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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE, DEL LINGUAGGIO, DELL’INTERPRETAZIONE E DELLA TRADUZIONE
Corso di Laurea Triennale in Comunicazione Interlinguistica Applicata
Prova finale
ARTUSI: WÖRTER DES GUTEN ESSENS LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE
E LA SUA TRADUZIONE IN TEDESCO.
LAUREANDO Shanel Talarico
RELATRICE
Goranka Rocco
CORRELATRICE
Marella Magris
Anno Accademico 2013/2014
V
INDICE
PREFAZIONE………………………………………………………………………………………….…………...……VII
INTRODUZIONE…………………………………………………………………………………………..……….....VIII
ABSTRACT.…………………………………………………………………………………...………………………..… XI
CAPITOLO I
UN RICETTARIO E UN LINGUAGGIO DEL CIBO PER LA GIOVANE
ITALIA……….………………………………………………………………………….………………………….…….…… 3
1.1. LA SCIENZA IN CUCINA, BREVIARIO DELLA CUCINA ITALIANA ……….……...….. 3 1.2. LA RICERCA PER UN ITALIANO UNITARIO……………..………………..………….……... 8
1.2.1. I RICETTARI PRE-ARTUSIANI…………………………..…………………………..….. 8 1.2.2. FORESTIERISMI E GEOSINONIMI NE LA SCIENZA IN CUCINA....................... 10 1.2.3. IL FIORENTINO: LA LINGUA DEL MANUALE ARTUSIANO……………………. 13
1.3. IL MANUALE ARTUSIANO: CONNUBIO TRA SAPERE ORALE E TRADIZIONE
SCRITTA....................................................................................................................................... 18
CAPITOLO II L’ARTUSI NEL PANORAMA EDITORIALE TEDESCO……………………..………………….....……….. 22
2.1. ARCAICIZZARE O ATTUALIZZARE L’ARTUSI…………………….…………...………...… 22 2.2. L’ ARTUSI IN GERMANIA……………………………………………………..…………..……… 28
CAPITOLO III UNA TRADUZIONE AL SERVIZIO DEI LETTORI E DEL MERCATO……………….……….……….. 35
3.1. LA SCIENZA IN CUCINA E I RICETTARI DEL DUEMILA……………..……….………. 35 3.2. VON DER WISSENSCHAFT DES KOCHENS: LA TRADUZIONE DEGLI ANEDDOTI
E DIE RIFERIMENTI CULTURALI………………………………………………………..……. 41 3.3. RICETTE E INGREDIENTI: UNA TRADUZIONE DEL GUSTO……………..…..…..…. 53
3.3.1. LE RICETTE…………………………...…………………………………………..………. 53
3.3.2. GLI INGREDIENTI………………………………………………………………..…….... 59
CONCLUSIONE.………………………………………………………………...……………………………………... 64
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI…………………………………………………….…………...……………. 65
VI
Giovane con canestra di frutta,
Caravaggio (Michelangelo Merrisi), 1593-94;
Roma, Galleria Borghese
“La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare, ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o che avete superata una difficoltà, provate
compiacimento e cantate vittoria.”
-Pellegrino Artusi
VII
PREFAZIONE
ricettari sono una raccolta di sogni e di ambizioni gastronomiche per
qualsiasi vero amante dei fornelli. Per me, il ricettario di Artusi
rappresenta questa raccolta di sogni, ma anche l’affetto per la terra che
mi ha cresciuto, ossia il Piemonte e le montagne che circondano il comune di
Cumiana, il legame verso le mie radici culturali e l’amore per il buon cibo, la
buona tavola, il buon vino e per la mia identità gastronomica. Pellegrino
Artusi fu il primo a comprendere quanto questi elementi fossero importanti
per determinare l’unità di un popolo e di una nazione, ma fu persino il primo
a comprendere e a stabilire che le origini di quel mosaico tutto italiano
chiamato cucina vanno ricercate nel sapere popolare e nelle mura dei
casolari di campagna.
In una società in cui si sente spesso parlare di biologico, slow food, finger
food, appetitizers, brunch, di prodotti freschi e di chilometro zero, l’Artusi
viene spesso dimenticato, nonostante fosse stato lui il primo a promuovere
l’idea dell’attualissimo «siamo quello che mangiamo» attraverso l’accurata
scelta di ingredienti più fini, selezionati, freschi e di stagione. È proprio la
valorizzazione della genuinità delle cucine di casa e delle esperienze
domestiche che mi ha spinto a basare il lavoro determinante la conclusione
del mio percorso formativo triestino su La Scienza in cucina e l’Arte di
mangiar bene, cercando di coniugare al meglio il mio amore per la cucina
familiare, quella delle mie nonne, della mia mamma e di mia zia, con la
passione per il tedesco e la traduzione.
I
VIII
INTRODUZIONE
ell’Italia del XXI secolo, pervasa dai ricettari e dai programmi
televisivi dei “grandi” chef, un libro sembra ancora sopravvivere:
La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Manuale pratico per
famiglie. Scritto a fine Ottocento da Pellegrino Artusi (*Forlimpopoli 1820-
†Firenze 1911), questo ricettario riscosse subito uno strepitoso successo
nella novella Italia. Il suo titolo inconsueto, dove l’autore coniuga la
perfezione della scienza con la cucina la quale, attraverso la pratica, diventa
arte, assieme alla sua dedica nuova alle famiglie borghesi, lo rendono
innovativo all’interno del panorama letterario del Paese. Sia per la forma, sia
per il suo contenuto, il manuale di Artusi è interamente dedicato alle
famiglie, alle massaie, alle casalinghe, ai focolai domestici dell’Italia appena
unificatasi sotto il vessillo tricolore.
Attraverso un’operazione che oserei definire di arcano futuro, Pellegrino
Artusi scrive il romanzo della cucina. Arcano, perché riscopre le antiche
tradizioni gastronomiche regionali d’Italia e il sapere contadino del piacere
della tavola; futuro, poiché l’autore proietta tutti gli antichi sapori e i segreti
costumi della tavola tradizionale nel futuro, fino al nostro millennio, non
solo facendoci conoscere le abitudini ed esigenze alimentari di due secoli fa,
ma facendoci anche assaggiare i piatti caratterizzanti la nostra identità
gastronomica. Nel suo arcano futuro, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar
bene si prefigura come un racconto attorno alla tavola che oggi viene definita
“italiana” e che ritroviamo in numerosi film del cinema della nostra nazione.
Attraverso le vicende storiche, gli aneddoti curiosi sugli ingredienti e sulle
ricette e gli spaccati della sua vita personale, questo ricettario è riuscito a
N
IX
fare «per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i
Promessi Sposi. I gustemi artusiani, infatti, sono riusciti a creare un codice di
identificazione nazionale là, dove fallirono gli stilemi e i fonemi
manzoniani.» (CAMPORESI 1970; XVI). Ma sempre nel suo arcano futuro, è
stato proprio il ricettario artusiano a fissare l’ordine delle portate che
caratterizzano il vero pasto italiano, a far conoscere i maccheroni e gli
spaghetti ai milanesi e il risotto ai napoletani; Artusi è riuscito a plasmare e
ad unire gli italiani in tavola, lavorando sul futuro della nazione.
A seguito di un’attenta lettura del manuale artusiano e della consultazione
della versione tedesca intitolata Von der Wissenschaft des Kochens und der
Kunst des Genießens del 1998, ho deciso di dividere il presente lavoro in tre
capitoli. Nel primo verrà fornita una panoramica della prassi linguistica
seguita da Pellegrino Artusi per la compilazione del suo ricettario, con
particolare attenzione al discorso dei forestierismi, dei geosinonimi della
cucina e l’uso del fiorentino quotidiano come lingua unitaria. Il secondo
capitolo si pone l’obbiettivo di comprendere da una parte il senso della
traduzione di un’opera quale La Scienza in cucina, così datata e radicata
nell’universo alimentare e territoriale della lingua e della cultura di
partenza, e dall’altra il ruolo che assume il traduttore in una tale operazione.
In seguito, sempre nel Capitolo II, verrà fornita una panoramica della
versione tedesca all’interno del panorama e del mercato del publishing
tedesco, presentandola principalmente per la sua struttura e per le scelte
editoriali adottate.
A conclusione di ciò, il Capitolo III verterà sull’analisi della traduzione di Von
der Wissenschaft des Kochens. Qui si andrà ad osservare soprattutto il
problema della resa dei riferimenti culturospecifici caratterizzanti l’opera di
Artusi e si noterà in seguito il fatto che talora, attraverso la traduzione di
alcune ricette, esse perdono il loro stretto rapporto con la tradizione
X
alimentare e il territorio d’origine a causa della resa in lingua straniera degli
ingredienti.
Questo lavoro, intitolato per l’appunto “Artusi: Wörter des guten Essens”,
si prefigge lo scopo di dimostrare che spesso la traduzione, soprattutto nel
caso di opere profondamente radicate nella cultura del proprio sistema
nazionale, va oltre l’atto linguistico di trasposizione da una lingua ad
un’altra. La traduzione è un fenomeno che coinvolge aspetti culturali, sociali
e, talvolta, economici di una determinata comunità linguistica. Servendomi,
dunque, delle ricette presenti all’interno di Von der Wissenschaft des
Kochens, ho cercato di portare alla luce tale fenomeno e di far capire fino a
che livello una traduzione può abbracciare la cultura, il pubblico e il mercato
del paese d’arrivo.
XI
ABSTRACT
Im Zeitraum von 1891 und 1991 verfasste Pellegrino Artusi La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, die Bibel der klassischen und häuslichen Kochkunst Italiens.
Beim Lesen kann man nicht nur echte traditionelle Rezepte der italienischen Küche
entdecken, sondern auch das Zeitgeist des Risorgimento fühlen und die eigene
Kenntnisse über die Geschichte, die Natur, die Vielfalt der Tiere und der Zutaten
erweitern.
Der vorliegende Beitrag besteht aus drei Teilen. Im ersten Kapitel wird das
Kochbuch Artusis durch alle sprachlichen, kulturspezifischen und strukturellen
Merkmale präsentiert. Das zweite Kapitel beleuchtet den Sinn der Übersetzung von
Büchern, die eine enge und starke Verbindung mit dem stammenden Land und der
ursprünglichen Kultur haben. Es will des Weiteren verstehen, wie viel die
italienische und deutsche Auflage sich voneinander unterscheiden. Da die deutsche
Version sich um eine überarbeitete, gekürzte und modernisierte Auflage des Artusis
handelt, hinterfragt die folgende Arbeit die Gründe solcher Verkürzung und
Verjüngungskur. Das dritte Kapitel will beim Vergleichen von Rezepten zeigen, wie
die Kochsprache sich entwickelt hat, und wie heutzutage die Übersetzung und
Veröffentlichung von solchen traditionellen und literarischen Meisterwerken von
dem Markt stark beeinflusst und abhängig sind.
Dal 1891 al 1911 Pellegrino Artusi scrisse La Scienza in cucina e l’arte di mangiar
bene, la bibbia della cucina italiana tradizionale e casalinga. Leggendola non si riscoprono solo le autentiche ricette della cucina di casa, ma si respira la poetica
risorgimentale; si possono apprendere nuove nozioni circa la storia, la flora e la fauna e la natura degli ingredienti. Il seguente lavoro si divide in tre parti. Nel primo capitolo, il ricettario dell’Artusi si presenta in tutte le sue sfaccettature linguistiche, culturospecifiche e strutturali. Il secondo capitolo illustra il senso della traduzione di libri in stretto legame con il loro Paese e con la loro cultura di provenienza e vuole successivamente capire le differenze che intercorrono tra la versione italiana e quella tedesca del manuale artusiano. Poiché l’edizione tedesca risulta più ridotta, moderna e semplificata, il presente lavoro si prefigge lo scopo di ricercare i motivi di tale riduzione e svecchiamento de La Scienza in cucina. Attraverso il confronto diretto tra le ricette, il terzo capitolo dimostrerà l’evoluzione della lingua della cucina e come al giorno d’oggi la traduzione e la pubblicazione di opere tradizione e letterarie sia strettamente legata e influenzata dal mercato.
XII
Con l’arte, con la scienza e con un poco di pazienza.
Ringrazio i miei genitori, che sin dal momento in cui mi hanno visto in quell’orfanotrofio mi hanno amato e so che
nonostante tutto, continueranno sempre a farlo.
Ringrazio i miei amici: non mi stancherò mai di dirvi
quanto vi voglio bene e ricordatevi che ovunque andrò, vi porterò sempre nel mio cuore
Ringrazio la mia relatrice, Goranka Rocco, per l’infinita pazienza che ha avuto con me e per il supporto, e la mia
correlatrice, Marella Magris per i consigli utili alla stesura del lavoro.
ARTUSI: WÖRTER DES GUTEN
ESSENS
“LA SCIENZA IN CUCINA E L’ARTE DI MANGIAR BENE”
E LA SUA TRADUZIONE IN TEDESCO.
A mia mamma Lucia, mia zia Rita e
alle mie due nonne Michela e Maria: prime vere
maestre e fonte di ispirazione
della mia cucina
CAPITOLO I
UN RICETTARIO E UN LINGUAGGIO DEL CIBO
PER LA GIOVANE ITALIA
1.1. LA SCIENZA IN CUCINA- BREVIARIO DELLA CUCINA ITALIANA
l linguaggio del cibo parla e unisce gli italiani ancor prima della politica
e questo aspetto si riflette nella storia d’Italia. Il non aver avuto un
unico centro e nemmeno un unico idioma che abbia saputo codificare la
cucina e la sua lingua, come avvenne in Francia, ha fatto sì che vi fosse una
pluralità di esperienze, che si potrebbe addirittura definire rete di tradizioni
le quali, sempre in contatto tra loro, hanno prodotto un mosaico unico al
mondo: la cucina italiana. Questa si esprime oggi in tante forme, colori,
sapori e parole ed è la prima a rappresentare la grande ricchezza del nostro
Paese.
I
4
Personaggio poliedrico, eclettico e curioso in un’Italia permeata di
cambiamenti socio-politici di fine Ottocento, Pellegrino Artusi, inizialmente
mercante e poi scrittore, girò la penisola in lungo e in largo e raccolse
scrupolosamente nel corso dei suoi viaggi non solo delle semplici ricette,
bensì testimonianze cultural-gastronomiche che nell’arco di vent’anni, dal
1891 al 1911, divennero le vere protagoniste de “La scienza in cucina e l’arte
di mangiar bene”.
Il titolo stesso si snoda in ben due segmenti: La Scienza in cucina/L’Arte di
mangiar bene. Analizzando il primo segmento (La scienza in cucina), si nota
che la scienza, grazie alla mediazione dell’arte, diventa pratica. Il risultato ne
è la creazione di un “triangolo culinario” costituito dalla cultura,
dall’invenzione e dall’esperienza, che trova i suoi corrispettivi anche nei tre
insegnamenti presenti nella copertina, che l’Artusi vuol portare nelle case
dei suoi lettori: igiene (scienza), economia (pratica) e buon gusto (arte).
Scienza è la prima parola sulla quale porre l’accento, in quanto designa
Artusi come scienziato. L’autore fu in un certo senso uno scienziato sia della
cucina, in quanto diede una norma alla stessa e con la sua opera insegnò a
migliaia di casalinghe e donne borghesi del nord le tradizioni culinarie del
centro-sud e viceversa; sia della lingua, poiché seppe dare una norma
linguistica alla cucina italiana grazie ai suoi studi in primis e alla diffusione
della sua opera su scala nazionale in secundis.
Anche parola Arte assume un ruolo strategico all’interno del manuale,
perché questo libro raccoglie tutti i princìpi della filosofia gastronomica in
un’Italia che dal Piemonte alla Sicilia si stava formando e che, nonostante la
sua secolare divisione politica, è stata sempre unita dal savoir-faire della
convivialità e dell’arte del mangiar bene. Il secondo segmento del titolo,
ossia L’Arte di mangiar bene, tempera quindi il rigore scientifico dato dalla
parola “scienza” e, così facendo, Artusi ripropone la cucina come invenzione,
estro e fantasia di chi la modera e la propone (CAMPORESI 1970; XXV).
