prof. Pe-trelli il quale ha portato al Seminario tutti i suoi studenti ed apprezzo partico-larmente anche questo sforzo del collega camerte.

Do ora la parola al prof. Francesco Bruno dell’Università del Molise che ci parlerà degli Ogm e della biodiversità.

Copyright © FrancoAngeli N.B: Copia ad uso personale. È vietata la riproduzione (totale o parziale) dell’opera con qualsiasi

mezzo effettuata e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita sia a pagamento.