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1 A.A. 2007 | 2008 Dibattito sulla didattica del progetto. Interviste di Alessandro Tartaglia (FF3300): Rispondono Lussu, Perri, Tortoioli, Gobesso, Lecaldano, Branzaglia, Sfiligiotti

Dibattito sulla Didattica

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Progetto realizzato nel 2007 per l'ISIA di Urbino.

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A.A. 2007 | 2008

Dibattito sulla didattica del progetto.Interviste di Alessandro Tartaglia (FF3300):Rispondono Lussu, Perri, Tortoioli, Gobesso, Lecaldano, Branzaglia, Sfiligiotti

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NOTA:Giovanni Lussu ha fornito un testo discorsivo dove ha affrontato per punti differenti questioni, partendo dalle domande formulate, ma non limitandosi solo a quelle.

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Cosa significa insegnare a progettare?

LUSSU PERRI TORTOIOLIRoberto Calasso, rievocando su “la Repubblica” la storia dell’Adelphi, all’inizio del 2007, raccontava come fosse stata messa a punto l’immagine della casa editrice.La partenza era stata quanto mai canonica: l’Adelphi si era rivolta a un prestigioso designer milanese (Enzo Mari, anche se Calasso discretamente evitava di nominarlo) il quale aveva “progettato” l’algida veste dell’edizione di Nietzsche, Helvetica in corpo piccolo stampato in nero su fondo bianco.“Ci siamo però resi conto”, scriveva Calasso, “che i designer, più che a rappresentare noi erano prima di tutto interessati a rappresentare sé stessi”. Lo staff della casa editrice, riunito intorno a un tavolo, si è messo quindi a discutere e ne è uscita fuori l’immagine Adelphi, la quale, piaccia o non piaccia, ne è invece una perfetta rappresentazione.

Rispondere a questa domanda, in realtà, è meno difficile di quanto potrebbe sembrare – e, soprattutto, molto più facile di quanto sarebbe tentare una risposta anche provvisoria alla domanda considerata come un vero e proprio topos ineludibile da tutti i grafici: cosa significa progettare? Ecco, da non grafico (e da semiotico) potrei dire semplicemente questo: insegnare a progettare significa insegnare a costruire ipotesi – ossia interpretazioni possibili nel senso di Peirce. Rispetto al procedere del pensiero scientifico cambiano i termini del processo abduttivo, senza però che possa dirsi davvero diverso il meccanismo che porta alla creazione di qualcosa di nuovo. Davanti ad un fatto sorprendente, lo scienziato ipotizza una regola in grado di spiegarlo come caso; davanti a uno stato di cose possibile (un obiettivo da raggiungere), il grafico ipotizza una prassi realizzativa regolata, un oggetto-artefatto in grado di ottenere realmente quale proprio effetto lo stato di cose. In entrambi i casi c’è, senza dubbio, un pizzico di quella che spesso sbrigativamente viene detta creatività: esercizio dell’immaginazione, capacità di fare previsioni, intuito… Ma il fatto, l’obiettivo o lo stimolo materiale da cui partire tengono sempre a bada questo istinto: la creatività dello scienziato (e quella del grafico, a mio aviso) non può che essere una regolata. Si può dire perciò, usando una metafora, che non si può insegnare il “lume naturale” di chi trova una soluzione progettuale (l’intuizione, cioè, il progettare in sé), ma si insegna invece come accenderlo.

Albers diceva ai suoi studenti: ‘insegnare ad avere occhi aperti’.

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GOBESSOQuando insegno cerco di trasmettere le ricchezze maturate con l’esperienza, con i miei studi (anche in ambiti diversi) e durante i contatti di lavoro con i clienti e con gli altri professionisti. Cerco di instillare il buon senso, la pazienza, provo a cercare e a recuperare la semplicità, nel metodo, nel ragionamento e nella forma.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTIInsegno in Isia dallo scorso anno accademico e in totale a oggi ho fatto settantadue ore. È come se qualcuno lavorasse in un posto da meno di due settimane. Inoltre come sai lo scorso anno Isia era in piena transizione. È stato come lavorare in un posto senza un capo. Quest’anno i lavori, eccetera. Quindi, come puoi capire, la mia conoscenza di Isia è molto limitata. Non so nulla o quasi di quello che viene fatto dagli altri insegnanti e per saperne qualcosa in più penso che i programmi presenti sul sito possano essererelativamente utili.Sia lo scorso anno che questo sono stato molto disorientato dal livello diverso di preparazione degli studenti che in alcuni casi è stranamenteinadeguato, a mio avviso naturalmente.

Risolvere problemi. Si può certamente provare insegnare un metodo, delle competenze, qualcosa che assicuri un risultato “dignitoso” e “corretto” ad ogni progetto. Sono sempre più convinta però che questo sia necessario ma non sufficiente. Insegnare a progettare significa indicare solo alcune delle mille porte che in un percorso di anni ciascuno si troverà ad aprire, ognuna imprevedibile al punto di partenza; significa dare strumenti critici; significa anche insegnare a guardare, ad ascoltare, a essere curiosi. Ma forse quest’ultima cosa non è possibile.

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In un epoca dove tutto tende alla specializzazione, dove la grafica si scompone in type design, progettazione editoriale, information design e così via, l’insegnamento in che direzione va?

