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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi / On Dante's epitaphs again. I. The poet's tomb and its inscriptions

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LUCA MAZZONI*

ANCORA SUGLI EPITAFI DANTESCHI. I. LA TOMBA DEL POETA E LE SUE EPIGRAFI

ON DANTE’S EPITAPHS AGAIN.I. THE POET’S TOMB AND ITS INSCRIPTIONS

Abstract

The essay is divided in two parts. In the first one, here published, the results of the analysis of all manuscripts containing Dante’s epitaphs, and of all the ancient writings that deal with the poet’s burying are presented. Boccaccio’s Trattatello in laude di Dante misled some copyists, who believed that the epitaph Theologus Dantes was engraved on the poet’s tomb. Indeed, the first epitaph posed over the tomb was Inclita fama, while anoth-er one, Iura monarchiae, was engraved on it some years later, at the latest by 373-74. The second part of the es-say will contain the checklist of all the manuscripts bearing the epitaphs, with a brief description.

Keywords

Dante Alighieri; Giovanni Boccaccio; Epitafi danteschi; Giovanni del Virgilio; Menghino Mezzani; Ber-nardo di Canaccio Scannabecchi; Rinaldo Cavalchini.

È un dato acquisito che il sepolcro ravennate di Dante venne ricostruito nel 483 da Bernardo Bembo, il quale per giustificare il suo intervento appose un’iscrizione, tuttora visibile, che dice molto sulle condizioni di abbandono in cui il sacello versava.

Meno pacifiche sono le vicende precedenti; in particolare, non è certo qua-li e quante iscrizioni fossero poste sulla tomba. Conosciamo infatti tre epitafi danteschi la cui storia è legata a quella del sepolcro del poeta: Theologus Dan-tes, di Giovanni del Virgilio; Iura monarchiae, tradizionalmente assegnato a

* Università di Verona; Dipartimento di Lin-gue e Letterature straniere; [email protected]. Ringrazio Saverio Bellomo, Giuseppe Frasso e Ma-ria Antonietta Marogna per l ’attenta lettura e le acute osservazioni, che hanno reso questo contribu-to meno imperfetto. «Exigua tumuli Dantes hic sorte iacebas, / squalenti nulli cognite pene situ. / At nunc mar-

moreo subnixus conderis arcu / omnibus et cultu splendidiore nites. / Nimirum Bembus Musis in-census Ethruscis / hoc tibi quem imprimis hae co-luere dedit». Maiuscole e interpunzione mancano nell ’originale, che è scritto in lettere capitali su una lapide posta sul muro destro del tempietto in cui la tomba è collocata. Traggo il testo da RICCI C. 965, p. 34.

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Bernardo di Canaccio Scannabecchi (Gian Paolo Marchi ha invece proposto di attribuirlo a Rinaldo Cavalchini di Villafranca);2 Inclita fama, di Menghino Mezzani. Aggiungiamo altri due epitafi che certo non comparvero mai sul se-polcro: Hic iacet eloquii moles facunda latini, forse di Benvenuto da Imola, e Co-micus hic Dantes iacet excelsusque poeta, di Guido da Pisa.

Lo studio fondamentale sul sepolcro di Dante è di Corrado Ricci; crono-logicamente più vicini, e più centrati sugli epitafi, gli importanti contributi di Saverio Bellomo, Giuseppe Indizio e Paolo Mastandrea. Per parte mia, qual-che anno fa ho pubblicato il testo di Inclita fama contenuto nel ms. Bodmeria-no 57 di Cologny, del 378 (manoscritto con l’attribuzione del testo al Mezza-ni), perché il testo di questo e altri codici in alcuni punti diverge dalla vulgata a stampa.3

L’attento vaglio del dossier sugli epitafi, ivi compresa l’intera tradizione ma-noscritta, cui indice il recentissimo articolo di Indizio, pone di fronte a una sorta di puzzle di cui non è agevole ricomporre l’esatta disposizione delle tes-sere, in particolare riguardo a quali e quante epigrafi fossero effettivamente poste sulla tomba del poeta. Qui intendo fornire un bilancio ragionato della vicenda degli epitafi danteschi, attraverso l’analisi sia di quella che potremmo chiamare la tradizione indiretta – testi antichi che parlano del sepolcro del poeta e delle sue iscrizioni –, sia della tradizione diretta – i manoscritti conte-nenti gli epitafi tout court, nei quali le notizie sono affidate alle eventuali rubri-che poste prima degli epitafi stessi. La seconda parte di questo studio conterrà il censimento dei manoscritti.

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È bene muovere dalla tradizione indiretta degli epitafi, non tanto per ragioni di dispositio argomentativa, quanto soprattutto perché alla tradizione indiretta appartiene il Trattatello di Boccaccio, che a mio giudizio ha avuto un peso de-

2 MARCHI 984. 3 RICCI C. 89; RICCI C. 965; BELLOMO 999a (poi in BELLOMO 999b); MAZZONI 200; INDIZIO 200; MASTANDREA 202. Interessanti anche PIN-CUS - SHAPIRO COMTE 2006 e CERIANA 203, dove si descrive un disegno della tomba di Dante diverso rispetto a quello scolpito da Pietro Lombardo, arte-fice del restauro quattrocentesco del sepolcro. Il dise-

gno, attribuito a Tullio, figlio di Pietro Lombardo, è conservato in una copia parigina dell’edizione del 48 del commento alla Commedia di Cristoforo Landino (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Rés. Yd. 7), già nota perché oltre al disegno contiene la lettera con la quale Landino si congratula con Bembo per il re-stauro del sepolcro dantesco. Sull’incunabolo si veda la scheda di Ursula Baurmeister in CORON 998, p. 32.

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terminante nel foggiare le altre ricostruzioni della storia del sepolcro di Dan-te e, lo vedremo, è stato un modello (o una pietra d’inciampo) anche per alcu-ni copisti di manoscritti di tradizione diretta degli epitafi.

Il Trattatello, come è noto, afferma che Guido Novello da Polenta, podestà di Ravenna, fece porre il corpo di Dante in un’«arca lapidea» presso il «luogo de’ frati minori in Ravenna», dichiarando la propria volontà di dotare le spo-glie del poeta di un’«egregia sepoltura» che ne avrebbe tramandato la memo-ria. In seguito, «alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna» vennero a conoscenza del desiderio di Guido Novello e gli invia-rono degli epitafi. Guido, poco dopo, perse il potere e morì a Bologna (333), «per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si rimase». Boc-caccio prosegue dicendo che «poi più tempo appresso» questi epitafi gli furono mostrati; visto che non erano stati incisi sulla tomba, egli decise di aggiunge-re al Trattatello i versi da lui giudicati «per arte e per intendimento più degni»: Theologus Dantes di Giovanni del Virgilio, «allora famosissimo e gran poeta, e di Dante stato singularissimo amico».

La redazione principale del Trattatello fu scritta tra il 35 e il 355 (a quel-l’epoca risale l’autografo, il Toledano 04.6), ma il testo non cambia nei due compendi: quello breve, conservato autografo nel Chigiano L.V.76, e quello lungo, di cui manca l’autografo.4

Altri testi successivi al Trattatello ne ripetono le circostanze, ma con una dif-ferenza fondamentale: vi si dice che Theologus Dantes si trova sulla tomba del poeta. Così nel commento alla Commedia di Guglielmo Maramauro (scritto negli anni 369-73),5 nel commento di Benvenuto da Imola (scritto tra il 379 e il 383), dove però il testo di Theologus Dantes non viene riprodotto,6 nella prima

4 Le citazioni sono tratte da BOCCACCIO, Tratta-tello (ed. Ricci), pp. 458-59. Per la datazione si ve-da RICCI P. G. 974. Grazie a Marco Giola, che mi ha gentilmente messo a disposizione le sue tavole di collazione dell ’intera tradizione manoscritta del compendio B del Trattatello, composta da 30 codici, posso dire che in essa non ci sono varianti significa-tive circa la questione degli epitafi rispetto alla pri-ma redazione.5 «E sta el so corpo sepelito ne la chiesia de San Francesco, ’nanti l ’intrata, in una molto bella ar-ca marmorea, sopra a la quale è scripto questo epi-tafio in versi facto per un so scollare, el quale seppe

assai de la conditione e de li facti de Dante, seguen-do lui de dì e de nocte como persona che assecta-va la doctrina de sì excellente doctore como fo esso. [segue il testo di Theologus Dantes]»: MARAMAURO, Expositione, pp. 80-8.6 «Non mirum ergo, si poeta nobilis elegit sibi vi-vere et mori in nobili civitate, ubi jacet apud locum Minorum in tumulo valde gravi» (chiosa a Purg. XIV 07-08); «Sepultus est apud locum fratrum minorum in sepulcro magno cum tali epitaphio quod fecit Johannes de Virgilio bonus contempora-neus eius et amicus» (chiosa a Par. XXX 33-38): DE IMOLA, Comentum, III, p. 393; V, p. 462.

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redazione del De origine civitatis Florentiae di Filippo Villani, scritta poco dopo il 38,7 e nel capitolo interpolato dedicato a Dante nella Nuova cronica di Gio-vanni Villani nel Marciano Z.33 (trecentesco, non datato), su cui si era basato il Muratori per pubblicare l’opera del Villani nei Rerum Italicarum scriptores.8

Quasi tutte queste testimonianze, a ben vedere, non fanno altro che ripe-tere le notizie del Trattatello: la sepoltura presso i frati minori (Benvenuto), il cambiamento di fortuna di Guido (F. Villani), la qualifica di Giovanni del Virgilio come «maestro» (F. Villani), poeta (F. Villani, capitolo interpolato di G. Villani), e amico di Dante (Benvenuto, F. Villani). L’unico che si differen-zia è Maramauro, che colloca la sepoltura «’nanti l’intrata» della chiesa di San Francesco, non cita il nome di Giovanni del Virgilio e afferma che l’autore di Theologus Dantes era uno scolaro di Dante.

Sappiamo che Benvenuto e Filippo Villani attingono al Trattatello,9 e Ma-ramauro afferma esplicitamente di avere intrapreso il proprio lavoro esegeti-co dantesco con l’aiuto, fra gli altri, di Boccaccio.0 L’affermazione è da valutare con cautela, ma il fatto che qui venga citato Theologus Dantes mi pare stia a in-dicare un legame con la biografia dantesca del Certaldese.

