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Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna Maria
Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Chiara Lizzi, Daniel
Pommier Vincelli, Vittoria Saulle, Luca Topi, Giulia Vassallo.
Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.
Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le
Aldo Moro, 5 - 00185 Roma
tel. 0649913407 – e - mail: eurostudium@eurostudium.eu
Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17
ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
Eurostudium3w aprile-giugno 2014
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Indice della rivista
aprile - giugno 2014, n. 31
MONOGRAFIE E DOCUMENTI
Ritualità ed immagini del potere papale nei Gesta Innocentii III di Francesco Massetti p. 3
Ser Tommaso, Ser Pietro e il “mal francese”. Testimonianze sull’insorgere dell’epidemia luetica in Italia agli esordi dell’età moderna. Sintomi e cure
di Marco Parigini p. 67
The Origins of the European Integration: Staunch Italians, Cautious British Actors and the Intelligence Dimension (1942-1946) di Claudia Nasini p. 93
***
RECENSIONI Luca Stroppiana, Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2013, II edizione aggiornata, pp. 185 di Giacomo Mazzei p. 145
Eurostudium3w aprile-giugno 2014
3 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Ritualità ed immagini del potere papale nei Gesta Innocentii III
di Francesco Massetti
This paper deals with the ways in which pope Innocent III (1198-1216) was able to
express his extremely high conception of the Roman pontiff as «vicarius Christi»,
supreme mediator between God and mankind and holder of the «plenitudo potestatis»,
through a complex system of images and rituals, analysing some particularly relevant
passages from Gesta Innocentii III, a papal biography whose anonymous author was
very close to Innocent - due to his likely engagement in a curial office - and showed
himself very sensitive to the symbolic and ritual aspects of papal authority.
Dieser Beitrag behandelt die Weisen, in denen Papst Innozenz III. (1198-1216) seine
hohe Auffassung des Papstes als «vicarius Christi», der höchste Mittler zwischen Gott
und den Menschen und der Inhaber der «plenitudo potestatis», durch ein komplexes
System von Bildern und Ritualen wirksam ausdrücken konnte, auf der Grund mancher
besonders bedeutsamen Textstellen aus der Gesta Innocentii III, einer päpstlichen
Biografie, dessen anonymer Autor wegen seiner wahrscheinlichen Ausübung eines
Kurienamtes sehr nahe Innozenz war und sich sehr empfindlich auf die symbolische
und rituelle Aspekte der päpstlichen Autorität zeigte.
Il presente studio ha visto la luce in occasione del corso tenuto dalla
professoressa Giulia Barone all’Università di Roma “La Sapienza” sul tema
«Annali, Cronache, Storie: la storiografia tra XII e XIII secolo», nel secondo
semestre dell’anno accademico 2011-‘12. La gestazione dello studio è stata
tuttavia ben più lunga, poiché già l’anno precedente, conducendo delle ricerche
sull’eredità costantiniana nel Medioevo nell’ambito di una tesi di laurea
triennale sulla Vera Croce nella Legenda aurea, abbiamo notato l’importanza del
pontificato di Innocenzo III per lo sviluppo di ritualità e simboli del potere
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4 F. Massetti, Ritualità ed immagini
papale. Particolarmente significativo, al riguardo, è stato un testo suggerito dal
professor Umberto Longo: Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato
medievale, di Agostino Paravicini Bagliani.
Il corso della professoressa Barone ci ha dunque fornito l’occasione per
cercare di verificare questa nostra convinzione sulla base di un testo troppo
poco studiato a fronte della sua ricchezza e complessità: i Gesta Innocenti III.
Innocenzo III costituisce senza dubbio una figura di capitale importanza
nella storia del papato, anzitutto per la grande coerenza e la straordinaria
efficacia teoretica con le quali, recependo e potenziando le precedenti
elaborazioni ecclesiologiche legate al primato petrino, egli seppe delineare la
sua altissima concezione dell’ufficio di vicarius Christi, detentore della “plenitudo
potestatis” (“pienezza dei poteri”), in virtù della quale egli non soltanto si
proclamò supremo pastore, maestro e giudice della cristianità universale, ma
rivendicò anche una posizione di superiorità rispetto ai sovrani temporali, cui
era affidato il concreto esercizio del regnum.
In questo nostro contributo intendiamo soffermarci in particolare sulla
capacità del grande pontefice di tradurre le sue feconde elaborazioni teologiche
in un significativo apparato simbolico-rituale, verso il quale l’autore dei Gesta
Innocentii III, si mostra assai sensibile ed interessato, come ha ben rilevato da
Paravicini Bagliani. Avremo modo di mostrare che la prospettiva offerta dai
Gesta Innocentii si rivela particolarmente interessante per la grande vicinanza
dell’anonimo autore al pontefice, dovuta allo svolgimento di un importante
ufficio curiale che lo pose in stretto rapporto con le elaborazioni innocenziane e
gli consentì un accesso privilegiato alla ricchissima produzione documentaria
della cancelleria romana.
Nella prima parte della nostra ricerca presentiamo alcune fondamentali
informazioni sui Gesta Innocentii III, senza pretesa di originalità. Abbiamo
cercato, infatti, di riassumere brevemente i risultati delle preziose ricerche di
Gress-Wright, Powell, Barone e Bolton su struttura, contenuto, genesi ed
attribuzione dell’opera.
La seconda parte costituisce invece il focus del nostro interesse, giacché
abbiamo qui indagato il testo dei Gesta Innocentii III al fine di comprendere
l’importanza attribuita da Innocenzo III e dal suo biografo alle rappresentazioni
rituali, letterarie ed artistiche del potere papale.
Nella prima sezione di questa seconda parte presentiamo la cerimonia
della consacrazione di Innocenzo III, significativamente fissata il giorno della
festività solenne della cathedra Petri, a rimarcare il primato petrino del pontefice.
Nella narrazione dei Gesta Innocentii assume grande importanza anche la
solenne processione da San Pietro al Laterano, alla quale partecipano
concordemente le autorità civili ed ecclesiastiche, testimoniando il superamento
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5 F. Massetti, Ritualità ed immagini
della pluridecennale conflittualità seguita alla Renovatio Senatus (1143), la
ricostituzione del Senato cittadino.
Nel seconda sezione prendiamo in esame il testo di una delle più note
lettere di Innocenzo III, la Sicut universitatis conditor, nella quale viene
presentato il celebre paragone fra il sole e la luna e i due poteri universali. Essa
risulta significativamente riportata dall’autore dei Gesta Innocenti III in una
sezione eminentemente narrativa, a rimarcarne la fondamentale importanza per
la politica innocenziana. Sulla base degli studi di Othmar Hageneder, abbiamo
cercato di collegare una significativa modifica del dettato della lettera agli
sviluppi del Thronstreit.
Nella terza sezione, ripercorrendo una delle rievocazioni più
emblematiche fra quelle proposte dai Gesta, analizziamo in dettaglio il
cerimoniale di incoronazione di Pietro II d’Aragona a Roma, mostrando
l’importanza che esso ha avuto nella riaffermazione del potere papale presso
l’Urbe e l’intera cristianità. Particolarmente preziosi si sono rivelati gli studi di
Damian Smith, che permettono di chiarire le motivazioni che spinsero il
sovrano aragonese ed il pontefice alla solenne incoronazione svoltasi durante la
festa di san Martino del 1204.
La quarta ed ultima sezione è dedicata a due raffigurazioni artistiche, un
antepedium lateranense ed il mosaico absidale di San Pietro, fatto realizzare da
Innocenzo III. Avvalendoci anche in questo caso degli opportuni riscontri con i
Gesta, abbiamo cercato di mettere in evidenza l’importanza attribuita dal
pontefice alla propaganda visiva, che ha trovato nel mosaico vaticano la sua più
originale ed emblematica espressione.
Parte I. I Gesta Innocentii III
I Gesta Innocentii III si possono definire una biografia soltanto lato sensu,
trattandosi di un unicum nell’ambito delle biografie papali per la sua estensione
e per la combinazione di parti narrative e regesti documentari. Inoltre, i Gesta
Innocentii non coprono l’intero pontificato di Innocenzo III (1198-1216),
fermandosi al 12081.
I.1 Struttura e contenuto
I capitoli iniziali (1-7), dedicati alle origini, alla cultura giuridica e teologica, alla
produzione letteraria e alla carriera ecclesiastica di Lotario dei Conti di Segni,
futuro Innocenzo III, sono esemplati sulla base delle biografie papali contenute
1 D.R. Gress-Wright, The «Gesta Innocentii». Text, introduction and commentary. Ph.D. Dissertation,
Bryn Mawr College 1981, pp. 28*, 34*-35*.
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6 F. Massetti, Ritualità ed immagini
nel Liber Pontificalis (VI-IX secolo)2. Presentano una forma narrativa anche i
capitoli dedicati al recupero del Patrimonio di San Pietro (8-17) e alle vicende
del regno di Sicilia fino alla maggiore età di Federico di Svevia (18-40)3. Questa
sezione, secondo la classificazione operata da Gress-Wright, concerne le
«temporales actiones», cioè le azioni compiute da Innocenzo III quale signore
territoriale4. L’autore, che nella narrazione si avvale della sua esperienza diretta
degli avvenimenti e di resoconti curiali di prima mano5, insiste fortemente sulla
contrapposizione fra la saggezza, la magnanimità e la pazienza del pontefice e
la malvagità dei suoi rivali. In particolare assume un dimensione quasi epica la
lotta fra Innocenzo e il suo principale antagonista, il nobile tedesco Marcoaldo6.
Con il capitolo 41 inizia la parte dedicata agli “spirituales actus”, gli atti
compiuti dal pontefice in virtù della sua potestà spirituale. Intesa in senso
stretto, essa comprende i capitoli 41-59, dedicati all’organizzazione curiale e alle
“cause de toto orbe”, vale a dire i rapporti con le principali monarchie europee7.
Tuttavia anche i successivi capitoli 60-132 presentano “azioni spirituali” in
senso lato, poiché Innocenzo III si presenta come giudice universale e supremo
amministratore della cristianità8.
La sezione centrale dell’opera (capp. 60-119), dedicata alla IV Crociata, alla
presa di Costantinopoli, all’unione con la Chiesa greca e ai rapporti con le
Chiese orientali di Armenia e Bulgaria, si presenta in forma di dossier di
documenti, costruiti sulla base delle lettere conservate nei registri papali9. Gli
eventi presentati in questa ampia sezione sono noti all’autore soltanto
attraverso il materiale documentario della cancelleria10.
Segue la sezione dedicata ad uno dei più importanti eventi del papato di
Innocenzo III, l’incoronazione di Pietro II d’Aragona (capp. 120-122). La
narrazione della solenne cerimonia è accompagnata dal testo del giuramento
del sovrano e del privilegio concesso da Innocenzo III alla corona aragonese11.
La successiva sezione (cap. 123-131) è dedicata alle azioni di “reformatio et
correctio” compiute da Innocenzo III. Hanno una forma documentaria i capitoli
2 G. Barone, “Introduzione”, in Gesta di Innocenzo III, traduzione di S. Fioravanti, a cura di G.
Barone e A. Paravicini Bagliani (La corte dei papi 20), Roma 2011, p. 8. 3 Ibid. 4 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 29*-30*. 5 Ivi, p. 32*. 6 Ivi, pp. 33*, 111*; cfr. B. Bolton, “Too important to neglect. The Gesta Innocentii PP III”, in Ead.,
Innocent III: Studies on Papal Authority and Pastoral Care, Cambridge 1992, pp. 92-93. 7 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. vii, 30*. 8 Ivi, p. 30*. 9 Barone, “Introduzione”, cit., p. 9. 10 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 32*. 11 Ivi, p. 30*; Barone, “Introduzione”, cit., p. 9.
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7 F. Massetti, Ritualità ed immagini
relativi alla lotta contro la pataria a Viterbo (123-125) e all’elezione del vescovo
di Canterbury (132), mentre hanno andamento narrativo i capitoli dedicati
all’opera di riforma nei domini pontifici (126-128) e ai rapporti con Filippo II
Augusto e Giovanni d’Inghilterra (129-131)12.
La seconda sezione narrativa (cap. 133-142), dedicata alle “temporales
actiones”, tratta dei difficili rapporti fra il pontefice ed il comune romano, fra
1203 e 1204.
La parte finale (cap. 143-150), concernente le donazioni alle istituzioni
religiose e le ordinazioni operate dal pontefice, è piuttosto convenzionale,
ispirandosi alle tradizionali conclusioni delle biografie del Liber Pontificalis13.
L’autore non ha inserito alcun documento relativo al complesso problema
della successione imperiale a Enrico VI: non viene fatta alcuna menzione
all’appoggio dato da Innocenzo III ad Ottone IV di Brunswick. Si tratta di un
elemento sorprendente, data la centralità della questione, nonché l’ampio
spazio riservato nei Gesta Innocentii alla tutela di Federico II quale re di Sicilia. È
assai probabile che la scelta dell’autore sia dovuta alla coeva composizione del
Regestum super negotio Romani imperii, nel quale la cancelleria aveva iniziato a
raccogliere tutti i documenti relativi alla successione imperiale, a partire dal
1199. L’autore dei Gesta Innocentii avrebbe dunque ritenuto sufficiente tale
regesto, decidendo così di non occuparsi della questione imperiale14.
I.2 Genesi ed ipotesi di attribuzione
Gli autori che hanno affrontato il problema della paternità dei Gesta Innocentii
III hanno individuato alcuni tratti peculiari dell’anonimo autore. Sicuramente
egli aveva una solida cultura, anche in ambito giuridico, era molto vicino al
pontefice ed aveva accesso alla documentazione prodotta nella cancelleria
papale, della quale fece ampio uso15.
Su queste basi sono state avanzate tre principali proposte di attribuzione,
legate tutte agli uffici della Curia Romana, i quali ebbero un notevole sviluppo
tra la metà del XII secolo e l’inizio del XIII, in particolare dopo la pace stipulata
con il Comune nel 1188. Furono soprattutto due gli uffici che assunsero una
struttura particolarmente articolata: la Camera, organo preposto all’attività
amministrativa e finanziaria della corte papale, e la Cancelleria16, preposta alla
12 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. viii, 31*. 13 Ivi, p. 31*; Barone, “Introduzione”, p. 9. 14 Ivi, p. 10. 15 Ivi, p. 11. 16 Dopo una fase di prolungata vacanza fra il 1187 e il 1205, la carica di cancellarius Sanctae
Romanae Ecclesiae tornò ad essere occupata per volere di Innocenzo III, il quale profuse il suo
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8 F. Massetti, Ritualità ed immagini
produzione documentaria. Proprio in questi due ambiti si è cercato di
individuare l’autore dei Gesta Innocentii17.
Barone ha dimostrato con chiarezza l’origine romana dell’autore, la quale
emerge dall’approfondita conoscenza delle famiglie romane, nonché dalle
dettagliate indicazioni topografiche, presenti in particolar modo nella
narrazione degli scontri cittadini del 1203-1204. Gli studi sulla topografia delle
Roma medievale, in particolare quelli condotti da Armellini18 e dal
Krautheimer19, hanno permesso di verificare l’attendibilità delle notizie fornite
dall’autore dei Gesta Innocenti20.
Sulla scorta di un articolo di Lefèvre21 e degli studi di Agostino Paravicini
Bagliani sul rapporto tra le biografie papali del XIII secolo e biografie papali
scritte dal cardinale Bosone, a lungo camerlengo22, Gress-Writght23 ha ipotizzato
un’identificazione dell’autore dei Gesta Innocentii III con Ottaviano, canonico di
san Pietro e consubrinus di Innocenzo III, presente a Roma quasi
ininterrottamente. Dal 1200 al 1204 Ottaviano fu camerlengo, e nel 1206 fu
elevato al cardinalato presso la diaconia dei Santi Sergio e Bacco, di cui era stato
titolare lo stesso pontefice prima dell’elezione e alla quale egli rimase molto
legato24. L’appartenenza dell’autore alla Camera apostolica è stata motivata in
virtù dello spiccato interesse mostrato dai Gesta per gli aspetti finanziari e
patrimoniali.25
Gress-Wright ritiene che una prima parte dell’opera e gran parte degli
ultimi capitoli risalgano al 1203, quando Innocenzo si ammalò gravemente.
L’autore avrebbe inteso scrivere la biografia del papa nell’imminenza della sua
morte, che invece sarebbe avvenuta ben 13 anni dopo. In questo modo Gress
Wright cerca di spiegare l’uso del passato remoto in un’opera scritta mentre il
impegno nell’incremento dell’attività e del personale della Cancelleria (Barone, “Introduzione”,
cit., p. 12). 17 Ivi, pp. 11-12. 18 M. Armellini, Le Chiese di Roma dal IV al XIX secolo, Roma 1942. 19 R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma 1981. 20 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’: politica e cultura di Roma all’inizio del Duecento”, in Studi
sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di Ead., L. Capo e S. Gasparri, Roma 2001, pp. 1-23, pp.
6-7. 21 Y. Lefèvre, Innocent III et son temps vus de Rome: étude sur la biographie anonyme de ce pape, in
«École française de Rome. Mélanges d' archéologie et d'histoire» 61 (1949), pp. 242-245. 22 A. Paravicini Bagliani, La storiografia pontificia del XIII secolo. Prospettive di ricerca, in «Römische
Historische Mitteilungen» 18 (1976), pp. 45-54; cfr. Id., “Le biografie papali duecentesche e il
senso della storia”, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del XIV
Convegno internazionale di studi, 14-17 maggio 1993, Pistoia 1995, pp. 155-173, pp. 156-157. 23 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 112*-114*. 24 Barone, “Introduzione”, cit., p. 13; Ead., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 2. 25 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 3.
Eurostudium3w aprile-giugno 2014
9 F. Massetti, Ritualità ed immagini
pontefice era ancora in vita. I Gesta Innocentii andrebbero intesi, nella loro fase
iniziale, quale una difesa dell’operato del pontefice, che lasciava interrotta la
sua azione politica, oggetto di forte contestazioni. Solo in seguito alla
guarigione del pontefice l’autore avrebbe ripreso la composizione dell’opera,
aggiungendo dettagli ai temi già affrontati e inserendo una serie di dossier su
importanti materie di carattere “spirituale”, come la Crociata, l’unione con la
Chiesa greca, e i rapporti con le Chiese di Bulgaria e Armena. Considerando che
questi eventi arrivano fino al 1208, Gress-Wright data a questo anno la fine della
composizione26. L’autore avrebbe interrotto l’opera prima della fine del
pontificato di Innocenzo III ritenendo esaurita la sua funzione di difesa
dell’operato del pontefice, analogamente alla Vita Alexandri III di Bosone, che si
conclude prima della morte del pontefice, presentando il punto di vista papale
nel conflitto che lo ha contrapposto a Federico Barbarossa27.
L’attribuzione al cardinale Ottaviano formulata da Gress-Wright presenta
elementi di grande interesse, dalla parentela con il pontefice al profondo
coinvolgimento nell’amministrazione della Chiesa romana; tuttavia non
mancano punti deboli, messi in evidenza da Barone. In primis, la presenza di
dati di natura finanziaria e patrimoniale non indica necessariamente
l’appartenenza dell’autore alla Camera apostolica, giacché notizie di tale natura
si trovano abbondanti anche nel Liber Pontificalis, in particolare nelle biografie
dei pontefici dell’VIII e IX secolo, prima cioè della costituzione della Camera
stessa28. Inoltre, risulta assai difficile motivare l’interruzione dell’opera nel 1208,
otto anni prima della morte di Innocenzo III, giacché il cardinale Ottaviano
sopravvisse di quasi venti anni al pontefice, e non fu impegnato in alcuna
attività tale da impedire il compimento dell’opera. L’attribuzione sarebbe poi
totalmente da escludere se si accogliesse come veridico il commento di Giraldus
Cambriensis, secondo il quale Ottaviano era “simplex et iuris ignarus […] vir
fatuus et idiota”29. Barone ha infatti mostrato che l’autore doveva essere dotato
di un alto livello culturale: egli era in grado di apprezzare con competenza le
capacità del pontefice in campo teologico e giuridico30 e padroneggiava con
sicurezza il formulario della cancellerie papale, così da potere riassumere i
26 Ivi, pp. 2-3; cfr. Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 109*-110*. 27 Gress-Wrght, The «Gesta Innocentii»…, cit., pp. 32-33; Bolton, “Too Important to Neglect…”,
cit., p. 98. 28 Ivi, p. 3. 29 Barone, “Introduzione”, cit., p. 14. 30 Proprio nell’ambito filosofico e teologico viene individuata la superiorità di Innocenzo, il
quale «super coetaneos suos tam in philosophica quam teologica disciplina profecit».
L’anonimo autore attribuisce ad Innocenzo una solida competenza giuridica, ma soprattutto
coglie l’originalità del suo pensiero teologico (Barone, “I ‘Gesta Innocentii’…”, cit., p. 9.).
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10 F. Massetti, Ritualità ed immagini
documenti riportati, cogliendo il loro significato profondo. L’autore presenta
inoltre un elenco puntuale e cronologicamente esatto delle opere di Innocenzo
III, mostrando un’attenzione tipica dell’intellettuale, in un’epoca in cui le opere
anonime o falsamente attribuite ad autori affermati erano frequentissime31.
Barone ha avanzato un’ipotesi di attribuzione che a noi sembra più
convincente: l’autore dei Gesta Innocentii sarebbe da individuare nel cardinale
diacono Giovanni del titolo di Santa Maria in Cosmedin. Per Giovanni valgono
alcuni degli elementi forti presenti nell’attribuzione di Gress-Wright a
Ottaviano. Giovanni era infatti consaguineus o nepos del pontefice;
probabilmente apparteneva al ramo materno della famiglia di Innocenzo,
giacché egli cita la famiglia della madre (gli Scotti), particolare assai raro nelle
biografie dei pontefici, e dà ampio rilievo alla lotta fra gli Scotti e i Boboni,
famiglia di papa Celestino III. Anche per Giovanni è attestata una presenza
continua a Roma, sulla base delle sottoscrizioni in calce alle bolle papali32.
Giovanni fu consacrato cardinale nel 1200, segno del favore di Innocenzo,
e la sua lunga permanenza nel collegio cardinalizio gli consentì di conoscere da
vicino l’operato del pontefice. Nel 1205 Giovanni fu nominato cancellarius,
ponendo fine alla vacanza della carica, protrattasi dal pontificato di Gregorio
VIII. Il suo ruolo nella cancelleria papale spiegherebbe così la capacità
dell’autore di reperire i numerosi documenti inseriti nei Gesta, nonché l’abilità
nella loro rielaborazione33.
Giovanni, inoltre, scomparve nel 1213, consentendo così di spiegare con la
morte dell’autore l’incompiutezza dei Gesta Innocentii, che coprono solo i primi
dieci anni di pontificato34.
Una terza attribuzione è stata ipotizzata da Powell35, cha ha individuato
l’autore dei Gesta Innocentii in Pietro Beneventano (Petrus Collavicinus), chierico
della cappella papale ed autore della Compilatio III, raccolta di decretali di
Innocenzo III estratta dalle lettere dei Registri ed inviata allo Studium di
Bologna36. Proprio la competenza nel reperimento e nella rielaborazione dei
documenti della cancelleria papale costituisce il principale elemento a supporto
31 Barone, “I ‘Gesta Innocentii’…”, cit., pp. 7-8. 32 Ead., “Introduzione”, cit., pp. 13-14. 33 Ivi, p. 15; Ead., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 21. Sulla modalità di rielaborazione dei
documenti nei Gesta Innocentii rimandiamo a Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., pp. 14-15. 34 Barone, “Introduzione”, cit., p. 15; Id., “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 21. 35 J.M. Powell, “Innocent III and Petrus Beneventanus: Recostructing a Career at the Papal
Curia”, in Pope Innocent and His World, a cura di J.C. Moore, Aldershot 1999, pp. 51-62; The deeds
of pope Innocent III by an anonymous author. Translated with an introduction and notes by J. M.
Powell, Washington D.C. 2004, p. XIII. 36 Barone, “I ‘Gesta Innocentii III’…”, cit., p. 20.
Eurostudium3w aprile-giugno 2014
11 F. Massetti, Ritualità ed immagini
della tesi di Powell, la quale tuttavia non risulta molto convincente, per due
motivi principali. In primo luogo, l’origine campana non sembra conciliabile
con la dettagliata conoscenza delle vicende familiari di Innocenzo e della
topografia di Roma, elementi che, come visto, fanno propendere decisamente
per un’origine romana. Inoltre Pietro Beneventano, come Ottaviano, è
sopravvissuto ad Innocenzo, che lo ha promosso al cardinalato nel 1212,
consacrandolo cardinale diacono di S. Maria in Aquiro. Divenuto cardinale
prete di S. Lorenzo in Damaso nel 1216, proseguì la sua carriera al tempo di
Onorio III. Ci sembra poco convincente la spiegazione addotta da Powell in
merito all’interruzione dell’opera, che sarebbe avvenuta per consentire la
composizione della raccolta di decretali innocenziane37.
37 Barone, “Introduzione”, cit., pp. 15-16.
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12 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Parte II. Ritualità ed immagini del potere papale
Il pontificato di Innocenzo III si inaugurò con un rituale di consacrazione dalla
forte valenza simbolica, prima testimonianza dell’altissimo valore ideale
attribuito dal pontefice ai rituali e alle immagini come rappresentazioni del
potere papale. Già in questa prima occasione, infatti, Innocenzo diede prova
della sua capacità di potenziare il cerimoniale tradizionale con elementi atti ad
esprimere l’altissima concezione che egli ebbe dell’ufficio petrino38.
Eletto pontefice l’8 gennaio 119839, Lotario dei Conti di Segni, cardinale
diacono della chiesa dei Santi Sergio e Bacco, dovette essere ordinato prima
sacerdote e poi vescovo per potersi insediare sul soglio di Pietro40. Per
l’ordinazione sacerdotale, il neoeletto pontefice volle attendere il sabato delle
Quattro Tempora, che nel 1198 cadde il 21 febbraio. Il giorno successivo,
domenica 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro, Innocenzo III venne
finalmente consacrato pontefice41. La solenne cerimonia della consacrazione è
così descritta nei Gesti Innocentii III:
Celebrata est eius electio sexto Idus Ianuarii anno incarnationis dominice millesimo centesimo
nonagesimo septimo et quia tunc diaconus erat dilata est eius ordinatio in presbyterum usque
ad sabbatum quatuor temporum, nonas Kalendas Martii, et sequenti dominica in qua tunc
occurrit festum cathedre Sancti Petri, fuit apud Sanctum Petrum in episcopatum consecratus et
in eiusdem apostoli cathedra constitutus non sine manifesto signo et omnibus admirando42.
La data scelta da Innocenzo per la sua consacrazione presenta una
notevole portata ideologica in relazione al potere papale, poiché in occasione
della festa della Cattedra di san Pietro il pontefice sedeva sulla cattedra che si
riteneva appartenuta allo stesso apostolo43. Maccarone ha dimostrato in maniera
convincente che l’autore dei Gesta Innocentii III riteneva che la cattedra utilizzata
nella liturgia della “Cathedra Petri” fosse la stessa appartenuta a Pietro, come si
38 A. Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara. Immagini e simboli del papato medievale, Roma 20052,
p. 13. 39 D.R. Gress-Wright, The «Gesta Innocentiii III» (=GI), cit., pp. 2-3. Sulle vicende che
accompagnarono la morte di Celestino III e l’elezione del suo successore si vedano J. Sayers,
Innocent III. Leader of Europe 1198-1216, New York 1994; A. Paravicini Bagliani, “I Gesta Innocentii
III e la ritualità pontificia. A proposito della prima traduzione italiana della Vita di Innocenzo
III”, in Roma e il papato nel Medioevo. Studi in onore di Massimo Miglio, 2 voll., Roma 2012, I, p. 201-
212, pp. 203, 207-209. 40 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 13. 41 Ibid.; M. Maccarone, “La «cathedra sancti Petri» nel Medioevo: da simbolo a reliquia”, in
Romana Ecclesia, Cathedra Petri, Roma 1991, 2 voll., II, p. 1349; W. Maleczek, “Innocenzo III,
papa”, in Dizionario Biografico degli Italiani 62, Roma 2004, pp. 419-435, p. 420. 42 GI, pp. 3-4. 43 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 13.
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13 F. Massetti, Ritualità ed immagini
evince dall’espressione “eiusdem apostoli cathedra” (“la cattedra del medesimo
apostolo”), superflua se egli avesse voluto indicare semplicemente la cattedra
marmorea situata nell’abside di San Pietro44.
II.1 I significati della consacrazione innocenziana
Gli studi effettuati a partire dal pontificato di Paolo VI45 hanno consentito di
appurare che la cattedra utilizzata da Innocenzo III era la cattedra lignea
appartenuta a Carlo il Calvo, probabilmente donata a papa Giovanni VIII in
occasione dell’incoronazione imperiale del Natale 87546. Riportiamo di seguito
l’efficace descrizione del prezioso manufatto offerta da Paravicini Bagliani:
Il trono di Carlo il Calvo, così come è giunto a noi, consta di un largo sedile con schienale
sormontato da un timpano. La parte del sedile è formata da quattro montanti verticali collegati
da otto traverse, due per lato, a incastro. Nei due montanti posteriori si innesta lo schienale a
timpano, il cui vano è occupato da arcatelle sorrette da tre colonnette e due semicolonnette
ioniche. Tutti i bordi del trono, le arcatelle e le colonnette sono decorati da liste di avorio, o con
una decorazione a rete o con motivi vegetali popolati da figure umane ed animali, spesso
fantastiche.
Al centro del timpano il busto dell’imperatore è circondato da quattro angeli, che gli porgono
due palme, una corona e un libro […]. Nel fregio di destra, dopo l’angelo con palma e libro, è
raffigurato un uomo in atto di trafiggere un serpente-drago con una lancia. Seguono poi sei
coppie di combattenti. Alla sommità del timpano appaiono i busti del sole e della luna, cui
seguono le diverse costellazioni, per terminare con la figura della terra.
L’intero schienale appare dunque un «tempio» che permette all’imperatore di apparire in tutta
la sua maestà divina. L’imperatore è perciò partecipe della terra e del cielo, è come Cristo, e ciò
viene confermato dal fatto che quattro gli angeli che gli fanno corona. Tradizionalmente,
quattro erano appunti gli angeli che circondavano la mandorla su cui siede Cristo in maestà. I
fregi d’avorio della cattedra sostengono l’esaltazione cosmica dell’imperatore.
La parte anteriore del sedile è interamente occupata da formelle d’avorio, disposte in tre fasce:
nella prima, formata da un’unica fila di formelle, sono disposte le prime sei fatiche di Ercole,
nella seconda e terza, formate da una serie di formelle doppie, le altre sei fatiche più una fila di
mostri dalle forme sempre più mescolate fra loro. Tutto il trono appare così divisibile grosso
modo in due zone, il cielo (costellazioni) e la terra (lotte umane poi degradate con la presenza di
mostri […]. L’intero programma del trono del trono appare quindi concepito per glorificare
l’imperatore, a cui l’universo è interamente soggetto e spetto il diritto che «tutto si posto ai suoi
piedi» (Sal 8, 8)47.
44 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1350. 45 Ivi, pp. 1273-1278. 46 Sul probabile dono della cattedra lignea e della Bibbia di San Paolo a papa Giovanni VIII da
parte Carlo il Calvo si veda G. Arnaldi, Natale 875: politica, ecclesiologia e cultura nell’alto
Medioevo, Roma 1990, pp. 115-128. 47 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 15-16.
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14 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Lo studio delle raffigurazioni erculee ha indotto Margherita Guarducci a
datare le lamelle eburnee in età tardoantica (fine III - inizio IV secolo),
ritenendole il resto di un trono imperiale della famiglia Herculia, donate da
Costantino al papa insieme al palazzo lateranense48. Gli studi paleografici
condotti da Bischoff49 e Hollstein50 hanno tuttavia fornito sicuri elementi in
favore di un’origine franca delle formelle erculee, accolta da Maccarone51.
Persa la memoria delle sue origini, la cattedra è entrata a far parte della
liturgia della basilica di San Pietro, dall’XI secolo affidata al capitolo vaticano52.
Le festività della Cathedra sancti Petri fu ripresa, dopo un lungo periodo di
oblio, nell’XI secolo, a seguito del grande rinnovamento ecclesiologico fondato
sul primato petrino. La festività aveva perso in parte il suo significato originale,
per cui era celebrata, tra IV e V secolo, come la festa dell’episcopato trasmesso
da Cristo a Pietro e, per suo tramite, agli apostoli e quindi ai vescovi. Di questo
significato originario si conservava solo la lettura del sermone sulla cattedra
petrina dello pseudo Agostino53.
Dal XII secolo si accentuò la centralità della sessione di Pietro sulle cattedre
di Antiochia, sua prima sede episcopale, e di Roma, cui san Pier Damiani e il
canonico vaticano Pietro Mallio aggiunsero Alessandria. Questa interpretazione
della festività legata al rapporto materiale fra Pietro e la sua cattedra episcopale
fu ben evidenziata da Uguccione da Pisa nella sua Agiographia54: “Cathedra
Sancti Petri dicitur; quia tali die positus fuit in cathedra apostolicatus Rome”55.
In tale contesto, Maccarone ha cercato di individuare il ruolo riservato alla
cattedra lignea nella liturgia della basilica vaticana. Un primo dato molto
significativo si ricava dal Liber Politicus (1140-1143) del canonico vaticano
Benedetto, il quale, in riferimento alla statio diurna del 22 febbraio, celebrata dal
papa o da uno dei sette cardinales sancti Petri56, afferma:
48 M. Guarducci, “Gli avori erculei della cattedra di S. Pietro: elementi nuovi”, in Atti
dell’Accademia Nazionale dei Lincei, memorie, cl. Scienze morali, storiche e filologiche, s. VIII, vol.
21 (1977), fasc. 3, pp. 117-253, p. 192; cfr. Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1284-
1285. 49 B. Bischoff, “Die Schrift auf der Cathedra von St. Peter im Vatikan”, in M. Maccarone (a cura
di), Nuove ricerche sulla cattedra lignea di S. Pietro in Vaticano, Atti della Pontificia Accademia
Romana di Archeologia, s. III, Memorie in 8°, vol. I, Città del Vaticano 1975, pp. 21-31. 50 E. Hollstein, Die Cathedra Lignea von St. Peter im Vatikan, ivi, p. 79-103. 51 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1298-1299. 52 Ivi, pp. 1327-1328. 53 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, pp. 1330-1333. 54 Ivi, p. 1334. 55 Huguccio Pisanus, “Agiographia”, in Id., De dubio accentu. Agiographia. Expositio de symbolo
apostolorum, ed. G. Cremascoli, Spoleto 1978, pp. 137-174; pp. 153-154 nn. 437-439. 56 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1335.
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15 F. Massetti, Ritualità ed immagini
In cathedra sancti Petri legitur sicut in die Natalis eius, tamen ad vesperum et ad matutinas
laudes canitur: Ecce sacerdos magnus. Stacio [sic] in eiusdem basilica. Domnus papa debet
sedere in kathedra ad missam. 57
Il termine “kathedra” in sé è generico, e nelle fonti liturgiche del secolo XII
è utilizzato anche in riferimento alla cattedra marmorea situata nell’abside di
San Pietro. Ma la specifica e perentoria prescrizione del liturgista (“debet sedere”)
fa pensare ad una cattedra particolare, riservata a questa particolare funzione
liturgica. Né si può pensare semplicemente all’uso della “cathedra parata”,
poiché esso non avrebbe il valore di una particolarità liturgica legata alla festa
del 22 febbraio, visto che l’ornamento della cattedra papale era frequente in
molte altre cerimonie.
Maccarone, sulla base degli studi di Febei58 e Duchesne59, ha allora
identificato questa cattedra usata nella statio diurna del 22 febbraio con la
cattedra lignea del IX secolo60. Benché si fosse instaurata una certa relazione fra
la cattedra lignea usata per la festività del 22 febbraio e la Cathedra sancti Petri
intesa in senso materiale, non si poteva ancora parlare di una vera e propria
reliquia. Infatti, alcuni decenni dopo, al tempo di Alessandro III, il canonico
Pietro Mallio non inserì la cattedra lignea fra le “praetiosae reliquiae”, che
comprendevano soltanto i corpi di santi e la reliquia della Veronica. La cattedra
lignea era dunque conservata nella basilica vaticana non come reliquia ma come
oggetto di uso liturgico61.
Se a livello ufficiale il culto della cattedra lignea non era riconosciuto, a
livello popolare esso cominciò a farsi strada nel corso del XII secolo. Avilo,
abate del monastero bavarese di Tegernsee, venne in visita ad limina apostolorum
all’inizio del XII secolo, riportando tre presunte reliquie di San Pietro: “de
corpore Sancti Petri et de croce eius et de kathedra eius”62. Lo sviluppo della
festa della Cattedra di San Pietro, unitamente alla fame di reliquie petrine ben
attestata da Onorio di Autun63, aveva contribuito alla materializzazione di una
57 “Liber politicus”, in Le Liber censuum de l’eglise Romaine, avec une introduction et un
commentaire par P. Fabre e L. Duchesne (=LC), 3 voll., Paris 1910-1952, II, p. 149, n. 31. 58 F.M. Febei, De Identitate Cathedrae in qua Sanctus Petrus Romae primum sedit, et de Antiquitate et
Praestantia Solemnitatis Cathedrae Romanae Dissertatio, Romae 1666, p. LII. 59 “Liber politicus”, cit., p. 162, n. 42. 60 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1336-1337. 61 Ivi, pp. 1138, 1146. 62 Notae Tegernenses, ed. G. Waitz, in M.G.H., Scriptores XV, 2, Hannoverae 1888, pp. 1067-1068,
p. 1068. 63 “Ecce non solum corpus eius a principibus veneratur, sed etiam baculi vel catenae eius vel
vestis vel aliquod ad eum pertinens quasi divinum quid ab omni populo adoratur. Ecce totus
orbis undique propter Petrum piscatorem, non propter Augustum mundi imperatorem”
(Honorius Augustodunensis, Speculum Ecclesiae, in PL 172, coll. 986).
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16 F. Massetti, Ritualità ed immagini
nuova reliquia. Nella coscienza dei fedeli si dovette consolidare l’idea che
l’antico seggio utilizzato nella liturgia del 22 febbraio, unica ed esclusiva della
basilica vaticana, fosse proprio la stessa cattedra usata dall’apostolo64.
Particolarmente interessante per il nostro studio è l’analisi di un passo
dell’Ordo di Basilea, redatto all’inizio del XIII secolo, nel quale la sessio sulla
“cathedra sancti Petri” è direttamente connessa alla consacrazione: “In qua
cathedra […] electus sedere non debet, sed papa consacratus”65. La severa
prescrizione vietava dunque al pontefice neoeletto e non ancora consacrato di
sedere su una “cathedra” non meglio specificata. Ma la prescrizione, se riferita
alla cattedra marmorea, sarebbe in totale contraddizione con quanto attestato in
merito alle elezioni papali del XII secolo in San Pietro, nelle quali l’eletto non
ancora consacrato sedeva sulla “cathedra Petri”. Per spiegare l’apparente
contraddizione, Maccarone ha ipotizzato in modo convincente che la
proibizione dell’Ordo di Basilea riguardasse proprio la cattedra lignea, sulla
quale poteva sedersi soltanto il papa consacrato, poiché tale cattedra iniziava ad
essere creduta la vera cattedra episcopale di Pietro66.
Lo stesso Ordo di Basilea riferisce che il pontefice consacrato doveva
sedere per tre volte sulla cattedra di San Pietro: “Et statim palliatus accedit ad
paratam cathedram beati Petri, in qua cum lacrimis tercio brevissime sedet […]
Cum vero trinam sessionem peregerit, accedit ad altare missam celebratus”67. Una
spiegazione convincente è stata individuata nel riferimento alle tre cattedre
petrine cui abbiamo accennato in precedenza. San Pier Damiani mette Pietro a
confronto con Davide, unto tre volte, riconoscendo ad entrambi una “trina
promotio tamquam una dumtaxat”68 e attribuendo per questo a Pietro una
superiorità rispetto a tutti gli altri vescovi69.
Innocenzo, già canonico di san Pietro70, doveva essere pienamente
consapevole di questa complessa elaborazione ecclesiologica e liturgica legata
alla Cathedra sancti Petri, e la cronologia ci autorizza a pensare che egli vi abbia
64 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1340, 1343-1346. 65 B. Schimmelpfennig, Ein bisher unbekannter Text zur Wahl, Konsekration und Krönung des Papstes
im 12. Jahrhundert, in «Archivum Historiae Pontificiae» 6 (1968), pp. 43-70, p. 65. 66 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1346-1347. 67 Schimmelpfennig, Ein bisher unbekannter Text…, cit., p. 61. 68 Petrus Damiani, Epistola I, 20, in PL 144, coll. 237-247, col. 238. 69 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., pp. 1347-1348; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la
Tiara…, cit., p. 13. 70 Nell lettera al capitolo di San Pietro del 13 marzo 1998 Innocenzo III ricorda di essere stato
canonico della basilica vaticana prima di essere eletto pontefice: “qui olim in ipsa vobiscum
pariter canonici beneficium assecuti”. Il concetto venne ribadito anche sette anni dopo, nella
bolla al Capitolo di San Pietro del 15 ottobre 1205: “in hac sacrosancta basilica ecclasiasticum
beneficium sum adeptus” (Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1351, n. 286).
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17 F. Massetti, Ritualità ed immagini
attivamente contribuito. Lo stesso autore dei Gesta Innocentii sottolinea la voluta
ostentazione della valenza simbolica della consacrazione avvenuta nella festa
della Cathedra sancti Petri, “non sine manifesto signo et omnibus admirando”.
La corrispondenza tra le due incattedrazioni è stata evidenziata dallo stesso
Innocenzo III nella sua prima lettera (13 marzo 1198) al capitolo della basilica
vaticana:
Cum ea die simus in sede apostolica consecrati, qua beatus Petrus apostolus in episcopali fuit
cathedra collocatus»71. Anche nel sermone pronunciato nel primo anniversario della sua
consacrazione Innocenzo ricordò con una formula analoga la particolare occasione in cui essa si
svolse: «Licet ipso die fuerim in sede apostolica consecratus, quo beatus apostolus in episcopali
fuit cathedra collocatus. 72
Consapevole dunque del significato della festività della Cathedra sancti
Petri, nel sermone pronunciato in occasione della sua consacrazione Innocenzo
III insistette fortemente sul primato di Pietro e sull’ufficio apostolico del
pontefice73. La lunga omelia74 pronunciata da Innocenzo si concentra sull’analisi
di Matteo 2475: “Quid putas est fidelis servus et prudens quem constituit
Dominus super familiam suam?” (Mt 24, 25). Padre Leonard Boyle ha
evidenziato che dal sermone del pontefice appena consacrato emerge
un’autocoscienza dell’identità papale senza precedenti rispetto ai suoi
predecessori76.
Il “servo” del Vangelo di Matteo viene ad identificarsi proprio con il
pontefice, “servo dei servi”, che reclama un ufficio di servizio, non di dominio.
Tale ufficio porta comporta un grande onore, ma allo stesso tempo è un grave
fardello per chi deve portarlo.
Innocenzo elenca tre qualità fondamentale che deve possedere il servo del
Signore: “fides cordis, prudentia operis, cibus oris”77. La prima qualità, la “fides
cordis”, è legata alla promessa contenuta nel Vangelo di Luca (22, 32), secondo la
quale la fede di Pietro non verrà mai meno, in modo che egli possa confermare
nella fede i suoi fratelli: “Ego, inquit, pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides
tua, et tu aliquando conversus, confirma fratres tuos”. Innocenzo afferma che la
promessa è stata esaudita, poiché la fede non è mai venuta meno nella Sede
71 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1349. 72 Innocentius III Papa, Sermo III in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 659-666, p. 663. 73 J. Seyers, Innocent III and Europe (1198-1216), New York 1994, p. 15. 74 Innocentius III Papa, Sermo II in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 653-660. 75 J.C. Moore, Pope Innocent III (1160/1161-1216). To Root Up and to Plant, Leiden 2003, p. 26. 76 L. Boyle OP, “Innocent’s View of Himself as Pope”, in A. Sommerlechner (a cura di),
Innocenzo III. Urbs et Orbis, Atti del Congresso Internazionale, Roma, 9-15 settembre 1998, 2
voll., Roma 2003, I, p. 1-20, p. 7. 77 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., 656.
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18 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Apostolica, resistendo ad ogni turbamento: “Et fides apostolicae sedis in nulla
numquam turbatione defecit, sed integra semper et illibata permansit: ut Petri
privilegium persisteret inconcussum”78.
Pertanto Innocenzo, che occupa la Sede apostolica, può essere sottoposto a
giudizio dalla comunità dei fedeli soltanto per mancanza di fede79: “In tantum
enim fides mihi necessaria est, cum de caeteris peccatis solum Deum iudicem
habeam, propter solum peccatum quod in fidem committitur possem ab
Ecclesia iudicari”80.
La seconda qualità, la “prudentia operis”, è strettamente correlata alla fede:
“Propterea nec fides sufficit sine prudentia, nec prudentia sufficit sine fide.
Oportet igitur ut sim fidelis et prudens”81. Il pontefice deve essere non solo
saldo nella fede, ma anche prudente come i serpenti: “Estote prudentes sicut
serpentes” (Matteo 10,16). Particolarmente interessante è l’implicita
associazione del pontefice al sommo sacerdote ebraico, che dall’alto della sua
prudenza è in grado di distinguere coloro che hanno la lebbra, secondo Levitico
12, 2-482: “ut sic discernam inter lepram et non lepram”83.
La trattazione della terza qualità, il “cibus oris”, è preceduta da un excursus
che risponde alla domanda di Innocenzo circa la propria identità e la propria
superiorità sui regnanti: “Quis autem sum ego, aut quae domus patris mei, ut
sedeam excellentior regibus et solium gloriae teneam?”84. Una prima risposta è
data dal profeta Geremia (1, 10): “Constitui te super gentes et regna, ut evellas
et destruas et desperdas et dissipes, et aedifices et plantes”85. Ma soprattutto il
pontefice giustifica la sua supremazia sulla base della “potestas clavium”
attribuita a Pietro: “Tibi dabo claves regni caelorum, et quidcumque ligaveris
super terram, erit ligatum et in caelis”86 (Matteo 16, 19). Innocenzo III, appena
intronizzato sulla Cathedra sancti Petri, giunse ad identificarsi pienamente con
Pietro, fondando la sua supremazia su tutti i regnanti proprio sulla “potestas
ligandi ac solvendi” assegnata all’apostolo.
Soltanto al pontefice, identificato con Pietro, spettava la pienezza dei
poteri87: “solus autem Petrus assumptus est in plenitudinem potestatis288.
78 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656. 79 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 8. 80 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656. 81 Ivi, coll. 656-657. 82 J. Doran, “The Role Models of Innocent III”, in Innocenzo III…, cit., I, p. 69. 83 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 657. 84 Ibid. 85 Ibid. 86 Ibid. 87 Seyers, Innocent III…, cit., p. 15. 88 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 658.
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19 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Innocenzo III non ha più alcun dubbio nel riconoscersi pienamente nel servo
citato da Marco, in quanto egli è “Vicarius Iesu Christi, successor Petri, Deus
Pharaonis: inter Deum et hominem medius constitutus, citra Deum, sed ultra
hominem: minor Deo, sed maior homine: qui de omnibus iudicat, et a nemine
iudicatur”. Il pontefice svolge una fondamentale funzione di mediazione fra la
dimensione terrena e quella celeste, poiché è al di sotto di Dio e al di sopra
dell’uomo. In quanto tale, il pontefice può giudicare tutti gli uomini, ma non
può essere da alcuno giudicato89.
Passando al terzo attributo, il “cibus oris”, Innocenzo fa uso di una
struttura argomentativa già presente nel De officio altaris, affermando che il
Signore ha dato a Pietro il primato in tre occasioni: “ante passionem, et circa
passionem et post passionem”90. Prima della passione, Gesù ha pronunciato il
celebre “Tu es Petrus” (Matteo 16,18); durante la passione, ha promesso a Pietro
una fede che non sarebbe mai venuta meno; dopo la passione, ha posto Pietro a
capo del gregge cristiano, dicendogli: “Pasce oves meas” (Giovanni 20,15)91.
Proprio per quest’ultima missione affidata a Pietro, il pontefice deve nutrire i
cristiani con la parola, con l’esempio e con il sacramento eucaristico92:
Cibum dare tenetur videlicet exempli, verbi, sacramenti. Quasi dicat: Pasce exemplo vitae,
verbo doctrinae, sacramento eucharistiae. 93
In cambio di questo nutrimento spirituale, il pontefice chiede di pregare
per lui, affinché egli compia il suo servizio di apostolato94:
Ecce fratres et filii, cibum verbi de mensa sacrae Scripturae vobis proposui comedendum, hanc
a vobis recompensationem expectans, hanc a vobis vicissitudinem postulans, ut puras manus
sine disceptatione levetis ad Dominum, et pietatis in oratione credentes, quatenus hoc
apostolicae servitutis officium […]. 95
La forte insistenza dell’omelia sul servizio apostolico del papa, sul suo
essere non soltanto successore di Pietro, ma l’unico e vero “Vicarius Christi”,
trova riscontro anche nei paramenti liturgici indossati dal pontefice in occasione
della festività della Cathedra Petri. In tale occorrenza liturgica, infatti, il pontefice
vestiva di bianco, colore cristico per eccellenza insieme al rosso. Lo stesso
Lotario dei conti di Segni, nel suo trattato De missarum mysteriis, aveva collegato
89 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., pp. 8-9; Maleczek, Innocenzo III, cit., p. 421 90 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 658. 91 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 9. 92 Ibid. 93 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 659. 94 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 9. 95 Innocentius III, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 660.