LUSSU PERRI TORTOIOLICi sono numerosi esempi di non grafici che hanno realizzato “grafica” eccellente: il Roland Reuss presentato da Kinross in Tipografia moderna è uno storico della letteratura (e inoltre acuto teorico di ecdotica, la disciplina dell’editing); Michael Nedo, curatore dell’edizione Springer di Wittgenstein, è uno storico della filosofia; Edward Tufte è un docente di statistica; Shari Motro è avvocato; diversi matematici e fisici si impaginano da sé in modo ineccepibile i propri libri ecc. ecc.

Se si iperspecializza, va nella direzione sbagliata. Non lo dico affatto con la spocchia del teorico che “disprezza” la techné di molti mestieri applicativi, ma con la consapevolezza che mi deriva da una prolungata frequentazione dell’universo della grafica e delle scritture. Quel che si rischia di perdere scegliendo un proprio sicuro orticello progettuale, insomma, è la capacità di saper vedere la forma del testo come un prodotto complesso, in cui ciascun livello di organizzazione – notazionale, tipografico, topologico – trova una sua ragion d’essere solo nel rapporto olistico e non di mera sommatoria che lo lega al prodotto come tutto. Per citare un caso specifico: quando al congresso AtypI di Lisbona, nel 2006, io e Luciano Perondi siamo andati a parlare di tipografia non-lineare cercando di far capire come la sintassi grafico-tipografica biplanare delle grandi unità significative rappresenti una dimensione fondamentale e costitutiva della comunicazione scritta, il pubblico replicava che quel che stavamo dicendo era vero, ma non spettava al type designer occuparsene: lui si limitava a disegnare le letterine, a metterle bene in fila e a fare in modo che fossero chiare, eleganti accattivanti o quant’altro – mentre il layout, la struttura topologica e la disposizione delle unità testuali, delle immagini, ecc. era affare di infodesign… Ecco, credo che questo sentire la specializzazione come un vincolo che impedisce di guardar oltre e di capire (capire la complessa entassi grafica delle pittografie azteche, ad esempio) sia estremamente dannoso.

La tendenza mi sembra sia pericolosamente quella di fornire agli studenti ‘tool’ professionali o professionalizzanti, rinunciando invece a quella funzione determinante, se ci riferiamo alle scuole di alta formazione, che riguarda la costruzione di un metodo, l’analisi di un approccio scientifico al progetto e la ricerca pura.

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GOBESSOQuelle che lei ha citato sono alcune delle discipline della comunicazione visiva. Noi insegnanti dobbiamo “tenere puliti gli strumenti” e passarli a voi nel miglior modo possibile.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTIQuest’anno il mio corso è “Graficaeditoriale” e molti studenti mi sembrano privi di quelle conoscenze di ortotipografia, microtipografia e tipografia che immaginerei scontate in persone alle quali mancano pochi mesi alla laurea specialistica.

L’insegnamento offre il metodo, la specializzazione si fa sul campo (mediata o meno dalla scuola).

Deve andare verso una definizione degli strumenti e del campo di azione, rimanendo cosciente dell’impossibilità di coprire interamente un territorio che da una parte si amplia e dall’altra si restringe continuamente. Non mi piace l’idea che da subito si possa studiare da type designer, o da web designer, senza aver prima capito dove si colloca questa nicchia rispetto al resto del mondo. Al di là delle competenze tecniche, anche molto complesse, che bisogna acquisire per poter far bene ognuno di questi mestieri specialistici, è indispensabile un linguaggio comune a tutte le discipline del progetto di comunicazione.

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LUSSU PERRI TORTOIOLIPare poi non si sia ancora ben compreso cosa è successo con la diffusione del computer.I “grafici”, pur del tutto ignari di cosa un computer sia e senza aver avuto alcun ruolo nella loro evoluzione, ancora aspettano a bocca aperta che la cornucopia della tecnologia informatica elargisca mirabolanti novità, illudendosi di esserne i destinatari privilegiati; mentre i computer da tavolo si può dire siano stati inventati proprio per poterne fare a meno, dei grafici. Di fatto, la gran parte delle esigenze per soddisfare le quali i grafici nel corso del ’900 sono venuti emergendo come categoria professionale può essere oggi espletata da qualunque generico utente che abbia solo un po’ di sale in zucca.

Posso rispondere solo in linea teorica, perché sono tra quelli (molti) cui la riforma universitaria più volte riveduta e corretta non è mai particolarmente piaciuta. In ogni caso, credo si possa dire che in un corso triennale il ruolo del docente è maggiormente formativo, gli studenti hanno bisogno di crescere assimilando conoscenze e saperi oltre che sperimentando le proprie capacità progettuali e inventive spesso notevoli, ma ancora da “educare”. La laurea specialistica coincide invece (o meglio, dovrebbe coincidere) con un salto di qualità che porta lo studente a costruire in proprio il percorso conoscitivo e progettuale – e in cui il ruolo del docente è semmai maggiormente di stimolo, concretizzandosi nella capacità di saper indirizzare lo studente verso quegli ambiti che più gli sono congegnali e in cui meglio riesce ad esprimere le proprie potenzialità.

Concepirei un triennio totalmente orientato alla propedeutica e un biennio totalmente dedicato allo sviluppo di percorsi di ricerca personali dello studente. in questo senso il ruolo dei docenti è ovviamente diverso: proattivo nel primo caso e ‘di supporto’ nel secondo.

Quali sono, in linea teorica, le differenze tra un corso di laurea specialistico e un corso di laurea triennale, per un docente?