5
Sin dalla copertina si intuisce il nesso logico che lega la scienza con l’arte, la
cucina e il mangiar bene: per Artusi, infatti, il gusto non è solo uno dei cinque
sensi che caratterizza e definisce il genere umano, ma anche uno strumento
culinario che permette di definire il senso estetico di ciò che viene posto di
fronte all’uomo. Ecco cosa scrive Artusi in merito al gusto nella sezione
“L’autore a chi legge”, riportando le parole del poeta Lorenzo Stecchetti:
Come è dunque che nella scala dei sensi i due più necessari
sono reputati più vili? Perché quel che sodisfa gli altri sensi,
pittura, musica, ecc., si dice arte, si ritiene cosa nobile, ed
ignobile invece quel che sodisfa il gusto? Perché chi gode
vedendo un bel quadro o sentendo una sinfonia è reputato
superiore a chi gode mangiando un eccellente vivanda? (…)
Infine anche il tiranno cervello ci guadagnerà, e questa società
malata di nervi finirà per capire che, anche in arte, una
discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione sul
sorriso di Beatrice… (ARTUSI1 2011: 11)
Il gusto, denigrato dai dotti poiché non all’altezza di “dissertazioni sul
sorriso di Beatrice” e non equiparabile alla vista e all’udito che, a loro volta,
percepiscono e apprezzano la bellezza di un quadro o l’armonia di una
sinfonia, è il vero senso che ci permette di definire arte anche il “mangiar
bene”.
Il libro, dapprima criticato dai professori ma indubbiamente apprezzato
dalle loro consorti, riscosse successo probabilmente anche grazie alla sua
funzione patriottica, al suo stile poco elevato, alla sua volontà di approcciarsi
a stilemi più semplici e anche grazie ai suoi riferimenti e aneddoti
riconducibili a quella saggezza contadino-popolare che la letteratura del
Sette-ottocento di Alfieri e Annibal Caro disdegnava. Pubblicato a spese
1 Nel corso del lavoro si farà sempre riferimento a P. Artusi “La scienza in cucina e l’arte di mangiar
bene” ed. del centenario; 2011, Giunti editore.
6
dell’autore in cento copie nel 1891, dall’anno della prima pubblicazione alla
quindicesima edizione risalente al 1911, ultima curata direttamente
dall’Artusi, l’opera ha visto “lievitare” il numero di ricette da 475 a 790
grazie anche al prezioso contributo di molti lettori che, scrivendo
direttamente all’Artusi, suggerivano ricette da includere in quello che ben
presto divenne il “breviario della cucina italiana”.
Il grande successo riscosso da La scienza in cucina è dovuto non solo al
fatto che quest’opera rappresentava per l’epoca il primo vero ricettario a
raccogliere buona parte del vastissimo patrimonio gastronomico italiano da
nord a sud, ma anche alle scelte linguistiche adottate. Pellegrino Artusi è
romagnolo di nascita ma fiorentino di adozione e individua proprio nella
lingua parlata di Firenze il modello da seguire. Volendo fare un parallelismo
letterario, si potrebbe dire che se il Manzoni scelse di risciacquare i panni in
Arno per la stesura della quarantana de I Promessi sposi, così anche Artusi
decise di rivolgere la sua attenzione alla lingua toscano-fiorentina, già resa
illustre dai tre grandi scrittori italici Dante, Petrarca e Boccaccio. Artusi non
è un letterato di professione né tanto meno un linguista. Possiede però nel
suo appartamento fiorentino una vasta biblioteca con libri di svariato
genere, dai grandi classici del Trecento alla grande letteratura del Sette-
Ottocento del Manzoni e di Annibal Caro; dalla letteratura toscano-
fiorentina di matrice popolare e teatrale, ai libri e trattati di cucina di epoche
precedenti, sino ad arrivare a grammatiche, studi linguistici e dizionari non
solo di lingue classiche e di italiano, ma anche di altre lingue europee
(FROSINI 2007:316-317). Perciò si documenta, intraprende studi linguistici,
ma sin da quel «La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa
disperare, ma dà anche piacere…» (ARTUSI 2011: 9) della Prefazione si nota
che, accanto alle impegnate letture e alla lingua letteraria, gli sta altrettanto
7
a cuore quella quotidiana, quella parlata nelle logge dei mercati e nelle vie di
Firenze.
Il mercato rappresenta infatti l’autentico e punto di incontro della campagna
con la vita di città; è il luogo dove si concentrano i prodotti e la cultura del
territorio (MONTANARI 2010: 59); un luogo di aggregazione in cui le voci
della piazza, degli artigiani e dei commercianti confluivano insieme alla
secolare tradizione letteraria fiorentina. Si può affermare pertanto che da
qui hanno inizio i suoi studi linguistici per l’utilizzo di stilemi semplici,
comprensibili e, soprattutto, unificanti.
La scelta del fiorentino parlato, ovvero quotidiano, come lingua da
utilizzare nella stesura di un tale libro non è perciò casuale. Di certo ne La
Scienza in cucina non c’era spazio per un dialetto, né tanto meno per
mescolanze con francesismi o termini letterari elitari. L’intento artusiano è
quello di arrivare nelle case dei nuovi italiani, della piccola-media borghesia
con quello che lui chiamerà Manuale pratico per famiglie, e di portare le
tradizioni gastronomiche del nord nei focolari del sud e le usanze culinarie
meridionali nelle case settentrionali. Senza dubbio un dialetto non avrebbe
aiutato a far conoscere alle massaie torinesi i maccheroni con le sarde alla
siciliana e il risotto coi funghi alle casalinghe palermitane.
Nel fiorentino, quindi, Artusi trova uno stile medio che, per esempio, nel
romagnolo non era presente e anche una ricchezza e vitalità nella tradizione
parlata, che facilmente si affianca al «peso della tradizione scritta, letteraria
e illustre, amorosamente e fedelmente indagata e conosciuta» (FROSINI
2012: 96).
Così Artusi porta nelle case degli italiani una lingua e grammatica
gastronomica nuova, gettando le basi per quello che sarà il linguaggio
culinario dei cuochi di oggi, e rompe la lunga tradizione dei ricettari
precedenti al 1891.
8
1.2. LA RICERCA PER UN ITALIANO UNITARIO
Diffidate dei libri che trattano di quest’arte: sono la maggior
parte fallaci o incomprensibili, specialmente quelli italiani;
meno peggio i francesi: al più al più, tanto dagli uni che dagli
altri, potrete attingere qualche nozione utile quando l’arte la
conoscete. (ARTUSI 2011: 9)
Già nella prefazione, Pellegrino Artusi invita i suoi lettori a diffidare dai
ricettari e dai trattati di cucina diffusi nella sua epoca poiché “fallaci” e,
peggio ancora, “incomprensibili”, non solo dal punto di vista della prassi e
dei procedimenti di preparazione delle pietanze, ma anche e soprattutto dal
punto di vista linguistico.
1.2.1. I RICETTARI PRE-ARTUSIANI
Tutti i ricettari “pre-artusiani” della seconda metà del Settecento e di
buona parte dell’Ottocento devono la loro lingua all’influsso francese e alla
tradizione linguistica e culinaria d’Oltralpe, ormai ben consolidata. Nel 1766
viene pubblicato a Torino il trattato Cuoco piemontese perfezionato a Parigi,
sul modello della Cuisinière bourgeoise di Menon. In questo trattato, oltre al
mantenimento di diversi termini francesi (per esempio entrée per
“antipasto”, escalope per “scaloppa/fettina”, gateau per “torta”, fricandeau
per “noce di vitello”) e oltre agli adattamenti talora favoriti dalla contiguità
del piemontese con il francese, come accade per esempio per jambon che
viene reso con “giambone” invece che con l’italiano “prosciutto”, si tende a
mescolare l’italiano letterario con la componente dialettale, rendendo quindi
il ricettario incomprensibile al lettore o per lo meno indirizzato ad un
pubblico specializzato ed elitario (FROSINI 2006: 91-92).
Un altro ricettario che appare sulla scena editoriale italiana è l’ Apicio
Moderno del cuoco Francesco Leonardi, in cui i nomi delle pietanze o degli
ingredienti francesi vengono adattati alla grafia italiana. È il caso della
9
“Torta alla sciantiglí” (invece di chantilly), delle escaloppe alla riscelieù , del
sufflé (al posto di soufflé) e della besciamella (da béchamel), quest’ultimo
uno dei pochi termini ancora oggi rimasti nella lingua della cucina italiana.
Secondo Leonardi, il francese fornisce la terminologia tecnica in ambito
gastronomico, tanto da poterlo usare a livello internazionale e, poiché risulta
di difficile apprendimento, si sente in dovere di fornire una lista “Di Alcuni
Termini francesi, ed italiani usitati nella cucina” all’inizio del primo tomo e
una “Spiegazione Generale de’ Termini Francesi” nel sesto tomo. Tuttavia
anche in queste liste i termini francesi si mischiano con i termini italiani e
testimoniano la tesi di Artusi secondo la quale la lingua dei ricettari delle
epoche a lui precedenti risulta confusa e incomprensibile (FROSINI 2006:
91-92).
Anche i Savoia contribuirono indubbiamente alla presenza ricorrente e alla
diffusione di termini francesi all’interno della lingua gastronomica italiana.
Nel 1865, con il trasferimento della capitale d’Italia da Torino a Firenze,
nella città toscana si vide non solo l’arrivo della corte, dei senatori e dei
burocrati, ma anche quello delle abitudini alimentari sabaude e ciò
comportò un vero e proprio “disastro enogastronomico” per i fiorentini. A
Palazzo Vecchio e a Palazzo Pitti, ora diventato Palazzo Reale, e nei bar, ora
café, di Firenze le “liste delle vivande” diventarono “menù”, i quali a corte
erano scritti interamente in francese; anche i vini e i liquori erano
rigorosamente d’Oltralpe. Addirittura il “Cibreo”, tipico secondo piatto
fiorentino descritto anche ne La scienza in cucina, divenne Foies et crête de
volaille en fricassée, letteralmente fegati e cresta di volatile stufati (PETRONI
2011; V).
10
1.2.2. FORESTIERISMI E GEOSINONIMIE NE LA SCIENZA IN CUCINA
Premesso che nel XIX secolo la lingua della gastronomia era contaminata
da parole di origine straniera, è inevitabile però che alcune di esse siano
rientrate nel manuale dell’Artusi. Nonostante la sua contrarietà verso
l’impiego degli stranierismi, l’autore conserva le denominazioni straniere,
soprattutto francesi, laddove la frequenza d’uso è alta. Va ricordato che lo
scrittore non denigra solamente i gallicismi, ma l’uso di tutti i forestierismi.
Il numero più elevato di parole di origine straniera all’interno de La Scienza
in cucina si registra senza ombra di dubbio nella sezione dedicata ai dolci e
alla pasticceria. Qui si trovano non solo francesismi, bensì anche anglicismi e
germanismi, questi ultimi entrati nella lingua italiana attraverso le
dominazioni asburgiche nell’area Nordorientale. Tra i germanismi troviamo
infatti il famosissimo Strudel, il Presnitz, che l’autore stesso assaggiò in un
suo viaggio a Trieste, e il Kugelhupf, dolce tipico austriaco. È nell’introdurre
però la ricetta del Krapfen (n. 182), che Pellegrino Artusi riassume i suoi
propositi di non usare o usare il meno possibile parole straniere attraverso
una lunga raccomandazione:
Proviamoci di descrivere il piatto che porta questo nome di
tedescheria ed andiamo pure in cerca del buono e del bello in
qualunque luogo si trovino; ma per decoro di noi stessi e della
patria nostra non imitiamo mai ciecamente le altre nazioni
per solo spirito di stranieromania (ARTUSI 2011: 155)
Ma se nei casi sopracitati Artusi concede e accetta quasi democraticamente
l’utilizzo di parole straniere all’interno della sua opera, in altri, al contrario,
preferisce essere italofilo, imponendo adattamenti sotto forma di calchi di
parole straniere sulla base della grafia e della pronuncia fiorentina. Da
questo procedimento risultò la creazione di termini che talora suonano
bizzarri, ma che in alcuni casi sono stati accettati ed entrati nell’uso. L’autore
cerca di convincere i lettori, attraverso dei calchi dal francese, che il soufflé
11
poteva essere chiamato “sgonfiotto”, o che un ottimo traducente per
béchamel potesse essere “balsamella” (FROSINI 2006: 99).
Ad ogni modo, Artusi cerca di razionalizzare e di portare ordine in una
cucina contaminata da francesismi, dialettismi e dalla contrapposizione tra
la cucina di palazzo, dei nobili, e quella di famiglia, dei contadini e dei
piccolo-medio borghesi. Molti forestierismi in ambito gastronomico erano
già largamente diffusi, alcuni risultavano persino prestigiosi e continuavano
ad imporsi. Artusi li accetta, tuttavia inveisce contro questa tendenza nella
ricetta 443, Passato di patate:
Ormai in Italia se non si parla barbaro, trattandosi
specialmente di mode e di cucina, nessuno v’intende; quindi
per esser capito bisognerà ch’io chiami questo piatto di
contorno non passato di…; ma purée di… o più barbaricamente
ancora patate machées (ARTUSI 2011: 320)
Oltre al gran numero di voci francesi, il linguaggio del cibo in Italia è sempre
stato domestico, talora “municipale”, ricco di voci e colori dialettali, popolari
e regionali e, quindi, scarsamente unificato, si voglia per occorrenze storiche
o per questioni di rapida comprensione.
Cacciucco! Lasciatemi far due chiacchiere su questa parola la
quale forse non è intesa che in Toscana e sulle spiagge del
Mediterraneo, per la ragione che ne' paesi che costeggiano
l'Adriatico è sostituita dalla voce brodetto. A Firenze, invece, il
brodetto è una minestra che s'usa per Pasqua d'uova, cioè una
zuppa di pane in brodo, legata con uova frullate e agro di
limone. La confusione di questi e simili termini fra provincia e
provincia, in Italia, è tale che poco manca a formare una
seconda Babele. (ARTUSI 2011: 328)
12
Ecco la spiegazione di quel “municipale”: nell’introduzione alla ricetta del
Cacciucco, Artusi ci fa capire quanto la lingua italiana possa essere variegata
e ricca di geosinonimi, ovvero di quelle parole di uso regionale che, nelle
varie parti del territorio italico, indicano uno stesso oggetto, tanto da
rischiare la creazione di una “seconda Babele”.
L’autore è quindi consapevole che il problema dei sinonimi in cucina, i quali
possono riguardare il nome di alcuni piatti e quello delle parti della casa o di
attrezzi da lavoro. Poiché questi termini risultano comprensibili solo a chi
vive in una determinata realtà regionale o, come detto prima, municipale, il
lemma di fraintendimento è implicitamente percepito come rischio da
evitare in una raccolta di ricette che vuol essere la prima in Italia e in cui
l’ambiguità sui nomi degli elementi e dei piatti non può più persistere, in
quanto genera continuamente incomprensioni tra scrittore e lettori.
Lo studioso Giuseppe Polimeni, in un suo intervento nel volume Il secolo
artusiano, edito dall’Accademia della Crusca (2012), pone l’esempio della
parola “mattarello”, entrata senza problemi all’interno del ricettario
artusiano come si attesta nella ricetta n.13 dei Tagliolini al semolino.
