Alessandra Pescarolo (1991), Lavoro, protesta, identità: le trecciaiole fra Otto e Novecento, in...

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Alessandra Pescarolo

PARTE II LAVORO, PROTESTA, IDENTITA' FEMMINILE: LE TRECCIAIOLE FRA OTTO E NOVECENTO

I SISTEMI DI LAVORO A DOMICILIO NELLE CAMPAGNE MEZZADRILI: ELEMENTI DI UN

MODELLO INTERPRETATIVO.

Le ricerche sulla protoindustria hanno identificato nell'industrializzazione delle campagne,

nella rilocalizza-zione in ambiente rurale di numerose attività manifatturiere urbane un

fenomeno esteso che ha svolto un ruolo essenziale nella genesi del capitalismo industriale

moderno. In una vasta area (Europa, Asia), è stato verificato un tale sviluppo della

manifattura rurale. Intenso soprattutto nel Seicento e nel Settecento, ma prolungato fino

all'Ottocento nei paesi "ritardatari" questo processo ha dato luogo successivamente,

secondo questa linea di ricerca, ad un processo di industrializzazione e di urbanizzazione

su larga scala, oppure ad un declino e ad una progressiva "deindustrializzazione"(1). Alla

radice della rigidità dell'alternativa vi è la componente "socio-demografica" del modello ,

che certamente ne rappresenta l'aspetto più nuovo e affascinante ma anche il più

problematico. La parziale proletarizzazione degli agricoltori nei villaggi protoindustriali

porrebbe fine alla demografia restrittiva contadina, innescando un processo demografico

ad alta fecondità che ha conseguenze catastrofiche sulle condizioni di vita della

popolazione: la crescita della fecondità creerebbe una sovrappopolazione crescente, il

frazionamento estremo dei terreni, la completa proletarizzazione dei contadini ed una

spirale involutiva dei salari (2). Così come la nascita della protoindustria aveva le proprie

radici in un primo sviluppo demografico, i meccanismi del popolamento ne decreterebbero

la morte sradicando i contadini dalla terra e ponendo le condizioni favorevoli per

l'industrializzazione su larga scala. Le alternative di sviluppo che si aprono a questo punto

alle aree protoindustriali sono la miseria o l'industrializzazione su basi di fabbrica.

La rigidità di tale alternativa (industrializzazione su larga scala/deindustrializzazione) è

stata criticata in modo sfumato, serbando il nucleo centrale del ragionamento, o in modo

radicale (3). Il caso italiano, con la sua industrializzazione rallentata, tardiva, diversificata

per aree regionali, non può evidentemente essere racchiuso entro le possibilità offerte da

una visione così polarizzata del processo di industrializzazione. Per quanto riguarda il

triangolo industriale, il concetto di protoindustria è stato piegato, attraverso un uso

elastico, a descrivere il lungo "blocco protoindustriale" ottocentesco dell'arco alpino. Una

manifattura a domicilio diffusissima ma sempre marginale rispetto all'agricoltura, i primi

embrioni del sistema di fabbrica, l'attrazione di una parte della sovrappopolazione verso

aree europee più sviluppate, sono tutti processi contemporanei che articolandosi insieme

costituiscono i fondamenti di una sequenza protoindustriale specifica che lentamente

sfocia nell'industrializzazione vera e propria (4). Ma il caso della Terza Italia, dei sistemi di

industrializzazione diffusa, caratterizzati da un'esplosione ritardata del decentramento

nelle campagne del lavoro a domicilio e dalla coesistenza di un continuum di dimensioni

aziendali medio-piccole sembra sfuggire ad ogni possibile dilatazione del concetto di

protoindustria (5). L'industrializzazione infatti giunge qui, al termine di lenti processi di

involuzione ed evoluzione, in un'epoca in cui la dimensione aziendale non è più il

parametro di una sua effettiva riuscita. In realtà la nebulosa dei sistemi di piccola e media

impresa comprende molte realtà diverse e non è facile valutare il ruolo ambivalente delle

eredità del passato, la loro capacità di trasformarsi in attivi fattori di mutamento. Un'estesa

