LA SCUOLA DELINEATA DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE

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LA SCUOLA DELINEATA DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE La vera spinta ad una scuola moderna proverrà dalla Rivoluzione Francese, anche se, in quel Paese, si scontrarono varie tendenze ed ipotesi che di fatto non portarono immediatamente a nulla. I tempi ridotti, l'enormità dei problemi, il boicottaggio completo di tutti coloro che avrebbero potuto fare qualcosa, non permise la costruzione di un prodotto finito (almeno a livello di scuola popolare laica) ma stimolò solo la voglia e la capacità di farlo in epoca successiva. I documenti più interessanti che permettono di capire con quale spirito i rivoluzionari affrontarono il problema della scuola sono i cahiers de doléance. In essi leggiamo richieste, con accenti di assoluto realismo e moderazione, diverse a seconda di chi le avanza. Il clero richiede in sostanza: a) le prerogative della chiesa in materia scolastica devono essere mantenute e qua e là rafforzate. Perciò la religione dovrà continuare a costituire la base e il coronamento dell'insegnamento. Le congregazioni dovranno essere aiutate a svilupparsi. I non cattolici dovranno essere esclusi dal magistero. b) In generale il clero è favorevole, sulla base sopra descritta, all'istituzione di una limitata istruzione popolare. e) Il clero deve rientrare con funzione primaria nelle università. La nobiltà mostra solo ostilità o indifferenza nei riguardi dell'educazione popolare. Essi si limitano a talune formule generiche circa l'utilità della pubblica istruzione. Viceversa, sul piano pratico, si preoccupano di chiedere l'istituzione di scuole speciali per giovani nobili, posti gratuiti nei collegi, scuole militari. In compenso la nobiltà dimostra uno spirito abbastanza tollerante in materia religiosa. Il terzo stato, si fa portatore delle lamentele e delle richieste della borghesia e dentro vi sono riflesse anche le oscure aspirazioni delle grandi masse contadine e operaie. Il terzo stato chiede: a) la generalizzazione dell'educazione popolare. Qua e là si accenna all'obbligatorietà. Molto raramente alla gratuità, salvo che per gli indigenti. b} L'intervento del potere civile in materia scolastica. Il più delle volte, però, si auspica una forma di collaborazione tra stato e chiesa. e) Numerose sono le lamentele per il basso grado di preparazione dei maestri per i quali si chiedono un trattamento più conveniente ma anche seri esami e regolari controlli. d) Si domanda la creazione di borse di studio e un maggiore decentramento dei collegi per favorire la prosecuzione degli studi ai giovani borghesi meno agiati. e) Si auspica la parificazione dei giovani borghesi ai giovani nobili per quanto riguarda l'accesso alle scuole militari. /) Per quanto si riferisce allo spirito informatore della scuola, la borghesia è discretamente tollerante e chiede un « catechismo civico » accanto al catechismo religioso. g) Infine si auspica una riforma dei programmi in senso più realistico mediante l'attribuzione di maggiore importanza alle scienze, alla lingua materna e alle lingue moderne. Sarà CONDORCET a scrivere il Rapporto sull'Istruzione Pubblica, un progetto avanzatissimo per l'insieme di tutta la società: si parla di libertà di cultura, di libertà di ricerca, di libertà di insegnamento, si adombra l'educazione permanente, si sostiene che: nessun potere pubblico deve avere l'autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l'insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica o ai suoi interessi contingenti. L'indipendenza dell'istruzione fa parte dei diritti della specie umana. Dal momento che l'uomo ha ricevuto dalla natura una perfettibilità i cui ignoti limiti, se pure esistono, si estendono ben oltre la nostra immaginazione, poiché la conoscenza di verità nuove è per lui il solo mezzo per sviluppare questa felice disposizione, fonte della sua felicità e della sua gloria, quale potere avrebbe il diritto di dirgli: ecco ciò che bisogna che sappiate, ecco il punto in cui dovete arrestarvi? Poiché solo la verità è utile, poiché ogni errore è un male, con quale diritto un potere, quale che sia, oserebbe determinare dove è la verità, dove si trova l'errore?... Non si può arrestarsi senza tornare indietro; dal momento che si stabiliscono allo spirito umano degli argomenti che esso non potrà né esaminare né giudicare, questo primo limite posto alla sua libertà deve far temere che ben presto non rimanga alcun limite alla sua schiavitù. Ed a questo aggiunge una fondamentale distinzione, tra istruzione ed educazione: la scuola deve attenersi ad insegnare tutto ciò che si fonda su fatti e certamente mostrato dalla ragione; tutto il resto, credenze politiche e religiose, è compito della famiglia e delle chiese. E' un passo importante che segna la completa laicità della scuola rispetto ad ogni influenza autoritaria sulla formazione dei giovani. Il Rapporto si chiude con la forte affermazione di donne che hanno i medesimi diritti degli uomini, non solo ad avere la stessa istruzione ma anche ad essere esse stesse docenti, sopravanzando in questo lo stesso ROUSSEAU che limitava sensibilmente l'educazione femminile. Progetti importantissimi, come si può vedere. Essi si scontravano con una realtà in rapido movimento e con situazioni non governabili.

Alla fine della Rivoluzione si avrà una situazione di insegnamento pubblico a carico della fiscalità generale ed un insegnamento privato finanziato dalle famiglie. La Chiesa, prima messa completamente da parte, verrà riammessa all'insegnamento senza ulteriori problemi (sarà invece la Chiesa a sollevarne continuamente e ad alimentare un clima di conflittualità permanente non rassegnandosi ad aver perso il potere politico; sarà lo stesso Papa Pio VII, al solito, a lanciare proclami a sostegno delle scuole cattoliche). Siamo insomma più o meno nella stessa situazione che si aveva prima della Rivoluzione ma da questo momento si impone uno spirito nuovo con il quale si guarda e si guarderà all'istruzione pubblica, laica, popolare e gratuita. LA SCUOLA NELL'ITALIA PREUNITARIA DELLA RESTAURAZIONE Nonostante ciò che vado dicendo, non si deve pensare che vi fosse un qualche miglioramento sostanziale in termini di quantità di persone interessate al processo di scolarizzazione. La situazione economica generale per un esercito di persone era la miseria più nera ed il degrado totale. I cambiamenti nei modi di produzione, dall'agricoltura alle prime industrie, spostano grandi masse dalle campagne alle periferie delle città. I lavori sono i più degradanti e riguardano lo sfruttamento dei bambini a partire da 4 (quattro!) anni, bambini utilizzati in lavori di fatica in miniere ed in industrie per orari di lavoro che arrivavano alle 15 ore. Neppure parlare di una qualche assistenza. Chi perdeva il lavoro era destinato a morire di fame, chi si ammalava lo stesso. In questa situazione che vedeva tra questa gente un analfabetismo vicino al 100%, pensare a scolarizzare era utopico. Dove la scuola esisteva era in mano alla Chiesa, era bassamente professionale, era bigotta e imbevuta di fanatismo, con maestri scelti perché incapaci di altro lavoro e privi di ogni preparazione e spesso di ogni morale (il problema della difesa dei bambini dagli abusi di ogni tipo venne affrontato dal pedagogista tedesco FROEBEL che inventò e costituì - 1839 - i primi giardini d'infanzia in gran parte affidati a donne, aprì all'educazione prescolastica ed alla conoscenza dei bambini nei loro processi evolutivi; è inutile dire che tali realizzazioni dovettero scontrarsi con i restauratori del dopo 1848 che le cancellarono). Ma sulla strada di non comprensione dei problemi si posero anche i pedagogisti romantici (tra cui PESTALOZZI) che in modo fantasioso pensavano che la scolarizzazione avrebbe migliorato la società. A nessuno di questi venne in mente che la scolarizzazione sarebbe potuta andare avanti di pari passo solo in cambiate situazioni economiche. Anche quelle poche iniziative del periodo rivoluzionario e napoleonico, vennero cancellate dai governi e sovrani restaurati. Si riaprirono le porte ai gesuiti ed alle varie congregazioni religiose e l'istruzione popolare passa a loro con in più il fatto che lo Stato riconosce come sua l'attività educativa pubblica e quindi inizia a finanziare le scuole anche se confessionali. Si realizza così anche nella scuola la cogestione tra potere del sovrano e potere clericale ma quest'ultimo squalificato a rango di servizio piuttosto che esaltato come riconoscimento del valore educativo della Chiesa. Di questo si rendono conto i curiali che, alla ripresa dei moti rivoluzionari nel 1830 si schiereranno con i liberali (!) che rivendicano libertà di insegnamento contro le ingerenze ed il controllo dello Stato autoritario. Osserva GEYMONAT che: la lotta per la libertà d'insegnamento (...) è una disputa nella quale il significato dei termini è usato equivocamente dalle varie parti. Libertà di insegnamento, infatti, può significare: a) facoltà per enti e privati di istituire scuole ed istituti di educazione. b) facoltà per il docente di insegnare con la massima libertà di coscienza, di orientamento ideologico, di metodo; c)Impegno della scuola ad innalzare il livello culturale, morale, civile delle masse, inculcando negli alunni lo spirito di tolleranza, il rispetto delle opinioni altrui, la pratica della libera discussione, la ricerca e la conquista della verità anche attraverso l'errore; in breve: formando delle teste pensanti e non semplicemente delle teste ricettive del pensiero altrui. E su queste differenze di significato che se si sceglie una accezione se ne escludono altre nascerà un equivoco che ancora oggi è ben presente. Ma passiamo a vedere la condizione scolastica nei vari Stati italiani preunitari nel periodo della Restaurazione. Stato Pontificio Con la Restaurazione, lo Stato Pontificio si era riprese le Marche e la Romagna. Quindi anche in zone dove si era fatto un qualche passo avanti si ritornò indietro. Aveva iniziato (1816) Pio VII a ridare il monopolio dell'educazione ai gesuiti con il fine di creare delle coscienze passivamente obbedienti alla Chiesa. Le scuole primarie (parrocchiali) gratuite erano molto poche, le paghe ai maestri erano ridicole, si insegnavano nozioni strumentali con l'esclusione della storia profana e di ogni scienza. Vi erano poi scuole regionarie private a pagamento (che saranno regolate nel 1825). Inoltre molte attività caritatevoli private insegnavano a leggere ed il catechismo (e lavori femminili alle giovanette, ma non a leggere; chi avesse voluto farlo doveva chiedere dispensa alla parrocchia). Nel 1819 si iniziò (Pesaro e Spello) l'esperienza del mutuo insegnamento (vedi oltre).

Con l'elezione di Papa Leone XII scomparve quasi ogni retaggio della dominazione francese; egli tentò con ogni mezzo di ripristinare le antiche consuetudini, confermando e aumentando il potere ecclesiastico, negò la libertà di stampa e con la bolla Quod Divina Sapientia Omnes Docet (una rielaborazione aggiornata di quanto affermato nel Concilio di Trento) promulgata nel 1824 riduceva ogni forma di istruzione sotto l'esclusivo controllo del clero. Alla bolla si allegava una Constitutio de recta ordinatione studiorum in ditione ecclesiastica che forniva varie regole di una presunta riforma scolastica che riguardava soprattutto l'università, non occupandosi né di scuole secondarie né della formazione degli insegnanti e fornendo solo alcune norme di carattere generale per le scuole primarie. La Constitutio prevedeva che tornasse obbligatorio lo scrivere e il parlare in latino, che non avesse spazio alcuna materia di ordine pratico, ma dominasse incontrastato l'insegnamento del pensiero metafisico. Veniva negata l'istruzione tecnica, scientifica, ginnica e militare, non permessi i congressi scientifici. Venivano chiuse le scuole di mutuo insegnamento. Con la Constitutio papale, oltre al riordino delle università con la suddivisione in quelle di seria A (Roma e Bologna) e quelle di serie B (tutte le altre), [3] I motivi di uno sviluppo ritardato Una delle cause che più pesantemente influivano sui ritardi del processo di scolarizzazione va individuata nelle spesso dolenti condizioni delle finanze comunali sulle quali gravava infatti l'onere maggiore dell'istruzione primaria, secondo quanto prescritto dalla legge Casati. Il disagio economico di gran parte dei comuni avrebbe per anni condizionato negativamente gli sviluppi della scolarizzazione. Alla luce di questi dati se apparivano giustificate le sollecitazioni che i prefetti rivolgevano costantemente alle amministrazioni comunali quelle critiche tendenti ad individuare esclusivamente nella "inerzia delle municipali rappresentanze [...] consigliate o da ristrettezze di vedute, o da ciechi pregiudizi […] e finalmente da una mal intesa economia" le cause che compromettevano "miseramente l'avvenire delle popolazioni nella parte più nobile che è quella dell'istruzione e della moralità" erano perlomeno viziate da una eccessiva mentalità inquisitoriale. La lentezza e l'incertezza degli sviluppi dell'istruzione in quei primi anni unitari emerge con maggiore chiarezza quando si vanno ad esaminare separatamente alcuni fenomeni. Primo fra tutti quello dell'istruzione femminile. Il ritardo della scolarizzazione femminile appare con femminile e quella maschile se si vanno ad esaminare le spese per le istruzione nei bilanci comunali dei municipi romagnoli. (...) Il lento procedere del processo di modernizzazione della scuola primaria in Romagna era testimoniata anche dalla occasionalità del reclutamento della classe insegnante. L’improvviso sviluppo della scolarità all’indomani della caduta dello Stato pontificio aveva trovato in gran parte impreparate le amministrazioni comunali nel provvedere al reclutamento dei maestri. La legge Casati aveva tuttavia previsto tale ostacolo e indicato come, sia pure entro certi limiti le funzioni docenti potessero essere esercitate in via provvisoria da personale non patentato purché ne fosse stata accertata una sufficiente preparazione. Regno di Napoli Dopo le riforme ed i tentativi di Riforma del periodo napoleonico, la Restaurazione borbonica riportò quasi completamente la scuola alla completa influenza clericale. Nel primo periodo si oscilla continuamente tra aperture e chiusure: da una parte si vorrebbe mantenere l'efficienza del sistema scolastico messo su da MURAT e dall'altra si ha paura di turbare l'ordine costituito con una scuola troppo avanzata. Si manifesta allora ciò che è ambizione di ogni governo reazionario: da un alto avere cittadini istruiti ma non troppo, dall'altro avere una scuola che serva più per indottrinare che per istruire, dall'altro ancora avere una scuola che non crei problemi alla struttura sociale esistente, dall'altro infine avere una scuola che si armonizzi con gli insegnamenti della Chiesa. E, vista la crescita del movimento liberale, i più accesi conservatori lanciavano strali contro la scuola che appariva come la tomba di troni ed altari. Nel 1815 venne istituita una Commissione con lo scopo dichiarato di educare i giovani alla Nostra Cattolica Religione. Nel 1816 gli ordini religiosi si ripresero quasi ogni insegnamento, furono reintrodotte nei programmi questioni attinenti a fede e culto, i parroci erano chiamati alla vigilanza, per praticare qualsiasi professione è necessario un attestato in cui si dichiari, oltre che di saper leggere e scrivere, di conoscere il catechismo. […] Siamo ancora al breve periodo di transizione ai moti del 1820 e, ancora nel 1818, la scuola, pur in mano alla Chiesa, era formalmente gestita da una Commissione laica. Tale Commissione emanò un nuovo ordinamento per la scuola pubblica siciliana che quasi si ispirava a ciò che era stato fatto negli anni immediatamente precedenti la Restaurazione. Tutti i comuni furono, infatti, tenuti ad istituire una scuola primaria, «assistita da uno, o più maestri secondo i bisogni della popolazione» per istruire i fanciulli «ne' primi elementi di leggere, e scrivere correttamente, nell'aritmetica elementare, e nelle istruzioni morali del Catechismo di Religione, e de' doveri sociali adottati dal Governo»; tutti i maestri furono obbligati a utilizzare il metodo normale [metodo normale o simultaneo che consisteva nell'insegnare contemporaneamente a tutti gli scolari le medesime nozioni, evitando spreco di tempo e migliorando la partecipazione degli scolari stessi, n.d.r.]. Per rendere possibile da parte degli

insegnanti l'apprendimento di questa metodologia, la Commissione istituì in tutti i capoluoghi di provincia una Scuola centrale di metodo. Ciò rappresentava una novità, nel continente non era prevista una tale scuola che era un embrione di unificazione di metodi prima che di contenuti. Nel continente [2], i moti del 1820, pur nei tempi brevissimi in cui operò il governo rivoluzionario, fecero ipotizzare una scuola apertissima e moderna. Dopo i moti del 1820 si scatena la più sorda avversione verso la scuola ed ogni forma di cultura. Lo stesso re non vuole più sentirne parlare e trasferisce tutto sotto il controllo della Chiesa. La pubblica istruzione del Regno viene «omogeneizzata» e messa sotto il controllo ecclesiastico. Non vi furono cambiamenti significativi con la successione al trono di Ferdinando II. Una indagine del 1936 in Sicilia parla di completa desolazione e di analfabetismo regnante. Ed arriviamo al 1843 quando Fernando II firma un decreto in cui lo Stato rinuncia completamente all'Istruzione per affidarla alla curia. Nel 1848 altri moti rivoluzionari che per una breve stagione dettero il potere alla borghesia liberale. Fu subito costituito il Ministero della Pubblica Istruzione che tentò la riorganizzazione della scuola pubblica con particolare riferimento alla scuola primaria (1849) con un progetto di seguito riassunto [2]: a) l'istruzione, almeno quella primaria è un diritto di ogni cittadino; b) l'insegnamento non può essere una funzione dello stato, ad esso compete invece vigilare tramite gli ispettori per garantirne il buon funzionamento e per garantire la sicurezza sociale; c) poiché è un diritto dei genitori educare i propri figli, ai genitori deve essere assicurato il diritto di «entrare nelle scuole, ove viene educato il figlio, di prendere informazioni sul loro andamento, e richiamarsi ancora presso le autorità superiori»; d) dell'istruzione primaria devono farsi carico i comuni essendo questi le naturali aggregazioni delle famiglie; e) l'istruzione primaria è «un gravissimo interesse sociale» per cui è dovere dello stato «rimuovere ogni impedimento, che nascer possa alla sua diffusione e progresso»; perciò essa è impartita a tutti gratuitamente nelle scuole pubbliche; [...] f) essendo l'istruzione un bene non ancora compreso dalle masse popolari lo stato la impone a tutti come un obbligo, lasciando però libertà di adire le scuole pubbliche o le private. Questo delineare una scuola moderna ebbe vita breve, una nuova Restaurazione ancora più feroce fece precipitare tutto in brevissimo tempo. Ancora la Chiesa a gestire il tutto, una Chiesa onnivora ed onnipresente che sarà la migliore alleata dei Borbone, una Chiesa che, all'inizio dell'Ottocento, su un totale di circa 4 milioni di abitanti del regno, aveva ben 120 mila addetti al culto. Il sistema scolastico che il dominio borbonico si accingeva a consegnare al Regno d'Italia presenta un quadro disastroso: le sue caratteristiche sono l'inefficienza, la scarsissima presenza, il monopolio clericale. Insomma il Regno delle Due Sicilie chiude i suoi giorni facendo registrare un completo fallimento nell'organizzare un sistema scolastico ordinato, controllato dallo Stato e, soprattutto, efficiente. Un fallimento con cui il Regno d'Italia si troverà a fare i conti. dato che il Regno di Napoli, che pure era stato tra i più avanzati e tra i primi a muoversi sulla strada dell'educazione popolare e pubblica, porterà in eredità allo Stato unitario la più alta percentuale di analfabeti. Paradossalmente fu la scuola privata laica che sopperì ai disastri di troni ed altari. Da queste scuole vennero ed in queste scuole insegnarono personaggi fondamentali nella cultura non del Meridione ma dell'Italia, come Puoti, Silvio e Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari, ... I principi precedentemente elencati saranno però alla base della scuola piemontese di Cavour. Lombardo - Veneto Alla fine del Settecento, non vi è dubbio che il Lombardo - Veneto è la parte d'Italia più evoluta per la sua economia avanzata che comporta una maggiore evoluzione civile e culturale (più la Lombardia che il Veneto). Merito di ciò è indubbiamente la dominazione - amministrazione austriaca che con il benessere che garantisce fa dimenticare ai più il ferreo controllo assolutistico. Gli austriaci tornano al potere dopo la caduta di Napoleone nel 1814. Da questo momento la scuola torna a ciò che era prima della Rivoluzione con la sopravvenuta necessità di ordinare e sistemare l'esistente. La cosa verrà fatta con il Regolamento Normale per le Scuole Elementari del 1818. Le scuole verranno suddivise in tre categorie, quelle minori, quelle maggiori e quelle tecniche (queste ultime mai realizzate). Le scuole minori erano obbligatorie per tutti i giovani (maschi e femmine) con età compresa tra i 6 ed i 12 anni. Erano organizzate nei centri minori sotto la direzione di un parroco ed avvenivano in classi di fino a 200 alunni (con un paio di aiutanti per ciascun maestro), fatto che le qualifica per la supposta efficacia. Le scuole maggiori erano organizzate nei centri maggiori per preparare all'ingresso o a scuole tecniche o al mondo del lavoro.

Le finalità della scuola sono ben chiare nel Regolamento: i maestri debbono avere speciale attenzione ad insinuare agli scolari la gratitudine verso i parenti e l'amore verso l'arte, l'amore verso il Sovrano, e per la patria, l'ubbidienza alle leggi, il rispetto ai magistrati, e la riconoscenza soprattutto, che dovevano a chi loro procurava una gratuita istruzione, e cercava di nobilitare l'animo loro. Gli insegnanti erano obbligati a frequentare una scuola di metodica ma ciò non era sufficiente a maggiore qualificazione. Vi era infatti il pregiudizio, che conveniva mantenere per ragioni politiche e di affidabilità, dei preti come migliori insegnanti. Come si può osservare la struttura delle scuole del Lombardo - Veneto era seria ed avanzata ma, nonostante ciò, vi era una grossa evasione nella loro frequenza, anche se la frequenza (in Lombardia) era la più alta d'Italia: il 68% di maschi ed il 42% di femmine (in età scolare) con punte del 90% a Bergamo. Le cose si modificarono di poco dopo i vari moti rivoluzionari e la guerra d'indipendenza. Anche qui aumentò il controllo che divenne sempre più stretto, anche qui la scuola era sempre più affidata alla curia. Nel 1851 vi fu una riforma che tentava di promuovere le scuole tecniche. Non ebbe successo e questo perché il male profondo di tutto il sistema (e non solo del Lombardo - Veneto) era la scarsa preparazione che si aveva nelle scuole di base soprattutto quando erano in mano ai curati. Sta di fatto che il Lombardo - Veneto si presentò all'unità con il 64% di analfabeti, appena un 4% in meno che la media italiana. Anche qui, come nel Regno di Napoli, si fece fronte ai disastri pubblici con iniziative private di grande rilievo da parte liberale (che per gran parte, come per Napoli, interessavano però i figli dei borghesi illuminati). Si misero su le scuole di mutuo insegnamento (1919) sotto la spinta, tra l'altro, di Federico Confalonieri. Sorgeranno poi, sull'esempio dei giardini d'infanzia, gli asili infantili (1929), che si estenderanno rapidamente anche al resto d'Italia, meno che nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli. Dopo il 1848 la scuola fu sottoposta a maggiori controlli e l'Austria si rafforzò nell'opinione che l'unico fattore coagulante l'istruzione fosse la religione cattolica che era in grado di creare sudditi fedeli alla corona, obbedienti, snazionalizzati ed illiberali. Granducato di Toscana La Restaurazione in Toscana non ebbe le caratteristiche di dura repressione che si ebbero negli altri Stati preunitari. C'è da segnalare la chiusura (1817) della Scuola Normale Superiore di Pisa, nata allo scopo di formare insegnanti di scuola superiore, che era nata (1810) ad imitazione delle napoleoniche Écoles Normales Supérieures. E la scuola di base, quella popolare, soprattutto quella elementare, quella tecnica e quella artigianale, era in condizioni di grave arretratezza dal punto di vista dei risultati dell'alfabetizzazione (la riforma del 1827 relativa alle scuole elementari era basata su una precaria alfabetizzazione e sul catechismo), dei locali, degli insegnanti, dell'evasione (circa il 90% dei maschi in età scolare). La scuola è in mano al clero (Scolopi e Vallombrosani) anche se sottomesso allo Stato, che riceva abbondanti sovvenzioni dallo Stato stesso che garantisce l'istruzione fino a livello secondario per i maschi. Per le femmine le cose non vengono chiarite se non per quelle abbienti che dispongono di almeno un Istituto (SS. Annunziata a Poggio Imperiale) di ispirazione napoleonica. Anche qui, almeno fino al 1848 con una quieta accettazione di fatto da parte delle autorità dello Stato, fu l'iniziativa privata (Ridolfi, Capponi, Lambruschini,...) laica a fornire le migliori scuole, quelle di mutuo insegnamento, quelle artigianali e tecniche. Anche gli asili furono costruiti da iniziative private prima a Pisa (1833) e quindi a Livorno (1836). I fini di tali iniziative erano ben illustrati dalla rivista teorica liberale, paternalista Antologia ("il popolo deve apprendere ad essere volenteroso del lavoro, regolato, morale, religioso, morigerato e deve sapere qual è il suo ruolo e non travalicarlo") che delinea la scuola popolare, che sarà poi quella unitaria, a partire dal principio che l'educazione migliora i cittadini del medio e basso ceto ed avvia al progresso civile e sociale. I moti del 1848 convincono il granduca a sospendere una riforma della scuola che dal 1846 era in preparazione e ad abbandonare la questione della scuola popolare pubblica. La scuola, prima gestita da privati e dai Comuni, viene completamente affidata al clero sotto la supervisione dei vescovi (l'articolo 1 della legge del 1852 affermava: "Nelle scuole del Granducato il fine supremo dell'istruzione deve essere l'educazione morale fondata sopra il dogma della religione"). Ducati di Modena e Parma La Restaurazione a Modena fece cadere il Ducato in un pesante oscurantismo. Una censura ferrea blocca ogni cosa, compreso Dante. L'istruzione è affidata all'ordine ripristinato dei gesuiti. Quella primaria praticamente non c'è, quella tecnica, proprio perché gestita dai gesuiti, è arretrata e dogmatica. I moti del 1848 trovarono un governo provvisorio che non si occupò di scuola e così, la Restaurazione non dovette prendere particolari provvedimenti. Al catechismo del regno d'Italia si sostituì la Dottrina Cristiana del Bellarmino; furono espulsi gli ebrei dalla scuola pubblica [...] Nello stato non si parla più di liceo, né di insegnamento di logica, morale, storia, geografia, disegno. Probabilmente si tornò alla scuola del 1774 [...] Nel 1819 si stabilì una limitazione e una