7 «Decreverat vir nobilis Guido Novellus ex ope-roso marmore amplissimo sumptu erigere monu-mentum, quo egregii poete cineres conderentur. Sed amici propositum infelix frustravit eventus, fortunis Guidonis in deterius commutatis. Que ta-men interim potuit viri nobilis diligentia adimple-vit. Curavit siquidem ut per multos pro cuiusque arbitrio ponendi versus sepulcro in poete laudem dictarentur; multisque multorum receptis, hos qui fuere magistri Petri de Virgilio iussit in frontispitio solempnis arcule insigniri: [segue il testo di Theo-logus Dantes]»: VILLANI F., De origine civitatis Flo-rentie, pp. 83-84. Il passo non cambia nella seconda redazione, scritta attorno al 396, salvo per il tra-scorso Petri, che diventa Iohannis (VILLANI F., De origine civitatis Florentie, pp. 355-56).8 Il passo, nell ’edizione Porta, così recita: «Nel detto anno MCCCXXI, del mese di luglio, morì Dante Allighieri di Firenze ne la città di Ravenna in Romagna, essendo tornato d’ambasceria da Vi-negia in servigio de’ signori da Polenta, con cui di-morava; e in Ravenna dinanzi a la porta de la chie-sa maggiore fue sepellito a grande onore in abito di poeta e di grande filosafo» (VILLANI G., Nuova

Cronica, II, p. 335). Il testo pubblicato da Murato-ri così prosegue: «il quale monimento fu poi a cer-to tempo adornato d’alti e sottilissimi versi, i quali compuose e dittò il grande e valente poeta maestro Giovanni del Virgilio di Bologna, iscolpiti in essa sepoltura; i quali versi sono questi: [segue il testo di Theologus Dantes]» (RICCI C. 965, p. 292). Fu Cor-rado Ricci a denunciare l ’interpolazione nel passo in questione. Sul ms. marciano si veda PORTA 979, p. 00.9 Nella chiosa a Par. XXII 73-75 Benvenuto parla di Boccaccio come «praeceptor meus». Di «notizie biografiche derivate dalla prima redazione del Trat-tatello» parla Paolo Pasquino in MALATO-MAZZUC-CHI 20, I, p. 94 (la scheda dedicata a Benvenuto è alle pp. 86-20). Su Filippo Villani si vedano BEL-LOMO 2004, pp. 386-90 (ove si afferma che il meda-glione dantesco del De origine civitatis Florentiae «è condotto sulla falsariga del Trattatello»); MALATO-MAZZUCCHI 20, I, pp. 87-9.0 Su Maramauro si vedano MARAMAURO, Exposi-tione; BELLOMO 2004, pp. 325-29; INDIZIO 200, pp. 289-90, 304-05; MALATO-MAZZUCCHI 20, I, pp. 262-67.

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D’altro canto, non può trattarsi di testimonianza diretta, visto che nessuno afferma di avere visto di persona il sepolcro dantesco. Di più: non risulta una presenza di Benvenuto a Ravenna, anche se egli svolse la sua attività di inse-gnante in città non lontane, Bologna e Ferrara. Anche Filippo Villani proba-bilmente non vide mai Ravenna (sono attestati soggiorni solo a Genova e Pe-rugia). Serve più cautela per il napoletano Maramauro, funzionario regio che viaggiò molto durante la sua vita; anche nel suo caso, però, non sono attestati con sicurezza soggiorni ravennati (fu a Bologna tra il 358 e il 359).

Nella tradizione indiretta degli epitafi non mancano tuttavia voci disso-nanti, le quali affermano che sulla tomba del poeta si trova un epitafio, ma non si tratta di Theologus Dantes: la testimonianza più antica, già nota a Ric-ci e rimessa in circolazione da Indizio, è la Chronica de civitate Ravennae, uno dei testi di storia ecclesiastica e secolare ravennate che nel codice a.P.4.9 della Biblioteca Estense e Universitaria di Modena fanno seguito all ’opera più cele-bre del manoscritto, il Liber pontificalis di Agnello Ravennate (precisamente, la Chronica si trova ai ff. 40r-42v). Nella Chronica, che narra in modo frammen-tario la storia di Ravenna fino al 346, si trova la notizia della morte di Dante e della presenza di Iura monarchiae sul sepolcro dantesco. Anche se il mano-scritto estense è stato scritto dopo il 43, anno con il quale termina una Chro-nica Episcoporum in esso contenuta,2 la Chronica va verosimilmente collocata attorno alla metà del XIV secolo:3 si tratta di una testimonianza di prim’or-dine, visto che l’autore è ravennate. Ho potuto inoltre verificare che la notizia sull’epitafio dantesco nel codice estense (f. 42v) non è interpolata.4

Anche il commento di Francesco da Buti, concluso nel 394 – una testimo-nianza finora non presa in considerazione negli studi sugli epitafi danteschi –,

«Hoc tempore [scil. nel 32] Dantes Alegerius moritur Ravennae, qui post mortem suam floruit de multis Operibus suis, sicut apparet in Comoedia sua, videlicet Infernum, Purgatorium, & Paradisum, & Monarchia. Sepultus est Ravennae ad locum Fra-trum Minorum, ubi apparet cum istis Versibus, vi-delicet: [segue il testo di Iura monarchiae]»: Chronica de civitate Ravennae, p. 579. Lo Spicilegium Ravenna-tis historiae, nome cumulativo dato dal Muratori a tutti i testi contenuti dopo il Liber pontificalis nel co-dice modenese, occupa le pp. 526-83.

2 Si veda la descrizione del codice procurata da Alessandro Testi Rasponi nella seconda edizione dei Rerum Italicarum scriptores (Codex Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, pp. VI-VII, dove però lo Spici-legium non viene pubblicato).3 Si veda la scheda dedicata alla Chronica da Au-gusto Vasina in ANDREOLI - GATTI - GRECI et alii 99, pp. 48-50.4 Segnalo che al v. 6 di Iura monarchiae nel codice estense si ha la lezione faciliore externus in luogo di extorris.

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afferma che sulla tomba del poeta «si dicono essere» i versi di Iura monarchiae, il cui testo viene riportato in extenso.5

Queste due testimonianze non dipendono dal Trattatello: lo si può esclude-re con sicurezza tanto per la municipale Chronica quanto per il commento di Francesco da Buti.6

Riassumendo, Boccaccio afferma che sulla tomba non c’è alcun epitafio, ma riporta i versi dell’epigrafe da lui giudicata più degna, Theologus Dantes. Gli autori influenzati da Boccaccio ne ripetono le notizie, con lo scarto decisivo che Theologus Dantes si trova sul sepolcro. Le testimonianze libere dal condi-zionamento esercitato da Boccaccio affermano invece che sulla tomba si trova un altro epitafio, Iura monarchiae. Mi pare quindi che tutte le testimonian-ze che si possono far risalire al Trattatello fossero sottoposte a due forze con-trapposte: l’autorità di Boccaccio in materia dantesca7 e le notizie sull’effettiva presenza di un epitafio sulla tomba di Dante. Francesco da Buti e soprattutto la Chronica, che ignorano il Trattatello, dimostrano che attorno alla metà del Trecento un epitafio si trovava sulla tomba di Dante: questo epitafio, tuttavia, non è Theologus Dantes, ma Iura monarchiae.

Anche le testimonianze quattrocentesche sono coerenti con questo quadro. La prima finora è rimasta ignota negli studi sugli epitafi: si tratta dello Spe-

5 «Ultimamente ridotto in Ravenna, avendo già cinquanta sei anni e quattro mesi, come catolico cri-stiano finio sua vita, a di’ 4 di settembre 32 e fu se-polto alla chiesa de’ Frati minori in onorevole sepol-cro, ove si dicono essere questi versi: [segue il testo di Iura monarchiae]»: DA BUTI, Commento, I, p. 9.6 Peraltro, con l’affermazione che sul sepolcro del poeta «si dicono essere» i versi di Iura monarchiae, Francesco da Buti sembra riportare una notizia di seconda mano. Del resto, egli non andò mai a Ra-venna, trascorrendo gran parte della sua esistenza a Pisa (attestati soggiorni a Lucca, Firenze, Empo-li e Pavia). Considerazioni analoghe sul «si dicono essere» in SASSETTO 993, p. 49, che parla del cen-no sul sepolcro di Dante come del «solo, modesto intervento personale del pisano sulla biografia del-l ’Alighieri». Su Francesco da Buti si vedano BELLO-MO 2004, pp. 246-59; MALATO-MAZZUCCHI 20, I, pp. 92-28 (scheda di Fabrizio Franceschini).7 Appare evidentemente ispirato al Trattatello an-

che il cenno di Giovanni Bertoldi da Serravalle nel commento a Inf. XXVII 40-42: «Quando Dantes moriebatur, ille dictus dominus Guido fecit cor-pus ipsius Dantis in loco Fratrum Minorum de Ra-venna honorifice sepeliri, et fecit ipse dominus Gui-do unum pulchrum sermonem in laudem auctoris» (DE SERRAVALLE, Comentum, p. 332). Il commento di Bertoldi fu scritto tra il 46 e il 47. Queste pa-role sono riprese pressoché ad verbum dalla mano B (47-50) del Codice Filippino, la quale, com’è noto, deriva gran parte della propria esegesi proprio da Bertoldi (Chiose Filippine, I, p. 495). Sappiamo che Bertoldi vide il sepolcro dantesco, e anzi vi si sof-fermò a recitare delle preghiere, come egli stesso af-ferma nella chiosa a Purg. XXVIII 6-2: «[Auctor] diu stetit Ravenne, et ibi est corpus suum sepultum apud Conventum Fratrum Minorum de Ravenna, et ego apud suam sepulturam dixi aliquas oratio-nes pro anima sua» (DE SERRAVALLE, Comentum, p. 750).

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culum philosophorum et poetarum, prima parte (conclusa nel 424) dell’opera denominata Vaticănus (‘canto dei poeti’) del neerlandese Arnold Geilhoven.8 Vi è citato uno dei due aneddoti su Dante dei Rerum memorandarum libri di Petrarca, con in coda la trascrizione di Theologus Dantes (introdotto dalla for-mula Multos ac notabiles libros ipse Dantes et cantilenas in vulgari Ytalie compi-lavit, que cotidie leguntur in scolis et a magnis theologis exponuntur cum difficul-tate. Eius epitafium tale dicitur) e di Iura monarchiae (preceduto da Et alius eius epytaphium est tale).9

Del 440 circa è la Vita Dantis di Giannozzo Manetti, nella quale si affer-ma che dapprima sul sepolcro di Dante si trovava Theologus Dantes, poi can-cellato per far spazio a Iura monarchiae.20 Attorno al 450 si colloca la testimo-nianza dello storico ravennate Desiderio Spreti (44-74), autore di un’opera dal titolo De amplitudine, vastatione, instauratione urbis Ravennae, pubblicata per la prima volta nel 489 (esiste un’altra edizione del 588, e una pubblicata nel 793 con il titolo di De amplitudine, eversione, et restauratione urbis Raven-nae).2 In quest’opera si parla solo di Iura monarchiae.22

Anche Geilhoven e Manetti risentono quindi dell’influenza di Boccaccio: l’epitafio di Dante citato per primo è sempre Theologus Dantes, benché ven-ga poi menzionato anche Iura monarchiae. Ancora una volta, una testimonian-