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20 F. Massetti, Ritualità ed immagini
i due colori cristici alle due massime ricorrenze petrine, giacché il pontefice
doveva vestire di rosso nella festa dei santi Pietro e Paolo (29 giugno) e di
bianco nella festa della cattedra di san Pietro (22 febbraio)96: “Licet autem in
apostolorum Petri et Pauli martyrio rubeis sit utendum, in conversione tamen et
cathedra utendum est albis”97.
Il bianco, colore della divinità di Cristo, è legato all’episodio della
trasfigurazione sul Monte Tabor, durante la quale le vesti del Signore si fanno
candide come la luce:
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in
disparte su un alto monte. E fu trasfigurato il sole e le sue vesti davanti a loro; il suo volto brillò
come il sole e le sue vesti divennero candide come luce. (Matteo 17,1-2) 98
Nel Constitutum Constantini, noto al pontefice attraverso il Decretum di
Graziano99, nel quale è stato inserito dal glossatore Paucapalea100, il colore
bianco della tiara ricevuta dono dall’imperatore è associato esplicitamente alla
resurrezione di Cristo101: “frygium vero candido nitore splendidam
resurrectionem dominicam designans”102.
Nel testo dei Gesta Innocentii, il colore bianco è peraltro associato alla
colomba posatasi alla destra di Lotario, simbolo dell’elezione divina per
intercessione dello Spirito Santo:
Cum autem celebraretur electio hujuscemodi signum apparuit, quod videlicet tres columbae
frequentabant volatus in locum in quo cardinales sedebant congregati, et cum ipse post
nominationem fuisset a ceteris segregatus, una illarum que candidissima erat ad eum volitans,
iuxta dexteram insidebat. 103
Alla cerimonia di consacrazione di Innocenzo III assistettero le massime
autorità ecclesiastiche e civili:
Interfuerunt autem consecrationi eius quam ipse cum multa cordis compunctione et
lacrimarum effusione recepit, quatuor archiepiscopi et episcopi octo et viginti, sex presbyteri et
96 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 51; Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…,
cit., p. 1334. 97 Innocentius III Papa, De missarum mysteriis, in PL 217, coll. 763-916, col. 801. 98 Bibbia CEI, 2008. 99 Doran, The Role Models of Innocent III, cit., p. 67; H. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, impero e
regni nella teoria e nella prassi dei secoli XII e XIII, a cura di M.P. Alberzoni, Milano 2000, p. 52. 100 G.M. Vian, La donazione di Costantino, Bologna 20102, p. 86. 101 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 51. 102 “Constitutum Constantini2, ed. H. Fuhrmann, in M.G.H., Fontes iuris Germanici antiqui in
usum scholarum ex Monumentis Germaniae Historicis separatim editi X, Hannover 1968, pp. 55-98, p.
52. 103 GI, p. 3.
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21 F. Massetti, Ritualità ed immagini
novem diaconi cardinales et decem abbates cum quibus omnibus et tam priore cum subdiaconis
quam primicerio cum cantoribus, necnon iudicibus, advocatis et senatore et ceteris scholis
processit104.
Tale presenza congiunta delle massime cariche ecclesiastiche e civili era
prevista nel Romanus ordo de consuetudinibus et observantiis (1192) del camerarius
Cencio: “Post hec in proximo die dominico dominus electus cum omnibus
ordinibus sacri palatii et nobilibus Romanis vadit ad Sanctum Petrum”105.
Per quanto riguarda la presenza delle autorità ecclesiastiche, l’autore dei
Gesta Innocentii menziona quattro arcivescovi e ventotto vescovi, cui si
aggiungono sei cardinali preti e nove cardinali diaconi106. Michele Maccarone ha
giustamente evidenziato che l’enfasi posta sulla cospicua presenza di alti prelati
alla consacrazione di Innocenzo III è in piena sintonia con la decisa
affermazione della centralità di Roma nella Chiesa universale che fu propria del
pontificato innocenziano107. Anche il clero regolare presenziò alla consacrazione
papale, con dieci abati, presumibilmente appartenenti ad abbazie dell’Urbe o
dei dintorni108. La componente ecclesiastica era infine completata dal priore con
i suddiaconi e dal primicerius con i cantores.
Un ruolo fondamentale, nella cerimonia di consacrazione, era svolto
dall’arcidiacono e dal priore della basilica di San Pietro, che dovevano
ammantare il pontefice del pallium, simbolo della pienezza del potere papale109,
come espressamente indicato nell’ordo di Cencio:
Qua consecratione finita, prior sacri palatii et basilicarius ponit palleum super altare, quod ipse
prior parare propria manu debet, et statim archidiaconus dicit pontifici: «Accipe palleum,
plenitudinem scilicet pontificalis officii, ad honorem omnipotentis Dei et gloriosissime virginis
ejus genitricis et beatorum apostolorum Petri et Pauli et sancte Romane ecclesie», et nichil aliud.
104 Ivi, p. 4. 105 Cencius, Romanus ordo de consuetudinibus et observantiis, in LC, I, p. 312; cfr. Albinus, Ordo, in
LC, II, p. 124. 106 Sayers (Innocent III, cit., p. 27, n. 33) ipotizza l’identificazione dei quattro arcivescovi con i
quattro cardinali vescovi, ritenendo gli altri ventotto vescovi citati dall’autore dei Gesta
Innocentii presuli provenienti da diocesi limitrofe o richiamati nell’Urbe dai loro uffici. Ci
sembra tuttavia più affidabile la ricostruzione di Paravicini Bagliani (I Gesta di Innocenzo III, cit.,
p. 210), il quale ritiene che i cardinali vescovi si debbano considerare in seno al gruppo dei
ventotto vescovi. Riteniamo infatti poco probabile che l’autore dei Gesta Innocentii abbia
attribuito erroneamente il titolo arciepiscopale ai cardinali vescovi. 107 Paravicini Bagliani (I Gesta di Innocenzo III, cit., p. 210) 108 Sayers, Innocent III, cit., p. 27, n. 33. 109 Ivi, pp. 27-28; Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a
Bonifacio VIII, Roma 1996, p. 20; Id., Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 49, 53-54, 72-73.
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22 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Et statim ipse archidiaconus cum priore basilicario aptant idem palleum super pontificem
intromissis spinulis aureis tribus, ante et retro et sinistro latere110.
La presenza delle autorità laiche (giudici, avvocati, senatore e scholae)
costituiva un’evidente testimonianza della “potestas in temporalibus” del
pontefice, che trovava la sua più espressione simbolica nella processione che
accompagnava il papa dalla basilica di San Pietro al Laterano, così descritta nei
Gesta Innocentii:
Solemniter coronatus per urbem a basilica sancti Petri usque ad lateranensem palatium,
comitantibus profecto et senatore cum magnatibus et nobilibus urbis, multisque capitaneis et
consulibus ac rectoribus civitatum. Coronata est tota civitas et clerus cum thuribulis et incenso,
populus autem cum palmis et floribus, utrique cum hymnis et canticis, sparsis de more
missilibus, obviam illi catervatim venerunt111.
Terminata la messa della consacrazione, seguiva dunque il rituale della
solenne incoronazione del pontefice112, dettagliatamente descritto nell’ordo di
Albino (1189):
Celebrata missa descendit ad locum ubi est equus papalis ornatus, et ibi archidiaconus recepit
frigium a majori stratori de quo dominum papam coronat; et sic per mediam urbem devenit ad
palatium Lateranense coronatus113.
Il pontefice veniva dunque incoronato con la tiara (regnum, frigium, corona,
thyara), uno degli attributi del potere imperiale donati a Silvestro nel
Constitutum Constantini114:
ipse vero sanctissimus papa super coronam clericatus, quam gerit ad gloriam beati Petri,
omnino ipsam ex auro non est passus uti coronam, frygium vero candido nitore splendidam
110 Cencius, Romanus ordo, cit., p. 312; cfr. Albinus, Ordo, cit., p. 124. 111 GI, p. 4. 112Il pontificato di Innocenzo III si è inserito in un processo caratterizzato dalla progressiva
valorizzazione della cerimonia di incoronazione. La crescente importanza del valore simbolico
della corona papale, già evidente nella Vita di Gregorio IX, “duplici diademate coronatus” (Vita
Gregori IX, in LC II, pp. 18-36, p. 19), culmina nel cerimoniale di Gregorio X (PL 78, coll. 1105-
1122, col. 1108), nel quale l’incoronazione è ormai divenuta una cerimonia autonoma e
prioritaria rispetto alla presa di possesso del Laterano (M. Dykmans, Le cérémonial papal de la fin
du Moyen Âge à la Renaissance, tome I: Le cérémonial papal du XIIIe siècle (Bibliothèque de l'Institut
Historique Belge de Rome 24), Bruxelles- Rome 1977, p. 180). Accordando la priorità alla
solenne cerimonia di incoronazione in San Pietro, non solo veniva raggiunto l’apice dell’imitatio
Imperii, ma soprattutto si metteva in risalto il e fondamento petrino l’universalità del potere
papale. Così, alla fine del XIII secolo, il termine “incoronatio” finì per affermarsi sul più antico
“consecratio” (Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro…, cit., p. 21; Id., Le Chiavi e la Tiara…, cit., p.
75-76). 113 Albinus, Ordo, cit. p. 124; cfr. Cencius, Romanus Ordo, cit., p. 312. 114 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 72-73
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23 F. Massetti, Ritualità ed immagini
resurrectionem dominicam designans eius sacratissimo vertici manibus nostris posuimus […];
statuentes, eundem frygium omnes eius successores pontifices singulariter uti in processionibus
ad imitationem imperii115.
Nel testo del Constitutum Constantini, Silvestro I riceve la tiara, simbolo
della resurrezione di Cristo, dopo aver umilmente rinunciato ad indossare la
corona imperiale. Tuttavia il copricapo viene associato esplicitamente
all’imitatio Imperii, peraltro in un contesto processionale che rende il passo del
Constitutum particolarmente significativo al fine di comprendere la valenza
simbolica del frygium nella processione che accompagnava il pontefice dal
Vaticano al Laterano.
Lo stesso Innocenzo III, nel sermone pronunciato in occasione del primo
anniversario della sua consacrazione, si soffermò sul valore simbolico della
tiara:
Nam ceteri vocati sunt in partem sollicitudinis, solus autem Petrus assumptus est in
plenitudinem potestatis. In signum spiritualium contulit mihi mitram, in signum temporalium
dedit mihi coronam; mitram pro sacerdotio, coronam pro regno, illius me constituens vicarium
qui habet in vestimento et in femore suo scriptum: “Rex regum, dominus dominantium”116.
La mitra è dunque il simbolo del regnum, il potere temporale, ed insieme
alla mitra, simbolo della sacerdotium, della potestà spirituale, va a costituire la
«plenitudo potestatis» del pontefice, al quale si possono riferire i titoli di
Apocalisse 19, 16: “Re dei Re, Signore dei Signori”.
Il tema viene ulteriormente approfondito dallo stesso Innocenzo nel Sermo
de sancto Silvestro, nel quale il pontefice fa esplicito riferimento alla donazione
costantiniana:
Nam vir Constantinus egregius imperator, ex revelatione divina per beatum Silvestrum fuit a
lepra in baptismo mondato, Urbem pariter et senatum, cum omnibus et dignitatibu suis, et
omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit, secedens et ipse Byzantium et regnum sibi
retinens orientis. Coronam vero capitis sui illi voluit conferre: sed ipse pro reverentia clericalis
coronae, vel magis humilitatis causa, noluit illam portare; verumtamen pro diademate regio
utitur frigio aureo circulari. Ex auctoritate pontificalis constituit patriarchas, primates,
metropolitanos, et praesules; ex potestate vero regali, senatores, praefectos, iudices et
tabelliones instituit. Romanus itaque pontifex in signum imperii utitur regno, et in signum
pontificii utitur mitra; sed mitra semper utitur et ubique; regno vero, nec ubique, nec semper,
quia pontificalis auctoritas et prior est, et dignior et diffusior quam imperialis117.
Innocenzo ribadisce che la tiara (frygium) è utilizzata da pontefice quale
segno del suo “imperium”, mentre la mitra rappresenta il potere spirituale, il
115 “Constitutum Constantini”, cit., pp. 92-93. 116 Innocentius III, Sermo III in consecratione pontitifis, cit., col. 665. 117 Id., Sermo VII in festo d. Silvestri pontificis maximi, PL 217, coll. 481-484, col. 481.
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24 F. Massetti, Ritualità ed immagini
“pontificium”. Egli aggiunge che la mitra è sempre indossata dal pontefice a
differenza della tiara, rispetto alla quale è superiore poiché il “pontificium” è
superiore all’ “imperium”118. Ciò che a noi interessa maggiormente, in questo
passo, è il legame fra le due potestà del pontefice, rappresentate dai due
copricapi, e le autorità che da lui dipendono. In virtù del suo “imperium”, il
pontefice ha ereditato da Costantino il potere di costituire le massime autorità
civili, vale a dire senatori, prefetti, giudici: mutatis mutandis, si tratta delle figure
che sfilano nella processione che segue alla consacrazione pontifica. La loro
partecipazione costituisce allora una celebrazione del potere temporale del papa
sull’Urbe, che trova la sua più emblematica espressione proprio nella tiara
indossata dal pontefice.
La partecipazione delle autorità cittadine alla solenne processione che
doveva accompagnare il pontefice da san Pietro al Laterano era
minuziosamente regolamentata in merito all’ordine di precedenza, come si
evince dall’ordo di Albino119:
Nunc qualiter quisque ordo in processione tali venire debeat, subscribitur. Post dominum
papam prefectus indutus manto pretioso et calciatus zanca una aurea, altera rubea, et circum
eum judices pluvialibus induti incedunt. Ante pontificem aliquantulum sequestratus incedit
prior subdiaconus regionarius cum toalgia, ut cum voluerit dominus papa spuere, possit illo
gausape suum os tergere, et diaconi cardinales proximi pape bini incedunt, et post ipsos
subdiaconi basilicarii, quos precedunt tam subdiaconi regionarii quam scola cantorum cum
grecis qui consueverunt evangelium et epistulam legere. Istos antecedunt scriniarii et advocati.
Ante hos presbyteri cardinales, ante istos episcopi cardinales et abbates urbis; et precedunt istos
si qui sunt forenses episcopi aut archiepiscopi. Ante istos duo prefecti navales pluvialibus
induti; ante hos vero portantes XII vexilla que bandora vocantur, et equus domini pape
falleratus et vacuus120.
La solenne partecipazione del prefetto Pietro II di Vico, del senatore e dei
nobili romani, nonché di molti capitanei121 e rettori delle città del Patrimonium
Petri costituiva la visibile conseguenza della pace conclusa fra papa Clemente III
e il Comune di Roma nel 1188. Senza tale accordo non sarebbe stata possibile
118 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 73-74. 119 B. Schimmelpfennig, Ein Fragment zur Wahl, Konsekration und Krönung des Papstes im 12.
Jahrhundert, in «Archivum Historiae Pontificiae» 8 (1970), pp. 323-331, p. 331. 120 Albinus, Ordo, cit., p. 124. 121 Il termine “capitaneus”, in riferimento al contesto socio-politico romano, è usato per la prima
volta in una fonte narrativa proprio nei Gesta Innocentii. Il termine era solitamente usato in
relazione ai vassalli dei vescovi dell’Italia centro-settentrionale, come nei Gesta Friderici di
Ottone di Frisinga “Cumque tres inter eos ordines, id est capitaneorum, vavassorum, plebis,
esse noscantur” (Otto Frisingensis Episcopus, Gesta Friderici I imperatoris, edd. G. Waitz – B. DE
Simson, in M.G.H., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separratim editi 46,
Hannoverae-Lipsiae 1912, pp. 1-161, p. 116).
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25 F. Massetti, Ritualità ed immagini
una così fastosa cerimonia che vedeva l’intera cittadinanza stretta attorno al suo
vescovo e signore122. Non è casuale che le descrizioni della solenne processione
seguente alla messa di consacrazione del papa presenti negli ordines di Albino
(1889) e Cencio (1192) siano state composte proprio a ridosso dell’accordo.
Se certamente la cerimonia non può essere letta come il risultato
dell’autorità e dell’abilità politica di Innocenzo III, che proprio in quel giorno
veniva consacrato123, è tuttavia possibile vedere prefigurata in questa solenne
processione la politica adottata dal pontefice nei suoi primissimi atti di governo.
Fin dal giorno successivo alla sua consacrazione, infatti, Innocenzo III cercò di
assumere un maggior controllo sulle istituzioni comunali e sul territorio del
Patrimonium Petri:
Sequenti die post consecrationem suam Petrum, urbis prefectum, ad ligiam fidelitatem recepit
et per manum quod illi donavit de prefectura eum publice investivit qui usque ad illud
temporis iuramento fidelitatis recepit, missisque nuntiis per totum ecclesie patrimonium fecit
sibi fidelitatem ab omnibus exhiberi et exclusis iusticiariis senatoris qui ei fidelitatem iuraverat
suos iusticiarios ordinavit, electo per medianum suum alio senatore, tam in urbe quam extra
patromonium recuperavit124.
Il pontefice cercò subito di ottenere il giuramento “ligio”, cioè prioritario
sugli altri giuramenti di fedeltà, da parte del prefetto urbano, Pietro di Vico, e
nominò nuovi giustizieri nella Marittima e nella Campagna, escludendo i
giustizieri che avevano giurato fedeltà al riottoso senatore Benedetto
Carushomo. Innocenzo riuscì quindi a far eleggere un nuovo senatore,
nominando un “medianus” a lui fedele, e, al contempo, gradito alla nobiltà
romana125.
Uno dei più importanti conseguimenti di Innocenzo III, celebrato
grandemente nei Gesta Innocentii III126, fu quindi la “recuperatio” dei territori del
Patrimonium Petri, precedentemente sottratti al controllo papale dalle forze di
Enrico VI127.
L’insistenza dei Gesta Innocentii III sulla presenza congiunta di prefetto,
senatore, consoli, capitanei e rettori di città alla solenne consacrazione di
122 G. Barone, “Innocenzo III e il Comune di Roma”, in Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., I, pp. 642-
667; pp. 642-643. 123 Ivi, p. 642. 124 GI, p. 5. 125 Sui primi provvedimenti presi da Innocenzo in merito al regime comunale si veda G. Barone,
“Innocenzo III e il Comune di Roma”, cit., pp. 650-652. 126 GI, pp. 5-14. 127 Sulla politica innocenziana di “recuperatio” dei territori del Patrimonium Petri si vedano:
Gress-Wright, «The Gesta Innocentii III», cit., pp. 15*-21*; M. Maccarone, “Orvieto e la
predicazione della Crociata”, in Id., Studi su Innocenzo III, Padova 1972, pp. 3-166, pp. 9-12.
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26 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Innocenzo III è da leggere, quindi, sia come un’esaltazione della concordia
cittadina seguita agli accordi del 1188, sia come un’anticipazione delle prime
politiche adottate da Innocenzo nella gestione di Roma e del Patrimonium Petri.
II.2 Il sole e la luna
L’immagine del sole e della luna fu utilizzata per la prima da un pontefice in
riferimento al rapporto fra regnum e sacerdotium nella lettera inviata da Gregorio
VII a Guglielmo il Conquistatore l’8 maggio 1080. In un contesto politico di
grande difficoltà, caratterizzato dallo scontro aperto con l’imperatore Enrico IV,
scomunicato per la seconda volta, e dai cattivi rapporti con le corone di Francia
e Castiglia, Gregorio VII chiedeva aiuto al suo “figlio dilettissimo”, il re
d’Inghilterra, ricordandogli la necessaria subordinazione della potestà regia
all’autorità apostolica128:
Credimus prudentiam vestram non latere omnibus aliis excellentiores apostolicam et regiam
dignitates huic mundo ad eius regimina omnipotentem Deum distribuisse. Sicut enim mundi
pulchritudinem oculis carneis diversi temporibus rapresentandam solem et lunam omnibus
aliis eminentiora disposuit luminaria, sic, ne creatura, quam sui benignitas ad imaginem suam
in hoc mundo creaverat, in erronea et mortifera traheretur pericula, providit, ut apostolica post
Deum gubernetur regia129.
Se Gregorio VII è stato l’inventor del paragone sole-luna, Innocenzo III è
stato senza dubbio colui che ha maggiormente contribuito a farne un caposaldo
dell’elaborazione teologico-politica della Chiesa Romana, tanto da potersi
parlare di una dottrina dei “duo luminaria”130.
Innocenzo III ha utilizzato per la prima volta l’immagine del sole e della
luna nella lettera apostolica Sicut universitatis conditor del 30 ottobre 1198,
inviata ad Acerbo Falseroni, console fiorentino e priore della Lega della Tuscia,
e ai rettori della Tuscia e del ducato di Spoleto, cui il pontefice accorda la sua
protezione, ricordando il doveroso ossequio all’autorità della Chiesa Romana.
L’anonimo autore dei Gesta Innocentii ha ritenuto la lettera di straordinaria
importanza, al punto da includerla integralmente nella sua opera, come primo
documento.
L’arenga della lettera si apre proprio con l’immagine del sole e della luna:
Sicut universitatis conditor Deus duo magna luminaria in firmamento celi constituit, luminare
maius, ut preesset diei, luminare minus ut preesset nocti, sic ad firmamentum universalis
128 Sulla lettera inviata da Gregorio VII al re d’Inghilterra Guglielmo I si veda G.M. Cantarella, Il
sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa (1073-1085), Roma-Bari 2005, pp. 5-12. 129 Gregorius VII Papa, Epistola VII. 25, ed. E. Caspar, in M.G.H., Epistole selecte II, Das Register
Gregors VII, Teil 2, pp. 505-507, pp. 505-506. 130 D. Quaglioni, “Luminaria, duo”, in Federiciana, 2 voll., Roma 2005, II, pp. 320-325.
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27 F. Massetti, Ritualità ed immagini
ecclesie qui celi nomine nuncupatur, duas magnas instituit dignitates, maiorem que quasi
diebus animabus preesset corporibus, que sunt pontificalis auctoritas et regalis potestas. Porro
sicut luna lumen suum a sole sortitur, que revere minor est illo quantitate simul qualitate, situ
pariter et effectu, sic regalis potestas ab auctoritate pontificali sue sortitur dignitatis
splendorem, cuius conspectui quanto magis inheret, tanto minori lumine decoratur, et quo plus
ab eius elongatur aspectu, eo plus proficit in splendore. 131
L’immagine dei “duo magna luminaria”, il sole e la luna, creati da Dio per
illuminare la terra di giorno e di notte, separando la luce dalla tenebre, è tratta
da Genesi 1, 16-18: “Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il
giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. Dio le pose nel
firmamento del cielo per illuminare la terra e per regolare giorno e notte e per
separare la luce dalle tenebre”132. Suggestiva, benché difficilmente verificabile, è
l’ipotesi di Paravicini Bagliani, secondo la quale Innocenzo III potrebbe essersi
ispirato anche all’iconografia della Cathedra sancti Petri, che tanta parte aveva
avuto nella cerimonia della sua consacrazione133.
Nei suoi termini essenziali il paragone sole-luna è di facile comprensione:
come Dio ha creato nel cielo due luci, una maggiore, per illuminare la terra di
giorno, e una minore, per illuminarla durante la notte, così ha posto nel
firmamento della Chiesa due luci, la maggiore per illuminare le anime, la
minore per illuminare i corpi. La prima luce è identificata nella potestà
pontificale, la seconda nella potestà regale. Innocenzo III aggiunge che quanto
più l’autorità regia è vicina all’autorità del pontefice, sua sorgente, tanto meno è
decorata dalla luce, e quanto più si allontana, tanto più risplende134.
La comprensione del paragone è tuttavia complicata dal fatto che la
versione definitiva dell’arenga, attestata dal testo di Gesta Innocentii, è il frutto di
una correzione, oggetto di studio approfondito da parte di Othmar Hageneder.
Nel manoscritto originale del Registro di Innocenzo, infatti, il min- di “minori” e
il pro- di “proficit” sono aggiunti su rasura135. Il testo originale dell’arenga, in
assenza dell’originale, è stato ricostruito da Hageneder sulla base della Decretale
II 3 della raccolta di Raniero di Pomposa, terminata entro il giugno del giugno
1201:
cuius conspectui quanto magis inheret, tanto maiori lumine decoratur, et quo plus ab eius
elongatur aspectu, eo plus deficit in splendore. 136
131 GI, p. 10. 132 La Sacra Bibbia, CEI, 2008. 133 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 16. 134 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 33-34. 135 Ivi, pp. 34-35. 136 Ivi, p. 34.
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28 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Il significato originale è quindi diametralmente opposto: quanto più la
“regalis potestas”, nel guardarsi reciprocamente, resta unita alla ”auctoritas
pontificia”, tanto più grande è la luce da cui viene illuminata; quanto più si
allontana da essa, tanto meno risplende137.
Il significato del paragone originale risulta perfettamente coerente dal
punto di vista astronomico se il “conspectus” è letto come “opposizione astrale”:
si ha la luna piena proprio quando i due astri si trovano in opposizione. Gli
astronomi medievale, come ad esempio Georg Von Peurbach (XV secolo), non
conoscevano il concetto di “conspectus” come termine tecnico; per indicare il
plenilunio, conseguente all’opposizione astrale, si utilizzavano termini quali
“panselenos”, ”plenilunium”, “oppositio duarum luminarium”.
Nella traduzione latina dell’Opus quadripartitum de iudiciis (o Tetrabiblos),
attribuito a Claudio Tolomeo, si legge tuttavia “conjunctione vel aspectu”138. Il
termine “aspectus” indicava allora probabilmente la congiunzione dei due astri.
Su tali basi Hageneder ha ipotizzato che “conspectus”, pur non essendo un
termine tecnico del linguaggio astronomico, designasse comunemente
l’opposizione astrale139. Nel paragone originale, dunque, non era importante la
distanza fra gli astri quanto il “cospetto”, cioè l’opposto orientamento. Quanto
più l’autorità regia guarda a quella papale, dunque, tanto più ne è illuminata140.
Questo significato di sostanziale concordia fra i due poteri viene confermato in
una lettera inviata da Innocenzo III ad Ottone IV, inserita nel Regestum super
negotio Romani Imperii141:
Nobis enim duobus regimen huius saeculi principaliter est commissum, qui si unanimes
fuerimus et concordes in bono, profecto, sicut propheta testatur (Ab 3, 11), sol et luna in ordine
suo stabunt, eruntque prava in directa et aspera fient plana (Is 40, 4), cum nobis duobus, favente
domino, nichil obsistere vel resistere possit, habentibus duos gladios. 142
Vi è poi una lettera inviata ai principi tedeschi nella quale i due poteri
sono assimilati ai due cherubini che si fronteggiano davanti al propiziatorio
dell’arca dell’Alleanza, in analogia con il “conspectus” del sole e della luna143:
137 Ivi, p. 35. 138 Claudius Ptolomaeus Pelusiensis Alexandrinus, “Opus quadripartitum de iudiciis”, in Id.,
Omnia, quae extant, opera preater Geographiam, ed. E.O. Schreckenfuchsius, Basileae 1551, pp. 379-
438, in particolare p. 428. 139 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 36. 140 Ivi, p. 37; Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 6. 141 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 37. 142 Regestum Innocentii III papae super negotio Romani Imperii (RNI), ed. F. Kempf, Roma 1947
(Miscellanea Historiae Pontificiae 12), n° 179, p. 386. 143 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 38.
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29 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Hec enim sunt duo cherubim, que versis vultibus in propitiatorium, super ipsum duabus aliis
coniunctis, mutuo se respicere describuntur. 144
In un’altra lettere inserita nel Regestum super negotio Romani Imperii,
Innocenzo III riprende l’immagine astronomica, paragonando l’eclissi lunare,
che accresce l’oscurità, alla mancanza di provvedimenti imperiali nei confronti
degli eretici e i pagani, foriera di infamia contro i credenti145:
Inde sicut in eclipse luna tenebre amplius tenebrescunt et, maioris caliginis obscuritas invalescit,
sic ex imperatoris defectu hereticorum vesania et violentia paganorum contra catholicos et
fideles perfidius et crudelius malitia multiplicata consurgunt. 146
Alla luce di tale confronto, risulta pienamente comprensibile il significato
iniziale del paragone: il potere regale svolge pienamente la sua funzione,
risplendendo maggiormente quando segue l’autorità spirituale, difendendo la
Chiesa da eretici e pagani. Lo splendore della dignità regale, al contrario, vien
offuscato quando essa non interviene in difesa della Chiesa, legittimando così il
papato a sciogliere i sudditi dal giuramento di obbedienza, fondamento di ogni
«potestas» e «dignitas»147.
Hageneder ha individuato un possibile ausilio alla comprensione della
correzione in un passo del De ordine creaturarum liber di Isidoro da Siviglia148:
An sit (Luna) etiam rotunda radiis solis illuminata. Quae, quandocumque soli sive ante, sive
post appropriat, velut in ora radio luminis illucescat; cum autem longius ac longius recedere
videtur, majus ac majus suum lumen a solis splendore augetur. Ut cum ad integrum
aequiparato orbe facie ad faciem soli opposita constiterit. Tunc plene in se imaginem solis
habere possit. 149
Dopo aver trattato del sole e della luna con parole molto vicine a Genesi 1,
16-18, Isidoro spiega che quanto più la luna si allontana dal sole tanto più
risplende; giunta a metà del suo corso, alla massima distanza, la luna raggiunge
il massimo splendore, trovandosi di fronte al sole e ricevendo completamente in
sé la sua immagine.
È probabile che l’autore della correzione alla lettera innocenziana,
ispirandosi al testo di Isidoro, abbia inteso il verbo “elongare” nel senso di
“recedere”. Se in precedenza l’accento principale era posto sull’opposizione
astrale, con la correzione l’attenzione si sposta sulla distanza, al crescere della
144 RNI, n° 2 p. 7. 145 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 38. 146 RNI, n° 32 p. 99. 147 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 39-40. 148 Ivi, p. 43. 149 Isidorus Hispalensis, De ordine creaturarum liber, in PL 217, coll.913-954, col. 925.
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30 F. Massetti, Ritualità ed immagini
quale aumenta la luminosità. Se le due versioni sono entrambe corrette dal
punto di vista astronomico, dal punto di vista teologico-politico le due
formulazioni determinano implicazioni differenti150. Per questo Hageneder ha
ipotizzato che la correzione sia stata dettata da una volontà politica precisa,
comprensibile alla luce del successivo sviluppo dell’arenga:
utraque vero potestas sui primatus sedem in Italia meruit obtinere que dispositione divina
super universas provincias obtinet principatum, et ideo licet ad universas provincias nostre
provisionis aciem extendere debeamus, specialiter tamen Italie paterna nos convenit
sollicitudine providere, in qua christiane religionis fundamentum existit per apostolice sedis
primatum, sacerdotii simul et regni preeminet principatus. 151
Il riferimento al “primatus” e alla “potestas” su Roma e l’Italia è presente
anche nel Sermo XXII, tenuto da Innocenzo III in occasione della festa dei santi
Pietro e Paolo:
Altitudo maris istius de qua Christus inquit ad Petrum «Duc in altum», est Roma, que
primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet; quam in tantum
divina dignatio voluit exaltare ut, cum tempora paganitatis sola dominium super omnes
gentiles habuerit, christianitatis tempore sola super fideles habeat universos152.
La città di Roma, che anticamente esercitava il “dominium”, cioè il potere
temporale, su tutte le genti, ha in seguito assunto il “magisterium” su tutti i
credenti, divenendo così, secondo la celebre formulazione di Leone Magno153,
città sacerdotale e regia:
Ecce liquido pater, quantum Deus Urbem istam dilexerit, ut eadem esset sacerdotalis et regia,
imperialis et apostolica, obtinens ei exercens non solum dominium super corpora, verum etiam
magisterium super animas. Longe nunc maior et dignior auctoritate divina, quam olim
potestate terrena, per illam habens claves regni coelorum, per istam orbis terrarum regens
habenas154.
150 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 43-44. 151 GI, pp. 10-11. 152 Innocentius III Papa, Sermo XXI in solemnitate D. apostolorum Petri et Pauli, in PL 217, coll. 555-
558, col. 556. 153 “Isti (sc. Principes apostolorum) sunt, qui te (Roma) ad hanc gloriam provexerunt, ut gens
sancta, populus electus, civitatis sacerdotalis et regia, per sacram beati Petri sedem caput orbis
effecta, latius praesideres relgione divina quam dominatione terrena” (Leo I Papa, Sermo
LXXXII in Natali apostolorum Petri et Pauli, in PL 54, coll. 422-428, coll. 422-423). Il celebre
sermone pronunciato da Leone Magno in occasione della festa degli apostoli Pietro e Paolo,
presentati come i veri fondatori di Roma, è oggetto di un’approfondita analisi in M. Maccarone,
“La concezione di Roma città di Pietro e Paolo da Damaso a Leone I”, in Id., Romana Ecclesia…,
cit., I, pp. 191-203. 154 Innocentius III Papa, Sermo II in consecratione pontificis, cit., col. 656.
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31 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Quest’ultimo passo è particolarmente interessante, poiché presenta il
“dominium” come potere sui corpi e il “magisterium” come potere sulle anime,
fornendo così un trait d’union con il paragone sole-luna della lettera del 30
ottobre 1198: l’autorità dei pontefice, rappresentata dal sole, è preposta ad
illuminare le anime, mentre la potestà regia, rappresentata dalla luna, è
preposta al governo dei corpi. Nei due testi vi è inoltre lo stesso rapporto
gerarchico, poiché l’autorità dei pontefici, in virtù del potere sulle anime, risulta
essere superiore rispetto all’autorità regale.
Un ulteriore confronto testuale proposto da Hageneder contribuisce a
chiarire il significato della correzione attuata sul registro. La seconda parte
dell’arenga viene messa a confronto con un passo del Sermo VII de sancto
Silvestro155, già citato nel nostro studio in relazione al valore simbolico della
tiara:
Fuit ergo b. Silvester sacerdos, non solum magnus, sed maximus, pontificali et regali potestate
sublimis. Illius quidem vicarius qui est «Rex Regum et Dominus dominantium, sacerdos in
eternum secundum ordinem Melchisedec», ut spiritualiter possit intelligi dictum ad ipsum et
successores illius, quod ait beatus Petrus apostolus, primus et precipuus predecessor ipsorum:
«Vos estis genus electum, regale sacerdotium». Hos enim elegit dominus, ut essent sacerdotes et
reges. Nam vir Constantinus egregius imperator, ex revelatione divina per beatum Silvestrum
fuit a lepra in baptismo mondato, Urbem pariter et senatum, cum omnibus et dignitatibus suis,
et omne regnum Occidentis ei tradidit et dimisit, secedens et ipse Byzantium et regnum sibi
retinens orientis156
Silvestro, nuovo Melchisedech, in virtù della donazione costantiniana ha
assunto un potere non più soltanto pontificale, ma anche regale, ricoprendo così
il “regale sacerdotium” annunciato da Pietro (1Pt 2,29). Il pontefice non è soltanto
un grande sacerdote, ma il sommo sacerdote, sublime nella sua duplice potestà
pontificale e regale157.
Ancora più interessante in relazione al presente studio è un elemento che
Innocenzo III ha tratto dal Constitutum Constantini: la decisione di Costantino di
trasferire la propria capitale in Oriente, lasciando al pontefice Roma e
l’Occidente158. Proprio l’allontanamento di Costantino, dettato dal riguardo
verso l’autorità del pontefice159, costituisce a nostro avviso un elemento
155 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48. 156 Innocentius Papa III, Sermo VII in festo d. Silvestri pontificis maximi, PL 217, coll. 481-484, col.
481. 157 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48; Doran, The Role Models of Innocent III, cit., pp. 67-68. 158 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 48; Vian, La donazione di Costantino…, cit., p. 92. 159 Nel testo del “Constitutum Constantini” viene detto chiaramente che l’imperatore terreno
non può esercitare il suo potere laddove l’imperatore celeste ha fondato il principato
sacerdotale: “Unde congruum prospeximus, nostrum imperium et regni potestatem orientibus
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32 F. Massetti, Ritualità ed immagini
fondamentale per comprendere la correzione della lettera del 30 ottobre 1198, la
quale sposta l’attenzione dal rapporto di opposizione astrale alla distanza fra i
“duo magna luminaria”.
Per comprendere pienamente il significato della correzione è inoltre
necessario inserirla nel contesto politico del Thronstreit, la lotta per la
successione al trono imperiale, e le sue ripercussioni sulla situazione dell’Italia
centrale.
Dopo la morte di Enrico VI, l’11 novembre 1197, le città di Lucca, Firenze,
Siena, San Miniato e Volterra costituirono la Lega Toscana, con i compito di
liberarsi dal giogo imperiale e riacquistare gli antichi diritti. La nuova Lega
volle assicurarsi l’alleanza del papato, impegnandosi a difendere i possessi e i
diritti della Chiesa Romana e a non riconoscer alcuno come Rex Romanorum o
imperatore, se non fosse stato prima riconosciuto dal pontefice. Tuttavia
Innocenzo III considerava la Tuscia parte dei territori spettanti al pontefice,
secondo la donazione effettuata da Carlo Magno a papa Adriano I (774), e fece
dipendere l’approvazione della Lega Toscana dal pieno riconoscimento dei
diritti della Chiesa Romana.
La questione fu risolta proprio con la lettera del 30 ottobre 1998, mediante
la quale fu concessa alla Lega la protezione papale (“apostolice protectionis
brachiis”, “protectionis patrocinium”160) in cambio dell’obbedienza alla Sede
Apostolica (“devotionis et fidei obsequium”161). Innocenzo III ottenne che le città
della Tuscia e del ducato di Spoleto potessero partecipare alla lega solo dopo
aver ottenuto l’approvazione papale, ma rinunciò invece alle sue pretese di
domino sull’intera Toscana. Grazie all’accordo fra la Lega e la Chiesa Romana,
comunque, fu fortemente limitata l’influenza imperiale nell’Italia centrale, dopo
il breve dominio instaurato da Enrico VI162.
Nel 1198, in Germania, si erano succedute in pochi mesi le elezioni
contrapposte di Filippo di Svevia (marzo) e Ottone IV di Brunswick (9 giugno).
Filippo, fratello di Enrico VI, già reggente per il nipote Federico, era sostenuto
dal partito degli Staufer e dalla corona francese, mentre Ottone, figlio di Enrico
il Leone, era supportato dal partito guelfo e dallo zio Riccardo Cuor di Leone,
transferri ac transmutari regionibus et in Byzantias provincias in optimo loco nomini nostro
civitatem aedificari et nostrum illic constitui imperium; quoniam, ubi principatus sacerdotum et
christianae religionis caput ab imperatori caelesti constitutum est, iustum non est, ut illic
imperator terrenus habeat potestatem” (“Constitum Constantini”, cit., pp. 94-95) 160 GI, p. 11. 161 Ibid. 162 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 59-60; Vian, La donazione di Costantino, cit., p. 92; Gress-
Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 51.
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33 F. Massetti, Ritualità ed immagini
che voleva portare la Germania dalla propria parte nel conflitto contro la
Francia163.
Il pontefice si mantenne inizialmente equidistante, avviando però delle
trattative con Filippo di Svevia per il riconoscimento dei territori recuperati nel
ducato di Spoleto. La situazione mutò rapidamente e all’inizio del 1199 si
arrestarono le trattative con Filippo, mentre un’ambasceria di Ottone IV si
presentò a Roma chiedendo la conferma della sua elezione e l’incoronazione
imperiale. Le trattative fra gli ambasciatori imperiali e la curia Romana
riguardarono soprattutto il riconoscimento dei territori recuperati da Innocenzo
III nell’Italia centrale. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di Riccardo
Cuor di leone, il più potente alleato di Ottone IV, i negoziatori guelfi furono
disposti ad accettare le condizioni dettate dalla Sede apostolica, e fu consegnato
al papa un documento che riconosceva i suoi diritti sui territori recuperati. Lo
stesso documento fu trascritto su pergamena e consegnato ad Ottone IV, che
tuttavia lo sottoscrisse dopo oltre un anno, tra l’estate del 1200 e l’inizio del
1201, quando l’imperatore si trovò in una situazione a tal punto critica da
richiedere necessariamente l’appoggio del pontefice164.
Secondo l’ipotesi avanzata da Hageneder la correzione sarebbe avvenuta
prima di presentare agli ambasciatori guelfi la trascrizione nel registro, durante
le trattative svoltesi a Roma fra l’aprile e il maggio 1199. Con tale “tocco
stilistico”, si sarebbe voluto comunicare al sovrano tedesco che non gli
competeva esercitare il suo dominio in Italia, dove il potere spirituale
(“primatus”) e temporale (“principatus”) avevano trovato la loro patria
d’elezione, in virtù del primato di Pietro. Imitando Costantino, il futuro
imperatore tedesco avrebbe dovuto riconoscere gli interessi papali legati alla
Lega Toscana e a quella Lombarda, poiché quanto più il regnum si fosse
allontanato dal sacerdotium, tanto più avrebbe potuto risplendere la sua dignità.
Dunque Ottone IV non solo avrebbe dovuto ricercare la concordia con
l’autorità del pontefice, ma avrebbe anche dovuto tenersi a debita distanza dal
territorio italiano, area di influenza del papato165. Sembra tuttavia esserci un
ostacolo cronologico a questa puntuale ricostruzione, poiché Raniero di
Pomposa, che terminò la consultazione dei Registri Innocenziani nel giugno
1201, non ha riportato la correzione.
Hageneder ha tuttavia fornito alcune spiegazioni plausibili. È ipotizzabile
che Raniero si sia basato non sul Registro ma su una delle piccole raccolte di
163 Hageneder, Il sole e la luna, cit., p. 60; J. Haller, “Lord of the World”, in Innocent III. Vicar of
Christ or Lord of the World?, Washington D.C. 19942 , p. 81; Sayer, Innocent III, cit., pp. 50-53. 164 Hageneder, Il sole e la luna, cit., pp. 60-62; cfr. Haller. Lord of the World, cit., pp. 82-84, 87-89;
Sayer, Innocent III, cit., pp. 53-58. 165 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., pp. 62-63; Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., pp. 6-7.
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34 F. Massetti, Ritualità ed immagini
decretali cui potrebbero aver attinto altri compilatori, come Gilberto e Alano,
oppure su uno dei numerosi originali in cui la lettera del 1198 era stata redatta.
È possibile anche che Raniero abbia copiato direttamente dal Registro,
esaminando singolarmente e in tempi separati le varie annate, non recependo la
correzione apportata nel 1199 alla lettera risalente all’anno precedente166.
Ma la relazione individuata da Hageneder fra la correzione e la politica
attuata da Innocenzo III nei confronti di Ottone IV potrebbe valere anche se la
correzione fosse avvenuta nel giugno 1201. Infatti è possibile che la correzione
sia avvenuta proprio quando la notizia della promessa di Ottone IV a Neuss
arrivò a Roma e fu inserita nel Regestum super negotio Romani Imperii. In tal caso
il rapporto causa-effetto andrebbe semplicemente rovesciato: la correzione non
sarebbe stata apportata per influire sulla politica di Ottone IV in Italia, ma, al
contrario, sarebbe da leggere quale una conseguenza della politica
effettivamente perseguita dal sovrano tedesco167.
La presenza della versione corretta del paragone sole-luna nei Gesta
Innocentii non è invece in alcun modo problematica se si accoglie una datazione
successiva al 1203, cioè al periodo in cui Innocenzo cadde gravemente malato,
tanto da far pensare ad una sua morte imminente e spingere l’anonimo autore a
comporre un’opera in difesa dell’operato del pontefice168.
II.3 L’incoronazione di Pietro II d’Aragona
L’incoronazione di Pietro II d’Aragona fu uno dei più importante eventi svoltisi
a Roma sotto il pontificato di Innocenzo III169, e soprattutto fu l’occasione in cui
l’apparato cerimoniale allestito dal pontefice celebrò maggiormente la dignità e
la potestà papale. È interessante rilevare che questa solenne ed articolata
cerimonia non soltanto suscitò l’attenzione dei contemporanei, come testimonia
l’ampio spazio ad esso attribuito nei Gesta Innocentii III, ma esercitò anche un
effetto di lunga durata nello sviluppo dell’autorappresentazione papale, tanto
da essere raffigurato nel 1561 nel solenne contesto della Sala Regia vaticana ad
opera del pittore forlivese Livio Agresti, su commissione di papa Pio IV170.
166 Ivi, p. 65. 167 Ivi, p. 66. 168 Hageneder, Il sole e la luna…, cit., p. 67. 169 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 98*. 170 A. Celletti, Autorappresentazione papale ed età della Riforma: gli affreschi della Sala Regia vaticana,
in Eurostudium3w, gennaio-marzo 2013, pp. 5-149, qui pp. 72-77,
http://www.eurostudium.uniroma1.it/rivista/monografie/Celletti%20pronto.pdf (4 maggio
2014).
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35 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Si legge nei Gesta Innocentii che il sovrano aragonese si presentò a Roma il
9 novembre 1204, approdando con le sue cinque galee presso l’isola posta fra
Ostia e Porto171:
Anno septimo pontificatus domini Innocentii pape tertii, mense Novembri, Petrus, rex
Aragonum, ad apostolicam sedem accessit, ut ab eodem domino papa militare cingulum et
regium acciperet diadema. Venit autem per mare cum quinque galeis, et applicuit apud insulam
inter portum et Ostiam, adducens secum Arelatensem archiepiscopum, prepositum
Megalonensem, cum quibus interfuit electus Montis Maioris, et alii quidam clerici nobiles et
prudentes. Proceres quoque secum adduxit Sancium, patruum suum, Hugonem de Baucio,
Rocelium de Marisilia, Arnaldum de Foliano, et alios multos nobiles et potentes. 172
Pietro II giunse accompagnato da un imponente seguito di nobili e ad alti
prelati dei territori a lui sottoposti: Michele, arcivescovo di Arles, Guy de
Ventadour, prevosto di Miguelonne, Guillaume de Bonnieux, il conte Sancio,
zio del sovrano aragonese, Hugh de Les Baux, Roncelin, visconte di Marsiglia,
ed Arnau de Foixà173. L’analisi delle motivazioni del viaggio di Pietro II a Roma,
condotta da Damian Smith, permette di comprendere meglio la presenza di un
così importante seguito.
I Gesta Comitum Barcinonensium et Aragoniae regum attestano che Pietro non
voleva apparire da meno rispetto ai suoi predecessori, in confronto ai quali
voleva eccellere174. Già nel 1068 Sancho Ramirez aveva affidato il regno
d’Aragona alla potestà di Dio e di san Pietro e, tornando di nuovo a Roma nel
1088, il sovrano aragonese aveva offerto alla Sede Apostolica il pagamento di
un censo annuo di 500 mancusi175. Pietro I rinnovò la sottomissione e il tributo a
Roma, mentre Urbano II accolse il figlio del sovrano, Sancho, sotto la protezione
pontificia. In seguito il conte di Barcellona Berengario IV si dichiarò “homo, miles
et servus” di Adriano IV, che lo prese sotto la protezione papale. Inoltre Alfonso
II ottenne da Alessandro III un particolare riconoscimento per l’Aragona,
171 D.J. Smith, Innocent III and the Crown of Aragon. The limits of papal authority, Aldershot 2004, p.
43. 172 GI, p. 306. 173 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 43. 174 “Et quia praedictus dominus rex Petrus noluit probitate et nobilitate inferior suis esse, immo
antecellere eos cupiens fama et dignitate, Apostolorum limina cum multis sumptibus et
comitatu nobili visitavit” (“Gesta comitum Barcinonensium et Aragoniae regum”, edd. L.
Barrau-Dihigo – J. Massó Torrent, in Cróniques Catalanes, II, Barcelona 1925, p. 51. 175 Nel Liber Censuum di Albino è riportato il censo dovuto alla Sede Apostolica dalla corona
d’Aragona: “regnum Aragone iuris beati Petri est, D auri mancusios ad cunneum Jacce singulis
annis” (Le Liber Censuum, cit., II, p. 107). L’Aragona non è invece menzionata da Cencio (Smith,
Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 48).
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36 F. Massetti, Ritualità ed immagini
“regnum quod ad ius beati Petri specialiter pertinere dinoscitur”, e sviluppò
una stretta relazione con Celestino III176.
Il gesto di Pietro II si inserì dunque nel solco di una lunga tradizione
caratterizzata da stretti legami fra la corona aragonese e la Sede Apostolica. Al
tempo stesso, se la volontà di ricoprirsi di gloria secondo l’esempio dei suoi
antenati fu senz’altro presente, vi sono tuttavia molteplici ragioni politiche che
possono spiegare perché Pietro II abbia considerato la solenne incoronazione a
Roma non solo desiderabile, ma politicamente vantaggiosa177.