sorveglianza sulle scuole private, ma le prescrizioni su questo punto furono quasi generalmente trasgredite, e nel 1825 il duca abolì queste scuole; l'ordine esplicito ebbe però in pratica molte attenuazioni. Mancando un regolamento generale per le scuole, e non potendosi applicare quello del 1811-1812 inviso all'autorità ducale, l'istruzione si trovò in una specie di anarchia. A Parma le cose andarono meglio, grazie all'influenza di Maria Luisa, moglie e poi vedova di Napoleone che riuscì a mantenere una ispirazione francese alle scuole del Ducato. Le scuole furono riportate sotto un rigido controllo e ai principi della morale cattolica che garantiva la governabilità dei principi. Anche qui i gesuiti tornarono in auge, quei gesuiti che avevano in odio l'istruzione popolare. Vi erano scuole primarie solo in alcune città e gli esami annuali erano solo per chi aveva certificati di frequenza al catechismo ed alle varie funzioni religiose. Maria Luisa poté attenuare le ricadute negative di quanto sopra poiché aveva un concordato con la Chiesa e poteva frenare la sua invadenza. Furono istituite scuole per maestri, esami di concorso per accedere all'insegnamento primario e secondario e si introdusse l'uso per tutte le scuole primarie di grammatiche d'italiano (1814). Nel 1818 vi furono interventi sugli stipendi e sulle pensioni dei maestri. La mancanza di questi ultimi fece aprire all'esperienza del mutuo insegnamento. Per le femmine povere vi erano pochissime scuole che davano un minimo di alfabetizzazione (scuole luigine) e accoglienza di qualche indigente in scuole monastiche a pagamento per persone agiate. Si tentò solo nel 1856 di mettere su una scuola primaria femminile uguale alla maschile con in più i lavori domestici. Nota positiva fu l'istituzione degli asili, anche se in ritardo (1841). Tale ritardo era dovuto ai liberali locali che volevano capire come s'inseriva tale politica in quella della auspicata unità d'Italia. L'esperimento durò solo 7 anni. Dopo il 1848 gli asili andarono a morire da sé proprio per il sopravvenuto disinteresse degli stessi liberali. Per concludere si può dire che una scuola elementare gratuita ed obbligatoria non esiste nella pratica tanto è vero che nel 1862, su un totale di 475.876 abitanti, solo 5721 giovani frequentavano le scuole pubbliche. Regno di Sardegna La Restaurazione inizierà con aspetti di oppressione e repressione resi molto più efficaci per il maggiore livello organizzativo dello Stato. La scuola, tornò in gran parte in mano agli ordini religiosi e particolarmente ai gesuiti. Lo Stato se ne tiene fuori, anzi, dopo i moti del 1821, stronca con decisione quelle iniziative private che avevano tentato la costituzione di scuole di mutuo insegnamento. Nel 1822 Carlo Felice varerà un Regolamento che teoricamente prevede cose importanti per la scuola primaria pubblica: scuola obbligatoria e gratuita per maschi e femmine in ogni comune; maestri assunti dopo un esame davanti ad un funzionario dello Stato; insegnamento in lingua italiana (con la messa da parte del latino); ma anche, nonostante la proclamata laicità, con la solita presenza ossessiva della religione: [Le lezioni, secondo l'articolo 12 del Regolamento], «principieranno alla mattina colla recitazione delle orazioni del mattino, e termineranno coll'agimus tibi gratias. S'impiegherà la prima mezz'ora nell'insegnamento delle lezioni del catechismo della diocesi. La scuola del dopo pranzo principierà colla recitazione dell'actiones nostras, e terminerà con quella delle orazioni della sera. Quella del dopo pranzo del sabbato verrà tutto impiegata nell'insegnamento del catechismo, e della dottrina cristiana, e terminerà colla recitazione delle Litanie della Beata Vergine».[Secondo l'articolo 15] «II Maestro, o Maestri delle scuole comunali si concerteranno col Parroco, affinché o nel luogo della scuola, o nella parrocchia abbino i fanciulli il comodo di sentire la messa prima della scuola, e quello di confessarsi una volta al mese; essi porteranno almeno ogni bimestre la fede di confessione. Nei giorni di festa gli scolari assisteranno al catechismo; ed alle funzioni parrocchiali nella loro parrocchia». A parte questa parte che sembrava ineliminabile in tutta Italia, qualunque fosse la dominazione anche straniera, il progetto di scuola primaria era di grande interesse ... solo che non se ne fece nulla per mancanza di tutto ciò che sarebbe occorso: mancanza di finanziamento statale, mancanza di denaro da parte dei comuni, mancanza di volontà, ... La scuola resterà autoritaria, con il bando ad ogni apertura . Come riassume Montespertelli riportato in: Principio fondamentale della scuola piemontese è quello di un'educazione volta al supremo fine di fabbricare dei sudditi fedeli e obbedienti alla Chiesa e allo Stato, anziché a quello di formare delle personalità intellettualmente e moralmente compiute e capaci. Tutto ciò che ha un lontano sentore di liberalismo o comunque di progressismo, è esecrato e bandito. Vigono i sistemi inquisitoriali più rigorosi; la sferza e la delazione sono in uso legale. Si stimolano gli scolari ad ambire al premio di essere chiamati a sferzare i propri competitori. I pochi insegnanti laici sono sorvegliati rigorosamente e posti sotto la costante minaccia della destituzione per ogni minima causa. La gestione delle scuole elementari sarà affidata ai Fratelli delle Scuole Cristiane e tale monopolio si manterrà fino al 1848, quando sarà varata in un clima politico cambiato, la Legge Boncompagni che aprirà la strada alla prima legge che poi fornirà il punto di partenza per le leggi nazionali, la legge Casati. Primi sintomi di cambiamento si avranno con la Raccolta dei sovrani decreti per le scuole varata da Carlo

Alberto nel 1834 con i quali si inizierà davvero l'insegnamento elementare in lingua italiana. Inizieranno anche a nascere riviste educative e pedagogiche a cui si accompagnerà la nascita di una scuola di pedagogia. Nel 1840, quando Casa Savoia si orienterà sui principi liberali ed inizierà a porsi come riferimento per il Risorgimento, cambierà la politica scolastica e si metterà mano ad una revisione del Regolamento del 1822 ad opera principalmente di Vincenzo Troya. Successivamente si realizzeranno: scuole di metodo per la preparazione dei maestri laici (1844); Casa di educazione correzionale dei giovani discoli (1844); scuole serali per adulti (1845); norme per le scuole femminili e per gli esami da maestra (1846); fondazione del Ministero della Pubblica Istruzione con il nome di Segreteria di Stato per la Pubblica Istruzione in sostituzione del preesistente Magistrato della Riforma (1847); ammissione alle scuole pubbliche di bambini valdesi ed ebrei (1848); assunzione con il nome di collegi-convitti nazionali dei collegi gestiti dai gesuiti espulsi dal regno nel 1848. Il Regolamento del 1840 aveva allegate delle Istruzioni ai maestri delle scuole elementari. Tali Istruzioni mostrano un importante livello di riflessione sulla scuola che avrà solo pochi cambiamenti nel passaggio prima alla legge Boncompagni e quindi alla Legge Casati. La scuola può essere un motore importante di progresso sociale e civile di uno Stato se riguarda l'intera popolazione. La lacuna più macroscopica di queste pur importanti affermazioni è che la scuola è ancora vista al servizio dello Stato e non dello Stato al servizio dei cittadini e, successivamente, con il loro miglioramento, alla qualità della vita di tutta la società. E passiamo ad illustrare la Legge Boncompagni (4 ottobre 1848), dal nome del primo ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna. Con la legge Boncompagni del 1848 che affermava che la Pubblica Istruzione era Uffizio civile e non religioso si passava tutta l’Istruzione compresa l'Università al Segretariato della Pubblica Istruzione e lo si denominava Ministero della Pubblica Istruzione. In tale legge l’istruzione veniva divisa in 3 gradi: universitario, classico o secondario (suddiviso in tre corsi: grammatica, retorica, filosofia; in esso vengono insegnate le lingue antiche e quelle straniere, gli elementi di filosofia e di scienze preparatori agli studi universitari), tecnico o speciale (scuole professionali per l'avvio al lavoro; tali scuole avranno considerazione continuamente crescente e saranno sostenute dallo stesso Cavour), primario o elementare (inferiore e superiore, ciascuno di due anni), tutti posti sotto la tutela pedagogica ed amministrativa del Ministero, che subentrava al controllo dei Gesuiti. Per questo la legge Boncompagni fu il primo tentativo radicale di laicizzazione dell’ordinamento scolastico, estendendo il controllo del governo anche alla scuola privata ed a quelle ecclesiastiche ed aprendo ad una problematica che sarà sempre fonte di problemi: la libertà d'insegnamento. Con una circolare del 1851 si istituirono anche le Scuole provinciali di metodo che a loro volta sono suddivise in Scuole di metodo, istituite nelle grandi città al fine di formare i maestri per il corso superiore delle elementari, e in Scuole inferiori di metodo, da istituirsi nei centri minori per la preparazione dei maestri del corso elementare inferiore. Va aggiunto che la Scuola di metodo con tutte le sue ramificazioni è rigorosamente riservata alla formazione dei maestri, anche se si comincia a delineare il problema della formazione delle maestre. Nel 1849, Domenico BERTI istruisce privatamente nella sua casa di Torino alcune giovani donne e consegue un tale successo che, l’anno successivo, a causa dell’elevato numero di richieste di partecipazione, deve chiedere al governo dei locali per tenervi lezione. Dal 1852 la scuola di Berti diventa triennale e prevede anche un convitto per le ragazze che non risiedono a Torino. Viene inoltre istituita una biblioteca itinerante e, dal 1854, è annesso alla scuola un corso elementare per le esercitazioni di tirocinio. La necessità di preparare le ragazze all’esame di patente magistrale viene sentita anche a livello statale, tanto che il 21 agosto 1853 il ministro CIBRARIO emana un regolamento in base al quale le scuole di metodo assumono il nome di “scuole magistrali” e vengono suddivise in maschili e femminili. La preparazione è caratterizzata da un programma di abilitazione all’insegnamento carente ed estremamente ridotto, riconducibile all’istruzione religiosa, a poche ed ormai obsolete istruzioni per insegnare le tecniche del leggere, dello scrivere e del far di conto e, infine, per insegnare il modo di mantenere la disciplina. Di interesse è il riconoscimento che la scuola deve essere diretta da gruppi di persone (Consigli) e non da singoli (anche se la cosa cadrà con la Legge Lanza del 1857) e che, per la prima volta la scuola elementare non è considerata come una cosa a sé stante ma come base per tutti per poter accedere a qualunque altro studio. Ma malgrado ciò le innovazioni pedagogiche furono blande, si centralizzò soltanto il controllo, l’insegnamento della religione rimase garantito dalla presenza nelle scuole di un direttore spirituale nominato dal vescovo e le innovazioni chieste dai liberali rimasero inascoltate, inoltre moltissimi insegnanti, soprattutto a livello elementare, erano dei religiosi. Era confermato il primato dell’indirizzo umanistico e delle discipline classiche, furono appena introdotte le discipline scientifiche e matematiche. Il movimento ideologico che ispirò la legge Boncompagni, avrebbe voluto contrapporre alla pedagogia dei gesuiti una pedagogia di matrice militare sul modello dell’accademia ma ben presto questa si rivelò una mera velleità ed anzi il processo di laicizzazione si mostro più lento del previsto. Con la legge Lanza del 20 giugno 1858 viene istituita la scuola normale che, secondo i piani di attuazione previsti, nell’arco di tre anni avrebbe dovuto raggiungere le dodici unità (sei maschili e sei femminili). Concludo il paragrafo riportando alcuni quadri statistici relativi alla scuola nei vari Stati preunitari (Fonte: Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza 1998):

LA LEGGE CASATI (1859): IL PROGETTO ALLA BASE DELLA SCUOLA DELL'ITALIA UNITA La Legge organica sulla Pubblica Istruzione o Legge Casati (novembre 1859) fu elaborata, insieme a Casati, da A. Mauri e A. Fava e fu varata, nonostante la sua mole (379 articoli), in soli 4 mesi, dato che non dovette passare per il Parlamento a seguito dello stato di Guerra (Seconda Guerra d'Indipendenza). Fu lo stesso Vittorio Emanuele I a promulgarla. Tale legge raccoglie tutte le istanze della Boncompagni, della Cibrario e della Lanza fornendo un assetto organico e gerarchizzato alla scuola, dall’elementare all’università sotto la dipendenza diretta dal consiglio della Pubblica Istruzione nominato direttamente dal Ministro (spettava al ministero dell'Agricoltura e Commercio l'istruzione professionale; l'istruzione universitaria e classica al potere centrale, la tecnica superiore alle province, l'elementare ai comuni). Tuttavia le novità della legge Casati non furono poche: venne istituita la prima scuola elementare per tutti, di quattro anni con un biennio inferiore (quello obbligatorio e gratuito) ed uno superiore; si insegnavano materie quali la religione, lettura e scrittura, aritmetica e sistema metrico, la lingua italiana, la geografia elementare e la storia nazionale, scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi della vita quotidiana. Un ulteriore divisione era tra corsi per maschi e per femmine in cui si insegnavano anche i “mestieri donneschi”. Il Regolamento del 1860 affermava che le scuole devono essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti. L’istruzione elementare era a carico dei comuni (che doveva anche fornire la legna da ardere ma non l'inchiostro da acquistarsi con il contributo delle famiglie), restando però di competenza del ministero della pubblica istruzione i programmi e le didattiche. I comuni dovevano anche garantire una adeguata istruzione militare agli alunni e fornire loro istruttori ed armi necessarie. La scuola elementare inferiore, come accennato, sarebbe dovuta essere obbligatoria per tutti ma occorrerà attendere sino al 1877 per ribadire il connotato di obbligatorietà. La scuola elementare fu frequentata prevalentemente dai figli del popolo ed in misura ridotta dai figli della piccola borghesia, che attendevano ad attività commerciali, d’artigianato ed a piccoli impieghi. La media ed alta borghesia la disdegnarono a lungo, provvedendo in altro modo ad un’istruzione classica ed umanistica, preoccupati di trovarsi seduti sui banchi con i figli di operai e contadini. A similitudine delle scuole elementari, che dipendevano direttamente dia Comuni, le scuole ad indirizzo

tecnico e professionali avevano chiaramente la finalità di formare i futuri operai specializzati da avviare nel mondo industriale che si stava lentamente costruendo nell’Italia post risorgimentale. La legge Casati fondava e caratterizzava l'istruzione quasi esclusivamente sul "ginnasio-liceo", la scuola classica per eccellenza che, si può dire, rimarrà immutata per quasi un secolo. Il liceo era, nella società borghese liberale, il vivaio delle nuove classi dirigenti che poi avrebbero avuto come sbocco naturale l'università. Quest'ultima ebbe varie modifiche tra le quali l'innesto, sul modello delle facoltà di teologia, diritto e medicina, dei corsi di laurea in lettere e filosofia e inscienze matematiche, fisiche e naturali. Con le prime forme d'industrializzazione, con l'introduzione delle macchine, tale modello di scuola rivelò i propri limiti: non preparava i tecnici di cui la società industriale aveva crescente bisogno, soprattutto tecnici intermedi. La scuola in genere, nella sua organizzazione prevalentemente umanistica, non fu in grado di evolversi per corrispondere a tali mutate esigenze, tanto che gran parte delle istituzioni scolastiche destinate a preparare tecnici videro la luce al di fuori della scuola, per iniziativa di diversi ministeri (quello dell'agricoltura, dell'industria e commercio per le scuole agrarie e industriali ecc.), con iniziative che solo nel 1930 verranno riportate nell'alveo del Ministero della Pubblica Istruzione. La legge Casati, in linea con quanto iniziato dai predecessori, si occupò anche della preparazione del maestro ridefinendo la Scuola normale, poi estesa a tutto il Regno d’Italia, che rimarrà pressoché invariata fino alla riforma Gentile del 1923. Essa stabiliva l’istituzione di scuole normali triennali, ridotte ad un corso biennale per coloro che intendevano insegnare nel corso elementare inferiore, nelle quali materie di insegnamento erano: morale, religione, lingua ed elementi di letteratura nazionale, elementi di geografia generale, geografia e storia nazionale, aritmetica e contabilità, elementi di geometria, nozioni elementari di storia naturale, di fisica e di chimica, norme elementari di igiene, disegno e calligrafia ed, infine , pedagogia. Per accedere a tali scuole normali, bisognava sostenere e superare un esame al quale si era ammessi a 16 anni compiuti, se uomini, o 15 se donne, sanzionando in tal modo la netta distinzione tra scuole maschili e femminili. I problemi della mancanza di insegnanti qualificati si moltiplicavano al crescere dei livelli di istruzione. Nel 1860 solo l'Università di Torino era in grado di licenziare laureati in lettere (ma appena 10). Milano, nello stesso anno, aveva solo matricole (16). Pisa ne aveva 17 e Bologna 1. Tutte le altre Università italiane non ebbero in quel periodo neanche un laureato in lettere. Né più prospera era la situazione dei corsi di laurea in filosofia e in matematica anche per il fatto che tali corsi erano da poco aperti. Va da sé che il primo ministro che si trovò a gestire concretamente la riforma, Terenzio MAMIANI non trovò di meglio, per colmare i troppi vuoti, che procedere a nomine d'ufficio, conferendo patenti abilitanti anche ai non laureati. In questo modo, nel 1860 e nei decenni a seguire, salirono in cattedra gli "amici" del ministero, i patrioti del Risorgimento in attesa di una sistemazione e gli ex preti che avevano scelto di allinearsi con la causa del liberalismo. Solo sul finire del secolo si ebbero i primi laureati in numero ragionevole. Mentre chiunque avesse compiuto i 25 anni, a patto di possedere determinati requisiti, di adottare i programmi statali e di accettare il controllo statale, poteva aprire una scuola privata, i diplomi e le licenze potevano essere rilasciati solo dalle scuole pubbliche e gli studenti delle private che ambissero tali diplomi e licenze dovevano sostenere esami davanti ad insegnanti di scuole statali. ALCUNI PROBLEMI CHE SI PONEVANO AL MOMENTO DELL'UNITA' La riforma Casati era quanto di più avanzato vi fosse in Italia immediatamente prima dell'unificazione. Abbiamo già visto che in gran parte essa era velleitaria perché non aveva né forniva gli strumenti perché si realizzasse. Abbiamo anche vista l'eccessiva enfasi ai portati del Romanticismo, all'educazione classica come asse portante della scuola e alla sua separazione da quelle tecniche e professionali che nascevano male come delle vere cenerentole nonostante vi fosse un grande bisogno di un loro armonico sviluppo in uno Stato in rapida evoluzione che si proponeva alla guida dell'Italia e che vedeva una rapida industrializzazione con mancanza di operai specializzati. Vi era però un peccato di fondo che minava tutto l'impianto: la scarsa considerazione per la scuola di base. Da un lato gli asili infantili, che pure erano una creazione di Ferrante APORTI, esule in Piemonte dal 1848, furono completamente trascurati e dall'altro la scuola elementare trascurata ed abbandonata ai comuni che spessissimo non avevano risorse per farla funzionare. Infine, con l'Unità, questa scuola fu trasferita d'autorità a tutti gli altri Stati con gli infiniti problemi che ne discesero e con la percezione dell'autoritarismo di tale operazione unita all'impreparazione della classe dirigente ad una visione estesa all'intera penisola (non disponevano di studi, di indagini, di statistiche indispensabili per ogni operazione di riforma). Vi era poi un elemento che fece fare molti passi indietro anche ai liberali più aperti: l'emergere in Europa del socialismo. Al di là di altri problemi che vedremo in seguito, i problemi più gravi con i quali l'Italia unita doveva confrontarsi era la completa arretratezza dell'intero Paese che misurava, ad esempio, un analfabetismo di gran lunga maggiore che nel resto d'Europa. Non a caso la Chiesa era stata (e sarà mantenuta) come pilastro dominante dell'educazione). Dalle tabelle seguenti si può cogliere l'abisso di separazione dell'Italia (e della cattolica Spagna) dal resto d'Europa:

ANALFABETISMO IN ITALIA DAL 1861 AL 1991

Maschi % Femmine % Totale %

1861 72,00 84,00 78,00

1871 67,04 78,94 72,96

1881 61,03 73,51 67,26

1901 51,13 60,82 56,00

1911 42,80 50,50 46,20

1921 33,40 38,30 35,80

1931 17,00 24,00 21,00

1951 10,50 15,20 12,90

1961 6,60 10,00 8,30

1971 4,00 6,30 5,20

1981 2,03 3,61 3,10

1991 n.d. n.d. 2,10

Fonti: Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza 2000

ANALFABETISMO IN EUROPA DAL 1861 AL 1990

Anno Italia Spag Ger-Aus

Sviz Franci

a

Sve-Nor-Dan

Bel-Ol Ing USA Giap

1861 74,7 75 20 19 47 10 45 31 20 36

1880 47,5 55 2 2 17 1 22 14 17 29

1900 48,6 51 1 1 17 0,5 19 3 11 12

1920 35,2 49 1 1 14 0,5 15 3 8 5

1941 13,8 17 1 1 12 0,5 11 2 5 4

1950 12,9 16 1 1 4 0,5 3 2 3 2

1960 8,3 12 1 1 3 0,5 2 1 2 1

1970 5,2 5,9 1 0,5 2 0,5 1 0,5 1 1

1980 3,1 3,4 0,5 0,3 0,4 0,5 0,4 0,4 1 1

1990 2,9 2,8 0,2 0,2 0,3 0,3 0,3 0,3 0,5 0,2

anni di freq.sc

uola 7,6 6,9 11,6 11,6 12 11,4 11,3 11,7 12,4 10,8

Fonte: Libro-Agenda "FINO AL 2001 E RITORNO" di Francomputer

Il primo censimento post-unitario del 1861, rivelò e rilevò una media di analfabetismo del 75%, un dato drammatico tanto più si andava a sud e più diffuso tra la popolazione di sesso femminile. Ancora le differenze linguistiche da regione a regione ed i diversi dialetti nell’ambito della stessa regione erano diversissime e scarsa era la conoscenza della lingua nazionale, parlata solo dai letterati, funzionari, avvocati da quelli insomma che conoscevano anche il latino. Si pensò allora di istituire una vigilanza all’insegnamento della lingua nazionale con la diffusione dei provveditorati agli studi e come modello fondamentale per la didattica fu scelto quello tedesco o prussiano, sia per scelte di matrice politica quali il centralismo e la forte burocrazia ma anche per contenuti e metodi didattici ministeriali cui il cittadino si doveva conformare

passivamente con il versamento del tributo. L’impianto didattico prevedeva la divisione in classi per anni di corso, la priorità alle discipline letterarie e classiche anche negli indirizzi tecnici, la svalutazione della scuola di base e la super valutazione di quella secondaria classica ed universitaria, gli orari rigidi e l’eliminazione di ogni attività non prevista dai programmi ministeriali. Altra affinità con il modello della dotta Germania, fu il concetto di libertà accademica, in particolare del mondo universitario dalla passata egemonia ecclesiastica dei gesuiti in Piemonte come dei luterani in Germania, infine la concessione classista di separare nettamente la scuola antica classica dalla nuova scuola tecnica ed entrambe ancora dal grado di istruzione elementare, ribadendo il concetto delle differenze sociali dei ceti e della divisione sociale del lavoro.

Merita il soffermarsi un istante sulle condizioni di vita di gran parte della popolazione in modo si possa meglio cogliere il livello enorme di difficoltà con cui ci si scontrava nell'intervento scolastico.

Le famiglie vivevano in stalle «avendo riguardo a lasciare uno spazio difeso dal bestiame, ove si ricoveravano nel giorno le donne e i bambini» (...) e altre in tuguri di pietra con pertugi a mo' di finestra chiusi con la carta o in catapecchie di legno «spalmato dentro e fuori di creta» con tetti di «canna di sorgo di turco» (...) o in stanze sotterranee, o comunque basse, umide, «con pavimento o in terra o in tavelle rotte e sconnesse, non difese dal freddo, non dal caldo, con le pareti affumicate e sozze di ogni bruttura (...) dove rari entrano i raggi solari, ove esalano disagradevoli e malsani odori, che (...) è necessità far servire a più usi, ove spesso [il povero] deve riposare con la moglie, i genitori, le sorelle, i fratelli» (...) e, in alcuni casi, con vari animali, dalle galline al maiale, all'asino o al mulo. Non mancano addirittura famiglie che vivono «in grotte, od in capanne di sterpi e di mota prive di finestre, o nelle umide cantine dei 'fondaci' napoletani» (...). L'affollamento, in questi locali multiuso e fatiscenti ma costosi - più di un quinto del salario mensile -, dal mobilio ridottissimo e di risulta, con il pagliericcio al posto del letto, con le imposte delle finestre, quando ci sono, che fanno da tavolo durante le ore del giorno, arriva anche a dieci persone. Sono condizioni che per molti milioni di italiani perdureranno fino alla seconda guerra mondiale e oltre e non lasciano dubbi sulle conseguenze negative anche sul piano sanitario, già grave non solo per le generali carenze igieniche, i troppo frequenti matrimoni fra consanguinei, e per un'assoluta mancanza di una vera e propria assistenza medica - del resto rifiutata fino a quando è possibile -, ma anche per i pesanti orari di lavoro (dalle 12 alle 15 ore giornaliere) e per gli endemici stati di denutrizione di una siffatta popolazione di diseredati.

In alcune zone, come quelle della Bassa padana, del Comasco, dell'alto Milanese e del Veneto, i contadini si cibano esclusivamente di mais, che sazia senza nutrire, così come in Puglia «i braccianti non mangiano che pane nero d'orzo» (...). Nella maggior parte delle mense contadine e proletarie la carne è del tutto assente e il consumo di pesce è irrisorio e limitato al merluzzo. Il basso rifornimento di calorie, dovuto a un'alimentazione scarsa di grassi, vitamine e proteine e spesso centrata su un unico cibo, come la polenta, favorisce il diffondersi della pellagra e il permanere di uno stato di denutrizione che depaupera le possibilità lavorative degli adulti e di rendimento scolastico dei ragazzi, quando non porta entrambi a una morte precoce.