Polimeni sottolinea che il problema dei geosinonimi in Italia rappresenta
un’annosa questione, quasi paragonabile a quella della lingua, tanto che
lessicografi e scrittori dell’Ottocento, tra cui lo stesso Manzoni, già
avvertivano il problema della «competizione tra le forme geograficamente
distribuite o diafasicamente attestate, nella misura in cui creavano
un’abbondanza di terminologia, inutile o foriera di pericolosi
fraintendimenti» (POLIMENI 2012: 98). Si pensi che in tutta Italia si
registrano dodici modi diversi, attestati su dizionari di epoca pre-artusiana,
per indicare la parola “mattarello”. Sicuramente le speranze per
un’unificazione della lingua, come sostiene Luigi Morandi, sono da riporre
tutte nella scuola, perché se un vocabolo viene inserito nei dizionari o usato
da scrittori come De Amicis, i maestri lo insegneranno ai bambini, «ma se
13
aspettiamo che l’unità della lingua ci venga da sé, come la manna agli Ebrei
nel deserto, dovremo davvero aspettarla un pezzo». (MORANDI 2010: 181)
Tuttavia, nonostante l’operazione unitaria attuata dall’Artusi e dal suo
manuale, alcune differenze lessicali si riscontrano ancora oggi, per esempio
con le tre varianti “canovaccio/strofinaccio/panno” o ancora con
“anguria/cocomero” o “croissant”, utilizzato in Piemonte e Valle d’Aosta,
contro il meridionale “cornetto”. In generale bisogna ammettere però che
nell’ambito della nomenclatura gastronomica l’unificazione linguistica
artusiana è più viva che mai: l’autore riesce a dare all’Italia uno «spaccato
esemplare del fiorentino d’uso della borghesia di fine Ottocento, ed ebbe una
qualche influenza sull’italiano nazionale dell’uso scritto e parlato»
(BECCARIA 2010: 189), tanto che oggi parlare italiano in cucina è cosa
prestigiosa e gradita alle orecchie d’Europa e del mondo.
1.2.3. IL FIORENTINO: LA LINGUA DEL MANUALE ARTUSIANO
Premesso quindi che dei ricettari pre-artusiani risultano di difficile
comprensione per la mescolanza tra dialetto e forestierismi, l’operazione
artusiana si concentra, come si è visto, nella ricerca di un italiano unitario,
caratterizzato anche dal distacco dalla tradizionale lingua letteraria più
aulica. Il modello linguistico perseguito nel corso del “ventennio artusiano” è
basato perciò su un italiano più vivo, moderno e comunicativo: l’opera,
volendo proporsi come “manuale pratico per famiglie” è sì punteggiato da
riferimenti colti vicini alla classe borghese alla quale era dedicata, ma d’altro
canto testimonia i processi che porteranno all’accettazione e alla diffusione
quasi naturale, sia nel parlato che nello scritto, di una “media formalità” che
si differenzia dallo standard ufficiale, in quanto i tratti del parlato nella sua
prosa sono evidenti sia dal punto di vista lessicale, che da quello
morfologico e sintattico.
14
La prassi linguistica artusiana non consiste però nella creazione o
formulazione di una lingua italiana, ma piuttosto in un rinnovamento e
normalizzazione della stessa. Per ottenere ciò, Artusi affonda la sua scrittura
nel volgare toscano, soprattutto in quello fiorentino. Tale scelta si rivelerà
vincente e la sua opera diventerà una sorta di koinè culinaria.
In cerca di una terminologia unitaria, l’autore indulge comunque
nell’utilizzo di vocaboli e modi di dire toscani che talora vivacizzano la
sintassi. Con la sezione intitolata “Spiegazione di voci che, essendo del
volgare toscano, non tutti intenderebbero”, si entra nel fulcro della
questione linguistica vera e propria. Artusi compila una lista di trentasei voci
che oggi potrebbero suonare tipicamente italiane, ad eccezione di
pochissime, a testimonianza della condivisione ancora parziale della “nuova”
lingua nazionale. Tra i termini ancora in uso oggi e inseriti in questa sezione,
si nota per esempio “bietola”; “fagiuoli”, che oggi hanno perso la
dittongazione in “-uo-“, tratto proprio del toscano; la “lunetta” o “mezzaluna”
che conserva ancora sia il nome sia il significato nonostante una prevalenza
del secondo termine sul primo; il “vassoio”; la “spianatoia”, originariamente
di provenienza tosco-romagnola ormai entrata nell’uso standard e non più
confondibile con “tagliere”, che Artusi stesso indica come spianatoia più
piccola e con manico su cui battere la carne o tritare il battuto (ROBUSTELLI
2012: 257).
Caso contrario è costituito, invece, dai termini adoperati esclusivamente
dall’Artusi e che non hanno avuto successo nell’italiano odierno, come le
parole riferite alle interiora, le cosiddette frattaglie: cipolla ne è un esempio,
in quanto oggi indica l’ortaggio e non il ventriglio dei volatili. Tra gli altri
troviamo carnesecca, il quale ne La Scienza in cucina indica la “pancetta di
maiale salata”, oggi conosciuta semplicemente con il nome di “pancetta”;
costoletta, che nell’Artusi corrisponde alla “braciola colla costola” e non
quella che attualmente è la costola accompagnata dalla carne che la riveste,
15
ovvero la costina; il lardone, contrapposto a strutto, quest’ultimo d’uso
odierno, tuttavia scartato dall’Artusi, ecc (DALLA BONA 2012: 188-189).
Complessivamente, bisogna dire che le scelte lessicali dell’Artusi dimostrano
l’abbandono dei termini aulici della tradizione letteraria, pur mantenendo
un carattere colto, e una certa cautela per i termini troppo dialettali e per i
forestierismi.
Sul piano fonetico e morfologico si registra l’adozione di occorrenze
consolidate dalla borghesia fiorentina, come il già menzionato dittongo
“-uo-“ attestato in molte pietanze, dalla “braciuola” alla “salsa spagnuola”. Si
noti inoltre l’uso di “codesto” e “cotesto”, degli allotropi “tra” e “fra”, ancora
oggi oggetto di allotropia nonostante la semplificazione proposta
nell’italiano post-unitario; la preferenza per il pronome “ogni cosa” in
sostituzione di “tutto”, l’uso delle preposizioni articolate delle forme
sintetiche “col”, “colla”, “pel” al posto delle corrispettive forme analitiche, il
frequente utilizzo della “i-“ eufonica prima della “-s” impura (ischizzo,
iscolare, isciogliere, isformare), ecc. (ROBUSTELLI 2012: 528)
Come ricorda Vittorio Coletti in “Storia dell’Italiano letterario”, «Il
toscanismo si evidenzia anche nella stucchevole prolificità degli alterati e in
specie dei diminutivi» (COLETTI, 1993:276) che troviamo in Artusi con
umidino, imbutino, cazzerolina, tortino e ancora nell’espressione adagino
adagino, riferita al bollire della pentola per l’ottima riuscita del brodo
(ricetta 1).
In merito alla sintassi, si evince il totale e voluto distacco dall’artificioso e
complesso periodare letterario per avvicinarsi, invece, agli stilemi più
semplici che caratterizzano la forma parlata. Tracce della lingua scritta,
tuttavia, persistono grazie al ricorso continuo alla “legge” di Tobler-Mussafia
(FROSINI 2006: 91-92), la quale prevede la cliticizzazione del pronome al
verbo (…e dicesi che i primi tacchini introdotti in Francia furono pagati un
16
luigi d’oro; ricetta 549); mentre per esempio le tipiche strutture del parlato
si manifestano con la dislocazione a sinistra dell’oggetto (Le sarde lavatele,
togliete loro la testa, e con le dita separatele dalla parte del buzzo per estrarne
la spina; ricetta 483), per dare una sorta di iconicità al procedimento
descritto (ROBUSTELLI 2012: 258).
Dal toscano e, naturalmente, dal fiorentino, Artusi riprende numerose frasi
idiomatiche tipiche del popolo, alcune delle quali hanno riscontrato notevole
successo grazie alla “consacrazione” artusiana e sono entrate nell’uso
comune dell’italiano. Tali espressioni, inserite con equilibrio e amabilità,
contribuiscono a rendere scorrevole lo stile, ad arricchirlo e a dargli vivacità.
Si vedano espressioni come non me ne importa un fico per “non voglio
saperne niente”, andare a rincalzare i cavoli, ovvero “dedicarsi a lavori di
poca importanza”; è una sorpresa dei miei stivali, espressione incipit della
ricetta 535 del “Piccione a sorpresa” che ironicamente vuol riferirsi al fatto
che questa del piccione è una sorpresa per modo di dire; l’esclamazione per
bacco, oggi molto diffusa, e ancora bisogna esser tonti bene per farsi mettere
in mezzo, frase utilizzata nella ricetta degli “Uccelli arrosto” per dire che
“bisogna essere veramente stupidi per farsi imbrogliare”. Tra i tanti termini
idiomatici del fiorentino troviamo all’interno della ricetta 7 dei “Cappelletti
all’uso di Romagna” la parola rimminchionito, per designare un cappone che,
al momento della preparazione della pietanza, ha perso la sua vivacità; o la
parola bricconcella, quinta parola del manuale, utilizzata per descrivere
com’è la cucina per Pellegrino Artusi.
Tuttavia, tenendo presente che La Scienza in cucina conta in vent’anni ben
quindici edizioni, la storia di questo manuale vede ripetute rielaborazioni e
l’aggiunta di ulteriori ricette (si pensi che la prima edizione del 1891
presentava 475 ricette, mentre nell’ultima ne comparivano ben 790). Per
questo motivo, nel corso delle successive ristampe, il libro viene sottoposto
a diverse revisioni linguistiche orientate verso una maggiore scioltezza e
17
proprietà sia del linguaggio adoperato che dell’iconicità del processo di
preparazione della pietanza, e verso un alleggerimento della componente
idiomatica fiorentina, sia sotto l’aspetto grafico che formale. Volendo citare
alcuni esempi a dimostrazione di questa revisione linguistica attuata, si noti
che presciutto passa alla versione di uso odierno “prosciutto”; egualmente,
seppur in alcuni casi rimane così, in altri diventa “ugualmente”, subendo
perciò la labializzazione della vocale e protonica che diventa u davanti alla
consonante g (ROHLFS, 1966: 169); la forma verbale sieno, tipica del
fiorentino parlato, viene corretta con “siano”; salcicce passa a “salsicce”;
disgradevole a “sgradevole”; ecc.
La prassi linguistica artusiana fu dunque una continua ricerca, tramite
fonti orali o scritte, delle migliori tradizioni dell’Italia unita, in particolar
modo di quelle dell’Emilia-Romagna e della Toscana.
Sulla lingua egli intervenne attivamente, modificando, adattando e
correggendo secondo quello che per lui poteva essere utile agli italiani.
Afferma:
Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il
pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti
osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per
la lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti (ARTUSI
2011: 328)
La sua operazione linguistica mira a rendere accettabili e comprensibili le
ricette in tutta la Penisola, concorrendo a realizzare, almeno dal punto di
vista gastronomico, un’unità che sembrava irraggiungibile.
La novità linguistica de La Scienza in cucina sta sì nella scelta del fiorentino
come lingua di stesura del manuale e della “giovane” Italia, ma anche nello
stile narrativo stesso che il fiorentino permetteva, grazie all’inserimento di
18
espressioni e frasi idiomatiche tipiche che gli consentono di instaurare una
sorta di dialogo confidenziale e diretto con il lettore.
1.3. IL MANUALE ARTUSIANO: UN CONNUBIO TRA SAPERE ORALE E
TRADIZIONE SCRITTA
La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, se letta attentamente, non si
prefigura come una semplice raccolta di ricette “nuda e cruda”. Oltre ad
essere un ricettario e oltre ad essere uno dei fulcri della tradizione
gastronomica italiana, il manuale artusiano raccoglie in sé diversi aneddoti,
considerazioni stravaganti e riferimenti alle tradizioni, credenze e costumi
popolari.
Gli antichi romani lasciavano mangiare l’aglio all’infima gente,
e Alfonso re di Castiglia tanto l’odiava da infliggere una
punizione a chi fosse comparso a Corte col puzzo d’aglio in
bocca… (ARTUSI 2011: 106)
Questa piccola digressione sull’aglio, che si dilunga ancora e che introduce la
ricetta 104 degli “Spaghetti alla rustica”, va a dimostrare perfettamente
quanto sostenuto da Camporesi, secondo il quale il manuale artusiano si
propone come una sorta di “romanzo della cucina” in cui sono racchiuse
osservazioni naturalistiche, scientifiche, dietetiche, igieniche (si veda a
questo proposito la sezione intitolata “Alcune norme di igiene”). Perciò
«quando la massaia o il cuoco lo aprono, si trasformano in curiosi lettori e
avvertono il fascino accattivante e nobilitante che si sprigiona da quelle
pagine varie ed imprevedibili» (CAMPORESI 1997: XLVIII-XLIX).
Artusi, oltre a portare ricette nelle case, riesce a educare le persone
nell’ambito culinario, igienico e in quello delle informazioni storico-culturali,
ponendo l’opera a metà tra un testo storico e letterario. Alcune di queste
19
note aggiuntive possono risultare talora oscure al lettore, il quale trova
difficile capire il nesso logico tra la ricetta e l’aneddoto; ma questo è lo stile
di Artusi, capace di coniugare una pietanza con una storia, una poesia o una
nozione.
Nel suo essere un letterato e uno studioso, è chiaro che la maggior parte
degli aneddoti, delle varie osservazioni naturalistiche, igieniche, dietetiche e
delle informazioni storiche inserite nell’opera, siano di provenienza libresca;
ma per quanto riguarda invece la raccolta di ricette e la loro provenienza,
non si può dire lo stesso. La Scienza in cucina, infatti, si presenta come il
primo vero libro interattivo grazie alle proposte gastronomiche, ai consigli e
ai suggerimenti dei suoi lettori, che venivano inseriti con il susseguirsi delle
edizioni pubblicate. Negli archivi della cittadina di Forlimpopoli si registra
una ricca corrispondenza epistolare, in quanto tutti potevano entrare in
diretto contatto con lo scrittore: sulla copertina compariva infatti l’indirizzo
del suo domicilio fiorentino.
Per questa ragione confluiscono due tradizioni all’interno del libro: quella
del cosiddetto “cuoco reale”, il quale cucina per professione; e quella del
“cuoco popolare”2, il quale cucina per amore della cucina e per il
sostentamento personale e della propria famiglia; quindi, da una parte, una
tradizione “nobiliare” e dall’altra “popolana”. Non sempre queste due realtà
risultano distinguibili, si voglia per la molteplicità di tradizioni locali e di
centri culturali diversi o a causa delle loro origini incerte e, in alcuni casi,
remote. Accanto alle due diverse tradizioni culinarie, le fonti scritte si
“amalgamano” con l’esperienza dei lettori grazie alla rete postale, che
permette a luoghi remoti come la Sicilia di entrare nel testo artusiano e con
l’esperienza diretta dello scrittore stesso mediante i suoi viaggi ferroviari.
Le fonti dell’Artusi, come ricorda Piero Camporesi nella sua introduzione al
manuale, sono svariate e talvolta imprevedibili. Molte ricette provengono 2 La presente è una considerazione sviluppata da me.
20
dalle aree da lui più conosciute, ovvero dall’Emilia-Romagna e dalla Toscana,
altre sono frutto delle sue ricerche libresche nei trattati di cucina e nei
ricettari di epoche precedenti, dai quali lui stesso invita i suoi lettori a
diffidare. Ma la vera particolarità ed innovazione artusiana è rappresentata
dall’interattività prima menzionata, ovvero in quel continuo scambio
epistolare con i suoi lettori che, sfogliando il suo “ricettario-romanzo” e non
trovando una ricetta tipica della loro zona, invitavano l’autore ad inserirla.