In primis, Damian Smith fa riferimento alla questione del matrimonio fra
una sorella di Pietro II e Federico II di Sicilia. In tale contesto si può ipotizzare
che Pietro II abbia voluto incrementare il proprio prestigio in vista della
possibile alleanza matrimoniale con gli Staufer. Tuttavia, benché attratto dai
possibili vantaggi politici ed economici, Pietro II si dimostrò assai cauto,
considerando l’entità della dote e soprattutto la possibilità che Federico II non
arrivasse ad esercitare il potere. Va inoltre notato che nella bolla Gaudemus in
domino (8 agosto 1204), Innocenzo III affronta separatamente i due temi
dell’incoronazione e della possibile alleanza matrimoniale fra Aragona e Sicilia.
Se dunque l’alleanza matrimoniale rientrava certamente fra gli argomenti da
discutere con il pontefice, non poteva costituire da sola il motivo della venuta di
Pietro II a Roma178.
Altra questione di grande importanza, evidenziata da Smith, era l’azione
di riconquista in cui era impegnata l’Aragona. In particolare Pietro II aveva
bisogno di accrescere il suo status al fine di ottenere supporto internazionale per
la conquista di Maiorca. L’impresa si sarebbe rivelata al momento oltre le
possibilità finanziarie e militari del regno d’Aragona, ma Pietro aveva
comunque ben chiara l’importanza della protezione papale nel lungo periodo in
cui egli avrebbe dovuto assentarsi per procedere alla conquista. Non a caso il
successore di Pietro II, Giacomo I, venne incoronato da papa Gregorio IX
proprio alla vigilia dell’effettiva conquista di Maiorca (1229). Tuttavia non
risulta che Innocenzo III abbia dato il suo sostegno all’impresa179.
Di particolare interesse ci sembra la terza motivazione politica addotta da
Smith, relativa alla situazione interna. Dopo un periodo di grande espansione
nella prima metà del XII secolo, l’Aragona si trovò ad affrontare un momento di
difficoltà, dovuto all’ascesa degli Almohadi e alla riottosità della nobiltà nelle
regioni meridionali del regno. In assenza di un forte successo militare, Pietro II
176 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 48-49. 177 Ivi, p. 49. 178 Ivi, pp. 49-50. 179 Ivi, pp. 50-51.
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37 F. Massetti, Ritualità ed immagini
può aver pensato di rafforzare la corona affermandone la legittimazione sacrale
attraverso la solenne cerimonia di incoronazione180. In tal senso, la presenza di
un ampio seguito di nobili ed alti prelati, lungi dall’essere una mera cornice
scenica, avrebbe rafforzato la posizione Pietro II, presentando l’immagine di un
sovrano forte, sostenuto dai maggiorenti.
Vi era inoltre la questione albigese, che offriva a Pietro la possibilità di
presentarsi come campione dell’ortodossia, ottenendo la protezione papale
contro l’espansione dei capetingi e affermando la sua supremazia nel Midi.
Pietro emanò severi editti contro gli eretici nel 1198 e nel 1204, recependo
prontamente le direttive del pontefice. In proposito, tre lettere papali181
confermano che l’argomento fu effettivamente discusso a Roma182. Ma
soprattutto il viaggio di Pietro II fu finanziato in gran parte da Raimondo VI di
Tolosa, il quale sperava che il sovrano aragonese potesse mediare presso il papa
circa la sua posizione sempre più difficile183.
L’ultima motivazione individuata da Smith, l’affermazione del potere
aragonese in Provenza attraverso l’affrancamento dall’Impero, è molto
significativa in relazione alla scelta dei proceres che seguirono Pietro II a Roma.
Il più alto prelato al seguito del re d’Aragona era infatti l’arcivescovo di Arles, e
molti degli altri notabili citati erano figure chiave dello scenario politico
provenzale184, come l’influente visconte di Marsiglia, Ronclin185.
Il padre di Pietro II, Alfonso II, aveva speso molte energie per portare
sotto il controllo aragonese le più importanti città della Provenza, a partire da
Arles, Nizza e Marsiglia. Inoltre, sebbene teoricamente la contea di Provenza
fosse un feudo imperiale, il re d’Aragona aveva negato a Federico Barbarossa
l’incoronazione a re di Borgogna, nel 1178. Le relazioni fra l’Aragona e l’Impero
peggiorarono ulteriormente al tempo di Enrico VI, il quale cercò l’appoggio dei
genovesi per invadere la stessa Aragona.
Facendo propria l’ambiziosa politica provenzale del padre, Pietro II cercò
di sfruttare la situazione di crisi in cui versava l’Impero, indebolito dalla lotta
fra Ottone IV di Brunswick e Filippo di Svevia, per guadagnare la protezione
180 Ivi, p. 51. 181Si tratta delle lettere Cum ad expellendam (PL 215, col. 666), Discretioni vestre (PL 215, col. 667) e
Cum Carissimo (PL 215, col. 666), scritte nel giugno 1205. 182 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 52. 183 Ibid. 184 Ibid. 185 Già abate dell’importante abbazia di Saint Victor, Roncelin divenne in seguito visconte di
Marsiglia. Dopo la scomunica da parte di Innocenzo III (1209), Roncelin si sottomise alla Sede
Apostolica, ripudiò la moglie e tornò all’abbazia di Saint Victor (V.L. Bourrilly, Essai sur
l’histoire politique de la commune de Marseille des origines à la victoire de Charles d’Anjou (1264), Aix-
en-Provence 1926, pp. 398; 401).
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papale sui possedimenti aragonesi in Provenza ed accrescere il suo status di
fronte al clero e alla nobiltà della regione. Va detto, tuttavia, che i possedimenti
provenzali, controllati dal fratello di Pietro, Alfonso, non rientravano fra i
territori posti sotto la protezione papale dall’accordo raggiunto fra Pietro II e
Innocenzo III186.
Se le motivazioni politiche che spinsero Pietro II a venire a Roma
permettono di spiegare la composizione del suo seguito, ancor più interessanti
per il nostro studio sono le ragioni che spinsero Innocenzo III ad allestire
l’imponente cerimoniale per l’incoronazione del sovrano aragonese. Esse
aiutano a comprendere la piena consapevolezza con cui il pontefice si servì
dell’imponente apparato liturgico per veicolare la sua altissima concezione del
potere papale, in rapporto sia all’Urbe che all’orbe.
Nel pieno del Thronstreit, in attesa dell’imminente incoronazione di
Filippo di Svevia quale Rex Romanorum, che sarebbe avvenuta ad Aachen due
mesi più tardi (gennaio 1205), l’incoronazione di Pietro II si presentava come
una forte affermazione dell’influenza della Chiesa Romana nelle vicende
politiche della cristianità. Inoltre, l’incoronazione di un re a Roma, secondo un
cerimoniale assai vicino all’incoronazione imperiale, poteva suggerire l’idea che
altre potenze fossero in grado contendere all’Impero tedesco la sua preminenza
all’interno della Res Publica Christiana, secondo una concezione ben presente nei
canonisti inglesi e spagnoli187.
Altra fondamentale motivazione, ben evidenziata da Smith, era legata alla
situazione politica interna all’Urbe. Fra 1203 e 1204, infatti, Innocenzo III
dovette fronteggiare una grave crisi nel rapporto con il Comune, durante la
quale lasciò per alcuni mesi la città188. Una controversia giudiziaria fra
Innocenzo III ed Oddone di Poli, reo di aver donato al Comune dei territori
ricevuti in feudo dalla Chiesa, in seguito all’intervento di Giovanni Capocci,
inveterato nemico del pontefice e campione della libertas comunale, degenerò in
un vero e proprio conflitto tra fazioni, portando a scontri per le strade, alla
costruzione e distruzione di fortificazioni, nonché a vere e proprie battaglie
urbane fra sostenitori e avversari del papa.
Innocenzo III, pur abbandonando la città, continuò comunque ad
esercitare la sua autorità, giacché una parte della cittadinanza, come di
consueto, gli affidò la nomina dei mediani per la scelta dei senatori. Se l’assenza
del pontefice da Roma, protrattasi per circa dieci mesi, va messa in relazione
con la grave malattia che lo colpì nell’autunno del 1203 piuttosto che con la
186 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 52-53. 187 Ivi, 53-54. 188 Ivi, p. 54.
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39 F. Massetti, Ritualità ed immagini
situazione di conflitto, è comunque significativo che Innocenzo III abbia scelto
di trascorrere a Roma, contrariamente alle abitudini, l’estate del 1204: egli
voleva evidentemente mantenere la situazione sotto il suo diretto controllo189.
È pertanto altamente probabile che dopo la grave crisi politica del 1203-
1204 Innocenzo III, definito efficacemente da Smith “a proven master of
liturgical propaganda”, abbia voluto riaffermare la centralità del papato per la
dignità di Roma attraverso il sontuoso apparato cerimoniale allestito per
l’incoronazione di Pietro II d’Aragona, che vide concordi tutte le più alte cariche
civili ed ecclesiastiche dell’Urbe190.
Altre motivazioni individuate da Smith riguardano la necessità di
rinnovare il censo dovuto alla Sede Apostolica da parte della corona
aragonese191, la difesa della libertas Ecclesiae192 e la ricordata alleanza
matrimoniale fra l’Aragona il regno di Sicilia193. Riteniamo tuttavia che la
solenne incoronazione di Pietro II a Roma, che andiamo ad analizzare nel
dettagliato resoconto fornito dai Gesta Innocentii III, sia pienamente
comprensibile soltanto alla luce della volontà di Innocenzo III di riaffermare
con forza il prestigio e la dignità del papato nei confronti dei romani e
dell’intera cristianità.
La prima manifestazione del potere di Innocenzo III si ebbe
nell’accoglienza del seguito di Pietro II:
Missis autem ad illum equitaturis et sommariis pene ducentis fecit apud Sanctum Petrum ad
praesentiam suam idem dominus papa venire, mittens in occursum ipsius quosdam cardinales,
senatorem Urbis et alios multos nobiles et magnates; fecitque illum apud Sanctum Petrum in
domo canonicorum honorabiliter hospitari. 194
La delegazione aragonese venne accolta dalle massime autorità
ecclesiastiche (cardinali) e civili (senatore, nobili e magnati), a dimostrazione
della piena potestà spirituale e temporale del pontefice sull’Urbe. Veniva così
ad essere fugato il ricordo dei contrasti fra la Chiesa e il Comune che avevano
travagliato l’Urbe nei mesi precedenti.
Il seguito di Pietro d’Aragona trovò accoglienza presso la residenza dei
canonici di San Pietro, luogo particolarmente adatto a ricevere una delegazione
189 Barone, “Innocenzo III e il Comune di Roma”, cit., pp. 662-664; cfr. Werner Maleczeck,
“Biografia di Innocenzo III”, in Gesta di Innocenzo III, cit., p. 35. 190 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 55; Barone, “Innocenzo III e il Comune di
Roma”, cit., p. 666. 191 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 53. 192 Ivi, pp. 55-56. 193 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 56. 194 GI, p. 306.
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40 F. Massetti, Ritualità ed immagini
straniera in visita alla Sede Apostolica, essendo connesso tradizionalmente con
il pellegrinaggio presso la tomba del princeps apostolorum195.
La prima parte della solenne cerimonia di incoronazione si svolse due giorni
dopo l’arrivo del sovrano, in occasione della festa di san Martino (11
novembre). Il luogo prescelto fu la chiesa di San Pancrazio, dove Pietro II venne
unto dal vescovo di Porto e incoronato dallo stesso Innocenzo III:
Tertio vero die, in festo videlicet sancti Martini, praefatus dominus papa, cum epicopis,
presbyteris et diaconis cardinalibus, primicerio et cantoribus, senatore, iusticiariis, iudicibus,
advocatis et scriniariis multisque nobilibus ac populo copioso, ad monasterium sancti Pancratiii
martyris prope Transtiberim est profectus. Ibique prefatum regem per manus Petri, Portuensis
episcopi, fecit inungi, quem postmodum ipse manu propria coronavit, largiens et regalia
insignia universa, mantum videlicet et colubium, sceptrum et pomum, coronam et mitram. 196
In assenza di uno specifico ordo per l’incoronazione regale a Roma, la
cerimonia si svolse sulla base dell’ordo per l’incoronazione imperiale197, dell’ordo
per la Chiesa di Arles e del cerimoniale per l’incoronazione papale nel giorno di
san Martino198.
All’evento intervenne il collegio cardinalizio al completo, composto da
cardinali vescovi, presbiteri e diaconi. Parteciparono anche le massime autorità
civili: il senatore, gli iusticiarii, i giudici, gli avvocati e gli scriniarii, insieme a
numerosi esponenti della nobiltà. Di fronte al “popolo copioso”, dunque,
veniva ribadita la piena concordia fra le autorità civili ed ecclesiastiche, che
trovavano entrambe il proprio vertice nel pontefice.
L’unzione del sovrano fu affidata dal pontefice al cardinale vescovo di
Porto, secondo nel cerimoniale romano soltanto al vescovo di Ostia199. Pietro di
Porto era un vecchio amico di Innocenzo III, il quale, al tempo del cardinalato,
gli aveva dedicato una delle sue opere più celebri, il De miseria humanae vitae.
Poiché il cardinale ostiense, preposto all’unzione imperiale200, era presente a
Roma, si può pensare che il pontefice abbia voluto dar luogo ad un cerimoniale
195 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 45. 196 GI, p. 306. 197 Le citazioni testuali dell’ordine romano per l’incoronazione imperiale sono tratte per la
maggior parte dall’Ordo cornationis XVII, ed. R. Elze, in Fontes iuris Germanici antiqui in usum
scholarium ex MGH separatim editi IX. Ordines coronationis imperialis, Hannover 1960, pp. 61-69. Si
tratta di un ordo coronationis datato alla fine del XII secolo e detto “Staufische ordo” dal nome
della casata imperiale. 198 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 45-46. 199 Ivi, p. 46. 200 “Ostiensis episcopus ungat ei brachium dextrum de oleo exorcizato et inter scapolas” (Ordo
coronationis XVII, cit., p. 65).
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41 F. Massetti, Ritualità ed immagini
strutturalmente parallelo e al contempo distinto rispetto a quello
dell’incoronazione imperiale201.
L’unzione era uno dei momenti più solenni della cerimonia di
incoronazione. Era stato re David, figura Christi, ad essere unto per primo re di
Israele, unendo in sé regalità e sacerdozio e costituendo così l’archetipo della
regalità sacra medievale, il rex et sacerdos202. Particolare importanza assumeva la
parte del corpo su cui era praticata l’unzione, giacché, a differenza del modello
biblico, l’unzione del capo fu riservata dalla Chiesa ai soli vescovi, mentre i
sovrani erano unti sull’omero203. Inoltre l’unzione dei vescovi era effettuata
usando il crisma, mentre i re erano unti con l’olio dei catecumeni. In questo
modo, nel corso del XII secolo, la Chiesa cercava di limitare il significato
dell’unzione regale, escludendola dal numero dei sacramenti, fissati a sette; essa
veniva riconosciuta come sacramentale e non come sacramento, operante per la
fede di colui che lo riceveva e non per propria virtù204.
Innocenzo III, in una lettera scritta al vescovo di Trnovo nel febbraio 1204,
insisteva espressamente sulla superiorità dell’unzione del capo con il crisma,
riservato ai vescovi, rispetto all’unzione regale del braccio con l’olio dei
catecumeni, a rimarcare la supremazia dell’autorità episcopale rispetto al potere
dei principi205:
Differt autem inter pontificis et principis unctionem, quia caput pontificis chrismate
consecratur, brachium vero principis oleo delinitur, ut ostendatur quanta sit differentia inter
pontificalem auctoritatem et principis potestatem. 206
Trattatisti tardomedievali come l’arcivescovo di Zara Nicola de
Metafaris207 hanno spiegato la translatio dell’unzione dal capo al braccio e alle
spalle richiamando il dovere del sovrano di difendere la Chiesa, della quale
costituiva il braccio armato208.
L’unzione fu seguita dall’incoronazione propriamente detta, nella quale il
sovrano ricevette dal pontefice le insegne del potere regale, accuratamente
presentate nel testo dei Gesta Innocentii
201 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 46. 202 H. Zug Tucci, “Le incoronazioni imperiali nel Medioevo”, in Per me reges regnant. La regalità
sacra nell’Europa medievale, a cura di F. Cardini e M. Santarelli, Siena 2002, pp. 119-136, pp. 127-
128. 203 Ivi, p. 128. 204 Ibid. 205 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 46. 206 PL 215 col. 284. 207 R. Elze, Der Thesaurus Pontificum des Erzbischofs Nicolaus von Zara, in «Revue des sciences
religieuses», volume hors série, Strasbourg 1956, pp. 143-160, in particolare p. 158. 208 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 128.
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42 F. Massetti, Ritualità ed immagini
In primo luogo fu imposta sul capo del sovrano la mitra clericale, sopra la
quale fu posta la corona regia. Nell’ordo coronationis l’imposizione della corona
da parte del pontefice era accompagnata dall’esortazione a condurre
un’esistenza all’insegna della giustizia e della misericordia, sì da ricevere da
Cristo una corona ancor più preziosa, la corona del Regno Eterno209:
Accipe signum gloriae, diadema regni, coronam imperii, in nomine Patris et Filii et Spiritus
sancti, ut spreto antiquo hoste spretisque contagiis vitiorum omnium sic iustitiam diligas, et ita
iuste et misericorditer et pie vivas. Ut ab ipso Domino nostro Iesu Christo in consortio
sanctorum aeterni regni coronam percipias. 210
Il significato della consegna della corona, simbolo del potere regale per
eccellenza, e della mitra, definita da Innocenzo III “signum pontificii”, è piuttosto
chiaro: soltanto attraverso la mediazione del pontefice, depositario della
plenitudo potestatis in quanto Vicarius Christi, poteva essere assegnata ai sovrani
la pienezza dei poteri all’interno dei rispettivi regni. Resta comunque degno di
nota che il sovrano, nell’atto dell’incoronazione, ricevesse un copricapo
tipicamente ecclesiastico come la mitra. L’ordo coronationis consente di far luce
su tale aspetto, affermando esplicitamente che il sovrano consacrando diviene
confratello dei canonici; nello scambio dell’ “osculum pacis”, il sovrano agisce
come uno dei diaconi, “sicut unum ex diaconis”. Nell’Offertorio il sovrano agisce
addirittura “more subdiaconi”, servendo il papa con calice e ampolla. Questi
indizi, nel loro insieme, fanno apparire il sovrano non tanto quale biblico rex et
sacerdos, ma piuttosto quale membro della corpo ecclesiale al servizio
dell’autorità pontificale211.
Dopo la corona, il pontefice consegnò al sovrano aragonese lo scettro, che
nell’Ordo coronationis XIV (metà XII secolo) è presentato come segno della
potestà regia, da esercitare virtuosamente in difesa della santa Chiesa e del
popolo cristiano:
Accipe sceptrum regie potestatis insigne, virgam scilicet rectam regni, virgam virtutis qua te
ipsum bene regas, sanctam ecclesiam populumque christianum tibi a Deo commissum regia
virtute ab improbis defendas, pravos corrigas, rectos pacifices, et ut viam rectam tenere possint
tuo juvamine dirigas, quatenus de temporali regno ad aeterneum pervenias, ipso adiuvante
cujus regnum et imperium secula sine fine permanent in seculorum. 212
209 Ivi, p. 129. 210 Ordo coronationis XVII, cit., p. 66.
211 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 129. 212 “Ordo coronationis XIV“, in Ordines coronationis imperialis, cit., pp. 35-47, in particolare p. 44.
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43 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Lo scettro rappresentava idealmente lo strumento per correggere i
malvagi e stabilire la retta via, al fine di pervenire dal regno temporale al regno
eterno.
Quanto al globo aureo, esso era stato introdotto nel rituale
dell’incoronazione imperiale da Enrico VI, in sostituzione dell’anello imperiale.
Chiamato nelle fonti malum o pomum aureum, il globo aureo era simbolo del
dominio del mondo, anticamente attribuito a Roma, domina mundi.
Nell’interpretatio cristiana la croce aveva sostituito simboli pagani come la
Vittoria, la Fenice o l’Aquila, che originariamente sormontavano il globo213. Tra
tutte le “regia insignia”, il globo aureo è forse quella che stride maggiormente
nella cerimonia di incoronazione di Pietro II, poiché l’universalità del potere
insita nel simbolo si poteva difficilmente attribuire ad una potenza regionale
quale era il Regno d’Aragona all’inizio del XIII secolo.
Colobio e manto non erano invece oggetto di una consegna solenne da
parte del pontefice, ma facevano parte degli indumenti rituali indossati dal
sovrano incoronato. Il colobio era una tunica di uso liturgico, glossata dal Du
Cange come “tunica absque manicis, vel certe cum manicis, sed brevioribus, quae ad
cubitum vix pertinerent”214. Esso si distingueva dunque dalla dalmatica poiché
privo di maniche o dotato di maniche corte. Degna di nota è poi l’antica
connessione fra il colobio e il diaconato215, alla luce dello status diaconale
esplicitamente attribuito al sovrano nell’ordo coronationis XVIII.
Stando all’Ordo coronationis XIV, il manto doveva essere tolto in segno di
umiltà al momento della preparazione delle offerte e indossato nuovamente dal
sovrano al momento della comunione:
Imperator extrahit pluviale et induitur manto proprio. Cum dicitur Pax Domini, ascendit ad
communicandum indutus proprio manto216.
Nell’Ordo coronationis XVIII il manto viene invece deposto insieme alla
corona prima dell’Offertorio e nuovamente indossato dopo la comunione217:
Imperator corona et manto depositis accedit ad summum pontificem […] sacramque
communionem de manu eius suscipiat cum osculo pacis et sic ad thalamum rediens in
ambonem resumat mantum partier et coronam. 218
213 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 129; 135 n. 52; P.E. Schramm, Kaiser,
Röm und Renovatio: Stdien zur Geschichte des römischen Erneurungsgedankens vome Ende des
karolignischen Reiches bis zum Investiturstreit, Darmstadt 1962, I, p. 303. 214 ducange.enc.sorbonne.fr/COLOBIUM (5 maggio 2014). 215 W.H. Pinnock, Laws and Usages of the Church and the Clergy, Oxford 1861, pp. 954, 1020. 216 “Ordo coronationis XIV”, cit., p. 46. 217 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit., p. 130.
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44 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Al fine di comprendere pienamente il valore simbolico della consegna
cerimoniale delle insegne regali da parte del pontefice, riteniamo
particolarmente rilevante un passo centrale del Constitutum Constantini, nel
quale papa Silvestro riceve da Costantino i simboli del regnum:
Pro quo concedimus ipsis sanctis apostolis, dominis meis, beatissimis Petro et Paulo et per eos
etiam beato Silvestro patri nostro, summo pontifici et universalis urbis Romae papae, et
omnibus eius successoribus […] diademam videlicet coronam capitis nostri simulque frygium
nec et non et superhumerale, videlicet lorum, qui imperiale circumdare assolet collum, verum
etiam et clamidem purpuream atque tunicam coccineam, et omnia imperialia indumenta seu
dignitatem imperialium praesidentium equitum, conferentes etiam et imperialia sceptra
simulque et conta atque signa, banda etiam et diversa ornamenta imperialia. 219
Benché il Constitutum Constantini non sia stato invocato dal Innocenzo III
per rivendicare la piena sovranità su tutta la cristianità occidentale, ivi
compresa l’Aragona, è indiscutibile la sua importanza nell’elaborazione di
simboli e rituali legati all’autorità papale, come abbiamo cercato di mostrare in
precedenza. Nel caso specifico, il Constitutum Constantini contribuì in modo
decisivo all’affermazione dell’idea per cui soltanto il pontefice, unico detentore
della plenitudo potestatis, potesse dispensare le insegne dell’imperium, donate a
Silvestro e ai suoi successori sul soglio di Pietro, dando una fondamentale
conferma sacrale all’autorità temporale.
Una speciale menzione merita il luogo e dell’incoronazione, la chiesa di
san Pancrazio, scelta per motivazioni di ordine pratico e simbolico. In primis, si
trattava di una chiesa di notevoli dimensioni, in grado di accogliere un gran
numero di persone, ed era posta ad una distanza ragionevole per una
processione fino a San Pietro. Era inoltre una chiesa situata fuori dalle mura
urbiche, e ciò toglieva spazio ad ogni possibile rivendicazione di diritti
giurisdizionali su Roma da parte della corona aragonese. Infine, la chiesa di san
Pancrazio si trovava in un area sotto la crescente l’influenza del vescovo di
Porto, il cardinale che compì l’unzione sacramentale del re.
Dal punto di vista simbolico, la chiesa di san Pancrazio era un luogo assai
significativo per prestare un giuramento di fedeltà, poiché il santo titolare era
ritenuto patrono dei giuramenti e scopritore degli spergiuri, come ricorda
Gregorio di Tours nel De Gloria Martyrum:
Ex hoc enim quisque fidem cuiuscumque rei ab alio voluerit elicere, ut verum cognoscat, non
aliter nisi ad huius (sc. beati Pancrathi) basilicam destinato. Nam ferunt, plerosque iuxta
basilicas apostolorum sive aliorum martyrum commanentes non alibi pro hac necessitate nisi
218 “Ordo coronationis XVII”, cit., p. 68. 219 “Constitutum Constantini”, cit., pp. 86-88.
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45 F. Massetti, Ritualità ed immagini
templum expetere beati Panchrati, ut, eius severitatis censura publice discernente, aut veritatem
audientes credant, aut pro fallatia iudicium beati martyris experiantur. 220
Il giuramento pronunciato da Pietro II al cospetto del pontefice ci è noto
soltanto attraverso i Gesta Innocentii, poiché esso manca nei Registri di
Innocenzo III. Ne riportiamo di seguito il dettato:
Ego Petrus, rex Aragonum, profiter et polliceor quod semper ero fidelis et obediens domino
meo papae Innocentio, eiusque catholicis successoribus, et ecclesiae Romanae, regnumque
meum in ipsius obedientia fideliter conservabo, defendens fidem catholicam, et persequens
haereticam pravitatem. Libertatem et immunitatem Ecclesiae custodiam, et earum iura
defendam. In omni terra potestati meae subiecta pacem et iustitiam servare studebo. Sic me
Deus adiuvet et haec sancta Evangelia. 221
Smith ha messo in chiaro che nel giuramento non si fa menzione di feudi e
vassalli. Il giuramento di fedeltà pronunciato da Pietro era piuttosto usuale nel
mondo mediterraneo, e non fu accompagnato da omaggio vassallatico222.
D’altra parte Fried ha evidenziato che il giuramento era diverso sia da quello
prestato dagli ufficiali e dai sottoposti del pontefice, sia da quello pronunciato
dai sovrani di Sicilia e da Giovanni I d’Inghilterra, formalmente vassalli del
pontefice223.
Pietro prometteva di mantenere la pace, di combattere l’eresia e di
difendere la Chiesa, dichiarandosi “fidelis et obediens” a Innocenzo III, ai suoi
successori e alla Chiesa Romana. Non andava tuttavia oltre tali impegni224.
Benché Innocenzo confermasse Pietro nella sua regalità, l’incoronazione
non fu l’atto costitutivo attraverso cui egli divenne re d’Aragona. L’unzione
ebbe sicuramente un effetto sacralizzante, ma la validità del potere regio, nella
prospettiva del sovrano aragonese, restava fondata sull’origine divina del
potere, sulla successione ereditaria e sulla conquista militare225.
L’interruzione dell’opera ad annum 1208 risparmiò peraltro all’autore dei
Gesta Innocentii l’imbarazzo di dover constatare che Pietro II non avrebbe dato
troppa rilevanza al giuramento solenne pronunciato a San Pancrazio di fronte al
patrono dei giuramenti226. Dopo aver combattuto l’eresia nel regno d’Aragona
220 Gregorius Turonensis, “De gloria martyrum”, in MGH, Scriptores rerum Merovingicarum, 1, p.
63. 221 GI, pp. 306-307. 222 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 56-57. 223 J. Fried, Der päpstliche Schutz für Laienfürsten. Die politische Geschichte des päpstlichen
Schutzprivilegs für Laien (11.–13. Jahrhundert) («Abhandlungen der Heidelberger Akademie der
Wissenschaften, Phil.-hist. Kl.», Jg. 1980, Nr. 1), Heidelberg 1980, p. 219. 224 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57; Fried, Der päpstliche Schutz, cit., p. 219. 225 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57. 226 Gress-Wright, The «Gesta Innocentii»…, cit., p. 98*.
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46 F. Massetti, Ritualità ed immagini
ed aver riportato una vittoria epocale sugli Almohadi a Las Navas de Tolosa
(1212), il 12 settembre 1213 Pietro II morì nella battaglia di Muret, combattendo
contro l’esercito crociato di Simone di Montfort, benedetto da Innocenzo III.
Soltanto un decreto di Urbano II salvò il sovrano aragonese dalla scomunica:
poiché l’Aragona era posta sotto la protezione della Sede Apostolica, il sovrano
avrebbe potuto essere scomunicato solo a seguito di un pronunciamento del
pontefice. In ogni caso, schierandosi contro l’esercito crociato, Pietro II era
palesemente venuto meno al giuramento pronunciato al cospetto del pontefice
di combattere l’eresia e difendere la Chiesa227.
Tornando alla cerimonia di incoronazione, per la seconda parte Innocenzo
III scelse lo scenario liturgico più solenne: la basilica petrina. Veniva così ad
essere ulteriormente rafforzato il parallelismo con il cerimoniale di
incoronazione imperiale.
Il sovrano, solennemente incoronato, giunse in processione a San Pietro tra
lodi ed applausi. Dopo aver deposto lo scettro e il diadema regale sull’altare
maggiore, rafforzando così l’idea che le insegne del potere regale gli erano state
concesse attraverso la mediazione del successore di Pietro e vicario di Cristo,
Pietro II ricevette dal pontefice la spada:
Deinde prefatus rex cum multo laudis praeconio et favoris applausu coronatus rediit iuxta
dominum papam ad basilicam Sancti Petri, super cuius altare sceptrum et diadema posuit, et de
manu eiusdem domini papae militarem ensem accepit228.
Nell’Ordo coronationis XIV la consegna della spada era accompagnata da
una solenne esortazione ad usarla al servizio della Chiesa229:
Accipe hunc gladium cum Dei benedictione tibi collatum, in quo per virtutem Spiritus Sanctus
resistere et ejicere omnes inimicos tuos et cunctos sancte Ecclesie inimicos, regnumque tibi
commissum tutari atque protegere castra Dei, per auxilium illustrissimi triumphatoris domini
nostri Ihesu Christi, cum Patre in unitate Spiritus Sancti vivit et regnat in omnia secula
seculorum230.
La spada, dunque, ricordava al sovrano il dovere di difendere la Chiesa e
di combattere i suoi nemici, ma non era la sanzione di un’investitura feudale,
come ha rimarcato Smith231. Dopo la consegna della spada, Pietro II depose
227 Sulla posizione assunta da Pietro II in merito alla crociata albigese, fino alla fatale sconfitta di
Muret, si vedano: D. Smith, “Peter of Aragon, Innocent III and the Albigensian Crusade”, in
Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., II, pp. 1049-1064; Id., Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp.
79-141. 228 GI, p. 307. 229 Zug Tucci, Le incoronazioni imperiali nel Medioevo, cit. p. 130. 230 “Ordo coronationis XIV”, cit., p. 43. 231 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57.
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47 F. Massetti, Ritualità ed immagini
sull’altare il documento232 con il quale rinnovò l’offerta a San Pietro del regno
d’Aragona, insieme ad un censo annuale:
Cum corde credam et ore confiteor, quod Romanus pontifex, qui est beati Petri successor,
vicarius sit illius per quem reges regnant et principes principantur, qui dominantur in regno
hominum, et cui voluerit dabit. Ego, Petrus, Dei gratia rex Aragonum, comes Barcinone, et
dominus Montis Pessulani, cupiens principaliter post Deum beati Petri et apostolice sedis
protectione muniri, tibi, reverendissime Pater et domine summe pontifex Innocentii, et per te
Sacrosanctae Romanae Ecclesiae offero regnum meum, illudque tibi et successoribus tuis in
perpetuum, divini amoris intuitu, et pro remedio anime mee et progenitorum nostrorum,
constituo censuale, et annuatim de camera regis ducente quadraginta massemutine apostolicae
sedi reddantur, et ego ac successores mei specialiter ei fideles et obnoxii teneamur. Hoc autem
lege perpetua servandum fore decernens, quia spero firmiter et confido quod tu et successores
tui, me ac successores meos, et regnum predictum auctoritate apostolica defendetis, presertim
cum ex multo devotionis affectu, me ad sedem apostolicam accedentem tuis quasi beati Petri
manibus in regem duxeritis solemniter coronandum. Ut autem hec regalis concessio
inviolabilem obtineat firmitatem, de consilio procerum curie mee, praesente venerabili Patre
meo, Arelatensi archiepiscopo, et Sancio patruo meo, et Hugone de Baucio, et Arnaldo de
Fauciano, baronibus meis, sigilli mei feci munimine roborari. Actum Rome, apud Sanctum
Petrum, anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo quarto, tertio Idus Novembris,
anno regni mei octavo. 233
Nel documento Pietro II confessa solennemente la sua fede nel pontefice
quale successore di Pietro e vicario di Cristo234, vale a dire vicario di Colui
attraverso il quale esercitano il proprio potere i re ed i principi, come
annunciato in Proverbi 15, 16. Cristo, di cui il pontefice è vicario, è dunque
riconosciuto come la fonte di ogni autorità sulla terra.
Dopo aver elencato tutti i suoi titoli di sovrano (re d’Aragona, conte di
Barcellona e signore di Montpellier), Pietro procede ad offrire in perpetuo il suo
regno alla Chiesa di Roma, nella persona di Innocenzo III, per ispirazione
divina e per la salvezza della sua anima. L’offerta del regno viene
accompagnata da un censo di 240 mazmudins235 da corrispondere annualmente
alla Sede Apostolica236. La concessione è convalidata dai proceres della corte di
Pietro II, alla presenza dell’arcivescovo di Arles, dello zio del sovrano, Sancio, e
di importanti baroni quali Hugh de le Baux e Arnau de Foixà237. In cambio
Pietro II chiede la protezione del pontefice, dalle cui mani è stato incoronato,
232 Come il giuramento di Pietro II a San Pancrazio, il documento ci è giunto soltanto attraverso i
Gesta Innocentii III (Gesta di Innocenzo III, cit., p. 251 n. 167). 233 GI, pp. 307-308. 234 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 57. 235 Si tratta di monete auree ed argentee la cui circolazione nella Penisola iberica risale al tempo
del dominio islamico. Cfr. Gesta di Papa Innocenzo III, cit., p. 251 n. 68. 236 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., pp. 44, 57. 237 Ivi, pp. 44-45.
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48 F. Massetti, Ritualità ed immagini
per sé e per i suoi successori sul trono d’Aragona238. Come ha notato Smith,
Pietro II si apprestava a ricevere dei significativi benefici in cambio di un prezzo
modesto239.
Compiuti i rituali, il sovrano aragonese fu condotto con il suo seguito a
San Paolo, dove erano state preparate le galee che lo ricondussero in patria,
dopo aver ricevuto la benedizione apostolica240:
His omnibus rite peractis, fecit eum dominus papa per Urbem ad ecclesiam Sancti Pauli deduci;
ubi, galeas inveniens praeparatas, intravit, et, apostolica benedictione munitus, ad propria
meruit cum prosperitate redire. 241
In conclusione, l’autore dei Gesta Innocenti III riporta il privilegio concesso
da Innocenzo III a Pietro II:
Cum quanta gloria et honore, tripudio et applausu, regium Rome de manu nostra in monasterio
beati Pancratii susceperis diadema, post quam per venerabilem fratrem nostrum portuensem
episcopum in regem fecimus te iniungi, tua sublimitas non ignorat ut dilectionis autem
affectum quem ad tuam habemus per exibitionem operis evidentius monstraremus. Regalia
insignia universa, mantum videlicet et colobium, sceptrum et pomum, coronam et mitram ad
opus tuum non minus pretiosa quam speciosa fecimus preparari, et ea liberalitate tibi
donavimus in signum gratie specialis. Tu vero tamquam devotus princeps et catholicus rex
super altare beati Petri apostolorum principis, regnum tuum nobis et per nos apostolice sedi
cum multo devotionis affectu per privilegii paginam obtulisti illud ei costituens in perpetuum
censuale firmiter promittendo, quod iuramentum fidelitatis et obedientie in coronatione tua
nobis exhibitum inviolabiliter observabis et ad illud exhibendum et observandum successores
tuos obligari volebas. Nos igitur gratiam tibi a nobis exhibitam ad successores tuos derivari
volentes, presentium auctoritate concedimus, ut cum ipsi decreverint coronati, coronam a sede
apostolica requierentes de speciali mandato per Terraconensem archiepiscopum apud
Cesaraugustam solemniter coronentur, prestita super predictis idonea cautione et quoniam iure
civili statutum est, ut mulieres maritorum honoribus decorentur, presentium auctoritate
concedimus, ut per manus eiusdem archiepiscopi eas licet coronari. Nulli ergo etc. nostre
concessionis etc. Si quis autem etc. 242
Il privilegio Cum quanta gloria fu emanato da Innocenzo III alcuni mesi
dopo la solenne incoronazione, il 16 giugno 1205243. Nel ricordo della cerimonia,
grande enfasi è posta sull’atmosfera di glorificazione e tripudio nella quale si è
svolta, come è sottolineato in apertura: “Cum quanta gloria et honore, tripudio et
applausu”. L’obiettivo del pontefice di risollevare il proprio prestigio attraverso
una cerimonia solenne fu pienamente conseguito.
238 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 44, 57. 239 Ivi, p. 57. 240 Ivi, p. 45. 241 GI, p. 308. 242 Ivi, pp. 308-309. 243 Gesta di Innocenzo III, cit., p. 251.
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49 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Alcune espressioni relative all’unzione del sovrano (“per venerabilem
fratrem nostrum portuensem episcopum in regem fecimus te inungi”) e alle
insegne imperiali (“Regalia insignia universa, mantum videlicet et colobium,
sceptrum et pomum, coronam et mitram”) mostrano che l’autore dei Gesta
Innocentii ha certamente utilizzato il testo del privilegio per scrivere il resoconto
della cerimonia. Molto interessante è poi la notizia per cui le stesse insegne sono
state realizzate appositamente per l’occasione, in segno di grazia speciale:
“mitram ad opus tuum non minus pretiosa quam speciosa fecimus preparari, et
ea liberalitate tibi donavimus in signum gratie specialis”.
Infine, le disposizioni del pontefice riguardo alle future incoronazioni dei
sovrani d’Aragona mostrano come nella curia papale fosse ben nota la
situazione del regno iberico. Il pontefice prescrisse che le future incoronazioni
dovessero tenersi a Saragozza, ma ad opera dell’arcivescovo di Tarragona,
mostrando di sapere che il processo di unificazione tra Catalogna ed Aragona
non si era ancora pienamente compiuto244.
L’incoronazione e la bolla Cum quanta gloria ebbero conseguenze
significative sulla corona aragonese, giacché il rispetto del cerimoniale stabilito
da Innocenzo III per l’incoronazione divenne fondamentale al fine di sancire la
piena legittimità del sovrano245. Ma le conseguenze andarono ben oltre
l’Aragona, poiché attraverso l’incoronazione di Pietro II la Chiesa di Roma
raggiunse idealmente l’apice della sua influenza sui poteri secolari,
indirizzandoli verso la propria concezione della cristianità come corpo di cui il
pontefice, vicario di Cristo, rappresentava il capo, da cui promanavano dignità
ed autorità246.
Non a caso l’Ostiense dichiarò che i sovrani che avessero voluto ricevere
l’unzione regale de novo avrebbero dovuto chiedere, come il sovrano aragonese,
il permesso del pontefice, dal quale traeva origine ogni dignità ecclesiastica.
L’esempio di Pietro II fu portato da Egidio da Perugia anche in riferimento ai
sovrani che intendessero ricevere direttamente dal pontefice la “potestas
gladii”247.
244 Smith, Innocent III and the Crown of Aragon, cit., p. 51. 245 Ivi, p. 58. 246 Ivi, pp. 57-59. 247 Ivi, p. 59.
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50 F. Massetti, Ritualità ed immagini
II.4. Le raffigurazioni artistiche del potere papale
La parte conclusiva dei Gesta Innocentii, secondo la tradizione propria delle
biografie papali del Liber Pontificalis, elenca le donazioni e le ordinazioni
compiute dal pontefice. Le donazioni sono presentate non solo come atti di
evergetismo, testimonianza della munificenza e liberalità del pontefice, ma
anche come segni dell’impegno profuso per il culto divino e l’ornamento delle
chiese:
Quantum vero munificus et studiosus exstiterit circa cultum et ornamentum ecclesiarum,
frequentia dona manifestant. 248
Oggetto del nostro precipuo interesse, in quest’ultimo capitolo, sono i
passi dei Gesta Innocentii relativi a due opere d’arte commissionate da
Innocenzo III, nelle quali trovano la più significativa traduzione iconografica le
istanze teologico-politiche ed ecclesiologiche sostenute dal pontefice nel suo
magistero, teso a delineare un’altissima concezione del papa, investito per
volontà divina della “plenitudo potestatis”249.
Il primo passo è relativo ad una preziosa stoffa di sciamito, rossa e
dorata250, che il pontefice ha donato alla basilica Lateranense:
Basilicae ergo Salvatoris, quae Constantiniana vocatur, contulit […] pretiosam vestem de
examero rubeo deauratam ab anteriori parte imaginem Salvatoris, et imagines beatae Virginis,
Iohannis Baptistae, principis apostolorum, et imperatoris, mirabiliter insignitas […] 251
La figura del Salvatore, cui la basilica Lateranense era originariamente
dedicata, occupa la parte centrale insieme alla Vergine e a San Giovanni
Battista, formando il gruppo della deësis252, tema iconografico di origine
bizantina. La figura di san Giovanni Battista possiede un duplice significato, in
quanto egli è presente anche in qualità di santo protettore della basilica
Lateranense253.
L’imperatore cui il testo dei Gesta Innocentii si riferisce mediante
antonomasia è Costantino, il fondatore della Basilica Salvatoris, dal suo nome
definita “Costantiniana”, come ricorda l’anonimo autore254. Costantino è
248 GI, p. 345. 249 J. Gardner, “Innocent III and His Influence on Roman Art of the Thirteenth Century”, in
Innocenzo III. Urbs et Orbis, cit., II, pp. 1245-1260, p. 1245. 250 Gesta di Innocenzo III, cit, p. 27. 251 GI, p. 345. 252 La figura di san Giovanni Battista era spesso sostituita da quella di san Giovanni Evangelista,
presente sul Calvario insieme alla Vergine. 253 Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1247. 254 Ivi, pp. 1246-1247.
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51 F. Massetti, Ritualità ed immagini
senz’altro una figura di rilievo nella rappresentazione innocenziana del potere
papale, poiché proprio nel Constitutum Constantini, vale la pena di ripeterlo, il
pontefice ha trovato un vastissimo patrimonio di riferimenti simbolici, che
abbiamo cercato di illustrare nel corso del nostro studio.
Emblematica è poi la presenza di san Pietro, “princeps apostolorum”, data
l’insistenza di Innocenzo III sul primato petrino e sul servizio apostolico del
pontefice, fin dal sermone pronunciato in occasione della sua consacrazione255.
Nella stoffa dell’altare maggiore della basilica lateranense, Julian Gardner
ha individuato in nuce tre Leitmotiv del papato di Innocenzo III: l’enfasi
sull’altare e sui suoi sacramenti, ben testimoniata dal De sacro altaris mysterio e
nel De missarum mysteriis, sulla figura del Salvatore256 e su San Pietro, con il
quale il pontefice giunse ad identificarsi, proclamandosi non più soltanto
successore dell’apostolo ma unico vero “Vicarius Christi”257.
Un’idea del forte effetto suscitato dal perduto antepedium lateranense può
essere data dal prezioso frontale di seta purpurea che decorava l’altare
maggiore del monastero benedettino di Kloister Rupertsberg, oggi conservato
nei Musées Royaux di Bruxelles. Databile attorno al 1230, l’antepedium presenta
al centro la figura del Salvatore in trono, attorniato dalla Vergine e da san
Pietro, che tiene le chiavi e la croce, simboli della sua potestà e del suo martirio;
vi è poi la figura della fondatrice Hildegardis, che si erge di fronte a Rupertus. Il
donatore Sifridus, prostrato a terra, è identificabile con l’arcivescovo di
Magonza Siegfried II von Eppstein258, il quale partecipò al IV Concilio
Lateranense e poté senz’altro ammirare l’antepedium donato da Innocenzo259.
Il secondo passo è invece legato alla basilica vaticana, cui il pontefice, già
canonico di San Pietro, riservò la quarta parte delle offerte provenienti da tutti i
“ministeria” della Chiesa di Roma. Dopo aver elencato i ricchi doni elargiti dal
pontefice alla basilica di San Pietro, l’autore dei Gesta Innocentii fa riferimento al
restauro dei mosaici della basilica petrina:
[…] Absidem eiusdem basilicae fecit decorari musivo, et in fronte ipsius basilicae fecit
restaurare musivum quod erat ex parte magna parte consumptum. 260
255 Vd. sez. II.1. 256 La devozione di Innocenzo III per il Salvatore trova la sua più importante testimonianza nella
collocazione dell’icona Acheropoieta nella cappella privata di San Lorenzo, nel palazzo
Lateranense (Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1251). 257 Ivi, p. 1247. 258 Nella sessione di apertura del IV concilio lateranense l’ostinata loquacità dell’arcivescovo di
Magonza suscitò la rabbia di Innocenzo III, che così lo redarguì: “Audias me modo, posthac
audiam te” (Gardner, Innocent III and His Influence on Roman Art, cit., p. 1247 n. 10). 259 Ibid. 260 GI, p. 346.
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52 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Il restauro del mosaico absidale di San Pietro fu senz’altro la più
importante committenza artistica di Innocenzo III261, costituendo la suprema
traduzione iconografica della concezione innocenziana dell’ufficio papale262.
I mosaici innocenziani sono andati distrutti nel 1592, durante i lavori di
realizzazione della basilica michelangiolesca, ma il programma iconografico è
stato tuttavia accuratamente documentato per mezzo di una copia conforme,
autenticata da un protonotario apostolico. Si sono inoltre salvati tre frammenti
dei mosaici, raffiguranti il busto di Innocenzo III, l’effigie dell’Ecclesia Romana
ed un tondo contenente una fenice, oggi conservati al Museo di Roma263.
Il tema iconografico originario del mosaico vaticano, ricostruito
indirettamente attraverso il testo delle iscrizioni absidali, doveva presentare la
Traditio legis, la consegna della Legge ai principi degli apostoli, Pietro e Paolo,
tema privo di diretti fondamenti scritturali neotestamentari che spesso si
accompagnava alla Traditio clavium, la consegna delle chiavi a Pietro, ispirata a
Matteo 16,19264.
Il mosaico innocenziano presentava nel registro superiore Cristo assiso in
trono265 e benedicente, affiancato da San Paolo a destra e da San Pietro a sinistra,
secondo lo schema della Traditio legis; i due apostoli sono raffigurati in
atteggiamento acclamante266.
Nel registro inferiore del fregio era raffigurata una teoria di agnelli uscenti
dalle città sante di Gerusalemme e Betlemme, convergenti al centro verso il
Trono dell’agnello (agnus Dei), posto in asse rispetto al Cristo in “maestà” e
affiancato da Innocenzo III e dall’Ecclesia Romana. Il Trono dell’agnello, dal
quale sgorga del sangue all’interno di un calice, a memoria del sacrificio di
Cristo, è stato messo in relazione con le elaborazioni teologiche innocenziane
261 V. Pace, “La committenza artistica di Innocenzo III dall’Urbe all’orbe”, in Innocenzo III. Urbs
et Orbis, cit., II, pp. 1226-1244, p. 1234; Iacobini, A., “EST HAEC SACRA PRINCIPIS AEDES:
The Vatican Basilica from Innocent III to Gregory IX (1198-1241)”, in W. Tronzo (a cura di), Saint
Peter’s in the Vatican, Cambridge 2005, pp. 49-63, qui p. 49. 262 Boyle, Innocent’s View of Himself, cit., p. 13. 263 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 45; Pace, La committenza artistica…, cit., p.
1226; S. Schmitt, “Die bildlichen Darstellungen Papst Innozenz' III”, in T. Frenz (a cura di), Papst
Innozenz III., Weichensteller der Geschichte Europas, Stuttgart 2000, pp. 21-50, pp. 23-24; Iacobini,
“EST HAEC SACRA…, cit., p. 49. 264 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 46; Pace, La committenza artistica…, cit., p.
1228. 265 L’immagine di Cristo assiso sul trono era un tema centrale nei programmi iconografici di
Innocenzo II, come testimonia il mosaico absidale di San Paolo, terminato sotto Onorio III
(Gardner, Innocent III and His Influence…, cit., pp. 1249-1250). 266 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1228, 1230; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…,
cit., p. 46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p. 50
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53 F. Massetti, Ritualità ed immagini
contenute nel De sacro altaris mysterio, ma tale iconografia è attestata già nel XII
secolo in ambiente romano (nella chiesa abbaziale di S. Elia a Nepi) ed è
possibile che facesse parte del programma figurativo originario del mosaico
absidale di San Pietro267.