La denutrizione porta a rachitismo, a scarsa concentrazione e a problemi agli occhi. Le scuole, quando esistono, sono lontane e difficilmente raggiungibili sia dai fanciulli che dai maestri, le condizioni delle scuole erano insane e molti maestri si ammalarono di tubercolosi (dei fanciulli non si sa perché gli eventuali casi vanno sotto la dicitura: assente).

A margine di queste drammatiche, vicende vi era il dibattito teorico dei liberali sull'organizzazione sociale, sul ruolo della scuola e come essa doveva essere intesa in termini di libertà. Questo dibattito è ben riassunto da GEYMONAT e TISATO e merita di essere riportato perché è ancora oggi (o forse soprattutto oggi) strumento di riflessione importante [18]:

Di fronte al profilarsi della possibilità di un « monopolio » statale in campo educativo, l'atteggiamento dei liberali « laici » è duplice. Da una parte abbiamo il gruppo degli studiosi e uomini politici che fanno capo al periodico II progresso, fra i quali la figura più significativa è quella di Bertrando Spaventa, dall'altra il gruppo dei collaboratori del Risorgimento e della Croce di Savoia, fra i quali emergono il Farini, il Berti e il Cavour.

Per i componenti di questo secondo gruppo, il cui liberalismo è di derivazione empiristico-anglosassone, la libertà è una tecnica, un metodo capace di assicurare un processo di auto-equilibrazione in ogni settore della vita. Non c'è dunque alcuna valida ragione per accettare il liberismo in campo economico e rifiutare la più assoluta libertà nel campo educativo. (...)

Questi liberisti non si rendono conto del fatto che parlare di concorrenza, a proposito delle istituzioni educative, non significa nulla, se non si precisi il piano sul quale si intende che la concorrenza stessa si attui. In economia le cose sono molto semplici: concorrenti i produttori, giudici gli acquirenti, premio il maggiore smercio della merce che risulta complessivamente meno costosa e migliore. Trasferito il metodo sul piano della scuola, risulterebbero concorrenti le varie scuole « libere » e giudici le famiglie. Ma queste ultime in base a quale criterio valuteranno la bontà del prodotto? In base alla migliore istruzione ed educazione

impartita oppure in base alla maggiore indulgenza nel far conseguire i famigerati « titoli » ?

D'altro canto, se la concorrenza si attua fra scuole appartenenti a confessioni, religiose o politiche, diverse, essa viene inesorabilmente declassata a strumento di proselitismo, l'idoneità scientifica degli insegnanti passa in seconda linea di fronte alla integrità, ortodossia e saldezza della loro « fede ». Nell'uno e nell'altro caso, la scuola perde di vista quello che dovrebbe essere il suo vero fine, vale a dire il promovimento di libere e consapevoli personalità [sottolineatura mia]. (...)

Ed è precisamente sotto questo punto di vista che il liberalismo dello Spaventa ci appare più consapevole e concreto di quello cavouriano. Lo Spaventa sostiene la necessità di rinviare l'applicazione del principio di libertà al momento in cui sarà stata distrutta la posizione di privilegio tuttora detenuta dal clero; fino al momento in cui si potrà garantire a tutte le scuole private una effettiva parità di condizioni. Ora è chiaro che l'incubo dello Spaventa per le « Orsoline, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani calzati », il suo timore di una monastica coorte dilagante per l'Italia alla conquista della scuola non nasce da un'astratta preoccupazione per il turbamento dell'equilibrio fra i concorrenti. Non il monopolio in quanto tale, ma « quel particolare monopolio » è il nemico dello Spaventa. A questo punto, il problema della libertà di insegnamento, intesa come facoltà concessa ai privati ed agli enti di istituire e gestire scuole, si innesta e si trasforma in quello della libertà della cultura. « Riconoscere la libertà dell'insegnamento è riconoscere la sovranità della ragione nell'ordine del pensiero. » Non si tratta più di sapere dal risultato della concorrenza quale sia la scuola migliore, se quella privata o quella statale, se quella confessionale o quella laica: la scuola migliore è quella che riconosce la sovranità della ragione. Il problema della opportunità o inopportunità di concedere a chicchessia la facoltà di istituire e gestire scuole si trasforma, con lo Spaventa, nel problema di favorire il sorgere e lo svilupparsi di una scuola libera all'interno, una scuola in cui la libertà costituisca il metodo stesso dell'insegnamento. Tale non è, non può essere, la scuola confessionale. D'altro canto, non si tratta di favorire tante scuole di parte quante sono le correnti, giacché in questo caso ognuna educherebbe, con eguale intolleranza, in base ai chiusi principi del suo verbo. La soluzione sta in una scuola aperta alle diverse ed anche alle opposte esigenze educative e tale può essere solo la scuola di Stato.

È sintomatico il fatto che i più accaniti difensori del principio della libertà di insegnamento, come facoltà di istituire e di gestire scuole, siano i cattolici. Non si tratta più ormai di « cattolici liberali », dal momento che il liberalismo cattolico è stato condannato già dal 1832 con l'enciclica Mirari Vos e il liberalismo in quanto tale è stato a sua volta colpito con l'enciclica Quanta cura e col Sillabo, nel 1864. Si tratta, anzi, degli ambienti più rigorosamente ortodossi; e ciò rende estremamente palese il carattere meramente « politico » della battaglia ed il significato strumentale che alla libertà viene attribuito.

Quale sia, poi, l'atteggiamento dei cattolici di fronte al problema della libertà « nella » scuola e di fronte al problema della educazione alla libertà è facile stabilire solo che si consideri l'enciclica Libertas, promulgata da Leone XIII nel 1888.

« Essendo fuori dubbio che la sola verità debba informare le menti perché in essa sola sta il bene, il fine e la perfezione delle intellettuali creature, l'insegnamento non deve perciò dettare altro che il vero. » Il moderno concetto della libertà di insegnamento è accusato di concedere ugual diritto all'errore e alla verità; pertanto esso è il concetto di « una libertà che lo Stato non può concedere senza mancare al suo dovere».

In questa situazione nasce l'Italia Unita del 1861 e, senza cambiamenti importanti relativamente alla scuola, quella del 1870.

Prima di concludere questo paragrafo è opportuno un cenno al problema dell'insegnamento della religione cattolica, problema che si riproporrà più volte e che vale la pena discutere ora. Nella Legge Casati (1859) tale insegnamento era al primo posto. Il Regolamento applicativo (1860) prevede l'esonero in un modo contorto e distorto, utilizzando indifferentemente le due frasi seguenti: fanciulli che non professano il culto cattolico e allievi appartenenti a culto non cattolico. Come osserva Manacorda [11] nell'istruzione secondaria, cioè i vecchi ginnasi e licei e i nuovi istituti tecnici, l'istruzione religiosa non figurava nell'elenco delle materie, come nelle elementari, ma l'art. 193 stabiliva che «sarà data da un Direttore spirituale nominato dal Ministro della pubblica Istruzione per ciascun stabilimento secondo le norme da determinarsi con un regolamento»; e l'art. 222, dichiarandone obbligatoria in generale la «frequentazione dei corsi», consentiva:

Gli alunni però acattolici, o quelli, il cui padre, o chi ne fa legalmente le veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all'istruzione religiosa dei medesimi, saranno dispensati dal frequentare l'insegnamento religioso e dall'in-tervenire agli esercizj che vi si riferiscono. Tale dichiarazione dovrà esser fatta per iscritto e con firma autentica ai Direttori od ai Presidi di questi stabilimenti.

Dal che risulta che l'insegnamento religioso comportava anche atti di culto, e che si obbligava a una dichiarazione formale chi volesse esonerarsene. Di fatto, per la facoltà di esonero si pensava allora (e anche poi, fino ai nostri giorni) soltanto agli ebrei ed ai valdesi.

Nella Legge la religione compariva ancora a proposito delle pene disciplinarie a cui potevano essere sottoposti gli insegnanti [11]:

L'art. 106, tra «le cause che potevano portare alla sospensione o alla rimozione di un membro del Corpo Accademico», citava anche «l'aver coll'insegnamento e cogli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l'ordine religioso e morale» (...); e l'art. 216 estendeva queste norme anche ai professori dei licei e ginnasi, e il 292 a quelli degli istituti tecnici.

Con il ministro COPPINO, nel 1867, non si forniscono indicazioni per l'esonero. Il 29 settembre del 1870, a soli nove giorni da Porta Pia (ormai obsoleta e nella sola attesa della rotazione di 180° della statua del bersagliere di bronzo), il ministro Correnti invia una circolare a tutte le scuole affermando che la religione dovrà essere impartita solo a chi ne faccia richiesta. La Legge Coppino del 1877 non farà cenno all'insegnamento della religione nella scuola e pone al primo posto tra le materie obbligatorie, quello occupato nel 1859 dalla religione cattolica, l'insegnamento delle prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino. Ma il non dire è fonte di equivoco, fatto che è alla base degli atteggiamenti di gran parte della classe politica. E da qui sorgeranno molte controversie che vedranno impegnate le varie istituzioni. La cosa fu presa in mano da Leonida BISSOLATI (1908) che, in Parlamento, presentò una mozione in cui invitava il governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma l'insegnamento religioso. Il Parlamento bocciò la mozione con soli 60 voti a favore su 407 parlamentari. Dopo gli scioperi del 1904 vi è una convergenza tra laici e clericali che prepara il Patto Gentiloni (l'enciclica Il fermo proposito di Pio X del 1905 rappresentava un superamento del non expedit di Pio IX del 1874, che impediva ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana, e le gerarchie si accordarono con Giolitti perché i cattolici votassero quei candidati liberali che non avrebbero sostenuto leggi antireligiose, al fine, per Giolitti, di sostenere i liberali al potere contro l'avanzata delle sinistre) ed i Patti lateranensi del 1929.

Per parte sua la Chiesa continuerà a sostenere le sue ragioni che, naturalmente, sono quelle vere. Si susseguiranno in tal senso, dopo il Sillabo (1864) e l'enciclica Aeterni Patris (1868) di Pio IX, le encicliche Libertas (1883), Immortale Dei (1885) di Leone XIII e la Pascendi (1907) di Pio X. In tali scritti si sostiene che la scuola è libera di insegnare la verità e ciò che è buono e che il giudizio su ciò che è vero e ciò che è buono spetta solo alla Chiesa. I liberali vengono utilizzati come ha sempre fatto la Chiesa che si muove su un doppio binario: dove è al potere tenta di trasformare lo Stato in confessionale, mentre dove si trova in minoranza reclama il diritto alla tolleranza, alla libertà educativa, alla libertà di culto.

In particolare c'è il SILLABO che faceva esplicito riferimento alla scuola, lanciando

il suo anatema contro tre affermazioni: che «tutto il regime delle pubbliche scuole può e deve essere affidato alla civile autorità», cioè allo Stato; che «l'ottimo andamento della società civile richiede che le scuole siano sottratte all'influenza moderatrice o all'ingerimento della Chiesa»; e che «ai cattolici può essere accetto quel sistema di educare la gioventù, il quale sia separato dalla fede cattolica e dalla potestà della Chiesa». Come spesso avveniva, ad esempio con certi rapporti polizieschi sui moti liberali o socialisti, il Sillabo enunciava così, al negativo ma con perfetta chiarezza, e solo per lanciare contro di essi il suo medievale anatema, i principi liberali della civiltà moderna. E questi tre punti - limitazione della scuola statale, presenza della Chiesa nella scuola statale, scuola confessionale per i cattolici - sono esattamente quello che i nuovi clericali rivendicano ancora oggi.

Oltre a ciò vi erano queste tolleranti prese di posizione papali:

ecco Pio VII definire lupi rapaci i maestri laici, e i aggiungere: «Spingeteli fuori e sterminateli immantinente»; ecco Pio IX dichiarare che i libri erano «da distruggere completamente, bruciandoli»; e denunciare i «mostruosi e fraudolenti errori delle astutissime società bibliche», e «l'orribile infezione delle dottrine pestilenziali e la sfrenata libertà di pensare, di parlare, di scrivere», e «i perversi insegnamenti che corrompono in modo compassionevole la gioventù e le somministrano fiele di drago nel calice di Babilonia». Altro, dunque, che libertà d'insegnamento! E finalmente Leone XIII, con l'enciclica Libertas del 1888, tagliò corto, rifacendosi ad altre dichiarazioni dei suoi predecessori: «La libertà d'insegnamento è al tutto contraria alla ragione e nata per pervertire totalmente le intelligenze». Questa era dunque, nonostante tutte le confusioni verbali, la posizione cattolica, ripetuta del resto a ogni pié sospinto sulla stampa clericale colta e popolare. E, a scanso di equivoci, Leone XIII aggiungeva: «Non esser lecito concedere illimitata libertà di pensiero, di stampa, di insegnamento e di culto»; e conseguentemente chiedeva che queste libertà fossero «legalmente represse». Un bel programma poliziesco, da parte di un papa esaltato oggi come un innovatore quasi liberale e democratico. Il quale, per togliere ogni dubbio, dichiarava infine che la Chiesa «attendeva tempi migliori per valersi della libertà sua».

E questi tempi migliori verranno, basta aver pazienza, con Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Ruini e consoci.

Infine la Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, segnerà tutto il periodo prefascista con commenti come il seguente [2]:

Chi ha detto che il pane dell'anima sia l'alfabeto? Il pane dell'anima è la verità; e l'alfabeto può servire per la verità e per la bugia (1872).

Da prendere in considerazione vi è anche la funzione dei libri di lettura (il libro di testo verrà più tardi, per ora è del solo maestro) che viaggiano in modo del tutto separato da quanto si programma. A lato di benemerite edizioni di libri di divulgazione scientifica (Hoepli, Treves e Sonzogno) che comunque sono per veramente poche persone, in epoca di Positivismo, vi è un ottuso attacco a tutto ciò che è razionale, domina l'antipositivismo ed il clericalismo. In tali libri, soprattutto a livello elementare, non è mai venuta meno l'esaltazione patriottarda, quella del Dio - Patria - Famiglia. La storia viene vista come un portato di Dio, si esalta acriticamente il Risorgimento e la nostra discendenza dall'Impero Romano, dominano i buoni sentimenti tra i quali una retorica della Patria che non si confronta mai con le esigenze del cittadino. La Provvidenza è poi onnipresente e guida il mondo. La Chiesa, esclusa dalla scuola, ricompare attraverso i libri martellando con campagne reazionarie ed oscurantiste. Una di queste riguarderà ad esempio l'evoluzionismo (ma stiamo o no parlando di oltre 100 anni fa?). Ma anche la fabbrica, l'industria, è qualcosa di negativo, un portato della scienza e come tale da rifiutare. Si esalta il lavoro sottomesso, l'aiutati che Dio t'aiuta, la felicità di lavorare, la disciplina, il rifiuto dell'ozio, il timore di Dio, il peccato, il sapersi organizzare da solo in modo si possa anche fare a meno della scuola. Il giudizio su questa criminale opera di indottrinamento è tutto al lettore.

Questi atteggiamenti erano anche delle numerosissime riviste cattoliche che insistevano invece su astratti buoni sentimenti:

la rivista cattolica La donna e la famiglia, nel recensire un libro di un sacerdote per , le scuole, commentava: «Per poter bene educare, bisogna che Dio intervenga. Oh! l'istruzione sì, io la voglio e divulgata dovunque; ma l'istruzione non è educazione; l'istruzione sola getta sul popolo raggi sinistri per lui e per gli altri». Mirabile osservazione, dove è da osservare che il riferimento è però solo al popolo. E ancora, altrove: «L'istruzione da sola scalza la fede religiosa e fomenta l'odio verso i padroni, perché insegna a confrontare con rancore il loro vivere comodo e lieto col proprio di stenti e privazioni». La scuola dell'alfabeto, per il fanciullo (e la fanciulla) del popolo fanciullo, era in gran parte semplice scuola di catechismo e di conformismo; senza contare che per la quasi totalità degli alunni era un'assurdità distante dalle loro iniziali esperienze di vita e dalle loro aspettative, un'acculturazione forzata.

E La donna e la famiglia continuava, estendendo le sue riflessioni dalla scuola all'intera vita sociale: «Forse non mai, più distintamente di adesso, si appresentó la battaglia tra il Bene e il Male. Da una parte Dio, la Famiglia, la Patria; dall'altra l'ateismo, il comunismo, l'Internazionale; da una parte il cattolicismo, la figliolanza divina, la civiltà; dall'altra il libero pensiero, la discendenza dalle scimmie, il petrolio che incendia biblioteche, musei e cattedrali». Qui la semplificazione delle contrapposizioni era assoluta: ma per quanto tempo ancora sentiremo, e anche da più alte cattedre, simili prediche, in un linguaggio identico a questo della vulgata popolare!

Sempre nel 1878, un'altra enciclica di Leone XIII (Quod apostolici muneris) affermerà i principi fondamentale della convivenza dal punto di vista della Chiesa, soprattutto in relazione ai barbari Socialisti, Comunisti, Nichilisti che cospirano nel mondo:

« disuguaglianza tra gli uomini», « diritto di proprietà e di dominio », obbedienza alla Chiesa e allo Stato dei padroni. Cellula e modello della vita sociale è la famiglia fondata «sopra l'unione indissolubile dell'uomo e della donna», sulla subordinazione delle «spose » ai « mariti », dei figli ai padri, «imperocché, stando ai cattolici insegnamenti, nei genitori e nei padroni si trasfonde l'autorità del Padre e del Padrone Celeste, la quale perciò come in essi prende da Lui l'origine e la forza, così necessariamente ne partecipa anche la natura, e da quella nell'esercizio s'informa». Consapevole di possedere « tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane», la Chiesa offre il suo sostegno allo Stato moderno e all'ordine capitalistico-borghese chiedendo in cambio l'indispensabile «condizione di libertà».

La Chiesa chiede quindi ufficialmente delle contropartite ai liberali di destra ed a Giolitti, ed esse, in cambio del sostegno della Chiesa con il gregge dei cattolici pronto ad uscire dai recinti, vengono date. Inizia il cammino che, per mere ragioni di potere della Chiesa, degli agrari e degli industriali più arretrati, porterà ad alleanze che prepareranno dei disastri clamorosi.

Mario Alighiero Manacorda commenta in modo condivisibile:

E davvero l'Italia moderna e laica ha reso un grande servizio alla fede cattolica, quando con la presa di Roma del 1870 l'ha liberata dalla sua identificazione con lo Stato pontificio, in presenza delle cui vergogne nessun papa potrebbe oggi dare lezioni di morale e di democrazia a noi e al mondo. LA POLITICA DELLA SCUOLA NEI PRIMI ANNI DEL REGNO D'ITALIA Da quanto abbiamo visto nel precedente paragrafo, il problema di gran lunga più importante che dovettero affrontare i primi governi fu quello dell'abnorme situazione dell'analfabetismo del Paese con punte drammatiche nel Meridione. Questo problema era strettamente connesso ai rapporti dello Stato con la Chiesa: senza Porta Pia non si sarebbe mai potuto affrontare. La cosa ebbe un qualche sviluppo per i pochi anni che divisero l'Unità d'Italia dal Concordato. Poi ...

Se si analizzano in modo storico-critico le vicende che portarono alla nascita dello Stato unitario ci si rende subito conto che il problema è sempre stata la Chiesa che, a seconda delle esigenze, sfruttava ora le divisioni interne tra gli Stati preunitari ora reclamava l'intervento di Paesi stranieri. In questo modo l'Italia restava divisa e cioè restava un ottimo terreno di pascolo per le greggi della Chiesa. Così si accentuava una dicotomia solo nostra (la Spagna viveva problemi diversi per essere stata un Paese imperiale): da una parte i più illuminati (non nel senso di Illuminismo) interpreti del Risorgimento si rendevano via via conto che occorreva, con l'Unità, colmare il divario tra l'arretratezza italiana e l'esuberanza dell'Europa e si rendevano conto del ruolo importante che la scuola avrebbe potuto avere non certo per l'educazione alle lettere ed alle arti; dall'altra ci si doveva confrontare con posizioni paleoculturali che tentavano la difesa solo di privilegi di casta e presuntamente dinastici, privilegi che si sarebbero presumibilmente conservati solo nel mantenimento della popolazione in uno stato di totale ignoranza. Questa dicotomia fu dapprima espressa in termini politici dallo scontro tra clericali e liberali, e subito dopo dallo scontro dei primi con una parte dei liberali (visto che gli altri erano stati cooptati dal clero). In tutto questo era proprio la scuola, o meglio la sua mancanza, che permetteva l'agile dispiegarsi dei rappresentanti politici da una parte dello schieramento all'altra in quella stagione, mai morta, del trasformismo. Sullo sfondo di scelte politiche che, all'epoca, sarebbero state cruciali, non vi erano mai le questioni economico-sociali da sole ma anche e forse soprattutto le questioni metafisiche. Questa contraddizione non è un'anticaglia messa in soffitta: ancora oggi la paghiamo in termini di arretratezza, emigrazione intellettuale e scarsa competitività del nostro Paese. Su questi temi, purtroppo non secondari, ebbero ad esprimersi le migliori menti del nostro Risorgimento. Alessandro Parravicino, nell'epoca entusiasmante dei Congressi degli Scienziati Italiani (SIPS, Società Italiana per il Progresso delle Scienze) iniziata a Pisa nel 1839 e mal sopportata da ogni governo preunitario, sostenne al V congresso (1843):

Ciò che resta ancor più a desiderare è un perfezionamento alle arti italiane, che le abiliti a produrre presto e bene quelle merci che, pagando noi il tributo dell'ignoranza all'industria degl'Inglesi, de' Francesi, de' Belgi, de' Tedeschi, ci costano milioni e milioni di lire ogni anno. Chi in Italia sa applicare il gas all'illuminazione? Chi la forza gigantesca del vapore alle arti? Chi sa costruire le macchine più utili alle manifatture del lino e del cotone? Pochi forestieri; e più pochi de' nostri. Mercé le scuole tecniche sparse nelle città più popolate d'Italia abbiam bisogno di farci nostro comune patrimonio questi importanti trovati; abbiam bisogno di fortificare colla scienza, in questa universale gara di produzioni, le speculazioni del manifattore, del commerciante, dell'agricoltore.(...)

Senza scuole tecniche secondarie, la tecnologia non può diventar popolare; e le vostre dotte opere, o Signori, saranno ammirate dai sapienti nelle biblioteche, ma non entreranno nelle officine, se le scuole tecniche non avranno apparecchiato le menti degli operatori a comprenderle.

E della cosa, applicare il lavoro alla scienza, si preoccupava anche Cattaneo nel Politecnico dove più volte aveva sostenuto:

[Occorre] promuovere ad un tempo lo studio delle scienze e il perfezionamento dell'industria e dell'agricoltura coordinando ad un medesimo intento le braccia degli artefici e le menti degli studiosi.

E le cose che sosteneva Cattaneo non era delle mere invocazioni di buona volontà ma rivendicazioni che nascevano da studi ed analisi approfondite. Nota, in proposito, Lacaita:

Nella sua concezione democratica l'espansione dell'istruzione e di quella tecnico-professionale in particolare assumeva il valore e la funzione di elevare a nuova dignità civile le « umili fatiche dell'officina » e di liberare gli operai dalla « condizione di semoventi ordigni d'un'arte non intesa ». Ma ciò che va ulteriormente aggiunto in questa sede è che il Cattaneo si preoccupò anche di dimostrare l'importanza dell'apporto dato

allo sviluppo dall'istruzione, la cui diffusione era perciò da lui sostenuta non con generiche e astratte perorazioni, ma con ben fondate analisi dei vantaggi sociali e individuali, sia di ordine economico che di ordine civile. Calcolando nel 1839 il costo dell'istruzione elementare dei fanciulli lombardi in età scolare, notava che il paese « nel contribuire per tre o quattro anni all'istruzione d'un fanciullo del popolo, colloca a frutto circa una trentina di lire, ossia investe una rendita perpetua di forse mezzo centesimo al giorno ». «Ora — continuava lo scrittore lombardo — si consideri quanto valga di più un operaio, od una madre di famiglia, che sappia leggere, scrivere e conteggiare, in confronto d'un essere idiota! Si consideri se la sua giornata non vale il mezzo centesimo e non lo ammortizza! Ora tutto quello che vale di più, è tanto di guadagnato per il paese e per il lavoratore ». E concludeva: «Se gli uomini fanno le cose, ogni miglioramento delle cose deve aver principio da un miglioramento negli uomini ». Dove non è soltanto affermato l'incremento della produttività del lavoro dovuto all'istruzione, ma, col «miglioramento degli uomini» è richiamata globalmente la sua teoria dei fattori non « fisici » dello sviluppo, dal pensiero alla volontà, dalle invenzioni tecnologiche e scientifiche all'intraprendenza degli individui, dalle istituzioni sociali ai movimenti culturali e ideologici, tutti direttamente o indirettamente influenzabili e modificabili mediante l'istruzione.

A queste elaborazioni avanzatissime rispetto al substrato culturale ed ai nemici del progresso civile, si accompagnavano moltissime pubblicazioni che iniziarono a rendere edotti i ceti medi e gli strati popolari più evoluti della necessità di una educazione tecnico-scientifica. Per parte loro i reazionari, nobiltà e clero come sempre, si esprimevano come il conte Monaldo Leopardi:

Ci è forse necessità sbracciarsi per ficcare in ogni angolo di tutti i cervelli umani i teoremi e corollari delle scienze e non ci vorremo mai persuadere che è d'uopo sapere con sobrietà e che la tanta diffusione dei lumi deve finire con l'abbruciamento della casa? Forse i nostri padri, da sessanta secoli in qua, non sono andati calzati e vestiti perché i sarti e i calzolai non conoscevano le regole della meccanica? [...] Noi crediamo che in addietro le cose siano andate abbastanza bene ed adesso vadano abbastanza male e crediamo che chiunque presiede al governo dei popoli debba porre attenzione a quel diluvio di miglioramenti sociali che ci fa stare ogni giorno peggio di prima e debba guardare con occhio estremamente sospetto qualsivoglia aspetto di novità.

e come il cardinale Lambruschini rivolgendosi a suo nipote:

Quanto avreste fatto meglio se invece di aprire una scuola di Geometria per li poveri di Figline ne' dì festivi [...] li aveste invece raccolti per udire in tali giorni pie e sode istruzioni che insegnasser loro ad essere buoni e perfetti cristiani! [...]