Ne costituisce un esempio la “signora di Conegliano” nella ricetta 654:
[…] Una signora di Conegliano mi scrive, quasi
meravigliandosi, che non ha trovato nel mio libro la Pinza
dell’Epifania e (non ridete) Biscottini puerperali; due cose,
secondo lei, di non poca importanza… (ARTUSI 2011: 473)
Accreditando dunque il contributo alla signora di Conegliano, Artusi ne
sottolinea la provenienza della fonte, come accade anche nella ricetta 88 dei
“Maccheroni con le sarde alla siciliana”, per la quale lo scrittore è «debitore a
una vedova e spiritosa signora il cui marito, siciliano, si divertiva a
manipolare alcuni piatti del suo paese,…» (ARTUSI 2011: 95). Idealmente, si
può affermare che i confini della cucina artusiana si allargano per accogliere
le varie esperienze domestiche dei lettori, ai quali viene data
successivamente una veste letteraria e grazie ai quali si viene a creare una
sorta di rete di condivisione delle varie esperienze casalinghe.
La questione delle fonti costituisce senza dubbio un fatto di per sé
interessante: Artusi non allega al suo manuale una bibliografia, ma in alcune
ricette, come nel caso dei pochi esempi citati, ce ne spiega la sua origine e
provenienza. Non tutte le ricette sono frutto delle sue ricerche libresche o
della corrispondenza con i lettori. Alcune saranno state apprese oralmente
dall’autore nei suoi continui viaggi lungo l’Italia e, del resto, bisogna dire che
gli stessi lettori, scrivendo la preparazione della loro pietanza, testimoniano
esperienze di trasmissione orale delle informazioni. Sta proprio qui, dunque,
21
la convergenza tra la tradizione scritta e il sapere orale, in quanto, di norma,
le ricette tipiche sono di estrazione rurale. La cucina è un linguaggio e in
passato chi era tradizionalmente dedito al cibo e a quest’arte, era il popolo
analfabeta. Questo connubio tra fonti scritte e orali è dovuto quindi in parte
all’analfabetismo. L’arte della cucina autentica e popolare di origine e
tradizione contadina è sempre stata lontana dai concettualismi e dalle
nozioni libresche. La gente dei villaggi si è sempre dimostrata abile e capace
di economizzare e di alimentarsi secondo il corso delle stagioni. Questa
gente, la cui cucina risulta essenziale e basata ad esempio sulla semplicità di
un battuto di aglio, olio e peperoncino, ha sempre saputo mangiare e
coniugare geometricamente gli ingredienti. La loro arte e il loro sapere non
sono stati tramandati attraverso la scrittura: le loro usanze gastronomiche
sono state invece tramandate oralmente, “di madre in figlia” e sono sempre
state denigrate dalle classi nobili, sempre alla ricerca di “sapori esotici” e
raffinati.
Artusi in questo senso è lungimirante e, nel suo ambire alla tradizione, coglie
il buono nei sapori semplici della gente rurale e nella loro capacità di saper
utilizzare i prodotti freschi di stagione offerti dalla terra. Rivisita i piatti dei
contadini consumati nei giorni di festa e li inserisce in un patrimonio
comune nuovo, favorendo la circolazione di esperienze locali che
mantengono, ciascuna, la propria identità.
22
CAPITOLO II
L’ARTUSI NEL PANORAMA EDITORIALE
TEDESCO
2.1. ARCAICIZZARE O ATTUALIZZARE L’ARTUSI?
L’etnologo francese Claude Lévi-Strauss definisce “gustemi” tutte quelle
unità minime colme di significato inserite nell’universo del gusto.
Come la lingua, mi sembra che la cucina di una società sia
analizzabile in elementi costitutivi che si potrebbero chiamare
gustemi, i quali sono organizzati secondo talune strutture di
opposizione e correlazione. (LÉVI-STRAUSS 2009: 103)
Se i fonemi plasmano l’identità linguistica di una singola comunità, i gustemi
modellano la società di una determinata regione geografica sul piano
gastronomico. Dietro ad ogni identità sociale si celano i significati culturali
più profondi e più intimi di un popolo; e il cibo, al pari delle arti visive, della
musica e della letteratura, fa parte della componente culturale di
identificazione sociale.
L’identificazione socio-culturale, di fatto, può avvenire a tavola, attraverso il
cibo e le vivande. Si prenda in esempio come gli italiani vedono i tedeschi e
viceversa: i primi vedono i secondi come grandi consumatori di Würstel,
Sauerkraut e birra; mentre i secondi considerano i primi come divoratori di
Spaghetti al Pomodoro con una spolverata di Parmigiano Reggiano. Ma a
23
sostegno di questa tesi, secondo la quale l’identificazione socio-culturale di
un popolo è anche dettata dalla tavola, è curioso notare come si possa
ricreare la bandiera nazionale grazie al colore degli ingredienti in un piatto.
Un caso unico al mondo, ma spesso altamente stereotipato, è costituito
dall’Italia, dove ad esempio, la presentazione dell’Insalata Caprese riporta e
riprende in tutto e per tutto il Tricolore. Non va tralasciato l’esempio più
lampante dell’italianità in tavola: la Pizza Margherita. È noto a tutti come un
pizzaiolo patriottico tale Raffaele Esposito abbia omaggiato la Regina
Margherita di Savoia in visita a Napoli con Re Umberto I nel 1889 con una
pizza condita con pomodoro e basilico, aggiungendo la mozzarella in onore
del vessillo d’Italia (BARBAGLI, BARZINI 2010: 114).
Oggi, grazie a Raffaele Esposito e al suo buon gusto, la Pizza Margherita è
famosa in tutto il Pianeta; rappresenta l’Italianità, l’Italia e i gustemi del
popolo italiano nel mondo.
I gustemi artusiani, oltre ad essere leggi del gusto e dei sapori dell’Italia
unita, costituiscono anche le leggi della buona tavola proprio come oggi è
conosciuta. La tavola all’italiana, quella che, ad esempio, tutti conoscono
attraverso i film di Totò, è scandita dal pane, da un ottimo vino regionale,
dagli antipasti, dall’arrivo di un primo piatto, seguito dalla consumazione
della seconda portata a base di carne o pesce, accompagnata da un contorno
e, a conclusione del tutto, dal dolce. L’ordine delle portate è sacro agli
italiani, quanto la bollitura e la cottura del Wurst per i tedeschi3. Insieme alle
leggi del gusto e dei sapori, le leggi della buona tavola rappresentano un
codice di identificazione culturale spesso più significativo della stessa
letteratura di Dante e del Manzoni. Sono questi i motivi che spingono ad
attribuire al manuale dell’Artusi un valore etno-sociale per la storia e la
formazione dell’Unità d’Italia: queste leggi sono riuscite a definire
3 La presente è una considerazione elaborata da me.
24
un’identità italiana gastronomica tale che La Scienza in cucina potrebbe
rappresentare per l’Italia quello che per altri paesi è la carta costituzionale.
Grazie alle sue “leggi del gusto e del mangiar bene”, il manuale artusiano
costituisce un successo editoriale di spicco non solo in Italia, ma anche
all’estero. È curioso notare che il ricettario arrivò in molti Paesi come gli
Stati Uniti e la stessa Germania attraverso le valigie degli emigranti italiani4
che, a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, lasciavano le loro terre
d’origine per cercare fortuna oltreconfine o, addirittura, oltreoceano. Molti
di loro portavano con sé una copia del manuale di Pellegrino Artusi per non
dimenticare mai le proprie origini, i loro gustemi e, di conseguenza, la loro
identità cultural-gastronomica. La Scienza in cucina rimane ancora oggi un
punto di riferimento per molti italiani all’estero, al punto da rendere
necessarie traduzioni dell’opera per consentirne la consultazione da parte
delle nuove generazioni dei connazionali emigrati che, oggi come ieri,
esprimono il desiderio di conoscere i codici segreti della cucina domestica
tradizionale e di riappropriarsi di un frammento caratteristico della propria
identità culturale.
Non a caso, in questi anni, il manuale artusiano è stato oggetto di numerose
traduzioni nelle lingue più diffuse. Nei paesi anglofoni, troviamo infatti The
science in the kitchen and the art of eating well; in Olanda De wetenschap in
de keuken en de kunst om goed te eten ; nei paesi ispanofoni La ciencia en la
cocina y el arte de comer bien; in Francia La science en cusine et l’art de bien
manger; nei paesi tedescofoni viene commercializzata la versione Von der
Wissenschaft des Kochens und der Kunst des Genießens; e di recente il
manuale artusiano è anche arrivato in Russia con il titolo Наука о питании
и искусство приготовления вкусной еды (Nauka o pitanii i iskusstvo
prigotovlenja vkusnoj edy). 4 Questa informazione è attestata nell’articolo “Estero_OK” di CasArtusi, fondazione in onore di
Pellegrino Artusi e promotrice della cucina domestica italiana nel Mondo.
<http://www.casartusi.it/en/node/1679>.
25
Il libro, quindi, sbarca insieme agli italiani negli Stati Uniti e nei Paesi
dell’America Latina in lingua italiana; diversamente da allora, oggi il
ricettario viene tradotto e pubblicato nelle lingue locali. In altri paesi, invece,
giunge attraverso le cosiddette “vie editoriali”. Ne costituiscono un esempio
la Spagna, il Portogallo e l’Olanda. Nei primi due casi, il ricettario artusiano
arriva anche grazie alla collaborazione della Scuola di Lingue Moderne per
Interpreti e Traduttori di Forlì; nell’ultimo, invece, grazie all’interesse di un
libraio di Amsterdam, Dolf Peereboom. Come ricordano le due traduttrici e
curatrici Mieke Geuzebroek e Pietha de Voogd, la traduzione dell’Artusi
trova un terreno molto fertile, in quanto «in Olanda non vi è una vera e
propria cultura gastronomica» come negli altri Paesi limitrofi e perché gli
olandesi si definiscono da sé un popolo di «grandi viaggiatori e perciò
veniamo a conoscenza di tante altre culture culinarie e altri
atteggiamenti verso il cibo» (GEUZEBROEK; DE VOOGD 2005: 1).
Pubblicare un’ edizione de La Scienza in cucina in Olanda, per le due
traduttrici, ha significato fornire agli olandesi uno strumento per conoscere
le origini della cucina domestica e le usanze culinarie italiane.5
Tradurre un libro come La Scienza in cucina costituisce una vera e propria
sfida per il traduttore che vuole trasmettere al lettore contemporaneo non
solo i segreti della tradizione gastronomica italiana, bensì anche riferimenti
storici e culturali, evitando di perdere lo stile narrativo della prosa di
Pellegrino Artusi. Per fare ciò, non bastano l’esperienza nel campo della
traduzione e la passione per la cucina: serve una vasta conoscenza dei
termini tecnici, degli ingredienti, alcuni dei quali non sono più in commercio;
5 Geuzebroek, M., De Voogd, P., (2005) L’Artusi in un paese senza cucina, in Atti del convegno Artusi,
pellegrino nel mondo di sabato 18 giugno 2005; intervento reperibile in
<http://www.pellegrinoartusi.it/convegni-artusiani-2/2005-2/>; 1.
26
la conoscenza dei riferimenti letterari e culturali, e così via. Questo perché il
manuale artusiano è di difficile collocazione tra le varie categorie dei generi
testuali: da una parte si potrebbe trattare di un testo specialistico, in quanto
affronta un argomento inerente a un ambito ben definito; dall’altra i termini
specialistici si mescolano a frammenti letterari e aneddoti dell’esperienza
personale dell’autore. Artusi vuole consegnare all’Italia (e non solo)
un’opera utile e, allo stesso tempo, piacevole alla lettura. Il risultato è un
manuale culinario dalle mille sfaccettature, che va ben oltre il “semplice
ricettario”: è un documento storico, la testimonianza di un’epoca e di una
società che, con l’avanzare della storia e del progresso, è mutata; è il
manifesto della tradizione italiana a tavola.
Prima di procedere con la traduzione di un tale testo, è necessario che il
traduttore si interroghi sul destinatario della traduzione e l’uso che esso ne
farà. Se il testo di partenza era prevalentemente rivolto alla borghesia a
cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il pubblico al quale
ora si vuol dedicare la traduzione è, in antitesi, costituito da lettori stranieri,
lontani dalle tradizioni gastronomiche italiane, i quali consultano il manuale
artusiano per conoscere le radici degli usi gastronomici più antichi e più
domestici e i quali, al seguito della lettura, vogliono essere in grado di
riprodurre la pietanza proposta. Per il lettore straniero moderno La Scienza
in cucina riveste un interesse documentario per la scelta degli ingredienti e
dei metodi di preparazione.
Oltre a saper tradurre, interpretare e far arrivare l’Artusi nelle case dei
lettori stranieri contemporanei, il traduttore deve essere un ottimo
mediatore culturale. Per realizzare ciò, egli deve possedere un’ottica
“biculturale” per identificare e cercare di risolvere le disparità tra le culture.
La traduzione, infatti, non consiste nella semplice trasposizione di
27
informazioni da una lingua A ad una lingua B, poiché questo è il compito
della Machine Translation (traduzione automatica). La cosiddetta Human
Translation coinvolge anche gli aspetti culturali, sociali, etnici ed etici più
profondi di una determinata comunità linguistica; è un’attività comunicativa
a più ampio raggio d’azione che interessa la mediazione tra la cultura di
partenza e quella di arrivo.
Il compito del traduttore è quello di rendere il testo
comprensibile al suo pubblico. In questo caso deve attuare
delle scelte che non sempre corrispondono alla traduzione
fedele al testo di partenza, cioè deve decidere quali aspetti del
testo privilegiare durante il processo di traduzione.
(NORD 1995: 33)
Ma già ad una prima lettura, qualunque italiano capirebbe che rendere la
lingua letteraria, talora dialettale, arcaica e vivace di Pellegrino Artusi in
qualsiasi idioma straniero non è un’operazione semplice. Il traduttore, se
esperto di filologia della lingua di arrivo, potrebbe tentare, attraverso studi
approfonditi, di riprodurre una lingua più letteraria e storicamente vicina a
quella Artusi. Optando però per l’arcaicizzazione della lingua d’arrivo, il
traduttore proporrebbe ai lettori una versione poco chiara e ben lontana
dalle esigenze del pubblico e dalle aspettative del mercato editoriale.
Il lettore straniero che acquista e consulta il manuale artusiano nella sua
lingua madre, si aspetta un ricettario di facile comprensione e consultazione.
Pertanto, in generale, le diverse case editrici hanno commissionato ai
traduttori delle versioni dell’Artusi che possano risultare accessibili a tutti. È
per questo motivo che spesso, all’estero, La Scienza in cucina e l’Arte di
mangiar bene subisce una sorta di riformulazione sul piano stilistico,
semantico e linguistico: i traduttori di Pellegrino Artusi hanno tutti optato
per l’attualizzazione della lingua e della prosa del manuale, anche se nella
28
maggior parte dei casi, hanno cercato di mantenere un registro standard,
evitando la lingua di uso quotidiano.
2.2. L’ARTUSI IN GERMANIA
Premesso che tradurre significa anche interpretare e mediare tra le culture
per esportare altrove un determinato testo, sorge a questo punto spontaneo
chiedersi se ha davvero senso tradurre un’opera quale quella di Pellegrino
Artusi, così lontana dal punto di vista sia storico-temporale che sociale e se,
traducendola, non si corra il rischio di poterla allontanare dal suo scopo,
dalla sua forma e della sua essenza più profonda.
In generale si potrebbe dire di no: volente o nolente, la traduzione comporta
la perdita di sfumature lessicali, sintattiche o di caratteristiche tipiche di una
cultura, espresse linguisticamente attraverso i fraseologismi o i modi di dire,
come spesso accade ne La Scienza in cucina (cfr. 1.3.). D’altro canto, però,
come in Italia, anche all’estero l’Artusi può assumere un valore etno-sociale,
in quanto qualsiasi popolo straniero conosce gli italiani come quella
comunità sociale che vede il cibo come arte del gusto e non come un
semplice mezzo dal quale ricavare il nutrimento necessario per il
sostentamento del corpo. Per questo motivo, nonostante l’ormai grande
numero di ricettari presenti sul mercato editoriale odierno, ha senso
tradurre un’opera come l’Artusi, per fornire ai lettori d’oltreconfine un
mezzo di conoscenza dell’autentica tradizione culinaria domestica italiana e
per fornire inoltre una testimonianza, seppur indiretta, di come essa si sia
evoluta e modernizzata con l’avanzare della storia e delle generazioni.