8 Arnold Geilhoven (o Gheyloven), nato a Rotter-dam nell’ultimo quarto del XIV sec., fu studente di diritto a Bologna e Padova, allievo di Gaspare Cal-derini e Francesco Zabarella, che gli fece conoscere le opere di Petrarca. È inoltre attestata la conoscen-za delle opere latine di Boccaccio (credo però che co-noscesse anche il Trattatello). Laureatosi nel 403, nel 407 divenne canonico agostiniano nella comu-nità di Groenendael, presso Bruxelles, dove morì nel 442. Fu autore di molte opere di diritto canonico. Su di lui si vedano Biographie nationale de Belgique, VII, coll. 709-0; DYKMANS 939, pp. 09-2; BILLA-NOVICH 947, pp. 355-57; MANN 969. Non mi risul-ta che sia mai citato nell’Enciclopedia dantesca.9 Lo Speculum philosophorum et poetarum si tro-va nei mss. Paris, Bibliothèque Mazarine, 563 (au-tografo di Arnold) e Wien, Österreichische Natio-nalbibliothek, Ser. n. 2703. I passi relativi a Dante e Petrarca sono stati pubblicati in LEHMANN 938.20 «Sepultus est Ravennae in sacra Minorum ae-

de, egregio quodam atque eminenti tumulo lapide quadrato examussim constructo, compluribus in-super egregiis carminibus inciso insignitoque. Epi-taphium ab initio huiusmodi in quadrato sepulcri lapide incisum fuit: [seguono i vv. -2 di Theologus Dantes] et quae sequuntur. Cum deinde postea sex dumtaxat carmina, longe prioribus illis elegantiora, a doctissimo quodam viro edita essent, veteribus e tumulo abolitis, nova haec incisa fuerunt. Carmina huiusmodi sunt: [segue il testo di Iura monarchie]»: MANETTI, Vita Dantis, p. 60. Sul Manetti si vedano FOÀ 2007; BALDASSARRI 2008.2 Su Spreti si vedano GINANNI 769, II, pp. 378-84; VASINA 993b, pp. 4-5.22 «Ibidem [scil. «apud divi Petri aedem»] etiam in Porticu exteriore marmoreum Sepulcrum extat, in quo Clarissimi Poetae Dantis Aligerii corpus situm est, cujus epitaphium, quod sibi mirum composuit, in ipso marmore incisum tale est [segue il testo di Iura monarchiae]»: SPRETI, De amplitudine, I, p. 33.

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za indipendente dal Trattatello, quella di Spreti, riporta solo Iura monarchiae, senza parlare di Theologus Dantes.

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Volgiamoci ora alla tradizione diretta degli epitafi, composta, in base alle mie indagini, da 24 manoscritti per Theologus Dantes, 84 per Iura monarchiae, 46 per Inclita fama.

Il ms. corsiniano 44.F.29, del 379, riporta l’epitafio Theologus Dantes prece-duto dalla seguente rubrica: Epitaffium quoddam super tumulum Dantis Allighe-rij de Florentia. Proprio a causa di questa rubrica, e con il concorso di quanto affermano Benvenuto e Maramauro nei loro commenti, Bellomo ipotizza che Theologus Dantes sia stato collocato sulla tomba dopo l’ultima trascrizione del Trattatello di Boccaccio, e cioè dopo il 365.23

Indizio svaluta le testimonianze di Maramauro e Benvenuto,24 ma segna-la un dato finora non preso in considerazione: nel manoscritto Laurenzia-no Ashburnham 574, lo zibaldone di Sacchetti che riporta tutti e tre gli epi-tafi danteschi, ciascuno dotato di rubrica, quella di Theologus Dantes recita In alis partibus. Indizio tiene in grande considerazione questo ms., anche in virtù della presenza di Sacchetti come podestà a Faenza nel 396. In forza delle ru-briche del Corsiniano 44.F.29 e dell’Ash. 574, Indizio conclude che «l’epitafio delvirgiliano non fu mai scolpito sul sepolcro di Dante; plausibilmente, fu in-ciso su una lastra funebre a latere dell’arca vera e propria, ovvero nel suo im-mediato contesto architettonico, plausibilmente dopo il 365-70».25

Da parte mia, posso affermare che l’unione dei dati risultanti dall’indagi-ne della tradizione indiretta e diretta dell’epitafio delvirgiliano permette di escludere con una certa sicurezza che Theologus Dantes fosse posto sull’ar-ca del poeta o nei suoi pressi. Il già citato Corsiniano 44.F.29, anche se si trat-ta di una testimonianza topograficamente non lontanissima da Ravenna (il co-dice è stato scritto dall’aretino Guido da Pratovecchio a Susinana, nella Valle del Senio, tra Toscana e Romagna),26 è l’unico manoscritto di tradizione di-

23 BELLOMO 999b, pp. 68-69, dove peraltro si os-serva che «esiste la possibilità – bisogna ammet-terlo – che, venuto a conoscenza dell ’epitafio Theo-logus, il commentatore [scil. Maramauro] abbia creduto che fosse stato posto nel luogo per cui era

destinato, ma non abbia verificato la notizia». 24 INDIZIO 200, pp. 304-07.25 INDIZIO 200, pp. 278-79.26 REPETTI 833-46, V, pp. 488-89.

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retta che lo affermi esplicitamente. Teniamo inoltre presente la forza della te-stimonianza boccacciana, in analogia con quanto è avvenuto nella tradizione indiretta degli epitafi: il Trattatello riporta Theologus Dantes, affermando pe-rò che non fu mai inciso; ai copisti giunge notizia della presenza di un epitafio sulla tomba di Dante: avranno facilmente pensato che si trattasse proprio del-l’epitafio giudicato più degno da Boccaccio. Credo che questo sia stato il mo-tivo che ha spinto Guido da Pratovecchio a inserire quella rubrica nel suo ma-noscritto (che non contiene, si noti, altri epitafi oltre a Theologus Dantes).

L’Ash. 574 è l’unico testimone trecentesco che riporta tutti e tre gli epita-fi. Le rubriche sono: In sepulcro Dantis (Iura monarchiae); In muro supra sepul-crum (Inclita fama); In alis partibus (Theologus Dantes).

Ora, un conto è dire che l’epitafio è in sepulcro o in muro supra sepulcrum: si tratta di indicazioni molto precise e, lo vedremo, probabilmente fededegne; altro è dire che un’iscrizione è posta in alis partibus, una formula troppo vaga per indicare una testimonianza de visu, soprattutto se confrontata con le cri-stalline indicazioni contenute nelle rubriche degli altri due epitafi. Presumi-bilmente Sacchetti, avuta notizia dell’esistenza dei tre epitafi danteschi, sa-peva con certezza, forse per esperienza personale, la precisa collocazione di Iura monarchiae e Inclita fama. Venuto a conoscenza dell’esistenza di Theolo-gus Dantes, ma ignorandone, a quanto sembra, la collocazione precisa, e forse suggestionato dai commenti che parlavano della presenza dell’epitafio delvir-giliano sul sepolcro del poeta, Sacchetti ha posto un’indicazione generica, che non ha riscontro né nelle rubriche della tradizione diretta di Theologus Dan-tes, né, peraltro, in quelle di Iura monarchiae e di Inclita fama. Un caso simile accade in un altro codice trecentesco, miscellaneo, che ha Inclita fama e Theo-logus Dantes: il Landau Finaly 89 della Nazionale di Firenze. Come nel caso dell’Ash. 574, si ha una curiosa giustapposizione di una rubrica circostanziata, quella di Inclita fama (Isti versus scripti sunt super sepulturam Dantis Ravenne) e di un’altra, quella di Theologus Dantes, generica (Isti versus infrasscripti facti fue-runt ob Dante similiter), un segnale di incertezza di fronte a un epitafio di cui il copista conosceva la consistenza testuale ma evidentemente non aveva riscon-tri circa l’effettiva collocazione fisica.

Mi pare dunque che la rubrica dell’Ash. 574 non possa assurgere al rango di prova dell’incisione dell’epitafio sulla tomba dantesca o nei suoi dintorni. È inoltre lecito dubitare dell’attendibilità assoluta delle notizie di Sacchetti sul sepolcro di Dante, visto che in Trecentonovelle CXXI vengono presentati due dati erronei relativi proprio alla tomba del poeta: vi si afferma infatti che essa

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era posta dentro la chiesa dei francescani di Ravenna, e che era già presente ai tempi di Bernardino da Polenta (346-59),27 due dati che contrastano con tutto quel che sappiamo al riguardo.

Negli altri codici antichi, le rubriche di Theologus Dantes – quando sono presenti – parlano più genericamente di Epitaphium Dantis, senza entrare nel merito di un’effettiva collocazione sul sepolcro. Altri codici latori di indicazio-ni sulla posizione dell’epigrafe sono tardi, e quindi meno probanti: databile al-la prima metà del XV secolo è il ms. A.4 dell’Archiginnasio di Bologna, la rubrica del quale afferma che Theologus Dantes è posto super sepulcrum, salvo però aggiungere un particolare che rende poco affidabile la sua testimonian-za, il fatto cioè che la tomba di Dante fosse posta presso la chiesa di San Vita-le a Ravenna,28 un dato che non ha riscontri (salvo quello offerto dalla rubrica di Iura monarchiae nel Vat. Lat. 3200); quattrocentesco e generico è il Fondo Trotti 373 dell’Ambrosiana di Milano,29 con solo i primi due versi; di una ma-no del terzo quarto del XV sec., e ancor più generico, il Laur. XL.38;30 di ma-no cinquecentesca la rubrica del Gaddiano 90 inf. 4 della Laurenziana, codice che presenta una curiosa gemmazione di testi sepolcrali danteschi (se ne vedrà la descrizione nella seconda parte di questo studio).3

È significativo anche il fatto che la tradizione manoscritta di Theologus Dantes sia per lo più a sé stante, diversamente da quanto accade per Inclita fa-ma e Iura monarchiae, spesso accoppiati nei codici. Quelli che presentano l’epi-

27 Nella novella si narra che quando Antonio da Ferrara era a Ravenna, dopo aver perso al gio-co «quasi ciò che avea», «entrò nella chiesa de’ Fra-ti Minori, dov’è il sepolcro del corpo del fiorenti-no poeta Dante». Viste molte candele accese presso un antico crocifisso, le spostò tutte sul sepolcro di Dante, dicendo: «Togli, che tu ne sè ben più degno di lui» (SACCHETTI, Trecentonovelle, pp. 33-33). Ric-ci, nella prima edizione del suo lavoro, ha tentato di attribuire verosimiglianza alla novella di Sacchetti, osservando con l’ausilio di Agnello Ravennate che anticamente nella cappella di Braccioforte, posta al-l ’esterno della chiesa di S. Francesco, a pochi metri di distanza dal sepolcro, si trovava un crocifisso, e che quindi Antonio da Ferrara avrebbe potuto age-volmente spostare le candele (RICCI C. 89, pp. 27-72). Resta però il dato erroneo di partenza: il sepol-cro di Dante non è mai stato dentro la chiesa di S.