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GOBESSOSono fresco di nomina, all’Isia, ma sono certo che interrogando il “comune buon senso” la risposta può venira da sola.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTICome si sa la specialistica è un po’ come ricominciare da capo e il fatto che gli studenti vengano da scuole diverse complica molto le cose. Insomma mi sembra che questa storia del “tre più due” in una scuola come Isia nonfunzioni proprio. Comunque la mancanza di preparazione sulle cose che dicevo è, in alcuni casi, molto forte anche negli studenti che hanno fatto il triennio in Isia.

Dipende dal progetto didattico, non dal docente. Per noi in Accademia a Bologna il triennio fa il progettista, il biennio il professionista.

Premetto che non insegno nelle università, e quindi non parlo per esperienza diretta. In linea teorica, nel corso dei primi tre anni di università si dovrebbe appunto definire il campo, e dare i primo strumenti di progettazione. Nel corso di laurea specialistico, oltre ad entrare nel merito di discipline più definite, si dovrebbero proporre laboratori di progettazione che consentano di raggiungere una autonomia progettuale sostenuta da competenze tecniche e culturali.

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LUSSU PERRI TORTOIOLISi può cominciare a sospettare che la grafica non sia così difficile come in modo alquanto corporativistico i grafici stessi tendono a far credere. L’esperienza di insegnamento nel Master in editoria di Eco a Bologna ha ulteriormente rafforzato questo mio sospetto: giovani che hanno motivazione e basi culturali ben strutturate riescono dopo solo trenta ore del mio corso di grafica editoriale a realizzare cose che molti studenti di design del Politecnico di Milano non sarebbero riusciti a fare dopo cinque anni.

Su questo tema molto ci sarebbe da dire, ma credo di essermi già espresso (sempre da non grafico, peraltro), in un articolo che ho scritto per il primo numero della rivista dell’AFAM – a quanto pare, non ancora uscito per problemi “ministeriali”: La grafica e lo spazio della ricerca. Un’ipotesi interdisciplinare. Scrivevo in quel testo che ad esempio la filosofia – non tanto quella teoretica e assai criptica dell’ermeneutica continentale heidegeriana o poststrutturalisma ma quella, a mio giudizio assai più pragmaticamente concreta, dell’anglosassone approccio ai problemi del linguaggio e della mente può essere un validissimo punto di partenza per la riflessione anche in chiave progettuale, nella misura in cui propone “esperimenti mentali” che stimolano o esemplificano il lavoro creativo del grafico in quanto problem-solver. Ma anche certa matematica (la topologia, la teoria delle catastrofi, ecc.) rappresenta un ambito estremamente significativo – e non insisto pro domo mea sulla semiotica del segno visivo, che mi sembra tuttavia una disciplina essenziale per educare all’analisi dei testi come alla creazione consapevole. E si potrebbe continuare.

Gli ambiti a mio avviso riguardano necessariamente la dimensione ‘politica’ del design della comunicazione; è sufficiente guardare agli equilibri (o disequilibri) che riorganizzano i rapporti fra le persone a livello planetario per notare come sia il concetto di ‘identità’ ad essere centrale per immaginare scenari futuri di possibile convivenza. Lo ha spiegato molto bene Amartya Sen nel suo libro ‘identità e violenza’. personalmente credo che lavorare sul ‘design delle relazioni’ sia una dei compiti più importanti da affrontare.

Esistono degli ambiti di ricerca ancora inesplorati nei quali la didattica può giocare un ruolo importante, formando i professionisti di domani? Quali sono?

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GOBESSOCerto che si, per esempio indagando a fondo sul “come” si stia costruendo questo tipo di domani, sulle forze in campo che stanno disegnando gli scenari futuri dentro ai quali voi per primi vi dovrete muovere e soprattutto sugli aspetti in divenire della comunicazione odierna.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTINon so se esiste ma penso che la definizione di un programma di base potrebbe essere cosa molto utile. Intendo che lo studente deve sapere delle cose precise per superare quell’esame. All’università è cosi: mettiamo per il corso di storia contemporanea il professore tiene le sue lezioni sull’ingerenza del Vaticano nella vita civile italiana dalla legge sull’aborto in poi ma lo studente deve sapere tutto e studiare il libro o i libri che vanno dal Congresso di Vienna (credo) ai giorni nostri.

Sempre problema di metodi, non di ambiti. Variegare le modalità di insegnamento.

A mio parere la didattica deve ancora affrontare il tema del supporto culturale alla disciplina. In questi anni ho incontrato diversi studenti il cui obiettivo era acquisire le capacità minime necessarie per entrare con efficienza nel “mercato del lavoro”: e certamente avevano tutti i diritti di considerare questo un mestiere come qualunque altro, cosa che in un certo senso è. Ma credo che – se si vuole che i futuri designer della comunicazione siano in grado di realizzare progetti consapevoli e collegati con la realtà che li circonda – sia necessario dare loro più opportunità possibili di capire la complessa rete di contributi diversi che fa della nostra cultura quello che è attualmente. Sarebbero necessari punti di contatto con l’area che nel campo accademico anglosassone viene definita dei Cultural Studies: senza l’illusione della completezza ma indicando quali possono essere le fonti a cui rivolgersi per allargare il campo di ricerca e di studio.

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Su quali insegnamenti bisogna puntare secondo lei per migliorare la didattica attuale?

LUSSU PERRI TORTOIOLISi può addirittura arrivare a mettere in dubbio che la grafica come era intesa nei decenni passati possa aspirare a configurarsi come disciplina: in gran parte non è altro che il saper dispiegare la comunicazione in modo corretto, cosa che a ben vedere tutti potrebbero imparare sin da bambini se solo ci fosse un insegnamento primario adeguato.In questa prospettiva, veramente importante sarebbe intervenire non tanto nei corsi di design e simili, ma in quelli di scienze della formazione primaria, dai quali cominciano uscire gli insegnanti elementari e che da questo punto di vista sono senz’altro carenti.