29
La cucina italiana è molto conosciuta e amata in Germania, Pellegrino
Artusi un po’ meno. I tedeschi si sono da sempre dimostrati curiosi di
conoscere non solo la gastronomia, ma anche la letteratura, la cultura, l’arte
e la lingua italiana, come già dà ampia testimonianza Johannes Wolfgang
Goethe con il suo “Italienische Reise” (1786).
Il ricettario artusiano, come si è visto, è stato tradotto e diffuso in
Germania e nei paesi tedescofoni; le versioni tedesche non hanno riscosso il
successo strepitoso registrato in Italia, ma si tratta comunque di un successo
costante, nonostante il prezzo imposto dalle case editrici (oggi La Scienza in
cucina è fuori catalogo e non più in commercio in Germania).
Risale al 1982 la prima edizione lanciata sul mercato tedesco, a cura della
casa editrice bavarese Mary Hahn Verlag con il titolo “Der große Artusi- die
klassische italienische Küche” e tradotta da Thomas Münster. Nonostante il
“große” del titolo, Mary Hahn Verlag decide di immettere sul mercato
tedesco una versione più “snella” de La Scienza in cucina, che presenta solo
500 ricette contro le originali 790. Si tratta, perciò, di un’edizione ridotta e
semplificata dell’originale. La seconda edizione è stata pubblicata nel 1998.
Curata da Claudia Dallatorre, si presenta come “Von der Wissenschaft des
Kochens und der Kunst des Genießens”, con un titolo, quindi, tradotto mot-à-
mot e con l’aggiunta di illustrazioni. Questa edizione è stata mandata in
ristampa nel 2005 dalla casa editrice Kosmos di Stoccarda e ha cambiato il
titolo in “Pellegrino Artusi. Die klassische Kochkunst Italiens”; tuttavia,
ambedue le edizioni subiscono un’ulteriore drastica “cura dimagrante”,
perché le ricette, dalle 500 dell’edizione del 1982, passano a 200.
Si deduce dunque che le ultime due edizioni tedesche differiscono molto
dalla versione italiana per la riduzione del numero di ricette, che così viene
motivata dalla casa editrice della quarta di copertina:
Zu Zeiten Artusis war auch die Küche Italiens gehaltvoll und
schwer (…). Deshalb wurde der Große Artusi einer
30
entscheidenden Verjüngungskur unterzogen. Rezepte, die den
heutigen Ansprüchen an eine gesunde Ernährung nicht mehr
genügen, wurden ausgesondert,…6
Stando a quanto afferma la casa editrice, l’eliminazione di molte delle ricette
racchiuse nell’opera artusiana è dovuta al fatto che la maggior parte di esse
non rispondono ai criteri nutrizionali odierni: se si prende in esempio la
sezione degli Arrosti di carne e di cacciagione, tradotta in tedesco
semplicemente con la parola “Braten”, emergono già due aspetti. Prima di
tutto, nella versione tedesca gli arrosti di cacciagione non vengono trattati;
poi delle trentasei ricette presenti in questa sezione se ne contano
solamente otto, pochissime, se si pensa che molti dei must dei secondi piatti
come il “Coniglio arrosto”, il “tacchino”, le “costolette di vitella di latte alla
milanese” e la celeberrima “bistecca alla fiorentina” sono state tagliate ed è
rimasta, invece, la ricetta del “Piccione a sorpresa”.
L’esclusione di queste ricette, tuttavia, va interpretata sotto due ottiche ben
distinte: da una parte è vero, come sostiene la casa editrice Mary Hahn
Verlag, che le abitudini alimentari e i bisogni nutritivi del duemila sono
cambiate; ma dall’altra parte, invece, questa minuziosa selezione editoriale è
dovuta alle esigenze del mercato tedesco. Invece di privilegiare e rispettare
le aspettative di un lettore che sfoglia l’Artusi per ricercarvi i segreti della
cucina domestica tradizionale italiana, la casa editrice preferisce andare
incontro al mercato e al consumo, proiettando l’Artusi in un’ottica che per
molti studiosi di scienze e storia dell’alimentazione risulterebbe
incomprensibile. È evidente che la cucina promossa dal ricettario artusiano
è lontana da quella odierna, non tanto per i lunghi metodi di preparazione o
per l’abbondanza di strutto, lardo e burro, ma anche per un fatto puramente
legato agli ingredienti, molti dei quali, infatti, oggi non sono più
6 Questa citazione è stata tratta dalla quarta di copertina de “Von der Wissenschaft des Kochens und der
Kunst des Genießens”; 2. Auflag, ed. Mary Hahn Verlag, 2000.
31
commercializzati in Italia poiché entrati in disuso. D’altro canto, però,
adattare l’Artusi al mercato del paese d’arrivo rappresenta una sorta di
operazione “democratica”: eliminare ricette particolarmente legate al
territorio italiano per i prodotti utilizzati vuol dire anche non far sentire la
mancanza di generi alimentari tipici italiani ad una comunità straniera.
Operando in questo modo, Mary Hahn Verlag permette al lettore tedesco di
accedere ad alcune ricette del panorama gastronomico tradizionale italiano
senza negargli la possibilità di realizzare la pietanza proposta dal ricettario
per mancanza di un determinato prodotto all’interno del proprio paese.
Numero di ricette a parte, anche lo schema di presentazione della pietanza
viene fortemente modificato dalle edizioni tedesche: sotto la traduzione di
ciascuna ricetta originale artusiana si trova infatti una sezione intitolata So
kocht der Meister, così cucina il maestro. Per la realizzazione di tale sezione è
stato chiesto a cinque famosi chef italiani di interpretare le ricette:
Gianfranco Vissani, Fulvio Pierangelini, Gualtiero Marchesi, Arrigo Cipriani e
Gianfranco Bolognesi conducono all’interno de Von der Wissenschaft des
Kochens una rivisitazione delle ricette con il semplice scopo di adattarle al
palato di oggi.
Rezepte (…) wurden ausgesondert, die übrigen entsprechend
der Erkenntnissen der modernen Ernährungs-wissenschaft
überarbeitet –von Fachleuten, die zu den führenden
Restaurantköchen Italiens zählen. 7
I cinque chef forniscono così dosi precise e ingredienti più vicini alle
esigenze nutritive odierne. Già Pellegrino Artusi, alla fine dell’Ottocento,
7 Questa citazione è stata tratta dalla quarta di copertina de “Von der Wissenschaft des Kochens und der
Kunst des Genießens”; 2. Auflag, ed. Mary Hahn Verlag, 2000.
32
avvertiva l’avanzare della moda del mangiar leggero, tanto che, nella sezione
in appendice intitolata Cucina per gli stomachi deboli scrive:
Ora si sente spesso parlare della cucina per gli stomachi
deboli, la quale pare sia venuta di moda. (ARTUSI 2011:575)
Oggi, infatti, la dieta alimentare risulta più salutare e priva di grassi animali,
burro, strutto e lardo; si mangia più leggero, si preferiscono le insalate, si
consumano molti ortaggi e si sta molto attenti alla linea; le ricette dell’Artusi,
invece, vanno incontro ai criteri nutritivi di un’epoca lontana, in cui si
mangiava più pesante per far fronte a lavori manuali e artigianali che
richiedevano sforzi maggiori rispetto alle mansioni professionali odierne,
perciò le pietanze erano più farcite
e ricche di sapori, ingredienti e
salse.
A lato, ecco un esempio di come il
lettore/cuoco tedesco viene
guidato nella preparazione dei
“Maccheroni alla Napoletana”.
Dal punto di vista organizzativo e
strutturale, si nota quanto la
rielaborazione sia più lunga e
dettagliata rispetto alla traduzione
della ricetta originale. So kocht der
Meister rappresenta perciò una
facilitazione per il lettore tedesco
che vuole avvicinarsi alla cucina
italiana, ma tradisce il vero spirito
di Pellegrino Artusi e de La Scienza
in cucina.
Pagina n. 53 de "Von der Wissenschaft des Kochens und der
Kunst des Genießens"; 2.Auflag, ed. Mary Hahn Verlag, 2000
33
In occasione della manifestazione “Festa Artusiana”, tenutasi nel 1997 nel
comune romagnolo di Forlimpopoli, il cuoco Gianfranco Bolognesi, nel suo
intervento al convegno scientifico “Pellegrino Artusi e la società del suo
tempo”, ha definito molte delle ricette contenute nel manuale sorpassate e
inattuali per l’uso smodato di grassi animali come la pancetta, il lardo, lo
strutto; per i lunghi tempi di cottura, per le salse pesanti, i fritti, le minestre
liquide, che oggi vengono sostituite sempre di più da quelle asciutte. Questo
perché le pietanze artusiane, secondo Bolognesi, sono la testimonianza di un
tempo che fu, in cui le esigenze del palato erano differenti da quelle odierne8.
Tuttavia, se la rivisitazione dei piatti artusiani può essere considerata una
sorta di tradimento nei confronti del “nonno della cucina italiana”, è anche
vero che ognuno ha il diritto di dare la propria interpretazione ad ogni
ricetta. Artusi stesso, d’altronde, afferma che «la cucina è estrosa (…) e sta
bene perché tutte le pietanze si possono condizionare in vari modi secondo
l’estro di chi la manipola» e, in modo lungimirante, lancia un monito che
anticipa già in un certo senso la scelta editoriale tedesca del 1998,
sostenendo che «modificandole a piacere non si deve però mai perder di
vista il semplice, il delicato, il sapore gradevole, quindi tutta la questione sta
nel buon gusto di chi le prepara.» (ARTUSI 2011: 381).
Ciononostante Mary Hahn Verlag rende alle stampe un manuale artusiano
estraniato in cui sia la lingua che la cucina convergono insieme in un unico
punto focale: la traduzione. Non si tratta, infatti, di una semplice traslazione
puramente linguistica dall’italiano al tedesco, ma anche di una traduzione
cuciniera e culinaria, in quanto, attraverso l’interpretazione della ricetta
“paterna”, le pietanze vengono depurate dai gustemi ottocenteschi e tradotte
a favore di quelli del palato e, talora, del mercato del secolo corrente.
8 Bolognesi, Gianfranco (1997) “Artusi a un secolo dalla «scienza»: un modello ancora attuale?” in
Pellegrino Artusi e la società del suo tempo, Atti del convegno scientifico con spettacolo e uso di cucina di
sabato 28 giugno 1997; [s.l.; s.n.; 1997]; 101.
34
La giornalista tedesca Maren Preiss sottolinea, inoltre, che l’editoria tedesca
non prevede una versione dell’Artusi paragonabile a quella italiana curata
da Piero Camporesi con un’introduzione dettagliata e un glossario di termini
specifici della cucina. Nella sua presentazione delle versioni tedesche de La
Scienza in cucina, evidenzia la mancanza di tutte le qualità che il manuale
artusiano racchiude in sé, ovvero quella letteraria, politica, saggia e
scientifico-zoologica. Il lettore tedesco non viene avvisato delle omissioni
compiute dalla casa editrice, non conoscerà mai la funzione e l’importanza
politica, linguistica, sociale e culturale che Pellegrino Artusi e La Scienza in
cucina hanno avuto all’interno della storia d’Italia9.
La “deutsche Mutter” che apre l’Artusi sa solo che sono state eliminate
molte ricette, non corrispondenti alla filosofia dell’odierna alimentazione;
mentre quelle rimaste sono state rivisitate da cinque chef che rappresentano
il fiore all’occhiello della ristorazione italiana. Consultando queste versioni
estraniate, essa si troverà davanti alla “klassische Kochkunst Italiens”, ma
non potrà scoprire interamente le radici degli usi culinari e cucinieri e i
segreti dell’arte del mangiar bene svelati dalla raccolta artusiana; al
contrario, leggerà un’opera in cui la bidirezionalità della traduzione ha
determinato l’adattamento alle esigenze nutrizionali e di mercato del
presente, privando l’Artusi dell’autenticità dei suoi gustemi.
9 Preiss, M. (2005) Tradurre, tradire o interpretare l’Artusi, in Atti del convegno Artusi, pellegrino nel
mondo di sabato 18 giugno 2005; intervento reperibile sul <http://www.pellegrinoartusi.it/convegni-
artusiani-2/2005-2/>; 3-6.
35
CAPITOLO III
UNA TRADUZIONE AL SERVIZIO DEI LETTORI
E DEL MERCATO
3.1. LA SCIENZA IN CUCINA E I RICETTARI DEL DUEMILA
La storia è come un fiume che scorre nel corso dei secoli e porta con sé
cambiamenti politici, geografici, sociali e, soprattutto, culturali. La
letteratura è il primo strumento attraverso il quale si può avere
testimonianza di tali mutamenti: grazie agli scrittori, oggi è possibile
comprendere le abitudini, le idee, gli usi e i costumi di epoche passate e
capire quanto una determinata società si sia evoluta con il progredire della
storia. I ricettari fanno parte della componente letteraria di qualsiasi società
del mondo: attraverso la loro consultazione si ricercano i cambiamenti delle
consuetudini ed esigenze alimentari, si indaga nel profondo delle tradizioni
gastronomiche di un popolo e si ricercano gusti ormai divenuti obsoleti o
decaduti a favore delle nuove mode e necessità nutritive.
Sfogliando La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, chiunque si accorge
di essere davanti ad un ricettario storico, che presenta uno spaccato sociale
e linguistico di due secoli fa e che testimonia di metodi di preparazione delle
pietanze più lunghi e fabbisogni alimentari basati su una quotidianità tipica
di un’epoca lontana dal duemila.
Al di là delle abitudini, delle esigenze della società e delle tradizioni, è
curioso notare quanto i ricettari del nostro millennio differiscano in lingua e
36
struttura da quelli di ieri, e questo la casa editrice Mary Hahn Verlag lo ha
decisamente notato prima di rendere alle stampe l’Artusi in tedesco.
Per portare un esempio di come i ricettari si sono evoluti, si veda come
Artusi propone la preparazione del “Risotto coi funghi”, ricetta n.76
Da ARTUSI 2011; 87
e come, al contrario, il best-seller Il cucchiaio d’argento propone la stessa:
Da CUCCHIAIO D'ARGENTO 2011; 311
A proposito delle ricette, il linguista tedesco Herman Cölfen scrive:
Elencazione
schematica degli
ingredienti
37
So beschreiben die Linguisten das Kochrezept als instruktiven
Text mit deskriptiver Themenentfaltung, bei dem die
appellative Funktion dominierend ist und rechnen es zu den
Basisklassen von Texten mit relativ geringem
Gestaltungsbereich, aber mit niedriger Abstraktionsstufe:
Arztrezept, Kochrezept, Todesanzeige. (CÖLFEN 2007; 85)
Secondo la linguistica, le ricette si collocano all’interno della tipologia dei
testi regolativi. Si tratta, infatti, di testi con lo scopo di fornire indicazioni e
dare istruzioni che devono essere di norma seguite e rispettate dal
ricevente. Le ricette prevedono una struttura nella quale si riflette l’iconicità
del processo di preparazione della pietanza, la quale viene favorita
soprattutto dall’uso dell’imperativo (in un tegame scaldate; mescolate;
mantecate;…), del congiuntivo esortativo e, in taluni casi, dell’infinito. I
ricettari del duemila, come si evince dal secondo esempio illustrato,
presentano infatti una struttura funzionale, la quale permette al lettore una
rapida consultazione. Questo tipo di struttura emerge in particolar modo
grazie all’elencazione schematica degli ingredienti, con tanto di quantità
precise in base alle persone e con l’apporto calorico calcolato per ciascuna
porzione.