Le due figure di Innocenzo III e dell’Ecclesia Romana, rispettivamente alla
destra e alla sinistra dell’agnus Dei, costituiscono un hapax iconografico. La
tradizione storiografica ha voluto vedere in queste due figure la
rappresentazione delle nozze mistiche fra il Vicario di Cristo e la Chiesa
romana, “sponsa Christi”268, un tema già sviluppato da Innocenzo III nel De
quadripartita specie nuptiarum e nel sermone Qui habet sponsam269. In realtà manca
un’esplicita connotazione iconografica in tal senso, specialmente a confronto
con una celebre raffigurazione delle nozze mistiche fra il pontefice e la Chiesa,
commissionata da Innocenzo III per Santa Maria in Trastevere270. Il rapporto
delle due figure con il Trono dell’agnello, evidente simbolo cristico, sembra
invece suggerire che tale gruppo debba essere letto alla luce dell’investitura
divina della Chiesa romana e del suo pontefice da parte di Cristo stesso271.
Il pontefice è significativamente incoronato dalla tiara, simbolo del
regnum272, in controtendenza rispetto all’iconografia monumentale romana,
nella quale i papi erano apparsi sempre a capo nudo, tranne rarissime
eccezioni273. La tiara, dunque, rappresenta il potere regale, ed insieme al pallio,
simbolo della pienezza dell’ufficio apostolico274, connota il pontefice della
«plenitudo potestatis», conferita direttamente da Cristo, simboleggiato
dall’agnus Dei. La figura del pontefice viene così a riassumere in sé la dignità
regale e sacerdotale del Cristo275. Innocenzo III è inoltre raffigurato con le mani
protese verso l’Ecclesia Romana, in un gesto inedito di carattere feudale, che
rimarca il ruolo del pontefice quale unico Vicario di Cristo, da lui investito del
governo della Chiesa276.
267 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1233; Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p.
46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., pp. 50-51. 268 Sulla concezione dell’Ecclesia Romana come Sponsa Christi si veda W. Imkamp, Das Kirchenbild
Innocenz’ III. (1198-1216) (Päpste und Papsttum 22), Stuttgart 1983, pp. 203-272. 269 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., pp. 46-47; Gardner, Innocent III and His
Influence…, cit., p. 1251. 270 Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1232. 271 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47. 272 Vd. sez. II.1. 273 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1231-1232. 274 Vd. sez. II.1 275 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p.
51. 276 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 47.
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54 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Molto interessante sotto il profilo iconografico è anche la figura
dell’Ecclesia Romana, giovane donna coronata da un diadema che la connota
come “imperatrix”, secondo un modello di ascendenza bizantina277. Il capo
coronato dell’Ecclesia era spesso contrapposto alla personificazione della
Sinagoga278, dal cui capo la corona cadeva, a significare il passaggio dall’antica
alla nuova alleanza279.
Una novità iconografica assoluta è costituita dal vessillo tenuto in mano
dall’Ecclesia Romana, raffigurante due chiavi, simbolo della “potestas ligandi ac
solvendi” affidata da Cristo a Pietro e da questi trasmessa ai suoi successori nella
Sede Apostolica. Innocenzo III commissionò dunque la prima raffigurazione
nella quale le chiavi, già attributo iconografico di san Pietro dal V secolo,
venivano ad essere strettamente legate alla Chiesa Romana. L’immagine delle
chiavi sarebbe divenuta già al tempo di Gregorio IX il simbolo inalberato dalle
truppe papali, che nel 1229 entrarono in Puglia esibendo gli “emblemi delle
Chiavi”280.
Particolarmente rilevante è l’interpretazione del rapporto fra le due figure
di Innocenzo III e dell’Ecclesia Romana data da padre Boyle. Rigettando una
lettura tesa alla mera glorificazione del potere pontificio, Boyle ha insistito sulla
concezione innocenziana del papato come servizio apostolico281. È assai
significativo che al di sotto di san Pietro non vi sia Innocenzo III ma l’Ecclesia
Romana, mentre il pontefice si trova sotto san Paolo. Pur nella sua forte
identificazione con il principe degli apostoli, Innocenzo III era perfettamente
consapevole che l’eredità petrina doveva passare necessariamente attraverso
l’unione con la Chiesa romana, dalla quale il pontefice riceveva in dote
“spiritualium plenitudinem et latitudinem temporalium”282, come affermato nel
sermone Qui habet sponsam283. Tuttavia Boyle ha mostrato come lo stesso
Innocenzo III si sentisse erede e successore non soltanto di Pietro ma anche di
Paolo. Nel sermone Duc in altum Innocenzo afferma che Gesù si rivolge solo a
Pietro quando ordina di prendere il largo, ma usa il plurale nell’esortazione a
gettare le reti della predicazione per “catturare” le anime, rivolgendosi in
questo caso sia a Pietro che a Paolo:
277 Ivi, p. 46; Iacobini, “EST HAEC SACRA…, cit., p. 51. 278 La contrapposizione fra Ecclesia e Synagoga divenne un motivo ricorrente nelle decorazioni
scultoree delle cattedrali francesi e tedesche del XIII secolo. Cfr. N. Rowe, The Jew, the Cathedral
and the Medieval City: Synagoga and Ecclesia in the Thirteenth Century, Cambridge 2011. 279 Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1231. 280 Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la Tiara…, cit., p. 20. 281 Boyle, Innocent III’s View of Himself, cit., pp. 13, 15. 282 Innocentius III Papa, Sermo III in consecratione pontificis, in PL 217, coll. 659-666, col. 665. 283 Boyle, Innocent III’s View of himself, cit., p. 13.
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Unde cum singulariter praemittitur ‘Duc in altum’, pluraliter subditur Et laxate retia in
capturam, quia solus Petrus tanquam universalis princeps Ecclesiae in altitudinem praelationis
ascendit, sed ipse cum Paulo retia praedicationi ad capiendos homines in Urbe laxavit. 284
Nel sermone, dunque, Roma è sia la profondità del primato supremo sulla
Chiesa, sia la profondità in cui sono gettate le reti della predicazione, facendo
del pontefice romano successore sia di Pietro che di Paolo nel suo ufficio di
dominio e servizio285.
Meritano attenzione, infine, le iscrizioni che illustrano il mosaico.
Valentino Pace si è soffermato sul bilinguismo delle scritte, eseguite sia in greco
che in latino. Benché questa particolarità sia in parte ascrivibile a mosaicisti di
provenienza siciliana, abituati al bilinguismo epigrafico, è da escludere che il
committente non abbia espresso il proprio consenso. La compresenza di greco e
latino assume allora una valenza ecumenica, a rimarcare il primato del papa sia
sulla Chiesa Occidentale che su quella Orientale, tornata in comunione con
Roma dopo l’esito della IV Crociata286.
Al di sotto del mosaico vi era inoltre una solenne scritta che glorificava il
ruolo della basilica di San Pietro:
SUMMA PETRI SEDES EST HAEC SACRA PRINCIPIS AEDES - MATER CUNCTARUM
DECOR ET DECUS ECCLESIARUM / DEVOTUS CHRISTO QUI IN TEMPLO ISTO - FLORES
VIRTUTIS CAPIET FRUCTUSQUE SALUTIS. 287
Maccarone, analizzando l’iscrizione, ha evidenziato che per “sedes” non si
deve intendere né la Cattedra di Pietro, né il trono dell’agnus Dei raffigurato nel
mosaico, ma la basilica di San Pietro: Innocenzo III, convinto sostenitore del
primato petrino e già canonico di San Pietro, volle sancire con questa iscrizione
il nuovo status della basilica vaticana quale cattedrale di Roma, al pari della
basilica lateranense288. In una lettera del 1205 inviata al clero di Costantinopoli,
Innocenzo III affermò che Gesù Cristo aveva posto in Roma una “sedes stabilis”
sia al Laterano che al Vaticano289: “Christus ex tunc fecit Petrum stabilem sedem
habere, sive in Laterano, sive in Vaticano”290.
Per ribadire la pari dignità tra la basilica vaticana e quella lateranense, che
in passato si era fregiata in via esclusiva del titolo di “mater cunctarum
ecclesiarum”, Innocenzo III fece costruire una “palatium apostolicum” in Vaticano,
284 Innocentius III Papa, Sermo XXI in solemnitate D. apostolorum Petri et Pauli, cit., col. 557. 285 Boyle, Innocent III’s View of himself, cit., p. 14. 286 Pace, La committenza artistica…, cit., pp. 1230-1231. 287 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1352. 288 Ivi, pp. 1352-1353; cfr. Pace, La committenza artistica…, cit., p. 1233. 289 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1353. 290 Innocentius Papa III, Epistola CCIII, in PL 215, coll. 512-517, col. 513.
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56 F. Massetti, Ritualità ed immagini
senza per questo trasferire dal Laterano i maggiori uffici papali, come la
Cancelleria, la Camera e l’Elemosineria. In tal modo si realizzò pienamente,
anche sotto un punto di vista monumentale, la presenza di due sedi stabili291.
Conclusioni
Nella prima parte del nostro studio abbiamo introdotto i Gesta Innocentii III,
cercando di mostrarne gli elementi peculiari. Nel primo capitolo abbiamo
evidenziato il carattere di testo - biografia sui generis dell’opera, per l’alternanza
fra parti narrative, legate soprattutto alle azioni temporali del pontefice a Roma
e nel Lazio, e dossier documentari, relativi all’azione del papa quale guida
suprema della Cristianità. Inoltre l’opera non copre l’intero pontificato di
Innocenzo III (1198-1216), fermandosi al 1208. I Gesta Innocenti III non trattano
del Thronstreit, la lotta per la successione al potere imperiale, poiché con ogni
probabilità l’autore considerò già sufficienti le notizie contenute nel Regestum
super negotio Romani Imperii.
Nella seconda sezione abbiamo presentato le principali ipotesi di
attribuzione dell’opera. Alcuni elementi sono ormai unanimemente accettati:
l’anonimo autore aveva una solida cultura, in ambito sia teologico che
giuridico, era molto vicino al pontefice ed aveva accesso alla documentazione
prodotta nella cancelleria papale. Barone ha inoltre dimostrato la provenienza
romana dell’autore sulla base delle sue dettagliate conoscenze delle famiglie
aristocratiche e della topografia dell’Urbe. Gress-Wright, sulla base degli studi
di Paravicini Bagliani, ha identificato l’autore con Ottaviano, consanguineo di
Innocenzo III, camerlengo della Chiesa Romana fra 1200 e 1204, nominato dal
pontefice cardinale diacono presso i Santi Sergio e Bacco, la stessa diaconia retta
da Lotario dei conti di Segni prima dell’elezione papale. Gress-Wright si è
basato soprattutto sul parallelo con le Vitae scritte dal camerlengo bosone e
sugli aspetti patrimoniali e finanziari all’interno dei Gesta Innocenti III. L’opera
sarebbe stata iniziata nel 1203, per difendere l’operato del pontefice,
gravemente ammalato e apparentemente prossimo alla morte, e sarebbe stata
ampliata in seguito con dossier documentari legati al suo ruolo di guida della
Cristianità.
Barone ha invece proposto di attribuire l’opera al cardinale diacono
Giovanni del titolo di Santa Maria in Cosmedin, anch’egli consanguineo del
pontefice, cancelliere della Chiesa Romana. L’ipotesi ci sembra assai più
convincente, poiché la morte del cardinale Giovanni nel 1213 consente di
291 Maccarone, “La «cathedra sancti Petri»…, cit., p. 1353; cfr. Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la
Tiara…, cit., p. 46; Id., Il trono di Pietro, cit., p. 21.
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57 F. Massetti, Ritualità ed immagini
spiegare l’interruzione dell’opera ad annum 1208. Il cardinale Ottaviano, invece,
è sopravvissuto di circa venti anni ad Innocenzo, rendendo assai difficile
motivare l’interruzione dell’opera. La carica di cancelliere permette inoltre di
spiegare la grande familiarità dell’autore con la produzione documentaria
pontificia: egli non solo poteva attingere liberamente ai documenti, ma era
anche in grado di rielaborarli con piena padronanza.
La terza ipotesi, avanzata da Powell, ci sembra la meno convincente. Egli
ha proposto di attribuire l’opera al cardinale Pietro Beneventano, il compilatore
al quale si deve la Compilatio III, raccolta di decretali di Innocenzo III ed inviata
allo Studium di Bologna. Se la grande familiarità con la documentazione papale
potrebbe deporre a favore dell’ipotesi di Powell, l’origine campana ci sembra
inconciliabile con la forte identità romana dell’autore dei Gesta Innocentii. Come
Ottaviano, inoltre, Pietro sopravvisse a lungo ad Innocenzo III.
Nella seconda parte della nostra ricerca abbiamo presentato i passi dei
Gesta Innocentii a nostro avviso significativi al fine di evidenziare la grande
importanza attribuita da Innocenzo III alle rappresentazioni del potere papale.
Nella prima sezione di questa seconda parte abbiamo dettagliatamente
analizzato la cerimonia di consacrazione di Innocenzo III, fissata nel giorno
della Cathedra Petri, a ribadire fin dall’inizio del pontificato l’importanza
fondamentale del primato petrino. L’autore di Gesta Innocentii evidenzia la
piena consapevolezza del pontefice nel far coincidere la sua incattedrazione con
quella del princeps apostolorum. Proprio in età innocenziana si venne ad
affermare la credenza che la cattedra lignea conservata in Vaticano fosse
realmente la cattedra appartenuta all’apostolo Pietro, e non solo un antico e
venerabile seggio di uso liturgico.
Il sermone pronunciato da Innocenzo III in questa occasione, da noi
analizzato sulla base dei preziosi studi di padre Boyle, ha ulteriormente
rafforzato l’identificazione fra Pietro e il pontefice, che si proclamò
solennemente non solo “successor Petri” ma anche “vicarius Christi”, mediatore
fra cielo e terra e depositario della “potestas ligandi ac solvendi”.
Lo status di vicario di Cristo era poi ulteriormente sottolineato dai
paramenti liturgici indossati dal pontefice in occasione della festa della Cathedra
Petri: la vesta bianca alludeva alla resurrezione del Signore.
Se la cerimonia di consacrazione in San Pietro sancì la piena potestà
spirituale del pontefice quale vicario di Cristo, la successiva processione verso il
Laterano, nella quale il pontefice indossò la tiara, “signum pontificii”, ribadì la
sua piena sovranità temporale sull’Urbe, solennemente affermata nel
Constitutum Constantini, documento che ispirò Innocenzo III nella definizione
del valore simbolico dei paramenti papale. La solenne partecipazione delle
massime autorità civili ed ecclesiastiche, alla luce del pluridecennale conflitto
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58 F. Massetti, Ritualità ed immagini
fra Papato e Comune, conclusosi con la pace stipulata sotto il pontificato di
Clemente III nel 1188, ebbe la funzione di celebrare la rinnovata unità dell’Urbe
sotto la guida del suo pontefice. A nostro avviso, la solenne descrizione della
processione è stata inserita dall’autore anche quale anticipazione della politica
immediatamente perseguita da Innocenzo III al fine di ripristinare il controllo
sul Senato dopo la parentesi autonomistica di Benedetto Carushomo, ottenere la
piena fedeltà del prefetto urbano e nominare ufficiali di propria fiducia.
Nel seconda sezione abbiamo analizzato la lettera Sicut universitatis
conditor, il primo documento in cui Innocenzo III ha utilizzato l’immagine del
sole e della luna per rappresentare il rapporto fra papato ed Impero. La lettera
era diretta ad Acerbo Falseroni, console fiorentino e priore della Lega Toscana,
e ai rettori delle città del Ducato di Spoleto e della Toscana. L’autore dei Gesta
Innocentii ha riportato il testo della documento all’interno di una sezione
eminentemente narrativa, evidenziandone così l’importanza ai fini della
comprensione della politica ierocratica di Innocenzo III, fondata sulla
preminenza del sacerdotium rispetto al regnum. La luce del potere imperiale è
infatti inferiore per quantità, qualità, sede ed effetto alla luce del potere papale,
dalla quale trae il suo splendore.
Sulla base degli studi di Othmar Hageneder abbiamo cercato di spiegare il
cambiamento del dettato della lettera, che nella versione originale affermava
che il potere imperiale, rappresentato dalla luna, avrebbe brillato di luce più
intensa quanto più si fosse rivolto al sole del potere papale. Nella versione
corretta, invece, si afferma che la luce del potere imperiale è tanto più intensa
quanto più esso si allontana dal potere papale. Abbiamo cercato di mostrare che
la correzione è avvenuta in relazione alla lotta per la successione imperiale tra
Filippo di Svevia e Ottone IV di Brunswick.
È assai probabile che la correzione mirasse a suggerire all’imperatore di
occuparsi delle vicende interne alla Germania e non interferire nelle vicende
dell’Italia, dove era stato fissato per volere divino il “primatus” della Sede
Apostolica. D’altra parte lo stesso Constitutum Constantini, cui Innocenzo III ha
fatto riferimento in un suo celebre sermone su San Silvestro, stabiliva che
l’imperatore terreno non potesse fissare la sua dimora dove era stata posta
dall’Imperatore celeste la sede del potere sacerdotale. L’imperatore, dunque,
avrebbe dovuto volgersi al papato e stabilire con esso un rapporto di concordia,
evitando di ingerirsi negli affari italiani.
Nella terza sezione abbiamo analizzato la solenne incoronazione di Pietro
II d’Aragona, svoltasi a Roma il giorno di San Martino del 1204. Il sovrano
aragonese, in quest’occasione, rinnovò l’offerta del regno aragonese alla Sede
Apostolica, accompagnata da censo annuale. Abbiamo cercato di illustrare le
varie motivazioni politiche che potrebbero aver spinto Pietro II a farsi
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59 F. Massetti, Ritualità ed immagini
incoronare a Roma: dall’alleanza matrimoniale con Federico II alla necessità di
risollevare il prestigio della monarchia aragonese in un periodo di debolezza
interna, dalla ricerca di appoggi per l’opera di reconquista alla volontà di
presentarsi come campione dell’ortodossia nell’ambito della questione albigese,
fino alla difesa del potere aragonese nella Francia meridionale, motivazione
messa in particolare risalto dal seguito di importanti proceres provenzali che
accompagnò il sovrano a Roma.
Da parte sua, il pontefice intendeva risollevare il proprio prestigio nei
confronti di Roma e dell’intera cristianità. Da un lato egli mirava a riaffermare
la sua piena potestà sull’Urbe dopo il violento conflitto con il Comune fra 1203 e
1204, dall’altra, in un periodo in cui l’Impero era fortemente travagliato dalla
lotta per la successione al trono, egli voleva affermare l’influenza della Sede
Apostolica nelle vicende politiche della Cristianità, nonché mostrare che vi
erano altre potenti figure in grado di contendere la scena all’imperatore.
La descrizione del rituale di incoronazione suggerisce una forte analogia
con l’incoronazione imperiale. La diversità principale fu costituita dal luogo
scelto per la prima parte della solenne cerimonia: non la basilica di san Pietro,
ma la chiesa di San Pancrazio a Trastevere.
L’unzione fu impartita non dal vescovo di Ostia, come prevedeva l’ordo
coronationis, bensì da Pietro di Porto, amico del pontefice. Come l’imperatore, il
sovrano fu unto sul braccio e sulle scapole, a differenza dei vescovi, che
venivano unti sul capo come i sovrani biblici. L’unzione era peraltro
amministrata con l’olio dei catecumeni e non con il crisma. In una sua lettera al
vescovo di Trnovo, Innocenzo III avrebbe rimarcato tale differenza al fine di
affermare la supremazia del potere episcopale su quello regale. Il sovrano non
si presentava quale biblico rex et sacerdos, ma come sovrano temporale servitore
del sacerdotium.
La consegna delle insegne regali ribadì il parallelismo con il potere
imperiale: corona, tiara, scettro e pomo erano infatti i simboli dell’Imperium, il
supremo potere temporale da esercitare in difesa della Chiesa e contro i suoi
nemici. La solenne consegna di tali insegne regali, realizzate per l’occasione
quale segno di grazia speciale della Sede Apostolica, fu una chiara affermazione
del ruolo di mediazione svolto dal pontefice quale dispensatore e consacratore
dell’autorità temporale. Il pontefice si presentava infatti come vicario di Colui
attraverso il quale re e principi esercitavano il proprio potere, come annunciato
nei Proverbi.
Al cospetto di san Pancrazio, protettore dei giuramenti, Pietro II giurò
solennemente di impegnarsi nell’obbedienza alla Chiesa, nella difesa dei suoi
diritti e nella lotta contro l’eresia, mettendo in che il sovrano aragonese avrebbe
in seguito violato il giuramento, schierandosi contro i crociati di Simone
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60 F. Massetti, Ritualità ed immagini
Montfort nella battaglia di Muret (1213), ove avrebbe trovato la morte. Tale
circostanza non sembra comunque aver macchiato in modo indelebile la
memoria di Pietro II d’Aragona, dato che la sua incoronazione fu
successivamente richiamata come esempio dall’Ostiense e da Egidio da Perugia
e, ad oltre tre secoli di distanza, fu rappresentata per volere di Pio IV (1559-
1565) nella solenne cornice della Sala Regia vaticana, luogo privilegiato
dell’autorappresentazione papale.
L’ultima parte della cerimonia di incoronazione del sovrano aragonese si
svolse nella basilica vaticana, dove il sovrano ricevette la spada e depositò
solennemente sull’altare il documento con il quale offriva a san Pietro il regno
d’Aragona e un censo di 250 mazmudins, chiedendo in cambio la protezione del
pontefice, apertamente riconosciuto come Vicarius Christi.
Benché la cerimonia di incoronazione non si sia stata una vera e propria
investitura feudale, il pontefice ne uscì senz’altro rafforzato sul piano ideale. Le
conseguenze andarono ben oltre il regno d’Aragona, poiché attraverso
l’incoronazione di Pietro II la Chiesa Roma raggiunse idealmente l’apice della
sua influenza sui poteri secolari, orientandoli verso la propria concezione della
Cristianità come un unico corpo le cui membra facevano capo al pontefice,
vicario di Cristo, da cui promanava ogni autorità e dignità.
Nella quarta ed ultima sezione abbiamo considerato l’uso delle opere
artistiche al fine di rappresentare la dignità e l’autorità del pontefice. La prima
opera è un antepedium nel quale sono raffigurati il Salvatore, la Vergine, San
Giovanni Battista San Pietro e Costantino. Vi trovano espressione alcuni dei più
temi cari al magistero di Innocenzo: il primato petrino, l’eredità costantiniana e
l’enfasi sull’altare e i suoi sacramenti.
La seconda opera, che costituì la principale committenza artistica di
Innocenzo III, è il mosaico dell’abside lateranense, attestato da disegni realizzati
prima della sua distruzione, avvenuta in occasione del rifacimento della basilica
vaticana alla fine del XVI secolo. Nel registro superiore vi è raffigurato Cristo in
maestà, ai lati del quale si trovano, in posizione adorante, Pietro e Paolo. Nel
registro inferiore si trova un vero e proprio hapax iconografico: ai lati dell’agnus
Dei sono raffigurati Innocenzo III e la personificazione dell’Ecclesia Romana. Il
pontefice è rappresentato nella sua “plenitudo potestatis”, espressa dalla
compresenza della tiara, simbolo del potere temporale, e dal pallio, simbolo
della pienezza dell’autorità pontificale.
Particolarmente interessante è poi la figura dell’Ecclesia Romana, giacché la
chiavi raffigurate nel suo stendardo rappresentano la “potestas ligandi ac
solvendi” della Chiesa di Roma. Potrebbe sorprendere la presenza dell’Ecclesia
Romana e non di Innocenzo III al di sotto di san Pietro, ma ciò si può
comprendere bene se si rinuncia a vedere nel mosaico una semplice
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61 F. Massetti, Ritualità ed immagini
glorificazione del potere papale. Come ha ben mostrato padre Boyle, nel
mosaico trova espressione l’altissima concezione del papato come servizio
apostolico. Innocenzo III ha infatti ereditato la guida della Chiesa soltanto in
virtù della sua unione con l’Ecclesia Romana, detentrice dell’eredità petrina.
Inoltre il pontefice è erede del solo Pietro in relazione al primato, ma di
entrambi i principi degli apostoli in relazione alla predicazione della retta
dottrina.
L’iscrizione posta al di sotto del mosaico proclamò la basilica petrina
«mater cunctarum ecclesiarum». Così Innocenzo III, forte assertore del primato
petrino e già fiero canonico di san Pietro, elevò la basilica Vaticana al rango di
cattedrale, al pari della basilica Lateranense. La Chiesa Romana ebbe così due
sedi stabili, una legata al primato di Pietro, l’altra all’eredità costantiniana,
testimoniando la pienezza dei poteri del pontefice.
Giunti al termine del nostro contributo, speriamo di essere riusciti a
illustrare in modo sufficientemente chiaro la straordinaria efficacia con la quale
Innocenzo III seppe far uso di un articolato apparato di immagini e rituali al
fine di sostenere e rafforzare le sue profonde elaborazioni teoretiche sul primato
petrino, augurandoci che in futuro le grandi possibilità offerte in tal senso dai
Gesta Innocentii III possano ispirare ulteriori approfondimenti.
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67 M. Parigini, La nuova peste
Ser Tommaso, Ser Pietro e il “mal francese”.
Testimonianze sull’insorgere dell’epidemia luetica in Italia agli esordi
dell’età moderna. Sintomi e cure (1)
di Marco Parigini
“Qualunque origine geografica si voglia attribuire alla sifilide, non c'è dubbio,
che furono i soldati e i mercenari francesi, spagnoli, svizzeri, tedeschi, i veicoli
del germe del Rinascimento, il Treponema pallido2”. Questo è ciò che afferma
Eugenia Tognotti3, il cui lavoro L’altra faccia di Venere, rappresenta uno dei testi
più importanti sull’impatto che il morbo ebbe in Italia.
Allorché, nel 1494, Carlo VIII percorse la penisola da nord a sud, per
rivendicare il proprio diritto dinastico sul Regno di Napoli, circa 60.000 soldati
e mercenari invasero la penisola, seguiti da centinaia di prostitute. Nonostante
le diverse reazioni che tale calata produsse, nella frammentata realtà politica
dell'epoca non furono pochi coloro che videro nell' evento un segno
dell'imminente Apocalisse4, confermato inoltre, dal dilagare di un morbo
sconosciuto, la sifilide, spaventoso come la lebbra, ma ancor più ripugnante e
causa di vergogna, prima che di sofferenza, poiché connesso alla pratica
sessuale.
1 La seguente trattazione costituisce una rielaborazione e al tempo stesso un approfondimento
della tesi triennale, redatta dal sottoscritto, dal titolo Il ”mal francese” in Italia tra il Quattrocento e
il Settecento, sostenuta presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni, della Sapienza
Università di Roma, nella sessione di Marzo 2013, relatore Renata Ago. 2 E. Tognotti, L'altra faccia di Venere, Sassari, 2006, p. 30. 3 Eugenia Tognotti è professore ordinario della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università
di Sassari, collaboratrice dell' Institut de l’Histoire de la Médecine et de la Santé di Ginevra,
collaborating center dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ed autrice, inoltre, d’importanti
testi di storia della medicina. 4 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, The Great Pox. French Disease in Renaissance Europe,
Yale, 1997, pp. 39-44.
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68 M. Parigini, La nuova peste
Fu proprio nell’accampamento di Fornovo, un villaggio sul fiume Taro,
dove si svolse la battaglia tra i resti dell’esercito di Carlo VIII di ritorno da
Napoli e le forze congiunte delle truppe spagnole e degli Stati italiani, che il
medico militare veneziano Marcello Cumano osservò quello che pare sia stato il
primo caso noto, o quantomeno registrato e diffuso, di pustole genitali5,
lasciandone questo ricordo:
Pustulae sive vesicae epidemiae. - 1495 in Italia ex uno influxu coelesti, dum me recepi in castris
Navarrae (Novarae) cum armigeris Dominorum Venetorum, Dominorum Mediolanensium,
plures armigeri et pedestres ex ebullitione humorum me vidisse attestor pati plures pustulas in
facie et per totum corpus, et incipientes communiter sub praeputio vel extra praeputium, sicut
granum milii, aut super castaneam (glandem), cum aliquali pruritu patientis. Aliquando
incipiebat pustula una in modum vesiculae parvae sine dolore, sed cum prurito, fricabant, et
inde ulcerabatur, tamquam formica corrosiva (serpigo exedens), et post aliquot dies incurrebant
in angustiis propter dolores in brachiis, cruribus pedibus, cum pustulis magnis. Omnes medici
periti cum difficultate curabant. Ego cum flebotomia in saphena, aliquando in basilica,
procedebam cum digerentibus, purgantibus, tandem unctionibus in locis necessariis, et
durabant pustulae super personam, tanquam leprosam, variolosam, per annum et plus, sine
medicinis. 6
Di lì in poi la sua diffusione a livello europeo divenne inarrestabile e
rapidissima, seguendo i così detti ”soldati di ventura”, o almeno i fortunati
sopravvissuti, nel loro ritorno in patria7. In Europa la Francia meridionale è la
prima ad essere colpita, Lione nel marzo del 1946, Besançon in aprile, Parigi in
autunno; le Fiandre e l’Olanda sono raggiunte nel 1496, l’Inghilterra, la Scozia e
la Germania nel 1497, l’Ungheria nel 1499, la Danimarca nel 1502. Alla fine del
XV secolo, tutta l’Europa e il bacino del mediterraneo sono colpiti8.
È poi rilevante che non pochi autori, alla ricerca del “paziente zero”, lo
abbiano individuato nel sovrano francese, responsabile dell'invasione e noto,
tra le altre cose, per i propri costumi sessuali piuttosto disinvolti9. In effetti egli
5 E. Tognotti, op. cit., pp. 37-38. 6 C.G. Gruner, “Aphrodisiacus, sive de lue venerea”, Jena, 1789, p. 52, in A. Corradi (a cura di),
Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna, 1973, p. 351. 7 E. Tognotti, op. cit., p. 37. 8 M. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale, Roma Bari, 1993, p. 443. 9 “Attesa la maniera licenziosa nella quale visse il monarca, è molto probabile che la sua
malattia fosse di tutt'altro genere e quella in conseguenza che dopo alcuni mesi cominciò a fare
guasto in tutta Italia e di lì si sparse in Europa, sarebbe d'origine reale e dovrebbe riferirsi a
quest'epoca”, in W. Roscoe, La vita e il pontificato di Leone X, Vol. I, traduzione del conte Bossi,
1816, p. 221. Tra gli autori che fecero riferimento al nuovo morbo, in relazione allo stato di
salute del sovrano francese, vi è anche Jean Molinet, storiografo ufficiale del ducato di
Borgogna, il quale scrive ironicamente che durante la campagna italiana il re “alla fine
conquistò la grosse vérole, una malattia violenta, orribile e abominevole dalla quale anche lui fu
colpito; e molte delle sue genti ritornate in Francia ne furono dolorosamente oppresse; ed
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69 M. Parigini, La nuova peste
si ammalò subito dopo l'entrata ad Asti ma, molto probabilmente, di una forma
peraltro leggera di vaiolo10.
Quindi il collegamento con la presenza delle truppe di Carlo VIII fu in
Italia del tutto immediato e, con ogni probabilità, corretto. Non a caso, la
malattia ottenne presto il soprannome di “mal francese”, e coloro che la
contrassero di “infranciosati” o “baroni di Francia”11, tuttavia, i francesi furono i
soli ad essere ritenuti portatori primi del male, almeno in Italia, senza che si
considerasse la reale eterogeneità che caratterizzava la composizione delle
truppe mercenarie discese nella penisola. O almeno questo fu ciò che avvenne
nei nostri territori. Dal canto loro, i francesi si riferivano alla malattia come al
“mal de Naples”12, avendola contratta proprio nel Mezzogiorno italiano. In
effetti, tanto gli italiani che i francesi, oltre a non aver chiaramente alcun motivo
di rivendicare i natali di un morbo tanto orribile, avevano registrato un dato
chiave: il contagio su larga scala era avvenuto sul suolo italiano in occasione
dell'invasione francese. Numerosissimi uomini e donne di origini disparate, che
si erano trovati a sostare, a vivere, per anni nei medesimi territori, con contatti
di varia sorta ed innegabile promiscuità sessuale, avevano favorito la
deflagrazione del flagello.
Ma soltanto francesi o napoletani i responsabili della diffusione della
nuova peste? E perché non altri ancora? Allo stato dei fatti, tra i soldati che
approdarono a Napoli non mancavano gli iberici che erano giunti al seguito di
Consalvo di Cordova, inviato nel regno italiano dai Re cattolici, i quali avevano
aderito alla lega anti-francese, nata il 31 marzo del 1495 a Venezia e alla quale
avevano aderito anche Massimiliano I e il Papa. E in effetti erano stati gli
spagnoli ad aver da poco conquistato il Nuovo mondo, precisamente dal quale,
secondo alcuni, era stato importato il male, prima di allora sconosciuto nel
Vecchio continente, e poi introdotto in quel crocevia di umanità che era la
penisola italiana, appunto dall'esercito comandato da Consalvo.
Tant’è che, sebbene non suffragata da alcun documento redatto da
europei, l’ipotesi non può essere esclusa allo stato degli studi. Anzi, è molto
essendo questa grave pestilenza sconosciuta prima del loro ritorno, essa fu chiamata malattia di
Napoli”. Si veda C. Quetel, Il mal francese, Milano, 1993, p. 17. 10 E. Tognotti, op. cit., pp. 32-33. 11 Nel suo poema Franceide, overo del mal francese. Poema giocoso, edito a Venezia nel 1629, Giovan
Battista Lalli, narra come Giunone, invidiosa del favore di cui la rivale Venere gode presso gli
umani, invii il male ai suoi estimatori: francesi ed italiani. Essi decidono chi tra loro debba
essere ritenuto responsabile del contagio, sfidandosi a Barletta; è proprio a seguito della vittoria
italiana che la spaventosa malattia viene identificata con il nome di 'mal francese', a scapito dei
perdenti, ma non certo con grande ristoro dei presunti vincitori. Si veda A. Tosti, Storie all'ombra
del mal francese, 1992, p. 17. 12 C. Quetel, op. cit., p. 18.
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70 M. Parigini, La nuova peste
probabile che proprio le truppe spagnole abbiano introdotto la sifilide in Italia,
provocandone la diffusione di massa una volta ritiratesi le milizie13.
Non ha in effetti dato frutti la tesi di coloro che hanno cercato, tra il XIX
secolo ed il successivo, di dimostrare che la malattia fosse esistita in Europa,
anche in epoca precolombiana14, riesumando ossa europee sepolte prima degli
anni Novanta del Quattrocento, e cercando sulla loro superficie e sui denti
tracce delle lesioni attribuibili alla lue15.
Simili investigazioni, per la verità, erano state tentate anche all’epoca dei
fatti, o poco più tardi, e non soltanto tra i resti umani: fra gli altri, il decano della
Facoltà di Medicina di Parigi, Guy Patin (e non fu l’unico) giunse a scomodare il
testo biblico. Nelle sacre scritture, infatti, si narra di una malattia che affliggeva
Giobbe con ulcere e dolori notturni alle ossa16, e che dunque sarebbe stata ben
più remota della conquista spagnola. Da ciò l'espressione diffusa di “mal di san
Job” o “lebbra di san Job”17. Proprio a questo si dovette il notevole intensificarsi,
in quegli anni, del culto che riguardava il personaggio biblico, al quale, per tale
motivo, furono dedicati molti dei primi ospedali sorti sul territorio italiano.
Il riferimento alla lebbra non può di certo apparire strano per un'epoca
travagliata da un male sconosciuto, ma ancora memore dell'altro temibile
morbo, allora in fase di scomparsa in Europa. Inoltre non era infrequente che le
due malattie venissero confuse nelle loro manifestazioni cutanee, e ad ogni
modo erano entrambe segno del peccato e manifestazione inconfutabile della
punizione divina. Come osservano Naphy e Spicer, autori dell’opera Plague.
Black Death and Pestilence in Europe, l'ipotesi, abbastanza diffusa, che la sifilide
non fosse altro che un nuovo tipo di lebbra, “aveva il grande vantaggio di
permettere una facile classificazione della malattia e, presumibilmente, di
curarla”18.
Tuttavia il legame con l'attività sessuale risultava maggiormente evidente
per quanto riguardava un morbo la cui prima manifestazione avveniva nell'area
genitale. Questo, comunque, non deve far pensare che fosse da subito del tutto
chiara la natura venerea della malattia alla scienza medica del tempo, ma
piuttosto che essa fosse sovente interpretata come sintomo dell'indecenza
sessuale della sua vittima. Si consideri infatti che “si presumeva che la sifilide
13 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., 1997, p. 16. 14 B.J. Baker, G.J. Armelagos, The Origin and Antiquity of Syphilis, in «Chicago Journals», vol. 29,
n. 5, 1988, p. 720. 15 C. Quetel, op. cit., pp. 50-51. 16 Ivi, pp. 47-48. 17 E. Tognotti, op. cit., pp. 48-49. 18 W. Naphy, A. Spicer, Plague. Black Death and Pestilence in Europe, Stroud, 2004, ed. consid.,
Bologna, 2006, p. 144.
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71 M. Parigini, La nuova peste
non potesse trasmettersi attraverso il sesso lecito (cioè quello tra persone
sposate)”19.
Francisco Lopez de Villalobos, nel 1498, fu il primo ad ipotizzare che
quello sessuale, totalmente inteso, fosse il canale principale di trasmissione de
“las bubas”, termine con cui egli si riferisce alla malattia, a partire dai suoi
sintomi più evidenti20.
Mal francese e Belpaese
Seppure si possa affermare con relativa sicurezza che il 1496 rappresentò l’anno
nel quale si registrò il picco del contagio in Italia, è al contrario assai arduo
stabilire il percorso e le direttrici della sua diffusione, in particolare a causa
delle difficoltà di reperimento di fonti attendibili. Sembrerebbe che il morbo si
sia propagato contemporaneamente in numerose città attraversando la penisola
secondo l’asse sud- nord, ovvero da Napoli a Roma e quindi l’Italia centrale, la
Lombardia ed infine il Veneto, nel triennio 1495-9821. Quel che si deve inoltre
notare è come in molti centri accanto al definizione “mal francese” ne ricorrano
altre come “mal delle tavelle” a Genova, “mal delle bolle” a Bologna e “mal
delle brofole” in Lombardia22.
Nel 1530 la malattia acquisisce il nome con cui è ancora nota, sifilide,
mutuandolo da quello di Sifilo, il pastore protagonista del poema Syphilis sive de
morbo gallico, scritto dal medico e letterato Girolamo Fracastoro23. Merito
dell’intellettuale padovano non è solo di aver fornito un nome alla malattia ma
anche, e soprattutto, quello di aver cercato di spiegare come il male riuscisse a
contagiare altre persone, fuoriuscendo dal corpo del malato, e ciò attraverso i
“seminaria”, particelle che nascono per generazione spontanea, materia viva e
animata da movimento, che penetra nell'organismo attraverso la respirazione
(quindi tramite l'aria, come accennato) o la dilatazione venosa e si fa strada
“attraverso i pori, e le vene e le arterie, in altre maggiori e da queste in altre,
spesso fino al cuore”24. Non di meno, riguardo il morbo luetico, l'autore ci dice
che può essere trasmesso per contatto diretto “ma non dopo ogni contatto né
rapidamente, ma solo se due corpi con mutuo contatto si riscaldano moltissimo,
19 Ivi, p. 145. 20 A. Roccasalva, Fracastoro medico, astronomo e poeta nella cultura del Cinquecento italiano, Genova,
2008, p. 37. 21 E. Tognotti, op. cit., p. 42. 22 L. Premuda, Da Fracastoro al Novecento, Venezia, 1996, pp. 37-38. 23 C. Quetel, op. cit., p. 61. 24 G. Fracastoro, in S. Ferrari, Il pensiero scientifico di Girolamo Fracastoro nel De contagione et
contagiosis morbis, Padova, 1927, ed. consid. 1941, p. 12.
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72 M. Parigini, La nuova peste
il che avviene principalmente nel coito per mezzo del quale la maggior parte
degli uomini fu infetta”25.
Infatti, mentre nel momento della deflagrazione del morbo luetico non è
del tutto immediata la deduzione della sua natura venerea, questa è ormai
quasi universalmente accettata quando Girolamo Fracastoro redige il suo
trattato sul contagio e prova ne è il brano sopra citato, estrapolato appunto dal
De contagione. Come fa notare Conforti26, è ragionevole sostenere che proprio la
sifilide, così evidentemente connessa con i rapporti sessuali, avesse contribuito
al superamento almeno parziale, della teoria medica circa le epidemie, per la
quale esse erano causate dalla “mala aria” intrisa di miasmi, sprigionatisi dal
terreno o derivanti da fenomeni celesti.
Come si è detto, l'epidemia, che era del tutto nuova nel continente, lo
invase senza concedere requie alla fine del XV secolo. Anche se, solo pochi anni
dopo, agli inizi del XVI, alcuni medici, constatata una lieve attenuazione della
sua virulenza, già ne prevedevano la prossima scomparsa, che veniva
pronosticata per la fine del secolo. Per l’appunto Falloppio nel 1564 la
considerava pressoché sconfitta, mentre medici più accorti come Fernel
intuivano una sua persistenza nei secoli, sebbene in forma attenuata, a meno di
un cambiamento netto dei costumi sessuali27.
A differenza della relativa facilità con cui è possibile ricostruire dinamiche
di diffusione di epidemie come vaiolo e tifo, ben note e spesso identificate da
magistrati e responsabili di sanità dell’epoca, l’individuazione dei casi di sifilide
presenta spesso degli ostacoli, in primis la discrepanza temporale tra contagio e
comparsa dei primi sintomi. Tuttavia anche le manifestazioni iniziali della
malattia, come il sifiloma primario, venivano spesso confuse con quelle relative
ad altri mali ed in ogni caso cronisti e memorialisti del tempo ritenevano
opportuno segnalarne i casi solo nel momento in cui essa assumeva forma
epidemica, colpendo un gran numero di persone28.
Tornando alla seconda metà degli anni Novanta del Quattrocento, nelle
cronache di molte città italiane si comincia a trovare traccia del nuovo,
misterioso morbo. Tra le prime ad essere infettate, si hanno, nel 1495, Como,
Cremona, Brescia e Genova, da dove Monsignor Agostino Giustiniani scrive nei
suoi Castigatissimi Annales che la comparsa del flagello è sicuramente connessa
25 G. Fracastoro, “De contagione et contagiosis morbis”, traduzione in A. Pastore, E. Peruzzi (a
cura di), Girolamo Fracastoro tra medicina, filosofia e scienza della natura, Atti del convegno
(Venezia - Padova, ottobre 2003), Firenze, 2003, p. 79. 26 M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, Dalla cura alla scienza. Malattia, salute e società nel
mondo occidentale, Milano, 2011, p. 166. 27 C. Quetel, op. cit., pp. 60-61. 28 E. Tognotti, op. cit., 2006, p. 37.
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73 M. Parigini, La nuova peste
all’inondazione del Tevere, verificatasi proprio quell'anno29. Afferma infatti
Giustiniani “Anchora questo anno o vero pigliò piede una specie di malattia
non più nominata, quanto per ricordo di viventi, né più sentita de passanti. I
francesi la nominano male Napolitano, Spagnoli et Italiani Mal Francese. Noi
genovesi il nominiamo tavelle”30. Sempre nel 1495 il morbo tocca la Toscana,
giungendo inizialmente a Pisa, dove viene registrata nel Memoriale da Giovanni
Portoveneri, che lo indica come “un certo vaiuolo grosso”31. Nello stesso anno la
sifilide colpisce con particolare violenza Firenze, dove viene notata da Luca
Landucci e dallo storico Pietro Parenti, che la appella “rogna franciosa” e
ricorda come in quegli stessi anni “in quasi tutte le parti del mondo si
distense”32. A gennaio è registrata dal Landucci la presenza in città del capitano
francese d'Aubigny (luogotenente di Carlo VIII), anch'egli vittima del morbo,
durante la campagna contro Ferdinando33.
Nel 1496, esattamente il 16 gennaio, la lue è registrata anche a Napoli da
Tommaso da Catania, il quale indica la data precisa del suo ingresso nella città:
il 16 gennaio. Degna di nota è anche l'indicazione dell'arrivo del male a Ferrara,
nel 1496, fornita dall'annalista Fra' Paolo Lignago. Egli, infatti, non manca di
sottolineare che questo “provene per li homini che hanno a che fare con donne
immonde”34.
Nella sua Cronaca, lo speziale Jacopino De' Bianchi segnala la malattia a
Modena nel 1497, descrivendone i sintomi ed in particolare le orribili
deturpazioni che seguivano, tra le quali la lacerazione della cartilagine del naso
e dei tessuti del pene35 negli uomini. Ciò che rende inoltre interessante l’opera
del De' Bianchi è l’identificazione di un presunto itinerario che il male avrebbe
seguito nella sua propagazione: “A Roma e le circostanzie e per tutte le cità de
Roma sino a Modena e anche Reze, Parma e a mio parere veniva da verso
Napule”36.
Nel 1498 la lue è attestata in Sicilia dallo storico Antonio Amico37.
29 Ivi, pp. 37-39. 30 Agostino Giustiniano Genovese, vescovo di Nebbio, “Castigatissimi Annali”, Genova, 1537, in
E. Tognotti, p. 39. 31 Ibidem. 32 Ivi, p. 40. 33 Ivi, p. 42. 34 Ivi, p. 38. 35 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., p. 26. 36 J. De' Bianchi, “Cronaca Modenese di Jacopino De' Bianchi, detto de' Lancellotti, Parma,
1861”, in E. Tognotti, op. cit., 2006, p. 42. 37 Ibidem.
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74 M. Parigini, La nuova peste
Un notaio con le “dogle”. Il Diario di Ser Tommaso
Allo stesso anno risale la testimonianza diretta di Tommaso di Silvestro, un
malato orvietano, che nel suo Diario d'Orvieto, iniziato già nel 1482, descrive la
sua esperienza, narrando i primi sintomi, dolori genitali e agli arti, seguiti dalle
“bruscialime”, croste che gli ricoprono il capo, ed infine dalle bolle tipiche della
malattia che lentamente compaiono su tutto il corpo38.
Come si è accennato poc’anzi, le Chroniche redatte in questo periodo sono
numerose e ricordano spesso l'epidemia luetica che colpì le comunità delle città
italiane sul finire del 1400. Tra tutte si è scelto di approfondire il testo del notaio
orvietano, in quanto in grado di offrirci la testimonianza diretta e personale di
un malato che osserva sul proprio corpo la comparsa degli orribili sintomi nel
momento iniziale della diffusione della malattia, quando ancora nulla si sa e si
sperimentano cure spesso dolorose e poco efficaci.
In via generale, Ser Tommaso tratta nel suo diario degli avvenimenti
macroscopici e microscopici che interessano Orvieto tra il 1482 ed il 1503,
raccontando morti, matrimoni, litigi, duelli, impiccagioni insieme ai periodi di
carestia, e i frequenti passaggi delle truppe straniere che attraversano la
Penisola sul finire del XV secolo per ordine di Carlo VIII.
In merito ai decessi, questi vengono elencati minuziosamente e in
particolare, quando le cause di morte sono malattie come la peste o il “mal
francioso”, i nomi dei defunti sono raggruppati al di sotto di un'intestazione che
indica il nome del morbo. Scopriamo così che la peste alle soglie del
Cinquecento continua a fare numerosissime vittime in Umbria39, mentre la lue,
probabilmente non ancora nel pieno della sua virulenza, uccide
sporadicamente. Lo stesso ser Tommaso si ammala al volgere del 1496 e torna
ad accusare sintomi violenti nella primavera del 1498.
Nell'autunno del 1496 il notaio scrive che “già era incomenzata la peste ad
pululare et anche uno male che se diciva mal francioso, et erane una grande
influentia intra la quale ad me me vennaro certe dogle, primo alle dinocchie,
alle feste de Natale dell'anno 1496, et da puoi, de jannaio, me caschò una grande
scesa”. Quindi ben presto si rende necessario ricorrere a “cinque sciloppi et una
presa de pillole”, nonostante i quali l'ammalato non guarisce, perchè più avanti
afferma: “me se scoprì certe dogle alla pronta della spalla mancha et per lo rene
38 J. Arrizabalaga, J. Henderson, R. French, op. cit., pp. 25-26. 39 Si vedano T. di Silvestro, Diario di Ser Tommaso da Silvestro, vol. I, Orvieto, 1503, ed. consid.,
Orvieto, 1891, pp. 64-73; pp. 82-83; pp. 87-88; pp. 99-100; pp. 109-130; p. 135; pp. 142-144; p. 190;
T. di Silvestro, vol. II, Orvieto, 1503, ed. consid., Orvieto, 1891, pp. 199-214; pp. 219-220; pp. 250-
252; pp. 255-257; pp. 259-261. T. di Silvestro, Diario di Ser Tommaso di Silvestro, Internet Archive,
Texts, 2011 ,
https://archive.org/stream/p5archiviomurato15fior/p5archiviomurato15fior_djvu.txt.