Su quelli di cui ho appena parlato, superando la forte resistenza di chi li considera “teorici” e dunque di scarsa utilità per un curriculum che aspira a formare artifices, persone che anzitutto sanno fare… Naturalmente questo è importantissimo, ma non si può fare nulla senza prima imparare a pensare.

All’isia quest’anno è stato introdotto il primo corso di matematica al triennio; bisogna continuare in questa direzione, lavorare per aumentare il carattere multidisciplinare dei tre anni di propedeutica rimuovendo quello strano malinteso per cui alla voce ‘tecnologia per il design’ si intendeva fornire semplicemente corsi professionali di uso dei software grafici. penso invece a materie come ‘storia della scrittura’, una sociologia che interpreti però il cambiamento in senso ‘wiki’ della società, una storia della arti visive non occidentecentrica e via così.

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GOBESSOCredo si debba puntare sul metodo.Ci sono molti metodi d’insegnamento: metodi tradizionali, metodi nuovi; esistono anche metodi poco ortodossi e provocatori. A volte non vengono indagati a fondo gli infiniti metodi(quanti infiniti possono essere i nostri interlocutori) che un docente ha a disposizione per trasmettere un sapere, un’esperienza, un insegnamento, una pratica.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTIVedo, ne ho piacere e penso che sia molto utile, che viene inserito l’insegnamento di “Matematica”. Va benissimo. Penso potrebbe essere utile ragionare sull’insegnamento di un’altra materia: l’italiano. Diciamo genericamente “Italiano”. Mi sembra difficile si possa fare il grafico senza conoscere bene la nostra lingua. Fare bene la professione spesso vuol dire entrare nel merito della scrittura dei testi non solo dal punto di vista grafico ma proprio vedere cosa c’è scritto e come è scritto. Ad esempio questo è essenziale nella comunicazione di pubblica utilità. Non sto qui a dilungarmi. Vedo che gli studenti hanno scarsa confidenza con la scrittura e nella professione ho notato che essere in grado di dare un’occhiata ai testi è cosa piuttosto utile. Tutto ciò mi sembra ovvio e, attenzione, non intendo un corso di “Scrittura creativa”.

Idem. I singoli insegnamenti hanno senso come parte di processo, non di per sé.Anche la formazione va progettata.

Su quelli che possono dare agli studenti i mezzi per capire e usare le diverse forme di linguaggio visivo, che siano scritture o immagini o entrambe le cose. Tutto questo però deve essere conquistato attraverso l’esperienza e la pratica, e non imposto, o trasmesso solo attraverso le classiche lezioni frontali. È il problema con cui mi scontro quando cerco di trasmettere idee che per me sono frutto di un percorso lungo e non lineare, e che uno studente può facilmente trovare estranee alla sua esperienza e al suo mondo. Se non si trova un punto di contatto, le conoscenze rischiano di rimanere “informazioni” sterili, che non entrano a far parte degli strumenti veramente acquisiti.

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Contaminazione tra le discipline ed i linguaggi, grafica e programmazione, Musica e Tipografia, Composizione e filosofia... Quali sono le possibilità didattiche che si aprono in questi nuovi scenari?

LUSSU PERRI TORTOIOLISe la “grafica” è una cosa piuttosto facile, bisogna allora comiciare a saper fare le cose difficili, quelle che i grafici non possono affrontare perché non ne hanno le basi: dare appropriata rappresentazione a problemi complessi. Fare le cose difficili implica poter interloquire con operatori delle discipline più diverse; se può essere vero che in certi settori si va verso la specializzazione, è pero anche certo che in altri si richiede la massima flessibilità. Di fatto ci sono immensi campi aperti: divulgazione di questo e di quello, diagrammazione di questo e di quello, manuali d’uso, way finding, modellizzazione scientifica, e chi più ne ha più ne metta.Per affrontare questi problemi bisogna prima di tutto capirli, altrimenti il progettista si riduce di nuovo all’avvilente ruolo di superfluo allestitore di patine superficiali da applicare ad artefatti comunicativi già definiti in essenza e struttura.

Sono tantissime, basta soltanto che le contaminazioni non divengano mai confusioni. Faccio anche qui un esempio emblematico, che mi viene dalla comune riflessione con Giovanni Lussu: la problematica generale della trasposizione o traduzione intersemiotica. Questa linea di ricerca, che spesso ha privilegiato riflessioni di natura astratta o ermeneutica, trova una concreta e fertile applicazione proprio nelle “inter-azioni” che consentono di costruire riconfigurazioni espressive sempre nuove di un testo dato trasmutandone il codice, le regole di coerenza, le “tonalità” espressive. Il tutto sempre alla luce di una progettualità formulata in modo chiaro e coerente, naturalmente.

Mi riferisco di nuovo al tema citato prima del design delle relazioni; in questo ambito rientrano progetti molto complessi riguardanti l’organizzazione del territorio in chiave identitaria e le sfide ambientali del pianeta

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GOBESSOMessa giù così mi vien da dire: “Infinite!”.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTIMentre scrivo queste disordinate righe leggo qui e là le tue domande.Sì, vedo in giro nuovi scenari e alcuni siparietti, comunque vedo accentuarsi l’espressività e il narcisismo che cammuffati da filosofia,poesia o altro poi rispuntano fuori. Ma vedo anche persone e cose che lavorano su questioni più oggettive. Mi auguro che l’aria fritta noninquini.