Francesco, come peraltro nota lo stesso Ricci nel-la terza edizione, abbandonando la sua vecchia con-gettura: nella cappella di Braccioforte non si trova-va un crocifisso, ma un Cristo Pantocratore o una Traditio legis, mentre un antico crocifisso in fama di miracoloso era effettivamente posto dentro la chie-sa di San Francesco: RICCI C. 965, p. 33. 28 Infrascripti sunt versi scripti in civitate Ravene super sepulcrum Dantis Alegheri huius libri condito-ris et est situatus Ravene apud ecclesiam Sancti Victa-lis Martiris. L’epitafio delvirgiliano è seguito da Iu-ra monarchiae, con la rubrica Aliud epitaphium super Dantis sepulcris.29 Epithaphyum Dantis in civitate Ravenne.30 Epitaphium tumuli Dantis.3 Questi versi, che sono di là furono fatti da’ Rave-gnani, dove morì, e fu sepolto Dante, al suo sepolcro.

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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi

grafe delvirgiliana insieme agli altri testi sepolcrali danteschi sono i già citati trecenteschi Landau Finaly 89 della Nazionale di Firenze (con Inclita fama) e Ash. 574 (con Iura monarchiae e Inclita fama), e i quattrocenteschi Napoli Gi-rolamini CF.2.6, Napoli Nazionale XIII.C.I, Bologna Archiginnasio A.4, Ambrosiana Fondo Trotti 373 (tutti con Iura monarchiae). I tardi Laur. XL.38, Vat. Lat. 53, Marciano It. IX.30 e Toledano 00.42 contengono tutti e tre gli epitafi.

Un’ultima osservazione relativa al Trattatello: esistono almeno tre mss. di quest’opera che anziché riportare in extenso l ’epitafio delvirgiliano ne cita-no solo il primo verso, cui fanno seguito Inclita fama e Iura monarchiae, ripor-tati per intero. Ciò è già stato notato da Macrì-Leone nella sua edizione del 888, che segnalava come ciò avvenisse nel Riccardiano 007 e nel Marciano It. XI.36, entrambi del XV sec.32 Posso aggiungere che questa particolarità occor-re in un altro ms. del Trattatello, annoverato nel Censimento dei commenti dan-teschi: il Corsiniano 44.D.7, di metà XV sec.33 Anche questa potrebbe essere una spia della mancata collocazione di Theologus Dantes sulla tomba del poeta: i copisti del Trattatello, sapendo che le epigrafi effettivamente poste sul sepol-cro sono diverse da quella citata da Boccaccio, le riportano per intero. A que-sto fatto, pur significativo, non attribuirei comunque soverchia importanza, perché si verifica in codici del secolo XV, cioè di un periodo in cui la presen-za di altre epigrafi sulla tomba del poeta, verosimilmente, era conclamata. Il fenomeno è invece assente nei compendi: il Chigiano L.V.76 (compendio A), autografo di Boccaccio, contiene Theologus Dantes; Marco Giola, che ringra-zio, mi comunica che in nessun codice della tradizione del compendio B del Trattatello l ’epitafio delvirgiliano è surrogato dagli altri epitafi. Al più, i versi di Theologus Dantes vengono omessi (il solo Riccardiano 085, f. 4v, ne riporta un volgarizzamento).

In definitiva, un solo manoscritto antico, il Corsiniano 44.F.29, scritto nel 379, parla di Theologus Dantes presente super tumulum. Una testimonian-za isolata che non credo debba essere sopravvalutata, anche perché circa In-clita fama e Iura monarchiae le indicazioni che provengono dalle rubriche so-

32 BOCCACCIO, Trattatello (ed. Macrì-Leone), p. CLXI.33 Sul ms. si veda MALATO-MAZZUCCHI 20, II, p. 06 (scheda di Francesco Feola). Il ms. non

è censito nei due voll. della Tradizione di Branca, e nemmeno nelle integrazioni uscite successivamente negli «Studi sul Boccaccio».

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no molto più dettagliate, come presto vedremo. Possiamo dunque credere che Theologus Dantes visse di sola luce boccaccesca e tornare ad asserire, con Cor-rado Ricci, che non fu mai scolpito nella tomba o nei pressi della tomba di Dante.

* * *

Veniamo ora a Iura monarchiae, epitafio che secondo la Chronica civitatis Ra-vennae era scolpito sul sepolcro dantesco. Nella tradizione diretta salta subito agli occhi, lo abbiamo già detto, come nei manoscritti trecenteschi questo epi-tafio sia spesso accompagnato da Inclita fama, anche in due manoscritti datati ai quali Bellomo ha giustamente conferito molta importanza per via dell’anti-chità e della contiguità geografica dei copisti con Ravenna: il primo è il Par-mense 060 della Palatina di Parma, scritto in Emilia Romagna nel 373-74, che riporta Iura monarchiae e Inclita fama preceduti rispettivamente da queste rubriche: In sepulcro Dantis sunt hec carmina; Supra sepulcrum sunt hec alia. Il secondo è il Bodmeriano 57 di Cologny, scritto dal cesenate Francesco di mae-stro Tura nel 378, che contiene Inclita fama e Iura monarchiae (in quest’ordi-ne), con le rispettive rubriche Infrascriptum primum epithaphium scultum est in archa Dantis et factum fuit per discretum virum S. Minghinum Meçanum de Ra-venna e Infrascriptum epitaphium scultum est in archa dicti autoris et nuperrime factum per quemdam quod est infrascripti tenoris.

Questi codici ci dicono che nel 378 i due epitafi si trovavano sulla tomba di Dante, e che il primo a esservi collocato fu Inclita fama, visto che Iura mo-narchiae nel 378 viene definito nuperrime factum. Bellomo ipotizza che dopo il 373-74 (periodo in cui fu concluso il commento di Maramauro ed explicit del Parm. 060) Inclita fama fu posto sopra il sepolcro, seguito subito dopo da Iu-ra monarchiae. Le conclusioni di Bellomo sono state accettate, nella sostanza, da Indizio.

Nella tradizione diretta degli epitafi, tuttavia, non mancano testimonian-ze più antiche che ci permettono di alzare ulteriormente la data di collocazio-ne di Inclita fama sul sepolcro. Assai antico, e finora non preso in considera-zione negli studi sugli epitafi, è il Lat. 35 di Harvard, codice contenente, fatto curioso, non la Commedia ma l’Historia destructionis Troiae, seguita, nell’ordi-ne, dall’epitafio di Roberto d’Angiò, da Inclita fama e dall’epitafio di Giovan-ni Visconti. L’inserimento di questi testi sepolcrali nella parte finale del ma-noscritto sarà dovuto al fatto che l’Historia termina con gli epitafi di Ettore e

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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi

Achille.34 Il codice, uno dei cinque su cui è basata l’edizione Griffin dell’Histo-ria,35 è datato 353, è stato scritto a Bologna o a Venezia, e gli epitafi sono stati aggiunti da un’altra mano, «quasi contemporanea»,36 certo dopo l’ottobre 354, data di morte di Giovanni Visconti. L’epitafio, dotato della generica rubrica Epitaphyum Dantis, presenta alcune lezioni deteriori: orbe per urbe (v. 2), sue necis stractus per sevae necis stratus (v. 4), pntis (praesentis) per praesenti (v. 6), e scrizioni come universsum, mussarum, aulla, ipercorrettismi che fanno pensa-re a un copista settentrionale. I primi due epitafi contenuti nel codice di Har-vard presentano sporadiche varianti marginali e interlineari, di altra mano; per Inclita fama si trova la variante seu invece di sue (v. 4). Siamo di fronte a un testimone altissimo, nel quale però Inclita fama è di altra mano, e quindi non collocabile con precisione dal punto di vista cronologico. Anche le lezioni de-teriori inducono a una certa cautela.

Esistono anche altre testimonianze, molto più circostanziate, della pre-senza di Inclita fama sul sepolcro dantesco, e una è datata: un codice scrit-to a Bergamo nel 362, il Laur. XXVI sin. 2, con il commento dantesco di Al-berico da Rosciate. Questo manoscritto fornisce la testimonianza datata più antica non solo del testo di Inclita fama, ma anche del fatto che l’epitafio fos-se effettivamente inciso, o comunque posto sulla tomba del poeta. La rubrica, infatti, risulta abbastanza dettagliata: Sepultus fuit in cemiterio fratrum mino-rum eiusdem civitatis in cuius tumulo ad eius perpetuam memoriam hec carmina sunt descripta. La definizione di cemiterius per il luogo di sepoltura del poeta, naturalmente da non intendere in senso moderno, ben si attaglia alla realtà, visto che nell’area dove sorgeva il sepolcro si trovavano altre tombe, ricavate – come era stato per quella di Dante – da antiche arche romane rinvenute in loco.37

Le notizie sull’epitafio contenute in questo codice si diffusero in altri mano-scritti esemplati a Bergamo, il Barb. Lat. 4037, del 399, e il Cass. 6. della Civi-ca di Bergamo, del 402 (anch’essi contenenti il commento dantesco di Alberico da Rosciate), che presentano solo Inclita fama e una rubrica assai simile a quella

34 Un fenomeno simile si osserva in un altro codice dell’Historia, l ’Ambr. H 86 sup., della seconda metà del XIV sec., che al termine dell’opera di Guido del-le Colonne contiene l’epitafio di «F. de Lancinicho», inc. Gloria Tervigenus lapsis spes ultima celsus.

35 DE COLUMNIS, Historia. 36 LIGHT 995, p. 43.37 RICCI C. 965, p. 366 n. 36; MURATORI 99, p. 3.

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del Laur. XXVI sin. 2.38 La parentela fra questi manoscritti emerge anche dalla lezione di Inclita fama al v. 2, dove hanno tutti Dantis in luogo di Dantes.

Sappiamo che a Bergamo la fortuna di Dante è relativamente precoce: ber-gamasco è Bettino de Pilis, copista di tre codici a noi noti della Commedia: il Parigino It. 538 (datato 35), il laurenziano Ashb. App. dantesca 7 (del 368) e il Classense 6 di Ravenna (del 369).39

Per eccesso di cautela, si potrebbe pensare che a Bergamo fosse circola-ta una notizia erronea circa l’incisione di Inclita fama, notizia accolta dal Laur. XXVI sin. 2 e diffusa nel Barb. Lat. 4037 e nel Cass. 6.. Tuttavia l’obiezione, a ben vedere, non regge, per una serie di motivi: la rubrica non è generica (del tipo Epitaphium Dantis), ma dettagliata – contiene non solo l’indicazione della sepoltura del poeta presso i frati minori di Ravenna, dato già presente nel Trat-tatello, ma parla anche del cimitero –; questi codici riportano la notizia dell’in-cisione e anche il testo dell’epitafio, il che significa qualcosa in più che una sem-plice diceria. Esiste poi un altro codice di origine bergamasca con il commento di Alberico, il Laurenziano Acquisti e doni 28, del 390, nel quale si trova una breve nota scritta dopo l’epitafio, più dettagliata delle altre rubriche bergama-sche: vi si afferma che Inclita fama è super sepulcro (non più in tumulo), sparisce l’indicazione del cimitero, e viene fornita un’informazione topografica in più: la collocazione dell’esastico vicino alla chiesa di San Pietro (cui la chiesa era dedicata prima del passaggio ai Francescani, avvenuto nel 26).40 Per certi ver-si l’Acquisti e doni 28 è più vicino all’antico Laur. XXVI sin. 2, rispetto agli altri due codici bergamaschi, perché condivide con questo codice l’inclusione di Inclita fama in una curiosa nota con il conteggio dei giorni di vita di Dante.4