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75 M. Parigini, La nuova peste
et alle natiche. Et sì me duraro per fine at magie”40. Ser Tommaso non fa più
cenno alla sua malattia sino ai primi mesi del 1498, lasciando supporre una
momentanea scomparsa dei sintomi.
Ad aprile del suddetto anno, di ritorno da una fiera tenutasi a
Foligno,segnala una recrudescenza: “me incomenzò a dolere la verga, et da
puoi tuctavia omne dì cresceva lo male. Da puoi a dì octo de giugno me
incomenzaro ad venire le dogle del mal francioso. Et tucto lo capo me se impiè
de bruscialime, overo croste, come brusciate, et le dogle me vennaro allo braccio
dricto et allo mancho, adeo che tucto lo braccio, dalla spalla insino alla
congnuntura della mano, me dolivano l'ossa che non trovava mai riposo. Et da
puoi me vennaro le dogle allo dinocchio dricto, et ttucto me impiè de bolle,
tucto lo dosso di nante et derieto, adeo che, facta la festa del corpo, depo, io me
curai et medicinai et sanguinai”.
Il notaio, a questo punto, si sottopone al salasso e, assistito da un frate, tale
frate Oliviero, fa bagni immerso in essenze di erbe varie: “me lavò con un
bagnolo de vino et molte herbe come amaro, ruta, menta, trasmerino, lionoro,
salvia et altre herbe”. Nonostante un leggero miglioramento che permette al
malato di interrompere il periodo di letto ed iniziare nuovamente ad uscire di
casa, un ulteriore peggioramento del suo stato interviene nel giro di due
settimane: “Me rimase un grande male dentro alla bocca et da puoi, a dì XXIJ de
luglo, me venne un flusso che durò [lacuna] dì, del quale io me ne ebbe ad
morire. Et da puoi del mese di novembre me recomenzaro ad tornare le dogle
nella gamba, molto terribile”41. Ser Tommaso lascia supporre un netto
40 Ivi, pp. 86-87. Sulla natura e i sintomi del morbo come attualmente individuati si veda M.
Moroni, R. Esposito, F. De Lalla, Manuale di malattie infettive, Milano, 1994, pp. 490-493: la sifilide
si manifesta circa tre settimane dopo il contagio con un'ulcera pruriginosa di piccole dimensioni
nella zona genitale, che permane per circa un mese se misconosciuta. Segue la tumefazione dei
linfonodi inguinali, e dopo circa due mesi, un eritema rossaceo sul tronco e sugli arti, che poi si
organizza in pustole. Successivamente compaiono delle verruche bianche sulle mucose, spesso
accompagnate dalla caduta di capelli, febbre, stanchezza generale e mal di gola. Dopo circa 1-2
mesi, tuttavia, i sintomi regrediscono. La fase più drammatica, infatti, si manifesta dopo decine
di anni dal contagio, annunciata da placche gommose esterne (sulla pelle) e interne (sulla
superficie degli organi interni); possono comparire anche lesioni celebrali con conseguenti
paralisi e disturbi comportamentali irreversibili. La malattia pur avendo una storia naturale
severa, risponde bene alle comuni terapie antibiotiche e viene solitamente trattata con la
penicillina, che permette la guarigione senza reliquati nelle aree interessate se la cura viene
iniziata in tempo. Alla luce di tali dati scientifici, per le finalità del presente contributo è
importante sottolineare come la malattia presenti un lungo periodo di cessazione dei sintomi, il
che può spiegare il silenzio di Ser Tommaso al riguardo. 41 T. di Silvestro, op. cit., pp. 141-142. “As far as we know, this is the earliest and most detailed
account of the course of Mal Francese in Italy, drawn from the personal experience of a non-
medical man”, J. Arrizabalanga, J. Henderson, R. French, op. cit., p. 27.
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76 M. Parigini, La nuova peste
peggioramento, eppure questa è l'ultima occasione in cui il notaio scrive della
sifilide parlando della propria salute, mentre torna a nominarla più avanti come
causa del decesso di otto concittadini.
Nell'aprile del 1499, si riporta la morte di Agnilo d'Antonino, che “haviva
avuto male alla verga prima, ma de nove mese o forse uno anno et non ne guarì
mai, et de quello se disse che morì del mal francioso”42 e che, a differenza di ser
Tommaso, si ammala e muore nel giro di pochi mesi, senza alcun periodo di
miglioramento.
Nello stesso anno la sifilide uccide Machteio da Riparola, di cui tuttavia
l'autore non dice nient'altro43, mentre si dilunga, invece, sulla tremenda sorte
del giovane Cesare, figlio di Eusebio dell'Avedute, che “era stato male un anno
e mezo o circa de decto male, quale fu terribile, de piaghe grandissime nella
faccia per tucto, come se vediva, et nella mano, et anque credo, per tucto lo
dosso e nella verga, in tal modo che se morì”44. Come lui, nel gennaio del 1500,
muore Tradito de Nanne45. A marzo dello stesso anno vengono uccisi dal “mal
francioso” ser Michelagnolo, figlio del canonico di Santa Maria, Paulo
Dispenza, Madonna Margherita e Madonna Lucrezia46, uniche due donne
vittime della lue, di cui ser Tommaso faccia menzione.
L'ultimo sifilitico ricordato dal notaio orvietano è Salvestro de Andrea del
Calata, che muore nel 1503, dopo quattro anni di malattia “seccho, che pariva
uno legno”47.
Quindi il notaio documenta una comunità straziata dalla peste, ma ancora
poco colpita dal nuovo morbo che invece di lì a poco mieterà vittime per tutta la
Penisola. Tuttavia ser Tommaso non manca di segnalare puntualmente i casi di
contagio di “mal francioso”, così da farne constatare un'iniziale diffusione in
terra umbra.
Inoltre è opportuno tenere conto di un'altra questione strettamente
connessa con la malattia: il passaggio delle truppe straniere, che ovviamente
non manca di suscitare disagi e scalpore. Difatti, nel novembre del 1494, è
registrato l'arrivo di numerosi “uomini d'arme2 tra svizzeri e francesi, con
“qualche femine tedesche et franciose”48, nonché dello stesso Carlo VIII, che
però si ferma provvisoriamente a Viterbo. Tutta la città è in allarme: “adeo che lo
jovedì ad sera, ad dui hore de nocte andò un bando, che nisciuno andasse a
42 T. di Silvestro, op. cit., p. 157. 43 Ivi, p. 174. 44 Ivi, pp. 193-194. 45 Ivi, p. 194. 46 Ivi, p. 200. 47 Ivi, p. 359. 48 Ivi, p. 32.
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77 M. Parigini, La nuova peste
dormire, et che tucta la nocte se facesse buona guardia et cusì fu facto”49, infatti
“feciaro la dicta gente d'arme che passò per lo contado d'Orvieto, uno grande
dampno per tucta le castella” e “se pigliaro tucte quelli castelli intorno che
erano dell'Orsini, sì dellà dal Tevare, sì anche de quà, ed omna cosa misero ad
saccomanno”50.
È evidente la facilità con cui le truppe avanzano e conquistano, “quasi ad
modum senza colpo de spade”, come accade a Napoli, e ciò lascia credere a
molti, tra i quali lo stesso ser Tommaso, che essi facciano la volontà di Dio
anche perché “quello anno, overo questo anno, incomenzando dall'anno 1494 et
del mese de novembre, nel quale lo re de Francia comenzò ad venire verso el
Patrimonio, per fine al presente dì de ogie, che sonno a dì sey de marzo 1495,
sempre fu buono tempo quasi admodum et non piovette mai”51.
Nelle sporadiche occasioni in cui le armate incontrano una qualche forma
di resistenza nei loro spostamenti, non mancano di ricorrere alla brutale
violenza contro i cittadini. In particolare ser Tommaso ci offre testimonianza di
un episodio di notevole ferocia, che vede protagoniste le truppe svizzere di
strada per Orvieto, dove è appena giunto un cardinale ambasciatore del re: nel
giugno del 1495 centinaia di persone “intra donne, mammolette et molte
montanare, quale erano gite a mietere, et anche huomini della terra” tutti
“fuoro taglate ad pezze da Scvizzare et multe montanari fuoro ferite, delle quale
parte ne vennaro qua ad Orvieto et dissova essere stato cusì”52.
49 Ivi, p. 33. 50 Ivi, pp. 34-35. 51 Ivi, p. 37. 52 Ivi, p. 42.
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78 M. Parigini, La nuova peste
L’occhio del chirurgo. I 234 casi di Pietro Rostinio
Alla metà del 1500, il sospetto che ci deriva dalla lettura del testo sopracitato,
ovvero che i soldati di Carlo VIII fossero stati l’effettivo veicolo di trasmissione
del male lungo l’intero territorio della penisola italiana, è ormai assodato come
dato scientificamente certo da molti medici; uno tra i più importanti e noti è
Pietro Rostinio, nato a Pratalbonio, in provincia di Brescia, il quale apre il suo
trattato sulla malattia, edito nel 1559, con una breve introduzione, riguardante
l’origine del termine “mal francese” utilizzato per appellare la sifilide, nella
quale fa riferimento alla calata del sovrano francese, accennando inoltre ad una
presunta, splendida meretrice al seguito dei soldati francesi, che avrebbe
contagiato questi per via di “un'apostema putrefatta presente all’interno del suo
cavo orale, originando l'epidemia”53.
L’analisi di quest’opera, dal titolo Trattato del mal francese, in cui si discute
sopra 234 sorti di esso male & a quanti modi si può prender, causare, & guarire, e il
confronto di alcune informazioni in essa contenute con quelle estrapolate dal
diario di Tommaso di Silvestro ci permettono di evidenziare i cambiamenti
nelle conoscenze relative alla lue, avvenuti nell’arco di poco più di 50 anni,
nonché di sottolineare il differente approccio al male che emerge dai due scritti.
Infatti il più antico è produzione di un profano della medicina, l’altro invece di
un medico di grande fama.
Ser Tommaso si sottopone a diversi trattamenti sperando che questi lo
riconducano alla sanità: pillole e sciroppi, salassi e persino bagni aromatici
vengono utilizzati dal notaio in questa impari lotta contro il male allora
semisconosciuto. E nonostante la maggioranza delle volte tali rimedi paiano
essere inefficaci, non è da escludere che il notaio si ritenga comunque fortunato,
essendo risultato l’unico dei sopracitati sifilitici locali a resistere alla morte pur
ricevendo le stesse cure prestate agli altri ammalati. Infatti, pur senza trovare
un effettivo riscontro testuale, è ragionevole pensare che il trattamento clinico
fosse stato il medesimo per tutti.
Diametralmente diverso è l’approccio riscontrabile invece nel testo medico
tardocinquecentesco, in cui ogni sintomo osservato, studiato e catalogato, porta
con sé un diverso tipo di trattamento, che può variare a seconda di molti fattori
e condizioni. Per meglio fare luce su questo nuovo sguardo scientifico con il
quale si comincia ad osservare la malattia, si ritiene pertanto opportuno in
questa sede esaminare lo scritto stesso più approfonditamente. L’opera in
questione è suddivisa in tre parti fondamentali: una prima, in cui si tratta delle
53 Pietro Rostinio, Trattato del mal francese, dell’eccellente medico et dottore Pietro Rostinio, nel quale si
discorre sopra 234 sorti di esso male & a quanti modi si può prender, causare, & guarire, Venezia, 1559,
p. 21.
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79 M. Parigini, La nuova peste
234 possibili combinazioni dei vari sintomi della lue e si sviscerano le sue
caratteristiche peculiari relativamente all'origine e alle modalità di contagio;
una seconda, in cui vengono presentate le cure con cui affrontare il morbo; e
infine una terza consistente nell'esposizione di alcuni possibili quesiti circa l'uso
del “legno santo”, uno dei rimedi più popolari del tempo contro il male, e delle
relative risposte.
Già dal titolo si può intuire il radicale cambiamento nell’approccio al male;
infatti se sul finire del 1400 il morbo è praticamente sconosciuto, nell’arco di
poche decadi, il livello di conoscenza empirica arriva a livelli sorprendenti: solo
dal suddetto medico vengono individuate, durante la sua esperienza di cura, tre
forme base in cui la sifilide si manifesta “la prima delle quali ha pustole sole, e
cruste e questa si chiama rogna del mal francese, la seconda ha solamente dolori
e questa si chiama dolori del mal francese, la terza specie ha solamente tumori
durissimi e questa si chiama durezze galliche”54. Da esse deriverebbero quattro
ulteriori forme composite55: “rogna gallica con dolori”, “rogna gallica con
durissimi tumori”, “dolori gallici con durissimi tumori in più parti della
persona” e “rogna gallica con dolori e tumori”.
Nuovi e spaventosi sintomi vengono registrati come indicatori della
presenza del male nel corpo della persona, quali perdita della vista, perdita di
capelli e peli sull'intera superficie del corpo e caduta delle unghie e dei denti,
che, combinandosi con quelli precedentemente enunciati, danno vita a specie
estremamente complesse di lue, che Rostinio elenca, indicandone sempre quella
semplice, da cui derivano56. Dunque “Saranno (...) duegento e trentaquattro
specie, ouero modi di mal Francese, otto semplici, uent'otto per complicatione
di due semplici modi insieme, e cinquanta sei per complicatione insieme de tre
modi, e sessantaquattro per complicatione de quattro modi insieme, e
quarantasette per complicatione de cinque semplici modi, e uentidue per
complicatione de otto modi, e e otto per complicatione de sette semplici modi, e
uno solo modo per complicatione de tutti li otto modi insieme. Se uoi sumare,
saranno duegento e trentaquattro modi”57.
Il medico veneziano cerca inoltre di spiegare al lettore come il male possa
aver avuto origine e come abbia avuto una rapidissima propagazione. Si è detto
in precedenza, per quanto attiene alla vasta diffusione della sifilide nell’Italia
cinquecentesca, che alla metà del secolo la scienza medica ormai la imputava
prevalentemente all’atto sessuale in generale e cosi anche lo stesso Rostinio in
particolare che, come visto accenna anche ad una sorta di figura archetipica di
54 Ivi, p. 10. 55 Ivi, p. 11. 56 Ivi, pp. 11-17. 57 Ivi, p. 18.
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80 M. Parigini, La nuova peste
una “publica meretrice bellissma”, a causa della quale “questo male cominciò a
macular prima un’huomo, poscia due, et tre, et cento” seminando poi il male
per tutta la penisola58.
Circa le cause originarie che sarebbero state alla base dell'insorgere della
patologia fino ad allora sconosciuta, però, il medico veneto prende le distanze
dalle diffuse interpretazioni che vogliono la lue causata dai moti di Saturno o
dall'indignazione divina. Responsabile dell'originarsi della sifilide, scrive il
medico, “potè ben essere Saturno, qual'è giudicato pessimo pianeta, ma potero
anco esser gli altri insieme. Basta che per influentia, lume et moto, l'aere fu mal
disposto da' corpi celesti”59. Dunque non è l'anomalo corso del detto pianeta a
generare da solo le condizioni per l'insorgenza di una nuova malattia, bensì, più
probabilmente, un generale insolito allineamento celeste, che provoca una
“mala disposizione dell'aere”60 e conseguentemente eccessiva pioggia,
straripamenti e innalzamento dell'umidità, causa diretta di mali fino ad allora
mai esperiti, almeno a memoria d'uomo. Prendendo per certa, a differenza di
molti colleghi61, l’ipotesi che questo male mai si fosse presentato in precedenza,
scrive il medico: “Noi dicemo che ‘l mal francese è male nuovo, di cui niuno
giammai fece mentione, ne lo conobbe mai se non a questi tempi. Ma è cosa
manifestissima che li generan nuovi mali, come si può vedere negl’ historici, i
quali dicono che molte volte si son generati nuovi mali, i quali dinanzi mai
furono visti ne pensati”62.
Inoltre, a proposito dell’altra tesi che aveva ottenuto largo seguito al
tempo, ovvero quella che faceva derivare la diffusione della sifilide dall’ira di
Dio dovuta al presunto decadimento dei costumi sessuali, Rostinio si interroga
con grande libertà intellettuale sulla sua attendibilità, chiedendosi: “se questa è
la punizione divina, perché mali così o ben peggiori non castigano assassini e
ladri?”. E ancora: “ma i bambini che nel ventre materno pigliano il contagio, che
colpa hanno?”63.
58 Ivi, p. 21. 59 Ivi, pp. 18-19. 60 Si è già visto come tale presunta putrefazione dell’aria dovuta ai moti celesti, sia considerata
probabile causa dell’epidema luetica dallo stesso Fracastoro. 61 Tra i medici più autorevoli che ritenevano impossibile che la sifilide non si fosse mai
manifestata prima della fine del Quattrocento vi era Niccolò Leoniceno; il fondamento di tale
teoria sta nella convinzione che “la sapienza dei Greci non poteva che rappresentare un vertice
inattingibile, che ai moderni era solo dato recuperare, non modificare o arricchire”, cosicché
sostenere che tale morbo fosse prima di allora sconosciuto, avrebbe significato minare in
qualche modo l'autorità della scienza greca. Ovviamente vi erano anche numerosi uomini di
scienza convinti del contrario. Si veda M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, op. cit., p. 164. 62 P. Rostinio, op. cit., p. 20. 63 Ivi, p. 22.
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81 M. Parigini, La nuova peste
Il medico chiude poi questa sezione passando in rassegna le parti del
corpo che possono fungere da accesso del virus nel momento del contagio,
quindi organi genitali, cavità orale e, nel caso specifico della donna, le
mammelle, ed osservando infine che, pur essendo la malattia potenzialmente
letale, di fatto raramente uccide: “Il mal Francese pochi ne ammazza, tamen può
ben ammazzare”64, e quando accade che pazienti malati da lungo tempo
muoiano ciò è prevalentemente imputabile al logoramento fisico che il male
comporta, motivo per cui «facilmente si cade in altri mali”65.
Con approccio precocemente scientifico: sintomi, diagnosi e rimedi
Nella seconda parte del libro, la più cospicua, dal titolo Curatione del mal
Francese quando comincia66, Rostinio espone con chiarezza tutti i rimedi che a suo
parere sono da somministrare in caso di contagio luetico: le cure sono per la
gran parte a base di piante e fiori, sotto varie forme di estratti, polveri, sciroppi
o anche purghe, i quali, dopo lo stadio iniziale, sono sostituiti da pratiche più
serie, come il salasso o le unzioni mercuriali, a seconda delle condizioni del
paziente.
Tutte le cure erano poi da diversificare a seconda del paziente. Sulla base
della teoria umorale di derivazione ippocratica, infatti, dall’umore di una
persona dipendevano non solo i medicamenti da applicare, ma anche la stessa
probabilità di contrarre il morbo o, al contrario, di scampare il pericolo67.
Due trattamenti erano universalmente riconosciuti validi e apprezzati
dallo stesso Rostinio, ossia le unzioni mercuriali68 e il decotto di guaiaco, un
arbusto importato fresco o essiccato dalle Americhe. Il medico indica con
precisione i metodi di preparazione69 ed i momenti di assunzione70 e di
64 Ivi, p. 28. 65 Ibidem. 66 Ivi, p. 30. 67 “… i melanconici… han i corpi più densi, che non sono atti a ricevere, il che avvenne, perché
egli havea la carne più densa et le vie del corpo erano serrate”, P. Rostinio, Trattato…, cit., p. 30. 68 Prima di effettuare le unzioni - ivi, p. 51 - si suole applicare delle garze o cerotti ottenuti
mescolando argento vivo (altro termine con cui ci si riferisce al mercurio), essenza di storace,
terìaca (un elettuario, ovvero sciroppo, a base di numerose sostanze naturali) con cera e resina
di pino; essi vanno posti sulle caviglie, sulle ginocchia, sulle cosce, sulle mani, sui gomiti e sulle
spalle per tre giorni, e poi cambiati. Il composto più comune per le unzioni viene preparato
utilizzando burro fresco, colofonia, olio di alloro, cinabro, mercurio depurato, litargirio d'oro e
sale. Tuttavia il medico bresciano ne consiglia tre varianti: una per autunno e primavera, una
per l'estate ed una invernale. 69 Il primo decotto semplice, spiega sempre Rostinio, si ha lasciando bollire una libbra di
polvere, ottenuta grattando il legno con una lima, in dodici libbre d'acqua per un'intera
giornata; da ciò che rimane in pentola, dopo aver filtrato il liquido prima della
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82 M. Parigini, La nuova peste
applicazione71, che andavano rispettati tassativamente al fine di garantire il
buon esito della terapia.
In conclusione, grazie a queste due preziose testimonianze è possibile
prender nota prima di tutto di un dato fondamentale: in poco meno di
sessant’anni dalla prima comparsa, il veicolo di trasmissione era stato scovato,
mentre la certezza che questo fosse stato l’esercito di Carlo VIII in calata su
Napoli era assunta come dato comprovato.
Dalle pagine sopra analizzate è poi deducibile l’apparente e inquietante
cambiamento dei sintomi del male, sicuramente inaspriti nelle loro
manifestazioni. Infatti, se in entrambi i testi il morbo luetico viene descritto
come caratterizzato da “dolori grandissimi”72, piaghe e croste di ogni genere,
che in realtà oggi sappiamo essere il risultato di un normale decorso di
un’infezione non trattata, si rintracciano nel testo del Rostinio altri quattro
sintomi sconvolgenti, di cui egli, verso la conclusione del suo Trattato73, ci parla
in modo approfondito. Il primo, chiamato nel testo “pellarola”, è imputato agli
“humori che putrefacciono le radici de' capelli” e si accompagna a prurito, come
avviene con l'alopecia; in questo caso il paziente va quasi completamente
rasato, per poter applicare sulla superficie interessata un preparato di issopo,
lavanda, mirra e aloe. La medesima “materia” infetta che causa la perdita dei
capelli, se raggiunge le gengive, provoca la caduta dei denti, “dentarola”, che
per essere curata necessita dell'immediata somministrazione del decotto di
guaiaco. Eventualità più rara è quella dell “unghiarola”, che richiede
l'intervento con purghe e con lavande delle dita mediante unguenti a base di
mirtillo, acacia, coralli bianchi, mastice e incenso. La temutissima perdita della
somministrazione, si deve poi ricavare un secondo liquido con minore concentrazione della
sostanza. Accanto a quella del decotto semplice, nel testo sono esposte anche la ricetta per
ottenere una “decottion composita”, che prevede l'aggiunta di borragine, rose, viole, zenzero,
senna e canfora, e il decotto a base di vino, in cui le dodici libbre d'acqua sono sostituite da dieci
di vino bianco forte; queste due versioni del composto sono ritenute utili, in quanto dotate di
maggiori proprietà nutritive, poiché la quantità di cibo che il malato ingerisce durante la cura
deve andare progressivamente diminuendo fino al termine della somministrazione. Ivi, pp. 60-
63. 70 Il paziente dovrà assumere il primo decotto cinque ore prima del pranzo, bere il secondo
durante il pasto e di nuovo il primo cinque ore dopo la cena; tutto questo per quaranta giorni.
Ivi, p. 61. 71 Rostinio suggerisce di effettuare le unzioni per nove giorni, o al massimo dodici, se
necessario; e comunque diminuendo le dosi di mercurio nel preparato dopo il nono giorno. Al
termine del trattamento i pazienti devono immergersi in acque aromatizzate, nelle quali sono
state fatte bollire salvia, menta, ruta, rosmarino, rose rosse, fiori di camomilla e foglie di alloro;
in estate anche viole, mirtilli e noci di cipresso. 72 Ivi, p. 21. 73 Ivi, pp. 80-86.
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83 M. Parigini, La nuova peste
vista, o “occhiarola”, va invece trattata con il salasso tramite sanguisughe e
l'esposizione del malato a fumenti di viole, malva, meliloto e fieno greco.
La domanda però, si dice, sorge spontanea: come è possibile che questi
sintomi non fossero già apparsi nel momento della prima comparsa del morbo?
La risposta è semplice: confrontando i due testi, come si è già detto in
precedenza, si nota un cambiamento importante nelle cure che venivano
prestate ai soggetti colpiti dalla sifilide. Sciroppi e salassi, bagni aromatici e
pillole di precipitato di calcio (ad eccezione di quest’ultimo che nella meta del
500 era fortemente sconsigliato) sono comuni rimedi che vengono menzionati
da entrambi gli autori, ma all’epoca di Rostinio la scienza medica ha trovato un
altro “infallibile” rimedio per guarire gli infetti, il mercurio. E proprio qui sta il
punto.
In proposito è importante osservare che già allora alcuni dei
contemporanei del medico bresciano avevano messo in dubbio le capacità
miracolose di questo antidoto, tant’è che Rostinio si sente di dover rispondere
alle critiche, fondate soprattutto sulla considerazione dei danni che il mercurio
può causare al cervello. Piuttosto perentorio, l'autore del Trattato si limita a
controbattere con una domanda: “chi è quel medicamento che non noce ad
alcuna parte?”74.
Torneremo sul problema mercurio in seguito, analizzando ora aspetti che
sono al centro del dibattito contemporaneo circa il morbo luetico.
Nonostante sia piuttosto infrequente, quello di “mal spagnolo” sembra
l’appellativo più corretto; prima di tutto perché, come confermato da numerosi
studi, il male sembrerebbe essere stato contratto in prima istanza dagli
esploratori spagnoli approdati sull’isola d’Hispaniola, al seguito della
spedizione di Colombo del 149375. Infatti, proprio a Bajona, il porto dove nel
marzo dello stesso anno approdò la caravella comandata da Don Alonso Pizon,
si scatenò un intenso focolaio dell’infezione, così come a Barcellona, dove
ritroviamo il Grande Ammiraglio del Mare Oceano in persona offrire
solennemente le Americhe ai reali di Spagna. Dalla città catalana la malattia si
sarebbe poi diffusa nel resto d’Europa76. Tale tesi è inoltre avvalorata dalla
testimonianza del medico spagnolo Rui Diaz de Isla che, nel suo ˝Tractado contra
el mal serpentino que vulgarmente en España es llamado bubas˝, pubblicato nel 1539,
sosteneva di aver curato alcuni dei primi esploratori del nuovo mondo da un
morbo che “separa e corrompe la carne, e rompe e decompone le ossa, e
disgrega e contrae i muscoli”77. A ciò andrebbero poi aggiunti elementi
74 P. Rostinio, op. cit., 1559, p. 57. 75 G. Cosmacini, Presentazione, in E. Tognotti, op. cit., p. 14. 76 A. Tosti, op. cit., p. 19. 77 G. Benvenuto, Alle origini della sifilide, in «D&T-Diagnosi&Terapia», XVII, n. 4, 1997, pp. 13-19.
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84 M. Parigini, La nuova peste
riscontrati con moderne tecnologie sugli scheletri appartenenti a popolazioni
precolombiane rinvenuti nel territorio americano, che evidenziano lesioni ossee
riconducibili alla presenza del morbo nel periodo antecedente al 149278.
È pertanto probabile che quando la spedizione giunse in terra sicula,
composta da una flotta di sessanta galee e un piccolo esercito di seicento cavalli
e cinquemila fanti, i soldati spagnoli sotto il comando del celebre Corrado di
Cordova, fossero già portatori del germe79.
La società è sconvolta da questo morbo che lascia vistosi segni della sua
presenza, tanto da essere da molti giudicato assai più raccapricciante della
lebbra; innumerevoli sono coloro che imputano le cause dell’apparizione del
male alla decadenza dei costumi all’interno della cristianità, decadenza che
avrebbe poi scatenato la vedetta divina80. La comparsa della malattia comporta
in prima battuta considerazioni di tipo morale sul contagio, come si evidenzia
dalle pagine che il cronista comense Muralto nel 1495 dedicò alla sifilide:
“optime time dignoscebantur pudici ad impuris hominibus”. Tale male quindi
risparmiava i morigerati castigando invece gli impuri81.
Ci fu chi addirittura nel dilagare della pestilenza vide il chiaro segnale
della fine del mondo dovuta alla generale e dilagante corruzione dell’epoca,
come il protestante Joseph Grünpeck, storico dell’imperatore Federico III
d’Asburgo, che ne scrive in questi termini: “Quando percepite la miserevole
corruzione di tutta la cristianità, di tutte le abitudini encomiabili, delle regole e
delle leggi, lo squallore di tutte le classi, le molte pestilenze, i cambiamenti in
quest’epoca e tutti gli sconosciuti e strani avvenimenti, sapete che la fine del
mondo è vicina e le acque dell’afflizione scorreranno sull’intera cristinità”82.
Il cambiamento nella mentalità della società post-rinascimentale emerge
chiaramente dalle testimonianze di Ser Tommaso e di Pietro Rostinio. Colpisce
il fatto che manchino in entrambi richiami alla punizione divina per spiegare le
origini del contagio. A differenza di quanto ci si sarebbe aspettato da un uomo
del tardo XV secolo, nel diario del notaio orvietano ogni speculazione su origine
e diffusione viene elusa e l’attenzione si concentra sulla somministrazione delle
cure, mentre per il nostro medico cinquecentesco la chiave di volta per
comprendere scientificamente le modalità del contagio sta nel contatto sessuale.
Se per secoli si dibatterà sulle cause che portarono allo scoppio dell’epidemia e
alla sua veloce diffusione utilizzando le teorie più fantasiose, fino a farla
78 B.J. Baker, G.J. Armelagos, The Origin and Antiquity of Syphilis, in «Chicago Journals», vol. 29,
n. 5, 1988, pp. 711-719. 79 E. Tognotti, op.cit., p.34. 80 A. Tosti, op. cit., pp. 11-12. 81 Ivi, 12. 82 J.Grünpeck, “Historia Friderici et Maximiliani, 1512-15”, cit., in E. Tognotti, op. cit., p. 29.
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85 M. Parigini, La nuova peste
derivare dall’alimentazione con carne umana83, Rostinio riesce, come si è detto,
ad intuire sia il momento storico in cui essa compare, la fine del 400, sia la
modalità di propagazione, ovvero i rapporti sessuali .
La stessa teoria miasmatica, che vedeva la mala area al centro della
diffusione della sifilide, viene quindi, se non accantonata, quanto meno
ridimensionata nel peso che ha nell’analisi dello sviluppo della malattia stessa.
Se dunque Rostinio su aspetti come la teoria umorale rimane ancorato alla
tradizione, indubbiamente una innovativa mentalità scientifica è evidente in lui
e nel suo fare.
La catalogazione di sintomi e rimedi è più che meticolosa nella sua opera e
gran parte del Trattato è per l’appunto occupata da questo tipo di trattazione: ad
ogni sintomo corrisponde un rimedio ben specifico e l’eventuale comparsa di
nuovi segni, che per il medico indica un avanzamento o un regresso del male,
corrisponde ad un inasprimento o un cambiamento nelle cure da apportare; si
vedrà poi in conclusione, con l’analisi di alcune delle piante consigliate dal
medico, come esse effettivamente avessero proprietà molto spesso lenitive o
antiinfiammatorie, a dimostrazione dell’elevato livello di sapere scientifico
allora raggiunto, grazie solamente alla pura osservazione diretta.
Come si è visto, alla metà del Cinquecento, l’arma con cui si combatteva la
battaglia contro questo male era prevalentemente il mercurio, e si è inoltre
notato come sintomi terribili quali la caduta di denti, capelli, unghie e la perdita
della vista fossero apparsi solo in un secondo momento rispetto alla prima
comparsa del male. Tuttavia, alla luce di scoperte più recenti84, le manifestazioni
sintomatiche di cui si è detto risultano chiaramente individuabili come la
conseguenza di una prolungata esposizione a tale sostanza. Questo, come gli
altri metalli, ha infatti la capacità di legarsi con i gruppi –SH (idrosulfuri) delle
proteine e degli enzimi microsomiali, meccanismo d’azione che determina una
forma di tossicità sia acuta che cronica, e la stessa morte cellulare. Nei casi di
tossicità cronica gli effetti riscontrati comprendono tremori, debolezza
muscolare, alterazioni dei movimenti, danni renali, alla corteccia celebrale e al
83 L. Fioravanti, “Il reggimento della peste. Nel quale si tratta che cosa sia la peste, & da che
procede, & quello che doveriano fare i prencipi per conservar i suoi popoli da essa… Di nuovo
ristampato, corretto, & ampliato di diversi bellissimi secreti… in questa ultima impressione
aggiuntovi alcuni secreti dati in luce dall’Autore avanti la sua morte pertinenti alla materia del
Libro, Venezia, appresso Lucio Spineda, 1626”, in ivi, p. 70. 84 In realtà il livello di conoscenza scientifica del metallo oggi raggiunta, ci permette di
affermare che le controindicazioni sono estremamente dannose e che possono provocare il
decesso del paziente; inoltre esse vanno spesso a confondersi con i sintomi della stessa malattia,
includendo perdita di denti e capelli e lesioni cutanee, e facendo pensare che questi, osservati
nel Cinquecento su malati sottoposti a tale trattamento, potevano essere provocati proprio dalle
unzioni. Si veda M. Conforti, G. Corbellini, V. Gazzaniga, op. cit., p. 165.
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86 M. Parigini, La nuova peste
cervelletto, perdita della vista, dei denti, dei capelli, dell’udito ed infine il
decesso; quando si verifica un’intossicazione acuta si hanno solitamente
broncopolmoniti, gravi sintomi neurologici e danni all’apparato
gastrointestinale. Tali manifestazioni furono confuse, tuttavia, per secoli con i
sintomi della sifilide; vale a dire che il confronto fra l’esperienza di Ser
Tommaso e il testo del dottore veneziano mostra come la comparsa del
mostruoso morbo non fosse stata altro che un effetto collaterale della
somministrazione del metallo pesante.
Risulta evidente che nel Quattrocento, quando le cure con il mercurio non
si erano ancora diffuse, non si manifestò la comparsa di sintomi invece molto
comuni nel secolo successivo: ciò a riprova della loro pericolosità per lo
sciagurato paziente.
Ad ogni modo, nonostante i devastanti effetti collaterali, al mercurio si
ricorse abbondantemente fino alla meta del XX secolo, per la semplice ragione
che in effetti esso attaccava e uccideva il batterio responsabile dell’infezione,
dato empiricamente registrato dalla medicina del Cinquecento grazie alla
riduzione delle lesioni cutanee. L’efficacia ad ogni modo era limitata alla prima
fase dell’infezione; nella lue secondaria, infatti, il numero di spirochete, i batteri
che causano le malattia, cresce e in questo caso il mercurio poco poteva nel
tentativo di eliminarle.
Le considerazioni relative all’efficacia delle cure, nei primi secoli di
diffusione della malattia, furono complicate dalla natura stessa di questa; la
sifilide, infatti, può presentare lunghi periodi di attenuazioni dei sintomi, che
inducevano erroneamente a ritenere guarito il malato.
È facilmente intuibile che in molti casi medici e pazienti che ricorrevano ai
medicamenti sopracitati per la cura della lue giunsero a conclusioni errate o
quanto meno parzialmente errate.
Le ricette del medico Rostinio
Nel corso di questo articolo si sono brevemente menzionati alcuni dei rimedi
naturali che nel XVI secolo venivano prescritti da Pietro Rostinio per affrontare
il mal francese; in conclusione di questa trattazione abbiamo deciso di passare
in rassegna, tramite una tabella, alcune delle piante e dei minerali consigliati dal
medico, esponendo inoltre le proprietà chimiche che oggi sono loro
riconosciute85.
Ricorderemo prima i principali sintomi osservati, in modo tale da avere
poi una panoramica più completa e chiara: oltre alle già ampliamente citate
85 Le informazioni presenti nella tabella sono tratte dal testo di C. Capasso, Farmacognostica.
Botanica, chimica e farmacologia delle piante medicinali, Milano, 2011.
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87 M. Parigini, La nuova peste
“dentarola”, ”pellarola”, ”occhiarola” e ”unghiarola” vanno ricordate altre
importanti manifestazioni del male, come le ”gomme”, placche gommose che
solitamente intaccano la superfice della pelle, le ”pannocchie”, che altro non
sono che ulcerazioni del derma, lo ”scolamento”, ovvero la perdita di siero da
parte del membro maschile, ed i ”caroli”, pustole che possono manifestarsi sul
prepuzio e sulle estremità esterne vaginali.
Erbe, frutti, metalli,
minerali, derivati animali
Impiego suggerito da
Rostinio nel Cinquecento
Proprietà attualmente
riconosciute
Acacia. In composto per purgare
il paziente sifilitico; in
soluzione per gargarismi
contro i ”caroli” in bocca;
in lavanda per le dita
contro l’”unghiarola”.
Proprietà lassative,
antiossidante, e
antimicrobiche.
Aloe. In preparato per
unguento per curare la
”pellarola”.
Proprietà
antiinfiammatorie.
Allume di Rocca. In polvere per curare i
”caroli”.
Proprietà astringenti ed
antibatteriche.
Altea. In infuso per purgare; in
unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali; in decotto per
fumenti per curare le
”gomme”.
Proprietà
antiinfiammatorie ed
emollienti.
Bacche di melograno. In polvere per il
trattamento dei ”caroli”.
Proprietà antiossidanti,
astringenti, e
antitumorali.
Bolo armeno. In polvere per la cura dei
”caroli”.
Proprietà astringenti e
coagulanti.
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88 M. Parigini, La nuova peste
Borraggine. Nella ”decottion”
composita a base di
guaiaco.
Proprietà
antiinfiammatorio e
antidermatitiche.
Burro. Nel composto base per le
unzioni; nel composto
per le unzioni da
effettuare in primavera,
in autunno ed in estate.
Funge da eccipiente in
creme ed unguenti.
Canfora. Nel composto a base di
mercurio per le unzioni,
da effettuarsi in
primavera ed in autunno;
nella ”decottion
composita” a base di
guaiaco
Proprietà anestetiche ed
antimicrobiche
Cinabro. Nel composto per le
unzioni mercuriali.
Contiene mercurio.
Colofonia Nel composto per le
unzioni mercuriali; in
quello da utilizzare in
primavera ed autunno.
Proprietà rubefacenti
(attiva la circolazione
periferica) e
decongestionanti delle
vie aeree superiori.
Corallo bianco. Estratto a utilizzare in
unguento per la cura
della ”unghiarola”.
Proprietà anestetiche ed
antivirali.
Croco. Nel composto per le
unzioni mercuriali da
utilizzare in inverno.
Proprietà toniche e
rinvigorenti.
Fieno greco. Per la cura delle
”gomme”: in fumenti, in
unguento
Proprietà
antiinfiammatorie,
antiossidante,
antianemiche,
anabolizzanti.
Fiori di camomilla. In unguento per trattare
le ”pannocchie”; in acqua
aromatizzata per bagni
successivi alle unzioni.
Proprietà sedative,
antiinfiammatorie,
antiossidanti.
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89 M. Parigini, La nuova peste
Fumoterra. In decotto per il
trattamento del paziente
di temperamento
melanconico.
Proprietà calmanti e
lenitive.
Grasso di gallina. In unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali.
Funge da eccipiente in
creme ed unguenti.
Grasso di oca. In unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali.
Funge da eccipiente in
creme ed unguenti.
Grasso di maiale. Nel composto per le
unzioni mercuriale da
utilizzare durante
primavera ed autunno.
Funge da eccipiente in
creme ed unguenti.
Gomma arabica. In unguento per gonfiori
ed arrossamenti della
parete vaginale esterna e
della mammella.
Colloide protettore.
Guaico. In decotto come terapia
base per il trattamento
generale del morbo
luetico, e quello specifico
di sintomi quali
”dentarola” e
”scolamento”.
Proprietà antisettiche e
antiinfiammatorie.
Incenso (pianta). In lavanda per la cura
del’”unghiarola”.
Proprietà antisettiche.
Indivia. In sciroppo per il
trattamento dei pazienti
di temperamento
flemmatico o sanguigno.
Proprietà diuretiche,
toniche e depurative.
Isssopo. In infuso per il
trattamento del paziente
di temperamento
melanconico; in
unguento per la cura
della ”pellarola”.
Proprietà espettoranti.
Favorisce la digestione.
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90 M. Parigini, La nuova peste
Latte vaccino. In unguento per la cura
di arrossamenti e
gonfiori genitali; in
composto per sciacqui
per il trattamento dei
"caroli" nella bocca.
Proprietà lenitive.
Lavanda. In unguento per la cura
della ”pellarola”.
Proprietà
antiinfiammatorie.
Litargirio d’oro. In misura polverizzata
per la cura dei ”caroli”;
nel composto base per le
unzioni mercuriali.
Ossido di piombo, privo
di proprietà curative
riconosciute.
Malva. In composto per fumenti
per trattare le ”gomme”;
in unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali; in unguento per
il trattamento delle
”pannocchie”; in
preparato per fumenti
per la cura dell’
”occhiarola”; in
composto per purgare il
paziente sifilitico.
Proprietà lassative ed
antiinfiammatorie.
Marcorella. In composto per purgare
il paziente sifilitico.
Proprietà lassative.
Meliloto. In composto per i
fumenti per il
trattamento dell’
”occhiarola”.
Proprietà
antiinfiammatorie e
diuretiche.
Menta. In acqua aromatizzata
per bagni successivi alle
unzioni.
Proprietà antisettiche ed antibatteriche.
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91 M. Parigini, La nuova peste
Mercurio. Nei composti per le
unzioni cui ricorrere
come cura generale ad
uno stadio avanzato del
morbo luetico.
Tossico. Ha facoltà di
uccidere un numero
limitato di spirochete.
Mirra. In tutti e tre i vari
composti per le unzioni
mercuriali, diversificati
per ogni stagione; in
unguento per il
trattamento della
”pellarola”.
Proprietà antisettiche ed
antiinfiammatorie.
Mirtilli In acqua aromatizzata
per bagni successivi alle
unzioni; in unguento per
la cura dell’”unghirola”.
Proprietà antiossidanti,
antisettiche ed
antiinfiammatorie.
Piantaggine. In composto per i
gargarismi per trattare i
”caroli” dalla bocca.
Proprietà antiallergiche,
antimicrobiche
antiinfiammatorie.
Ruta. In acqua aromatizzata
per bagni successivi alle
unzioni.
Proprietà toniche,
diaforetiche e
stomachiche.
Rose rosse. In composto polverizzato
per la cura dei ”caroli”;
in composto per
gargarismi per il
trattamento dei "caroli"
nella bocca; in acqua
aromatizzata per bagni
successivi alle unzioni;
nella ”decottion” a base
di guiaco.
Proprietà toniche,
astringenti. Utili per
combattere gli
arrossamenti dermici.
Rosmarino. In acqua aromatizzata
per bagni successivi alle
unzioni.
Proprietà
antiinfiammatorie ed
antimicrobiche.
Salvia. In acqua aromatizzata
per bagni successivi alle
unzioni.
Proprietà antibatteriche
ed atisettiche.
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92 M. Parigini, La nuova peste
Sandalo. In unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali; in composto per
fumenti per il
trattamento delle
”gomme”.
Proprietà idratanti.
Semi di lino. In unguento per curare
arrossamenti e gonfiori
genitali; in composto per
fumenti per il
trattamento delle
”gomme”.
Proprietà emollienti ed
antiinfiammatorie.
Senna. In infusione per trattare il
paziente di
temperamento collerico,
flemmatico e
melanconico; nella
decottion ”composita” a
base di guaiaco.
Proprietà lassative.
Storace. Nei composti per le
unzioni.
Proprietà diuretiche,
espettoranti e
antiinfiammatorie.
Viole. In unguento per la cura
di arrossamenti e
gonfiori genitali; in
composto per purgare il
paziente sifilitico; in
acqua aromatizzata per i
bagni successivi alle
unzioni; nella “decottion
composita” a base di
guaiaco; in composto per
fumenti nella cura
dell’”occhiarola”.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
93 C. Nasini, The Origins
The Origins of the European Integration: Staunch Italians,
Cautious British Actors and the Intelligence Dimension (1942-1946) di Claudia Nasini
The idea of unity in Europe is a concept stretching back to the Middle Ages to
the exponents of the Respublica Christiana. Meanwhile the Enlightenment
philosophers and political thinkers recurrently advocated it as a way of
embracing all the countries of the Continent in some kind of pacific order1. Yet,
until the second half of the twentieth century the nationalist ethos of Europeans
prevented any limitation of national sovereignty.
The First World War, the millions of casualties and economic ruin in
Europe made the surrendering of sovereignty a conceivable way of overcoming
the causes of recurring conflicts by bringing justice and prosperity to the Old
World. During the inter-war years, it became evident that the European
countries were too small to solve by their own efforts the problem of a modern
economy2. As a result of the misery caused by world economic crisis and the
European countries’ retreating in economic isolationism, various forms of
Fascism emerged in almost half of the countries of Europe3.
The League of Nations failed to prevent international unrest because it
had neither the political power nor the material strength to enable itself to carry
1 Cfr. Andrea Bosco, Federal Idea, vol. I, The History of Federalism from Enlightenment to 1945,
London and New York, Lothian foundation, 1991, p. 99 and fll.; and J.B. Duroselle, “Europe as
an historical concept”, in C. Grove Haines (ed.by) European Integration, Baltimore, 1958, pp. 19-
20. 2 Cfr. Walter Lipgens, General introduction, in Lipgens (ed.), Documents on the History of European
Integration, vol. 1, Continental Plans for European Union 1939-1945, Berlin-New York, De Gruyter,
1984, p. 8. 3 Ibidem.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
94 C. Nasini, The Origins
out its decisions and enforce its will on nation states4. Facing these challenges in
the Twenties and Thirties, Europeanist and even Federalist views flourished
throughout all of Europe. Among them, the 1929 “Briand Plan” of Aristide
Briand, the many “Pan-European” initiatives by Richard Coudenhove-Kalergi,
the pro-Europeanist writings of Luigi Einaudi to conclude with launch of
British “Federal Union” in 1938. These ideas remained alive during the Second
World War and in many quarters inspired the anti-Axis underground fighters
including Italy especially.
As early as in 1942, undisputed Resistance leaders like Emilio Lussu, Leo
Valiani, Aldo Garosci and Altiero Spinelli started liaising with the Anglo-
Americans, in many cases making them aware of their Federalist principles. The
British in particularly showed the strongest interest towards these initiatives as
confirmed by the fact that some of these Italians became full-fledged British
agents in the ranks of the Special Operation Executive (SOE)5. There is also
evidence of the British Labour Government’s persistent attention towards the
Italian Federalism after 1945. On one hand the Foreign Office showed its
interest in carrying on with the publication of the influential Italian Europeanist
journal «L’Unità Europea»6. On the other, even after Victory Day, liaisons with
former SOE’s Italian agents continued, as recently declassified evidences show
in the case of Leo Valiani and others7. A substantial detail is that these Italians
were mainly democratic with socialist leanings belonging to the non-
Communist milieu and presumably this latter aspect facilitated the continuation
of these liaisons under the Attlee Government. Moreover, British pro-
Europeanist covert activities further expanded in the post-war.
One emblematic episode was the involvement of the British Joint
Intelligence Committee (JIC) in the setting up of the Independent League for
European Cooperation (ILEC), a transnational pressure group devoted to the
4 Ivi, p. 19. 5 On the participation of Lussu and Valiani to SOE’s operations the best and most updated
accounts are in Mireno Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Diplomazia clandestina,
Intelligence, Operazioni speciali (1940-1943), Firenze, Le Lettere, 2010; see also Mauro Canali, Leo
Valiani e Max Salvadori. I servizi segreti inglesi e la Resistenza, in «Nuova Storia Contemporanea»,
III (2010), pp. 29-64. 6 Particularly revealing in this respect are recently unearthed documents at the British National
Archives (TNA) in Kew Gardens, London, which shed light on this aspect of British relation
with Italian Europeanism. See TNA, F.O. 371/60673 folder named Mario Alberto Rollier. Director
of Italian Paper «L’Unità Europea». 7 On the intercession of British intelligence in favour of Valiani’s trip to Britain in the post-war
see TNA, HS9/1569/4. This folder contains a letter dated 24 August 1945 and written by the HQ
SOM (the headquarters in command of SOE in Italy) pressing the British consulate in Rome to
hasten the concession of a Visa for the United Kingdom for the former SOE agent Leo Valiani.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
95 C. Nasini, The Origins
promotion of a common area of free exchange in Europe and beyond8. Worth
highlighting here is the evidence that as early as in 1942 under the command of
the Labour Minister of Economic Warfare, Hugh Dalton, SOE precociously
promoted the clandestine activities of several Italian Europeanists while also
putting them in contact with representatives of the Labour establishment. This
is probably why by 1945 for the whole non-communist Italian intelligentsia of
Europeanist inclinations - mainly gathered around the “bourgeois” Italian
Partito d’Azione - the British Labour Party had come to embody a solid
international point of reference much more than the American Administration9.
The latter, on the other hand, started to pour millions of dollar in favour of
European integration only once the Soviet encroachment had fully manifested
and therefore not until 194710. It is regrettable that by then Britain was
financially exhausted.