Nulla che un progettista non debba fare abitualmente nella sua pratica quotidiana, quando fa un marchio per un macellaio

Prima di tutto, possono essere una utile anticipazione di quello che avviene sempre quando si progetta la comunicazione: si ha una controparte (cliente, autore, ecc.) che rappresenta un altro campo del sapere. Non è possibile conoscere approfonditamente queste altre discipline, ma è indispensabile imparare a dialogarci. Nell’immediato, per la buona riuscita del progetto e, nel lungo periodo, per apprendere altri metodi, altri stimoli; o anche solo per trovare delle metafore che ci permettano di capire e vedere meglio quello che facciamo, guardandolo da un nuovo punto di vista.

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Cosa dovrebbe sapere e saper fare un soggetto che consegue un diploma di laurea specialistica all’ISIA di Urbino? Qual’è la situazione oggi secondo lei?

LUSSU PERRI TORTOIOLIÈ implicito che va spazzata via tutta la paccottiglia creativistica.Rimango ancora sempre stupito della sorprendente e ingenua presunzione di molti studenti che chicchessia possa essere interessato alla loro “creatività”.Se la possono coltivare a casa propria, come chiunque altro. Le qualità cosiddette estetiche sono intrinseche a qualunque artefatto: più si conosce e più si è creativi, e più il problema dato è ben risolto e più queste qualità emergono.

Un paio di giorni fa, partecipando da uditore a uno dei sin troppo numerosi seminari sull’offerta didattica dei nuovi corsi di laurea in Scienze della comunicazione a Roma, ho udito per l’ennesima volta la rituale spiegazione su ciò che “dovrebbe” offrire un corso di laurea triennale e ciò che invece sarebbe compito di una laurea magistrale o “specialistica”, appunto: insegnamenti di base o fondativi per il primo ciclo, una formazione “mirata” e specifica all’esercizio di particolari professioni per il secondo. Resto, francamente, da sempre sconcertato dinanzi alla disarmante banalità di questa affermazione cui di regola non fa mai seguito un’articolata spiegazione del cosa sia da considerare di base o fondativi e cosa, invece, sia frutto di un approfondimento teso a sviluppare una competenza specializzata. Pensiamo un attimo alla grafica, comunque – ma il grafico, in quanto progettista della comunicazione, non può certo sperare di sottrarsi ad alcuni dei vincoli cui sono soggetti gli “scienziati della comunicazione” tout court: è “specialistico” riproporre la segmentazione spesso artificiosa e inutile fra visual, basic, type design e, che so, illustrazione, fotografia o quant’altro? Mi piace, invece, pensare ce la “specializzazione” non sia qualcosa che taglia verticalmente la disciplina per ambiti, ma sia semmai la scelta di un’area, un’isola orizzontale di riflessioni progettuali sistemiche e generali che trovino poi una organica declinazione in ambiti diversi; insomma non apprezzerai molto un laureato ISIA che si dicesse fiero di aver progettato la gabbia di un catalogo ma dichiarasse la sua totale incompetenza nella scelta ed elaborazione delle immagini fotografiche da realizzare per “riempirlo” dicendo che questa “non è la sua specializzazione”…

Dovrebbe prima di tutto essere un soggetto consapevole di come si compone lo scenario del design della comunicazione oggi e meno concentrato su singoli aspetti disciplinari; il mondo della progettazione e gli stessi committenti richiedono oggi competenze in grado di fornire risposte complesse e non soluzioni preconfezionate.

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GOBESSOSono certo che al momento, soprattutto in Italia, ci sia molta offerta (spesso troppo specializzata sul profilo teorico) a fronte di una bassa domanda che purtroppo è anche ignorante o ha imboccato (quando non è ferma) dei binari morti.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTI[...] Non lo so, domanda da fare a chi governa

la didattica all’ISIANon conoscendo direttamente la realtà dell’ISIA non mi sento di poter rispondere a questa domanda in modo significativo.

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Progettare è una questione prima di tutto culturale e metodologica, una scuola che forma progettisti deve tenere conto di questo. Bisogna puntare sulla molteplicità delle possibilità? oppure individuare delle strade principali e concentrarvisi?

LUSSU PERRI TORTOIOLIPer la mia esperienza, tutto l’insegnamento dovrebbe essere di tipo interlocutorio, tantopiù in una scuola di progettazione, dove lezioni ex cathedra non dovrebbero proprio essercene.Discussioni, laboratori, ricerche, esercitazioni ecc. Il ruolo dei docenti dovrebbe essere di stimolo, di coordinamento ecc.Gli studenti dovrebbero essere in grado di studiare per conto loro, e molto.In ambiti di mercato dai confini così vaghi, il punto è che i giovani che ci entrano siano in grado di interagire con l’imprevedibile molteplicità di situazioni in rapido mutamento.Quindi grande flessibilità e capacità di affrontare rapidamente problemi nuovi, ciascuno magari a modo suo; questo dovrebbe fornire una scuola.