38 Barb. Lat. 4037, del 399: Nota: sepultura Dan-tis est in cymiterio fratrum minorum de Ravenna. Et ad eius recommendacionem in tumulo suo scripta sunt carmina hec VI Sex metra vel versus. Cass. 6.: Pre-cora sepulti Dantis in cemitorio Fratrum Minorum de Ravena ad comendationem in tumullo scripta sunt carmina hec videlicet.39 Su Bettino si veda FIAMMAZZO 894, pp. 30-32. 40 Predicti versus sunt scripti super sepulcro Dantis in civitate Ravene ad domum fratrum minorum prope ecclesiam beati Petri Apostolli.4 Laur. XXVI sin. 2: Explicit comentus Comedie Dantis de Aligeriis de Florencia compositus per ma-gistrum ‹Benevenutum de Imola› [su rasura, di ma-no quattrocentesca], qui Dantus compilavit suam

Comediam sub anno dominice incarnationis millesi-mo trecentesimo anno de mense Marci, solle in Ariete et luna nova in Libra. Qui vixit diebus viginti duobus millibus quingentibus sex, ex quibus diebus posunt no-tari anni 6, et menses 7 et dies 3 intus computato die mortis. Item potest notari quod eius nativitas fuit 260 die Kalendis Februarii. Et finaliter decessit in civitate Ravenne anno dominice incarnationis 32 in die San-cte Crucis de mense Septembris cuius anima per Dei misericordiam in pace quiescat. Sepultus fuit in cemi-terio fratrum minorum eiusdem civitatis in cuius tu-mulo ad eius perpetuam memoriam hec carmina sunt descripta videlicet [segue Inclita fama, con i versi po-sti uno di seguito all ’altro e separati da un punto]. Et nota quod hunc librum fecit scribi Nicolaus de Rez-

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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi

Abbiamo inoltre notizie simili, relative alla presenza soltanto di Inclita fa-ma sulla tomba del poeta, provenienti da un altro copista che sembra ben in-formato sulla sorte del sepolcro dantesco: Pietro Campenni, di Tropea, che nel Fonds It. 77 della Nazionale di Parigi (395) e nel Marc. It. IX.692 (398-400), entrambi compilati a Isola d’Istria (il secondo concluso a Portobuffolè, Treviso), scrive la stessa, accurata rubrica (Subscripti versus in ecclesia fratrum minorum Ravenne extra portam claustri super sepulcrum [sepulturam nel Fonds It. 77] Dantis in manu sinistra in introytu).

Rispetto a quelle con l’epitafio del Mezzani, le testimonianze con Iura mo-narchiae appaiono meno antiche: il Riccardiano 025 (scritto a Firenze nel se-condo quarto del XIV sec., epitafi di mano «leggermente successiva» secondo Marisa Boschi Rotiroti, genericamente «recenziore» secondo Bertelli) ripor-ta entrambi gli epitafi, ma senza rubriche; la rubrica del Laur. XL.22 (scrit-to a Sassoferrato, ma la Commedia ha patina linguistica amiatina), contenente solo Iura monarchiae, afferma: Hii versus sunt scripti Ravenne in tumulo Dan-tis in introitu ecclesie beati Francisci a sinistra parte parve porte ipsius ecclesie pro eius epithaphio. Le indicazioni sono molto precise, ma la rubrica non è databile con precisione: il manoscritto è del 355, la mano che ha vergato l’epitafio risale genericamente alla seconda metà del XIV sec. La prima testimonianza data-ta dell’esistenza di Iura monarchiae sul sepolcro di Dante è del già citato Parm. 060 (373-74): in quegli anni i due epitafi sono rispettivamente in sepulcro (Iu-ra monarchiae) e supra sepulcrum (Inclita fama). Grazie al Bodmer 57, scrit-to dal cesenate Francesco di maestro Tura nel 378, sappiamo che entrambi gli epitafi sono in archa, Inclita fama è di Menghino Mezzani e Iura monarchiae è nuperrime factum.

Mi pare insomma che l’indicazione cronologica dell’anno 362 sia un da-to da tenere in attenta considerazione. È compatibile con le notizie del Trat-tatello? Sembra di sì. Sappiamo infatti che Boccaccio compose la sua opera

zio in civitate Pergami millesimo trecentesimo sexage-simo secundo indictione quinta decima. Deo gratias amen. Laur. Acquisti e doni 28: Sciendum est quod Dantus auctor et compositor predicti operis erat Flo-rentinus [seguono alcune note sulla ghibellinità di Dante]. Et qui decessit in civitate Ravene in anno do-minice incarnacionis millesimo trecentesimo vigesimo primo die Sancte Crucis de mense Septembre anima cuius requiescat in pace amen et quod vixit annis 6

menses 7 et diebus 3 intus computato die mortis eius [segue Inclita fama, con i versi incolonnati]. Suma dierum quibus vixit Dantus est vigintiduorum millium quinquecentum sex et quam faciunt annos LXI men-ses VII et dies XIII computato die nativitatis sed non die mortis eius et in predictis diebus sume sunt facte computando diebus bisestilibus qui fuerunt dies XVI et sic videtur quod natus fuerat die primo Februarii MCCLX.

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tra il 35 e il 355 e successivamente la rimaneggiò nei due compendi, nei qua-li avrebbe probabilmente inserito eventuali notizie circa la sistemazione del sepolcro di Dante, se le avesse avute. Il compendio A è degli anni centrali del decennio 360-70; del compendio B non abbiamo l’autografo e la sua colloca-zione cronologica è problematica, ma i dati sugli epitafi ivi contenuti non cam-biano. L’ultimo viaggio di Boccaccio a Ravenna cade nell’inverno tra il 36 e il 362.42 Le date sembrano dunque collimare: Inclita fama sarebbe stato posto sul sepolcro nel 362, poco dopo che Boccaccio aveva lasciato la città; egli non aveva avuto modo di assistere all’evento, e, presumibilmente, nessuno lo infor-mò (di fatto non modificò il passo nei compendi, o non ebbe modo di farlo).

Inclita fama fu l’unico epitafio a essere collocato sulla tomba di Dante per qualche anno, non molti. Del resto, dei tre epitafi è il più debole: nessu-na menzione delle opere di Dante, solo generici elogi (ricordo che al v. 2 tutti i codici leggono il vago lumen descusque musarum, e non il più robusto lumen-que decusque latini, che di fatto è lectio singularis su rasura del codice braiden-se AG.XII.5) e la registrazione della data di morte del poeta. Verosimilmente si sentiva la necessità di qualcosa di più degno del sommo poeta, che alme-no ricordasse la Commedia (nello specifico, anche la Monarchia) e l’esilio: Iura monarchiae. Una conferma – l’unica, nella tradizione manoscritta degli epita-fi – del fatto che Inclita fama e Iura monarchiae furono posti in due momen-ti diversi sulla tomba del poeta viene da un codice tardo, il corsiniano 44.B.33, del 458, nel quale Iura monarchiae (f. 22r) è preceduto dalla frase Questi sono i versi della sepoltura di Dante che fece messer Franciescho Petrarca poi. Inclita fama in questo codice è al f. 226r, cinque fogli dopo la precedente epigrafe, con ru-brica Questi sono i versi della sepoltura di Dante prima posti. Lasciando da parte l’attribuzione a Petrarca, destituita di ogni fondamento, il sintagma prima po-sti, riferito ai versi di Inclita fama, sarà da intendere in senso cronologico, come si evince dall’opposizione con il poi della rubrica di Iura monarchiae.43

42 BRANCA 977, pp. 24-25. 43 Potrebbe essere significativo anche che in due casi la rubrica preposta a Inclita fama lo qualifi-chi come primum (sempre nel Bodmer 57; così an-che nel tardo Casanatense 392), mentre Iura monar-chiae è secundum (Casanatense 392), ma credo che si tratti di una mera descrizione della collocazione de-gli epitafi nel manoscritto: in entrambi i casi, infat-

ti, e diversamente dal Corsiniano 44.B.33, Inclita fa-ma è posto prima di Iura monarchiae. Allo stesso modo, nel Triv. 072 (codice perduto ma conservato in copia parziale nell ’Ambr. Y 78 sup., e totale nel Capitolare DCCCXV) primum è riferito a Iura mo-narchiae evidentemente perché è il primo epitafio a essere riportato dal copista.

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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi

Quando fu aggiunto il secondo epitafio? Tra il 362 e il 373-74 (Parm. 060), verosimilmente più verso quest’ultima data, visto che nel 378 (Bodme-riano 57) veniva definito nuperrime factum.

L’apposizione degli epitafi durante la signoria di Guido da Polenta (359-89) appare perfettamente congrua, perché in quegli anni Ravenna godette di un clima di pace e concordia, diversamente dal periodo della signoria del sangui-nario e tirannico avo Ostasio (32-46), e del padre Bernardino (346-59), que-st’ultimo avversato anche per l’oppressione fiscale cui aveva sottoposto la po-polazione, che organizzò una rivolta, poi domata nel sangue.

Va ricordato che durante la sua signoria Bernardino aveva collaborato con il cardinale-legato De Albornoz nella sua opera di restaurazione dell’autorità pontificia in Romagna, tanto che lo stesso Bernardino era stato nominato vi-cario apostolico (356): una politica filopapale che mal si concilia con l’epitafio Iura monarchiae, ghibellino sin dall’incipit. La collocazione dell’epigrafe sul-la tomba del poeta va vista come un aspetto del progressivo distacco di Guido dalla politica papale, le cui avvisaglie si ebbero attorno al 369, poco dopo la fi-ne della legazione del De Albornoz (la reazione papale culminò con la scomu-nica, inflitta nel 383).44

Questa ricostruzione non stona con i dati provenienti dalla tradizione indi-retta degli epitafi, anche se una difficoltà potrebbe essere rappresentata dalla Chronica de civitate Ravennae, la testimonianza più antica della presenza di Iu-ra monarchiae sulla tomba del poeta; la difficoltà tuttavia si stempera se si con-sidera che la Chronica non è datata, si trova in un codice quattrocentesco ed è stata genericamente ascritta alla metà del Trecento essenzialmente perché es-sa narra avvenimenti che arrivano fino al 346. Nulla vieta però di spostare di qualche anno la data di composizione, fino all’inizio degli anni Settanta del Trecento.

Un dato che accomuna la Chronica al resto della tradizione indiretta degli epitafi è il silenzio su Inclita fama, la cui collocazione sulla tomba di Dante go-de invece di svariate attestazioni nella tradizione diretta. È difficile compren-dere i motivi di questo silenzio; forse ha giocato un ruolo la “debolezza” del te-sto, di cui parlavamo sopra, e magari anche il fatto che non sia scritto in prima persona. Un ulteriore motivo va forse visto nella sua posizione sul sepolcro, di cui mi accingo a parlare.