The immediate post-war era presented in effect several problems for the
Europeanist impetus of the British Labour Government. A similarly difficult
panorama, although for different reasons, emerged also in Italy. Certainly a
combination of economic and financial problems, coupled with Cold War
tensions, prevented the British Labour government from pursuing a more
incisive pro-Europeanist foreign policy11. However, differently from what
assumed by orthodox historiography (as will be seen), the post-war Labour
Government was not from the start blindly negative towards the idea of a
European closer unity as against a supposed predilection for a favoured
partnership with the United States. In the Eighties, thanks to the opening of
governmental archives in several countries of Europe under the Thirty year
rule, a more recent line of research has started questioning earlier assumptions.
These readings have claimed that Labour Government was in fact much in
favour of being part of some sort of formal or informal union among the
Western countries of Europe. Given the fact that the Big Three victorious
8 Cfr. Thierry Meyssan, «Histoire secrète de l’Union européenne», Réseau Voltaire
International, 28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html. 9 This is certainly the opinion of the official scholar of the Action Party Giovanni De Luna, Storia
del Partito d’Azione, (History of the Action Party),Torino, UTET, 2006, p. 311. 10 In the exterminate historiography on the transatlantic dimension of the construction of
Europe there is a general consensus that nothing significant came out from the Americans
before of the launching of the Marshal Plan. See for instance Michael Hogan, The Marshall Plan.
American, Britain and the Construction of Western Europe, 1947-1952, Cambridge, CUP, 1987. For a
recent elaboration of this view see Mark Gilbert, Partners and Rivals: Assessing the American Role
in Antonio Varsori and Wolfram Kaiser (eds. by) European Union History. Themes and Debates,
Palgrave, Macmillan, 2010, pp. 171 and 177 and fll. 11 See for all John W. Young, Britain and European Unity, 1945-1999, Basingstoke, Macmillan,
2000, 2nd edition (first edition 1993), p. 7.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
96 C. Nasini, The Origins
powers now dominated the planet, British leadership of Europe seemed
natural.
A strategy, in other words, that of the Labour leaders meant to face
American and Soviet’s competition with Europe at large, and Britain in
particular, in the balance of world power. Yet, the British attempts in exploiting
to this end the vast network of foreign clandestine contacts built throughout
Europe during the Second World War remains one of the least addressed aspect
of British foreign policy in this phase. Instead the new SOE’s evidence,
especially as declassified after 2008, as well as some overlooked British Foreign
Office’s papers concerning Italy give sustenance to the revisionist
interpretation12. The Labour government’s strategy appears carefully tailored to
involve the existing secret contacts abroad in building up a consensus in favour
of its agenda including its European policy.
On the other hand, this was also the main aim behind the creation of the
Foreign Office’s first Cold War propaganda weapon, that is, the Russia
Committee13. The Russia Committee’s main targets of propaganda abroad were
in fact various foreign European personalities either politicians or publicists
who had previously served in SOE or had already secretly liaised with the
British. The latter were entrusted with the goal of clandestinely disseminating
in their countries suitable publicity to counter Soviets’ propaganda against
Britain14. An approach which considers the existence of these precocious and
preventive connections can help to provide a new perspective to post-war
Labour Europeanism. Why, otherwise, did SOE, under Dalton, spend so much
effort in creating liaisons with Italian Europeanism? Why did the Labour
Government bother to nurture these relations in the post-war?
Limits and limitations of traditional historiography
The historiography on the very embryonic steps of the unification of European
comprises a disparate number of historical accounts stimulated by different
national historiographical traditions which often have entertained only a partial
12 At the British National Archives the collection Special Operation Executive, Series 1, Special
Operations in Western Europe, 1941-1948 includes thousands pages of documents concerning
aspects of SOE activity in Italy. The sub-collection HS/9 includes instead, as mentioned, several
previously withdrawn dossiers concerning Italian political personalities who were recruited by
SOE during the WWII. Most of these Italians would cover important institutional positions in
post-war Italy. 13 A good summary on the origin and scopes of the Russia Committee is in Raymond Smith, “A
Climate of Opinion: British Officials and the Development of British Soviet Policy, 1945-1947”,
«International Affairs», vol. 64, n. 4, Autumn 1988 in particular p. 636 and fll. 14 Ibidem.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
97 C. Nasini, The Origins
dialogue among themselves15. Moreover, more often than not European
scholars have chosen to publish scholarship in their native language –
especially, German, French and Italian – thus impeding a broader process of
intellectual cross-fertilization. Even when addressing a short span of time as the
years up to 1946 there is such an abundance of historical accounts of the most
disparate nature which makes a synthesis very difficult16. Focusing prevalently
on the main trends of Italian and British literature on early integration is
therefore a deliberate choice to synthesise what would be otherwise too diverse.
Yet, this delimited overview is significant enough since it contains the crux
themes and debates which have informed the historiographical discourse.
In Italy, for instance, a “Federalist-centred approach” (derived from the
tradition of the history of political thought) has prevailed and is still mainly
adopted. Although a similar approach was initially also evident in Britain (as
well as in the rest of Europe), more recent British scholars have consistently
challenged the “Federalist school”, undertaking lines of research which have
shown the flaws of this scholarship17. If we look at two of the most paramount
Italian representatives of the Federalist school, Sergio Pistone18 and Lucio Levi19,
15 This is the opinion of Antonio Varsori in his recent attempt at a comprehensive survey of the
history of European integration. Cfr. the Introduction to A. Varsori and W. Kaiser (eds. by),
European Union History: Themes and Debates, Palgrave, Macmillan, 2010, p. 2. 16 Ibidem. 17 A concise but comprehensive account of this new trend of historiography is in Oliver
Daddow, Britain and Europe since 1945. Historiographical Perspective on Integration, Manchester,
MUP, 2004 in particular p. 122 and fll; and passim. 18 Pistone focuses on the investigation of the theoretical explanations offered as bases for the
various Federalist theories in Europe from the eve of First World War (taken as a quo term) until
today. Pistone’s analysis, in particular, focuses on those prominent authors, namely Luigi
Einaudi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Lord Lothian e Lionel Robbins, who provided an
innovative interpretation of the origins of the so-called ‘European crisis,’ prior and between the
two World Wars. In Pistone’s view, the reasoning that these thinkers accounted for the
European crisis appears to be well-equipped to contend with the explanations that different
cultural-political traditions (the Liberal, the Democratic, the Communist) were offering at the
time. Cfr. in particular S. Pistone (ed. by), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda
guerra mondiale, Torino, Fondazione L. Einaudi, 1975 and also S. Pistone (ed. by) I movimenti per
l’unità europea dal 1945 al 1954, Milano, Jaca Book, 1992. 19 Levi’s work presents a more geo-political approach to the history of Federalism. Levi clarifies
the elements that constituted an impediment in the immediate aftermath of World War I and
allowed, instead, in the second, the beginning of the European integration. Until the second
post-war, European statesmen were not inclined, in fact, to start a process of limitation of their
own sovereignty, for this still contained, though with very clear evidence of decline, an
autonomous position of power in the world. In subsequent years, beginning with the Second
World War, European Federalism made manifest, instead, the inclination of several European
countries to accept American leadership, though not separated by the attempt at developing a
European pilier that would reduce the subordination of the Old Continent to the United States.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
98 C. Nasini, The Origins
the efforts of Federalist theoreticians and pressure groups are seen at the core of
the inception of the integration process. These personalities and groups built on
the informal networks of pro-Europeanist anti-fascist exiles formed during and
shortly after the Second World War in different countries of Europe20. This
milieu comprised, as will be discussed later, the 1943 Italian Movimento
Federalista Europeo (MFE) set up underground by Altiero Spinelli and Ernesto
Rossi in war-time Milan. It also included the European Union Movement
(EUM) launched by Churchill between 1946 and 1947 in Britain, to name only
two significant examples. Pistone and Levi highlight the mutual intellectual
influences existing among Italian and British Federalist theoreticians and claim
that they furthered discussion on Federalism, making possible for it to become a
realistic political path.
This strand of research is still influential in Italy and in other words
remains mainly concerned with the analysis of the intellectual influence of some
Federalists – Spinelli first and foremost - on the strategy for the European
construction. This is evident in some relatively recent studies by leading Italian
historians in the field like Piero Graglia21. The same is true for authors like
Daniela Preda, Cinzia Rognoni Vercelli and Antonella Braga22. The two massive
2005 volumes edited by Rognoni Vercelli and Preda, Storia e percorsi del
Federalismo: l’eredità di Carlo Cattaneo, for instance, are a large collection of essays
dealing with the life-time intellectual experience of Federalists of the calibre of
Spinelli and Rossi as well as of personalities like Alcide De Gasperi, Mario
Albertini, Eugenio Colorni and Celeste Bastianetto23. The few essays devoted to
other topics, i.e. the one about the British pressure groups of “Federal Union”,
L. Levi (ed. by), Verso gli Stati Uniti d’Europa: analisi dell’ integrazione europea, Napoli, Guida,
1979. See also L. Lucio (ed. by) Altiero Spinelli and Federalism in Europe and in the World, Milano,
Angeli, 1990. 20 The best account of this Federalist milieu throughout the whole Europe is in the documentary
volumes edited by Walter Lipgens and Wilfried Loth, Documents on the history of the European
integration, Berlin; New York, De Gruyter, 1985-1988. See in particular, W. Lipgens (ed. by) The
struggle for European Union by political parties and pressure groups in Western European countries,
1945-1950, Berlin-New York, Walter de Gruyter,1988. 21 It would be impossible to make here a comprehensive list of the Italian studies on Spinelli
which present this approach but a useful recent example is for instance Piero Graglia, Altiero
Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008. 22Cfr. D. Preda (ed. by) Altiero Spinelli ed i movimenti per l’unità europea, Padova, CEDAM, 2010;
Id., Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004; A. Braga, Un federalista
giacobino: Ernesto Rossi pioniere degli Stati Uniti d’Europa, Milano, Il Mulino, 2007; C. Rognoni
Vercelli, Luciano Bolis: dall’Italia all’Europa, Bologna, Il Mulino, 2007; Id., Mario Alberto Rollier. Un
valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991. 23 C. Rognoni Vercelli and D. Preda, Storia e percorsi del Federalismo: l’eredità di Carlo Cattaneo,
Bologna, Il Mulino, 2005.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
99 C. Nasini, The Origins
represent just an exception to what is prevalently a biographical account with
an Anglo-Saxon style. Other works from the same authors follow the same
pattern24.
Federalist perspectives owed much to the fact that until the Seventies the
original documentation concerning European integration was still classified.
For two decades after 1945 political memoirs and pamphlets supplanted more
proper historical works giving space to the perspectives of authors who were in
reality the original protagonists of the Federalist “crusade” especially in Italy25.
In Britain, the content of these early chronicles consistently informed the
subsequent scholarship because they propagated a set of myths on the origin
and causes of integration that later authors felt compelled to contend26.
According to the British Federalist school, the post-war Labour Government
and especially the Foreign Secretary Ernest Bevin had been from the start firmly
against any British involvement in the continental search of some form of
cooperation and possibly unity.
The debate became bitter because, given Britain’s persistent aloofness
from the first integrative steps, the Federalist crusaders translated their
24 See above note 22. 25 One emblematic example is Achille Albonetti’s 1960 Preistoria degli Stati Uniti (Milano,
Giuffre). This is a volume whose structural conceptualization is clearly influenced by the 1955
Etats-Unis d’Europe ont commencé written by the prominent promoter of the European
integration, Jean Monnet. Likewise, several volumes of strong supporters and militants of
Federalist ideals contributed to the initial bibliography on the subject. Among these, one should
remember Altiero Spinelli and Ernesto Rossi’s 1944 Problemi della Federazione Europea (Edizioni
M.F.E.); Spinelli’s 1944 Il manifesto di Ventotene (see edition edited by S. Pistone, Il Manifesto di
Ventotene, Torino CELID, 2001), and Manifesto dei federalisti europei (Parma, Guanda, 1957);
Spinelli’s 1953-54 Lettere Federaliste 1953 (Edizioni M.F.E.) and finally, his 1960, L’Europa non cade
dal cielo (Bologna, Il Mulino). Also worth mentioning are Aldo Garosci’s 1954 Il pensiero politico
degli autori del Federalist, (Edizioni di Comunità); and Adriano Olivetti’s 1952 Società, Stato,
Comunità (Edizioni di Comunità). 26 Particularly influential British Federalist authors were those connected with the Federal Trust
for Education and Research (the educational forum created by William Beveridge in 1945 in
connection with Federal Union movement) like Richard Mayne and John Pinder. See for instance,
R. Mayne, The Community of Europe, London, Victor Gollancz, 1962; Id., The Recovery of Europe:
from Devastation to Unity, London, Weidenfeld and Nicolson, 1970; Id., Postwar: The Dawn of
Today’s Europe, London, Thames and Hudson, 1983; or J. Pinder, Britain and the Common Market,
London, The Cresset Press, 1961. Also prominent were Federalist journalists writing for the
magazine «The Economist» like Christopher Layton or American Miriam Camps. See among
others M. Camps, Missing the Boat at Messina and other Times?, in B. Brivati and H. Jones (eds.
by), From Reconstruction to Integration, op. cit., pp.133-143, and Id., Britain and European
Community.1955-1963, London, Oxford UP, 1964. Finally, there were the books from the “Euro-
enthusiasts” in British political life among whom prominently Anthony Nutting, Europe will not
Wait: a Warning and a Way Out, London, Hollis and Carter, 1960; or Robert Boothby, My
Yesterday, Your Tomorrow, London, Hutchinson, 1962. .
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
100 C. Nasini, The Origins
disappointment into an angry discourse of “missed opportunities” for the
country27. This discourse adopted powerful vehicle-oriented metaphor of
European boats, busses and trains leaving without Britain which signified
variably the country’s economic decline, foreign policy drift and political
misjudgement. Although in the immediate post-war years the European issue
was not high in British popular consciousness, the skilful manipulation of
language made such a powerful picture of missed chances that the concept
spread in the media and public discourse28.
The “Federalist school” has continued to be predominant in Italy also
because of the limited acquaintance of Italian scholars with the far-reaching
debate on the integrative process developed in the rest of Europe from the late
Seventies onwards. Only a few Italian historians, among whom Antonio
Varsori, Federico Romero, Ruggero Ranieri and Enrico Serra, became engaged
with the debate aroused by this new scholarship29.
As already noted, as a consequence of the opening of governmental
archives in several European countries, in the Eighties a new line of research
emerged, with British historians in the forefront of this revisionism. The new
interpretation was also spurred by new European networks of scholars, among
whom most notable is the Liaison Committee of European Historians, which
was formed in 1983 with the institutional and financial support of the
Community institutions30. Through the European Commission’s support of the
27 A concise account of the so-called “missed opportunity school” is provided by the
historiographical synthesis of Oliver Daddow, Britain and Europe since 1945. Historiographical
Perspective on Integration, op. cit., p. 59 and fll.; in particular as the author notes at p. 70:
“Orthodox historiography is at root a political discourse originating from discontent with
British foreign policy and was written with more than an eye on changing the future”. 28 Ivi, p. 112. 29 For a concise survey of European integration history as a sub-field of Cold War history in
Italy and the scant participation of Italian historians to the genre see A. Varsori, Cold War
History in Italy, in «Cold War History», vol. 8, issue 2, 2008, in particular pp. 162-163. Overall
Varsori names only a handful of Italian scholars who became involved with the broader
international debate spurred by the new scholarly interpretation in the Eighties. Among these
the contributions by Ruggero Ranieri and Federico Romero in A. Milward et al., The Frontier of
National Sovereignty History and Theory 1945-1992, London, Rutledge, 1992; Enrico Serra, The
Relaunching of Europe and the Treaties of Rome, Brussels, Bruylant, 1989. For Varsori’s own
contributions to the field see A. Varsori and W. Kaiser, European Union History, op. cit., pp. 240-
241. 30 The establishing of the Liaison Committee as an official body was advocated in Luxembourg
during a massive “International Conference of Professors of Contemporary Europe” by the
historian René Girault. The French scholar had already sponsored large European transnational
networks especially in 1979-1980 when he had launched the international research project “The
Perception of Power Politics in Western Europe” addressing the early integration history. The
proceedings were published by Josef Becker and Franz Knipping, Power in Europe? Great Britain,
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
101 C. Nasini, The Origins
Liaison Committee and under the guidance of French international relation
historian René Girault, several international conferences were held with the
specific intent of reassessing the significance of the first integrative steps31. The
establishing of the Liaison Committee coupled with an earlier initiative by the
Community institutions, that is, the creation of the European Union Institute
(EUI) in 1974, in the outskirt of Florence, which acted as a post-doctoral school
and whose main focus was again on European Union history32. British economic
political historian Alan Milward was one of the first academics to hold a chair
at the EUI.
Revisionism also fed on the so-called “depolarization of Cold War
historiography”33. Going against previous readings, according to which the US
and Soviet Union were the only protagonists in the emergence of the Cold War,
the new historiography of the East-West conflict began to highlight the role
played by Europe and especially Britain in its inception34. The depolarization of
the Cold War had an impact on the history of the construction of Europe and on
British relations with it. Integration has been no longer interpreted as a direct
consequence of the competition between the Superpowers but as an
autonomous phenomenon. A new so-called “national interest school” of
France, Italy and Germany in a Post-war World 1945-1950,Berlin-New York, Walter de Gruyter,
1986. 31 A reassessment of the formative years was addressed in a number of conferences in the
Eighties and early Nineties. Among the proceedings published in the first half of the Nineties
see in particular Michael L. Dockrill and Anthony Adamthwaite, Europe within the Global System,
1938-1960: Great Britain, France, Italy and Germany: from Great Powers to Regional Powers, Bachum,
Brockeyer, 1995. 32 Most notably the EUI sponsored a massive project of collective research in Europe for a large
edition of documents related to leading - prevalently Federalist - European personalities,
political parties, movements and national and transnational pressure groups and covering again
the years of World War Second and the immediate postwar. The ensuing books were the
abovementioned series of documentary volumes edited by German historian Walter Lipgens.
Lipgens was the first to hold a chair in Modern European History at EUI, and after his death in
1984 he was replaced by W. Loth who in turn left his chair to British historian Alan Milward in
the late Eighties. 33 See on this Clemens Wurm, Early European Integration as a Research Field: Prospectives, Debates,
problems in C. Wurm (ed. by) Western Europe and Germany. The Beginning of European Integration
1945-1960, Oxford, Berg Publishers, 1995, in particular p. 15. 34 For historical overviews of this shift in interpretation see David Reynolds, The Origin of the
Cold War: The European dimension, 1944-1951, in «The Historical Journal», vol. 28, n° 2, 1985, p.
499. See also Lawrence S. Kaplan, The Cold War and European Revisionism, in «Diplomatic
History», vol. 11, n° 2, 1987, pp. 143-56; Donald C. Watt, Britain and the Historiography of the Yalta
Conference and the Cold War, in ivi, vol. 13, n° 1, 1989, pp. 67-89.
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102 C. Nasini, The Origins
interpretation dominated the Eighties35. According to this school, pioneered by
Alan Milward, European integration was neither the by-product of East-West
confrontation nor the achievement of Federalist personalities and pressure
groups but rather the goal wilfully pursued by European governments for their
own self-interest36.
The latter autonomously chose to build the European institutions because
they perceived them as a way of resolving domestic problems at a larger
European level37. For instance, for France and Germany the integration became
an instrument through which they recovered some of their lost power38. France
gained a share of German coal and still industries and Germany was allowed to
return to world politics. After Milward, revisionism was also initially spurred
by works of authors like Victor Rothwell and Geoffery Warner39. Both authors
claimed that Britain in the post-war had not been alien to the idea of a closer
cooperation with the European countries. They deconstructed the consensus
view according to which the alliance with the United States was the main goal
of British post-war foreign policy-makers and especially of Ernest Bevin. The
first target of the revisionists was therefore the Foreign Secretary who had been
till then considered the father of Euro-Atlantic partnership and therefore quite
inimical to the idea of closer integration with Europe40. An opinion propagated
also by the most important biographer of the Foreign Secretary, Alan Bullock,
35 See on this periodization C. Wurm, Early European Integration as a Research Field,op. cit., p. 18
and fll. 36 See most notably Milward, The Reconstruction of Western Europe 1945-1951, London, Methuen,
1994; Id., The European Rescue of the Nation State, London, Rutledge, 1992. 37 Ibidem. Milward’s view is embraced in Clemens Wurm, Early European Integration as a Research
Field, op. cit., in particular p. 19. 38 See Milward, The Reconstruction of Western Europe, op. cit., passim and 333-334. 39 V. Rothwell, Britain and the Cold War, London, Jonathan Cape, 1982; Geoffrey Warner, “The
Reconstruction and Defence of Western Europe after 1945”, in Nevil Waites (ed. by), Troubled
Neighbours: Franco-British Relation in the Twentieth Century, London, Weidenfel and Nicolson,
1971, pp. 259-292. See also by Warner, “The Labour Governement and the Unity of Western
Europe, 1945-1951”, in Ritchie Ovendale (ed. by), The Foreign Policy of the British Labour
Government, 1945-1951, Leicester, Leicester University Press, 1984, pp. 61-82. 40 Two well received articles respectively of 1982 and 1984 by John Baylis had given academic
voice to the view of Bevin as an inveterate Atlanticist. See J. Baylis, Britain and the Dunkirk
Treaty: the Origin of NATO, «Journal of Strategic Studies», vol. 5, n° 2, 1982, pp. 236-47; and Id.,
Britain the Brussels Pact and the Continental Commitment, in «International Affairs», vol. 60, n° 4,
1984, pp. 615-29. The idea was propagated in subsequent literature for instance Mark Stephens,
Ernest Bevin, Unskilled Labourer and World Statesman, 1881-1951, Stevenage, SPA Books, 1985, pp.
109-124; but also in Richie Ovendale, The English Speaking Alliance: Britain, the United States, the
Dominions and the Cold War, 1945-1951, London, Allen and Unwin, 1985. Many others followed
the same pattern of interpretation see again on this O. Daddow, op. cit., p. 95 and fll., and
passim.
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103 C. Nasini, The Origins
although the historian justifies Britain’s defence retrenchment under American
shelter as a matter of economic exigencies41.
Overall a more sophisticated scholarship emerged which asked new
questions. How was it possible that Bevin and his Labour Cabinet colleagues
had been so neglectful of the European dimension of British foreign policy42?
Instead of describing the inadequacy of British foreign policy, revisionists
started to investigate their causes and consequences more thoroughly43. They
have given to British foreign policy a new perspective filling many of the gaps
in the understanding of the stimuli behind the choices of British policy-
makers44.
A new community of diplomatic historians, in other words, started to
claim that in the immediate post-war, even for Britain, it was in the national
interest to be part of a more cohesive Europe. This line of research was
significantly expanded, as already mentioned, by subsequent scholars, such as
John Young and John Kent who created the “Third Force” paradigm for
understanding Bevin’s aim after 194545. This consisted in spurring some form of
formal or informal alliance with the countries on the Mediterranean and
Atlantic fringe of Europe with the goal of combining their national and colonial
resources to cope with superpower competition46. Western Europe’s overseas
possessions, particularly in Africa, were such that, if coupled with those of the
British Empire, they would make it possible to avoid subjugation to the United
States47. Even better, it would permit a world “Third Force” to rise to a role of
global leadership. Devised by Bevin and the Foreign Office in 1945, this policy
was gradually gaining ground throughout 1946 until it reached its zenith in
41 Cfr. Alan Bullock, Ernest Bevin: Foreign Secretary, 1945-1951, London, Heinemann, 1983, pp. 41-
42. 42 See for this claim Oliver J. Daddow, Britain and Europe since 1945, op. cit., p. 113 and fll. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 120-121. 45 See in particular J. Young, Britain and European Unity 1945-1999, op. cit., passim, J. Kent and J.
Young, “British Policy Overseas: The ‘Third Force’ and the Origin of NATO – in Search of a
New Perspective”, in Beatrice Heuser and Robert O’Neill (eds. by), Securing Peace in Europe,
1945-1962: Thoughts for the Post Cold War Era, Basingstoke, Macmillan, 1989, pp. 41-61; J. Kent,
“Bevin Imperialism and the Idea of Euro-Africa, 1945-1949”, in M. Dockrill and J.W. Young
(eds. by), British Foreign Policy, 1945-56, Basingstoke, Macmillan, 1989, pp. 47-76. A new article
of Geoffrey Warner also added to this new interpretation see Warner, “Ernest Bevin and British
Foreign Policy, 1945-1951”, in Gordon Craig and Frances L. Loewenheim (eds. by), The
Diplomats 1939-1976, Princeton NJ, PUP, 1994, pp. 103-134. 46 See for all J. Kent, “Bevin Imperialism”, op. cit., p. 55. See also Klaus Larres, “A Search for
Order: Britain and the origin of a Western European Union, 1944-55”, in B. Brivati and H. Jones,
From Reconstruction…, op. cit., in particular p. 73 and fll. 47 See for all G. Warner, “Bevin and British Foreign Policy”, op. cit., p. 112.
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104 C. Nasini, The Origins
1947-1948, when, Kent and Young conclude, there was a “wide ranging
consensus” among British policy-makers (and in the Conservative opposition),
American State Department officials and established press organs48. The
endorsement of the “Third Force” interpretation was so intense that by early
2000 the missed opportunity metaphor was regarded with disdain by the
academic community49.
The Federalist debate in Britain and Italy between the interwar years and WWII
During the interwar period, both in Great Britain and Italy, outstanding
political thinkers conceived the idea of superseding the nation state through the
creation of a genuine political and constitutional Federation among the
European countries. The crux of Federalist theory was that in light of recurring
conflicts the institutional formula of Federation was the only means to put an
end to international strife. In order to prevent each country from pursuing its
own national interest, European institutions had to be reorganized with the
power to transcend sovereignties. Some of the most influential writings were
those by British authors of the calibre of Philip Kerr (later Lord Lothian), Lionel
Curtis and Lionel Robbins50. This literature added to that by the Italian
Professor Luigi Einaudi51. These authors introduced the debate on the failures
of the League of Nations, which had left intact the sovereignty of its member
states, thus relinquishing the power to preserve order, prosperity and peace in
Europe.
48 See J. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 1 and passim. See also on the consensus
concept Kent and Young, “British Policy Overseas”, op. cit., p. 51. 49 It would be impossible to list here all the main protagonists of this new generation of
scholarship see on this the abovementioned good overview by Oliver Daddow, Britain and
Europe since 1945…, op. cit., in particular p. 126 and fll. 50 Belong to this intellectual enterprise the books by L. Curtis, The Commonwealth of Nations,
London, Macmillan, 1917; Id., Civitas Dai, London (Allen and Unwin), vol. I, 1934; P. Kerr and L.
Curtis, The Prevention of War, New Haven & London, Yale University Press, 1923; Philip Kerr,
Approaches to World Problems, New Haven & London, Yale University Press, 1924; and most
notably P. Kerr, Pacifism is not Enough, nor Patriotism Either, The Burge Memorial Lecture,
London, OUP, 1935. A collection of the most sounding passages of these works are in John
Pinder and Andrea Bosco (eds. by), Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord
Lothian (Philip Kerr), London and New York, Lothian Foundation, 1990. 51 Paramount were the two articles by Einaudi “La società delle nazioni è un ideale possibile?”
(Is the League of Nation a feasible ideal?) and “Il dogma della sovranità e l’idea della Società
delle Nazioni” (The dogma of sovereignty and the idea of the League of Nations) written by the
Italian economist under the pseudonym “Junius”. They appeared in the Milan newspaper
«Corriere della Sera», on January 5 and December 28, 1918. See on this, among many others,
Charles Delzell, The European Federalist Movement in Italy: First Phase, 1918-1947, «The Journal of
Modern History», vol. 32, No. 3 (Sep., 1960), pp. 241-250 (p. 241).
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105 C. Nasini, The Origins
Drawing together the Kantian theory of international anarchy with the
realist view of raison d’etat as the main driving force in relations among
sovereign states, these writers illustrated the damaging consequences of
national sovereignty in the economic, political and social field. The remedy was
perceived to lie in the institution of a Federal government which drew its
institutional inspiration from authors like Alexander Hamilton, A.V. Dicey and
John Stuart Mill52. Against this background in the Thirties many British
politicians, from Winston Churchill to Clement Attlee and Ernest Bevin,
welcomed the idea of creating a United States of Europe53.
This early debate nurtured subsequent literature by other significant
British protagonists from both the Liberal and Socialist milieu who gathered
around the movement of “Federal Union” after its creation in 193854. Through
the medium of “Federal Union” Lothian, Curry and Robbins’s writings reached
Italy and along with those by Luigi Einaudi they became the intellectual
backbone of Italian Federalism55.
“Federal Union” was the creation of three unknown British young men, C.
Kimber, D. Rawnsley and P. Ransome, who in late 1938 established the
movement under the influence of personalities like Lothian, Robbins and
Curtis56. Curtis in particular provided Kimber and his two fellows with a copy
of the recently published path-breaking federalist pamphlet Union Now by
American journalist Clarence Streit to acquaint them with the revolutionary
52 Cfr. John Pinder, “Federal Union, 1939-1941”, in Walter Lipgens (ed. by) Documents on the
History of European Integration, vol. II, Plans for European Union in Great Britain and in Exile, 1939-
1945, Berlin and New York, Walter de Gruyter, 1986, p. 29. 53 For a précis of Churchill’s Federalist formula see Hugo Young, This Blessed Plot. Britain and
Europe from Churchill to Blair, London, Basingstoke, 1998, pp. 10-25. Young also summarizes
Attlee and Bevin’s standpoints on the issue, see p. 25 and fll. See also John T. Grantham, The
Labour Party and European Union, 1939-1951, PhD dissertation, Cambridge , 1977, in particular p.
16 and fll. 54 One of the most complete account of “Federal Union” is in Richard Mayne and John Pinder,
Federal Union: the Pioneers, Basingstoke, Macmillan, 1990; see also Andrea Bosco, “Federal Union
e le origini dell’offerta di ‘indissolubile unione’ di Churchill alla Francia”, (Federal Union and
the Origin of Churchill’s Offer of “Indissoluble Union” to France) in Storia e Percorsi del
Federalismo, vol. II, op. cit., pp. 1139-1196. 55 On their wide impact of the British authors in Italy see John Pinder, Tre Fasi nella Storia… (Tre
Phases in the History of British Federalism), op. cit., p. 386. Particularly well received were the
two works by Robbins Economic Planning and International Order, London, Macmillan, 1937; and
Id., The Economic Causes of War, London, Jonathan Cape, 1939. 56 See J. Pinder and R. Mayne, Federal Union, op. cit., pp. 10-11. On the early months of “Federal
Union” see also A. Bosco, Federal Union e l’origine…, op. cit., pp. 1147-1167.
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106 C. Nasini, The Origins
views of the American journalist57. At the same time, Lothian and Robbins
contributed to propagandize the activities of Federal Union within the British
establishment. It resulted in the confluence of some of the finest British
personalities into the movement58. Among them were academicians like Ivor
Jennings, William Beveridge, Norman Angel and Arnold Toynbee. Meanwhile
also intellectuals and politicians like Barbara Wootton, Ronald G. Mackay and
Konni Zillicus soon adhered59. By the spring of 1940 Federal Union counted
over eight thousand members which became twelve thousand the following
year.
Apart from numerous branches throughout the major British cities, sub-
branches were established in France, Holland, Belgium and Switzerland60.
Federal Union deplored the League of Nations, welcomed the creation of a
European supranational and constitutional Federation endowed with a directly
elected European parliament, an independent executive power, a Court of
Justice and a police force61. That is, all those instruments able to curb the
bellicose expansionism of the European nation state. The exact composition of
the proposed Federation remained a matter of debate although the most
popular option was the one which saw as prospective members Britain, France,
Germany as well as the small democracies of Western Europe62.
No wonder, therefore, that the debate around “Federal Union” gathered
momentum in Britain with the outbreak of the Second World War. In January
1940 the Foreign Office entrusted Arnold Toynbee and Alfred Zimmerman,
who were both members of “Federal Union” as well as of the Chatman House
think-tank (also known as the Royal Institute of International Affair), to draft an
Act of Perpetual Association between the United Kingdom and France. The document
was intended as the constitutional nucleus of the prospective United States of
Europe63. An offer on this line was actually rejected by the French government
on the eve of its decision to surrender to Germany64. Nevertheless, as already
noted, the alliance between Britain and France remained one of the central
tenets of post-war British foreign policy. Around a prospective British-French
57 Ivi, pp. 1152-1159. The pamphlet by Streit advocated the creation of a Federation which must
include the North American states, the countries of Western Europe and those of the
Australasia. See also on this J. Pinder, Federal Union 1939-41, op. cit., p. 29. 58 See Bosco, Federal Union e le origini dell’offerta…, op. cit., in particular pp. 1147 and 1157-1158. 59 Ibidem. 60 On the membership, Ivi, pp. 1161-1165. 61 Andrea Bosco, Federal Union e le origini dell’offerta…, op. cit., pp. 1147-1167; pp. 1152-1153. 62 Ibidem. 63 See Ivi, p. 1181-1191. 64 See Ivi, p. 1145-1146.
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107 C. Nasini, The Origins
axis, Bevin tried for some time to launch a distinctly British proposal for a
cooperation or even economic unification of the Western countries of Europe65.
In Italy during the Twenties and Thirties the federalist debate had centred
on the writings of Einaudi but also on those of members of the “anti-fascist
intelligentsia” who had gathered around the Giustizia e Libertà (Justice and
Liberty) movement of democratic socialist Carlo Rosselli66. While in exile from
Fascist Italy prevalently in France, Switzerland and the United States, these
Italians had kept alive the belief of Rosselli in a Europe-wide common fight
against the Nazi-Fascism and in the creation of the United States of Europe. In
the United States, the former Foreign Minister Carlo Sforza authored several
influential books, among which, most notably, the 1930 Gli Stati Uniti d’Europa.
Aspirazione e Realtà (The United States of Europe. Aspiration and Reality)67.
Sforza became the leader of the Mazzini Society, the anti-fascist coterie created
in the United States by anti-fascist Harvard professor Gaetano Salvemini in
1939.
The Mazzini Society was also indebted to the inheritance of Giustizia e
Libertà of which Salvemini had been one of the founders and therefore it
embraced its longing for the United States of Europe68. In a more immediate
context the Mazzini Society’s efforts were directed to obtain Allies’ support for
a Comitato Nazionale Italiano which would act as a sort of anti-fascist government
in exile led by Carlo Sforza and devoted to the cause of Italian liberation69.
Among the goal that the American coterie wanted to achieve through Anglo-
American aid was the constitution of a so-called “Italian legion” of anti-fascists
to be delivered onto the peninsula in parallel with an allied landing70.
Other Italian antifascist exiles had strong Europeanists leaning. In France
the right-wing Socialist Claudio Treves and the Republican Silvio Trentin
respectively animated the anti-fascist journal La Libertà in Paris and the
movement Libérer et Fédérer in Lyon, while Ignazio Silone, also a right-wing
65On the alliance with France among many others see Larres, “A Search for Order…”, op. cit., in
particular pp. 77-82. 66 Articles on the European Federation appeared frequently in the journal «Quaderni di
“Giustizia e Libertà”» which Rosselli edited as an exile in France from 1932 to 1935 before being
assassinated by Fascist emissaries in 1937. See C. Delzell, “The European Federalist
Movement…”, op. cit., pp. 242-243. 67 C. Sforza, Gli Stati Uniti d’Europa. Aspirazione e Realtà (The United States of Europe. Aspiration
and Reality), Lugano, 1930. 68 Cfr. Antonio Varsori, Gli Alleati e l’emigrazione democratica anti-fascista (1940-1943), Sansoni,
Firenze, 1982, in particular p. 39 and passim. 69 Ivi, pp. 127-128. 70 Ibidem.
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108 C. Nasini, The Origins
Socialist, established the fortnightly L’Avvenire dei Lavoratori in Zurich71.
Relations between many of these exiled intellectuals, for instance Carlo Sforza
and the Mazzini Society in the United States, and the British intelligence were
prolonged and intense since the early Forties.
Italian Federalist Anti-fascism in the evidence about British Special Operation
Executive
Details of the relations entertained between SOE and Italian anti-fascists either
in the United States or in Switzerland are particularly detailed in the
abovementioned SOE file folders which contain previously withdrawn dossiers.
Among these dossiers the most informative are those concerning Leo Valiani,
Emilio Lussu and Aldo Garosci. There are, however, several other dossiers
concerning further Italian Federalists. This is the case for instance of the future
influential Italian Ambassador in the United States Alberto Tarchiani of whom
also there is trace in SOE files. Other Italians who appear in contact with British
SOE during WWII like Ugo La Malfa, Alberto Cianca, Filippo Caracciolo, and
Alberto Damiani in their capacities at that time as leading members of the
Action Party also subscribed to the Europeanist crusade of the party.
Detailed relations of SOE with some of these Italians in the United States
are also revealed in a document of American provenience dated March 1942. It
reflects a mixture of strategic considerations and ideological predilection which
were so typical of SOE’s attitude in dealing with the patriots and that the
Americans of OSS were quick to espouse as soon as they entered the conflict.
The document sent by agent John C. Wiley to OSS’s head William Donovan,
asked the permission of “stepping in” in lieu of SOE in the backing of the
Mazzini Society as a matter of great urgency72. According to the memo, “the
British had since some time been paying a subsidy of approximately $2.000 a
month to various individuals connected with the Mazzini Society”73. As the
American agent emphasized the British behavior had reflected their belif that
the Mazzini Society had “a representative character of the very best sort […] In
a conspicuous way, it symboliz[ed] the continued existence of free Italian
sentiments in respectable quarters. […] In fact, the most valuable human
elements in the Italian picture [were] to be found grouped [there]”74.
71 See C. Delzell, The a European Federalist Movement…, op. cit., pp. 242-243. 72 Cfr. National Archives and Records Administration (NARA), RG 226, Entry 210, box 62
Memorandum for Colonel Donovan dated 6 March 1942. 73 Ivi, p. 1. 74 Ivi, pp. 1-2.
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109 C. Nasini, The Origins
What concerned the American most, was the fact that after the United
States’ entrance into the conflict, the British (in accordance with US State
Department) had believed it appropriate to terminate their subsidy within the
United States territory therefore leaving the Mazzini Society in a financial
vacuum. The agent claimed that if the Americans would not provide a
substitute to British support this would result in an unfortunate situation for
their relations with Italian antifascism in general and the Mazzini Society in
particular. Thereafter the agent, clearly because of what had inferred from
British attitude, started to commend the significance of the Mazzini Society to
Bill Donovan.
He praised the Mazzini Society both as an indispensable conduit of
information on Italy but more importantly as a valuable political tool. Since the
Mazzini Society enjoyed the favour of millions of Italians outside Italy, the
agent stressed, that its “influence in the conduct of the war and in the shaping
of an eventual peace [would] be considerable”75. Therefore, the agent believed
that it would be an enormous advantage for the United States to replace the
British in their role of financier as well as of patron of the Mazzini Society76.
Unquestionably this document is quite a tangible proof of the British goodwill
towards the Mazzini Society and the Italian anti-fascism in general.
In 1943 after their return to Nazi-occupied Italy in consequence of the fall
of Mussolini, several of the abovementioned Italian exiles started their
underground battle within the Italian Resistance while continuing their
Federalist propaganda. In so doing, they joined efforts with the group that
meanwhile had conceived one of the most important Federalist document of the
whole European Resistance: Manifesto “Per un’Europa libera e unita” (“For a Free
and United Europe” Manifesto) (1940-1941). Written by Altiero Spinelli, Ernesto
Rossi and Eugenio Colorni during their captivity on the Fascist prison island of
Ventotene, the Manifesto drew its key inspiration, as already noted, from the
writings of Lothian, Curties and Robbins.
In 1943 the Ventotene Manifesto became the programmatic document of the
so called Movimento Federalista Italiano (Italian Federalist Movement) led again
by Spinelli and Rossi. It had been established at the end of August of that year
during a clandestine meeting in Milan in the house of Mario Alberto Rollier,
another prominent Federalist, who would maintain a leading role inside the
movement for many years. It also is worth mentioning Rollier here because
there is evidence of continuing British attention towards Rollier’s Europeanist
activities even after the end of the conflict.
75 Ibidem. 76 Ivi, p. 3.
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110 C. Nasini, The Origins
Finally, one last anti-fascist bastion of strong Federalist inclination was the
Partito d’Azione Italiano (Italian Action Party, alias PdA) created underground in
Italy in 1942 by some militants of the former Giustizia e Libertà and other who
shared Rosselli’s democratic socialist inclinations. There is also evidence that
SOE kept a close eye on the Action Party’s publicity as it appeared in the party’s
clandestine journal Italia Libera. In particular SOE’s files contain copies of the
Manifesto of the Action Party which came out in 1943 on Italia Libera. British
intelligence also prepared some positive appreciation of the document for the
Foreign Office as well as the translation of some of its parts. Nor did SOE forget
to signal in its report to London the strong Federalist line of the Action Party
with regard to post-war European relations77.
The new intelligence evidence shows, in other words, that there was a
consistent convergence between the British and the Italians at least as far as the
non-communist Left was concerned from both sides. It seems that a thin but
enduring thread was provided by the belief, common among a certain political
milieu of the two countries, in the need of providing post-war Europe with new
intellectual energies and original strategies of cohabitation for European people.
As David Stafford, one of the leading historians of SOE, has pointed out with
reference to SOE’s central role in stirring Resistance movements according to
British strategic thinking: “the theory of the “European Revolution” was
already, long before the Soviet Union entered the war, common currency on the
Left of the British political spectrum”78.
SOE was created because it was believed capable of enhancing
widespread revolt among the population of the Nazi-conquered countries of
Europe. Stafford calls SOE the detonator factor of European popular uprising79.
This is also emblematically expressed in Churchill’s famous remark on the
occasion of SOE’s creation on July 1940: “Now set Europe ablaze”. The creation
of SOE was the direct consequence of British military unpreparedness in 1939-
1940, when the British Chiefs of Staff did not consider a major British land
offensive in Europe feasible for several months to come80. This was in fact
before that the United States and Soviet Russia entered the war. Representing
the principal strategic alternative to a more direct, as much infeasible, military
77 The National Archives (TNA), Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western
Europe, document HS6 904/00035-00050. The folder contains copies of the Action Party’s
Manifesto as expressed through the «Italia Libera» the journal that SOE routinely sent to London
for appreciation. 78 D. Stafford The Detonetor Concept: British Strategy, SOE and European Resistance after the Fall of
France, «Journal of Contemporary History», vol. 10, n° 2 (April 1975), p. 208. 79 Ivi, pp. 191; 199-200. 80 Ivi, p. 193 in particular.
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111 C. Nasini, The Origins
involvement, SOE was established amidst a lot of concerns. These regarded its
more immediate objectives. It also had to do with the choice of a suitable chief
for the organization. Even its political complexion was an underling issue.
It must be born in mind that SOE was conceived as an extension and a
supplement to the activities of Ministry of Economic Warfare established in
September of 1939. The latter’s scope of carrying on “economic pressure”
against the enemy through blockade, air bombing of strategic targets and
sabotage was expanded to include the active role of the oppressed population
of Nazi-occupied Europe. SOE’s role was that of igniting the spirit of revolt of
these potential resistance movements through any means. This meant not only
to provide the European nationals with support in term of weapons and
ammunition, albeit these were much needed, it involved the much more
difficult task of providing the European patriots with same sharable political
prospect for the future which would spark them into action irrespective of their
nationality81.
Stafford, in other words, plays up the ideological dimension behind the
creation of SOE. An interpretation which also explains why, in the end, Hugh
Dalton was chosen to lead the organization. The choice of the ambitious Labour
representative, already head of the Ministry of the Economic Warfare, meant
that the new organization would prevalently count on the leftist forces of
Europe for the implementation of its strategy. As Dalton himself declared in his
memoirs the best energies for the kind of subversion required resided in his
British constituents and their counterparts throughout Europe82. Their action
should include methods like labour agitations and strikes, boycotts and riots as
much as propaganda. It was Dalton’s opinion that “SOE would be a
revolutionary organization. Just as it was his opinion that SOE had as his field of
operations a Europe’s potentially open revolt”83.
At the core of SOE creation, in other words, were ideological elements of
such a strong force, that it affected all its structure and activities. This is part of
the reason why SOE was not put under service control but was instead given to
Dalton’s command and its personnel were recruited as much among clerks and
commercial travellers as among men who could understand the European
workers’ aspirations84. Yet their goal should transcend national boundaries85.
Being conceived as a continent-wide fight, it was to contain some sort of supra-
national aim. As again Dalton pointed out, “what was needed was an
81 Ivi, pp. 203; 208. 82 Ivi, p. 200. 83 Ibidem. 84 Ivi, pp. 207-208. 85 Ivi, pp. 203; 208.
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112 C. Nasini, The Origins
organization to coordinate, inspire, control and assist the nationals of oppressed
countries who must themselves be the direct protagonists. We need absolute
secrecy, a certain fanatical enthusiasm, willingness to work with people of
different nationalities and complete political reliability”.
Could not the pursuit of such a common project for the European people
start from an evaluation of the ideas that their own Resistance representatives
had in mind? The significant interest that SOE showed for Italian Federalism as
early as in 1940 seems to provide a positive answer to this question. On the
other hand, British own acquaintance with Federalism at that time was enough
to make them believe that Federalism could be a prospective founding value in
the construction of a new European identity.
The content of much of the discussions which took place between the
Italian intellectuals and SOE representatives; or the motivations which pushed
SOE in heavily financing most of these personalities (emblematically Carlo
Sforza’s coterie of the “Mazzini Society”), add strength to the picture of SOE as
motivated by this ideological tinge. Many further revealing episodes occurred
between 1940 and 1945 when SOE started liaising with the Italian antifascists in
order to find a strategy for bringing about the collapse of Mussolini’s regime as
a conduit to Italy’s capitulation86
This happened, for instance, when between 1941 and 1942 Emilio Lussu
came into contact with SOE’s emissaries first in Gibraltar and Malta and later in
Lisbon and London87. Lussu was a well-known antifascist exile of strong
Socialist leaning who had fought in the International Brigades during the
Spanish Civil War. He had actively participated in the creation of the Giustizia e
Libertà movement with Rosselli and later, in his native Sardinia Island, had also
founded the Partito Sardo d’Azione (Sardinian Action Party) of Federalist
orientation88. Lussu was, along with Silvio Trentin, the Italian theorist of the
Federal state who saw in decentralization and local autonomies, the solution to
the problem of bureaucratic centralization of the authoritarian state. As already
noted Lussu had originally come into contact with SOE in 1941. Since these very
early contacts, the Sardinian intellectual had unfolded to SOE his original
subversive scheme for Fascist Italy.
86 Evidence of these connections are already contained in the recent volume by Moreno
Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano…,op. cit., passim. 87 Cfr. TNA, collection Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe,
document HS9/1569/4. This is a very large folder containing a lot of evidences concerning the
cooperation between SOE and several Italian anti-fascist exiles, especially in the United States. It
also contains information on Lussu’s interaction with SOE. 88 Berrettini, La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano…, op. cit., p. 24 and fll.
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113 C. Nasini, The Origins
In his strategy the subversion from inside of the country espoused his
Federalist thinking and his wishes of bringing about the autonomy of Sardinia
from the rest of the peninsula89. According to Lussu, the Sardinia island should
became the stronghold of an autonomist and anti-Mussolini rebellion under the
lead of some Italian officers of the former Brigata Sassari (Sassari Brigade) who
had fought with him during the First World War. This rebellion should be
launched in parallel with an Allied landing in the Island which would help the
insurgence to spread into the rest of the country bringing about the end of the
regime and of the alliance with Germany. From a purely military point of view,
as again noted by Stafford, since 1940 the islands of Italy and its southern
shores had both became central in SOE’s preparatory strategy, as they
represented in fact potential targets of a subsequent Allied landing90.
On the other hand, Lussu’s plan, code-named operation “Postbox”, was
initially rejected by the British Foreign Office because of the demands the
Sardinian had posed in return for his collaboration91. This comprised some
political guarantees for Italy especially in the territorial sphere where Lussu
pleaded the cause of the preservation of the Italian colonies and that of the
italianità of Trieste. At the same time, there is evidence that during 1941 the
cooperation was forestalled by Lussu’s initial refusal to became an agent for
SOE. Apparently Lussu retorted to the British that “no exponent of Italian
antifascism would ever have accepted to become a British agents and thus
serving a foreign power”92. On the other hand, there is evidence that no later
than in January 1942 Lussu softened his position with respect to SOE’s request
of enrolment into its ranks. Probably financial reasons were at the core of
Lussu’s change of views in this respect93. According to further documentation
of SOE provenience, Lussu from 1942 became an “extremely friendly contact”
of Baker Street (alias SOE headquarters).94 Lussu thereafter offered SOE many
useful links with prominent Italians both in the United Kingdom and in the
United States; for instance with people like abovementioned Alberto Tarchiani
at that time first secretary of the Mazzini Society and with the future Italian
89 Ibidem. 90 Cfr. D. Stafford “The Detonetor Concept: British Strategy, SOE and European Resistance”, op.
cit., p. 206. 91 See also the account of operation Postbox based on SOE’s documentation in E. Di Rienzo,
Quando Emilio Lussu voleva regalare la Sardegna a Churchill, in «il Giornale», 14 giu. 2010. 92 Ibidem. 93 Ibidem. 94 Cfr. TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document
HS9/1569/4. See dossier on Lussu.