Credo che la molteplicità dei percorsi vada incoraggiata, a patto che non sfoci nello spontaneismo incontrollato e privo di regole. Peraltro ritengo anche preciso compito dei docenti “segnalare” le esperienze progettuali e realizzative più significative – non perché quello sia il percorso da seguire ma al contrario perché, proseguendo nella metafora, da lì si dipartono tanti percorsi nuovi, che definire “secondari” può spesso sembrare prematuro e improprio. Per quanto mi riguarda, ad esempio – e dalla mia particolare posizione di “non-grafico” – suggerire che una corretta progettazione notazionale facente uso di icone debba seguire i principi alla base di Isotype non basta: bisogna che gli studenti imparino a conoscere i tentativi di diagrammatizzazione delle inferenze logiche sviluppati da Peirce in poi (i cosiddetti grafi esistenziali, parenti nobili dei diagrammi di Venn), o quelli di rappresentazione delle conoscenze linguistico-semantiche proposti nell’ambito della frame theory. A prima vista, si tratta di ambiti di ricerca speculativi, molto distanti da quella “grafica didattica” e di pubblica utilità che ispirava il lavoro di Neurath e compagni; ma sono due percorsi niente affatto “secondari” se si vuole pensare alle notazioni grafiche come a strumenti di elaborazione simbolica della comunicazione “a tutto tondo”, “completi” nel senso di Goodman – in nulla diversi quanto a potenzialità dalla lingua storico-naturale, cioè, e perciò utilizzabili per costruire artefatti comunicativi particolarmente complessi e non immediatamente funzionali.

Vale il discorso fatto inizialmente sulle funzioni della scuola; un istituto che assolva al suo compito di “costruttori del metodo” forma persone i grado di individuare percorsi personali di completamento della propria formazione. Io lavoro d quasi vent’anni e posso dire di non aver mai interrotto il mio percorso formativo.

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GOBESSOIndagando a fondo questi singoli percorsi naturalmente. Si deve privilegiare il metodo, il ragionamento, spingere allo sviluppoe allíindagine di un pensiero, di un’idea e non indirizzare su binari conosciuti o su terreni dove il docente sa di potersi muovere con disinvoltura. Se ieri un docente doveva stimolare, incuriosire, spingere alla ricerca e soffiare su timide scintille d’interesse (cosa che è bene continui a fare), oggi, e sempre più spesso, si trova a dover fare i conti con i “metodi nuovi” dei suoi allievi. Diventa una trasmissione ad personam, il rapporto è con il singolo pi˘ che con il gruppo, quasi come avviene in Estremo oriente, e soprattutto in Giappone, nell’apprendimento di quelle discipline di tipo tradizionale (l’arte del tè, la calligrafia, il tiro con l’arco). Insomma io che come allievo sono stato allíIsia (74-79), poi tre anni nella “bottega” di Piergiorgio Maoloni e, più avanti negli anni, ho potuto provare il contatto con dei sensei giapponesi, sono per un sano ritorno alla tradizione, all’apprendimento di un metodo e all’apprendimento per frequentazione, per vicinanza, quasi per osmosi. Mi viene alla mente un antico proverbio di Baja che recita: “Non si può fare l’amore con tutte le donne del mondo, ma si dovrebbe fare uno sforzo”. Forse si, con il tempo si dovrebbe riuscire a esplorare più strade possibili.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTI[...] Problema di metodo ma non astratto.

Decidono il contesto e l’esperienzaParlavo prima di porte da aprire lungo il proprio percorso formativo, un percorso che immagino ininterrotto dalla scuola alla professione. Questo è esattamente quello che intendevo: la formazione deve essere abbastanza flessibile da lasciare uno spazio libero perché gli studenti vi riversino le proprie passioni, la complessa e mutevole intersezione di interessi e competenze che li definiscono prima come persone e poi come professionisti. Come docenti si deve sempre essere capaci di immaginare e di accogliere diversi modi di arrivare allo stesso mestiere. Questo si può fare costruendo un corso che accanto al trasferimento delle conoscenze e dei metodi abbia degli spazi di elaborazione critica applicata al progetto.

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Esiste un forte salto tra il mondo accademico e il mondo del lavoro.Gli studenti non sono preparati, nella maggior parte dei casi, a questo “adattamento”, perché la scuola forma dei progettisti “in astratto”. Come crede che si possa avvicinare questi due mondi?

LUSSU PERRI TORTOIOLILe basi ineludibili sono storia, matematica, semiologia e neuroscienze; ognuna di queste, in una scuola ideale, potrebbe essere fatta in modo sperimentale e interattivo.Una cultura visiva carente di fondamenti storici che inquadrino gli eventi all’interno dei contesti (sociali, politici, economici, tecnologici, fiosofici ecc.) si riduce a un puro repertorio indifferenziato situato in un orizzonte piatto, privo di qualunque possibilità di reale comprensione, e quindi di fattiva progettualità. La matematica non solo è la base per la comprensione di ogni fenomeno naturale come di ogni sviluppo tecnologico: addestra al rigore della ragione abattendo la nefasta contrapposizione tra arte e scienza, fornisce illimitatamente strumenti per il controllo di qualunque sistema di relazioni e rende possibile una fertile utilizzazione della programmazione informatica.La semiologia, a partire dall’analisi consapevole della scrittura, costituisce la linfa essenziale di tutto ciò che riguarda la comunicazione.Le neuroscienze, e in particolare quelle a impostazione evolutiva, superando gli approcci induttivi sono l’attuale frontiera nella conoscenza dei comportamenti umani, dalla lingua parlata alla scrittura, dai fenomeni percettivi alle sinestesie.