44 Su queste vicende si veda VASINA 993a, pp. 584-92.

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Verosimilmente, Inclita fama non era inciso sulla tomba, ma si trovava in una lastra collocata sopra di essa, o nel muro sopra il sepolcro; Iura monarchiae fu invece inciso sulla fronte del sepolcro (soluzione già ipotizzata da Bellomo sul-la base di alcune rubriche).45 La presenza, nel 362, di un solo epitafio non do-veva spingere il copista del Laur. XXVI sin. 2 a precisarne la posizione, e in-fatti Inclita fama viene detto essere in tumulo.

Altre rubriche illustrano la diversa collocazione di Inclita fama e Iura monar-chiae, a partire dall’Ash. 574, dove, lo abbiamo visto, si afferma che Inclita fama è in muro supra sepulcrum, mentre Iura monarchiae è in sepulcro Dantis.46 Anco-ra trecentesco, e ascrivibile all’Italia centro-settentrionale, è il Landau Finaly 89 della Nazionale di Firenze, dove l’epitafio scritto dal Mezzani è precedu-to dalla rubrica Isti versus scripti sunt super sepulturam Dantis Ravenne. Il pari-gino Fonds It. 75 (389) e l’Ital. 54 di Harvard (457) danno la stessa indicazio-ne, realizzata nello stesso modo: la frase Isti stant super sepulcro Dantis è posta accanto a Inclita fama, mentre il successivo Iura monarchiae non è preceduto da alcuna rubrica. Iura monarchiae è in sepulcro anche per altri mss. trecenteschi: il Laur. XL.22 (codice scritto nel 355, l’epitafio è stato aggiunto nella seconda metà del XIV sec.), il Vat. Lat. 3200 (ultimo quarto XIV sec., epitafi aggiun-ti da mano forse ancora trecentesca) e il tardo II.II.6 della Nazionale di Firen-ze (terzo quarto XV sec.). Coerente con questo quadro mi pare anche il tardo Marciano It. IX.30 (seconda metà XV sec.), dove, nell’ordine, Theologus Dantes è preceduto dalla formula generica Epithaphium Dantis, Iura monarchiae è pri-vo di rubrica, mentre quella di Inclita fama è Super sepulcrum Dantis. Anche in un altro codice tardo, il Laur. XL.38 (inizio XV sec., epitafi aggiunti da mano del terzo quarto del XV sec.), le rubriche preposte ai tre testi sono Epitaphium tumuli Dantis (Theologus Dantes), Epigrama urne Dantis (Iura monarchiae), Su-perscriptio sepulcri Dantis (Inclita fama). Interessante anche l’indicazione del II.VII.4 della Nazionale di Firenze, del 453, ma apografo di un codice posse-duto da un Pietro Angeli da San Gimignano. A fronte della generica rubrica di Iura monarchiae (Epitafium Dantis), la frase che introduce Inclita fama è Ex alio

45 BELLOMO 999b, p. 70 n. 48.46 Prescindo naturalmente da formule generiche (come, per esempio, nel parigino Arsenal 8530: Epi-

taphium Dantis, per Iura monarchiae; Aliud Epi-taphium, per Inclita fama).

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Ancora sugli epitafi danteschi. I. La tomba del poeta e le sue epigrafi

latere ipsius Dantis, che, se non va preso alla lettera, mi pare tuttavia confermi che l’esastico del Mezzani non fosse inciso sul sepolcro dantesco.

Inficiata dall’erronea indicazione apud Sanctum Vitalem l ’indicazione in se-pulcro del Vat. Lat. 3200 (ultimo quarto XIV sec., epitafio aggiunto da ma-no forse ancora trecentesca); irrilevanti, perché tarde, le indicazioni fornite da mano cinquecentesca nel Laur. 90 inf. 4 (Al fine della sua vita compose Dante questi versi: intagliati poi nel suo sepolcro) e nel Corsiniano Manoscritti Accade-mici 8, del 594 (Hexasticon in Dantis florentinj Poetae Sepulchrum).47

Ricordiamo alcune indicazioni generiche in codici che hanno solo Iura mo-narchiae: il Can. It. 97 (inizio XV sec.), importante perché attribuisce l’epigra-fe (o la costruzione del sepolcro) a Bernardus de Canatro, parla di Epitaffium ad sepulcrum Dantis; il Laur. Tempi 6 (epitafio scritto tra il 430 e il 440 da Lo-renzo Benci) ha una lunga rubrica nella quale si parla di versi iscritti innella se-poltura e più avanti di versi sono alla sua sepoltura.

Le testimonianze divergenti, naturalmente, non mancano, anche perché l’espressione super tumulum può benissimo indicare che l’epigrafe si trovi sul-la tomba e non sopra la tomba,48 soprattutto in un contesto nel quale non c’è necessità di precisare la posizione dell’epigrafe. Si noterà però che i codici se-condo i quali Iura monarchiae sarebbe posto super sepulcrum o super tumulum sono numericamente inferiori, e tardi: Laur. XL.34 (443), Bologna Archigin-nasio A.4 (prima metà XV sec.), San Daniele, Guarneriano 70 (prima metà XV sec.), British Library, Harley 358 (464), Modena Estense Universitaria, a.J.5.9 (seconda metà XV sec.). Ancora trecentesco è invece il Gambalun-

47 Testimonia bene lo sfrangiamento concettuale presente in alcuni manoscritti tardi il Cod. 4 della Biblioteca Vescovile di Nocera Umbra, quattro-cin-quecentesco, dove le rubriche attestate sono rispet-tivamente Carmina ad honorem Danthis disertissimi vathis de Florentia (per Iura monarchiae) e Carmen dedicatum immortali nominique honori poetae Dan-this Florentini (per Inclita fama).48 Ecco qualche esempio tratto dal Dartmouth Dante Project: «Hic autor vult dicere, quod hono-rabilior titulus supra tumulum suum diceret: – hic iacet Beatrix uxor condam iudicis Nini de Galura de Pisis» (Anonimo lombardo, chiosa a Purg. VIII 79-8); «Primo sepultum fertur Brundisii, civita-tis Calabrie, unde pro epitaphio scriptum ibi est su-per eius sepulcro: Mantua me genuit, Calabri rapue-

re, tenet nunc / Parthenope: Cecini pascua rura duces» (Pietro Alighieri, terza redazione, chiosa a Purg. III -45); «Quia corpus dicti marchionis iacet in abba-tia Florentie, qui obiit in festo beati Thome Aposto-li et omni anno fit eo die sollempnitas ibi, quia fun-davit ipsam abbatiam. Et supra sepulturam eius sunt versus tales, videlicet: “Marchio sublimis hic corpo-re iacet in ymis Ugo, sed in celis vigilat vir mente fi-delis”» (Chiose ambrosiane, commento a Par. XVI 29); «Petrus Comestor fuit lombardus, vir magnae scientiae, qui fecit librum qui dicitur historia scho-lastica, in quo declaravit multa puncta et dubia sa-crae scripturae; fecitque epitaphium ponendum su-pra sepulcrum suum sub hac forma: Petrus sum quem petra tegit etc.» (Benvenuto da Imola, chiosa a Par. XII 34-35).

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ghiano SC.62 (390-94, epitafio di altra mano). Tutti questi codici conten-gono solo Iura monarchiae, ad eccezione di Archiginnasio A.4, che contie-ne anche Theologus Dantes, preceduto peraltro da una rubrica fuorviante che lo assegna a San Vitale.49 Quattrocentesco anche il Magl. VI.97, che ha Incli-ta fama e Iura monarchiae preceduti dalla rubrica Carmina infrascripta sunt in epytaphio Dantis Florentini poetae in urbe Ravenne. Della seconda metà del XV secolo il Vat. Lat. 53, dove una delle rubriche di Iura monarchiae (in questo codice l’esastico è ripetuto tre volte) recita Versus super epytaphio Dantis litteris concavis in Ravenna, mentre Inclita fama, anch’esso ripetuto tre volte, è prece-duto da un generico Aliud epytaphium.

Ricordo infine due testimonianze diverse, provenienti da codici importan-ti: secondo il Bodmeriano 57 (del 378), entrambe le epigrafi si trovano in ar-cha; secondo la testimonianza del Triv. 072 (oggi perduto, ma gli epitafi con le relative rubriche sono stati copiati nell’Y 78 sup. dell’Ambrosiana di Milano e nel DCCCXV della Capitolare di Verona), scritto nel 408 a Castel Bologne-se, nei pressi di Ravenna, Iura monarchiae è Epitaphium Dantis super eius sepul-chrum, mentre Inclita fama è Aliud epitaphium sepulture eius (a ben vedere, la rubrica non confligge con la ricostruzione della storia delle iscrizioni tombali dantesche proposta in queste pagine, poiché essa significherà che Iura monar-chiae si trova sulla tomba, e Inclita fama in un altro punto del sepolcro).

* * *

Riguardo agli autori degli epitafi, è certa la paternità di Theologus Dantes, te-ste Boccaccio; è altamente probabile che l’autore di Inclita fama sia Menghi-no Mezzani, in virtù della rubrica del Bodmeriano 57. È possibile che Rinaldo Cavalchini abbia scritto Iura monarchiae, come risulta dalla rubrica del Mar-ciano Lat. XIV.245 (Eiusdem epytaphium compositum per magistrum Raynal-dum de Verona gramatice professorem excellentissimum), messa in evidenza da Gian Paolo Marchi: il Cavalchini è noto per aver scritto gli epitafi di Cangran-de e Mastino II della Scala, oltre che il proprio. Mi pare tuttavia che non si possa escludere che il copista del manoscritto abbia indebitamente attribuito al grammatico veronese l’epitafio dantesco proprio in virtù di questa sua nota

49 Infrascripti sunt versi scripti in civitate Ravene su-per sepulcrum Dantis Alegheri huius libri conditoris

et est situatus Ravene apud ecclesiam Sancti Victalis Martiris.

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attività di compisitore di epigrafi;50 senza contare che il manoscritto con l’at-tribuzione al Cavalchini è tardo, cinquecentesco, Iura monarchiae è privo dei vv. 3-4, e ha lezioni deteriori (al v. 5 si ha Quem claudor in luogo di Hic claudor, e externus in luogo di extorris).

La tradizionale attribuzione di Iura monarchiae a Bernardo di Canaccio Scannabecchi, proposta per primo da Borgognoni e accolta da Ricci, è basa-ta sul ms. Can. It. 97 della Bodleiana di Oxford (dell’inizio del XV sec.), do-ve l’epigrafe, con rubrica Epitaffium ad sepulcrum Dantis in Ravenna urbe fac-tum per dominum Bernardum de Canatro, è seguita dal Sonettus de laude dicti domini Bernardi (inc. Vostro sì pio officio offerto a Dante), e dalla Responsio dic-ti domini Bernardi (inc. Quando ’l turbato volto al bel Palante).5 Ricci pensava che gli autori dei sonetti fossero Menghino Mezzani e Bernardo di Canaccio Scannabecchi.52 Nel primo sonetto si accenna a un «focho» in cui l’autore sta ardendo, che gli impedisce di formulare il proprio nome. Ricci vedeva in que-ste parole un’allusione al periodo di prigionia del Mezzani (357). Bellomo cre-de invece che l’autore del primo sonetto sia Guglielmo Maramauro, e vede nel «focho» un’allusione a una malattia, in virtù degli esempi allegati da Bernar-do nel sonetto responsivo (il destino di morte annunciato a Pallante da Ercole, san Lorenzo sulla graticola, Davide nella caverna di Adullam che rifiuta l’ac-qua). Accettata la proposta di Marchi, Bellomo crede che Bernardo di Canac-cio Scannabecchi non sia colui che ha scritto Iura monarchiae, ma colui che ha restaurato il sepolcro (in effetti, nella rubrica del Can. It. 97 factum può essere riferito tanto a epitaffium quanto a sepulcrum).