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114 C. Nasini, The Origins
Minister Alberto Cianca. These two men paved the way into the inner
entourage of the Mazzini Society for SOE95.
Consequently, by 22 January 1942, Lussu’s project was “being considered
[in London] in the highest circles.” The documents show that Lussu was
considered as a personality of the “highest standing” by SOE and eventually he
met with “ministers and senior officials like Clement Attlee and Stafford
Cripps” in UK96.
It confirms an early interest in the Left of the British political
establishment, albeit not without some scepticism, in the belief which was
central for Lussu (as well as for the greatest part of the Italian non-communist
Left ) in a possible gradual overcoming of the shortcomings of the nation state
through a different political compromise among the European countries. No
wonder then that personalities like Leo Valiani, Aldo Garosci, Ernesto Rossi
and Altiero Spinelli whose faith in Federalism was even stronger than that of
Lussu, were not only listened by the British but received ample material and
moral support from SOE.
In sum what emerges from these files confirms what until today has been
merely maintained in some personal chronicles or memoirs, which have
unequivocally been rejected by traditional historiography. The essential role
played by the non-Communists did not match with the prevalent national
rhetoric according to which the Communists brigades were the real
protagonists of the Italian Resistance. In the face of the radicalization of the
political and ideological climate in post-war Italy, the “non-communist”
Resistance was progressively discounted. Its role gradually faded away as
dissonant with the national account of the valiant Brigate Garibaldi, the Marxist
Partisan formations which unaided – or worse, even opposed by the Allies –
distinguished themselves in the antifascist fight thus restoring morale to Italy.
The most revealing episode of SOE involvement with Italian Resistance
leadership of Federalist orientation is that of Leo Valiani, even if there is no
mention of this clandestine connection with SOE in his celebrated 1947 account
of his antifascist experience, Tutte le strade portano a Roma (All Roads Bring to
Rome)97. Valiani published Europeanist articles and was acquainted to the inner
95 Ibidem. 96 Ibidem, see Report on Lussu from ‘J’ dated 16 May 1942; and Dispatch from ‘J’ on 22 January
1942. 97 L. Valiani, Tutte le starde portano a Roma, Roma, 1947. A full list of Valiani’ s own prolific
writing, comprising over hundred publications, is in
http://www.fondazionefeltrinelli.it/feltrinelli-
cms/cms.view?pflag=customP&id=FF9000000208&physDoc=208&munustr=055&numDoc=289.
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115 C. Nasini, The Origins
entourage of the underground Spinelli’s Italian Movimento Federalista Europeo98.
Leo Valiani was, in fact, one of the main leaders of the Italian Resistance in
Northern Italy in his capacity as representative of the Action Party within the
CLNAI (Committee of National Liberation of Northern Italy) the clandestine
body in charge of the antifascist movement in Milan. Later in the post-war he
was a preeminent member of the Constituent Assembly for the Italian Republic
as well as seven time deputy in the Italian Parliament. Valiani appears as a
leading figure in any single account on the Italian Resistance not only because
he was one of its main leaders but particularly because he presided at all the
most important negotiation meetings between the Resistance leadership and the
Allies.
Valiani attended, along with Ferruccio Parri (the future Italian Prime
Minister in 1945), the very first one of this meetings held in Lugano on 3 and 4
November 1943. This was the first time after the Armistice when a small Italian
Resistance delegation officially met the heads of both SOE and OSS,
respectively John Mac Caffery and Allen Dulles. The second one of these
meetings was held again in Switzerland between 23 and 29 October 1944 and it
included, via a second small Italian delegation, the participation of Valiani and
Alfredo Pizzoni, the then acting president of the CLNAI. The two, during a
very sensitive phase of the Italian Campaign, were summoned in Switzerland
by Mac Caffery and Dulles to ascertain if, in case of a potential untimely
evacuation of the Germans before the arrival of the Allied armies in the North,
the Italian Resistance leadership would be able to maintain ‘law and order’
within the movement and the population and prevent possible unpredictable
civil unrests. According to Pizzoni’s memoir, before the official meeting Mac
Caffery requested to privately confer with Valiani since – as Pizzoni infers - the
two men had already previously met99.
Presumably, though, this was not the prevalent reason for the pre-emptive
tête-à-tête between Valiani and Mac Caffery but rather the fact that SOE had
long been covertly connected with Valiani.
Finally, Valiani and Giuseppe Cadorna (the General entrusted with the
military command of CLNAI) again attended the third and last important
meeting between SOE/OSS and the Italian Resistance leadership in Switzerland,
held on 28 February 1945 in Berne100. At that time, Valiani was also one of the
98 See for instance Valiani’s 1945 article in http://patrimonio.fondazionefeltrinelli.it/new-
feltrinelli/biblioteca/detail/FF9000000706/dalla-bomba-atomica-alla-federazione-degli-stati.html 99 A. Pizzoni, Alla Guida del CLNAI (My Leadership in the CLNAI), Bologna, Il Mulino, 1995, p. 82
and fll. 100 See Luigi Cadorna, La Riscossa. Dal 25 luglio alla Liberazione (The Redemption. From the 25 of July
to the Liberation), Milano, Rizzoli, 1948, p. 223 and fll.
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116 C. Nasini, The Origins
three Italian leaders in charge of a body created in February 1945 within the
Resistance: the Comitato per l’insurrezione (Insurrectional Committee). It was a
kind of insurrectional “Directory” established by the Communist, Socialist and
Action Parties to direct the popular uprising which was meant to erupt in
coordination with the final advance of the regular Armies in order to harass and
disrupt the Germans. Yet, at the beginning of 1945 the Allied commands were
eager to know if there were also further and unwelcomed aims behind the
recent constitution of the comitato insurrezionale. The ultimate aims of the new
committee were certainly a matter of concern for the Allies as this board
comprised exclusively the Italian parties from the Left. Presumably, the
situation in Italy must have appeared quite similar to the incidences that had
recently occurred in Greece.
The new files from the SOE archives are quite explicit on the
abovementioned Swiss meetings, particularly, on the history of Valiani’s
adherence to SOE. The Italian anti-fascist exile was recruited in Mexico by SOE
in June 1943. The first reference to the inclusion of Valiani in SOE’ s projects is
in a memorandum from SOE’s Italian agent Max Salvadori addressed to “J”,
that is, C.L. Roseberry, head of SOE Station in London101. In the document
Salvadori, alias Sylverston, who in 1942 had befriended Valiani in Mexico, not
only suggested “J” to enroll Valiani into SOE but also to assist him in his wish
to return to Europe to fight102. In the same memo Salvadori also mentioned -
confirming earlier evidences - other prominent members of the American
Mazzini Society, namely, Emilio Lussu and Alberto Cianca who, in their
capacities of already friendly “contacts” of SOE, would be able to persuade at
least 10 more Italians from the coterie to work for SOE. On the other hand, at
the core of Salvadori’s interest was Leo Valiani, alias Leo Weiczen or also
Giuseppe Federico. Appreciation of Salvadori’s memorandum in fact is stated
in the following extract “Max is eager that Weiczen is sent here [in London] to
work with him”103. As a consequence of Salvadori’s pressure SOE branch of
New York had thus supported Valiani in obtaining a visa for the United States
and later in August 1943 to embark on the warship S.S. Mosdale leaving from
Halifax to London (many details on Valiani’s trip across the ocean are in several
SOE cypher telegrams to and from New York included in the file folder)104.
101 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document
HS 9/1305/ 6. 102 Ibidem. 103 Ibidem. 104 Ibidem.
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117 C. Nasini, The Origins
Yet, Valiani’s own SOE record sheet is even more detailed105. The
document undersigned on 14 August 1945 by SOE Lt. Col. Richard Hewitt (a
prominent member of SOE in Italy) states that Valiani was, in fact, a SOE
“agent” from 1943 until 25 July 1945106. Specifically, the document reads
“Valiani was infiltrated via Switzerland before the Armistice into the Milano
area. He was engaged in Resistance activity of a purely political nature and was
closely connected to the CLNAI. As such, he contributed to setting it up and its
further work. He was responsible to ‘Y’ for reporting on his resistance activity
and became one of the main Action Party leaders in Milan”107. Finally, with
regard to the liquidation matter concerning Valiani, the record sheet shows (in
an appendix B) that Valiani undersigned a certification, after the Italian
Liberation in Milan, declaring that “as from 25 July 1945 his association with
No.1 Special Force is officially terminated and that he has no claim, financial or
otherwise on No 1 Special Force in Italy or elsewhere in respect of himself, his
relatives or his friends”108.
On the other hand, as we will see, there is further evidence that the British
commands were not at all inclined to hastily terminate their connection with
Valiani. Indeed, the records demonstrate that SOE actively advised the British
authorities to espouse and assist Valiani’s expressed wish to visit the UK in the
summer of 1945.
In truth, the work provided by Leo Valiani must have been quite
important for SOE. As documentation reveals, Valiani (like his friend and
colleague Max Salvadori) had acted as British ‘watchdog’ among the Italian
Resistance. There is evidence that SOE always considered it important to confer
with Valiani and thus he was always required to be among the participants of
all the Resistance delegations in Switzerland. As another series of documents
suggest, the last of the three aforementioned meetings was a matter of
particular concern for the Anglo-Americans109. Held in Berne on 28 February
1945, it was the first meeting to take place after the Greek Communist coup and
during the time when the recently established comitato insurrezionale,
dominated by the Italian leftist parties, was hectically preparing the national
uprising with the supposed intention of disrupting the Germans. It seems likely
that in a similar situation both SOE and OSS must have felt the urgent need to
confer with their most pre-eminent Italian ‘watchdog’ alias Valiani. This
105 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe. Particularly
file folder HS 9/1569/4 includes a lot of further information of interest on Valiani. 106 Ibidem. 107 Ibidem. 108Ivi. See Appendix B. 109 These documents are also contained in file folder HS9/1569/4.
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118 C. Nasini, The Origins
urgency regarded the exigency of being reassured on the loyalty of the Italian
Resistance to the Allies during weeks when both SOE and OSS were delivering
tons of military aids to the Partisans. The extreme concern of SOE on the matter
is confirmed by the fact that the Swiss meeting was preceded by an intense
exchange of cypher telegrams among London, Berne and New York (where was
the SOE branch which had originally recruited Valiani) in order to ascertain if
Leo Weiczen was still a reliable agent110.
Consequently, in a dispatch from London to New York on 19 February
1945, the London Station wrote: “Leo Weiczen now working in occupied Italy.
To our knowledge he was originally communist but understand that during his
exile he had no association with the communists and only with Giustizia e
Libertà [the movement forerunner of the Action Party] people. He is now […]
on central Liberation Committee in Northern Italy. Complications with
Communists may arise and we wish to know whether we can rely on Weiczen.
Report quickly please”111. From New York, SOE replied on 20 February:
“Subject [a pencil annotation on the cypher telegram adds the name of Weiczen]
was specially recommended by Salvadori in whose judgment we have absolute
confidence. Subject was not associated, repeat not associated, with the
communists but on the contrary while in Mexico took a very definite
anticommunist line. We feel you can have full confidence on him. You can
obtain confirmation and all details of subject’s activity in Mexico from
Salvadori”112. On the same day a further and last telegram from London to
Berne stated: “Concerning Leo, New York telegraphed as following: while in
America he never was in contact with Communists but rather adopted an
anticommunist line. You can trust him”113.
Further evidence of Federalists’ implication with the Secret Services of the United
Kingdom
Aldo Garosci’s codenames for SOE were Magrini, Ferry and Colombo. Like
other Italian dissenters who became British agents he was first a militant of
Giustizia e Libertà (the anti-fascist movement of Carlo Rosselli) and later a
militant of the Partito d’Azione. In 1940, he had repaired to the United States
where he was among the founders of the Mazzini Society and was one of the
first Italians that SOE recruited via the American coterie. As his SOE record
sheet reads: “Garosci […] arrived from New York to the UK on 28 June 1943.
110 Ibidem. All the cipher-telegraphs are in copy in the file folder. 111 Ibidem. 112 Ibidem. 113 Ibidem.
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119 C. Nasini, The Origins
[…] To be organiser-agent in Massingham commencing on July 1943”114. The
document adds that after returning to Europe under SOE auspices, Garosci was
recruited for operation “Arnold”. Consequently, he was parachuted down into
the Rome area on 12 December 1943 in order to carry out subversive
propaganda and resistance until the Liberation of the city. Afterword he was
mainly engaged in political activities within the Action Party. Although the
records stress that after the Liberation of Rome, Garosci loosened his
association with SOE, he was officially discarded no sooner than the 27
September 1945. A last remark adds: “non-SIM agent” “recommended for
reemployment and contact”115. Garosci’s profile is similar in many respects to
that of many other SOE’s non-SIM Italian recruits. Like many of them, after
embracing socialism at an early stage, Garosci gradually moved towards a more
non-maximalist position and espoused the Europeanist crusade of the Action
Party. In 1954, whilst a militant of the Partito Social Democratico Italiano
(Italian Social Democratic Party) - which had broken with the Moscow-aligned
Italian Socialist Party (PSIUP) of Pietro Nenni in early 1947 - Garosci published
Il pensiero politico degli autori del ‘Federalist’ (The Political Thinking of the
Authors of the ‘Federalist’ ) which represented the first popularization of the
pamphlet in Italy.
The records on Garosci show that the British were not at all inclined to
hastily terminate their connection with him in consideration of a possible post-
war re-employment. The same had been the case for Valiani. On 24 August
1944, the HQ SOM (the headquarters in command of SOE in Italy) addressed a
letter of commendation about Valiani to the British General Consulate in Rome
stating that
the above mentioned Italian [Valiani] has given most distinguished services in connection with
Special Operations. […] It is understood that he has recently made application in his capacity as
a journalist, through the Press Attaché at the Embassy in Rome, for permission to visit the
United Kingdom. It would be appreciated if all possible assistance might be given to him to
achieve that end.116
Ernesto Rossi and Altiero Spinelli’s underground activities in Switzerland
were also part of these intense clandestine exchanges, albeit in a relatively more
independent capacity. As we have seen, during WWII neutral Switzerland
became the crossroad where SOE liaised with its agents of foreign nationality.
114 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document
HS 9/565/5, Garosci’s record sheet. 115 Ibidem. 116 TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document
HS9/1569/4.
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120 C. Nasini, The Origins
Rossi and Spinelli were other “contact or source” of SOE in Switzerland.
Although there is no documentary evidence of their proper enrolment into the
SOE ranks, following their footsteps in Switzerland we find them in contact
with so many SOE agents that there is no doubt of their working under British
auspices. Rossi, on the other hand, had been actively involved in summer 1943
in the negotiations occurred in Switzerland between exponents of the Italian
anti-fascism underground and SOE /OSS in order to devise a strategy to bring
about the end of the regime117.
At that time, Rossi had unfolded his own plan to the Mac Caffery who
apparently led these Swiss meetings with an attentive Allen Dulles in the
background118. As for Spinelli, after moving in Switzerland at the end of 1943 he
actively worked to develop extensive underground contacts among pro-
Europeanist exiles there. His endeavours brought about the Geneva conference
of May 1944 when exponents of 9 European countries ensued the “Federalist
declaration of European Resistance fighters”119. In September 1946, Spinelli and
Rossi, as already mentioned, participated in the creation of the European Union
of Federalists (EUF) in Switzerland. Also in this case there was the involvement
of the Allied intelligence community since remnants of the American OSS, as
we will see, decided to back the creation of the European Union of
Federalists120.
The outcome of the “Free and United Europe” gospel in 1946 Italy
There is no doubt, in sum, of the leading role played by Italian Federalists
within SOE and more in general with the Allied intelligence services during the
Resistance. The post-war was different. It was not lack of determination but
rather the constraining impact of external impediments. First and foremost the
Federalist impetus of Italy was hampered by its condition of defeated country
with no international say. Partly it was also hindered by the preoccupation of
alleviating the harsh clauses imposed by the victorious powers which absorbed
most of the energies of those working in the Italian Ministry of Foreign
Affairs121. And finally it was also troubled by the need to solve the “Institutional
question” that is the choice between Monarchy and Republic.
117 See TNA, Special Operation Executive, Series 1, Special Operations in Western Europe, document
HS 7/262, War Diary 1942, vol. 1, pp. 245-246 and fll. 118 Ivi, p. 246. 119 Cfr. C. Delzell, “The European Federalist Movement…”, op. cit., p. 248. 120 Cfr. Thierry Meyssan «Histoire secrète de l’Union européenne» Réseau Voltaire
International, 28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html. 121 See on this Ilaria Poggiolini, Italy in D. Reynolds (ed. by), The Origin of the Cold War in Europe,
op. cit., pp. 128-130. As for the year up to 1947 Italian government found mostly concerned
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121 C. Nasini, The Origins
The Italian Federalists were solid in their republican feelings, yet the
struggle within the country was not as straightforward as assumed during the
war. The alliance of the Communists in this sense was essential for defeating
the monarchists and therefore the Federalist forces in the government – albeit
not of scarce significance - did not dare to displease them with their longing for
the United Stated of Europe122. The latter option was clearly unwelcomed by the
Italian Communists. Sergio Pistone has claimed that between 1945 and early
1947 the Italian Communist Party as part of the coalition government, and
following indication in this sense from Moscow, participated in emasculating
the Europeanist outlook of Italy123.
Even the Italian Movimento Federalista, which was still active as a pressure
group – but now under a new leadership - saw its activities in fact hampered by
the momentary estrangement from the cause of Rossi and Spinelli. Both would
restart their federalist action only in consequence of the launch of the Marshall
plan which Spinelli and Rossi appreciated in so far as it provided the Western
European countries with new room for manoeuver towards their Federalist
goals124. Yet, at the end of 1945 Spinelli made manifest his pessimistic view of
the general situation of the continent after the conflict. It frustrated the strategy
envisaged in his Ventotene Manifesto, viz. that of a short, sharp struggle for
federalism taking advantage of the power vacuum brought about in Europe by
the collapse of Hitler’s Reich125. European countries had instead been occupied
and stabilized in consequence of the decisions taken at the international
conferences of Teheran, Yalta and Postdam by the “Three Big”. Powerful
foreign powers had once again deprived larger European masses of the
freedom of deciding of their own foreign policies126.
The only action feasible in those circumstances was, according to Spinelli,
the intellectual task of “wakening European minds” on the magnitude of the
around the peace treaty terms which were negotiated in a growing atmosphere of East-West
confrontation. Among the Italian government’s concerns were pressing issues like the definition
of the boundaries of the Free Territory of Trieste; the extent of the dismemberment of the Italian
Navy and of the limitation on the Army and Air Forces; the fate of the Italian colonies,
reparations to USSR, Greece, Yugoslavia, Greece, Albania and Ethiopia. 122 Sergio Pistone, “The Italian Political Parties and Pressure Groups in the Discussion on
European Union”, in Walter Lipgens, The struggle for European Union…, op. cit., p. 133 in
particular. 123 Ibidem. 124 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE tra fine della guerra e Piano Marshall, in Michel
Dumoulin (ed. by) Plans des temps de guerre pour l'Europe d'après-guerre, 1940-1947: actes du
colloque de Bruxelles 12-14 mai 1993, Bruxelles-Milan, Bruylant-Giuffré, 1995, in particular pp.
516-517. 125 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups, op. cit., pp. 135; 146. 126 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular p. 493.
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122 C. Nasini, The Origins
situation127. The Movimento therefore should become a study-centre. Spinelli
was also disillusioned by those who had participated in the Resistance at his
side within the Action Party. Many of the former “azionisti”, progressive
intellectuals or middle-class students and workers from the left, that Spinelli
had seen as the prospective holders of the supranational banner had instead
launched themselves in the political arena with the goal of changing exclusively
the internal political structure of the country128. Due to the intransigence of the
Communists and the Socialists (who had joined the former with a pact of unity
of action) the issue of the European federation had progressively disappeared
from the Italian political agenda.
On the other hand, at the end of 1945 Spinelli believed that an agreement
with the Communists in the parliament was indispensable for making those
democratic reforms the country needed in the domestic field129. Therefore this
led to his decision of abandoning the Federalist crusade for fear that under
present circumstances the Italian Movimento Federalista might end up for
appealing exclusively to conservative forces130. The situation which instead
occurred was diametrically opposed. In January 1946, the new leaders of the
Italian Movimento Federalista Umberto Campagnolo and Guglielmo Usellini,
presided over a movement that Charles Delzell has defined as made in large
part of “crypto-communists”, whose objectives were unsurprisingly “hazy”131.
For almost two years the Movimento Federalista participated in that large
“third-forcist” political surge, which encompassed the majority of Europeanist
groupings in the Continent, which advocated the Federation of Europe as a
means of preventing the formation of rigidly hostile blocs132. As for the strategy
Campagnolo claimed that, what was needed, was the direct mobilization of
people133. This would bring about the revolutionary (but non-violent)
dissolution of states which would be merged through the agency of a European
Constituent Assembly in a European Federal Republic134. The latter would
include Britain and also the USSR after the soviet people had dissolved their
state135.
On the other hand, such a far-reaching project was left in the vague
concerning its more immediate political interlocutors. As already mentioned the
127 Ivi, in particular p. 498. 128 Ivi, in particular pp. 498-502. 129 Ivi, p. 501. 130 Ibidem. 131 Cfr. C. Delzell, “The European Federalist Movement…”, op. cit., p. 249. 132 Cfr. for instance S. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups…, op. cit., p. 143. 133 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular pp. 503-504. 134 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure … op. cit., p. 160. 135 Ibidem.
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123 C. Nasini, The Origins
support of Italian left was unlikely. The hazy indication of the “masses” as the
main protagonists evidently overestimated the interest of public opinion at
large for European federation. Nor Soviet appreciation of such a plan would be
more forthcoming. Finally, the Movimento’s detrimental approach to the
Atlantic option particularly informed its relations with the Italian pro-western
parties which were seen as outright inimical136. In sum, before Spinelli returned
to lead the Movimento Federalista Italiano Italian federalists had no influence on
the Italian political establishment except that they played a considerable part in
persuading the Constituent Assembly to adopt article 11 of the New
Constitution137. The latter, while not referring to European unity as such, spoke
of “limitation of sovereignty necessary to a system for assuring peace and
justice among countries”138.
It can be claimed that the Movimento Federalista‘s vision of unity of Europe
which might comprehend both Labourite Britain and Soviet Russia reflects the
same contradiction that traumatized those on the left of the Labour Party at the
end of the war139. Also in Britain the non-communist parliamentary left had
tended for a while to align itself with the “fellow travellers” in condemning
Britain and the United States for deterioration of relations with Soviet Union140.
Unlike the Movimento Federalista, however, the position of the left-wing of the
Labour Party was quite different from that of the Communist Party and by mid
1946 this was made apparent. As Anglo-Soviet differences accumulated, the
parliamentary Labour Left turned to the notion of establishing a “Third Force”
which would assume independence from both the Superpower. This unit was
considered capable to entertain positive relations with both the United States
and USSR and even help them to bridge their divergences.
From this was also to come a new commitment to the goal of a United
Europe expressed clearly at the end of 1946 in the Keep Left Manifesto. The
Third Force was firmly grounded on Britain leading a group of countries which
wished to maintain their independence from the Soviet Union. This was evident
even for the most radical personalities within the Labour Party. As early as at
the beginning of 1946 Michael Foot had expressed his conviction that Great
Britain now stood “at the summit of her power and glory because the country,
as a capitalist society run by a socialist government, could offer a middle way
136 Daniela Preda, Declino e rilancio del MFE…, op. cit., in particular p. 515. 137 Cfr. Pistone, Italian Political Parties and Pressure Groups…, op. cit., p.134-135. 138 Ivi, p. 135. 139 See Michael Newman, Socialism and European Unity. The Dilemma of the Left in Britain and
France, London, Junction Books, 1983, p. 139. 140 Ibidem.
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124 C. Nasini, The Origins
between Communism and Capitalism to the world”141. As 1946 unfolded, a
neutralist option of this kind took ground among a progressively larger number
of Labourite personalities and this, as will be said, also influenced the British
policy towards Western European integration142. In other words, the Third
Force that the Movimento Federalista had in mind was not endorsed even by
those countries that should be its main protagonists namely the Soviet Union
and Britain.
What associated Italy with Britain in 1946 was the endless discussion
entertained by the democratic left in both countries regarding the alternative of
opting for the Atlantic choice. The future members of “Keep Left” engaged
during that year in a tight debate with the Labour Government on the apparent
disadvantages of that alternative. By relying on the United States to counter the
anti-British policy of the Soviet Government, Britain was endangering its
relation with democratic forces in the rest of Europe, permitting them to be
squeezed out by the division of every country into communist and anti-
communist143. First and foremost this fate befell the Italian Action Party during
1946. Since the end of the war as part of the coalition government, the Action
Party made various attempts of gaining the confidence of the Christian
Democratic majority for a policy of more independence from the United States,
particularly in the economic sphere144.
This was for instance the goal of Spinelli during 1945 as member of the
Action Party and later in 1946 as an adherent to the newly created Movimento
per la Democrazia Repubblicana. The latter was created in February 1946 as a
consequence of the defection of Ferruccio Parri and Ugo La Malfa from the
Action Party145. Yet, eventually, the Action Party disbanded under the difficult
task of reconciling the longing of the majority of the party for social justice with
the laissez fare approach favoured by the Christian Democrats146.
Earlier in the post-war, between June and November 1945 thanks to his
outstanding Resistance records the Action Party had secured the post of Prime
141 Klaus Larres, “A Search for Order: Britain and the Origins of a Western European Union,
1944-55”, in B. Brivati and H. Jones, From Reconstruction to Integration…, op. cit., p. 73. 142 Ivi, p. 77 and fll. 143 Cfr. Newman, Socialism and European Unity, op cit., p. 139. 144 On the importance for the Action Party of a convergence with the more progressive forces of
the Italian Christian Democrats in governing Italy see G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, in
particular p. 321 and fll. 145 Cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, op. cit., p. 329. On Spinelli’s disposition to work
with enlightened Christian Democrats see Piero Graglia (ed. by,) Europa Terza Forza: politica
estera e difesa comune negli anni della Guerra Fredda, 1947-1954, Bologna, Il Mulino, 2000, in
particular p. XXXVIII. 146 Cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, in particular p. 327 and fll.
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125 C. Nasini, The Origins
Minister for its leader Ferruccio Parri. However, during 1946 major differences
had progressively emerged between the democratic-reformist line of Ugo La
Malfa and the more pro-socialist line of Emilio Lussu. These divergences
combined with the electoral defeat of 1946 caused the party’s decline. It can be
maintained that the party was progressively weakened by the growing
unwillingness of the “actionists” to work with revived Christian Democratic,
Liberal and Communist parties which appeared as exclusively “interested in
promoting partisan interests” of capitalist, socialist or clerical nature147.
The Action Party had aimed to be an inter-class party and to promote (and
appeal to) the need of the large masses of Italians who were still extraneous to
the political system of the big mass-parties148. The Action Party had evidently
underestimated the importance of ideology in the strongly ideological context
of post-war Europe. No wonder that the main group of former members of the
Partito d’Azione led by Riccardo Lombardi joined the Italian Socialist Party of
Nenni in October 1947. The rest under the leadership of La Malfa formed the
above mentioned Movimento per la Democrazia Repubblicana which lasted for a
very short season before his members flowed in the rest of the Italian “lay”
parties.
In sum, in 1946 many of the former Italian Resistance leaders decided to
distance themselves from Federalist activity, devoting to the deepening of
intellectual aspects, like Rossi and Spinelli did for a while. Others, like Lussu,
with their adherence to Italian Socialist Party renounced for the time being to
the construction of Europe. Finally, personalities like Valiani or Mario Alberto
Rollier, members of the new leadership of the Movimento Federalista Europeo,
continued to nurture their links with the Anglo-American intelligence
apparatus, especially with the British, in the hope of receiving much needed
support to their Europeanist initiatives. Given the fact that the “Three Big”
victorious powers now dominated the planet, British leadership of Europe
seemed natural.
Bevin between the Superpowers: the struggle for a ‘Third Force’ in Europe
By 1945, it was manifest that the inter-war arrangements between the “Big
three” had fostered a division of the world in spheres of interest. If the
Americans were perceived as dominating the Western hemisphere and the
Russians Eastern Europe, Britain’s position in the new balance of world power
remained uncertain. Surely, similarly to the Coalition government, what
engaged most the new Labour leadership was the power political need of
147 Ivi, p. 324 and fll. 148 Ivi, p. 324.
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126 C. Nasini, The Origins
boosting the crippled influence of Britain in the context of the new world
order149. This desire, on the other hand, matched with the widespread belief that
Britain abandoning her traditional “splendid isolation” would answer to the
demands of countries like Scandinavia and Benelux, which, as it was perceived,
then looked at London as to a prospective leader in a more integrated Europe150.
A belief also spurred by the asylum received in London during the war by the
Dutch, Belgian and Netherland government-in-exile151.
As for Italy, the exchanges entertained with many Federalist exiles pushed
the Italians to have similar expectations152. Certainly these Europeanist
sentiments were not completely disregarded by the new Foreign Secretary
Ernest Bevin as previously assumed by historiography. These feelings were in
line with a new awareness in the Foreign Office, that the foreign secretary was
eager to embrace, that Britain’s interests in the post-war were not separate from
those of the rest of the Western European countries153.
As already noted a completely new line of research asserting Bevin’s
interest in European cooperation has emerged since the Eighties mainly via the
contribution of historians like John Young and John Kant154. This was the not
particularly long but intense phase of the Labour’s government search of a new
independent global leadership. Many historians saw this phase epitomized in
Ernest Bevin’s official enunciation of his “Grand Design” or his “Three
Monroe” doctrine of late 1945155. According to the latter, Bevin claimed the right
to protect the security of British Commonwealth and to develop good relations
with British neighbours in the same way as the United States had done over a
century in the continent of America. Similarly he condemned the fact that a
Soviet Monroe had been recently adopted by Moscow from the Baltic to the
149 There is a vast consensus on the power political complexion of the post-war Labour
Government, see for all, J. Kent, “Bevin Imperialism…”, op. cit., p. 48 in particular. 150 John W. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 6. 151 See on this John T. Grantham, The Labour Party…, op. cit., in particular p. 126. 152 This is the belief of Giovanni De Luna the official scholar of Italian Partito d’Azione (Action
Party) to whom the greatest part of Italian Federalists adhered in 1945. Giovanni De Luna, Storia
del Partito d’Azione, (History of the Action Party), op. cit., p. 311. 153 See for all J. Grantham, The Labour Party…, op. cit., in particular p. 126. More critic regarding
the true nature of Bevin’s Europeanism but in agreement with Grantham is Hugo Young,”
Ernest Bevin. Great Brit” in H. Young (ed. by), This Blessed Plot. Britain and Europe from Churchill
to Blair, Basingstoke, Macmillan, 1998, p. 32 and fll. See also S. Greenwood, “The Third Force in
the late 1940s”, in B. Brivati and H. Jones, From Reconstruction to Integration. Britain and Europe
since 1945, Leicester, LeicesterUP, 1984, in particular p. 61. 154 A concise account of this scholarship is in Oliver Daddow, Britain and Europe since 1945…, op.
cit., in particular p. 114 and fll. 155 See, for instance Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 78.
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127 C. Nasini, The Origins
Pacific156. This interpretation gives emphasis to the idea of the new Foreign
Secretary Bevin as aiming to assert the role that Britain would undertake
between the Superpowers. It rejects the previously assumed belief that in 1946
Bevin had already resolved in his mind in forcing Britain into the slipstream of
the United States in the by-polar world that was emerging.
For revisionist readings in order to reach his goal Bevin, on one hand,
tried in fact to pursue a degree of economic independence from the United
States and, on the other hand, he attempted to reassure the Soviets that Britain
was not necessarily antagonist towards them157. What most alarmed London,
also according to major revisionist readings, was not so much the existence of a
Soviet sphere of influence per se but rather the awareness of a vacuum of power
in Western Europe which would permit Communism to spread further158.
Therefore the necessity of forming some power structure in Western Europe to
balance the situation159. Furthermore such a Western system by placing more
control on a defeated Germany would enhance the prospect of continued
Anglo-Russian cooperation160.
This was what became soon known as Bevin’s World “Third Force”. In
sum, a phase characterized mainly by the persisting fear of German renaissance
along with the emerging awareness of existing Soviet danger as possible threats
to peace in Europe. Therefore a foreign policy chiefly occupied by three goals
up to the end of 1946. In the first place, there was the priority of boosting
Britain’s influence in the world. Secondly, there was the customary need to
contain Germany, and, finally, it had emerged the relatively new objective of
checking (possibly undetected) Soviet expansionism while keeping the
appearances of continuing inter-Allied cooperation161. For the achievement of all
these objectives, the potential leadership of a more integrated European unit
represented an important addendum.
In this regard, revisionist readings highlight two main assumptions that
Bevin shared with senior figures in the Foreign Office162. In the first place, the
reality of Britain as the weakest of the “Big Three” required her to undertake
156 Cfr. also J.T. Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 127. 157 Ivi, p. 131. 158 See Sean Greenwood, The Third Force…, op. cit., p. 59. 159 Ibidem. 160 Ibidem. 161 There is a large consensus on this aspects of British foreign policy in the immediate post-war,
see for instance David Reynolds, “Great Britain”, in D. Reynolds (ed. by) The Origin of Cold War
in Europe. International Perspectives, New Haven and London, Yale UP, 1994, pp. 77-95. 162 On the early convergence of Bevin’s views with those of his senior officials see for instance J.
Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 48-50; Kent and Young, “British Policy overseas”, op.
cit., pp. 43; 45; Sean Greenwood, “The Third Force in the late 1940s”, op. cit., p. 61 in particular.
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128 C. Nasini, The Origins
the leadership of Western Europe and to combine it with that of the Dominions
in order to match United States and Soviet Russia’s power163. In this endeavour
Britain had to be able to count on the alliance with France as an indispensable
cornerstone, but also on the enrolment of the rest of the countries of Europe as
valuable “collaborators”164. Similarly important is the revisionists’ claim that
while pursuing his goals Bevin was cautious and avoided as much as possible
of talking in term of a prospective Western bloc which might have upset,
although for different reasons, both the Superpowers165.
Yet, since summer 1945 the Foreign Secretary had voiced to his officials his
desire of establishing closer relations either in financial and economic matters
or in political questions with the countries on the Mediterranean and Atlantic
fringe of Europe and more specifically with Greece, Belgium, the Netherlands
and Scandinavia166. Italy and France were put on a special footing in this
scheme. There was in fact the wish of making both countries partners in a
strategy to rebalance the disparity between British industrial and agricultural
outputs167. It also reflected the goal of becoming independent from the United
States both in food stuff and raw materials and in general of looking at Western
Europe as an easier source of supplies168.
In sum, throughout all 1946 Bevin’s nurtured quite high expectations
regarding British economic policy towards the rest of Europe. On one hand, he
believed that increased European trading would alleviate Britain’s scarce dollar
reserve. On the other, by giving some sort of economic assistance to the rest of
Western Europe – either in providing financial aid or purchasing export goods -
he thought he would establish Britain as an important contributor to European
Recovery and enhance its prospect of becoming The great European Power169.
More generally, in both France and Italy, although in different ways,
matched another element of Bevin’s strategy which envisaged using the
resources of the European colonial powers and their bases as central economic
and logistic assets of the prospective Western European system170. As agreed
with his senior officials, Bevin made a first step by approaching the French
163 See on this, among many others, Hugo Young, “Ernest Bevin, Great Brit”, op. cit., pp. 34-35. 164 Cfr. John W. Young, Britain and European Unity…, op. cit., p. 1. See also for the reference to
Italy as collaborator in particular Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 60 and following;
and Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 128. 165 See in particular, S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 61. 166 Ibidem. 167 Ivi,p. 62. 168 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 51 in particular. 169 Ivi, pp. 50-51. 170 See for instance Kent and Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., p. 42 and fll; p. 51.
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129 C. Nasini, The Origins
government in view of achieving a firm alliance with France171. However, as it
has been contended, since the very beginning it was clear that “Enthusiasm
alone could not diminish the real impediments strewn across the route”172. In
the first place, in searching agreement with France, Bevin faced unreasonable
demands from the French regarding the future of the Levant states and of the
Rhineland and Ruhr; not to mention the strength of the French Communist
Party which made fear that France was succumbing to Soviet influence173.
Secondly, he encountered staunch opposition to his economic policy within his
own Cabinet notoriously in the Economic Departments and soon also in the
Colonial Office174.
However, Bevin was not deterred and instead with increasing emphasis
brought to French attention the importance of the gain which could be made by
cooperating in the colonial sphere. The latter consideration was in Bevin’s mind
when in early 1946 he approached the French Prime and Foreign Minister
Georges Bidault affirming that France and Britain had in their colonial
possessions a valuable amount of natural resources, manpower and strategic
bases175. If the two powers would work in partnership in developing the
productive capacities of their Empires as one single economic unit they would
soon match the United States and Soviet’s power176.
One note of caution must be made here. Possibly part of the reasons for an
earlier underrating of Bevin’s Europeanism can be traced in the Foreign
Secretary’s caution in discussing his strategy with anyone other than his closest
officials in the Foreign Office. As Raymond Smith has contended, at this early
post-war stage sensitive issues of Britain’s foreign policy were discussed
outside Cabinet, at ad hoc meetings of selected committees177. Furthermore,
Bevin disliked to commit his thoughts to paper178. Notably personalities like
Gladwyn Jebb of the Reconstruction Department and the Permanent Under
Secretary Orme Sargent were acquainted and even inspirers of Bevin’s
scheme179. The same can be said for Duff Cooper, the then influential British
Ambassador in Paris whose opinions were held in high regard within the inner
171 See Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 128-131. 172 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 63 in particular. 173 Cfr. Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 79. 174 On the disparities of views between the Foreign Office and the Economic Departments see
for instance John Kent, “Bevin’s Imperialism…, 1945-1949”, op. cit., pp. 48-51. 175 Cfr. S. Greenwood, “The Third Force in the late 1940s”, op. cit., p. 64. 176 Ibidem. See also, J. Kent and J. Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., p. 42. 177 Raymond Smith, A Climate of Opinion: British Officials and the Development of British Soviet
Policy, 1945-1947, «International Affairs», vol. 64, n° 4, Autumn 1988, p. 632. 178 Ivi, p. 336. 179 Cfr. John Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., pp. 48-51.
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130 C. Nasini, The Origins
entourage of Bevin180. A few other Foreign Office’s representatives were aware
and shared – not without some reservations - Bevin’s aims181.
As for the rest, the Foreign Secretary was aware of the hostile environment
surrendering his vision particularly within the Economic Departments.
According to the current Chancellor of the Exchequer and the President of the
Board of Trade, respectively Hugh Dalton and Stafford Cripps, the idea of
fostering economic cooperation with the rest of the European countries was a
dangerous mistake182. It would distance the Americans, staunch opponents of
regional economic blocs, as opposed to a multilateral world trade system. It
would disappoint the Dominions which might suffer discrimination and not
help Britain’s deficit balance since dislocated European economies were even
scarcer in dollar than Britain. Both Dalton and Cripps as former members of the
Coalition government had been hardened by the experience of power against
old-style internationalism of Labour Party’s ideology183.
Together they were convinced, both of British economic dependence from
American help and by the danger represented by alienating the Soviets.
Therefore the need of continuing wartime inter-allied cooperation. Unlike his
colleagues from the economic departments, Bevin was much less persuaded of
the feasibility of carrying on in amity with both the Superpowers.184 Therefore,
the existing opposition did not prevent Bevin from tapping a reservoir of
thoughts which went back to his own extensive engagement with economic
issues185.
At the same time, as we shall see, also the vast number of clandestine
contacts established during the conflict with outstanding foreign personalities
now members of many post-war European governments were not completely
discarded as possible reservoir of support. Was it completely uninfluential the
fact that former SOE’s agent Emilio Lussu had received the portfolio of Post-
War Relief in the Ferruccio Parri’s Italian Government in June 1945? Was really
unimportant that former Mazzini Society’s founder Alberto Tarchiani was now
180 Ivi, p. 52. 181 On Bevin’s supporters within the Foreign Office’s various departments see for instance John
Kent and J.W. Young, “British Policy Overseas…”, op. cit., pp. 49-50. 182 See also on the opposition to Bevin’s strategy in the Economic Departments, Clemens Wurm,
“Great Britain: Political Parties and Pressure Groups in the Discussion on the European Union”,
in Walter Lipgens and Wilfried Loth (eds. by), Documents…, cit., vol. 3, The struggle for European
Union by Political Parties and Pressure Groups in Western European Countries, 1945-1950, Berlin, De
Gruyter, 1988, in particular pp. 631-633. 183 See Grantham, The Labour Party, op. cit., pp. 1-2. 184 Cfr. Klaus Larres, “A Search for Order…”, op. cit., p. 77. 185 On Bevin’s early political career as Union’s leader see H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”,
op. cit., pp. 26-29.
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131 C. Nasini, The Origins
Italian Ambassador in Washington? Or that staunch Federalist and old SOE’s
Resistance contact in Switzerland Ernest Rossi in July 1945 had become Under-
Secretary in the newly founded Italian Ministry of Reconstruction? And was it
not similarly important that another old acquaintance of SOE, Ugo La Malfa,
was made first Minister for Reconstruction and later Minister for Foreign Trade
in the first De Gasperi’s Government from December 1945 onwards?
On the other hand, the involvement of the Italian engineering and
building firms, artisans and other semiskilled workers in Britain’s strategy of
development of Africa in cooperation with European countries was also in
Bevin’s mind in the immediate post-war186. There was also the intention of
extending a welcome to Italian immigrants in settling in British African colonies
to help the peninsula with the burden of unemployment187. Both manoeuvres
were intended, other than fostering intra-European cooperation, to placate
Italian appetites on their former colony of Cyrenaica of which Bevin wanted a
trusteeship188. An insight in the opinion of the Italian economic departments on
the matter was not evidently disregarded by the Foreign Secretary.
Here a potential further element of historiographical confusion must be
also pointed out along with the mentioned verbal caution of Bevin. Even
revisionist historians while investigating Bevin’s vision have often concluded
that the Foreign Secretary’s European strategy was, notwithstanding all his
laudable trying, in the last instance too “vague”, “ill devised” and therefore
ultimately “ineffectual”189. Others have pointed out to the “ambiguity” of the
Foreign Secretary190. For instance, if Bevin claimed the right to apply his own
Monroe doctrine in the Old Continent according to Greenwood, “the lack of
precision which characterized his approach to European cooperation was never
satisfactory tackled and seriously impaired his implementation”191. Similarly,
many scholars put the stress, as already noted, on the Foreign Secretary’s
attention for countries on the Mediterranean and Atlantic fringe of Europe
during 1946192.
186 Cfr. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 60 in particular and following. 187 Ibidem. 188 Ibidem. 189 See for instance, S. Greenwood, “The Third Force”, op. cit., pp. 63 and 68 and 69. 190 See among others H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”, op. cit., pp. 31-32. 191 S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 63. 192 This opinion is also shared by Alan Milward, The Reconstruction of Western Europe, London,
Methuen, 1984, chapter VIII. The leading British historian claims that up to 1948 Bevin
considered the possibility of creating a common market in Western Europe to maintain
independence from the United States. Geoffrey Warner is also a well-known advocate of this
view, see G. Warner, “The Labour Governments and the Unity of Western Europe” in Ritchie
Ovendale (ed. by) The Foreign Policy of the British Labour Government, 1945-1951, op. cit.
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132 C. Nasini, The Origins
Many authors also agree on the fact that France and Italy were put in a
special footing since the start193. If overall, between 1945 and early 1947, this
phase saw Bevin testing the feasibility of a new unity among those countries
that he later named the “Middle of the planet” (the Western European
countries, their oversee territories and British Middle East194) regarding these
countries and more specifically one of his supposedly favourite partners,
namely Italy, has the subject been really tackled in depth? How much do we
know about this Italian policy beyond the discussions – admittedly not many-
occurred at that time between Foreign Office’s mandarins?
Better put, in light of the open opposition faced by Bevin within the British
Cabinet, what do we know about the Foreign Secretary’s possible attempt to
discreetly enrol as distinctly principal “collaborators” the already ongoing pro-
Europeanist secret contacts existing both inside and outside the country? In
other words, how useful is it to move away from traditional British
governmental actors to try to grasp in full Bevin and Foreign Office’s actual
Europeanist strategy? Can the idea of an attempt made by British foreign
policy-makers to enrol as real collaborators both wider British pro-Europeanist
societal forces and their vast network of contacts abroad – many of whom had
been former British agents during the conflict – be completely ruled out? If it is
true that there were many impediments strewn across the road: mainly
American and Soviet’s unforeseeable reaction and the staunch opposition of the
economic departments, how much must have appeared advisable to undertake
very discreet steps towards the promotion of Britain’s Europeanist goals? As
already noted, the broad involvement of the intelligence community, especially
the American one, in the promotion of European unity is a well acknowledged
phenomenon for the years after 1948, why the same cannot also be true for the
previous biennium195?
This adds strength to the idea that there was a wide spread belief that, like
during the conflict, something underground but not less incisive could have
been done. On the other hand, early 1946 saw also the creation of the Russia
Committee sparkled, among other things, from an alarming report by the Joint
193 S. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p.62. 194 Ivi, p. 64. 195 For the years after 1948 the work of historian Richard Aldrich must be here pointed out.
Aldrich has described in details the American involvement with the American Committee for
United Europe which formed around personalities like Allen Dulles and which apparently
between 1948 and the early Fifties poured millions of dollars to support pro-Europeanist
initiatives and pressure groups in Western Europe. See R. Aldrich, OSS, CIA and the European
Unity: the American Committee on United Europe, 1948-1960, in «Diplomacy and Statecraft», vol. 8,
(March 1997) pp. 184-227.
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133 C. Nasini, The Origins
Intelligence Committee concerning Russia’s strategic interest and intention196.
Among the measures devised to counter Russia’s negative propaganda against
Britain there was the decision to carry on a defensive line of publicity which
exactly like during the conflict was centred on the enrolment of foreigner
collaborators. Foreign politicians, publicists and trade union leaders would be
enrolled to disseminate pro-British propaganda in their home countries197.
Moreover, is it not possible that also in this case, as we have seen it had
happened in similar circumstances – one for all: relations with the Mazzini
Society during WWII - the Americans after 1948 were mainly following the
footsteps of their senior intelligence partners? Again, this is a field of research at
a very embryonic stage, yet it seems advisable to point to a few revealing
episodes that occurred between 1945 and 1947 which give emphasis to the
existence of a clandestine side of Bevin’s foreign policy. This is what is
commonly known as the “intelligence dimension” and still remains an under-
investigated historical feature.
Before going into further details concerning these episodes, it seems
worthwhile to add a few more considerations about the general framework in
which these supposed clandestine activities took place. These considerations
concern, on the one hand, the fact that in 1946, there was a wide bipartisan
political consensus inside Britain on the advisability of European economic
cooperation. Secondly, it must be remembered here that unlike previously
assumed by historiography, the European countries and particularly Britain
could count in 1946 on a larger room for manoeuvre in regard with fostering
European cooperation. Although even today nobody would question the
goodwill of the United States towards Western European integration due to
paramount economic, political and strategic reasons, what has been more
recently contended is the extent of American leverage on the European
countries in this respect198. If we take into account these two elements – the
existing widespread bipartisan consensus and a larger room for manoeuvre for
Britain than previously assumed – the idea of carrying on with clandestine
activities geared to promote Europeanism in the continent must have appeared
not totally obnoxious to the Foreign Secretary.
196 Cfr. R. Smith, “A Climate of Opinion: British Officials…”, op. cit., p. 632. 197 Ivi, pp. 635-640. 198 Among the many dissonant voices in respect to previous readings see for all the chapters by
Antonio Varsori, Daniele Pasquinucci, Mark Gilberg , Morten Rasmussen and Lorenzo Mechi in
A. Varsori and Kaiser, European Union History, op. cit.
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134 C. Nasini, The Origins
In and out of Whitehall: the phase of bipartisan consensus
As just noted, there is evidence that concerning cooperation in Europe, at least
for one year after the end of the conflict there was full consensus between the
Labour establishment and the Conservative opposition199. This is because
exponents of both line-ups believed in the importance of creating regional
economic blocs in the continent to foster economy and preserve peace. During
the war, apparently under the spell of Kalergi, Churchill in several occasions
had advocated his idea of creating three South-Eastern European
confederations to combine with the five major European powers in a new
system that he had named “Council of Europe”200.
He had also welcomed the formation of distinctive “United States of
Europe” in different circumstances. He reiterated his thoughts in the post-war
and between 1945 and 1946 at least in three important occasions. In November
1945 Churchill made a statement in this sense during a speech at the Belgian
parliament. He restated his view in occasion of his celebrated “Iron curtain”
speech at Fulton, Missouri, on 3 March 1946 and again at the University of
Zurich in September 1946201.
As for Bevin, he had also made apparent in several occasion his firm belief
concerning the economic causes underlying war and the need of establishing
effective international economic organizations while occasionally advocating
the “United States of Europe”202. On the other hand, traditionally the Labour
Party’s orthodoxy in foreign policy consisted in a commitment to
internationalism203. Among the principles professed there was explicitly the
idea of a transfer of a degree of national sovereignty to some supranational
organization204. The creation of a Judicial body for the settlement of
international disputes was also endorsed as a desirable machinery205.