Questa è senza dubbio la risposta più difficile da dare, posto che le discipline di cui mi occupo (linguistica generale, semiotica) sono tra quelle che in passato meno hanno mostrato di possedere un risvolto operativo e applicativo immediatamente spendibile nel mondo del lavoro. Giudico, però, altrettanto semplicistica la proposta di chi, atenei in testa, ritiene di poter risolvere la questione moltiplicando le partnership con stakeholders extra-accademici in funzione di un proficuo periodo di stage tutored dall’ateneo e nell’ambito del core business delle imprese, implementando in tal modo la sinergia tra ricerca, management e marketing integrato (avrai notato che un simile lessico serve benissimo a mascherare di efficienza e modernità l’esperienza di tirocinio gratuito o di rapporti più o meno continuativi con imprese e istituzioni operanti nei settori più vari). Insomma, per farla breve quello degli stage e delle collaborazioni con il mondo della produzione non può essere un alibi per non affrontare il problema dello “scollamento” tra formazione universitaria e professioni. Lussu censura (e ha perfettamente ragione) le “committenze simulate” che spesso sono fuorvianti e del tutto inadatte a dare davvero un’idea di cosa sia l’universo (selvaggio?) del mercato; ma allora come se ne esce? Con degli stage-tirocini seri, a mio avviso – che non siano cioè semplici impegni di faciata volti ad accumulare un monte ore sufficiente per “far crediti” ma si concretizzino in collaborazioni

Non sono d’accordo sul punto. i giovani che vengono nel mio studio sono principalmente dei bravi utlizzatori di software e dei cattivi pensatori. La scuola deve essere in grado di prefigurare un approccio del mondo del lavoro che non rinunci ad essere ‘alto’. La vera capacità del progettista sta nel proporre la propria prestazione in una chiave che sia percepita anche come necessità culturale e non solo professionale.

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A.A. 2007 | 2008

GOBESSOLo accennavo prima: ritornare al concetto di “bottega”, perché così io ho imparato e cosÏ vorrei insegnare. Chiudere i master nelle accademie e nelle scuole e aprirli negli studi e nelle agenzie.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTIPenso che la scuola debba preparare alla professione. Vedo gli studenticome dei professionisti. Ragiono con loro come se si trattasse di svolgere degli incarichi.

Posso esprimere solo quel che pensiamo noi: vedere prospetto biennio e triennio del’Accademia di Boilogna, Progettazione Grafica, Dipartimento Arti Applicate

Attualmente il punto di contatto è costituito dai tirocini che gli studenti svolgono obbligatoriamente prima della laurea: nella mia esperienza (quella di chi segue un tirocinante) questi sono spesso una occasione mancata. I motivi sono molti: divario troppo grande tra chi impara e chi lavora, mancanza di tempo e di disponibilità, ritmi di lavoro poco compatibili con l’apprendimento. Quello dell’avvicinamento alla professione è proprio il punto più critico del percorso di formazione. Accanto ai tirocini andrebbero sviluppati laboratori di progettazione che consentano agli studenti di lavorare a contatto con la realtà, quindi con interlocutori e temi tratti dalla vita vera, e non in un abito puramente ipotetico e speculativo. Poter sviluppare un progetto che venga poi realmente prodotto e utilizzato sarebbe una grande opportunità per tutti.

Dibattito sulla didattica | ISIA Urbino

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Esiste un forte salto tra il mondo accademico e il mondo del lavoro.Gli studenti non sono preparati, nella maggior parte dei casi, a questo “adattamento”, perché la scuola forma dei progettisti “in astratto”. Come crede che si possa avvicinare questi due mondi?

LUSSU PERRI TORTOIOLIcontinuative che consentano allo studente-tirocinante non certo di metter le mani sul timone della realtà entro cui si trova ad operare (ah, il core business!) ma di condividerne almeno in parte le grandi direttive progettuali. Troppo spesso i grafici “in servizio” come stagisti presso uno studio sono messi lì buoni e zitti a scontornare immagini per un catalogo o una brochure di cui non vedranno mai la realizzazione completa, e alla cui progettazione non hanno partecipato neppure con qualche idea o suggerimento… ecco, credo che così il baratro fra mondo del lavoro e università non potrà mai essere colmato.

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A.A. 2007 | 2008

GOBESSO LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTI

Dibattito sulla didattica | ISIA Urbino

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Perché all’ISIA non esiste un dottorato di ricerca in Progettazione Grafica? Lei sarebbe d’accordo alla sua istituzione? Che forma potrebbe avere secondo lei?

LUSSU PERRI TORTOIOLIPiù in particolare, un po’ alla rinfusa:a) andrebbe sistematicamente addestrata la progettazione sistemica (pensare per sistemi e generalizzazioni piuttosto che per singoli artefatti);

b) l’uso del computer non dovrebbe inibire lo sviluppo delle competenze manuali (anzi, sarebbe quanto mai utile esercitare il disegno dal vero);

c) come prima cosa al primo anno andrebbe fatta progettazione di caratteri tipografici (in essa è riassunto più o meno tutto, ma proprio tutto);

d) il software non andrebbe per nulla insegnato (ciascuno può impararselo da sé e imparare a consultare i manuali);

e) è quanto mai essenziale sapere cosa succede nel mondo reale del mercato, ma è quanto mai fuorviante, nel far lavorare gli studenti, simulare committenze e situazioni che si pretenderebbero analogiche.

In genere è maleducato rispondere a una domanda con un’altra domanda, ma sono costretto a farlo. Perciò: perché non far funzionare bene i corsi di laurea esistenti prima di pensare alla costituzione di un dottorato – del quale peraltro, anche alla luce di personali esperienze, non è sempre chiara l’utilità e che credo alla prova del nove dei quasi venti cicli di quelli istituiti per primi abbia dato risultati non proprio incoraggianti? E inoltre: come definire la forma di un curriculum d’eccellenza se a stento si riescono a individuare con chiarezza obiettivi e struttura degli insegnamenti e dei curricula formativi?