Indizio, negando che Bernardus de Canatro sia lo Scannabecchi, ipotiz-za, con molta cautela, che il Bernardus elogiato nel sonetto oxoniense, e autore della risposta, sia Bernardo Bembo. La pars destruens e quella construens di In-dizio meritano di essere analizzate con cura: la prima in particolare, perché la negazione dell’identità del Bernardo oxoniense con lo Scannabecchi mette in

50 Sul Cavalchini si veda DE MARCO 979.5 I sonetti si trovano in BELLOMO 999b, pp. 62-63, e in INDIZIO 200, pp. 284-85.52 Bernardo (o Bernardino) di Arpinello (det-to Canaccio) degli Scannabecchi nacque nel 297 a Bologna e fu bandito a Verona all ’età di due an-ni. Negli anni tra il 330 e il 332 fu podestà di Co-negliano in nome di Alberto e Mastino della Sca-la, nel 336 ambasciatore di Roberto d’Angiò, tra

il 342 e il 343 podestà di Vicenza, con Pietro Ali-ghieri come suo vicario e giudice. Tornò a Bologna nel 349; nel 356, a Ravenna, venne rogato il testa-mento di Sara da Camposampiero, sua moglie: è l ’ultimo documento noto in cui lo Scannabecchi sia citato. I dati fondamentali su Bernardo sono rac-colti in LIVI 98, pp. 64-73, 99-203; LIVI 92, pp. 43-48; CAMPANA 976; utile anche INDIZIO 200, pp. 35-23.

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discussione dati considerati sicuri da atleti dell’erudizione quali Giovanni Li-vi, Corrado Ricci, Augusto Campana.

Le obiezioni fondamentali che Indizio muove alla tradizionale identifica-zione di Bernardo di Canaccio Scannabecchi sono due: la forma de Canatro non può indicare un patronimico;53 nei documenti «la ricorrenza Bernard(in)o di Canaccio degli Scannabecchi è estremamente rara: nei circa 20 documenti che lo riguardano il nostro fu chiamato sempre Bernardino (o Bernardo) degli Scannabecchi, quasi mai di Canaccio degli Scannabecchi, mai Bernardo Canacci o Canaccio o di Canaccio».54

Possiamo precisare che, se il tipo de + ablativo plurale della casata è senz’al-tro il più diffuso nel Medioevo, non mancano tuttavia esempi – anche a Bolo-gna, patria dello Scannabecchi – in cui il de regge un ablativo singolare con il nome del padre, come mostra un saggio di Augusto Gaudenzi dedicato pro-prio alla storia del cognome a Bologna nel Duecento.55 Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, nella scuola di grammatica di Bologna si formò la re-gola che «il nome del padre si aggiungesse in genitivo, quello del luogo d’origi-ne in ablativo con il de. Ad onta di questo, troviamo i notai ondeggiare ancora tra l’una e l’altra forma, e spesso, cosa strana, servirsi, nello stesso atto, del-la prima per designare una persona, della seconda per indicarne un’altra» (ab-biamo documenti con Guido de Buvalello, Ubertus de Armanno, Rolandinus de Michele e accanto a loro un Petrus Aldigerii, altrove chiamato Petrus de Aldige-rio). Gaudenzi spiega questa oscillazione con la ragione che «quando il notaio aveva la coscienza che il tale era figlio del tale, adoperava volentieri il geniti-vo: quando invece, senza rendersi ragione di questo, intendeva riprodurre l’ap-pellazione volgare della persona, adoprava l’ablativo con de».56 Una forma co-me Bernardus de Canacio, insomma, non è impossibile, e un esempio ci giunge proprio dai documenti sulla famiglia Scannabecchi raccolti da Indizio.57 Un altro esempio: il retore bolognese Giovanni di Bonandrea († 32) è attestato con la forma Iohannes Bonandree in quattro documenti,58 Iohannes de Bonan-drea in un altro.59

La seconda obiezione, la presenza costante del nome di famiglia de Scanabi-cis nei documenti relativi a Bernardo, non pare irrefutabile. Si può intanto dire

53 INDIZIO 200, p. 286.54 INDIZIO 200, p. 289.55 GAUDENZI 898.56 GAUDENZI 898, p. 4.57 Nel Chronicon Veronense, il fratello di Bernardo

è chiamato Guillielmus de Canatio de Scanabicis (cit. in INDIZIO 200, p. 320).58 Pubblicati in ZACCAGNINI 920, pp. 88-9.59 Pubblicato in CIPOLLA 90, pp. 62-65.

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che un conto è la denominazione documentale, che deve essere il più possibi-le precisa, un conto è quella presente in supporti di altra natura, come i mano-scritti di testi poetici, non costretti a vincoli di estrema precisione. Non man-cano, in effetti, casi in cui una persona sia designata solo attraverso il nome del padre, senza quello della famiglia: pensiamo al bolognese Guido Guiniz-zelli, che nei codici, e in Dante, viene identificato attraverso la non inequivo-ca denominazione con la quale è oggi noto, che ha indotto in errore Benve-nuto da Imola (romagnolo e residente a Bologna per qualche anno) e ha dato luogo a ricerche d’archivio sulla famiglia d’origine del poeta, i Principi o i di-scendenti di un Magnano.60 Un esempio di eclissi del nome familiare perfino in documenti ufficiali viene dal notaio e letterato bolognese Matteo Griffoni (35-426), che nel 369 ricoprì l’ufficio di notaio dei Memoriali, sottoscriven-dosi solo Matteo di Guido.6 Una denominazione come Benevenutus Rambal-di è stata usata nel senso del patronimico nei codici contenenti il suo commen-to, da parte di copisti che ignoravano quale fosse il nome della sua famiglia.62 Giovanni Sercambi nelle sue Croniche riferisce una poesia in onore di Paolo Guinigi, signore di Lucca, chiamandolo Paolo Franceschi, dal nome del padre.63 Sono poi frequenti i casi in cui i copisti di manoscritti dei secoli XIV-XV in-dicano soltanto il proprio nome e quello del padre, senza citare la famiglia. Mi pare insomma ammissibile il fatto che nei documenti Bernardo di Canac-cio Scannabecchi sia chiamato con il nome familiare, mentre in documenti di altra natura (il Can. It. 97 di Oxford e la Leandreride di Giovanni Girolamo Nadal, sulla quale torneremo) venga indicato solo attraverso il patronimi-co. Ricordiamo inoltre che il Nadal, veneziano, non doveva conoscere a fondo l’ambiente bolognese, e una prova dell’incertezza sulla reale consistenza ana-grafica dei letterati elencati nel settimo canto del quarto libro della Leandreri-de viene dal nome posto subito dopo quello di «Bernardo de Canozzo», e cioè «Mathio da Mozzovilani»: quest’ultimo (rectius Mezzovillani) non è nome di luogo, come farebbe supporre il da, ma nome di famiglia.

Quanto alla forma de Canatro del codice oxoniense, che secondo Indizio crea difficoltà, si tratterà, come già ipotizzava Livi,64 di una lettura erronea del

60 ORIOLI 907; sulla questione si veda INGLESE 2003.6 ZABBIA 2002, p. 393.62 In realtà Rambaldi è nome familiare, derivan-te da un avo chiamato in questo modo, che fu pro-babilmente adottato dai discendenti di Benvenuto

per nobilitare la famiglia, di origine borghese. Sulla questione si veda PAOLETTI 966.63 SERCAMBI, Croniche, p. 3. L’esempio è addotto da GAUDENZI 898, p. 26.64 LIVI 98, p. 65 n. 2.

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nesso -ci-, plausibile dal punto di vista paleografico, posta la facile confusione tra c e t, i e r: de Canatro potrebbe essere un’erronea lettura di de Canacio.

Indizio afferma che le benemerenze dantesche dello Scannabecchi sono po-co sicure: «L’unica menzione in tal senso si trova nella Leandreride del Nadal e recita: Bernardo de Canozzo, non proprio identico a di Canaccio».65 In real-tà, come nota lo stesso Indizio, Guglielmo Maramauro afferma di aver scrit-to il suo commento «con l’aiuto de miser Zoan Bocacio, e de miser Francesco Petrarca, e del pivan Forese e de miser Bernardo Scanabechi».66 Sappiamo che è affermazione da maneggiare con cautela, «soprattutto nei confronti dei due nomi di maggior risonanza, Petrarca e Boccaccio»:67 ma perché Maramau-ro avrebbe dovuto citare lo Scannabecchi, se costui fosse stato alieno da inte-ressi danteschi? In secondo luogo, la Leandreride, naturalmente, presenta trat-ti linguistici tipici dell’Italia settentrionale tre-quattrocentesca, tra i quali vi è l’uso dell’affricata in luogo della palatale (per esempio, sollazzo in rima con laz-zo ‘laccio’ e abrazzo ‘abbraccio’, Leandreride I VIII 32-36). La forma de Canozzo, insomma, può valere de Canoccio, e il Nadal, con un trascorso nella scrizio-ne del nome, intenderà riferirsi allo Scannabecchi: può provarlo il fatto che, in questa rassegna in cui Dante «nominat auctori rithimicos vulgaresque dicta-tores» (così recita la rubrica del settimo canto del quarto libro), oltre a Bernar-do, sono riuniti altri due letterati, che condividono con lo Scannabecchi il fat-to di essere bolognesi e cultori di Dante: Matteo Mezzovillani e Iacomo della Lana.68 Il Nadal, peraltro, sembra ben conoscere Iura monarchiae, visto che le parole con le quali Dante si presenta nella Leandreride ne sono un probabile calco.69 Non mi pare casuale, inoltre, che la rassegna dei poeti emiliano-roma-gnoli, oltre allo Scannabecchi, annoveri anche «Menghin da Ravena» (v. 56), il Mezzani.