La linearità sintattica e la struttura funzionale appaiono evidenti nella
ricetta proposta dal ricettario Il cucchiaio d’argento, dove la semplicità
stilistica abbraccia la proprietà di linguaggio dettata dai termini specifici
dell’ambito culinario (casseruola, insaporitevi, finemente tritata,
mantecate,…). In Artusi, la schematicità è inesistente e la chiarezza sintattica
non è sempre rispettata, in quanto ne La Scienza in cucina si trovano ricette
che vogliono essere, d’altro canto, la testimonianza culinaria di un’epoca
remota. Se si prende in considerazione l’esempio del “Risotto coi funghi”,
Pellegrino Artusi, infatti, si dilunga non solo sulla scelta della varietà del
fungo, ma anche sul metodo di preparazione, fornendo una teoria di
38
realizzazione della pietanza più ampia e dettagliata. Agli autori de Il
cucchiaio tutto ciò non interessa: si noti, infatti, che sembra dato per
scontato l’utilizzo del fungo porcino per la preparazione del risotto, quando
invece questo stesso può essere realizzato anche con semplici funghi
champignons.
Il cucchiaio d’argento rispetta pienamente le caratteristiche della tipologia
testuale della ricetta inserita in un libro di cucina: ogni ricetta, infatti,
prevede una lista di ingredienti, una concisa spiegazione del metodo di
preparazione, che deve risultare linguisticamente semplice e immediata al
lettore, e informazioni sui tempi di realizzazione, cottura e sull’apporto
calorico del piatto (CÖLFEN 2007; 88).
Tuttavia, non bisogna dimenticare che l’intento dell’Artusi era quello di
portare nelle case degli italiani un Manuale pratico per famiglie, come egli
stesso indica nella sua copertina.
Per riuscire in questo intento, un libro che tratta come argomento
fondamentale la preparazione di pietanze ha bisogno di rispettare i criteri
della propria tipologia testuale, ovvero chiarezza e linearità nella sua
struttura, e necessita di arrivare subito al lettore, affinché esso colga
perfettamente quello che si intende. Questi criteri non sono spesso rispettati
dallo stesso Pellegrino Artusi, soprattutto sul piano sintattico, dove il lettore
si imbatte spesso in periodi complessi e, talora, arzigogolati. Ecco un
esempio di sintassi complessa, presente nella ricetta n.476, “Arigusta”:
L’aragosta o arigusta è un crostaceo dei più fini e delicati,
comune sulle coste del Mediterraneo. È indizio della
freschezza e della buona qualità delle ariguste, degli astici e
de’ crostacei in genere, il loro peso in proporzione della
grossezza; ma sempre è da preferirsi che siano vivi ancora o
39
almeno che diano qualche segno di vitalità, nel qual caso si
usa ripiegare la coda dell’arigusta alla parte sottostante e
legarla avanti di gettarla nell’acqua bollente per cuocerla.
(ARTUSI 2011: 341)
Poiché la traduzione dell’opera artusiana di Thomas Münster e Claudia
Dallatorre è rivolta ai lettori tedeschi del XXI secolo, è necessario attuare
una riformulazione della lingua e della sintassi artusiana. Tuttavia, se lo
scopo è portare le ricette di un’epoca remota in terre tedescofone, occorre
non allontanarsi troppo dall’originale, per non estraniare l’opera e le
pietanze stesse dal loro contesto culturale, sociale e gastronomico
originario.
Come è già stato evidenziato precedentemente, una traduzione che
rispecchiasse in tutto e per tutto lo stile, le frasi e la lingua di Artusi,
porterebbe ad una versione artificiale e poco chiara per un lettore straniero;
comporterebbe non solo una lettura complessa, ma anche notevoli difficoltà
per la realizzazione della pietanza stessa (cfr. 2.1.). Aprendo un qualsiasi
ricettario in lingua tedesca, si nota subito che le ricette si distinguono per il
loro stile conciso, la loro struttura sintattica schematica, lineare e semplice.
Si riporta di seguito la scelta traduttiva del “Pesto” presentata nella versione
tedesca del ricettario Il cucchiaio d’argento (der Silberlöffel):
Da SILBERLÖFFEL 2011: 82
40
Attraverso questo esempio di traduzione della ricetta del “Pesto” proposta
nella versione tedesca de Il cucchiaio d’argento, si vuole evidenziare quanto
la lingua tedesca tenda ad esprimere i procedimenti di preparazione delle
ricette in modo diretto e conciso, rispettando le norme del testo regolativo.
Qui, infatti, si privilegia una sintassi molto semplice caratterizzata da frasi
minime e verbi all’infinito (si vedano mixen, zugeben, zugießen verarbeiten,
ecc.); inoltre nella maggior parte dei casi il sostantivo, il quale designa
l’ingrediente, prende il primo posto all’interno della proposizione, proprio
per dare maggior enfasi all’iconicità del metodo di preparazione e arrivare
in modo più immediato al lettore/cuoco.
Inoltre, in altri casi, le ricette tedesche privilegiano particolarmente la
Nominalisierung, ovvero la costruzione nominale (bei der Zubereitung des
»Cacciucco von Viareggio«), la quale consente una comunicazione ancora più
diretta ed immediata con il lettore, focalizzando la sua attenzione
sull’azione, piuttosto che sul concetto: cucinando è infatti più importante
comprendere il procedimento per l’ottima riuscita del piatto.
È evidente, perciò, che l’Artusi risulta lontano dai ricettari del duemila non
solo per il lessico e la sintassi, ma anche per la struttura e lo schema di
presentazione in cui le ricette vengono proposte. Ma poiché l’Artusi riveste
in Italia anche un ruolo di carattere documentario, in quanto si fa promotore
di una tradizione gastronomica per alcuni versi obsoleta, è normale che
anche le ultime edizioni differiscono molto dalle pubblicazioni di questo
millennio. In un certo senso, poi, il ricettario artusiano è più attuale che mai:
oggi le associazioni dei consumatori e la stessa Slow Food invitano i lettori a
consumare prodotti sempre freschi, del territorio, quindi “a chilometro zero”
e a mangiare alimenti di stagione. Tutto questo Artusi già lo promuove nel
suo libro; tutto questo i contadini già lo facevano.
I ricettari del duemila, invece, non si dilungano mai in tali inviti per il
consumatore: essi si limitano a presentare la ricetta secondo lo schema
41
“ingredienti/apporto calorico/preparazione/tempo complessivo di
realizzazione”, a consigliare il vino che meglio si abbina con la pietanza
proposta e a fornire un’immagine artistica di quello che dovrebbe essere il
risultato finale. I ricettari di oggi si presentano al pubblico sugli scaffali delle
librerie con lo scopo di divulgare le pietanze, la loro preparazione; con lo
scopo di essere consultati da un pubblico che si aspetta di ricevere istruzioni
rapide e prive di concettualismi per realizzare al meglio e nel più breve
tempo possibile il piatto che si desidera portare in tavola.
3.2. VON DER WISSENSCHAFT DES KOCHENS: LA TRADUZIONE DEGLI
ANEDDOTI E DEI RIFERIMENTI CULTURALI
Poste quindi le differenze strutturali e linguistiche che intercorrono tra il
manuale artusiano e i ricettari del duemila, seguirà, nel corso dei successivi
paragrafi; una panoramica delle scelte traduttive adottate per la
pubblicazione di Von der Wissenschaft des Kochens und der Kunst des
Genießens. Con l’aiuto di alcune ricette presenti sia nella versione originale
sia in quella tedesca, si andrà ad analizzare come gli aneddoti e i riferimenti
scientifici e culturali, spesso accompagnati da espressioni caratteristiche del
linguaggio parlato e da uno spiccato umorismo, vengono resi in lingua
tedesca.
Arrivati a questo punto, risulta evidente che definire l’Artusi come un
semplice ricettario è riduttivo. La Scienza in cucina si prefigura, infatti, come
un’enciclopedia del sapere culinario, nella quale l’autore non vuole solo
istruire i suoi lettori non solo sul piano della preparazione delle pietanze, ma
anche dare informazioni sulla natura e sulla storia degli ingredienti, fornire
42
nozioni di carattere zoologico e agricolo e raccontare esperienze personali o
storiche dell’Italia.
Pellegrino Artusi tende a trattare l’aneddoto e la ricetta allo stesso modo: il
registro stilistico e la sintassi utilizzata nella stesura dell’una e dell’altra
parte risulta sempre invariata, tanto che il lettore potrebbe considerare ogni
ricetta come una sorta di testimonianza del vissuto dell’autore. Nella
versione tedesca, però, l’aneddoto e le istruzioni per la preparazione della
pietanza si trovano sempre in relazione antitetica a causa del registro
utilizzato. A dimostrazione di quanto affermato, si veda la ricetta n. 47 del
“Minestrone”. Prima di addentrarsi nelle istruzioni alla preparazione,
Pellegrino Artusi fornisce un racconto in cui la storia d’Italia, dettata nel
1855 dal dilagare del colera in diverse province del Paese, si interseca
all’esperienza personale dello scrittore il quale, recatosi a Livorno, spiega in
che circostanza ha assaggiato la suddetta pietanza.
Il minestrone mi richiama alla memoria un anno di pubbliche
angoscie e un caso mio singolare. Mi trovavo a Livorno al
tempo delle bagnature l’anno di grazia 1855 e il colèra, che
serpeggiava qua e là in qualche provincia d’Italia, teneva
ognuno in timore d un’invasione generale che poi non si fece
aspettare a lungo. Un sabato sera entro in una trattoria e
dimando: Che c’e di minestra ? Il minestrone mi fu
risposto. Ben venga il minestrone diss’io. (ARTUSI 2011; 64)
Das Wort Minestrone bringt mir in Jahr großer Ängste ins
Gedächtnis und ein seltsames Erlebnis. Ich weilte während
des Badesaisons des Jahres 1855 in Livorno, und die Cholera,
die hier und da in den italienischen Provinzen aufflackerte,
hielt jedermann in Furcht von einer allgemeinen Epidemie,
die dann auch nicht auf sich warten ließ. An einem
Samstagabend ging ich in eine Trattoria und fragte »Was für
43
Minestra ist es?« »Minestrone« wurde mir geantwortet. »Also
gut, dann Minestrone«, antwortete ich. (ARTUSI 1998; 32)
L’aneddoto prosegue, raccontando delle turbolenze digestive subite durante
la notte dall’autore e dovute all’avanzare del colera nel livornese. Tuttavia,
aneddoto a parte, la ricetta originale prosegue, come di dovere, con le
istruzioni alla preparazione, di cui verrà fornito un piccolo estratto per
evidenziare la differenza di registro stilistico tra italiano e tedesco.
Mettete il solito lesso e per primo cuocete a parte nel brodo
un pugno di fagiuoli sgranati ossia freschi: se sono secchi date
loro mezza cottura nell’acqua. Trinciate a strisce sottili cavolo
verzotto, spinaci, e poca bietola, teneteli in molle nell’acqua
fresca, poi metteteli in una cazzaruola all’asciutto e fatta che
abbiano l’acqua sul fuoco, scolateli bene strizzandoli col
mestolo. (ARTUSI 2011; 64)
Das Fleisch wird wie üblich gekocht. Dann wirft man eine
Handvoll geschälte oder grüne Bohnen in die Brühe. (Wenn
sie trocken sind, werden sie vorher halbgar gekocht). Wirsing,
Spinat und etwas Mangold werden fein aufgeschnitten, in
frischem Wasser eingeweicht, in einer Kasserolle (mit Deckel)
trocken aufgesetzt, bis das Wasser heraus ist, dann
abgegossen und mit dem Schaumlöffel ausgedrückt. (ARTUSI
1998; 32)
Grazie a questo esempio, si nota subito la differenza di stile che vi è tra
aneddoto e metodo di preparazione nella lingua d’arrivo. In tedesco, infatti,
l’aneddoto mantiene lo stesso registro stilistico della versione italiana e la
prima persona singolare, che permette all’autore di rivolgersi e parlare
direttamente con il proprio lettore, mentre la ricetta rispecchia i parametri
lessicali e morfosintattici propri del testo regolativo. Ciò è testimoniato
dall’uso dell’impersonale man, dal continuo ricorso alla forma passiva
44
(wird… gekocht; werden…aufgeschinitten;…) e dalla posizione a inizio frase
dei soggetti, ovvero degli ingredienti (Das Fleisch…; Wirsing, Spinat und
etwas Mangold;…), proprio come avviene negli odierni manuali di cucina
(cfr. 3.1.)
La ricetta n. 82 del “Risotto coi gamberi” inizia con un aneddoto dal
carattere popolare e divertente
Si racconta che una gamberessa, rimproverando un giorno la
sua figliuola, le diceva: Mio Dio, come vai torta! Non puoi
camminare diritta? E voi, mamma, come camminate?
rispose la figliuola; posso andar diritta quando qui, tutti,
vedo che vanno storti? La figliuola aveva ragione. (ARTUSI
2011; 90)
Il suddetto aneddoto viene così tradotto:
Man erzählt sich, eine Gamberessa habe eines Tages
vorwurfsvoll zu ihrem Töchterchen gesagt: »Mio Dio, wie
verdreht du herumrennst! Kannst du nicht geradeaus gehen?«
Das Töchtercher antwortete: »Gern, Mama, aber mach es mir
einmal vor. « (ARTUSI 1998; 51)
Facendo una retroversione letterale del testo d’arrivo, si evidenzia subito
che la resa in tedesco di questa breve storiella non rispecchia perfettamente
l’originale italiano: qui si vede una traduzione succinta che presenta il
contenuto, ne riporta il senso stretto e arriva subito al punto con la risposta
lapidaria della figliuola »Gern, Mama, aber mach es mir einmal vor. «, ovvero
“Volentieri, mamma, ma fammi vedere come si fa”, eliminando dunque tutta
la vivacissima parte restante, ovvero la considerazione della deambulazione
storta ed insolita dei gamberi.
45
Insieme alle storie e alle esperienze personali, si trovano anche aneddoti di
carattere storico-culturale, come nella ricetta n. 104 degli “Spaghetti alla
rustica”, già citata a pagina 18 del presente lavoro. Qui Artusi vuole porre al
centro della scena un ingrediente che ancora oggi, sia nella cultura
gastronomica italiana che in quella di alcuni altri paesi europei, viene spesso
denigrato: l’aglio. L’autore vuol celebrare questo ingrediente e lo introduce
attraverso gli usi che ne facevano i romani, re Alfonso di Castiglia e gli egizi,
questi ultimi gl’unici ad apprezzarne gli effetti benefici per la salute. In
questo aneddoto si denotano due particolari scelte traduttive. Si inizia
dicendo che «gli antichi Romani lasciavano mangiare l’aglio all’infima gente»
(ARTUSI 2011; 106) e in tedesco questo incipit viene reso con «die Römer
verordneten ihren Kranken Knoblauch, damit sie gesunden sollten» (ARTUSI
1998; 64), dove quindi infima gente viene tradotto come Kranken, malati.
Contrariamente, tuttavia, infima gente non indica le persone affette di
malattie come vuole il traducente tedesco proposto, bensì persone di bassa
estrazione sociale, gente povera ed umile. Questa scelta è probabilmente
giustificabile dal fatto che gli antichi Egizi erano convinti che l’aglio fungesse
da «preservativo contro le malattie epidemiche e pestilenziali» (ARTUSI
2011; 106), frase che nella lingua d’arrivo si presenta sotto la forma
estraniata di «dient er angeblich auch zur Verbeugung gegen Cholera und
ähnliche Krankenheiten» (ARTUSI 1998; 64). Anche qui, come nel primo
caso, non vi è una totale corrispondenza , in quanto “malattie epidemiche e
pestilenze” viene reso con il nome di una malattia epidemica e, poi, con la
dicitura “simili malattie”. Ma come già è stato sottolineato più volte, non si
può sempre tradurre mot-à-mot.