L'amore indiscreto che si mostra oggidì di generalizzare l'istruzione e la cultura mira non a migliorare la società, ma a infelicitarla. Si accenda pur l'orgoglio delle classi ultime (destinate dalla Provvidenza ad esercitare arti e mestieri) con un superficial sapere e si vedrà quali frutti produrrà un così calcolato sistema.

Abbiamo già visto che la Legge Casati non affrontava in alcun modo questo problema e che scarsi furono le novità nelle legislazioni immediatamente successive sempre perché in Italia occorreva guardare al corno metafisico del problema.

Abbiamo già detto che il fondamento di tutto era la trascurata scuola elementare e che essa era stata affidata ai comuni. Ma che entità erano i comuni negli anni 60 dell'Ottocento ? Vi erano in Italia 8789 comuni, dei quali 7807 avevano meno di 5000 abitanti. Certamente non si disponeva di risorse per mantenere una scuola dell'obbligo. Inoltre questi comuni erano in mano a sindaci reazionari (si tenga conto che nel 1865 in Italia solo il 4% della popolazione aveva il diritto di voto esercitato da circa il 30% degli aventi diritto) che male vedevano l'emancipazione popolare. Il contributo dello Stato era infimo e, sul territorio nazionale, divenne di circa il 13% delle spese complessive solo nel 1904 che rappresentava solo il 3,9% delle uscite complessive dell'intero bilancio dello Stato. Ancora nel 1910 Francesco S. Nitti sosteneva che occorreva arrivare almeno ad un spesa di 5 lire per abitante mentre essa era ferma ad una sola lira e, per molti comuni, anche meno.

Con la caduta della destra storica al governo del Paese, nel 1876 si cimentò con la scuola la sinistra, con la Legge Coppino (luglio 1877). La novità più saliente di tale legge, rispetto alla Casati, era il prevedere delle sanzioni nei riguardi delle famiglie che non rispettavano l'obbligo scolastico (che da due anni passa a tre) e dava delle norme precise per i comuni. I fondi messi insieme dalle multe per l'evasione dall'obbligo andavano a costituire un fondo per assistere gli alunni diligenti. Qui nasce subito una contraddizione. Chi evade è il più povero ed il più diligente è il più delle volte un benestante: i poveri agevolano gli studi ai ceti

medi. La contraddizione viene sanata in un modo pietoso: nel Regolamento applicativo (ottobre 1877) viene esplicitamente previsto che le famiglie più povere sono esonerate dall'obbligo scolastico! In definitiva questa norma annulla in gran parte l'impatto positivo della legge che pure ha effetti importanti nelle regolamentazioni per i comuni.

I risultati delle nuove regolamentazioni, a sei anni di distanza, nel 1883, saranno i seguenti: sul totale dei comuni indicati precedentemente, 90 risultavano ancora privi di scuole, 306 avevano adempiuto parzialmente all'obbligo, solo 1814 avevano le scuole elementari di grado superiore (il secondo biennio). In totale 1.351.490 fanciulli in età scolare non erano in grado di frequentare la scuola elementare dell'obbligo. Si era passati però, in circa 20 anni di Italia unita, da un 37 ad un 58% di iscritti, tra i 6 ed i 12 anni, alla scuola elementare, ad un aumento delle aule pari ad un terzo e ad un importante incremento delle attrezzature.

A dieci anni dalla Coppino, un regolamento del 1888 (Programmi Gabelli), permette la costituzione di Patronati scolastici da parte delle persone più importanti del comune scolastici con il fine di dare aiuto (abiti, libri e materiale vario, offerto o acquistato dal comune e dalla carità delle istituzioni e dei cittadini) ai fanciulli meno abbienti nella frequenza scolastica (osservo di passaggio che, mentre nella Legge Coppino si parlava solo dei doveri dei cittadini, nei Programmi Gabelli si parlerà dei diritti e dei doveri del cittadino). In 10 anni i Patronati dettero poca prova di sé: se ne misero su 844 e la carità era l'unica cosa che furono in grado di fare. Dietro l'operazione vi erano scelte politiche poco rassicuranti. I poveri dovevano accettare la loro condizione, sottomettersi al ricatto, assumere atteggiamenti di gratitudine verso gli abbienti. Il Ministero considerava i Patronati degli strumenti di pacificazione sociale. Ciò è detto più brutalmente da varie relazioni che arrivavano al Ministero dalle periferie del Regno [6]:

E' dunque assolutamente necessario che le classi povere non si lascino trascinare; è assolutamente necessario che esse si abituino a riconoscere nel governo e nelle autorità costituite i propri e veri legittimi rappresentanti e tutori. (...)

[I meno abbienti non devono in alcun caso pensare che] l'aiuto delle autorità e degli abbienti verrà ad essi tanto più largo e spontaneo, quanto meno essi vi pretenderanno come a cosa loro dovuta

Ed il ricatto non è un mero esercizio teorico, una vaga minaccia, se dall'ispettore di Bologna arriva questa comunicazione:

Il lavoro di propaganda per i patronati, che già con qualche successo erasi cominciato in buon numero di comuni del basso bolognese, fu sospeso a cagione degli scioperi che vi scoppiavano, i quali indisposero i ricchi e gli agiati contro i poveri.

La spinta delle organizzazioni politiche della sinistra, spingerà al cambiamento di queste cose. Credaro, il futuro ministro, farà istituire a Pavia la Cassa per la Refezione scolastica degli alunni poveri delle scuole elementari accompagnandola da una relazione che, tra l'altro, diceva:

nella sua caratteristica fondamentale non è beneficenza, sibbene integrazione necessaria [della] lezione del maestro (...). Il nuovo istituto scolastico non deve essere frutto di sentimentalismo o di vaga pietà della miseria umana, ma il portato della nuova pedagogia scientifica, il soddisfacimento razionale di una necessità didattica e sociale e un calcolo finanziario.

E sarà proprio Credaro, divenuto ministro, che nel 1911 trasformerà i Patronati in enti di diritto pubblico che i comuni dovranno istituire obbligatoriamente. Anche qui vi sarebbe da discutere sul ricatto che si trasferisce ... ma accettiamo questo come un sostanziale passo avanti.

L'ultimo ventennio del secolo, non si può far finta che la cosa non sia esistita, è un periodo di profonda crisi economica. La disoccupazione aumenta vertiginosamente, soprattutto nelle campagne, inizia la tragica, malinconica e massiccia emigrazione italiana verso l'America, Paesi europei più ricchi, ma anche dal sud al nord e dall'est all'ovest d'Italia. A questo disastro si accompagnano le emergenti necessità dell'industria manifatturiera che richiedono proprio bambini per le loro produzioni (piccola statura e piccole dita per infilarsi nelle macchine e per sbrogliare con le loro mani fili che si intrecciassero). Ma vi era anche il motivo principe che richiamava i bambini nell'industria: i bassi salari e la docilità della mano d'opera. Solo nel 1886 una legge vietò il lavoro ai bambini minori di 9 anni ! Tale limite nel 1902 passerà a 12 ma queste leggi

passarono del tutto inapplicate in modo che poté continuare l'atroce abuso del lavoro dei fanciulli (Giolitti). Vi fu un crescendo di lotte operaie che, a fine secolo (1898), portò ad eccidi di piazza ed alla definitiva diffidenza padronale nei riguardi del popolo che, intanto, si era organizzato nel Partito Socialista e nei Fasci siciliani. Ciò ebbe come conseguenza l'avversione degli abbienti reazionari verso l'istruzione popolare (nel 1894 gli industriali siciliani richiesero esplicitamente l'abolizione delle scuole elementari). Tale avversione portò alla bocciatura della Legge Baccelli (1898) che realizzava un collegamento più stretto tra scuola elementare e scuola tecnico-professionale. La borghesia vive una grande contraddizione: per il suo sviluppo occorrono operai specializzati ma specializzare degli operai è preparare degli antagonisti al suo potere. Ma anche i socialisti fanno cose incomprensibili. Come spesso loro accade debbono fare i realisti, molto più del re. La posizione del Partito Socialista sulla scuola popolare venne enunciata nel 1897 al Parlamento da Agostino Berenini: la scuola elementare doveva essere nettamente differenziata secondo le classi. Il punto principale del suo programma per la scuola era la separazione degli studi in due filoni, uno per coloro che continueranno a studiare, l'altro esclusivamente per le classi lavoratrici. Ed il doppio binario che diventerà legge (1904) verrà salutato come un successo delle masse proletarie (i socialisti pensavano che una scuola unica avrebbe rappresentato un aggravio pesantissimo per il bilancio dello Stato, che sarebbe stato pagato soprattutto dai lavoratori che, in compenso, non avrebbero guadagnato un granché).

Altra vicenda che sarebbe da seguire è quella sugli orari che discese dalla Legge Coppino come contenzioso con la Chiesa (ancora!) relativamente all'insegnamento della religione. La riporto testualmente dal testo di Manacorda di bibliografia e non aggiungo altro:

Il 17 maggio 1878, il Consiglio di Stato, su ricorso di genitori cattolici di Genova, dichiarava che sull'insegnamento della religione non si era abrogata la legge Casati, ma soltanto lo si era reso facoltativo per gli alunni. E i successivi Regolamenti del 16 febbraio 1888 e del 9 ottobre 1895 interpretavano la sentenza nel senso che toccasse ai comuni organizzarlo quando i genitori ne facessero richiesta: una soluzione che non soddisfaceva né i genitori cattolici né i comuni. Cosi l'8 maggio 1903, su ricorso del comune di Milano (si ricordi che la scuola elementare era affidata ai comuni), una nuova sentenza del Consiglio di Stato dichiarava tacitamente abolita con la legge del 1877 l'istruzione religiosa, confermando però l'obbligo imposto ai comuni dal Regolamento del 1895, finché non fosse abolito. Ma quando le Commissioni chiamate a interpretare questa sentenza decisero di abolirlo, il Consiglio di Stato, mutando parere, lo confermò. In seguito, dopo la legge Orlando del 1904, di riforma della scuola elementare, il nuovo Regolamento del 6 febbraio 1908 prendeva una decisione intermedia, prescrivendo all'art. 3: «I comuni provvederanno all'istruzione religiosa di quegli alunni i cui genitori la richiedano», ma potendo lasciarne la cura ai padri di famiglia, e solo mettendo «a disposizione i locali scolastici». Ma non era finita: il 21 dicembre 1909, la Commissione consultiva ribadiva che l'istruzione religiosa «non entra più nell'ordinamento didattico della scuola elementare» e, intervenendo anche sulle modalità per le richieste dell'insegnamento cattolico, dichiarava «illegale il sistema di distribuire ai padri di famiglia da parte dell'amministrazione comunale moduli per la richiesta dell'istruzione religiosa», perché ciò «tende ad eccitare una risposta da lasciare invece libera e spontanea». Ma si continuò a discuterne anche in Parlamento in occasione del nuovo Regolamento del 1910 del ministro Rava; e finalmente, il 6 aprile 1911, il Supplemento al Bollettino P.I. confermava la decisione del Regolamento del 6 febbraio 1908. In sostanza, l'insegnamento religioso «essendo facoltativo per gli alunni, non può impartirsi nelle ore destinate allo svolgimento degli insegnamenti obbligatori»: il diritto all'insegnamento religioso facoltativo non doveva impedire di «dedicare allo studio delle materie obbligatorie tutte le ore comprese nell'orario normale». C'era stata dunque, tra molte incertezze, un rimbalzare di decisioni tra gli enti locali, la magistratura e l'amministrazione centrale dello Stato, concluso infine da decisioni rispondenti a una ispirazione laica e liberale che oggi pare del tutto scomparsa. Nell'insieme, il passaggio dalla legge Casati del 1859 alla legge Coppino del 1877 con tutti i corollari che abbiamo visto, significò per l'insegnamento cattolico che, se prima occorreva una richiesta per dispensarsene, ora occorreva una richiesta per giovarsene, e lo si consentiva nei locali scolastici ma fuori dall'orario scolastico e a cura degli stessi interessati: un regime che direi di ovvia libertà, che potrebbe valere per qualsiasi altro interesse culturale. Nel 1912 il Morgana, nel suo Dizionario storico di legislazione scolastica, interpretava: «Non entra più nell'organismo didattico della scuola elementare». E il Masi commentava: «Non sarà questo un gran male; sembra invece poco conveniente che lo Stato si mantenga in una condizione di incertezza, che scredita lo stesso insegnamento che si vuoi dare e non dare ad un tempo, e che, ad ogni modo, è impartito malamente». Non aveva torto: ma sentiremo da lui altri commenti meno felici. Quando nei nostri anni si riaccenderà la disputa sulla collocazione oraria dell'insegnamento cattolico, nessuno mostrerà di ricordare quale peso abbia avuto questa questione un secolo fa, e come le condizioni si siano oggi rovesciate a vantaggio di quell'insegnamento e a svantaggio non solo di chi non lo voglia, ma

della stessa vita scolastica. Insomma, abbiamo stoltamente ripetuto, rovesciandole, vicende di un secolo fa, senza nemmeno saperlo. Non si può davvero dire che la storia sia maestra di vita: almeno quando proprio non la si conosce. Insomma, mi pare chiaro che l'andazzo di leggi non chiare sia storicamente affermato in Italia. Da qui discende in modo evidente la non incertezza del diritto nel nostro Paese e quindi il dominio dell'arbitrio e la mancanza di democrazia reale. 1861 Regolamento De Sanctis Introduzione della religione e degli esercizi ginnici e militari (per i maschi) nella scuola normale 1877 Legge Coppino Ribadisce l’obbligo dell’istruzione elementare già sancito dalla legge CASATI e ne colma una lacuna, specificando anche le sanzioni che colpiscono gli inadempienti .Questi nuovi programmi, non facendo menzione dell’insegnamento catechistico (già attenuati nei programmi del 1867), sostituiscono di fatto all’insegnamento della Religione quello dei “DIRITTI E DOVERI DELL’UOMO E DEL CITTADINO “ (educazione civica). Si stabilisce l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni d’età. La durata della scuola elementare viene fissata in 5 anni secondo il modulo 3 anni più 2 . Coppino, Michele Uomo politico (Alba 1822 - ivi 1901). Professore di Letteratura italiana all’università di Torino, fu rettore della medesima università dal 1868 al 1870. Dal 1860 deputato nel collegio di Alba per lo schieramento di centro-sinistra, sedette in Parlamento oltre quarant’anni con una sola breve parentesi. Fu quattro volte ministro della Pubblica istruzione: il suo primo incarico fu nel ministero Rattazzi dall’aprile all’ottobre 1867; successivamente fu chiamato da Depretis nel suo primo e secondo ministero (marzo 1876 - dicembre 1877; dicembre 1877 - marzo 1878) e, ancora con Depretis, fu sempre al dicastero dell’Istruzione dal dicembre 1878 al luglio 1879 e infine dal marzo 1884 al febbraio 1888, prima con Depretis e, dopo la sua morte (luglio 1887), con Crispi. La sua azione politica fu ispirata ai principi democratico-liberali e laici e alla salvaguardia dell’unità politica del paese e si concretizzò soprattutto nell’ambito scolastico, dove Coppino mise a frutto l’esperienza maturata come membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Al suo nome è legata, infatti, la legge del 15 luglio 1877 che rendeva effettivamente obbligatoria l’istruzione elementare inferiore (corrispondente al primo biennio, frequentato da bambini dai 6 ai 9 anni). Principi essenziali di questo provvedimento legislativo erano, insieme all’obbligatorietà dell’istruzione elementare (erano previste, infatti, per la prima volta, sanzioni per gli inadempienti), la sua gratuità e aconfessionalità; di conseguenza l’insegnamento del catechismo non fu più obbligatorio nella legge Coppino, impartito solo su richiesta dei genitori, e sostituito dallo studio delle «nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino». La legge, approvata dalla Camera con 208 voti favorevoli e 20 contrari, segnò un momento decisivo nella trasformazione delle istituzioni scolastiche poiché inseriva l’alfabetizzazione del paese nel p iù generale programma di rinnovamento e di crescita della società inaugurato dalla Sinistra di Depretis. 1879 Legge Scajola Abolisce la facoltà di Teologia e scompare il Direttore spirituale. 1880 De Sanctis Istituisce un corso preparatorio biennale successivo alla scuola elementare 1889 Legge Boselli Trasforma il corso complementare in triennale, portando a 6 gli anni della scuola normale. 1904 Legge Orlando L'ETA' GIOLITTIANA Giolitti fu un grande conservatore ed un abile reazionario (Gramsci) che rappresentava gli interessi della borghesia industriale del Nord contro le forze ultrareazionarie dei grandi proprietari terrieri, soprattutto del Sud. Egli lavorò per mettere la struttura dello Stato al servizio di quella borghesia e la scuola non rappresentò un'eccezione. Si trattava di scegliere tra le due possibili politiche padronali verso l'istruzione: o il controllo sociale attraverso l'istruzione medesima o il controllo sociale attraverso l'ignoranza. Alla borghesia industriale interessava più la prima forma di controllo e la legislazione scolastica si aggiornò in modo da favorire l'istruzione. Occorre tener conto che i primi anni del secolo videro una importante espansione delle industrie del Nord e che, fatto abbastanza dimenticato, erano iniziate le rimesse dei nostri emigrati che erano notevolissime e che furono il vero motore dell'aumento importante di scolarizzazione nei primi anni del Novecento. Tra l'altro, sotto la spinta delle organizzazioni operaie, era venuta maturando la consapevolezza del valore formativo di base ed anche di promozione sociale della scuola e, da ora, non si potrà più parlare di disinteresse o addirittura avversione popolare verso la scuola, come abbiamo detto esservi stata nei primi

decenni dell'Unità. La cosa è testimoniata dall' Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia di Francesco Saverio Nitti (1910). Vi si legge [7]: Vi era in passato una grande indifferenza da parte delle classi borghesi per la diffusione dell'alfabeto: era in molti comuni una vera diffidenza. Ora tutto ciò è mutato, sopra tutto coll'emigrazione. Se ancora i galantuomini sono spesso diffidenti o indifferenti, è spesso il popolo che reclama una migliore istruzione [...]. Molti contadini, invece di dolersi delle sofferenze materiali che li affliggono, si dolevano della poca istruzione [...] si dolevano che le scuole andassero male o per incuria del municipio, o per deficienza di locali, o per colpa del personale insegnante [...]. Molto progresso vi è rispetto alla frequenza delle scuole elementari ed alla coscienza di esigere questo servizio dal municipio. Ciò si deve [...] all'emigrazione. Gli emigrati scrivono dall'America alle loro mogli di mandare i figli a scuola. Si deve a questo se le aule scolastiche sono oggi affollate ed insufficienti, in molti comuni, a contenere gli alunni. Ed anche Salvemini, in una inchiesta analoga svolta in Calabria, testimonierà che: il desiderio dell'istruzione si è manifestato ovunque ardentissimo da dieci anni a questa parte per effetto dell'emigrazione negli Stati Uniti. La politica di Giolitti fu improntata ad un consistente programma di riforme tese a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Era ormai una acquisizione della grande borghesia la necessità di avere un popolo istruito per lo stesso sviluppo industriale del Paese e Giolitti si adoperò ad una maggiore diffusione sia dell'istruzione elementare sia di quella tecnica. La prima legge che affrontò le nuove esigenze fu la Legge Orlando del 1904. Con tale legge si elevò l'obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età realizzati in due possibili modi: o 4 anni di scuola elementare ed il passaggio alla media (attraverso un esame di maturità), o 4 anni di scuola elementare seguiti da 2 anni di un corso popolare destinato a coloro che si avviavano al lavoro (queste suddivisioni furono salutate come un successo politico dai socialisti!). Furono potenziate le scuole serali e festive per gli analfabeti; fu incrementata la refezione scolastica a carico dei comuni; furono migliorate le condizioni economiche dei maestri, tra l'altro, con l'abolizione delle differenze tra insegnanti di grado inferiore e superiore; fu creata la Direzione Generale della Scuola Elementare, fatto che mostra l'accresciuto peso di tale scuola e l'accresciuto interesse per essa da parte dello Stato. 1905 Bianchi Seguirono nel 1905 i nuovi Programmi e le relative Istruzioni per la scuola elementare. In particolare si estese lo studio della storia fino al regicidio di Umberto I del 1900 ma con toni di profondo rammarico [11]: L'ultima pagina di questa storia, macchiata dal sangue innocente del più buono [quello che aveva fatto cannoneggiare da Bava Beccaris i cittadini di Milano che protestavano per le loro miserevoli condizioni n.d.r.], del più leale dei re, sia letta con orrore e raccoglimento, e ricordi a tutti il dovere di fedeltà e di onore. Venne poi la legge 15 luglio 1906 con la quale si incrementarono ancora le scuole serali e festive, si crearono varie direzioni didattiche, si istituì la Commissione Centrale per il Mezzogiorno per la lotta contro l'analfabetismo. 1911 Legge DANEO – CREDARO Nell'estate del 1911, Giovanni Giolitti presidente del Consiglio, e il ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, pur avendo deciso di entrare in guerra contro la Turchia, inviandole il 29 settembre una dichiarazione di guerra, (senza l'approvazione del Parlamento, come previsto dall'articolo 5 dello Statuto) ,attraverso un procedimento legislativo legato alla legge Daneo-Credaro (pedagogisti e politici) fatta nel 1911, lo Stato provvede ad assumersi direttamente l’organizzazione e la spesa della scuola elementare dei Comuni più piccoli. L’intervento statale si concretizza così, su tutto il settore scolastico , dall’elementare a quello medio e al superiore. Si attiva l’istruzione elementare obbligatoria per i militari in servizio nell’Esercito e in Marina. In ogni comune si istituisce come ente morale, dotato di personalità giuridica, il Patronato Scolastico. Nello stesso tempo però l’osservazione della realtà contemporanea in una società in cui il nascente processo di industrializzazione accentuava le disparità economiche e sociali tra i vari ceti , metteva a nudo la crudele importanza dei fattori materiali ed accentuava il senso del contrasto tra le esigenze della spiritualità e del sentimento e l’impossibilita’ di realizzarle concretamente. Nasceva una nuova forma di pessimismo, generato dall’osservazione di un’umanità condizionata dai bisogni economici , dalle circostanze materiali ed ambientali, dallo stesso inganno dei sentimenti spesso contraddetti e negati dalle crudeli esigenze della vita. I lodevoli intendimenti della legge si scontrano con numerose difficoltà pratiche e con l’ostilità di coloro che temono sia la laicizzazione che la burocratizzazione della scuola pubblica . Lo scoppio del conflitto mondiale diventa così un’ ulteriore battuta d’arresto, che apre il periodo di instabilità

politica e sociale dal quale emergerà il fascismo sostenitore di una nuova e diversa riforma dell’istruzione. Quindi… Dopo aver sostenuto che la scuola elementare è un servizio pubblico statale, essa venne sottratta ai comuni minori (scuole avocate), per la loro impossibilità economica di mantenerle, e passata allo Stato. Le scuole elementari furono lasciate solo ai comuni capoluogo di provincia e ad alcuni altri (scuole non avocate). Si istituirono mille nuovi circoli di Direzione Didattica; si fecero diventare obbligatori in tutti i comuni i Patronati Scolastici; si istituirono scuole per militari (scuole reggimentali) e per carcerati; si finanziarono biblioteche popolari, scolastiche e magistrali; si finanziarono scuole per handicappati e nuovi asili (Credaro nel 1914 emanerà i primi programmi per l'educazione prescolastica). Pur nei limiti annunciati precedentemente, siamo al massimo livello di scuola laica che, occorre sottolineare, non nasce dal nulla ma da una spinta sempre più consapevole, oltre che delle organizzazioni operaie di cui ho accennato, dei maestri e delle loro organizzazioni professionali che, da inizio secolo, andarono costituendosi. Occorreva battersi per salari degni e per terminare con la mistica del lavoro missionario che, per la verità continua anche oggi, perfino come convinzione masochistica degli operatori scolastici. La prima associazione fu la Unione Magistrale Nazionale (1901) di ispirazione laica, sotto lo slogan né servi né ribelli e sotto la guida del futuro Ministro della Pubblica Istruzione, Credaro. E se i maestri levarono presto la voce per invocare uno stato giuridico che assicurasse loro stabilità occupazionale e minimi retributivi sufficienti a vivere, essi cominciarono ad auspicare altresì una più seria formazione iniziale e in itinere. Una prima risposta la si ebbe con l'istituzione delle cosiddette Scuole Pedagogiche (legge del 1904), ovvero di corsi organizzati presso le Facoltà di Lettere e Filosofia, aperti a tutti i maestri interessati, con valenza culturale e professionale. Va detto che alle migliori fra le maestre era già da oltre vent'anni offerta la possibilità di iscriversi, previo esame di ammissione, all'Istituto Superiore di Magistero con sede a Roma e a Firenze, con prospettive di carriera nelle Scuole Normali o tecniche femminili sia come insegnanti sia come personale direttivo. Ai maestri tale opportunità era stata negata, ed essi non mancarono di lagnarsene ripetutamente. Queste Scuole Pedagogiche, che al termine di un corso biennale rilasciavano diplomi utilizzabili per la carriera direttiva e ispettiva sempre nell'ambito dell'istruzione primaria, tentavano un potenziamento delle competenze professionali. Le cose, nella pratica, andarono poi diversamente, sia per il pressappochismo con cui tali corsi vennero organizzati e sia per la loro impostazione ex cathedra, dunque molto distante da quel carattere sperimentale auspicato. Altra associazione di insegnanti fu la Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media, fondata da Gaetano SALVEMINI e Giuseppe KIRNER (1901) che riuniva gli insegnanti di scuola secondaria (di ispirazione socialista) al fine di innalzare il costume politico e democratizzare la vita pubblica, l'amministrazione e i partiti politici: una forma di impegno civile che andava oltre l'ambito ristretto della rivendicazione di categoria. L'azione della Federazione fu diretta a legare la sorte degli insegnanti a quella delle altre categorie di cittadini esposte a sfruttamento e a vessazioni. Gli insegnanti impararono ad associarsi e a legare l'aspetto economico-giuridico a quello culturale. Cominciò così a definirsi una nuova figura di insegnante: legata ai problemi generali del paese, aperta verso le altre categorie, consapevole delle implicazioni politiche della scuola, attenta alla portata sociale del titolo di studio. Qualche anno dopo (1907) la Chiesa fece nascere l'Associazione Magistrale Nicolò Tommaseo, al fine di farsi portatrice della difesa del principio cristiano cattolico e del principio nazionale della scuola, che significa il non volere la scuola pubblica per riportarla all'alveo della curia. In definitiva, al 1914, nonostante tutti i limiti che ho tentato di evidenziare, si erano fatti molti passi avanti sulla strada di un'educazione popolare laica, obbligatoria e gratuita. Gli analfabeti erano calati di circa 2 milioni di unità, anche grazie alla legislazione sul lavoro dei fanciulli e delle donne. Ma già il Patto Gentiloni (1913) era pronto in funzione antisocialista. Ora, la Grande Guerra impedì per vari anni di pensare alla scuola (anche se vi furono addirittura polemiche relative alla vittoria: c'era chi sosteneva che si era vinto per l'istruzione che si era estesa e chi invece affermava che l'istruzione ci aveva portato fino a Caporetto). Nel dopoguerra il dibattito riprese tra tre interlocutori: il neonato Partito Popolare di Don Sturzo, espressione diretta della Chiesa in politica; il Partito Socialista, già in procinto di dividersi in due partiti; il neonato Partito Fascista. Ma la vera lotta politica era nella società. Scoppiarono moti di protesta per la disoccupazione ed il carovita. Furono occupate le fabbriche e si instaurò un clima prerivoluzionario (biennio rosso) ad imitazione di quanto era appena accaduto in Russia. Ma in Italia il Partito Socialista non si pose alla testa del movimento dei lavoratori e lo lasciò disfarsi con la conseguenza di consegnarlo alla rassegnazione, alla frustrazione e presto al Fascismo. Il Partito Popolare sosteneva con Don Sturzo tesi molto aperte, in accordo con il fatto che la Chiesa,quando non ha il potere, vuole che lo Stato le faciliti la vita. Diceva Don Sturzo, continuando con il luogo comune dell'aggettivo "naturale" che NON ha alcun significato:

Ad uno Stato accentratore vogliamo sostituire uno Stato che riconosca i limiti della sua attività, rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni - rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private.[Chiediamo] libertà d'insegnamento senza monopoli statali. Il Partito Socialista, attraverso Rodolfo Mondolfo, enunciava su Critica Sociale (1922) i seguenti principi: Scuola pubblica, perché funzione pubblica, il cui fine è lo sviluppo spirituale degli educandi, il cui mezzo è la libera responsabilità degli insegnanti; non scuola privata, arma di parte, in cui maestri e scolari si riducano a strumenti di una finalità partigiana. E polemizzava con quei socialisti che, contro il rischio di un'imposizione statalistica di tradizione liberale e al pari dei popolari, sostenevano «il diritto assoluto dei genitori, che è negazione della libertà spirituale dei figli». E concludeva: «Libertà nella vita, libertà nella scuola». Ed in quel semplice "nella" che sostituisce il "della" vi è l'evidenza dell'avvicinamento dei socialisti ai clericali: sulla scuola, alla fine, vanno convergendo. Il Partito Fascista, per la penna di Mussolini su Il Popolo d'Italia (1921) fece un fritto misto di quanto sostenevano liberali, socialisti e cattolici, affermando di volere scuole media ed universitaria libere, una collaborazione con l'alta borghesia imprenditoriale, una selezione a livello nazionale. Intanto il trasformismo delle idee vedeva Croce modificare il suo prebellico duro giudizio sulla Chiesa (tutrice di forme invecchiate e morte, d'incultura, d'ignoranza, di superstizione, di oppressione spirituale), il liberale Giolitti imbarcare i fascisti al governo e il liberale Gentile passare con i fascisti per i quali preparerà la sua Riforma della scuola (1923). 1923 Riforma Gentile La seconda grande riforma della scuola italiana fu varata nel 1923 da Giovanni Gentile, uno dei più importanti filosofi idealisti, chiamato al dicastero della Pubblica istruzione nel primo governo Mussolini. La riforma consisteva in una serie di regi decreti che ridefinivano con coerenza e rigore l’intero assetto dell’istruzione in tutti i suoi aspetti, secondo una visione fortemente centralistica, gerarchica e autoritaria. Il nuovo ordinamento portava l’obbligo scolastico a 14 anni, misura che trovò però scarsa applicazione, prevedeva una scuola elementare di cinque anni e istituiva anche un grado preparatorio (scuola materna), non obbligatorio, di tre anni con carattere ricreativo e teso a «disciplinare le prime manifestazioni dell’intelligenza e del carattere del bambino». Al termine della scuola elementare si poteva scegliere (previo uno specifico esame di ammissione) il ginnasio (inferiore di tre anni e superiore di due) – che dava poi accesso ai licei classico (questa denominazione fu assunta in seguito, nella riforma era semplicemente il liceo), scientifico e femminile (quest’ultimo si rivelerà un fallimento) – o l’istituto tecnico o, infine, l’istituto magistrale. La scuola complementare, di durata triennale e senza esame di ammissione, era invece lo sbocco per tutti coloro che non potevano proseguire gli studi (unico canale ulteriore, dopo il superamento di un esame, era il neo- costituito liceo artistico a numero chiuso). Anche per le scuole d’arte, a cui ci si poteva sempre iscrivere dopo le elementari e che davano accesso al liceo artistico, non era previsto l’esame di ammissione. La riforma prevedeva inoltre scuole di metodo per la formazione degli insegnanti del grado preparatorio. Il liceo scientifico e l’istituto magistrale rappresentavano, insieme alla scuola complementare e al riordino dell’istruzione artistica, le novità più significative della stessa riforma. L’università non subiva grandi cambiamenti rispetto alla legge Casati: l’accesso era riservato agli studenti provenienti dal liceo classico e per le facoltà di Scienze e di Medicina e chirurgia anche a quelli in possesso di maturità scientifica. La riforma, nel ridisegnare l’assetto scolastico, si poneva, per molti versi, in una linea di continuità con la precedente legge Casati, nell’assegnare il primato all’istruzione classica e alle discipline filosofico-umanistiche, nel porre in posizione subalterna la cultura scientifica e nel relegare a un gradino ancora inferiore l’istruzione tecnica e professionale (l’istruzione industriale rimaneva affidata al ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, poi dell’Economia nazionale). La riforma veniva, inoltre, incontro a esigenze molto sentite della Chiesa cattolica: prevedeva infatti l'insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole elementari (definita come «fondamento e coronamento dell’istruzione elementare») e introduceva l’esame di Stato, altra novità particolarmente significativa e duratura, al termine di ogni ciclo scolastico, una misura che consentiva di mettere sullo stesso piano scuole pubbliche e private. Pur nel mantenimento della sua fisionomia complessiva, l’assetto definito dal nuovo ordinamento fu sottoposto ad una serie di aggiustamenti che ne compromisero sostanzialmente l’organicità. La politica dei continui «ritocchi», favorita dalle dimissioni dello stesso Gentile (giugno 1924), fu considerata necessaria, inizialmente, per ridurre il profilo estremamente selettivo della scuola e, in seguito, per rispondere alle esigenze poste dal processo di fascistizzazione integrale promosso dal regime a partire dalla fine degli anni Venti. Quindi… L'età giolittiana si conclude (1914) poco prima dell'ingresso dell'Italia in guerra (1915 - 1918). Giolitti tornò

Presidente del Consiglio tra l’estate del 1920 ed il luglio del 1921 (con Croce alla Pubblica Istruzione cui seguì, mi piace ricordare, Orso Mario Corbino, il ministro che rese possibile la creazione del gruppo Fermi) nel tentativo, auspicato da più parti, di formare un governo autorevole che ridesse ordine all'interno e prestigio all'esterno del Paese. Ma ormai il Fascismo aveva egemonizzato il malcontento e si avviava a prendere il potere con la complicità di Casa Savoia. Mussolini, insediato dal Parlamento il 17 novembre del 1922, si rese conto che una delle priorità da affrontare dal Governo del Paese era proprio la Scuola. E' stata sempre ambizione di ogni dittatura avere una scuola asservita che servisse a educare più che ad istruire (nel 1929 infatti il nome del Ministero della Scuola passò da Pubblica Istruzione a Educazione Nazionale; riguardo a quel pubblico, esso non andava bene a Mussolini come non è andato bene a Bassanini e Berlinguer). In epoca di assenza di altri veicoli di comunicazione di massa la scuola diventava strategica. Occorreva ora preparare l'uomo nuovo, il fascista perfetto. E, per far questo, primo fondamentale e urgente obiettivo del fascismo al potere fu quello di ristabilire ordine, disciplina e gerarchia nella società, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni. Lo stesso Mussolini, nel 1923 affermò, in modo ragionevole [2]: Sono cinquant'anni che si dice che la scuola va riformata e che la si critica in tutti i modi: si è gridato in mille toni che bisogna rendere finalmente la scuola seria, formativa dei caratteri e degli uomini. Il Governo fascista ha bisogno della classe dirigente. Nella esperienza di questi 14 mesi di governo io ho veduto che la classe dirigente fascista non c'è. Non posso improvvisare i funzionari in tutta l'amministrazione dello Stato: tutto ciò deve venirmi a grado a grado, dalle Università [...] Non è più il tempo in cui si poteva essere impreparati. Appunto perché siamo poveri ed ultimi arrivati, dobbiamo armare potentemente la nostra intelligenza. È quindi necessario che gli studenti studino sul serio se si vuol fare l'Italia nuova. Ecco le ragioni profonde della riforma Gentile: di quella che io chiamo il più grande atto rivoluzionario osato dal Governo fascista in questi mesi di potere. Per raggiungere questi obiettivi nella scuola, Mussolini si servì di un liberale di prestigio, di vecchia scuola idealista non iscritto al Partito, Giovanni Gentile che, da anni, lavorava insieme ad altri liberali idealisti, a cattolici ed a qualche socialista cosiddetto realista (Croce, Salvemini, Mondolfo, Lombardo Radice, Codignola, ...) a progetti di Riforma della Scuola (non senza opposizione tra i fascisti, opposizione che si farà sentire nelle critiche che arriveranno a Riforma compiuta). Come vedremo la scuola fu riempita, con i ritocchi successivi alla Riforma Gentile, in modo barocco da svariati orpelli (propaganda, emozioni, patria, famiglia, nazione, bandiera, coraggio, obbedienza, ordine, disciplina, moralità, apologia del regime, apologia militare, ... e religione) che non ne modificarono la serietà tanto è vero che Gentile fu fatto dimettere (maggio 1924) ad appena sei mesi dal varo completo della Riforma, per cedere il passo o a personalità minori o a fascisti più tosti. Occorre dare un breve cenno alle posizioni di Gentile, prima di andare oltre. Egli aveva scritto nel 1912 un Sommario di Pedagogia come scienza filosofica in cui sono esposte la gran parte delle idee che ispireranno la sua riforma della scuola. Innanzitutto la pedagogia di Gentile (ma anche di Lombardo Radice, per la parte eminentemente didattica, però) si pone come superamento di quella che egli ritiene semplicisticamente essere la pedagogia positivista, tutto il male possibile riassumibile nel luogo comune: il discente è un vaso di coccio da dover riempire. La scuola, al cui centro vi è l'alunno, deve essere attiva, piena di attività svolte dagli alunni, nuova e progressiva. La tesi di fondo è che lo Spirito è alla base dell'educazione e, dato questo pregiudizio, discendono conseguenze importanti che arrivano a dare il primato alla filosofia con la conseguente cancellazione, tra l'altro, della pedagogia. Dice Gentile : Se l'educazione è lo sviluppo dello spirito e lo sviluppo dello spirito è l'oggetto proprio della filosofia, la pedagogia, in quanto scienza, non è se non la filosofia. (...) I problemi educativi sono tutti problemi filosofici perché sono problemi dello spirito. La filosofia stessa diventa pedagogia e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa filosofia. A queste dichiarazioni di principio, con le importanti novità dell'attivismo pedagogico, seguiranno moltissime incongruenze nell'applicazione pratica che saranno sempre superate con l'imbroglio di abili formule filosofiche che supereranno le antitesi mediante la riduzione dei termini a delle identità. Tre sono i momenti dell'atto educativo dello spirito. Quello estetico che, lungi dal prevedere una particolare disciplina, si esplica nella lettura di classici, nella liberazione dalle regole della grammatica, nella lettura libera, nell'abolizione dei tempi imposti, nella spontaneità del disegno, ... Quello religioso, poiché Religione e Filosofia hanno lo stesso oggetto e cioè la Verità. Attraverso la religione è possibile guidare il fanciullo alla comprensione dell'Assoluto. Quello filosofico, che rappresenta la pienezza dello spirito, che solo una minoranza privilegiata per superiori doti intellettuali (e per censo, ndr) può raggiungere. E' il castello di carta degli idealisti che si coniuga sempre con la limitazione delle libertà, se non con le dittature. Infatti, per Gentile, la libertà può esistere solo se si è nella pienezza della vita spirituale e tale pienezza si raggiunge solo con la filosofia. Nella pratica, poiché la filosofia è solo per pochi eletti, quelli che hanno l'opportunità di utilizzare la palestra intellettuale del Liceo

Classico, solo quelli sono liberi e comunque, solo a quelli può essere concessa la libertà. Ed il censo ? Sciocchezze ... è inutile perdersi dietro queste banalità ... al massimo si può pensare che sono liberi solo i ricchi. E gli altri, quelli cui non è concessa la libertà attraverso la filosofia ? Quelli si devono adattare facendo coincidere la propria volontà con quella dell'autorità, che è quella che s'è potuta liberare con la filosofia. Che fine fa allora, sul piano della didattica, quell'attivismo pedagogico ? Qui vi è una antitesi superata con l'imbroglio delle identità: l'autorità dell'educatore diventa la libertà dell'alunno. Dice infatti Gentile: noi siamo insegnanti; dobbiamo plasmare anime; non è lecito serrarci dinanzi la porta delle anime, in cui ci spetta di entrare, per il vano rispetto alla cosiddetta libertà degli alunni. La libertà degli alunni è (...) inammissibile. Di interesse è poi la posizione di Gentile sulla religione e sul suo insegnamento. Da una parte egli sostiene: «Tutte le religioni educano gli spiriti ad aspettare da fuori e dall'alto quello che l'uomo soltanto da sé e con le forze sue può acquistarsi. Le religioni sono tutte nemiche, perciò, d'ogni sorta di libertà, interna ed esterna, danno mano ai regimi assoluti, a tutte le autorità razionalmente ingiustificabili... ». Sul piano educativo l'azione religiosa assoggetta gli alunni a regole esteriori, a un indottrinamento eversore della libertà e porta alla perdita «della responsabilità morale e intellettuale dell'uomo».

Ed allora, come vedremo, perché la religione entra dappertutto negli insegnamenti, a partire dall'obbligo di essa nella scuola elementare e via via in tutta la scuola ? Quei pochi che raggiungeranno la pienezza dello Spirito attraverso la filosofia sapranno sbarazzarsi della religione, gli altri vivranno bene sotto la sua autorità in particolare e sotto l'autorità in generale. Chiaro, no ? Come è chiaro perché tanta mente abbia aderito al Fascismo, contrariamente a Lombardo Radice e Codignola. Questo Gentile, in pochi mesi, in qualità di Ministro della Pubblica Istruzione, mise in piedi una Riforma che era già praticamente pronta nelle linee essenziali fin dal 1908, in un libro scritto da Salvemini e Galletti (Salvemini, Scritti sulla Scuola, Milano 1966), libro che nacque dalla partecipazione dello stesso Salvemini, come rappresentante della Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media (FNISM), alla Commissione Reale per la Riforma della scuola secondaria (nata nel 1905), con il fine di adeguare le nostre scuole ai Paesi europei più avanzati (Francia, Inghilterra, Germania). In questo libro si riportano le infauste posizioni socialiste sulla scuola duale (ricchi privilegiati da una parte e poveri condannati dall'altra) delle quali ho detto nella Prima parte del lavoro oltre ad una raccolta importante di documentazione e ad una vera proposta di Riforma. Nel complesso il libro del Salvemini rifletteva e portava alla luce con chiarezza esemplare tutti i temi dell'azione politica degli insegnanti: l'esigenza e le indicazioni per una riforma della secondaria, la denuncia della crisi di questo tipo di istruzione e dei suoi aspetti aberranti, come la piaga delle classi aggiunte, il bisogno di una preparazione più specifica per i docenti, ma anche di un maggior rispetto dello stato giuridico appena conquistato, che prevedeva laurea ed esami di concorso. Ne rifletteva anche i limiti, la volontà, non sempre chiara fino in fondo, di trovare dei legami concreti con i partiti socialisti e la classe lavoratrice e insieme la preoccupazione - legittima - ma non socialista, di affrontare i problemi di un rinnovamento e di una selezione più moderna delle classi dirigenti. A questo libro di Salvemini si aggiunsero due tomi della stessa Commissione Reale editi nel 1909. Le vicende politiche non permisero che la cosa andasse avanti. Benedetto Croce riprenderà questi lavori, nel breve periodo in cui sarà alla Pubblica Istruzione. Ma chi li userà intelligentemente sarà proprio Gentile con una abile operazione che coinvolse le posizioni socialiste senza citarle. E non solo socialiste, ma anche liberali. Lo mostra la corrispondenza tra Croce e Gentile. Il 1° maggio del 1923 Benedetto Croce scriveva all'amico filosofo Gentile: " La tua lettera mi recò grande soddisfazione e gioia. Tu hai provato a tradurre nel campo dei fatti un tuo antico pensiero; ed io mi compiaccio di avere in qualche modo preparata questa attuazione presentando in tempi avversi un disegno di legge, che sapevo senza speranze pel presente ma che poteva essere, come è stato, un germe per l'avvenire". Croce rispondeva ad una lettera di pochi giorni prima nella quale Gentile l'informava circa l'approvazione della riforma della scuola secondaria, a completamento della riforma dell'intero sistema dell'istruzione, ammettendo con onestà intellettuale il ruolo svolto dell'amico che aveva collaborato alla stesura, iniziando il lavoro quale ministro della Pubblica Istruzione. A sua volta Croce scriveva su Il Giornale d'Italia, il 3 novembre 2003: Mercé l'opera di Gentile, si ha ora ... un ordinamento saldo, razionale e coerente, indirizzato al rinvigorimento del pensiero, del carattere e della cultura italiana.

La Riforma Gentile, insomma, fu certamente figlia di una dittatura, ma nacque con dei riferimenti filosofici e pedagogici sicuramente autorevoli. Essa nasceva poi senza ostilità manifeste perché, al di là dell'autoritarismo di facciata e del suo doppio canale implicitamente autorizzato dai socialisti, gli unici che teoricamente si sarebbero dovuti opporre, sembrava: dare efficienza alla scuola, rinnovarla culturalmente, inserirsi nel solco dello spirito più evoluto dei primi del Novecento con qualche puntata a ciò che Croce tentò di fare in pochi mesi, riprendere gli aspetti qualificanti della Legge Casati, avere un carattere complessivo e globale, decongestionare la scuola classica da troppi frequentanti, rinnovare in termini pedagogici. Dietro questo insieme di cose vi era anche la volontà di accentrare di più la scuola, di avere insegnanti che fossero insieme più preparati e più obbedienti, di avere dei dirigenti scolastici che funzionassero da severissimi controllori (e che rappresentassero la meta verso cui un insegnante ambisse arrivare a fine carriera, cosa che ad esempio oggi è impedita dai concorsi riservati per i soliti noti), di preparare una classe dirigente fatta di pochi ed altri che sapessero di non essere dirigenti ma diretti. Decisivo in tal senso fu il drastico cambiamento delle competenze e del meccanismo di formazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, ridotto nei suoi componenti, divenuti tutti di nomina regia, su proposta del ministro: una politica che eliminava l'elezionismo, considerato elemento corruttore del costume scolastico. Gentile iniziò la sua azione ad un mese dall'assunzione al Ministero: - il 25 novembre del 1922 inviò una Circolare alle Autorità scolastiche (La disciplina nelle scuole) - il 3 dicembre del 1922 ebbe dal Governo pieni poteri in materia di legislazione scolastica - nel 1923 (da febbraio a dicembre) si susseguirono 12 Regi Decreti che disegnarono la Riforma Gentile Lo spirito autoritario con il quale Gentile affrontò il suo compito emerge dalla sua prima Circolare: nella scuola dello Stato e della coscienza nazionale uno degli organi più delicati, prima che altrove debbono prontamente inculcarsi e praticarsi il rispetto della legge, l'ordine, la disciplina, l'obbedienza illuminata sì, ma cordiale e devota all'autorità statale Si imponeva inoltre agli insegnanti e agli studenti l'adesione cordiale e l'obbedienza scrupolosa al nuovo ordine che deve cominciare a instaurarsi anche nella scuola se vogliamo che si consolidi nel Paese A tal fine Qualsiasi atto rivolto comunque a turbare il normale funzionamento del magistero educativo o a insinuare negli animi sfiducia e indisciplina verso l'autorità dello Stato venga subito e severamente punito dalle SS.LL, le quali saranno ritenute responsabili della inadempienza di questa disposizione. La cosa era perfino più chiara in suoi interventi pubblici e nei testi di varie sue conferenze Oggi, "restaurare" è la nostra parola d'ordine: restaurare lo Stato.[...] Lo Stato non si restaura se non si restaura la scuola. [A sua volta] la scuola non si può restaurare se non si restaura la famiglia. [Scuola e famiglia sono la prima la continuazione della seconda.] La scuola è la continuazione naturale della famiglia (Terzo Congresso delle Donne italiane, 4 maggio 1923) Ogni forza è forza morale in quanto si rivolge sempre alla volontà, e, qualunque sia l'argomento adoperato, dalla predica al manganello, la sua efficacia non può essere che quella che sollecita interiormente l'uomo e lo persuade a consentire. Ogni educatore sa quale mezzo concreto (predica o manganello) usare, secondo le circostanze (Levana n° 2, 1924) C'è subito da osservare che nel primo brano c'è una pratica che ancora oggi funziona bene per la destrutturazione della scuola. Intanto si utilizza quel termine,naturale, che non significa nulla ma che, anche oggi, è abusato soprattutto dalla Chiesa. Ma poi si crea una sorta di circuito (Stato, famiglia, scuola, Stato) che coinvolge le famiglie nella responsabilità della scuola fatto che è sempre stato utilizzato in modo reazionario. Osservano Natale, Colucci, Natoli: È nota anche la continuità, che va oltre il regime fascista, del rapporto complementare tra scuola e famiglia a scopo politico-sociale di conservazione, sempre perseguito dalla classe dirigente italiana in perfetta alleanza e convergenza d'interessi con la Chiesa cattolica. Altra osservazione riguarda il fatto che la Riforma ha inizio con i pieni poteri al Ministro, come nel caso della Legge Casati.