65 INDIZIO 200, p. 289.66 MARAMAURO, Expositione, p. 82.67 Così in MALATO-MAZZUCCHI 20, I, pp. 263-64.68 «Bernardo de Canozzo appo se assetta, / Ma-thio da Mozzovillani et Enedi, / quel da la Lana con la scintilletta, / Iacobo dico»: Leandreride IV VII 49-5. L’elenco prosegue con altri letterati emi-liano-romagnoli.69 «L’ossa mie son sepulte tra la cerca / de la ci-tà che casa da Pollenta / governa a molte milia cir-

cumcerca. / De l ’alme morte, e di qual pria si penta / che muoia, e di qual vaccio al cielo sale, / can-tai pria che me fusse vita ispenta. / Diffesi l ’onore imperiale / incontro a quei che sono a lui rebelli, / cun latino sermone e solute ale»: Leandreride IV III 6-69. Come nell ’epitafio, fra le opere di Dante ven-gono ricordate solo la Commedia e la Monarchia. Il v. 66 richiama da vicino il v. 2 dell ’epitafio («lu-strando cecini voluerunt fata quousque»). Lo nota anche l ’editore del poema: NADAL, Leandreride, p. 259.

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Aggiungo infine che lo Scannabecchi non doveva essere refrattario alle Mu-se, se l’iscrizione del castello di Vicenza, fatto erigere dagli Scaligeri durante la podesteria di Bernardo, ne loda le doti di mente e di eloquio, dono di Palla-de: «[...] Scanabica ab origine miles / Bernardus tunc rector erat, quem men-tis et oris / dotibus ornavit Pallas».70

In definitiva, Bernardo o Bernardino di Canaccio Scannabecchi è un espo-nente minore del dantismo trecentesco, come attestano Guglielmo Maramau-ro e Giovanni Girolamo Nadal. La rubrica del Can. It. 97 con i successivi so-netti ci assicura che egli fu l’autore di Iura monarchiae, o, se l’autore è Rinaldo Cavalchini, colui che intorno al 373-74 restaurò il sepolcro dantesco, facen-dovi incidere l’epigrafe (e lasciando sopra il sepolcro Inclita fama, già presente sulla tomba dal 362).

La pars construens di Indizio è avanzata, ripeto, con molta cautela, senza negare i punti di difficoltà. L’idea che il dominus Bernardus lodato nel ms. oxo-niense, che risponde a sua volta con un sonetto, sia Bernardo Bembo pare dif-ficilmente sostenibile, per varie ragioni, innanzitutto di ordine cronologico (il codice da cui i sonetti sono tratti viene attribuito al XIV secolo da Morta-ra, all’inizio del XV sec. dalla Roddewig).7 Essendo il codice non datato, po-tremmo anche ammettere una datazione più lasca (XV secolo); osserviamo tuttavia la chiusa del sonetto del proponente (vv. 5-6): «L’onor che date al ce-nere e all’osse / vostro amor mostra quanto al vivo fosse». Non mi pare che ci siano possibilità di fraintendimento: la frase va intesa nel senso che gli onori che Bernardo riserva alle spoglie di Dante testimoniano dell’amore che lo stes-so Bernardo tributava a Dante da vivo (da notare il parallelismo al cenere e al-l’osse ... al vivo). Indizio ritiene invece che il sintagma «al vivo» indichi «una modalità retorica di indicare l’autore, vivo, vegeto e operante, insomma l’au-tore tout court, senza implicazione d’intimità: espediente retorico per indica-re un soggetto con l’opposizione simmetrica vivo/morto».72 Indizio prosegue affermando che il sintagma al vivo «nel gergo pittorico Quattro-Cinquecente-sco (Vasari) […] ha generica attinenza col rendere a tutti visibile, quindi s’in-tenderebbe mostrare quanto fosse l’amore (per Dante) in modo ‘visibile a tut-ti’, grazie al nuovo sepolcro». In realtà, solo una volta Vasari usa il sintagma in

70 Cito da LIVI 98, p. 69.7 MORTARA 864, coll. 0-2; RODDEWIG 984, n° 54.

72 INDIZIO 200, p. 284 n. 2, donde sono tratte anche le citazioni seguenti.

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un senso che potremmo definire tecnico: nella Vita di Piero di Cosimo.73 Que-sto è l’unico passo dell’opera di Vasari (Vite, Ragionamenti, Ricordanze, il Li-bro delle invenzioni contenuto nello Zibaldone)74 in cui il sintagma al vivo assu-me un significato che si avvicina a quello proposto da Indizio: «La locuzione ha attinenza col ritrarre in modo vivido, a misura naturale ovvero con fattez-ze somigliantissime all’originale (Vasari)». Mi pare tuttavia che ciò abbia poco che vedere col nostro sonetto. Così Indizio conclude la sua nota: «Infine, “mo-strare quanto al vivo fosse” ammette l’ovvia lettura ‘quanto vivido fosse’, locu-zione peraltro molto rara nel Tre-Quattrocento». Forse c’è una contraddizio-ne in un’espressione che ammette una lettura ovvia, se questa lettura è molto rara. Il verso pare ammettere una sola lettura: e infatti nel GDLI e nella LIZ non trovo al vivo, nel senso di ‘vivido’ suggerito da Indizio, negli autori dal Due al Quattrocento. Il sintagma è invece attestato, ma con valore avverbiale (‘con piena fedeltà e vivezza rappresentativa’), in autori tardi, dal Cinquecento in poi (Aretino, Tasso).

Infine, Bernardo Bembo fu più un promotore di cultura che un autore in proprio: le sue opere, «di modesto livello»,75 assommano a sette orazioni, una quarantina di lettere volgari, sei epistole latine (ma sappiamo che ne scris-se in numero maggiore), l’epitafio Exigua tumuli e un distico latino di ringra-ziamento. Nessun verso italiano. Nella Giannetto, autrice di una fondamen-tale monografia su Bembo, osserva che le sue opere latine sono «poco più che esercizi di scuola, linguisticamente non sempre ineccepibili»,76 mentre le epi-stole volgari «rivelano a volte un certo brio, ma per lo più non sono che rapidi messaggi con funzione eminentemente pratica». Un quadro che mal si addice al sonetto del Can. It. 97, certamente di pregevole fattura. D’altro canto «sem-bra […] da escludere l’esistenza di altre opere di rilievo che si siano perdute. Nessuno dei contemporanei di Bernardo, per quanto ne so, fa cenno di ope-re diverse dalle epistole “optime e ben composte” [citazione dei Diari di Ma-rin Sanudo], dalle orazioni e dalle citate “commentationes” [opere oggi perdu-te di cui è difficile precisare la natura; del resto, sicuramente non si trattava di

73 «Èvvi in una storia Sileno a cavallo, su uno asi-no con molti fanciulli, chi lo regge e chi gli dà da be-re, e si vede una letizia al vivo, fatta con grande in-gegno». Il testo non cambia nella redazione del 568 (VASARI, Vite, IV, p. 69).74 Ho effettuato la ricerca sulle Vite nella LIZ;

sulle altre opere, nel sito Internet della Fondazione Memofonte.75 GIANNETTO 985, p. 80.76 GIANNETTO 985, p. 83, donde sono tratte an-che le citazioni seguenti.

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versi in volgare]. È ragionevole pensare che, se egli avesse scritto altro, in pro-sa o in versi, i suoi innumerevoli laudatori ne avrebbero parlato. E soprattutto se ne sarebbe trovata traccia nell’ampio zibaldone di Londra [London, British Library, Additional 4068/A] o nelle varie annotazioni disseminate nei codici della sua biblioteca». Infatti, se Bembo è l’autore del sonetto, si può presumere che l’avrebbe trascritto nel Vat. Lat. 399, dove egli vergò con la propria mano Iura monarchiae ed Exigua tumuli: ma nel codice vaticano non ce n’è traccia.

Mi sembra insomma che ci siano alcuni argomenti che pesano a sfavore dell’attribuzione a Bernardo Bembo del sonetto Quando ’l turbato volto al bel Palante; la paternità di Bernardo di Canaccio Scannabecchi resta preferibile, in virtù di un’inequivoca omonimia: è chiaro che il Bernardus che viene lodato nella proposta e che a sua volta risponde è il Bernardus de Canatro di cui par-la la rubrica dell’epitafio posto immediatamente prima dei sonetti. Che que-sto Bernardus de Canatro, poi, sia Bernardus de Canacio de Scanabicis pare alta-mente probabile.

Si addensano i dubbi, invece, sull’identità del proponente, che si guar-da dal nominarsi nel «focho» in cui arde, e al quale lo Scannabecchi enumera tre esempi di virtù: Pallante, che affronta la battaglia sapendo che l’esito sarà mortale; san Lorenzo, che non si macchia di codardia ma affronta fermamen-te il martirio; Davide, che rifiuta di bere l’acqua portatagli dai soldati. È diffi-cile affermare con certezza se siano esempi più adatti a consolare lo spirito di un uomo in prigione, come ipotizzava Ricci pensando alla prigionia di Men-ghino Mezzani, o di un ammalato, come opina Bellomo. A Purg. XXVII 27 il «foco», distinto fra «temporal» ed «etterno», sta a indicare le pene cui sono sottoposte le anime rispettivamente purgatoriali e infernali, ma questa possi-bile tessera dantesca non aiuta a dissipare le perplessità, essendo riferibile tan-to a una detenzione quanto a una pena fisica. Il Mezzani avrebbe senz’altro scritto questo sonetto prima del 355, come afferma Indizio con argomenta-zione plausibile,77 ma a quell’altezza cronologica il sepolcro di Dante era pri-vo di epitafi, teste Boccaccio. La candidatura di Maramauro, proposta da Bel-lomo in virtù della ricorrenza del termine dantista tanto nel sonetto quanto nel commento alla Commedia, e dell’esplicita menzione in quest’ultimo del no-me dello Scannabecchi, è preferibile, ma resta un’incongruenza: Maramauro nel suo commento afferma che sulla tomba di Dante è posto Theologus Dantes,

77 INDIZIO 200, pp. 293-94.

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e nel sonetto ringrazierebbe lo Scannabecchi per aver inciso sulla tomba Iura monarchiae.

In conclusione, mi pare che i dati in nostro possesso portino almeno a un risultato: nel 362 sopra la tomba di Dante fu posto Inclita fama, l ’epitafio scritto da Menghino Mezzani. Qualche anno dopo, al più tardi nel 373-74, venne presa la decisione, forse da parte di Bernardo di Canaccio Scannabec-chi, di incidere sulla fronte del sepolcro Iura monarchiae, epitafio scritto dallo stesso Bernardo, o da Rinaldo Cavalchini. Col passare del tempo, la tomba su-bì un processo di decadenza, e nel 483 Bernardo Bembo decise di restaurar-la, ma riprodusse solo uno dei due epitafi che adornavano il sepolcro. Difficile capire perché: forse l’epitafio era inciso su una lastra appoggiata sopra la tom-ba che poi era andata perduta, forse il testo era dipinto e le lettere risultava-no evanide, forse, anche, Bembo non giudicava adatto Inclita fama: siamo nel campo delle ipotesi. L’epitafio del Mezzani è sopravvissuto solo nella tradizio-ne manoscritta diretta degli epitafi, ma la cerchia delle amicizie di Bembo non ne ignorava l’esistenza, come dimostra il manoscritto Nouv. Acq. Lat. 650 del-la Nazionale di Parigi, contenente Inclita fama e allestito sulla base di materia-li provenienti da uno dei più intimi amici di Bembo: Marsilio Ficino.

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