Non solo sono d’accordo ma auspico che posano partire prima possibile.

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A.A. 2007 | 2008

GOBESSOLa prossima domanda, grazie.

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTI[...] Perchè i dottorati non esistono in ISIA

e Accademie. E’ un pezzo di riforma ancora non applicato e applicabile.

Sul perché all’ISIA non esista un dottorato, non ho gli elementi per rispondere. Credo che un’istituzione con la storia dell’ISIA abbia l’autorevolezza per iniziare un simile progetto, trovando un percorso diverso da quello che può essere proposto dai corsi di Comunicazione visiva inseriti nei Politecnici o nelle facoltà di architettura, proprio per la storia e la cultura diverse che lo contaddistinguono.

Dibattito sulla didattica | ISIA Urbino

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Il MIT in America è un esempio di “polo di ricerca”, pensa che in quale modo sia possibile pensare di realizzare in Italia una struttura similare, almeno in parte, per quanto concerne la progettazione grafica e la comunicazione?

LUSSU PERRI TORTOIOLIPer quel che riguarda l’esigenza di un “polo di ricerca”, infine, in realtà in Italia già ne esistono.Il Politecnico di Milano, ad esempio, con le sue nove facoltà e i suoi innumerevoli corsi di laurea, costituisce un ottimo esempio di offerta ad ampio spettro con punte di ricerca molto avanzata; che poi la Facoltà del Design sappia o non sappia assicurare gli opportuni collegamenti è un’altra questione.All’Isia di Urbino la didattica potrebbe forse essere fatta per moduli concentrati nel tempo opportunamente scelti di volta in volta e affidati a docenti esterni; pochi docenti stanziali (e molto motivati) assicurerebbero poi coordinamento e continuità.

Rispondere a questa domanda prevede di aver risolto tutti i dubbi relativi alla precedente, e cioè alla natura di un vero percorso formativo avanzato e strettamente di ricerca (quale un dottorato dovrebbe essere, cioè). Vedo però un grosso rischio all’orizzonte (al quale del resto non si è sottratto neppure il MIT, così spesso decantato nell’ultimo mezzo secolo). Mi chiedo cioè se sia utile allontanare la progettazione visiva della comunicazione nel suo senso più ampio dalla dimensione pratica, applicativa, user-centered che dovrebbe da sempre caratterizzarla: tutto mi ricorda quegli esperimenti pseudobehavioristi sulla leggibilità tanto in voga negli anni Cinquanta presso molti istituti di ricerca americani (MIT compreso), dai quali spesso venivano fuori dati assolutamente inattendibili circa l’effettiva usabilità-in-contesto di specifiche soluzioni notazionali. Insomma il MIT ha prodotto senza dubbio molta buona ricerca progettuale e tecnologica d’avanguardia, ma ha anche dilapidato ingenti risorse in progetti poi rivelatisi inutili o infattibili (vogliamo parlare degli human language data processing tools, ovvero dei sistemi cosiddetti di traduzione o analisi linguistica automatica del linguaggio naturale? Parliamone, allora, e vediamo quanto della mole di astratta ricerca che si è dedicata a temi simili ha avuto un sicuro impatto sulla nostra tecnologia digitale attuale…).

Abbiamo parlato molto della possibilità che la scuola diventi nel tempo un punto di riferimento proprio in questa chiave. Occorre rimuovere però un cattivo modello culturale che porta a leggere la scuola come un possibile concorrente di studi e agenzie sul territorio “a costo zero” per committenti che non vogliano investire. La scuola può essere un validissimo strumento di ricerca a disposizione di istituzioni, fondazioni, aziende e gli stessi studi che raramente possono permettersi percorsi di ricerca interni, ma a patto che i costi di un lavoro del genere siano riconosciuti e i ricavi che ne scaturiscono destinati al finanziamento di borse di studio e dottorati.

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A.A. 2007 | 2008

GOBESSOEhm ma lei ha presente che cos’è l’Italia?

LECALDANO BRANZAGLIA SFILIGIOTTISarà poi utile il tuo questionario in una situazione non omogenea come mi sembra evidente sia la diddattica in Isia in questo periodo? Per tanti motivi dei quali alcuni già citati in apertura di questa lunga mail: c’è un cambiamento in atto, complicato. Non sarebbe stato meglio che tu avessi fatto il tuo questionario ai professori di importanti e storiche scuole straniere e che poi magari avessi riportato in Isia i risultati?. Forse sarebbe stato più utile a te e a noi. Ad esempio che succede al master Type & Media della Koninklije Academie van Beeldende Kunsten dell’Aja?

MIT significa Massachusset Institute of Technology. Poco a che fare con il graphic design, a parte i Maeda di turno. Secondo me ci sono già posti del genere. Politecnico, Ludi, anche noi stiamo cercando di farlo.

Sono diffidente rispetto alla ricerca “pura” applicata alla progettazione grafica, e quindi penso che quella di essere ricercatore (e anche docente) funzioni meglio quando non è una scelta a tempo pieno, quando la ricerca convive con la pratica e la alimenta. Uno spazio per la ricerca – che sia orientata in senso scientifico o verso le scienze umane o le arti visive – è comunque necessario, per permettere lo sviluppo di pratiche sperimentali che rischiano di rimanere escluse, per mancanza di interesse e di ritorno economico immediato, dal circuito della grafica realizzata su commissione.