Altro punto di particolare interesse per quanto concerne la traduzione, è la
resa dei riferimenti di carattere zoologico e culturospecifico e di espressioni
caratteristiche della lingua parlata. Per fornire degli esempi, verranno prese
in considerazione quattro ricette: la n. 74 del “Risotto nero con le seppie alla
46
fiorentina”, la n. 541 del “Pollo al diavolo”, la n. 546 della “Gallina di
Faraone” e, per ultima, la n. 455 del “Caciucco”.
Nella ricetta del “Risotto nero con le seppie alla fiorentina”, il lettore italiano
(e di conseguenza anche quello tedesco) viene informato della
classificazione zoologica della seppia e della proprietà municipale della
lingua italiana (cfr. 1.2.2), per la quale a Firenze essa è conosciuta come
“calamaio”.
Questo invertebrato (Sepia officinalis) dell'ordine dei
molluschi e della famiglia dei cefalopodi è chiamato calamaio
in Firenze, forse perché (formando spesso la bella lingua
toscana i sui vocaboli colle similitudini) esso racchiude nel
suo sacco una vescichetta, che la natura gli ha dato a difesa,
contenente un liquido nero che può servire da inchiostro.
(ARTUSI 2011; 85).
Der Invertebrat (wirbelloses Tier, sepia oficinalis) aus der
Ordnung der Mollusken und der Familie der Kopffüßler wird
in Florenz »Calamaio« (Tintenfaß) genannt vielleicht weil
ihm die Natur zu seiner Verteidigung ein Beuchtelchen mit
einer schwarzen Flüssigkeit geschenkt hat, mit der man
schreiben kann. (ARTUSI 1998; 47).
Si evince subito che il commento inserito da Artusi in parentesi sulla «bella
lingua toscana», che spesso forgia vocaboli attraverso le similitudini, in
tedesco viene omesso. Ciò accade perché, trattandosi di un’osservazione
linguistica fortemente collegata al contesto italiano, al traduttore sarebbe
servito spiegarne il significato, o comunque motivare la considerazione,
rischiando di dilungarsi e dare troppe informazioni, magari superflue, ad un
lettore interessato semplicemente alla preparazione del risotto. Un’altra
particolarità degna di menzione è la vivacissima similitudine che segue, circa
l’utilizzo della bietola a condimento della pietanza:
47
…E per conseguenza mettono la bietola, che mi pare ci stia
come il pancotto nel credo. (ARTUSI 2011; 58)
…Sie zu diesem Gericht Mangold nehmen, was mir zu passen
scheint wie der Milchmann in den Paternoster. (ARTUSI 1998;
47)
Questa similitudine legata alla quotidianità della lingua parlata, ma
comunque tipica della prosa artusiana, viene abilmente resa dal traduttore
tedesco con la figura del lattaio, il quale non ha alcuna relazione con la
preghiera del Padre nostro, tanto quanto il Pancotto, una minestra di pane
bollito condita con sale, burro, formaggio grattugiato e, talvolta salsa di
pomodoro, ha a che fare con la Professione di fede costituita dal Credo.
Un’altra espressione caratteristica del parlato viene utilizzata da Artusi nella
ricetta del “Pollo al diavolo”. Questa pietanza, come viene spiegato dallo
scrittore stesso, viene così chiamata perché «a chi lo mangia, nel sentirsi
accendere la bocca, verrebbe la tentazione di mandare al diavolo il pollo e
chi l’ha cucinato» (ARTUSI 2011; 382); ma egli propone ai lettori una
variante più accomodante al palato:
Io indicherò il modo seguente che è più semplice e più da
cristiano. (ARTUSI 2011; 382)
Die hier beschriebene Art, ist einfacher und für den
durchschnittlichen Gaumen erheblich humaner. (ARTUSI
1998; 176)
In tedesco, l’espressione “più da cristiano” viene resa con “di gran lunga più
umana per un palato medio”. Consultando, infatti, il “Grande dizionario
italiano dell’uso” di Tullio de Mauro, sotto la voce cristiano, si designa un
comportamento o un uso educato, civile e dignitoso. È tipico nelle regioni
centro-meridionali d’Italia utilizzare l’espressione fissa “da cristiano” per
indicare che una qualche attività deve essere svolta dignitosamente, in
rispetto del buon costume e del decoro. Per esempio, nel contesto famigliare,
48
qualunque nonna o madre potrebbe esclamare “Oggi, finalmente, facciamo
un pasto da cristiani!”, ove si intende che in questo giorno la famiglia
mangerà bene, come si deve; in un certo senso, un equivalente
dell’espressione “come Dio comanda”, per altro vicina per campo semantico.
La scelta traduttiva adottata, dunque, mantiene intatto il concetto di
partenza e l’uso che la lingua parlata fa di questa espressione; viene
rispettato il messaggio di “umanità” richiesto per poter preparare un “Pollo
al diavolo” piccante quanto basta per essere accomodante al palato e senza
troppo pepe di Caienna.
È inoltre interessante notare come i riferimenti culturospecifici vengono
trattati nell’ambito della traduzione. In taluni casi, infatti, essi trovano una
sorta di analoga corrispondenza tra la cultura di partenza e quella di arrivo,
mentre, in casi antitetici, non trovandone alcuna o essendo magari
irrilevanti agli occhi del pubblico destinatario, vengono tralasciati.
La “Gallina di Faraone” costituisce un esempio del primo caso. Grazie alla
ricetta di quella che oggi è più comunemente conosciuta come “faraona”,
Artusi narra al pubblico della giovane Italia una leggenda della tradizione
latina, secondo la quale a seguito della morte di Meleagro, re di Calidone, le
sorelle lo piansero così tanto che Diana le trasformò appunto in galline di
faraone.
Meleagro, re di Calidone, essendo venuto a morte, le sorelle lo
piansero tanto che furono da Diana trasformate in galline di
Faraone (ARTUSI 2011; 384).
Als Meleagros, der König von Kalydomen, zu Tode gekommen
war, beweinten die Schwestern ihm so sehr, daß sie von Diana
in Perlhühner verwandelt wurden (Perle als Symbol der
Träne). (ARTUSI 1998; 177).
49
Per questo motivo, se in italiano vale la leggenda romana, in tedesco il
traduttore spiega l’aneddoto riportato da Artusi in parentesi, facendo
riferimento all’etimologia dell’equivalente tedesco di “faraona”: Perlhuhn,
dove Perle sta per “lacrima” e Huhn per “gallina”. Conducendo diverse
ricerche in ambito etimologico, si scopre l’esistenza in area germanica di una
credenza popolare simile alla leggenda romana, la quale spiega la
provenienza di tale volatile. Miorita Ulrich afferma:
Das kommt bestimmt von diesem Huhn, das die von der Säuen
verschmähten Perlen gefressen hat. Das Huhn “trägt“ ja
immer noch diese Perlen und es heißt eben Perlhuhn.
(ULRICH 1997: 365)
Nella sfera linguistica tedescofona, perciò, il nome Perlhuhn si deve al fatto
che questa gallina avrebbe mangiato le perle rifiutate dai maiali. In fin dei
conti, curiosamente, vi è una connessione tra la leggenda romana e la
credenza popolare germanica: le lacrime, anche nel linguaggio proprio della
poesia, possono costituire un ottimo equivalente delle perle.
Attraverso la parentesi, in cui viene stabilita l’analogia tra le lacrime e le
perle, il traduttore coglie il senso vero del proprio mestiere, ovvero quello di
mediatore e intermediario tra le due culture. Infatti, «il senso della
traduzione è proprio quello di tirarsi fuori dalla propria enciclopedia, ossia
dalla rete dei propri riferimenti culturali, per riuscire a catturare qualcosa
che è estraneo e diverso, provando a farlo diventare interno a quel tessuto
culturale» (FERRARESE 2007: 14) lontano dal mondo di provenienza e
provando ad avvicinarlo al pubblico il quale, leggendo l’opera tradotta,
esprime anche il desiderio di far propria quella ricetta che porterà in tavola.
Il caso antitetico introdotto precedentemente circa l’omissione dei
riferimenti culturali che non trovano corrispondenza all’interno della sfera
sociale del pubblico destinatario è testimoniabile attraverso la ricetta n. 455
50
del “Cacciucco”. Ecco come si presenta l’incipit della ricetta nella versione
artusiana e in quella tedesca:
Attraverso l’esempio illustrato sopra, si nota che la versione tedesca non
presenta il commento di Pellegrino Artusi sull’unità della lingua italiana,
disputa molto viva ed accesa tra gli intellettuali dell’Ottocento.
Per l’Italia, la ricetta in sé ha un significato pari a tutte le altre presenti
all’interno del manuale: costituisce una testimonianza della tradizione
gastronomica della Nazione. Per Artusi, però, essa rappresenta un’ottima
occasione per parlare direttamente al lettore dell’annosa Questione della
lingua italiana, iniziata già nel Duecento con il De Vulgari Eloquentiæ di
Dante Alighieri, continuata da Pietro Bembo con le Prose della volgar lingua
e arrivata sino al secolo di Artusi con Alessandro Manzoni. La Quæstio
Da ARTUSI 2011: 328
Da ARTUSI 1998: 155
51
Linguæ costituisce per l’Italia un perpetuo dibattito, forse ancora vivo oggi
anche se mitigato dai mass-media, i quali favoriscono l’omogeneizzazione
della lingua parlata e scritta. Pellegrino Artusi, nell’introdurre il Cacciucco,
spiega le diverse denominazioni della pietanza tra Toscana e cosa adriatica e
continua con una sua particolare invettiva contro coloro che osteggiano
l’unità linguistica (cfr. 1.2.3.), affermando:
Dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il
pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti
osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse per la
lunga e inveterata consuetudine ai propri dialetti.
(ARTUSI 2011; 328)
La versione tedesca, al contrario, fornisce solo l’incipit attraverso il quale il
lettore viene a conoscenza della proprietà municipale della lingua italiana
tale per cui lo stesso piatto viene chiamato in modi diversi a seconda della
comunità dialettale. La decisione di omettere un riferimento così specifico
proprio della storia e della cultura italiana priva tuttavia Von der
Wissenschaft des Kochens di uno dei tratti caratteristici de La Scienza in
cucina: lo scopo del ricettario artusiano, oltre a fornire ricette, gustemi e
leggi della buona tavola, è quello di istruire gli italiani all’Unità del paese.
Certo, al lettore tedesco sicuramente interessa la preparazione piuttosto che
il discorso intorno all’unità linguistica della Penisola; ma togliendo all’Artusi
quel carattere civile, si va ad estraniare l’opera, sottraendole un suo
peculiare tassello. Si sarebbe potuto optare, invece, per una breve
spiegazione in parentesi o un rimando in nota per acculturare il lettore
tedesco del fatto che la lingua italiana, ricca di dialetti, è caratterizzata da
una secolare ed infinita disputa linguistica unica in tutta Europa e nel
Mondo. Ma senza una conoscenza di base da parte del lettore destinatario
dello sfondo storico e sociale dell’Italia di fine Ottocento, la resa in lingua
d’arrivo di tutti i riferimenti attorno alla questione linguistica e quelli contro
52
la predominanza del francese in cucina sarebbe stata superflua. Per questo
motivo, tali digressioni sono state omesse da una parte per semplificare la
comprensione del manuale di Artusi al pubblico tedesco, dall’altra per
favorirne il processo di attualizzazione non solo sul piano gastronomico e
linguistico, ma anche su quello culturale. Avvicinandosi perciò al mercato
editoriale tedesco, la casa editrice Mary Hahn Verlag raggiunge il suo scopo
di attualizzazione, facendo dell’Artusi l’opera più attuale della tradizionale
cucina italiana in chiave moderna.
53
3.3. RICETTE E INGREDIENTI: UNA TRADUZIONE DEL GUSTO
Gli aspetti che caratterizzano l’attualizzazione estraniante del manuale
artusiano nella sua resa in tedesco si riflettono anche nella traduzione del
nome delle ricette e in quella degli ingredienti, che in alcuni casi non trova
esatta corrispondenza tra il testo di partenza e quello di arrivo. Per
dimostrare quanto affermato, anche in questo paragrafo si farà riferimento
diretto ad alcune ricette che presentano questa problematica e si cercherà di
fornire una spiegazione del perché alcune di queste pietanze vengono
sradicate dal loro originale contesto gastronomico casereccio.
3.3.1. LE RICETTE
Un primo esempio di non corrispondenza tra la ricetta artusiana e la sua
traduzione è costituito dal titolo della pietanza n. 342 della “Carne alla
genovese”, che in tedesco viene resa come “Ossobuco”. Questa non
corrispondenza costituisce da un lato una sorta di deviazione nella
traduzione del nome della pietanza, dall’altro, invece, un errore legato
all’ambito delle scienze gastronomiche, in quanto le due ricette sono
completamente diverse tra loro per due principali motivi. Per prima cosa, le
due pietanze differiscono per la loro provenienza: la “Genovese” è una
ricetta tipica partenopea creata da un cuoco napoletano durante il Regno
borbonico (PENTA DE PIPPO 1989; 169); l’Ossobuco, invece, è una ricetta
tanto milanese da poter sostenere che «ossobuco e risotto allo zafferano
rappresentano la convivenza di due perfezioni che, invece di farsi la guerra,
la rilanciano a vicenda» (BARBERIS 2010; 32). Il secondo motivo per cui le
due pietanze risultano completamente distanti è dettato dal tipo di carne e,
per attestare ciò, si può fare completo affidamento ad Artusi. Lo scrittore,
infatti, vuole che per la “Carne alla genovese” si faccia uso di «una braciuola
magra di vitella del peso di grammi 300 a 400» (ARTUSI 2011; 257), mentre
per “Ossobuco” si intende «un pezzo d’osso muscoloso e bucato all’estremità
54
della coscia o della spalla della vitella di latte, il quale si cuoce in umido in
modo che riesca delicato e gustoso» (ARTUSI 2011; 268). Come si evince,
quindi, nel manuale artusiano viene dato uno spazio a sé a ciascuna delle
due ricette, essendo esse due cose ben diverse. Von der Wissenschaft des
Kochens, al contrario, presenta prima la traduzione della ricetta della “Carne
alla genovese” proposta da Artusi, successivamente nella sezione So kocht
der Meister vengono svelati i segreti per la preparazione di un ottimo
“Ossobuco”. La scelta adottata risulta incomprensibile, in quanto nella prima
parte della ricetta viene indicato l’utilizzo di una Kalbskarbonade, cioè la
fettina di vitello, mentre nella versione sottostante si fa riferimento al
Kalbshaxe, l’ingrediente giusto per la preparazione dell’ossobuco; si fa
dunque riferimento a due tipi di carne completamente differenti tra loro,
tanto da poter rischiare di confondere il pubblico tedesco.
Un caso ancora più singolare è costituito sempre da un secondo a base di
carne: le “Bracioline alla contadina” le quali, nella versione tedesca, vengono
tradotte con gefüllte Kalbsrouladen. Fin qui non si dovrebbero riscontrare
grossi problemi; ma confrontando le “Bracioline alla contadina” n. 309 di
Artusi con quelle a pagina 124 di Von der Wissenschaft des Kochens, ci si
accorge che, per alcuni versi, si sta facendo riferimento alla ricetta n. 307,
ovvero alle “Braciole ripiene”, esattamente come vuole la traduzione del
titolo nella versione tedesca. Il motivo resta tuttavia ignoto; probabilmente
si è deciso di lasciare l’epiteto “alla contadina” perché suona “più italiano” e
vivace ai lettori tedeschi. Ciò nonostante, il problema non è tanto il nome
della pietanza quanto piuttosto la traduzione degli ingredienti e del metodo
di preparazione, i quali differiscono totalmente dall’originale ottocentesco.