E vediamo per grandi linee in cosa consiste la Riforma, iniziando dall'ordinamento degli studi:

Schematicamente tale ordinamento prevede: - SCUOLA MATERNA: è chiamata Grado preparatorio dell'istruzione elementare per bambini dai 3 ai 6 anni (non obbligatoria né gratuita). Si tratta del primo impegno organico dello Stato in questo settore. Ma non si va oltre l'affermazione di principio. - SCUOLA ELEMENTARE: di 5 anni, divisa nel grado inferiore (I, II e III classe) e nel grado superiore (IV e V classe). Il superamento di un esame permette il passaggio da un grado all'altro. - SCUOLA MEDIA INFERIORE: 6 tipi: 1) Corso integrativo delle elementari di 3 anni (VI, VII, VIII classe), chiuso in se stesso. 2) Scuola complementare, che sostituisce la vecchia scuola tecnica. Di tre anni; chiusa in sé e « di scarico », non da possibilità di sbocco in alcun tipo di scuola secondaria superiore (col regio decreto 6 ottobre 1930 n. 1379, sarà trasformata in scuola secondaria di avviamento professionale). 3) Istituto magistrale inferiore di 4 anni. 4) Istituto tecnico inferiore di 4 anni. 5) Ginnasio inferiore di 3 anni. (Al grado superiore di queste tre ultime scuole si accede superando un esame) 6) Scuola d'arte. - SCUOLA MEDIA SUPERIORE: 5 tipi: 1) Liceo femminile di tre anni, chiuso in sé. 2) Istituto magistrale superiore di tre anni, che da l'accesso soltanto alla Facoltà di magistero. 3) Istituti tecnici superiori di 4 anni, che danno l'accesso a due o tre facoltà universitarie. 4) Liceo scientifico di 4 anni al quale si può accedere, mediante esame, da una qualunque scuola media quadriennale. Non permette l'accesso a due facoltà: Giurisprudenza, Lettere e Filosofia. 5) Ginnasio superiore di due anni - Liceo classico di tre, con un esame di passaggio. E la scuola secondaria superiore per eccellenza. Il diploma di maturità classica apre tutte le porte dell'Università e degli alti studi. È la scuola, per antonomasia, della classe dirigente. - UNIVERSITÀ E ISTITUTI SUPERIORI: di 3 categorie: a) a carico dello Stato; b) a carico dello Stato e degli Enti pubblici locali e privati; c) «liberi», cioè privi di alcun contributo statale. Lo scopo è quello di ridurre il numero di Università. Da un primo confronto con l'ordinamento Casati (vedi relativa figura nella Parte Prima) si nota una razionalizzazione ma una struttura molto simile. Dopo le elementari vi sono i Corsi integrativi e la Scuola

complementare che significano un blocco a qualunque avanzamento ulteriore. Gentile sopprime infatti la vecchia e non disprezzabile scuola tecnica che permetteva a molti giovani della piccola borghesia e del proletariato più avanzato di avere un minimo di titolo ai 14 anni ed eventualmente di proseguire, pur tra grandi difficoltà, negli Istituti Tecnici e financo nell'Università. Non vi è ancora una scuola media unica come la conosciamo ma vi sono indirizzi individuali che partono tutti dopo le 5 classi delle elementari. Il numero degli anni scolastici dopo le elementari è di 8 anni (a parte l'Istituto Magistrale che è di 7 anni come era fino a qualche tempo fa). Gli istituti tecnici sono di due tipi, quelli che oggi conosciamo come Ragioneria e Geometri con accessi a determinate facoltà universitarie. Gli Istituti tecnici di tipo industriale restano fuori dalla Riforma. L'industria non è degna di avere rappresentanze culturali e pertanto ha una dipendenza dal Ministero dell'Industria. Un cenno merita anche il Liceo femminile, vera iniziativa reazionaria, che fu il più grande insuccesso di Gentile e non ebbe seguito. Esso era pensato come una scuola per l'alta borghesia che doveva servire a togliere di torno dal Liceo Classico le ragazze ed intrattenerle fino al loro diventare mogli e madri con programmi non ben definiti. Si può dire che, almeno da questo punto di vista, la Riforma Gentile è un adeguamento ai tempi della Legge Casati con la differenza che ora si tentano motivazioni teoretiche di carattere filosofico là dove Casati aveva dovuto operare sotto la spinta di esigenze politiche. La filosofia e la sua storia sono ora a fondamento dello spirito degli allievi che si accingono a diventare classe dirigente (degli altri interessa poco lo spirito e si dimenticano così le scienze che sono, per gli idealisti, delle mere tecniche, delle brute e mute formule che nulla danno al raggiungimento dell'Io e dell'Assoluto e quindi allo Spirito. Ma non ci si stupisca più di tanto, se si è letto quanto ho scritto nella prima parte, siamo in piena continuità con la storia della nostra scuola e anche con il pezzente positivismo italiano). Fra gli altri cambiamenti nei programmi del ginnasio-liceo. vi furono l'abolizione della storia naturale nel ginnasio, introdotta nei programmi del 1882 da una scelta evidentemente positivistica, gli abbinamenti di storia e filosofia e di fisica e matematica. Entrambi questi abbinamenti portano, marcato, il segno della cultura idealistica. Oltre ad avere come giustificazione una concezione didattica sconcertante, che tendeva al raggruppamento delle materie per realizzare meglio il colloquio ideale fra docente e discente (poi - sottese - c'erano le solite ragioni finanziarie del risparmio), questi abbinamenti artificiosi sacrificarono quasi sempre o l'una o l'altra materia. Inoltre favorivano oggettivamente una storia slegata dalla geografia, dall'economia, dal diritto, da tutte le discipline concrete, a cui almeno l'aveva ancorata il positivismo, per riportarla nell'ambito della retorica, della manipolazione nazionalistica, della pura ideologia. (...) Del pari, l'abbinamento matematica e fisica rifletteva in qualche modo la scarsa considerazione delle discipline sperimentali, le cosiddette pseudoscienze [così definite dagli idealisti italiani, ndr]. Il risultato fu però che la legge Gentile ebbe risonanza politica e non filosofica e trascese completamente il regime che pensava di averla generata. Vi sono degli elementi che potrebbero essere fascisti e cioè l'autoritarismo (in tal senso si riprende lo spirito originario della Casati) e la selezione fortissima di classe, introdotta come meritocrazia, più volte reclamata dallo stesso Gentile. Osserva acutamente Genovesi: Il fascismo, non solo per la scarsa propensione teoretica della sua classe dirigente, ma proprio per le sue stesse finalità di coinvolgimento emotivo delle masse e di mantenimento del potere a prescindere da qualsiasi merito, non comprende e non può comprendere una simile costruzione meritocratica. Accetta e fa propria la riforma perché non ha nessuna alternativa coerente e difendibile. Del resto, anche le altre forze politiche non hanno vere e proprie alternative: accettano o subiscono la riforma gentiliana semplicemente perché non hanno nulla di altrettanto compatto e coerente da opporle. Ma saranno proprio i fascisti a togliergli quel carattere meritocratico, non perché la cosa non interessasse loro, ma per non essere esclusi per primi. E non riuscendo nell'impresa di renderla utile al regime, si aiuteranno con istituzioni parascolastiche quali la Gioventù Italiana del Littorio (GIL) e l'Opera Nazionale Balilla (ONB). Dopo aver forzato Gentile ad andarsene, opereranno tanti ritocchi per tentare correzioni di rotta che danneggeranno l'impianto senza distruggerlo. Di modo che Genovesi può a ragione scrivere questo epitaffio: Così si istituiscono le scuole di lavoro perché si ha bisogno di mano d'opera per l'industria e per l'agricoltura; si rendono più facili gli esami e gli stessi corsi del ginnasio-liceo perché si ha necessità di farvi adire con successo l'aristocrazia fascista che ha meriti più di braccio che di testa; si accentua, in maniera brutale e poliziesca, specie a partire da De Vecchi, l'autoritarismo di insegnanti, direttori e presidi che, ognuno per il suo ruolo, è capo dei suoi sottoposti non per ragioni culturali ma di disciplina, poliziesche e governative; si fa della scuola un luogo che non deve essere più palestra dell'intelligenza, ma soprattutto di contagio emotivo di un'ideologia dominante, indiscutibile e a cui tutti, nessuno escluso, debbono soggiacere perché si ha bisogno di rinforzare il mito del capo. Tutto questo ribadisce l'ipotesi che il fascismo non ha una sua scuola, perché non ha un'idea di scuola. La prende in prestito da Gentile, ma non sa sfruttarla al meglio per i suoi fini

perché, sostanzialmente, non la capisce. Ma le novità più profonde di questa scuola erano altre e rispondevano, in qualche modo, alla visione idealista (meglio: degli idealisti italiani, ai margini della cultura europea) della scuola. A parte quindi l'elevamento dell'obbligo ai 14 anni (sempre con il problema di rendere operativa la cosa), l'introduzione dell'esame di Stato e il primo riconoscimento statale della scuola d'infanzia, il punto qualificante della Riforma era l'affermazione perentoria di una scuola che si doveva sviluppare su due canali: quello dell'istruzione classica (il solo Liceo Classico con in parte il Liceo Scientifico, un classico senza greco fatto per dare un contentino a chi non gradiva le materie umanistiche del Classico e si sarebbe indirizzato verso professioni dirigenti tecnico-scientifiche ed anche per togliere persone non proprio interessate alla vera fucina di élites che doveva essere il Classico) per i figli della borghesia e dei parvenu fascisti destinati a diventare classe dirigente e quello dell'istruzione elementare più il corso integrativo o la scuola complementare o, in alternativa, quello dell'istruzione tecnica ridottasi di molto e limitata a ciò che chiameremmo oggi, scuola per geometri o per ragionieri (per ciò che riguarda il Ministero della Pubblica Istruzione). Il tutto con un sistema molto selettivo di esami che consentiva l’accesso ai livelli superiori dell’istruzione solo a un ristretto numero di giovani. Si introdusse anche l'esame di Stato alla fine degli studi al fine di rendere più selettivo il corso degli studi (i programmi, anziché essere d'insegnamento, sono d'esame). Per altri versi tale esame era richiesto a gran voce dalla Chiesa che era convinta di preparare meglio gli alunni e di risultare invece discriminata pregiudizialmente dalla scuola di Stato (sembra incredibile tutto questo dopo che per 80 anni abbiamo conosciuto i diplomifici della Chiesa !). D’altro canto Gentile, a chi lo rimproverava di causare con la sua riforma una netta diminuzione degli studenti delle scuole medie e superiori (diminuzione che in effetti ebbe massicciamente luogo nei primi anni successivi alla riforma), rispondeva che questo era esattamente il suo obiettivo. Secondo Gentile, infatti, gli studi superiori dovevano essere… aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori [...] cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani. La limitazione delle iscrizioni, afferma Gentile, non c'è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il Livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci.(...}) Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti... . In altri termini, per Gentile solo i figli dell’alta borghesia e una ristrettissima minoranza dei ragazzi degli altri ceti sociali, quella più dotata per gli studi, aveva diritto a frequentare le scuole medie superiori, in particolare il ginnasio-liceo; una minoranza di figli del ceto medio poteva inoltre accedere alle altre scuole medie superiori, il liceo scientifico e gli istituti tecnici, mentre tutti gli altri (cioè la grande maggioranza della popolazione giovanile) non dovevano continuare gli studi dopo il raggiungimento dei 14 anni d’età. L'antifemminismo era invece dominante. A proposito dello sfoltimento della scuola media scriveva (1919) che le donne non avranno mai né quella originalità di pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale, che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell'umanità e devono essere i cardini della scuola formativa dello spirito superiore del paese. Una valutazione a parte merita l'iter formativo dei maestri attraverso l'Istituto Magistrale inferiore e superiore (che sostituiscono le scuole normali) con l'eventuale aggiunta dell'Istituto Superiore di Magistero. La nuova scuola è un Ginnasio-Liceo di serie B, o forse C, con il latino e la filosofia come assi portanti (la pedagogia non era considerata una disciplina importante dall'idealismo italiano mentre, come abbiamo visto nella Prima Parte del lavoro, aveva avuto importanti pedagogisti nella cultura del resto d'Europa) e con l'abolizione di alcune materie più professionalizzanti come la psicologia, l'agraria, il lavoro manuale, il tirocinio. In questo modo il futuro maestro, privato di preparazione professionale e quindi integrato a livello subordinato e subalterno nella struttura gerarchica e di potere, assumerà nel luogo di lavoro un ruolo funzionale alle esigenze e agli interessi dei rampolli delle classi dominanti e refrattario alle istanze, ai bisogni, agli interessi dei figli delle classi lavoratrici, sui quali egli agirà come agente ideologizzatore, manipolatore, controllore e selezionatore secondo la vecchia parola d'ordine di «istruire quanto basta, educare più che si può». Tutto questo in una scuola che, nei rivolgimenti che si annunciavano, aveva avuto la fortuna di avere la scuola elementare progettata (programmi e metodi), in uno spirito liberale, rinnovatore ed aperto, da Giuseppe Lombardo Radice e resa operativa con i regi decreti del 22 gennaio 1925 n. 432, del 5 febbraio 1928 n. 577 e del 26 aprile 1928. Questa scuola elementare è una solida scuola che ha resistito molto bene

almeno fino a questi primi anni del nuovo millennio che sono anni di furia lanzichenecca contro la scuola pubblica. I programmi ed i metodi introdotti da Lombardo Radice, delineati nel suo Lezioni di Didattica del 1912, erano libertari e puerocentrici, tanto che la scuola elementare fu l'unica ad essere criticata dalla Chiesa che intravedeva una sua esclusione là dove non debordava. Fu lo stesso Lombardo Radice che rispose alle critiche all'interno dell'Ordinanza Ministeriale su orari e programmi della scuola elementare del 1923: Alla religione, che la legge considera fondamento e coronamento degli studi elementari, si fa un posto notevole in molti insegnamenti, in quanto essa li investe necessariamente col suo spirito. Il programma di canto prescrive programmi religiosi; quello di italiano offre frequenti occasioni per ricordare ed esaltare eroi della fede; quello di occupazioni intellettuali ricreative indica come elementi dei racconti del maestro anche motivi religiosi; né occorre dire quanta parte dell'insegnamento della storia sia dedicata a figure ed avvenimenti importanti per la cultura religiosa. Dal punto di vista amministrativo l'intera scuola viene accentrata su Roma al fine del controllo capillare dell'istituzione; tutto ciò che è elettivo o consultivo sparisce; l'insegnante perde ogni minima possibilità di contrattazione e la sua condizione peggiora, anche per i soliti orpelli che gli vengono assegnati. Dell'insegnante deve essere la bella ambizione di prestarsi alle opere integrative della scuola: cassa scolastica, biblioteca degli studenti, feste scolastiche, gite istruttive, serate scolastiche per famiglie, contributi di lavoro giovanile per l'arredamento della scuola, collegamento spirituale della sua scuola con le altre scuole, degli alunni con gli ex alunni . In Il dovere degli insegnanti (Circolare del 23 maggio 1923). Del Preside è invece la socratica penetrazione (...) qualità essenziale dei duci, la capacità cioè di trasformare le scuole in caserme: Con questa circolare, più che avvertimenti si danno "consegne". I Provveditori e i Capi d'Istituto siano le vigili scolte che rispettano come cosa sacra, con militare devozione, con obbedienza pronta, assoluta ed incondizionata, la consegna ricevuta. IL DIBATTITO SULLA SCIENZA NELLA SCUOLA E' noto che i disastri che ancora oggi misuriamo nell'insegnamento delle scienze affondano le loro radici nella generale ignoranza scientifica dei nostri riformatori scolastici, oltreché di una classe dirigente, politica, intellettuale che, per un perverso sistema di trasmissione delle conoscenze, illuminata dalle sue certe conoscenze umanistico letterarie e filosofiche, crede sempre di sapere di cosa parla anche in ambito scientifico. A parte il giudizio che rende la scienza marginale nella formazione degli studenti che ha ricadute importanti nell'organizzazione della scuola e negli orari con conseguente minore presenza di scienziati a scuola rispetto a letterati di varia formazione (con l'ulteriore conseguenza della preminenza nelle alzate di mano), vi è la non indifferente questione dell'accorpamento dell'insegnamento della matematica con la fisica che ancora oggi pesa notevolmente su una corretta formazione scientifica degli allievi. Già Corbino nel 1924, al Senato, si era dissociato con chiarezza e decisione da quanto aveva realizzato Gentile sulla scienza a scuola. La Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS), che raccoglieva la gloriosa eredità degli scienziati italiani preunitari, si espresse più volte contro la sistemazione della scienza nella scuola della Riforma Gentile con svariati ordini del giorno dei loro Congressi, a partire da quello di Pavia del 1925 fino a quello di Milano del 1931. Gentile portava a sostegno dell'accorpamento degli insegnamenti la necessità di… ... diminuire nella classe, di fronte allo stesso alunno, il numero degli insegnanti e quindi [per scongiurare] il pericolo e il danno del dissidio, della frammentarietà e dello sparpagliamento incomposto e inorganico della cultura che era principio di devastazione spirituale nella vecchia scuola media, ad eccezione del ginnasio... (Discorso pronunciato all'adunanza del Consiglio superiore della pubblica istruzione il 15 novembre 1923). E, mentre i matematici non parlavano per ragioni di opportunismo (si creavano per loro posti di lavoro), i fisici tutti ebbero a lamentare quanto bene riassume dal fisico Perucca… Si direbbe che tra le tante cose che lui, filosofo, non capiva, c'era la differenza enorme di metodo e di conseguente forma mentale che occorre tra l'insegnante di matematica e quello di fisica [e di chimica]. (in Dopo mezzo secolo di insegnamento, Conferenze di fisica, vol. I, Feltrinelli, Milano 1974). E questa cosa non è generalmente capita da chi non è un professionista dell'insegnamento. Tralasciando ogni polemica relativa alla preparazione, resta il dato che i matematici non conoscono, e non per colpa loro, i

processi del metodo sperimentale che sono inscindibili da quelli teorici. Per dirla molto in breve: non sono mai entrati in un laboratorio assumendone parte attiva. Ora, poiché esistono molti più matematici che fisici, accade che la fisica abbinata alla matematica è quasi sempre insegnata da matematici che, per quanto detto, ne danno una visione distorta, mnemonica e proprio funzionale al giudizio dispregiativo degli idealisti (quando non utilizzano le ore di fisica per fare della matematica). Ma quanto detto è solo un pio sfogo che non ha mai trovato orecchie attente in ormai 80 anni dalla Riforma Gentile. Il nostro aveva le idee molto decise a proposito di quella frammentarietà reclamata, per la quale introduceva la religione come materia separata, ad esempio, dalla filosofia. Già nel 1905 si era intrattenuto diffusamente sull'argomento [9]: C'è una scienza frammentaria, che non ci fa vedere il mondo e l'uomo che ne è il centro e lo specchio: una scienza che cresce giorno per giorno quasi per giustapposizione di particelle nuove alle vecchie; e cresce, e cresce sempre, e pur non aggredisce l'anima nostra, non ne acuisce l'occhio a penetrare sempre più addentro all'interno del reale, e girar sempre più largo con lo sguardo che cerca i margini del mondo... Ma questa scienza, questa spiritualità a pezzettini, e quindi, se non morta affatto, nemica certo e senza fiato, questa spiritualità così poco spirituale, ha plasmate di sé le nostre scuole. E ci ha date le scuole piene di grammatiche, di stilistiche, di manuali mnemonici, di retroversioni, di componimenti, di antologie... (in Nuove minacce dia libertà e alla filosofia nell'insegnamento liceale, «Rivista d'Italia», 1905). Questo brano mostra che anche qui appiana antinomie con le identità. Non si tratta di frammentarietà della didattica ma del suo giudizio a priori sulla scienza che è giudizio di gran parte della supposta cultura italiana. Si è antipositivisti senza essere passati per il positivismo e avendo conosciuto solo indirettamente l'Illuminismo per buona eredità del Processo a Galileo. D'altra parte l'ultimo brano citato è solo una delle posizioni che Gentile mostra di avere sulla scienza. Qualche anno dopo, appena prima della Riforma, Gentile sosterrà una tesi diversa [9]: Prima di tutto... non gioverebbe distinguere tra scienza e cultura, o tra istruzione ed educazione, pensando che la scuola non è nazionale pel contenuto di sapere scientifico che essa deve accogliere in sé, ma nazionale dev'essere in quanto della scienza fa una cultura, uno strumento formativo di coscienze, e insomma un mezzo di educazione dell'uomo e del cittadino, e movendo dal concetto che la scienza s'integra con una forma d'azione diretta sul carattere e sulla volontà delle nuove generazioni, allevate nel seno di ciascuno Stato, giusta le tradizioni e i fini di questo. La questione così si complica, non si risolve... La nazionalità non consiste nel suo contenuto che può variare, bensì nella forma che un certo contenuto della coscienza umana assume quando si ritenga costitutivo del carattere di un popolo... La nazione, in sostanza, è... la volontà comune di un popolo che afferma se stesso, e così si realizza... coincidendo così con l'idea stessa dello Stato, tanto la nozione è intima a noi e connaturata col nostro essere ; stesso, quanto è innegabile che la volontà universale dello Stato sia tutt'uno f con la nostra concreta e attuale personalità etica. La nostra Italia, la nostra Patria, è quella che vive negli animi nostri, complessa, ricca, alta idea morale, che noi realizziamo... Orbene, intesa così la Nazione, non solo non ci può essere vita d'uomo che non rechi l'impronta della sua nazionalità, ma non c'è neanche scienza vera, scienza, voglio dire, che sia scienza di un uomo, la quale non sia scienza nazionale... La scienza oggi non si concepisce più pura materia indifferente dell'intelletto, ma interesse che investe tutta la persona, celebrazione della stessa persona, e con questa perciò percorrente il ritmo eterno d'uno svolgimento infinito. La scienza non è più pura contemplazione ma coscienza che l'uomo acquista di se stesso, e per mezzo della quale attua la propria umanità. La scienza, - pertanto, non è più adornamento, o suppellettile dello spirito estraneo al proprio contenuto, è cultura, formazione della mente (in La nazionalità del sapere e della scuola, discorso tenuto il 6 aprile 1919 a Trieste ai maestri). In definitiva questa scienza che è cultura e che serve alla formazione della mente, nella formazione degli studenti avrà solo il tempo per trasferire ciò che Gentile crede essere al scienza medesima, delle tecniche particolari, prescindendo completamente dalla parte formativa che riguarda (e Gentile lo sapeva bene perché aveva impostato la sua scuola sulla Storia della Filosofia, oltreché sulla filosofia) essenzialmente la nascita delle idee scientifiche, il loro evolversi, il loro essere negate o il loro affermarsi in determinate culture, ambienti e società, eccetera. Ma questo non c'era e non c'è nella scuola né di Gentile, né di Berlinguer, né di Moratti. E su questa apparente contraddizione vi è la spiegazione di Besana [9] che ricostruisce il pensiero di Gentile. Gentile colloca consapevolmente la propria riforma al culmine di un moto continuo caratteristico della cultura italiana, forte di tensione civile, di concezione spirituale della vita e del mondo, consapevole, per la prima volta nella sua storia, del fine che l'attende. L'operazione è ampiamente motivata e argomentata su questo piano speciale dalla ricostruzione complessiva della cultura italiana operata dal Gentile che non ha incontrato opposizione altrettanto compiuta e compatta. La scienza, la fisica, la matematica, la chimica, ecc., in tale sviluppo esplicitato sono men che nulla: nessun

ruolo specifico, interno ai loro assetti e costrutti, hanno esse avuto nell'accompagnare la faticosa ricerca dell'identità italiana. Esse, permanendo l'alto ufficio di forgiare il paese e adattarlo ai fini che gli si attribuiscono, dovranno trovare il senso e il valore del loro ufficio educativo all'interno di un edificio la cui volta e le cui fondamenta sono costituite dalla grande tradizione letteraria e filosofica italiana. La forza della riforma è tutta qui. Nel porsi e nell'essere in gran parte il frutto di pensieri realmente ed efficacemente presenti nella cultura italiana precedente, nel definire il concetto della scuola dal quale far discendere in armonica successione tutte le pratiche e minute conseguenze, nel partire da un'idea, da calare in una realtà frastagliata, per guidarla e illuminarla, sta la sostanza della riforma. Ma qui è anche la sua debolezza, la sua tragica reale impotenza, la sua artificialità. Nell'ipotesi ragionevole della correttezza di tale ragionamento, resta da spiegare come mai si siano fatti passi indietro rispetto a Corbino, come mai a 20 anni dalle grandissime rivoluzioni del pensiero scientifico mondiale, l'Italia della cultura idealista continua ad essere assente ed arretrata? come mai neppure ci si era accorti (e la cosa ripugna un poco alle cose in cui credo) del grande balzo in avanti dell'industria e dei suoi processi che la scienza aveva permesso all'Italia nel periodo bellico? come mai non si ricordava quanto il nostro Nobel Camillo Golgi aveva sostenuto al Congresso della SIPS del 1916: "L'organizzazione scientifica delle industrie tedesche non potrà essere battuta che da un'organizzazione scientifica nostra"? Alla prima domanda una qualche risposta, rozza ed intrisa di prosopopea mista ad ignoranza, venne da L. Talamo un non meglio identificato "scienziato" che scrisse Gli insegnamenti, i programmi, gli orarì: fisica (in Ministero dell'Educazione Nazionale, Dalla riforma Gentile alla Carta della Scuola, Firenze 1941). Dice il nostro: ... questa nobilissima costruzione dell'uomo, che è la fisica, è turbata da qualche decennio da crepe e dissesti che sono vere contraddizioni. Ciò accadde già anche in altri tempi della sua storia, quando, formulata un'ipotesi capace di dar ragione di un gruppo di fenomeni sensibili, se un fatto nuovo veniva scoperto che non si lasciava spiegare da quell'ipotesi, si abbandonava quest'ipotesi, se ne ideava un'altra più adatta e comprensiva, ma senza scandalo alcuno. Senza scandalo, perché le ipotesi erano considerate qualcosa come le impalcature necessa-rie ad una costruzione muraria: fatta la costruzione, in questo caso la scienza, l'impalcatura e cioè l'ipotesi poteva essere abbattuta. Ma questa volta non si tratta di questo: fatti ed esperimenti da un lato, calcoli e ipotesi dall'altro, presentano al fisico d'oggi contraddizioni tanto stridenti da far vacillare in lui perfino principi fondamentali accettati dall'uomo quotidianamente... ed aggiunge delle considerazioni su in che conto occorre tenere ciò nella scuola Un conto estremamente attenuato. E giustamente: secondo il concetto di una scuola che non si può rivoluzionare e contraddire e nemmeno deve turbare o inoculare sentimenti che significherebbero sfiducia... Alla fisica i giovani si avvicinano, oltre che con vivo senso di curiosità, anche con aspettazione di certezza: deludere quest'aspettazione sarebbe grave errore, anche perché la leggera dialettica dei giovani non mancherebbe di farne pericolose illazioni in sede morale. Siamo a questi livelli che non occorre neppure commentare. Resta l'amarezza di ricordare un pezzo della retorica fascista: eravamo un popolo di santi, di navigatori, di poeti, ... e di scienziati... Tutti sono restati, meno gli scienziati che emigrarono e continuano a farlo. LA DIARCHIA: FASCISMO - CHIESA In tutto ciò che sono andato dicendo sembra sparito un interlocutore che, in Italia, è onnipresente. Ed anche questa volta c'è, per ora nascosto ma operante. Il Fascismo, nonostante le roboanti affermazioni di principio, mai mantenute, nei riguardi della Chiesa (Mussolini aveva sostenuto un esproprio generalizzato di tutto il patrimonio della Chiesa, prima di prendere il potere), lavorò da subito (sic!) per instaurare rapporti di collaborazione con lo Stato della Chiesa. Sia la Chiesa che il Fascismo avevano capito che, pur partendo da motivazioni differenti, si ispiravano e difendevano gli stessi principi, miti, riti ed apparati, principi di ordine, autorità, gerarchia, obbedienza, sottomissione e assolutismo, mito di Roma, apparati e riti esteriori, uso massiccio della psicologia di massa (è interessante notare che anche Pasolini in un suo Scritto Corsaro per il Corriere della Sera dell'1 febbraio 1975, individuava una identità di intenti tra Fascismo e Chiesa). Sembrava quindi miope non collaborare per affermarli. Inoltre si possono facilmente individuare alcuni nemici comuni quali l'irreligiosità, l'individualismo, l'eresia, l'anarchia, la massoneria internazionale, il protestantesimo e soprattutto il bolscevismo (riuscitissimo fu lo slogan «Roma o Mosca» ) e il liberalismo, negando recisamente ogni concezione agnostica dello Stato e quindi l'idea di una sfera pubblica distinta da quella privata, per riaffermare invece la necessità del riconoscimento di un ruolo civile essenziale della religione ai fini di una crescita collettiva in cui i diritti dell'individuo fossero mezzo per ottenere i fini della