Furthermore, in Bevin’s case his experience during 1929 as member of the
Colonial Development Advisory Committee, established by the then Labour
Government, had brought him to appreciate the importance of reforming in
new directions the existing relations between the British mother country and its
subjected population206. He believed that this goal should be shared by the rest
199 See on this the opinion of Grantham, The Labour Party, op. cit., p. 126. 200 Ivi, p. 38 and ffl. 201 Ivi, pp. 164-165. 202 Again on Bevin’s days as a Union leader see H. Young, “Ernest Bevin. Great Brit”, op. cit., p.
28. 203 Cfr. Grantham, The Labour Party…, op. cit., p. 6 and fll. 204 Ibidem. 205 Ibidem. 206 Crf. J. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., p. 54 in particular.
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135 C. Nasini, The Origins
of the European colonial powers and that there was room for manoeuver for
working in partnership in this area. It represented a broad overture, beside
France, to countries like Netherlands, Belgium, Portugal and again Italy.
In sum, during 1946 personalities from both the Labour establishment and
the Conservative opposition initially showed a strong bipartisan approach to
the Europeanist issue. A tangible proof of this is the fact that many of them
shared membership in the same national and transnational pro-European
pressure groups. If we look at the principal networks emerged during 1946 it is
evident that they comprised personalities of the most diverse political
complexions. This is true for the European Union of Federalists (EUF) created
by Dutch Professor Henri Brugmans in Geneve in September 1946 to become
the true bystander of the supra-national solution. It also applies to the
Independent League of European Cooperation (ILEC), which will be discussed
shortly in more details, a liberal economic organization established in London
in summer 1946. It is what Churchill maintained of his allegedly “non-political
and not-partisan” group of the United Europe Movement (EUM) launched in
London between 1946 and 1947. EUM was conceived in order to join – and
possibly take charge of - the Europeanist crusade in Britain and in Europe.
Finally a similar diversified complexion characterized the post-war version of
Kalergi’s Pan-European movement known in 1946 as the European
Parliamentary Union (EPU) which lobbied in favour of European unity within
the different European Parliaments and pushed for the early convening of a
European Constituent Assembly.
Among Kalergi’s acolytes in Britain there was the Australian born
barrister and since 1945 Labour M.P., R.W.G. Mackay, one of the staunchest
supporters of Federalism within the Labour government. In the beginning also
Mackay’s efforts were directed to the creation of some sort of bipartisan lobby
among the British parliamentarians. In effect a small All-party Parliamentarian
Group was launched in early 1946 following Kalergi’s advice of keeping the
European crusade free from party-political etiquettes207. The diverse political
complexion of these networks confirms that across the continent a large
assortment of personalities nurtured the hope of keeping the problem of
European unity entirely out of the realm of party-politics208. It was considered
advisable instead to act together and in any possible direction to influence
207 See Grantham, The Labour Party…, op. cit., p. 174. 208 Ibidem.
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136 C. Nasini, The Origins
governmental action209. Unlike the latter, their activities were mainly carried on
behind the official scene: a modality which guaranteed their anonymity not
devoid however of a proved degree of impact210. It is worth also to add that
what probably made these pressure groups unequivocally both tolerable and
influential, at least in Britain, was their broad interaction with the national
intelligence apparatus in a reciprocal activity of alternatively either support or
control.
In sum, if research moves away from traditional governmental action and
turn to the investigation of the role of national and transnational pressure
groups, British interest in European cooperation appears sharper. This picture
becomes even more significant if we include the discreet activities in this
respect of British intelligence services between war and the immediate post-
war, namely SOE and later JIC (Joint Intelligence Committee). The latter was
the body which inherited remnants of the former after its early disbandment in
1945211. The new edifice of JIC, on the other hand, brought the intelligence
apparatus back within the realm of the Foreign Office.
ILEC pressure group and the fight for the economic integration of Europe
The continuance of British clandestine involvement at several levels with
societal forces of strong Europeanist orientation it has been recently pointed out
by some political commenters. For instance, as Thierry Meyssan has revealed
for the Independent League for European Cooperation (I.L.E.C.) launched in
London in September 1946, not only one of its main promoters, Joseph H.
Retinger, was a former SOE agent but the whole structure of the pressure group
received the backing of the British Joint Intelligence Committee212. Moreover,
ILEC’s second chairperson, the former Belgian Prime Minister Paul Van
Zeeland, had spent his wartime days as a member of the Belgian government in
exile in Landon lobbying for an European security system213.
209 This is the opinion in particular of Laura Kottos, the scholar who has investigated the
formation of ILEC and particularly the activity of its British section. Cfr. L. Kottos, A ‘European
Commonwealth’: Britain, the European League for Economic Cooperation and European Debates on
Empire 1947-1957, in «Journal of Contemporary European Studies», vol. 20, n° 4, 2012, p. 498 in
particular. 210 Ivi, p. 499. 211 See Richard Aldrich, “Secret Intelligence for a post-war world: reshaping the British
intelligence community, 1944-1951” in Aldrich (ed. by), British Intelligence, Strategy and the Cold
War, 1945-1951, London, Routledge, 1992, pp. 16-27 in particular. 212 Cfr. Thierry Meyssan, Histoire secrète de l’Union européenne, in «Réseau Voltaire International»,
28 juin 2004 http://www.voltairenet.org/article14369.html 213 See Grantham, The Labour Party…, op. cit.
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137 C. Nasini, The Origins
As for the second reminder we had pointed out before, that is, the room
for manoeuvre of European countries, again this must be born in mind when
addressing the above mentioned British clandestine initiatives. The latter must
be seen within an interpretative framework which, following revisionist
writings, acknowledges Britain a much larger agency than previously assumed
particularly in regard to the United States. This allows for an investigation of
some previously belittled initiatives by the British apparatus like for instance in
the specific sphere of intelligence. Following the foot-steps of Milward and
others, as mentioned, different European scholars focusing on early integration
have contributed to discount American power over European countries at that
time.
For instance, it has been pointed out that, differently from mainstream
United States’ public opinion, the American State Department resolved to take
into due account European - particularly British - sentiments towards the loss of
national sovereignty. Therefore the important conclusion has followed that
Americans willy-nilly accommodated British sensibility214. This is not to deny
that the Americans attempted their own secret manoeuvring with respect to the
goal of unifying Europe. Nevertheless, the new readings allow us to claim that
United States’ action must have been concerted at a larger extent than
previously assumed with their traditional intelligence counterpart in Europe
namely the British.
According to Thierry Meyssan in late 1945 the British Joint Intelligence
Committee, presumably responding to knowledge of American involvement in
the setting up of the European Union of Federalists (EUF) in Geneva, sponsored
the creation of the Independent League for European Cooperation (ILEC)215.
This was an international forum composed by national committees where
domestic experiences were exchanged and transformed. Since late 1945
branches of ILEC where opened throughout all the major Western European
countries including Italy and Britain. A division was also established in the
United States to work in conjunction with the Council on Foreign Relations in
order to study how to create in Europe a common area of free exchange and
possibly the adoption of a common currency216.
Apparently during the summer of 1945 the Council on Foreign Relations
in conjunction with British Chatman House had already sponsored a conference
in London where the common positions of London and Washington had been
214 See for instance Klaus Schwabe, “The United States and European Integration, 1947-1957”, in
Clemens Wurm (ed. by), Western Europe and Germany. The Beginning of European Integration,
1945-1960, Oxford, Berg, pp. 115-36. 215 Thierry Meyssan, Histoire secrète de l’Union européenne…, cit. 216 Ibidem.
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138 C. Nasini, The Origins
made manifest217. The idea of creating in Europe some sort of common
economic unity to foster market and help reconstruction was evidently and
unsurprisingly endorsed by both sides. Nevertheless, as already mentioned,
American effective leverage on European countries in this respect was not as
straightforward as previously assumed, therefore the advisability of working in
accordance with the British on the issue.
ILEC’s secretary general, Joseph Retinger was, as already noted, the
former advisor to the Polish Prime Minister in exile in London. Retinger during
the war had served as a SOE agent and in this capacity had been parachuted
into occupied Poland to make contact with the Polish underground Resistance.
The President of ILEC was instead Paul Van Zeeland former Belgian Prime
Minister in exile218. Both characters would remain central in the main
endeavours towards the construction of Europe. The two are part of a quite
volatile network of former pro-Europeanist anti-fascist exiles, Resistance
leaders and agents of various foreign nationalities who after the war acted
behind the scene to influence the political scenario.
The Independent League for European Cooperation in 1949 became the
European League for Economic Cooperation. Networks like ILEC deserve
investigation because there is evidence that their advices, and specifically those
of ILEC, were acknowledged at the highest level of their respective
governments219. Even better, it seems that Bevin’s distinctive economic policy
regarding Western European cooperation reflected in a specular way the
guidelines suggested by ILEC220. On the other hand, the latter’s members were
not novice in economics and politics. The members of the ILEC were a
transnational assortment of personalities of the highest standing and numbered
among themselves Ministers and deputies from different European
Parliaments, politicians and union leaders as well as national and multinational
business firms’ tycoons. Later on ILEC became an advisory body for the
European Council while Van Zeeland entered the Bilderberg Group.
The popularity of the British section of ILEC was linked to its projection of
itself as a bipartisan and professional pool of experts which could help Britain
to build its domestic and foreign economic policy. According to scholar Laura
Kottos, the British section of ILEC included personalities which spanned from
Conservatives figures like Harold Macmillan, Duncan Sandys and Julien Amery
to Labourite exponents like Roy Jenkins and Liberal champions like Juliet Rhys-
217 Ibidem. 218 Ibidem. 219 Cfr. L. Kottos, “A ‘European Commonwealth’: Britain…”, op. cit., pp. 498-499. 220 Ivi, p. 501-502.
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139 C. Nasini, The Origins
Williams, future secretary of the section221. Oxford economist Roy Harrod and
influential Federalist journalist Lord Layton from «The Economist» also
adhered to the section222.
If the League had usually acted as a transnational intellectual forum for
debating economic issues by late 1945 cooperation between Europe and its
colonial possessions had come to the fore as a dominant feature of its agenda.
There were several reasons behind it. First of all it offered to the European
mother countries a solution to the burden of sustaining their colonies especially
facing the post-war financial wreckage especially of France and Britain.
Secondly, it reflected the need, for the same reason, to develop the colonies as a
conduit to their own self-support and to improve their capacity of responding
to the requirements of increasingly larger markets. As already mentioned there
is evidence that Bevin’s ideas on the subject voiced in his discussions with a few
European foreign ministers reflected the guidelines of ILEC British section223.
Laura Kottos when investigating ILEC’s activities has claimed that
European policies concerning relations with Empires were managed by
different ministries in the countries concerned and that there is little evidence
that these policies were linked in governmental terms. Therefore her claim for
the importance of moving away from governmental action and turning instead
to the investigation of transnational pressure groups within civil societies which
in her view moving behind the political scene where able to promote their
ideas224.
Kottos highlights how by early 1946 not only British and French sections
of ILEC were in agreement on the creation of a European Customs union but
also the Belgian section had joined them225. This Customs union was intended to
harmonize financial and economic policies both between metropolitan markets
and between the latters and their colonial possessions. The three sections
believed also firmly that a liberal European integration must have as a corollary
the potential to ease the regime of imperial preferences. Colonial big business
was aware that the latter prevented them from selling at competitive prices
their products outside the metropolitan markets and namely to most of the
European countries. If the goal of ILEC was to make colonies more competitive,
the first step was to extend the preferential regime to the other non-colonial
European partners226.
221 Ivi, p. 499 and fll. 222 Ibidem. 223 See L. Kottos, “A ‘European Commonwealth…”, op. cit., p. 498. 224 Ibidem. 225 Ivi, p. 500 and fll. 226 Ivi, p. 501.
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140 C. Nasini, The Origins
The attempt to increase the exchange of commodities in this way, on the
other hand, reflected an already existing trend in the commercial exchanges
between European Empires and their overseas possessions. The latter wanted
consumer goods and capital equipment, the former food staff and raw
materials227. In exchange for access to product at preferential tariffs, the non-
colonial European powers would participate in the development of the colonies
through some giant scheme for “joint European development of African
resources” to be defined228. The overseas territories needed investments to
improve their infrastructures and trading facilities and once the virtual cycle
would be started it would attract further investments and the competitiveness
of the colonies would boom229.
European overseas possessions were also known as possessing in great
amount minerals of which the United States were completely barren. In sum the
development of the productive capacities of the colonies could be used to earn
dollars and redress the balance of payments not only of France and Britain but
also of the rest of the European countries. This was to be the case in particular
for Italy since Bevin’s had in mind to replace the Italians in their trusteeship of
Cyrenaica and he thought that the easiest way of achieving it was to
compensate the Italians – big firms and working force - by granting them a
place in the British scheme of development of the African colonies230.
Although concerns have been expressed concerning the viability of
Bevin’s “European Commonwealth” as sometimes the plan was called, there is
evidence that throughout 1946 the Foreign Secretary spelled it several times. It
mentioned it to three consecutively different French Prime Ministers, namely
Charles De Gaulle, Georges Bidault and Leon Blum. He also constantly lobbied
the 1946 French Foreign Minister Bidault on the importance of the matter with
apparently a good degree of success231. He furthermore kept Attlee informed232.
Bevin’s belief in the potential of colonial cooperation was still held firm at the
time of the signing of the Treaty of Dunkirk in early 1947233. During the
negotiations it was stated that a special commission for studying how to set up
an Anglo-French Customs Union was to be created. The commission should
consider also the adoption of a special regime for allowing the dependent
colonies to join the machinery. As again Laura Kottos has maintained at that
227 Ivi, p. 501-502. 228 Ibidem. See also Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., in particular p. 54; and also fll. 229 L. Kottos, “A ‘European Commonwealth…”, op.cit., pp. 502-503 in particular. 230 See J. Kent, “Bevin’s Imperialism…”, op. cit., in particular p. 60; and also fll. 231 Cfr. Greenwood, “The Third Force…”, op. cit., p. 64. 232 L. Kottos, “A ‘European Commonwealth …”, op. cit., pp. 501-502. 233 Ibidem.
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141 C. Nasini, The Origins
time the project of a possible joint venture of European powers in developing
African resources had been repeatedly discarded by several intradepartmental
study groups officially launched by the British government. Therefore Kottos
claims that at the root of Bevin’s stubborn endorsement of the Europe-African
scheme there was the persisting lobbying in this sense of the British ILEC
section.
British Foreign Office’s plead for «L’Unità Europea»
One further revealing episode occurred at the beginning of 1946 which testifies
once more as British pro-Europeanist societal forces were in fact privy to
foreign office officials and could influence the latters’ action in favour of
Europeanist goals. Also in this case moreover there is evidence of a bipartisan
consensus which informed both Labour and Conservative’s action in this
sphere. The episode regards a correspondence occurred between February and
April 1946 between the General Secretary of the internationalist pressure group
of “The New Commonwealth”, N. B. Foot, and the British Minister of State for
Foreign Affairs Philip Noel-Baker234. “The New Commonwealth” was another
of the many international pressure groups which dominated the British scene in
the second half of the Forties. In this case it championed the preservation of
world peace and to this end it lobbied in favour of collective disarmament and
the creation of an international police (air) force to regulate European disputes.
Like others of these post-war British networks the President of the British
section of “The New Commonwealth” was Winston Churchill235. In mid-
February 1946, Foot had addressed Noel-Baker in order to inform him of a most
unfortunate episode which apparently had occurred to the Italian weekly
Federalist journal «L’Unità Europea» of whom the British Foreign Office
probably had already knowledge. This was in fact the major publication
produced by Italian Federalists during the Nazi occupation as an underground
organ of resistance. Personalities like Leo Valiani, Ernesto Rossi e Altiero
Spinelli at that time had been among the principle authors of the journal.
During the war SOE had monitored «L’Unità Europea» for the Foreign Office.
234 Cfr. TNA, FO371/60673. This is a folder named Western Department, Italy, 1946, file n. 503. It
contains most of the correspondence occurred between February and April 1946 among British
Foreign Office’s officials and between the latters and the General Secretary of “The New
Commonwealth” with the goal of resuming publication of «L’Unità Europea» Italian Federalist
journal. 235 Cfr. TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583 dated 13 February 1946 from General Secretary of
“The New Commonwealth” N.B. Foot to Philip Noel-Baker of the Foreign Office. The
information regarding the presidency of Churchill is provided in the letter-head.
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142 C. Nasini, The Origins
According to Foot, who had been informed on the matter by the Secretary
of its affiliated pressure group of Swiss Europa Union of Lausanne, the previous
summer the Allied authorities in Italy had stopped the publication of «L’Unità
Europea» without explaining the reason for the ban. Foot mentioned to Noel-
Baker that previous attempts made to contact the Allied Press Office for
Lombardy in order to solve what Foot called “a minor mystery” had given no
positive result236. Therefore Foot said that they (“The New Commonwealth”)
“have been asked to bring the matter to the attention of the British government
in the hope that the Director of the paper, Professor Mario Alberto Rollier of
Milan University, could be accorded the privilege of an interview with Major
Sinclair Nobel, who seemed to be the responsible Allied officer”237.
As Foot cared to add to Noel-Baker, although he did not know the full
details of the matter: “he would be reluctant to believe that his Swiss
correspondents would ask ‘The New Commonwealth’ to put forward these
representations unless they were confident of the reliability of those responsible
for the direction of the paper”238. Therefore, Foot expressly requested Noel-
Baker to conduct an official investigation on the matter. Within a few days the
Western Department approached the British Embassy in Rome asking to
provide any information regarding the Allied ban on the publication of
«L’Unità Europea»239. On the same 25th of February Noel-Baker wrote back to
Foot to reassure him that the proper enquires were being made to the British
Embassy in Rome and that he would keep the General Secretary duly informed
as soon as he received the report from Rome.
On the other hand, the Minister of State took the time to remind Foot that
since the 31 December of the previous year the Allied Military Government in
Italy had come to an end with the consequence that the question of “the
maintenance or withdrawal of the ban would therefore now be a matter entirely
for the Italian Government”240. He also added the suggestion that the Swiss
Europa Union should approached the Italian government in this respect241.
Nevertheless, a second sub-file-folder containing the internal correspondence of
the Foreign Office reveals that in fact the Western Department spent some time
236 Ibidem. This information are contained in the same letter of 13 February 1946. 237 Ibidem. Again information in letter dated 13 February 1946. 238 Ibidem. 239 Cfr. TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583/-/22 dated 25 February 1946 and issued from the
Western Department to the Rome British Embassy. 240 Ibidem. 241 TNA, FO371/60673. Letter n° ZM 583/-/22 dated 25 February 1946 and issued from Noel-
Baker to N.B. Foot.
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143 C. Nasini, The Origins
throughout March 1946 occupied in sorting out the question242. A quite
informative letter was addressed to the Western Department on 18 March 1946
by the British chancery of the Rome Embassy243.
The latter reported that enquires made by the British Press and
Information Office in Milan had revealed that «L’Unità Europea» had in fact
been closed down the previous July, but it had happened in consequence of the
journal’s lack of money and not because any permit had been refused244. He also
added that the British Information Office had taken the time to approach in this
respect the director M. Alberto Rollier and the latter had affirmed that in May
1945 he had received a verbal permit to publish «L’Unità Europea» by the
British Psychological Warfare Branch. The chancery was not able to confirm
Rollier’s assertion because details concerning publication permits where in the
domain of the Allied Publication Board whose files by then had been already
headed back to the Italian authorities. Yet, he believed without shade of doubt
that “it does not appear that Rollier has suffered any wrong at the hands of the
Allies, nor indeed that he is under the impression of having suffered wrong”245.
Furthermore the good news was provided that according to the
information in the hands of the Rome Embassy a fortnightly paper bearing the
same name was at that time being published in Turin by the Italian Federalist
Professor Augusto Monti and Francesco Lobue246. In concluding his letter the
chancellor added a just apparently superfluous reminder for the Foreign Office.
He reminded the Western Department that the granting of publication licenses
within Italy was at that time “entirely a matter for the Italian government” and
there was no way in which the British could intervene without being accused of
“unwarranted interference in Italian internal affairs”247. In sum, in light of the
interest showed by the Foreign Office in the fate of the «L’Unità Europea» and
of the consequent pressure exerted on the Rome Embassy in this sense the latter
felt compelled to remind London that there were certain boundaries to be kept
in mind in diplomacy. Once Noel-Baker had provided Foot with all the details
now in his possession, the General Secretary sent a last regretful and apologetic
242 Cfr. TNA, FO371/60673. Sub-folder n° ZM 1041 containing correspondence between the
Western Department and the Rome Embassy. 243 Cfr. TNA, FO371/60673 letter n° ZM 1041 dated 18 March 1946 from the Rome Embassy’s
chancery to the Western Department of the Foreign Office. 244 Ibidem. 245 Ibidem. 246 Ibidem. 247 Ibidem.
Eurostudium3w gennaio-marzo 2014
144 C. Nasini, The Origins
letter, dated mid-April 1946, where he expressed his deepest concern in fact for
“having put the Minister of State to a lot of unnecessary troubles”248.
These episodes, both the first concerning ILEC and the latter about «L’Unità
Europea», reveal how the Federalist crusade conducted by Lussu, Valiani and
all the others had not completely vanished in the thoughts of British policy-
makers with the end of the conflict. Rather the opposite was true. Many
contacts with diverse pro-Europeanist pressure groups were still in place and
acted in different directions behind the scene, in the Foreign Office. The advice
provided by members of these networks were never disregarded when the
issue of intra-European cooperation was on the table or when there was the
need of finding new strategies to expand it in original directions. The British
section of ILEC and «L’Unità Europea» were part of a larger puzzle which the
Foreign Office was keen to continue to assemble even when, or rather also in
consideration that, Churchill’s stamp was on the general plan. On the other
hand, it had been there since the very beginning. It had been Churchill who
pushed for putting Europe ablaze, for the creation of SOE. Also the decision of
giving its leadership to Dalton had had Churchill’s stamp. When clandestine
action had become a matter of life or death for Britain both Conservative and
Labour exponent had been in agreement. In 1940 the Labour party had joined
the struggle for Britain’s survival entering into the Coalition government next
to Churchill. There was no reason in 1946 for not continuing in agreement as
before. Not yet.
248 Cfr. TNA, FO371/60673 letter n° ZM 1041/583/22 dated April 10th 1946, from N.B. Foot to
Noel-Baker.
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G. Mazzei, Recensione 145
Luca Stroppiana, Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2013, II edizione
aggiornata, pp. 185. di Giacomo Mazzei
L’anno scorso il Mulino ha dato alle stampe la seconda edizione aggiornata di Stati
Uniti, sintetico ma dettagliato volume sul sistema politico-istituzionale di quel paese,
a cura di Luca Stroppiana, cultore di Istituzioni di diritto pubblico e Diritto pubblico
comparato presso l’università di Firenze. Nella prima edizione del 2006 il volume
faceva originariamente parte della collana “Si governano così”, che comprende una
ventina di saggi analoghi, di altrettanti autori, sui principali paesi dei cinque
continenti. Quello sugli Stati Uniti è il primo e finora unico di essi ad essere stato
ripubblicato, questa volta nella più ampia collana “Itinerari”.
Un merito da attribuirsi certamente all’autore, il quale ha pubblicato anche
diversi articoli accademici in materia di legislazione elettorale e forme di governo, si
è recentemente addottorato con una tesi in chiave comparativa sul finanziamento dei
partiti politici e delle campagne elettorali, ed è stato per anni curatore della rubrica
“Cronache costituzionali dall’estero: Stati Uniti d’America” per la rivista «Quaderni
costituzionali». Per il Mulino è riuscito nell’impresa, nient’affatto scontata, di
condensare in poco meno di duecento pagine una chiara esposizione del complesso
intreccio tra politica e ordinamento federale statunitensi, con riferimenti storici e
agganci ad avvenimenti contemporanei, oltre che accessibile ad un pubblico non di
soli addetti grazie a un linguaggio facilmente comprensibile e al formato di tipo
manualistico.
Ovviamente la novità editoriale va attribuita anche alla pregnanza
dell’argomento trattato. Gli Stati Uniti, sebbene di questi tempi siano in molti a
profetizzarne il declino, restano comunque la maggiore potenza mondiale e
rappresentano pur sempre il più longevo esempio di federazione su scala
continentale della storia, retta dalla più antica costituzione scritta ancora in vigore.
La temperie che la patria di George W. Bush e Barack Obama ha attraversato dal
2006 – annus horribilis della guerra in Iraq, durante il quale esplose oltretutto la bolla
speculativa nel mercato immobiliare americano, causa scatenante della successiva
recessione globale – è altresì suscitatrice di interesse. Essa ha avuto ricadute
immediate, tra cui, per l’appunto, l’elezione nel 2008 del primo presidente afro-
americano, preannunciata proprio nel 2006, allorché il suo predecessore alla Casa
Bianca si trovava ormai in piena crisi di popolarità, dalla riconquista democratica di
entrambi i rami del Congresso. L’amministrazione Obama è stata poi caratterizzata
da notevoli sviluppi, che vale la pena di richiamare, sempre in compagnia
dell’autore, quanto meno per sommi capi.
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G. Mazzei, Recensione 146
C’è stato innanzitutto il salvataggio dell’allora pericolante edificio monetario
con a capo la borsa di Wall Street e gli istituti di credito ad essa associati, avviato in
realtà negli ultimi scampoli dell’amministrazione Bush, ma completato sotto la
leadership del nuovo presidente, attraverso l’introduzione di significativi correttivi
alla regolamentazione del sistema bancario e delle transazioni finanziarie, insieme
ad un ulteriore, decisivo intervento nell’economia. Si è quindi assistito a un’epocale
riforma sanitaria, a un rinnovato e per certi versi inedito impegno nel campo dei
diritti civili e, per quanto riguarda la politica estera, sia al ritiro delle truppe
americane dall’Iraq sia a quello, lentamente in via di ultimazione, dall’Afghanistan,
mentre un’altra operazione militare, in Libia, avrebbe comportato un minore
coinvolgimento rispetto ai casi appena citati.
La stessa guerra planetaria al terrorismo islamico, che pure è proseguita a
spron battuto, registrando tra l’altro l’eliminazione di Osama Bin Laden, ha perso i
toni da crociata assunti all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001. E se la
controversa era Bush è tramontata in maniera tutto sommato ingloriosa, l’era
Obama, tra punti di rottura e linee di continuità col passato, molti dei quali
prontamente rilevati da Stroppiana, è stata a lungo ed è tuttora scossa da forti
tensioni, emerse soprattutto attorno alle politiche di spesa pubblica. Ne è una
dimostrazione evidente l’ascesa del cosiddetto Tea Party, il movimento di protesta
che sull’opposizione a tali politiche ha costruito la propria fortuna e dal 2010 ha
riconsegnato stabilmente la Camera dei Rappresentanti ai repubblicani. Un successo
che potrebbe garantir loro anche il controllo del Senato nelle elezioni di mezzo
termine previste per il prossimo novembre.
Pertanto non stupisce la scelta della casa editrice bolognese, che del resto ha
sempre avuto un occhio di riguardo per le vicende politiche e per la ricca tradizione
del costituzionalismo a stelle e strisce, non di rado intese come utili spunti di
riflessione per il processo di unificazione europea. In virtù dei recenti sviluppi
d’oltreoceano e tanto più in un momento estremamente delicato per la politica e le
istituzioni nel nostro continente, la riedizione e l’aggiornamento del volume in
questione appaiono dunque particolarmente opportuni.
Il testo è suddiviso in nove capitoli tematici, il primo dei quali contiene
informazioni basilari sul “contesto geoeconomico”: conformazione fisica del paese e
sua organizzazione in Unione di stati, crescita economica e demografica, forme e
principi della cittadinanza. A tale riguardo diverse pagine sono dedicate al tema
dell’immigrazione, intimamente legato alla storia e all’identità stesse della nazione
americana, nonché oggetto di numerosi interventi legislativi nel corso del XX secolo,
a cui si è recentemente aggiunto, a fronte di forme dilaganti di clandestinità, un
tentativo di riforma organica più volte promessa e mai realizzata
dall’amministrazione Bush ma che sotto la spinta dell’amministrazione Obama
potrebbe finalmente essere in dirittura d’arrivo. Tra l’altro, l’autore spiega come
negli Stati Uniti la legislazione già vigente coniughi, in certi casi, il principio
costituzionalmente riconosciuto dello jus soli con quello dello jus sanguinis, entrambi
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notoriamente al centro dell’attuale dibattito sulla gestione dei flussi migratori verso
l’Europa.
Nel secondo e terzo capitolo vengono rintracciate le origini dell’ordinamento
costituzionale statunitense tra i secoli XVII e XIX. Si va dall’epoca coloniale, quando
la corona inglese regnava su gran parte della costa orientale del Nord America, alla
rivoluzione di fine Settecento, dizione che abbraccia sia la guerra d’indipendenza
dall’Impero britannico sia il complesso di riforme istituzionali culminato nella
fondazione dell’Unione, sino a toccare la cruenta guerra civile in cui quella stessa
Unione precipitò tra il 1861 e il 1865. L’autore ripercorre le varie tappe del processo
costituente, a cominciare dal “periodo critico”, come egli lo definisce (p. 27), che vide
dapprima la crisi della confederazione di stati figlia della prima fase rivoluzionaria, e
quindi la creazione di una repubblica federale ad opera della celebre Convenzione di
Filadelfia, artefice dell’attuale costituzione nel 1787, che fu poi ratificata con voto
popolare dai singoli stati nel corso dei tre anni seguenti.
Vengono altresì citate l’introduzione, contemporanea alla ratifica, dei primi
dieci emendamenti costituzionali, il cosiddetto Bill of Rights, col quale furono
codificati fondamentali diritti di cittadinanza, e la successiva attribuzione alla Corte
Suprema del sindacato di costituzionalità delle leggi (judicial review). Segue, a
quest’ultimo riguardo, un’interessante chiosa sulle fonti del diritto federale e sulla
gerarchia tra di esse, preziosa per chi voglia cimentarsi in un confronto con gli assetti
istituzionali e con l’esercizio della giurisdizione all’interno dell’Unione europea.
Sempre in termini di paragone, ma più in generale, allargando cioè lo sguardo
alla lunga durata del processo costituente nel suo svolgimento storico, a far riflettere
è anche l’intervallo di tempo intercorso tra la rivoluzione e la guerra civile, prima
della cui conclusione il suddetto processo non poté considerarsi effettivamente
completato, come d’altronde la stessa suddivisione del testo operata da Stroppiana
suggerisce. Vale la pena di tenerlo a mente nel valutare i tempi dell’unificazione
europea, fonte di tante polemiche tra i federalisti nostrani, e sebbene ciò non sia
esplicitamente riconosciuto dall’autore, la sua ricostruzione offre spunti in tal senso.
Potrebbe però offrirne di più consistenti. A questo proposito, infatti, occorre
muovergli una prima critica. Nel descrivere quella che si potrebbe definire come la
crisi di sviluppo del federalismo americano, egli sembra ricalcare un’interpretazione
tradizionale eccessivamente schiacciata sulle questioni di dottrina e meno attenta del
dovuto al contesto sociale, non nuova, per la verità, alle pubblicazioni del Mulino
sull’argomento1.
Egli dà conto sia della contrapposizione tra entità statuali consumatosi nel
passaggio dalla confederazione alla federazione, sia delle alterne vicende
attraversate per circa ottant’anni dall’Unione concepita a Filadelfia, a causa
dell’allargamento ad ovest della stessa e della conseguente integrazione di nuovi
stati al suo interno. Inscindibile da tali vicende fu, com’è noto, la drammatica
1 Si pensi, ad esempio, al classico lavoro di Nicola Matteucci, per altri versi di estremo rigore e
assoluta levatura, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, il Mulino, 1987.
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questione della schiavitù, su cui l’autore si sofferma, indicando tra l’altro le odiose
clausole, poi emendate all’indomani della guerra civile, che nella versione originale
del dettato costituzionale disciplinavano il censimento degli schiavi ai fini
dell’imposizione fiscale e della rappresentanza politica dei liberi cittadini.
Non vi è però alcun accenno, nella ricostruzione proposta, ai vari conflitti,
schiavitù a parte, che pure segnarono la società americana fin dalle origini
dell’Unione. La Convenzione di Filadelfia, ad esempio, non fu solo, come egli lascia
intendere, la sede di un compromesso fra stati, diversi per potenza economica,
consistenza demografica, estensione geografica, e dipendenza, o meno, dal lavoro
servile. Essa rappresentò anche un mezzo per contenere la pressione popolare
generata dalla rivoluzione, incanalandola nelle istituzioni repubblicane. Dinamiche
democratiche dal basso e naturalmente il gioco di interessi contrapposti, non solo
quelli legati al traffico degli schiavi, continuarono a caratterizzare la vita politica
degli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, con effetti sugli sviluppi del
federalismo. Fu questo il caso dei primi tentativi, tutti falliti, di dotare il paese di una
banca centrale.
I successivi quattro capitoli del volume sono dedicati ad ulteriori aspetti del
quadro politico-istituzionale. Vengono approfonditi nell’ordine: il sistema elettorale
e dei partiti, la forma di governo, il federalismo e il sistema giudiziario. Qui si
trovano cenni soprattutto alla storia recente del paese, dalle grandi riforme
introdotte agli inizi del Novecento, in quella conosciuta come “era progressista”, e
durante il New Deal di Franklin Roosevelt, cui si deve buona parte del moderno
apparato di governo, fino ai giorni nostri.
Stroppiana, che, come si è detto, è uno specialista della materia, confeziona
un’analisi rapida ma accurata della “democrazia elettorale americana”, una
macchina dal funzionamento alquanto articolato. “In nessuna altra democrazia”, egli
osserva puntualmente, “si vota per eleggere così tante cariche diverse come negli
Stati Uniti”. Il riferimento è soprattutto all’elezione popolare di un gran numero di
pubblici uffici con funzioni amministrative e, caso “del tutto peculiare nel panorama
comparativo”, giudiziarie, a cui vanno aggiunti i vertici dell’esecutivo e le assemblee
rappresentative a livello federale, statale e locale. Un’altra peculiarità su cui viene
posto l’accento è l’Election Day, appuntamento riservato allo svolgimento
contemporaneo delle varie consultazioni elettorali, tradizionalmente fissato per il
martedì dopo il primo lunedì di novembre, una scadenza stabilita per legge nel
lontano 1845 e da allora mai disattesa, “nemmeno in tempi di guerra” (p. 51).
L’autore prende quindi in esame i sistemi elettorali per la Casa Bianca e il
Congresso, il nesso tra di essi e il bipartitismo, la legislazione che disciplina il
finanziamento delle campagne elettorali. Egli presta inoltre particolare attenzione
alle ultime quattro tornate delle presidenziali, dalla contestata elezione di Bush nel
2000 alla rielezione di Obama nel 2012.
Altrettanto nitida, sebbene contenga almeno una lacuna di rilievo, risulta la
trattazione riguardante la forma di governo. È ben spiegata la coniugazione del
principio fondamentale della separazione dei poteri esecutivo e legislativo con i vari
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G. Mazzei, Recensione 149
pesi e contrappesi (checks and balances) tra di essi, per cui si hanno poteri in parte
separati e in parte condivisi dalle diverse branche di governo. Vengono quindi
illustrate l’organizzazione dell’amministrazione federale, le differenze tra i due rami
del Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti) ed anche la dinamica delle
relazioni tra questi e il Presidente in fatto di nomine e di iniziativa legislativa,
specificando con cura come quest’ultima appartenga soltanto ai membri del
Congresso, mentre il Presidente svolge in proposito un ruolo di “impulso” che si
esprime attraverso: il tradizionale discorso sullo stato dell’Unione e altri appelli
all’opinione pubblica, la presentazione di un progetto annuale di bilancio e
soprattutto la minaccia di sottoporre al proprio veto le proposte di legge approvate
dal Congresso, che a sua volta può annullare il veto presidenziale con un voto di
almeno due terzi dei componenti di ciascuna camera.
C’è però da notare come l’autore, che peraltro si dimostra capace di trattare
sinteticamente la complicata materia, tralasci sorprendentemente di considerare una
facoltà di non poco conto tra le varie attribuite al Presidente, vale a dire quella di
promulgare gli executive order (decreti esecutivi), cui nondimeno l’autore fa
riferimento più in là nel testo, a proposito del fallito tentativo, da parte di Obama, di
chiudere Guantanamo, il campo di detenzione per sospetti terroristi, da anni al
centro di roventi polemiche. Si tratta infatti di una facoltà limitata, in particolare
dagli atti del Congresso, ma solitamente gli executive order, che sono nell’ordine delle
centinaia per ogni amministrazione, vengono regolarmente implementati2.
Sia il capitolo sul sistema elettorale e dei partiti, sia quello sulla forma di
governo, a parte la lacuna appena sottolineata, arricchiscono il volume di una messe
di informazioni chiaramente utili alla riflessione sulla rappresentanza e sul
funzionamento delle istituzioni europee. Altrettanto interessante in questo senso è il
capitolo sul federalismo, nel quale vengono passate in rassegna, come di seguito: le
competenze del governo federale rispetto ai cinquanta stati che compongono la
federazione; le principali caratteristiche delle diverse costituzioni e forme di governo
statali; l’evoluzione del federalismo in prospettiva storica; il federalismo fiscale.
Particolarmente degno di nota è l’esame della cosiddetta Commerce Clause
della Costituzione, in base alla quale la potestà legislativa del Congresso si è estesa,
soprattutto durante il XX secolo, dapprima in ambito prettamente socio-economico,
ad esempio nei riguardi del lavoro minorile, della rappresentanza sindacale e della
2 Gli executive order sono rivolti alle agenzie federali, hanno valore di legge e non necessitano
dell’approvazione del Congresso per essere promulgati. La collaborazione del Congresso è però
indispensabile nei casi in cui le risorse previste siano di una certa entità, e comunque il Congresso
può modificare o abrogare tali decreti presidenziali – nel caso di Guantanamo è stata la Camera dei
Rappresentanti a impedirne la chiusura. Si noti inoltre che, sebbene non vi sia alcun riferimento
esplicito in materia nel dettato costituzionale, la promulgazione di executive order è entrata nella prassi
sin dal 1789, non appena fu eletto il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington. Dagli
inizi del Novecento il ricorso agli executive order da parte dei presidenti è poi diventato prassi corrente
e ve ne sono stati di storici, come, ad esempio, quello riguardante la desegregazione razziale delle
forze armate nel 1948.
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G. Mazzei, Recensione 150
contrattazione collettiva, e successivamente in altri ambiti, quali la repressione dei
fenomeni criminali, la tutela dei diritti civili, la protezione dell’ambiente e, da
ultimo, la copertura della riforma sanitaria voluta da Obama.
Quanto al sistema giudiziario, altro cardine del quadro politico-istituzionale,
nel capitolo che segue viene considerata l’organizzazione di esso a livello federale e
(negli aspetti essenziali) statale. L’attenzione è concentrata sul vertice del sistema, la
Corte Suprema, sulla sua composizione e sulle sue funzioni, oltre che sulle
procedure e consuetudini che regolano la nomina dei suoi membri da parte del
Presidente e con l’assenso del Senato; il tutto accompagnato da ampi cenni agli
sviluppi della giurisprudenza costituzionale dalle origini ai giorni nostri. Qui
l’autore non si lascia sfuggire l’occasione per spendere qualche parola a proposito
della contestatissima sentenza sul caso Citizen United, con cui nel 2010 la Corte ha
dichiarato incostituzionali alcune importanti norme restrittive sul finanziamento
delle campagne elettorali, una sentenza che è stata giudicata dai critici, tra i quali lo
stesso Obama, “a tutto vantaggio degli interessi dei soggetti economici più forti” (p.
126).
L’ottavo e penultimo capitolo, su “libertà e diritti costituzionali”, ha per
oggetto principale il già citato Bill of Rights, i primi dieci emendamenti costituzionali,
e in particolare alcuni di essi: quelli che tutelano i diritti fondamentali del cittadino
per quanto riguarda le libertà di religione, d’espressione e di coscienza;
l’eguaglianza di fronte alla legge; le garanzie processuali (due process of law); il
principio di ragionevolezza della legge. Viene inoltre esaminato il XIV
emendamento, introdotto all’indomani della guerra civile e anch’esso concernente i
diritti fondamentali, aggiornati però alla luce di una rinnovata dottrina federalista
(protezione dei “privilegi” e delle “immunità” del cittadino nei confronti della
legislazione statale, non solo quella federale, come precedentemente previsto dalla
Costituzione) e della prima legislazione sui diritti civili delle minoranze, che furono
entrambe conseguenze di quella guerra.
Da tali premesse normative mosse la secolare lotta contro la segregazione e la
discriminazione razziale, che avrebbe profondamente segnato la società americana
specialmente nel secondo dopoguerra, intrecciandosi sia agli ulteriori sviluppi del
federalismo – la lotta fu condotta in parte ai danni dei “diritti degli stati” (states’
rights), espressione che infatti ha spesso avuto una connotazione razzista – sia, dagli
anni Sessanta del secolo scorso, al femminismo e al nascente movimento per i diritti
gay.
Sui movimenti per i diritti delle minoranze, nelle loro varie ramificazioni e
incarnazioni, Stroppiana elabora un interessante excursus, comprese le ultime novità
legislative e giurisprudenziali, sia a livello federale che statale, in materia di
matrimonio omosessuale e aborto. Proprio all’aborto egli dedica un’intera sezione
del suddetto capitolo, sotto la dicitura “un nuovo diritto costituzionale: la privacy”.
In essa, purtroppo, non vi è traccia del recente scandalo sulle attività investigative
della National Security Agency (NSA), una patente violazione della privacy, che per
molti americani è oggi una fonte di preoccupazione addirittura maggiore della
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possibilità di nuovi attacchi terroristici. Con ogni probabilità l’autore ha completato
il manoscritto prima che lo scandalo esplodesse in tutta la sua gravità3.
In un’altra sezione del capitolo, inoltre, egli si occupa dell’annoso problema
delle armi da fuoco, il cui possesso negli Stati Uniti è costituzionalmente protetto dal
II emendamento. Il problema, le cui proporzioni sono ormai sconcertanti, è
accuratamente storicizzato unitamente alla dimostrazione dell’indiscutibile
anacronismo della norma costituzionale, cui tuttavia un numero considerevole di
americani è gelosamente affezionato, anche in nome di un preteso spirito di
indipendenza dai centri del potere politico, governo federale in primis4. Tutti questi
esempi, a loro modo, presentano motivi d’interesse per quanto riguarda i rapporti
tra federalismo, tutela dei diritti individuali e sentimenti di appartenenza alla
nazione.
Nell’ultimo capitolo del volume, infine, viene affrontato il tema delle relazioni
internazionali degli Stati Uniti. Se, come parrebbe di capire, è ancora attuale una
famosa battuta attribuita all’ex Segretario di Stato americano, Henry Kissinger, una
quarantina di anni or sono (“chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”),
anche questo tema offre spunti di sicuro interesse. Dopo un’occhiata veloce
all’organizzazione militare – dal Dipartimento della Difesa ai servizi di intelligence,
al Consiglio per la sicurezza nazionale (National Security Council) alle dirette
dipendenze del Presidente – segue un resoconto più approfondito sulle attribuzioni
costituzionali in materia di politica estera e di difesa, i cosiddetti “poteri di guerra”.
Si ricorda che Presidente e Senato condividono la responsabilità di nominare gli
ambasciatori all’estero e quella di stipulare trattati internazionali; che in tempo di
guerra al Presidente sono riservati poteri eccezionali in qualità di capo delle forze
armate; che la Camera dei rappresentanti svolge anch’essa un ruolo specifico, nello
stanziare cioè i finanziamenti per le azioni militari; e che è comunque il Congresso
nel suo insieme a dichiarare guerra o a concedere al Presidente una teoricamente
meno impegnativa ma di fatto altrettanto vincolante “autorizzazione per l’uso della
forza militare”.
3 In un sondaggio d’opinione sulle misure anti-terrorismo adottate dal governo americano, condotto
dal Pew Research Center nel luglio 2013, il 47 percento degli intervistati dichiarava di sentirsi
preoccupato a causa soprattutto delle restrizioni alle libertà personali che tali misure
comporterebbero, a fronte di un 35 percento più interessato all’efficacia di queste nel proteggere il
paese da possibili attacchi. È stata questa la prima volta dal 2004, da quando cioè l’istituto
demoscopico ha iniziato a sondare gli americani sull’argomento, che si è registrato un simile risultato.
Si veda in proposito l’articolo di Glenn Greenwald, che ha curato la pubblicazione delle rivelazioni
sulla NSA per il quotidiano inglese «The Guardian», Major opinion shifts, in the US and Congress, on
NSA surveillance and privacy, http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/jul/29/poll-nsa-
surveillance-privacy-pew. 4 Per farsi un’idea realistica del problema, si pensi che, secondo una delle stime più attendibili, nel
2009 erano oltre 300 milioni le armi da fuoco in possesso di privati cittadini negli Stati Uniti, circa una,
in media, per ogni americano. Si veda William J. Krouse, Gun Control Legislation, Congressional
Research Service, 14 novembre 2012, p. 8, http://www.fas.org/sgp/crs/misc/RL32842.pdf.
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G. Mazzei, Recensione 152
L’ultimo capitolo è inoltre corredato da una sintesi sulle “epoche di politica
estera americana”, dai primi passi all’indomani della rivoluzione fino al post-guerra
fredda. Qui l’autore si cimenta in un compito probabilmente improbo e, nonostante
lo sforzo, il risultato è francamente deludente. Nelle pagine in questione, cinque per
l’esattezza, ci sono forse troppe semplificazioni. Una per tutte, quella relativa alla
mancata ratifica da parte del Senato del Trattato di Versailles all’indomani della
Prima guerra mondiale, con la conseguente esclusione degli Stati Uniti dalla Lega
delle Nazioni, la cui creazione era stata fortemente voluta dall’allora Presidente
Woodrow Wilson. Stroppiana spiega l’accaduto con la delusione delle ambizioni
idealistiche degli americani alla conferenza di pace e con lo scontro personale tra
Wilson e i membri del Senato, omettendo di dire che questi ultimi argomentarono il
proprio rifiuto su solide basi costituzionali ed ebbero ben presenti, nel farlo, gli
interessi nazionali specialmente in America Latina e nelle Filippine, che all’epoca
erano una vera e propria colonia degli Stati Uniti. Più convincenti sono invece le
ultime due sezioni del capitolo sulla guerra al terrorismo, dove vengono messe in
evidenza le novità nell’approccio di Obama, al pari delle scelte “continuiste” rispetto
all’amministrazione Bush.
Avviandoci alla conclusione, ci corre l’obbligo di segnalare, per dovere di
completezza, non tanto una semplice svista da parte dell’autore, quanto piuttosto la
sua sottovalutazione di un pezzo importante dell’apparato di governo federale, vale
a dire la Federal Reserve, la banca centrale americana, dotata di un’ampia autonomia
decisionale, sia pure nel suo inquadramento istituzionale di agenzia governativa,
dipendente per la propria esistenza e organizzazione, e per la nomina dei suoi
vertici, dal Presidente e dal Congresso. Stroppiana la cita en passant, a proposito delle
riforme istituzionali dei primi del Novecento – la creazione, nel 1913, della prima
stabile banca centrale negli Stati Uniti fu, come egli nota, uno degli aspetti più
significativi di quelle riforme – e inoltre in merito alla carente regolamentazione
finanziaria unanimemente riconosciuta tra le cause della recente crisi economica
globale. Non vi è però alcuna menzione del ruolo centrale svolto dalla Fed, come
viene abitualmente chiamata, nel contenere gli effetti della crisi una volta esplosa.
L’argomento avrebbe verosimilmente meritato una trattazione più approfondita5.
Ad ogni modo, il volume edito dal Mulino rappresenta un utile contributo
alla conoscenza del sistema politico-istituzionale statunitense, sia dal punto di vista
storico sia per quanto riguarda i fatti più recenti. L’argomento, come si è avuto modo
di osservare a più riprese nelle pagine precedenti, offre molteplici spunti di
riflessione sullo stato attuale e sui possibili sviluppi del processo d’unificazione
europea. Nel concludere, aggiungiamo che – forse perché, come disse un illustre
5 A questo proposito, anche per l’interesse dell’argomento in relazione alla Bce, la Banca centrale
europea, mi permetto di rimandare il lettore a un sintetico lavoro comparativo tra le due istituzioni
monetarie, da me precedentemente pubblicato su questa rivista: Brevi note su Fed e Bce,
«Eurostudium3w», n. 22 (aprile-giugno 2013), pp. 11-30,
http://www.eurostudium.uniroma1.it/rivista/archivio/Eurostudium27/Mazzei.pdf.
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speaker della Camera dei rappresentanti, “all politics is local” – non è infrequente, nel
nostro paese, discutere di America per regolare nient’altro che le solite beghe
domestiche, e invece è esattamente la dimensione continentale, quella dell’Unione
Europea, che poi ci riguarda ugualmente, la più appropriata per scorgere
somiglianze e differenze, stabilire paralleli, se non misurarsi col modello americano.
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