Si vedano ora le “Bracioline ripiene” e la loro traduzione:
55
Dalle illustrazioni tratte direttamente dai due ricettari, si nota subito che
dell’elenco degli ingredienti proposti da Artusi ne sono rimasti due: i 300
grammi di bracioline sottili di vitella e i 70 grammi che da carne magra di
vitella o di vitella da latte sono diventati di speck. Tralasciando per ora il
problema della sostituzione degli ingredienti, è curioso notare che nella
trasposizione della ricetta in tedesco vengono omessi vari aspetti, per
esempio il consiglio di battere la carne per allargare le fettine, il midollo di
vitella e il prosciutto vengono omessi, mentre il prezzemolo, l’aglio e degli
spinaci aromatizzati vengono aggiunti insieme anche al sale, che per Artusi
non occorre «a motivo del prosciutto e del parmigiano».
Da ARTUSI 1998; 124
Da ARTUSI 2011; 235
56
In realtà, però, pare che il traduttore stia traducendo una ricetta
completamente diversa, che non trova alcuna corrispondenza né con le
“Bracioline ripiene” e né con quelle “alla contadina”, nonostante
l’ingrediente portante della pietanza, ossia i 300 grammi di fettine di vitello
(mageres Kalbfleisch ohne Knochen) resti. Sembra più che altro che Von der
Wissenschaft des Kochens parli al lettore di più semplici fettine condite con
uno strato di speck, parmigiano e aromi vari, piuttosto che di quelle che oggi
sono più comunemente conosciute come “rolatine di vitello”. Ma se si va a
leggere la sezione So kocht der Meister della suddetta ricetta, lo chef propone
la preparazione delle vere “Bracioline alla contadina” n. 309 presenti ne La
Scienza in cucina.
Da ARTUSI 2011; 237
Da ARTUSI 1998; 125
57
Si noti che gli ingredienti per il ripieno delle bracioline, o delle rolatine come
a dir si voglia, corrispondono, così come il metodo di preparazione,
nonostante qualche piccola variazione (Artusi, ad esempio, consiglia di
cuocere le bracioline o in salsa di pomodoro o in un soffritto di cipolla,
mentre il maestro vuole la passata di pomodoro e la cottura in umido delle
cipolle).
Il problema della non corrispondenza si registra in alcuni casi anche tra la
traduzione della ricetta e la sua rielaborazione condotta nella sezione So
kocht der Meister. La revisione della pietanza, in virtù dei dettami della
moderna scienza dell’alimentazione, non riguarda solo i metodi di
preparazione, ma talvolta anche la scelta da parte degli chef degli ingredienti
di base necessari per la realizzazione del piatto. Così facendo, si determina
perciò una vera e propria trasposizione dei gustemi da un universo
alimentare nazionale e sincronico, ad un altro.
Si prenda in esempio la ricetta n. 74 del “Risotto nero con le seppie alla
fiorentina”. Per questa ricetta si trova un’esatta corrispondenza tra la
versione di Artusi e la sua traduzione; ma nella rubrica So kocht der Meister
il riso viene sostituito dagli strozzapreti. La scelta di sostituire l’elemento
portante della ricetta con una tipologia di pasta diversa confonde
decisamente il lettore il quale prima, legge la preparazione di un risotto e poi
quella per la preparazione degli “Strozzapreti al nero di seppia”. La modifica,
inoltre, non viene segnalata in modo chiaro e diretto attraverso il titolo della
nuova pietanza: gli strozzapreti, infatti, vengono indicati nella lista degli
ingredienti posta sul lato destro.
La revisione di questa pietanza, attraverso una tale modifica, genera due
riflessioni. Prima di tutto, sostituendo il riso con gli strozzapreti, si priva la
ricetta del suo stretto legame con il territorio, in quanto il “Risotto nero con
le seppie alla fiorentina”, proprio come suggerisce il nome, è una ricetta
58
tipica di Firenze, mentre gli strozzapreti sono originari della limitrofa
Emilia-Romagna. In secondo luogo, la sostituzione della materia prima può
essere motivata dalle abitudini gastronomiche italiane di oggi. Con il
progresso, l’industrializzazione e i mutamenti sociali, non è cambiata
solamente l’Italia, bensì con essa sono cambiati anche gli italiani; e se la
popolazione di una determinata nazione cambia, di conseguenza anche le
abitudini gastronomiche si trasformano grazie alle mani di chi manipola la
cucina, i gusti, le tecniche di ristorazione e preparazione dei cibi e grazie
anche ai programmi televisivi che trattano l’arte del mangiar bene. «La
cucina italiana è stata sottoposta in questi ultimi anni ad un duplice
movimento di unificazione» (CAMPORESI 1989: 234), dettato
principalmente dall’emigrazione interna del secondo Dopoguerra delle genti
del sud verso il nord. L’emigrazione interna, legata fortemente
all’industrializzazione, ha favorito l’arrivo dei prodotti tipici del meridione al
nord e viceversa, che oggi si riflette nella fitta rete di interscambio di generi
e abitudini alimentari da un’estremità all’altra del Paese. Grazie agli scambi
interregionali, l’Italia è riuscita ad unificarsi in tavola anche attraverso gli
esperimenti culinari che oggi determinano, per esempio, la sostituzione del
risotto con gli strozzapreti. Con ciò, si riesce a comprendere quanto
oggigiorno la cucina possa essere soggettiva e basata sul gusto di chi se ne
occupa. Invece degli strozzapreti, infatti, si potrebbe analogamente far uso
degli spaghetti o, ancor meglio, delle tagliatelle le quali, per la loro porosità,
assorbono al meglio il nero di seppia. La sostituzione e la rielaborazione
degli ingredienti e delle stesse ricette avviene già in molti ristoranti e nei
diversi programmi di cucina televisivi. Si tratta di un fenomeno moderno,
agevolato dal mercato e dalla fitta rete di scambi interregionali, ma dettato
soprattutto dall’attualissima volontà di far proprio un piatto dalle origini
remote nel tempo e lontane nello spazio.
59
Non è dunque un caso se all’interno di Von der Wissenschaft des Kochens un
ingrediente di base viene sostituito da un altro: è estraniante, se si considera
che la versione tedesca vuole proporsi sul mercato editoriale in qualità di
portatrice del sapere culinario artusiano, ma non è un adattamento di gusti.
La modifica dell’ingrediente di base vuole molto probabilmente fungere da
messaggio per il lettore tedesco, per fargli capire quanto in cucina di possa
essere creativi e quanto ciascuna ricetta si possa adattare al proprio estro.
3.3.2. GLI INGREDIENTI
In Von der Wissenschaft des Kochens ci si imbatte però in modificazioni di
ingredienti che non sono sempre dettate, come nell’esempio precedente,
dall’estro di uno chef o da semplici esperimenti culinari, bensì dalle
esigenze di mercato del paese d’arrivo.
Nella ricetta n. 7 dei “Cappelletti all’uso di Romagna”, Pellegrino Artusi
scrive:
Questa minestra, per rendersi più grata al gusto, richiede il
brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua
bontà si offre nella solennità di natale in olocausto agli uomini
(ARTUSI 2011: 36).
In tedesco, questo medesimo estratto viene così tradotto:
Diese Minestra ist am schmackhaftesten mit Hühnerbrühe, die
zum Bespiel um Weihnachten oft verfügbar ist (ARTUSI 1998:
21).
Sicuramente la scelta di tradurre “brodo di cappone“ con “Hühnerbrühe”,
ovvero “brodo di pollo”, è dovuta al fatto che il cappone, pur essendo un
gallo castrato, non è largamente diffuso in Germania quanto lo è in Italia,
specialmente nelle regioni centro-meridionali. Da notare, inoltre, è il
riferimento al Natale, che resta in tedesco. Risulta fuori contesto, in quanto
60
in Germania e, generalmente, nei Paesi nordici si fa spesso uso del brodo di
pollo, indipendentemente dall’occasione o dal giorno, ad esempio per
insaporire le zuppe o come accompagnamento alla carne bollita.
Lo stesso fenomeno accade con la ricetta n. 55 dei “Tortelli”, dove nella lista
degli ingredienti per il ripieno degli stessi, il traduttore adatta “ricotta o
raviggiuolo” al mercato tedesco, sostituendoli con “Quark oder Ziegekäse”.
Tuttavia, i prodotti consigliati nella traduzione tedesca differiscono
totalmente dalla ricetta originale: tra ricotta e Quark e raveggiolo e
Ziegenkäse intercorrono differenze di sapori e di caratteristiche tecniche
dovute in primis dall’allevamento degli animali e dal territorio, e poi dai
metodi di lavorazione. Per il “Dizionario delle cucine regionali italiane” edito
da Slow Food10, la ricotta è un latticino morbido e fresco di produzione
casearia diffuso in tutta Italia (e conosciuto anche in Europa), mentre il
Quark, secondo il dizionario “Wahrig” della lingua tedesca, è un formaggio
(dunque non un latticino) ottenuto dalla fermentazione del latte e
dall’aggiunta in esso del caglio. Il raveggiolo, facendo sempre riferimento al
“Dizionario delle cucine regionali italiane”, è un formaggio fresco e tenero di
latte di pecora raro e tipico delle regioni del centro Italia, soprattutto
dell’Appennino Tosco-romagnolo, mentre lo Ziegenkäse è un comune
formaggio di capra. Per poter dare ai tortelli un gusto particolare e unico,
grazie ad un ripieno eccellente, serve un formaggio fresco e di breve
stagionatura, che sia molle e spalmabile e che si sciolga al palato. Ma sia la
ricotta che il cacio raveggiolo possono rappresentare una difficoltà per il
lettore tedesco che vuole cimentarsi nella preparazione dei tortelli secondo i
dettami di Pellegrino Artusi, poiché ambedue i prodotti si trovano in
rarissimi casi nei supermercati tedeschi, così come il cappone per il brodo
dei cappelletti. Del resto, l’esportazione dei prodotti tipici di una
determinata regione geografica verso una nazione straniera dipende dalla
10
“Dizionario delle cucine delle regioni italiane”, a cura di Paola Gho; Slow Food editore (2008).
61
domanda finale dei consumatori. È evidente che se un prodotto non viene
richiesto, esso non viene trattato dal mercato. Perciò, il fatto che la ricotta in
Italia costituisca un bene alimentare di medio-alto consumo, è dovuto all’uso
corrente che la popolazione fa di questo prodotto e analoga considerazione
vale per il Quark, che in Italia non viene trattato non solo per ragioni di
abbondanza di prodotti caseari nostrani e nazionali già presenti sul mercato,
ma anche per il fatto che gli italiani acquistano abbastanza di rado generi
alimentari di produzione estera. Va ricordato però che la sostituzione degli
ingredienti non è una pratica moderna dettata dalle esigenze dei mercati:
essa affonda le sue radici negli usi dei contadini e degli umili quando, per
esempio, in mancanza del frumento si ricorreva a cereali inferiori o legumi
per la preparazione del pane. Queste modifiche delle materie prime,
avvenute per necessità in secoli remoti, sono state assorbite e sono
diventate elementi peculiari di una lingua e della sua comunità.
Quando si traduce una ricetta, è necessario tenere conto della struttura
gastronomica e della grammatica del cibo (MONTANARI 2004; 137) della
società per la quale una pietanza o un prodotto viene lessicalmente e
ideologicamente considerato tipico: la cucina si basa su modelli di
riferimento caratterizzati da sapori e colori e «se all’interno di un sistema
ogni elemento occupa un posto preciso, il primo obiettivo sarà quello di
conservarglielo» (MONTANARI 2004; 143) in rispetto della tradizione
alimentare di partenza.
La scelta di sostituire i prodotti adattandoli più che al gusto, al mercato del
paese di arrivo, genera una considerazione relativa alla traduzione che, a
questo punto, non riguarda più soltanto la lingua, bensì coinvolge anche
l’universo gastronomico. In effetti, per la versione tedesca de La Scienza in
cucina si può parlare di una traduzione al servizio del lettore e del mercato
del paese destinatario per le scelte adottate. Questo aspetto trova concreto
riscontro nella traduzione degli ingredienti indicati per la realizzazione di
62
ricette come quelle analizzate: sul piano culinario la pietanza viene
estraniata, in quanto cambiano i sapori: la carne di cappone, rispetto a quella
del pollo, risulta di norma più saporita e dà al brodo un gusto più ricco e
complesso. Sul piano linguistico e traduttivo, invece, si verifica la cosiddetta
localizzazione dei prodotti. Questo termine «designa il processo per rendere
un prodotto linguisticamente e culturalmente adeguato ad un paese/regione
geografica di destinazione (…) dove questo sarà usato e venduto» (MONTI
2007: 174). Andando incontro alla localizzazione dei prodotti in favore del
lettore e del mercato di arrivo, il risultato che ne consegue è la
delocalizzazione della ricetta. Mediante la sostituzione di prodotti
fortemente legati al territorio italiano con alimenti di uso comune, la ricetta
perde il proprio carattere regionale e territoriale e la propria specificità,
prendendo in sé ingredienti tipici del paese d’approdo.
Per le ricette raccolte in Von der Wissenschaft des Kochens, il discorso della
localizzazione è più valido che mai. Le scelte editoriali e traduttive hanno
voluto abbracciare una traduzione a favore del pubblico, creando in taluni
casi nuove ricette e adattandole in altri non solo al palato di oggi, ma anche
al mercato attraverso prodotti che vengono commercializzati in un paese
piuttosto che in un altro. Così facendo, però, le scelte adottate non hanno
favorito la divulgazione di un’opera autentica e così datata quale è La
Scienza in cucina nel panorama editoriale tedesco. Si è preferito bensì
esportare una versione in chiave moderna dell’Artusi, nel completo rispetto
delle abitudini ed esigenze nutritive del duemila, una rivisitazione “alla
tedesca” che permette solo in parte ad un lettore tedescofono di avvicinarsi
al “nonno della cucina italiana” e agli arcani segreti della tavola tradizionale
che egli ha voluto divulgare con il presente ricettario.
64
CONCLUSIONE
La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene è un ricettario dalle mille
sfaccettature. Rendere questa pluralità di nuance, a partire dal carattere
vivace della lingua fiorentina parlata, non costituisce un compito semplice
per un traduttore che, oggi più che mai, deve anche tener conto delle
aspettative del pubblico e delle esigenze del mercato di destinazione.
La tesi circa la bidirezionalità della traduzione trova dunque concreto
riscontro all’interno di Von der Wissenschaft des Kochens: cucina e lingua,
infatti, convergono insieme nella traduzione. Ciò, in quanto non solo il
manuale viene traslato in una lingua straniera, ma anche trasportato per
certi versi da un universo del gusto all’altro, come si è dimostrato attraverso
gli esempi presi dalla sezione So kocht der Meister e attraverso i casi di
sostituzione degli ingredienti.
Questa proprietà bidirezionale riscontrata nell’edizione tedesca de la
Scienza in cucina, un’opera quindi così tanto legata all’universo alimentare,
territoriale e culturale italiano, comporta tuttavia la pubblicazione di
manuale estraniato e sradicato dal suo significato più intimo e più profondo,
per privilegiare una versione più attuale e aggiornata nel pieno rispetto dei
princìpi dell’odierna scienza dell’alimentazione e dei gusti del pubblico al
quale è dedicata la traduzione.
65
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Il sottoscritto Shanel Talarico dichiara di aver redatto il presente lavoro in autonomia e di
aver usato soltanto le fonti bibliografiche indicate. Le parti del lavoro che riprendono lavori
altrui, o letteralmente o in modo riassuntivo, sono state segnalate puntualmente,
indicandone la fonte. Sono consapevole che il mancato rispetto di quanto indicato sopra
comporterà conseguenze gravi e il rifiuto del lavoro da parte del docente.
Trieste, 22 Settembre 2014