società (ricordiamo che, secondo una linea già tradizionale nella dottrina sociale cattolica, per Pio XI il corporativismo - in quanto negazione dell'individualismo - era estremamente positivo).Altri punti d'incontro furono la tutela del costume (specialmente del focolare domestico, per il quale si propose un ideale di famiglia numerosa), la critica all'idea che l'interesse economico fosse il fondamento primo delle vicissitudini sociali, e l'epurazione dei veleni stranieri (materialismo, libero pensiero, democrazia, modernismo, ecc.), tutti fattori inconciliabili col conformismo, col paternalismo, con la mentalità reazionaria e con quell'autarchia materiale e spirituale che - a dispetto degli enunciati e delle pretese universalistiche - era asse portante del mito della romanità. Ma soprattutto, ripetiamo, contò l'analisi che il pensiero cattolico fece delle radici e dell'evoluzione del fascismo; ossia, tolta una minoranza di opposizione radicale (ad esempio Sturzo, Donati) che inquadrava il fenomeno come un coerente e negativo sviluppo della genealogia degli errori, il fascismo fu visto come un allontanamento dalla nefasta tradizione liberale e socialista, un'evoluzione dal laicismo ancora rischiosa, ma anche di fatto avvicinabile alle posizioni del magistero, una possibile fase di passaggio verso il nascere di una nuova e ben più favorevole posizione della Chiesa. Il primo segnale di Mussolini alla Chiesa fu dato ben prima della sua presa del potere. Egli, rinnegando il suo programma di Sansepolcro del 1919 (Noi vogliamo: ... b - il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni e l'abolizione di tutte le mense vescovili, che costituiscono una enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi) contro i beni ed i privilegi della Chiesa, in un discorso del 21 giugno 1921 sostenne: Affermo qui che la tradizione latina ed imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. La cosa fu immediatamente raccolta dal cardinale Ratti che divenne Papa Pio XI il 6 febbraio 1922, al posto di Benedetto XV. Papa Ratti, in seguito accondiscendente anche con il Nazismo, rispose subito a Mussolini benedicendo la popolazione, in occasione della sua elezione, affacciandosi alla loggia di San Pietro che era rimasta chiusa dal 1870. Altro gesto distensivo verso il fascismo che già mostrava essere truce e violento , lo fornì più oltre, quando lasciò al suo destino antifascista il Partito Popolare di Sturzo che, per contrappasso (De Gasperi nel 1921 aveva scritto: ...noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza), ebbe la sua dose di bastonate dalle squadracce fasciste il 16 gennaio 1926. Mussolini, per parte sua, continuò a mostrarsi devoto. Battezzò i suoi figli e regolarizzò il suo rapporto con Rachele (1923); dichiarò la sua conversione al cattolicesimo; si fece fotografare più volte in stato di preghiera (con il divieto che tali foto circolassero all'estero); mise al bando la massoneria, all'epoca odiata dalla Chiesa; emanò leggi per le esenzioni fiscali al clero; sperperò moltissimi soldi pubblici per salvare le banche vaticane dal fallimento (storia infinita); vietò la costruzione di una moschea a Roma; pose difficoltà al lavoro delle missioni protestanti in Italia; sanzionò duramente la contraccezione e l'aborto; riaffermò il divieto di divorzio; legiferò contro l'adulterio della donna (frivola, non creativa e inintellettuale) disegnando una famiglia piramidale con la stessa donna sottomessa; sanzionò la bestemmia; tentò il disegno di uno Stato etico di facciata inveendo contro ballo, danze negroidi, costumi da bagno femminili, lunghezza di gonne, cosmetici, tacchi alti, alcoolismo, gioco, spogliarello, ... cosa che non gli riuscì per la dissolutezza e la conseguente opposizione dei suoi camerati. Insomma si costruiva la simbiosi del Fascismo con la Chiesa, anche se dichiarazioni pubbliche, a volte, sembravano dire il contrario. A questa mole di offerte, Mussolini aggiunse ciò che la Chiesa auspicava di più (dopo il denaro, naturalmente): la questione scolastica ed il ritorno alla gestione della scuola. Anche Gentile si prestò all'operazione portato a questo per ragioni teoriche del pensiero idealista, che vedeva nella religione una fase necessaria e preparatoria allo studio della filosofia, un «inizio di sapienza» capace di dare unità e organicità al sapere. Egli, all'articolo 3 del R.D. del 1 ottobre 1923, affermò con ogni solennità: A fondamento e coronamento dell'istruzione elementare in ogni suo grado è posto l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica [poiché essa] darà un nuovo senso di serietà alla educazione del fanciullo. (...) Per l'idoneità ad impartire l'istruzione religiosa così dei maestri come delle altre persone il R. Provveditore agli Studi si atterrà al conforme parere della competente Autorità Ecclesiastica. Il che praticamente significa, come sostiene Augusto Monti (il Professore antifascista di Cesare Pavese), che ormai, in Italia, un maestro elementare, formato nella scuola di Stato, eletto dopo un esame di Stato, nominato in una scuola dello Stato, potrà dallo Stato essere ammesso a impartire in questa scuola l'insegnamento che è "fondamento e coronamento della istruzione elementare", solamente quando a ciò sia stato riconosciuto idoneo... dal Vescovo del luogo: se no, no; se non avrà la fede di battesimo, il certificato di moralità cristiana, l'attestato d'idoneità rilasciato dalla Curia, l'ottimo dei maestri italiani non potrà né fondare né coronare il suo insegnamento in una scuola ormai del tutto "statizzata", e se il Vescovo, poniamo di Santa Severina, dichiarerà, puta caso, che secondo lui nessuno dei maestri insegnanti nella sua diocesi è idoneo a impartire l'insegnamento religioso, nessuno di quei maestri di Stato sarà dal R. Provveditore agli Studi di Cosenza ammesso a insegnar nello scuole di Stato la materia dichiaratevi fondamentale. Ma Gentile aveva altri fini e con la Circolare suddetta rispondeva ad una sfacciata sollecitazione dell'Azione Cattolica che, nel luglio del 1923, organizzò un convegno dal titolo significativo: "Come approfittare nel

miglior modo dei recenti ordinamenti scolastici ordinati dal Prof. Gentile". E la cosa proseguì con l'insegnamento della religione cattolica. Con R.D. del 3 aprile 1924 si estende (anche se facoltativamente) l'insegnamento della religione alle scuole complementari ed agli Istituti Magistrali. Subito arriva la festa di Civiltà Cattolica che il 5 luglio 1924 scriveva [6]: Il fatto veramente importante del ritorno dell'insegnamento religioso nella scuola consiste sostanzialmente in questo, che si è restaurata l'armonia tra la scuola e la Chiesa e la famiglia, ed è stato praticamente rimosso il principio liberalesco del laicismo, che pretende di poter ignorare la famiglia e la Chiesa, alle quali appartiene di diritto il fanciullo, rispettivamente, in quanto figlio e in quanto cattolico. Si andò allora avanti nel 1926 con l'estensione dell'insegnamento religioso a tutta la scuola secondaria e nel 1928 con il riconoscimento alla Chiesa della nomina degli insegnanti di religione, della scelta dei libri di testo e della vigilanza da parte dei sacerdoti sull'insegnamento nella scuola elementare, con facili e numerose parificazioni (iniziando nel 1924 con l'Università Cattolica di Milano), con l'introduzione di letture di classici graditi alla Chiesa. Tutto questo fervore di scambi di favori era accompagnato dalla preparazione dei Patti Lateranensi che videro infaustamente la luce nel 1929. Per ciò di cui ci occupiamo è d'interesse l'articolo 36 del Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica: Legge n. 810 del 27 maggio 1929, Art. 36: «L'Italia considera fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l'insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo i programmi da stabilirsi d'accordo tra la Santa sede e lo Stato. Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e di professori, sacerdoti o religiosi, approvati dalla autorità ecclesiastica e successivamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di certificati di idoneità, da rilasciarsi dall'Ordinario diocesano. La revoca del certificato da parte dell'Ordinario priva senz'altro l'insegnante della capacità di insegnare. Del detto insegnamento religioso nelle suole pubbliche non saranno adottati che i libri di testo approvati dall'autorità ecclesiastica». E tale articolo ricalca pienamente la circolare di Gentile del 1923. Ormai il disastro è fatto ed ancora ne paghiamo le conseguenze dopo che l'Assemblea Costituente nel 1948 riconobbe i Patti Lateranensi nella neonata Repubblica Italiana e che Craxi e Casaroli, nel 1984 e 1985, revisionarono il Concordato del 1929, senza modificarne sostanzialmente i contenuti. Il Concordato fu salutato come una grande vittoria della Chiesa. Valga per mostrarlo ciò che disse Pio XI, secondo cui col Concordato, «certo fra i migliori che si sono fin qua fatti», si poteva «con profonda compiacenza» credere di aver «ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio». Ma la Chiesa ottenne di più: da una parte che le associazioni giovanili fasciste non facessero incontri ed adunate negli orari previsti per le funzioni religiose e dall'altra il riconoscimento delle associazioni cattoliche (ACI) come uniche possibili oltre quelle fasciste. Iniziò un fausto periodo di esaltazioni reciproche e di benedizioni ad imprese scellerate. La Chiesa si ritrovava nell'Impero a lei caro e ne benediva le imprese imperialiste. I cattolici erano oppressi ma i Cardinali salutavano romanamente L'Italia era stata « restituita a Dio» e doveva dunque essere considerata totalmente cattolica, come ebbe occasione di dire il 28 ottobre '35 nel duomo di Milano il cardinale Schuster: [...] nell'Italia nuova il cittadino si identifica col cattolico, e [...] la dottrina insegnata nelle scuole per volontà del legislatore deve insieme identificarsi colla vita vissuta da tutti i cittadini per grazia di Dio e per volontà della Nazione [...] Cooperiamo pertanto con Dio in questa missione nazionale e cattolica di bene; soprattutto in questo momento in cui sui campi d'Etiopia il vessillo d'Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana le strade dei missionari del Vangelo! [...] Pace a tutti nella verità, nella carità e nella giustizia, secondo la venerata parola del Pontefice Sommo [33]. FASCISTIZZAZIONE DELLA SCUOLA? Tutti i maggiori storici e studiosi della scuola sostengono che la fascistizzazione della scuola fu tentata ma certamente non riuscì. Poiché il Fascismo non ebbe una idea di scuola, la pretesa fascistizzazione si risolse nel tentativo di distruzione della scuola stessa. Lo stesso Mussolini, nel 1931, sconfessò l'intero lavoro di Gentile con queste parole dette nel Consiglio dei Ministri: [La Riforma Gentile] è un errore dovuto ai tempi e alla forma mentis dell'allora ministro. E questa presa di posizione seguiva un rosario di critiche alla Riforma Gentile. Aveva iniziato Pais al Senato nel 1925 che tacciò la Riforma di improvvida, radicale e contraria agli interessi del Fascismo. La stessa Critica Fascista, rivista teorica del Regime, nel 1927 affermava che il punto dolente della Rivoluzione era proprio la scuola.

Seguiamo le tappe della pretesa fascistizzazione che iniziò dai citati ritocchi, che molti chiamarono controriforma. Si iniziò con leggine per modificare le scuole inventate da Gentile e disertate dai supposti fruitori: il liceo femminile e le scuole complementari. Seguirono, tra il 1926 ed 1929, leggine e circolari che ponevano sotto maggiore controllo burocratico ed accentravano di più la scuola tentando di adeguarla al Fascismo che diventava regime totalitario. Si costruirono festività, ricorrenze, cerimonie, manifestazioni politiche, ...in cui la scuola doveva essere presente, con la conseguenza che la scuola perdeva la sua serietà e diventava ciò che si voleva combattere, la palestra del permissivismo. Si semplificarono i programmi, gli esami ed i concorsi. Per partecipare ai concorsi si richiese l'iscrizione al PNF (Partito Nazionale Fascista) già all'epoca chiamato Per Necessità Familiari (nel 1938, si richiese di giurare fedeltà al Fascismo in ogni ordine di scuola (1929) e nell'Università (1931) dove solo 11 su 1200 rifiutarono. Si andò avanti con le orrende leggi razziali, dopo le quali l'iscrizione al PNF passò in secondo piano rispetto alla richiesta dell'arianità o della non ebraicità. Nel 1925 si introdusse la norma che permetteva il licenziamento degli insegnanti che manifestassero idee contrarie al Regime, anche al di fuori del posto di lavoro. Per il licenziamento bastavano le lettere anonime e le note informative dei presidi ossequienti. Nel 1926 i sindacati dei professori medi e universitari furono sciolti e sostituiti dall'Associazione nazionale degli insegnanti fascisti che si chiamò poi Associazione fascista della scuola, alle dipendenze dirette del partito, alla quale gli insegnanti furono obbligati ad aderire seguì poi l'introduzione del libro unico di Stato e la supervisione sulla scuola affidata all'Opera Nazionale Balilla (nel 1931, poi, tutti gli insegnanti vennero messi alla completa discrezione del ministro). Questi cambiamenti videro tentativi di opposizione di Gentile che non portarono a nulla. Nel 1929 entra la religione cattolica negli orari scolastici ed il Ministero della Pubblica Istruzione diventa Ministero dell'educazione nazionale (denominazione disposta con r.d. 12 settembre 1929, n. 1661) con il chiaro fine di introdurre nella scuola elementi estranei alla didattica ed immediatamente legati alla propaganda di regime. Nel 1929 vengono soppressi i corsi integrativi e la scuola complementare viene trasformata in scuola di avviamento al lavoro e poi (1932) in scuola di avviamento professionale. Ancora nel 1929 viene introdotto il testo unico di Stato per le scuole elementari. Lo Stato accelera la statalizzazione di tutte le scuole elementari (la cosa sarà completata nel 1935). Si organizzano gare di cultura fascista con commissioni costituite da gerarchi. Intanto si aumenta il numero delle scuole secondarie e si alleggeriscono i programmi scolastici. Mentre, prima nel 1934 (ministro Ercole) e quindi nel 1936 (ministro De Vecchi, che introdusse, anche nella scuola elementare, corsi di cultura fascista e rese indispensabile la sufficiente preparazione in religione per essere promossi), vengono modificati i programmi della scuola elementare. Fatto che merita una menzione è l'ascesa al Ministero dell'Educazione Nazionale di uno dei quadriumviri, De Vecchi (1935). Egli non aveva nulla in comune con il mondo della scuola e della cultura, ma portò in essa lo stile militarista del "vero fascismo" attraverso la cosiddetta "bonifica". I professori antifascisti furono inesorabilmente eliminati e nel 1936 De Vecchi sollevò molti insegnanti non iscritti al Partito. Venne introdotta una censura preventiva sui libri di testo dell’insegnamento secondario, si tentò di ideologizzare le discipline d'insegnamento, si introdusse l'insegnamento della dottrina fascista, quello della puericultura per sostenere la campagna demografica, si esaltò la figura del Duce, ubiquo, unto dal Signore ed inviato sulla Terra per salvare l'Italia (mistica fascista). Il ministro fece redigere anche nuovi programmi che introducevano la cultura militare, con l’aumento delle attività extrascolastiche e delle organizzazioni giovanili. Del resto già nel 1934 un accordo tra GUF (Gruppi Universitari Fascisti) e Milizia aveva gettato le basi di un addestramento militare nell’istruzione media e secondaria. Intanto, a partire dal 1933 si taglia radicalmente la letteratura straniera dai nostri insegnamenti e si rivedono gli autori italiani da trattare. In questo quadro anche la filosofia di Gentile subisce dei fondamentali ridimensionamenti. La lista degli autori (di cui 4 a scelta da studiare) subisce tagli per quelli non graditi (ad esempio, Rousseau ed Humboldt) e nel 1936 viene reintrodotta la storia della filosofia (in luogo della filosofia) con elementi di etica che culminano ne La dottrina del Fascismo di Mussolini. Fatto di rilievo è che, negli anni 1929 e 1930 lo Stato scoprì, attraverso una indagine del Ministero dell'Educazione Nazionale (L'istruzione industriale in Italia, Roma 1930) il problema dell'istruzione finalizzata all'industria che, come abbiamo visto, non era presa in considerazione da Gentile nell'ambito del medesimo Ministero della Pubblica Istruzione. La cosa sembrava annunciare importanti cambiamenti e si iniziò così a prospettare la necessità d'una nuova riforma. Si trattava di inventare figure professionali più attinenti alla realtà industriale del Paese ed anche alle esigenze delle forze armate. Non è pensabile una situazione di non aggiornamento proprio in quelle scuole che sono più legati all'evolversi ed allo sviluppo della produzione industriale, eppure il regime aveva completamente trascurato il problema affidandosi a quelle inutili scuole complementari. Si trattava ora di riprendere in mano l'intero sistema dell'istruzione tecnica-professionale per unificarla in una qualche scuola di avviamento al lavoro. Tali scuole divennero presto scuole di avviamento professionale. Nei primi anni 30 il Ministero assunse su di sé anche l'onere degli istituti tecnici industriali che ebbero una crescita notevolissima verso la fine degli stessi anni 30, con un'economia di guerra già in marcia, spostando gli interessi di promozione sociale della piccola e media borghesia dai licei e magistrali a queste scuole.

LA CARTA DELLA SCUOLA DI BOTTAI Si giunse così alla Carta della Scuola [15], una sorta di legge quadro finalizzata a "mettere la scuola italiana (...) sul piano del Fascismo e della sua dottrina", che il Ministro Bottai, giunto al Ministero nel 1936 (e restatoci fino al febbraio del 1943), fece approvare dal Gran Consiglio del Fascismo nel 1939. Bottai era ministro fascistissimo e quindi razzista. Si era già distinto per la solerzia e l'efficienza con cui aveva fatto applicare le Leggi Razziali nella Scuola. Nel 1938 fece espellere gli insegnanti ebrei, proibì l'iscrizione a studenti ebrei, istituì scuole elementari separate. Con una circolare del 6 agosto egli raccomandò ai Provveditori la massima diffusione nelle scuole primarie della rivista "Difesa della Razza". Il 15 novembre un testo unico riunì tutte le disposizioni riguardanti la difesa della razza nella scuola italiana. Premesso che la Guerra incombente impedì la realizzazione della Carta (l’unica disposizione adottata fu la scuola media unica istituita nel 1940), merita attenzione il suo contenuto che propone un modello scolastico basato sul principio di far corrispondere ad ogni ceto un tipo di scuola, ad ogni titolo scolastico un tipo di lavoro, ad ogni lavoro uno status nella gerarchia sociale. La Carta è costituita da 29 punti o dichiarazioni che tentano di indicare i principi, i fini ed i metodi per riformare via via l'intera scuola, dalla materna all'università (si diranno cose che sono l'esatto contrario di ciò che nella pratica si vuole realizzare). La Carta, in cui si cita Casati e non Gentile, è costruita guardando alla Carta del Lavoro (1927) che era nata per subordinare il mondo della produzione, sia imprenditoriale che dipendente, al potere dello Stato. I suoi primi 7 punti sono, appunto, la definizione della scuola al servizio del Fascismo e subordinata ad esso. Si enunciano dei principi che restano tali come quello che nell'ordine corporativo la possibilità di studiare non si compra, si merita. Non ci sono gli studenti per censo; ci devono essere solo quelli per capacità Naturalmente si tratta di sciocchezze e vergognose bugie (che trovano in Berlusconi il campione mondiale di oggi), come risulta da ciò che scrisse successivamente lo stesso Bottai: è illusorio pensare che la lotta nel campo della scuola debba realizzarsi a parità di condizioni fra gli alunni delle diverse classi sociali. Lo impediscono le condizioni economiche, che rimangono come una realtà determinante per la scelta degli studi e delle professioni. Tra l'altro i costi per conseguire un diploma nella scuola decretavano proprio una selezione a priori: a fronte di circa 4000 lire per il classico e lo scientifico e di circa 2000 lire per il magistrale, il geometra e la ragioneria, vi erano 50 lire per la scuola di avviamento al lavoro (dati del 1935); tutto questo deve confrontarsi con i seguenti salari mensili in lire: contadino 90, operaio 200, impiegato 270, ragioniere 350, dirigente circa 1000 (dati del 1930). E questo in analogia alla Carta del Lavoro che assegnava uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro ed i lavoratori (sic!). Naturalmente, tra i principi di fondo vi è la collaborazione tra famiglia e scuola poiché la formazione, in genere, l'orientamento, in ispecie, dei giovani esigono una stretta solidarietà fra Scuola e famiglia. Non si dimenticano, in questi principi, la scuola come palestra di esercizio fisico e lavoro, con il tutto documentato dal libretto scolastico personale, istituito da Bottai, che sancisce e comprova il prestato servizio nella scuola, nella Gil, nei Guf; e, collegandosi al "libretto di lavoro" serve a documentare, anche ai fini dell'assunzione al lavoro e negli impieghi, il curricolo civile dell'Italiano del tempo di Mussolini. Il lavoro, in modo fallimentare, resta comunque solo nell'ultimo biennio della scuola elementare, , nella scuola artigiana e nella scuola professionale. Da notare che con Bottai si inaugura l'adozione del Giornale dei Professori in sostituzione del Registro di Classe, un unico registro che servirà per tutti gli insegnanti e per tutte le materie, in modo da avere continuamente sott'occhio tutta la figura dell'alunno e non soltanto quella ritagliata entro i confini della propria disciplina (questa e le successive citazioni senza riferimento bibliografico sono di [3]). La Carta prosegue con l'ottava dichiarazione che riassume il previsto ordinamento della scuola, definita fascista. I successivi 7 capitoli (comprendenti le dichiarazioni dalla 9 alla 22) sono ciascuno dedicato ad un ordine di scuole. Si parla degli insegnanti, che devono essere preparati (e per ciò sono previste cure e provvidenze particolari), di esami e di ammissione e di passaggio e di Stato, dell'Ente Nazionale che deve presiedere tutta la scuola media e superiore, dei libri di testo che dovranno prevedere l'imprimatur del Ministero prima della stampa, dell'anno scolastico. Naturalmente vi sono molte dichiarazioni che fanno affermazioni in piena linea con la retorica imperante. Si afferma, ad esempio, che nell’ "ordine fascista età scolastica ed età politica coincidono". Di supporto alla scuola vengono messe la Gil (a cui è affidato l'insegnamento dell'educazione fisica) ed i Guf (Gruppi Universitari Fascisti). Di rilievo, per la portata che assumerà, è la creazione della scuola media unica, l'unica realizzazione della Carta dall'anno scolastico 1940-1941, naturalmente con i soliti imbrogli linguistici, infatti restano tranquillamente la scuola artigiana e la tecnico-professionale, per non alimentare, con le briciole della cultura, illusorie ambizioni di un inserimento nel rango studentesco che offra la fuga dal lavoro manuale, come scrisse Bottai. Fino ad allora esistevano tre tipi diversi di scuola media, la tecnica, la classica e la magistrale (e solo a queste ci si riferisce per parlare di scuola media unica) e ciò obbligava a scelte precocissime. La cosa non preoccupava più di tanto perché era finalizzata ad avere scuole diverse da subito per dividere in base al censo. Si osserva ora che la diversità tra scuole medie è piccola e che ci si trova di fronte a classi o troppo affollate o quasi deserte, con conseguente sperpero di denaro, a seconda del tipo di media. L'unificazione viene dunque realizzata e, fatto di rilievo, in tale scuola il latino diventa obbligatorio per tutti poiché è con il latino che si disciplina, si organizza e si orienta la mente... c'è veramente nella sua complessità, una continua sollecitazione agonistica ...e poiché porre l'alunno di fronte ad esso come di fronte ad una nobile prova, è il più saggio degli accorgimenti didattici. I meno abbienti, provenienti da una società

ed una cultura ancora eminentemente contadina, perdono da un lato il ghetto della scuola media ma si trovano di fronte l'estraneo latino che inaugura la sua funzione di selezione in luogo della separazione prima esistente. Accanto alla media unica, come accennato, sono previste le non uniche scuola artigiana (per le campagne e i piccoli centri) e scuola professionale (per le grandi città). Queste permettono ai più capaci l’accesso ai collegi fascisti, che forniscono una formazione militare. Dietro le due scuole suddette vi erano intenti di scuole rurali e industriali, contadine e cittadine. Il tutto doveva da un lato preparare all'industria bellica senza disamorare all'agricoltura. Ho già detto che la Carta non diventò riforma ma alcuni provvedimenti, passarono in regolamenti e circolari. Vengono introdotte nuove materie d'insegnamento come "Storia e cultura fascista", "Bella scrittura" e "Igiene e cura della persona". Le esercitazioni di lavoro, sono inserite nella scuola perché lavoro e studio debbono integrarsi "vita mentale e attività manuale sono così intimamente connesse che dall'una si può inferire il comportamento dell'altra...il lavoro deve essere sottolineato per il suo valore sociale e nazionale. ..ogni settimana, perciò,il docente di classe od altro designato dal Preside, parlerà o farà parlare gli alunni della loro esperienza di lavoro, con riferimento anche all'esperienza del lavoro nella famiglia. I Presidi disporranno delle visite aziendali mensili. ..senza escludere visite in quartieri operai, artigiani, contadini, case di riposo, colonie, ospedali. ..Nel campo specifico del lavoro femminile i programmi metteranno l'accento sulla famiglia come unità di lavoro, di cui la donna è motrice. Nelle classi si formeranno delle squadre di alunni, affinché il giovane abitui il suo spirito a quel senso di organizzazione gerarchica. ..che vuole dire unione degli sforzi dei singoli sotto la guida dei più capaci...che il giovane ritroverà poi... nel plotone e in tutte quelle attività che occuperanno la sua vita da adulto. ..Largo spazio deve essere riservato al lavoro agricolo, che meglio si armonizza con la prevalente ruralità delle famiglie...Del pari adatte in tutte le scuole le diverse forme di lavoro artigiano e industriale." Tali esercitazioni al lavoro diventeranno visite rituali a fabbriche o campi di lavoro, chiacchiere. Nella nuova scuola nulla deve essere trascurato "puntualità, ordine, pulizia, correttezza di comportamento e di linguaggio, tono di voce, urbanità, soprattutto di coloro che sono a contatto con il pubblico. ..affinché ogni scuola possa offrirsi, in caso di visite di autorità, agli sguardi dei visitatori come un reparto perfettamente inquadrato. ..informa agilmente militare". Riguardo alla storia, si abbandona l'uso del testo che conosciamo ed in sua vece vengono adottate antologie di brani scelti atti a suscitare l'interesse ed il culto della nostra storia. Le tasse d'iscrizione, d'esame, di frequenza, alle singole classi sono differenziate per sesso: le ragazze pagano circa un 30% in più perché sia possibile fin dall'inizio della scuola media ... avere un mezzo efficace per regolare l'afflusso delle donne alla scuola. In tal modo si realizza una accentuazione dell'antifemminismo di Gentile e del Regime. I testi scolastici, i diari, i quaderni, le pagelle, accentuarono l' esaltazione del Fascismo e del Duce attraverso scritti ed immagini. In termini di propaganda Bottai capì l'enorme potenzialità della Radio della quale introdusse l'ascolto nella scuola. Di seguito vi sono alcune immagini e testi di propaganda.

Un poco di fisica fascista. In termini di propaganda si scende a livelli impresentabili per rozzezza e stupidità. Nella quinta classe elementare, ad esempio, risaltano per originalità problemi geometrici del tipo: calcolare la superficie complessiva delle province italiane della Libia o calcolare le bombe sganciate da un aereo da guerra. In meccanica il moto uniforme era spiegato con l’esempio del passo dell’oca (vedi ultima figura). La grammatica veniva insegnata proponendo l’analisi logica di frasi come "Io ho lavorato con piacere tutto il giorno" o "I nemici si affrontano con coraggio". Le letture infine trattavano svariati temi d’attualità, come "La razza latina", "Gli ebrei", "Parla il Duce" o "L’emigrazione". Il libro di lettura della III elementare di Adele e Maria Zanetti parla delle guerre coloniali italiane in Africa così: In Africa c'era un vasto impero con una popolazione ancora barbara, dominata da un imperatore incapace e cattivo: l'Abissinia. E gli Abissini ci molestavano: danneggiavano, invadevano le nostre colonie e i nostri possedimenti. Questo era troppo. Fu così che il Duce decise la guerra ... - Saremo noi a vincere l’Abissinia, - disse il Duce. – L’Italia porterà in quella terra quasi selvaggia la luce della sua civiltà. Nello stesso libro si racconta anche la Marcia su Roma:

In quel tardo pomeriggio del 27 ottobre, sulla strada consolare che correva a breve distanza dal casello ferroviario, c’era stato un andirivieni insolito di veicoli. Vittorio si era divertito a contare le motociclette, le automobili e gli autocarri che venivano a tutta corsa e rombando così furiosamente, che la casa ne tremava, ogni volta, come per un terremoto. […] Erano carichi di gente armata. Si vedevano gli elmetti, i fez, le camice nere degli arditi di Mussolini. C’era nell’aria qualcosa di nuovo, di molto straordinario. - Arrivano i fascisti, - disse il babbo rientrando dopo il passaggio di un treno, - le cose precipitarono.

Staccò dal muro il suo vecchio moschetto. Lo ripulì ben bene e se lo caricò sulla spalla. - Ci vuol prudenza, - rispose alla moglie che lo interrogava con lo sguardo. – Le campagne sono malsicure. Quei contadini laggiù sono più rossi della loro casa. Vado ancora a perlustrare la strada. Bisogna raddoppiare di vigilanza. […] Vittorio non era un bimbo ciarliero. Ciò che vedeva e che gli parlava al cuore, custodiva in sé e non dimenticava più. E il suo cuore si faceva ogni giorno più saldo e più ardito. - Mamma, presto, la bandiera! Mettiamola fuori, - disse, quasi imperiosamente, rientrando. – I fascisti devono sapere che qui ci sono dei veri Italiani. […] All’umida brezza della sera, la bandiera si gonfiò come una vela, palpitò come una grande ala variopinta, gettando sul paesaggio malinconico la gaia nota dei suoi vividi colori. […] Il babbo rientrava. Vittorio udì i suoi passi su per la scala e le parole sommesse che scambiò con la mamma nella stanza accanto. - […] Hanno del fegato quei ragazzi! - Come piove! – sospirò la mamma. – Se la prendono tutta poveretti! - Eh, ci vuol altro! E’ la gioventù che non si spaventa del fuoco, figurati se si accorge dell’acqua! Vittorio aveva ripreso il suo posto di osservazione alla finestra. La colonna in marcia era interminabile. Le squadre si succedevano alle squadre. Venivano giù quasi di corsa. […] Lampi frequenti accendevano le nuvole d’improvvisi bagliori: la campagna si rischiarava di luci spettrali, per piombar poi subito nell’oscurità. In quei fuggevoli momenti, Vittorio intravedeva una scena superba di forza e di audacia. Le colonne si perdevano all’orizzonte. […] A Vittorio pareva di sognare […] Vittorio tende il braccio nel suo saluto romano. E pare dire: Vedete? Questo almeno lo so già fare. - A Roma! A Roma! – esclama gioiosamente il giovane col braccio levato. - Viva i Fascisti! Viva Mussolini! – grida ancora Vittorio, mentre quegli si slancia a gran corsa sulla strada, per raggiungere l’ultima squadra che già si vede lontana. Allora marciammo su Roma, negli anni successivi la marcia partì da Roma. Non è ancora finita. Nessuno ha potuto fermarci. Nessuno ci fermerà. Mussolini

E così via con interminabili possibili esemplificazioni. E' da notare che, a sottolineare la continuità tra fascismo e governi democristiani postliberazione, testi in uso durante il ventennio, continuarono imperterriti a riempire di bolsa e lacrimevole retorica le scuole italiane dalle elementari alla maturità. Esempio è il testo di Cesare Paperini, Analisi estetiche e letterarie (SEI 1935 e 1953), che ha imperversato fino agli anni Cinquanta. Nel quadro dell'interesse per il lavoro e per le realizzazioni pratiche, anche a sostegno dell'autarchia, la scienza e la tecnica tornano di moda (a parole!) e sono di continuo legate al concetto di lavoro. In quest'ambito i programmi di matematica e fisica subiscono degli aggiornamenti. L'oscuro matematico burocrate del Ministero, Alfredo Perna, così commenterà le innovazioni [9]: La matematica... è forse tra le materie più indicate a scoprire le attitudini negli alunni: qualità di ordine, di disciplina, di fantasia, di ragionamento, di tenacia, di probità sono facilmente individuabili... Intanto sappiamo, e non possiamo non esserne soddisfatti, che l'insegnamento della matematica nella scuola della Carta mussoliniana non avrà più la pesantezza che l'ha fatto condannare in passato, non sarà più una serie di proposizioni, e talvolta di rompicapi, asfissianti, sconfortanti; ma collaborazione intima tra professori e alunni, riduzione della materia a ciò che è veramente essenziale per la formazione spirituale del giovane e per l'individuazione delle sue attitudini specifiche. Anche qui parole e basta. Riguardo alla fisica ed alle critiche che la Sips aveva rivolto all'impostazione gentiliana, si criticherà l'aver bandito: ... dalla scuola un elemento altamente educativo che doveva più tardi essere riammesso con tutti gli onori, quando una più completa visione educativa dell'uomo e più maturi tempi lo consigliavano: la primigenia e insostituibile attività umana del lavoro, che la fisica sperimentale è anche lavoro manuale. Bottai si rese anche conto che la piccola e media borghesia che aveva aiutato il regime a prendere il potere, era stata poi penalizzata da una scuola che in gran parte le escludeva. Occorreva provvedere ed il Fascismo iniziò la nefasta politica del Pubblico Impiego, delle migliaia di posti creati nel terziario, posti ai quali ebbe accesso anche la Milizia Volontaria di Mussolini che, una volta sciolta, contribuì da sola a 200 mila unità di impiegati dello Stato. Con Bottai termina comunque il tentativo di fascistizzare la scuola. Al di là dei numerosissimi ritocchi, credo si possa dire che la scuola veniva mano a mano smantellata e si possa concludere come iniziato: se per

fascistizzazione si intende distruzione della scuola, allora ci fu fascistizzazione. In accordo con il fatto che il Fascismo non ebbe nai un'idea di scuola. Dice uno storico della scuola, molto attento ed accurato, come Genovesi: Da quanto detto, risulta che, se non ci lasciamo intrappolare dalla fallace categoria del consenso, la fascistizzazione della scuola è un fenomeno tutt'altro che scontato, e senz'altro non lo è sul versante di una sua compiuta realizzazione. (...) D'altronde, non è difficile ipotizzare che durante il fascismo ci troviamo davanti non solo a una doppia scuola, quella ufficiale e quella comunque «contrabbandata» dai singoli docenti in ragione della loro cultura e del loro impegno etico-civile (...), ma, addirittura, a molte scuole. Si tratta di scuole dovute anche ai «vari» fascismi e soprattutto a una certa accidia e sciatteria del fascismo stesso, che finisce ben presto per accontentarsi delle parole d'ordine e delle affermazioni roboanti più che dei fatti, quasi in un'illusoria o astuta e comunque fatale fiducia che quanto ha voluto il capo dovrà comunque accadere. Resta il fatto che l'irrazionale e il provvisorio, cause determinanti di marcata disfunzionalità, hanno il sopravvento e porteranno la scuola e tutto il Paese alla violenza e alla distruzione. LA SCUOLA REPUBBLICANA NELLA TRANSIZIONE La guerra tragica e disastrosa è finita. L'Italia è distrutta negli impianti industriali e nelle infrastrutture. Resta la parte contadina arretrata da sottofondo ad un Paese che ricomincia. Gli Stati Uniti, che sono stati la forza preponderante contro i nazifascisti con bombardamenti a tappeto che hanno prostrato i nemici e distrutto l'Italia, hanno stabilito a Yalta, insieme agli altri vincitori (URSS, Gran Bretagna, Francia), che l'Italia è dalla parte Occidentale. Per mantenere il controllo sul nostro Paese, gli USA hanno patteggiato con la mafia al Sud, hanno fatto accordi con i fascisti ed i repubblichini al fine di scongiurare il pericolo socialcomunista, che pur restava la forza più organizzata ed armata del Paese nella Resistenza. Gli scellerati accordi di cui sopra hanno evitato all'Italia i processi di Norimberga e Tokio con la conseguenza che, a parte qualche fucilazione ed esecuzione dei primi momenti, tutto l'apparato fascista e repubblichino rimane indenne (in questo aiuterà moltissimo anche l'amnistia che Togliatti fece approvare, quale Ministro della Giustizia, nel 1946, amnistia che svuotò le carceri da fascisti e repubblichini e le riempì di partigiani indisponibili a cedere le armi in una situazione ancora critica). Per la rilevanza che ha nella nostra storia, va ricordata l'esecuzione di Giovanni Gentile, ormai fascista ai margini, il 15 aprile del 1944, esecuzione che ebbe il seguente commento sull'edizione napoletana dell'Unità il 23 aprile: Parlando di Giovanni Gentile, condannato a morte dai patrioti italiani e giustiziato come traditore della patria, non riesco a prendere il tono untuoso di chi, facendo il necrologio di una canaglia, dissimula il suo pensiero e la verità col pretesto del rispetto ai morti…Giovanni Gentile non è stato soltanto il traditore volgarissimo…scompare con Giovanni Gentile uno dei responsabili o autori principali di quella degenerazione politica e sociale che si chiamò fascismo. Né io riesco, nel dare questo giudizio, a distinguere il pensatore dal bandito politico…dal camorrista, corruttore di tutta la vita politica italiana. A parte, appunto, isolati episodi come quello accennato, la burocrazia ministeriale, l'esercito, la magistratura, la diplomazia, la polizia, ...tutto questo va cambiando nome ma resta quasi completamente ciò che era prima della guerra. Il Vaticano, l'altra forza determinante per le sorti dell'Italia, vive un breve momento di paura per il supposto avvicinarsi dei socialcomunisti al governo. Il regime con il quale avevano vissuto in simbiosi si era apparentemente disfatto. Ben presto si capirà che ogni timore è infondato anche per il dispiegarsi della classe politica cattolica che, mantenuta protetta tra le mura dei palazzi apostolici, ora può uscire ed iniziare la rapida marcia al potere. L'atteggiamento del Vaticano è ben descritto da questi piccoli eventi: 10 maggio 1944 - Pio XII riceve in udienza privata il generale delle SS Karl Wolff. Durante l’incontro, propiziato da Virginia Agnelli, si parla fra l’altro della "difesa dei valori della città cristiana, contro l’attacco facilmente prevedibile del comunismo". 23 giugno 1944 - Il rappresentante americano presso il Vaticano, Myron Taylor, informa il presidente Franklin Delano Roosevelt sul contenuto di un colloquio avuto con Pio XII: "Il problema dell’atteggiamento della Russia verso la Chiesa cattolica, la mancanza di fiducia nella parola di Stalin e in particolare il pericolo del comunismo in Italia causano a Sua Santità grande preoccupazione…Sua Santità sostiene che la presenza degli alleati in particolare, e di forze americane in numero ragionevole in tutto il paese è essenziale per un lungo tempo, per salvare l’ordine e scoraggiare le attività radicali che potrebbero rovesciare il governo esistente…Grazie a questa presenza si genererà nella massa della popolazione un sentimento di sicurezza. Ciò potrebbe compiersi su base volontaria, a spese della nazione italiana". 9 gennaio 1945 L’Oss (poi CIA) riporta le direttive impartite dal Vaticano ad Alcide De Gasperi "vicinissimo a monsignor Giovanbattista Montini, segretario di Stato, con cui dibatte ogni questione politica… 1) collaborare

a tutti i costi con i partiti dell’ordine; 2) guadagnare tempo ad ogni costo con i sei partiti per evitare avventure rischiose, ma al momento opportuno troncare di netto con la sinistra. Sulla scuola, argomento di cui ci occupiamo, il Vaticano interverrà sui governi provvisori con petulanza per mantenere ed ottenere le cose a cui tiene. Questi governi si mostreranno subito estremamente accondiscendenti (con la fattiva collaborazione di Benedetto Croce che, come Pera oggi, raccontava al prossimo del perché non possiamo non dirci cristiani), come le brevi note che seguono, mostrano: 17 aprile 1944 - Ad Andria, il vescovo Di Donna scrive a Vittorio Emanuele III per esprimere la sua "protesta contro il grave attentato recato all’unità spirituale dell’Italia cattolica e al Concordato dalle disposizioni del ministero dell’Educazione nazionale nei nuovi programmi scolastici per la scuola media…nei quali si annuncia come facoltativo l’insegnamento religioso cattolico". 27-28 aprile 1944 - A Lecce, nel corso della riunione dei vescovi pugliesi, l’arcivescovo Marcello Mimmi riferisce che il ministro dell’Educazione nazionale, Cuomo, gli ha assicurato che tutti i componenti del governo "non potevano non guardare all’insegnamento religioso come ad una delle leve più potenti della rinascita spirituale della Patria". I vescovi, comunque, dinanzi alla formazione di un governo in cui per la prima volta sono entrati a far parte i comunisti, incaricano "S.E. di scrivere una lettera di ringraziamento, in cui si esprime la fiducia che la Legge sull’insegnamento religioso sarà rispettata anche dal nuovo Governo di Unione Nazionale, e si esprime l’augurio che la facoltà attribuita dal nuovo Piano di studi al professore di lettere, in materia di Storia delle Religioni, non crei dualismo pericoloso tra insegnanti e incidenti penosi per la coscienza religiosa degli alunni e la serenità della scuola". Nel corso della riunione, inoltre, i vescovi pugliesi decidono di riaffermare "il dovere di denunciare e combattere teorie apertamente anticristiane. Quanto all’atteggiamento pratico da seguire nel momento attuale, in cui si è attuata come una specie di tregua di partiti di Governo e nelle Amministrazioni locali, si riconosce la delicatezza della situazione e si ritiene inopportuna e pericolosa l’iniziativa da parte del clero di una lotta aperta e rumorosa contro singoli partiti". 6 maggio 1944 - Su "Civiltà cattolica", padre Barbera scrive che il diritto educativo della Chiesa è "sopraeminente" e quello della famiglia "anteriore" al diritto dello Stato. E invita pertanto quest’ultimo a "lasciar libero l’esercizio agli aventi diritto educativo, la Chiesa e la famiglia". 25 maggio 1944 - Il segretario generale del ministero degli Esteri scrive, a nome del maresciallo Pietro Badoglio, al vescovo di Andria, Di Donna: "Sono lieto di comunicarle di aver portato a conoscenza di Sua Eminenza Rev.ma il Cardinale Segretario di Stato, per il tramite del R. Incaricato d’Affari presso la Santa Sede, l’assicurazione di S. E. Omodeo che nulla è stato innovato, né si intende innovare, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche". 24 ottobre 1944 Il ministro della Pubblica istruzione De Ruggiero vara il decreto che reintegra nelle loro funzioni gli 11 docenti universitari allontanati dall’insegnamento per non aver giurato fedeltà al regime fascista. Il decreto però è condizionato ad una valutazione caso per caso, espediente adottato per impedire il reingresso nell’Università a Ernesto Buonaiuti, inviso al Vaticano perché ex sacerdote per il quale la Curia pretende la definitiva estromissione dall’insegnamento. Queste vicende erano comunque marginali rispetto alla massima preoccupazione vaticana: il riconoscimento da parte dello Stato che stava nascendo dei Patti Lateranensi. Dopo estenuanti trattative vi fu un improvviso cedimento ai cattolici dei comunisti (e la Chiesa li ringraziò scomunicandoli l' 1 luglio 1949) e, nell'Assemblea Costituente, passò l'articolo 7: Art. 7 - Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. al quale si aggiunsero, in tema di scuola, gli articoli 33 e 34 Art. 33 - L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

Art. 34 - La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. Discuteremo oltre di come si è vanificato l'articolo 33, ora basta osservare che ancora oggi l'articolo 34 è una pia dichiarazione di principio e che la Chiesa viene esaudita nelle sue maggiori impellenze. E vediamo ora come la scuola viene adattata alla nuova realtà che nasceva dalla Liberazione. Intanto vi fu un intervento nei programmi nel 1945. Il problema principale, presente a tutti gli attori, CLN, alleati, partiti politici che si ricostituivano o nascevano, era la defascistizzazione che, nella scuola, non poteva comunque avvenire con un colpo di mano. Ci si limitò a modifiche nell'organizzazione, a verifiche sulla preparazione degli insegnanti e sulla loro disponibilità democratica, a revisione del libri di testo. Ci voleva del tempo per riorganizzare il tutto ma intanto si poteva intervenire sui programmi. La cosa fu realizzata da una Commissione per la redazione dei programmi operante sotto differenti ministri dell'Educazione Nazionale (il Ministero ancora non aveva cambiato nome), Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio-Ruiz, con la partecipazione della Sottocommissione Alleata all'Educazione (la Education Subcommission dell’Acc) presieduta da Carleton Washburne, un esperto del problema scolastico proveniente da Winnetka, una delle punte della scuola attiva americana, dove si era definita e sperimentata, tra l'altro, quella nuova strategia didattica che è il Mastery Learning. Prima di ciò vi erano stati interventi parziali sui programmi sia dal Comando alleato, dopo lo sbarco in Sicilia, per l'anno scolastico 1943-1944, sia da parte del Governo partigiano dell'Ossola nel 1944. La Commissione ebbe a che fare con la posizione USA che spingeva per la continuità opponendosi ai cambiamenti invece auspicati da tutti i rappresentanti italiani. I programmi furono pubblicati a febbraio del 1945 e divennero operanti a maggio dello stesso anno. Vi è un recupero dei programmi liberali con l'aggiunta dell'insegnamento della religione. Le materie previste, ad esempio, nell'insegnamento elementare nel 1945 sono: 1) Religione; 2) Educazione morale, civile e fisica; 3) Lavoro; 4) Lingua italiana; 5) Storia e geografia; 6) Aritmetica e geometria; 7) Scienze e igiene; 8) Disegno e bella scrittura; 9) Canto. Per quanto concerne le votazioni, l’Educazione morale, civile e fisica comprende anche la condotta. Non si assegnano voti di Lavoro, Storia e geografia, Scienze e igiene, Canto nelle prime due classi. Nel 1934 erano: 1) Religione; 2) Attività intellettuali ricreative; 3) lavori donneschi; 4) Lingua italiana; 5) Storia e Geografia; 6) Aritmetica e Geometria; 7) Scienze ed igiene; 8) Disegno, Bella scrittura e Recitazione; 9) Canto; 10) Nozioni di diritto ed economia. Si può notare che apparentemente cambia poco, ma vi sono cose importanti che si modificano nell'approccio, come indicato dall'ampia premessa introduttiva cose immediatamente contraddette dalle avvertenze introduttive alle singole discipline. Queste novità di principio possono essere così riassunte: eliminazione della differenza tra scuole rurali e scuole cittadine; eliminazione della differenza tra scuole maschili e femminili; la pedagogia di base diventa comunitaria e cessa di essere competitiva; sparisce il razzismo sostituito con un approccio di fratellanza universale; la parte religiosa vira dal catechismo al Vangelo. Nei fatti, oltre a quanto detto sulle avvertenze, il tutto va in mano a dei maestri che non sanno bene come comportarsi, resi estranei a qualsiasi processo di formazione. Occorrerà attendere la riforma (ministro Ermini) dei programmi del 1955 per una sistemazione della scuola elementare in senso clericale e reazionario:

Dichiarando che si trattava di «suggerimenti desunti dalla migliore esperienza didattica e scolastica», la nuova legge affermava che la scuola elementare «educa le capacità fondamentali dell'uomo, e ha, per dettato esplicito della legge, come suo fondamento e coronamento, l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Come dire che le capacità fondamentali dell'uomo sono quelle dell'uomo cattolico. Era indicazione ineccepibilmente e stupidamente legittima, replicando il testo del Concordato fascista, divenuto legge dello Stato repubblicano grazie all'art. 7 della Costituzione. e proseguendo ignobilmente: La vita scolastica abbia quotidianamente inizio con la preghiera, che è elevazione dell'anima Dio, seguita dalla esecuzione di un breve canto religioso dall'ascolto di un semplice brano di musica sacra. Nel corso del ciclo l'insegnante terrà facili conversazioni sul segno della croce, sulle principali preghiere apprese (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre, preghiera dell'Angelo custode, preghiera per i Defunti), sui fatti del Vecchio Testamento ed episodi della vita di Gesù desunti dai Vangeli.(...) Contemporaneamente si avvii il fanciullo alla pratica acquisizione delle fondamentali abitudini in rapporto alla vita morale, al comportamento civile e sociale, all'igiene, nella famiglia, nella scuola, in pubblico. e comunque si avrà un accavallarsi di provvedimenti che non saranno altro che il prosieguo della politica dei ritocchi e degli aggiustamenti che erano funzionali all'attendismo che nulla mai risolve della DC. Osservo a questo punto che la DC avrà il monopolio quasi esclusivo del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI) per moltissimi anni, intervallato solo da qualche liberal-reazionario come VALITUTTI. A livello di scuola dell'infanzia (e non solo) vi è il disinteresse della sinistra occupato ampiamente dai cattolici e dalla pletora di organizzazioni che fanno loro capo, che si preoccupano di non applicare l'articolo 33 della Costituzione per la parte riguardante le scuole dell'infanzia che, secondo quell'articolo, dovrebbero essere promosse dallo Stato. Questa negligenza manterrà e darà tali scuole alla Chiesa per ancora molti anni (fino al 1968), con in più il significativo cambiamento del loro nome in scuole materne (è da notare che per molto tempo anche le scuole magistrali saranno in gran parte gestite dalla Chiesa: la Liberazione diventa anche una Restaurazione del pre 1870). Solo alla fine degli anni Cinquanta vi saranno dei progetti di legge per l'istituzione di scuole materne statali, quelli del socialista Pieraccini del 1959 e della comunista Nicolosi del 1960 (l'opposizione inizia a muoversi sul tema scuola, lasciato fino ad ora a personalità come Concetto Marchesi, sostenitore della netta separazione scolastica). Naturalmente vinse il governo DC (presieduto da Fanfani) che nel 1958, oratore Zoli, esaltò in Parlamento la gestione clericale della scuola materna. A parte la gravità della cosa in sé vi è da sottolineare le conseguenze che derivarono da questo fatto: la Chiesa che avrà il pratico monopolio di tali scuole, potrà sostenere di rendere un servizio allo Stato e potrà iniziare a pietire per essere finanziata (per il favore che gli è stato fatto). L'articolo 33 vietava questo ma (facendo un salto in avanti), i DS, eredi del PCI, sapranno scavalcare questa difficoltà con un imbroglio che si sono inventato nella modifica costituzionale del 2001. In tale riforma è stato inserito un marchingegno del quale pochi si sono accorti. Nel nuovo articolo 55 della "nuova" Costituzione (Riforma del Titolo V) si legge: "La Repubblica Italiana è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni, dallo Stato". Quindi lo Stato è uno tra i tre enti. In pratica, se i soldi provengono dalle Regioni e non dallo Stato il finanziamento pubblico diventa lecito. Sarà il governo Moro (Ministro Gui) a presentare un progetto di legge per l'istituzione della scuola materna statale. Il Parlamento non approvò e Moro si dimise (20 gennaio 1966). Con lievi modifiche, che prevedono tra l'altro la contropartita di finanziamenti alle scuole materne non statali (confessionali), lo stesso progetto passerà il 18 marzo 1968 (stesso governo ricostituito) accompagnato un anno dopo dagli Orientamenti per la scuola materna statale. Lo spirito con cui queste scuole nascevano non è dissimile a quanto abbiamo visto per i programmi Ermini del 1955 delle scuole elementari: «Detta scuola si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione alla frequenza della scuola dell'obbligo, integrando l'opera della famiglia»: concezione, si sa, clerical-democristiana. E nei programmi si leggono di nuovo espressioni di mistica vacuità: «La bellezza e l'armonia della natura, ogni volta che siano ravvisabili, e la presenza in essa di innumerevoli forme di vita, possono costituire motivo per sviluppare sentimento di rispetto e di amore per tutte le creature e di riconoscimento di Dio creatore». Insomma, l'osservazione della natura per convalidare l'ipotesi creazionistica e per venerare Dio, ovviamente secondo la dottrina cattolica. Comunque, nella pratica, l'istituzione vera sul territorio nazionale di tali scuole sarà lentissima ed ancora oggi lungi dall'essere completata. Nessun cambiamento importante si avrà invece sia a livello di scuola media inferiore che superiore. Vi saranno delle proposte al Parlamento che non saranno mai discusse: quella del 1951 che tendeva a dare alla scuola un carattere più prossimo al modello gentiliano (nella versione Bottai) e più apertamente clericale (ministro Gonella) e quella del 1959 per riformare la secondaria con l'istituzione del liceo magistrale quinquennale (ministro Moro). Si cambieranno più volte gli esami di maturità, spesso in modo più selettivo. La Chiesa avrà la torta più importante nelle maglie dei continui ritocchi:

facilitazioni per la Scuola magistrale di formazione delle maestre d'asilo, quasi tutta privata cattolica; Scuole popolari affidate all'Associazione italiana maestri cattolici; Centri didattici nazionali, di origine bottaiana, rivivificati e affidati a pedagogisti cattolici; Consiglio superiore con inseriti gli insegnanti di religione cattolica, non previsti dalla legge; istruzione professionale, in gran parte privata e cattolica, riassunta nel ministero dell'Istruzione con una sua Direzione generale, e così via amministrando. Il tradizionale rapporto tra scuola statale e scuola privata, quale era stato posto nell'Ottocento liberale, ne risultò alterato a vantaggio di quest'ultima.