sovrapposizione fra le regioni in cui all'inizio del Novecento aveva un peso particolare

l'agricoltura appoderata (contadina o mezzadrile) e quelle dell'industrializzazione diffusa

di oggi è stata messa in luce da Bagnasco (6). Si può dunque pensare che anche qui, come

nel modello protoindustriale, l'agricoltura contadina conti ancora come prerequisito, ma

l'evoluzione di queste aree tenga conto della loro collocazione periferica rispetto al

triangolo industriale. Restano da identificare, per i principali sistemi sub-regionali della

piccola e media impresa, i percorsi, i tempi e le modalità della transizione da una realtà

prevalentemente agricola ad una organizzazione sociale che, al di là di ogni giudizio di

valore sui vantaggi della piccola e della grande dimensione, appare consolidata nei suoi

caratteri industriali (7).

Per colmare lo iato fra le immagini sociologiche degli attuali sistemi di piccola e media

impresa e la conoscenza della loro genesi storica gli strumenti indicati dal dibattito sulla

protoindustria sono fecondi se considerati in tutta la loro ricchezza metodologica: in

particolare è importante il riferimento alla micro-analisi della famiglia. Per quanto riguarda

il caso toscano, l'estensione, la durata, e i tempi del dissolvimento del sistema mezzadrile,

sembrano in questa prospettiva la chiave di volta di ogni discorso sia sul ritardo che sulla

esplosione dell'industrializzazione delle campagne. Infatti questa ricerca mette in evidenza

un dato coerente con altri recenti sondaggi, che sottolinea la specificità di questa forma

contrattuale per quanto riguarda la distribuzione delle energie lavorative della famiglia:

rispetto ad altre forme di agricoltura contadina la mezzadria non impedisce, ma definisce

in forme marginali (limitando alle donne, alle "seconde forze" della famiglia) la

penetrazione e il ruolo del lavoro a domicilio (8). Fin qui non sarebbe dunque smentita una

vecchia osservazione di Dal Pane sulla marginalità del lavoro a domicilio nella Toscana

ottocentesca.

"quei redditi che gli addetti alle lavorazione dei cappelli di paglia e della tessitura procuravano alle loro famiglie cooperavano a rendere stabile in Toscana il sistema mezzadrile e a impedire il distacco dei lavoratori agricoli dalla terra"(9).

Dal Pane aggiungeva, poi, che le trecciaiole e le filatrici guadagnavano un tozzo di pane "o,

come solevano dire i mezzaioli, i quattrini per il sale".

Nel complesso la mezzadria è apparsa fino ad oggi agli studiosi, sia nella prospettiva

dell'industrializzazione su basi di fabbrica che in quella più articolata delle "fasi"

industriali, come una sistema rigido, sovraimposto alla società toscana, che oppone - dalla

sua formazione al suo repentino sfacelo dell'ultimo dopoguerra - una sorta di lungo blocco

all'industrializzazione (10). Al di là di un diverso giudizio di valore sull'esito del processo e

sulle possibili alternative economiche e politiche, quest'impostazione non sembra

contrastare sul punto che qui interessa -il ruolo e la formazione dei sistemi di lavoro a

domicilio - con l'interpretazione di quegli studiosi nella società mezzadrile hanno visto il

serbatoio esclusivo di una riserva di energie latenti, operaie e imprenditoriali, sfociate

nell'industrializzazione diffusa. Quando queste si liberano, attraverso la crisi sociale del

secondo dopoguerra, nel mutato quadro interno e internazionale, gli ex mezzadri

divengono i protagonisti dell'esperienza dell'industrializzazione (11).

Questa ricerca nasce dalla necessità di verificare e articolare queste ipotesi confrontandole

con l'effettivo spessore che la realtà del lavoro a domicilio aveva nella Toscana

dell'Ottocento e dei primi decenni del Novecento. L'obiettivo è dunque rintracciare gli

spazi, i tempi, il ruolo sociale e demografico, del lavoro a domicilio, per tornare con

maggiore consapevolezza su una serie di interrogativi relativi alle connessioni fra questo

settore e la realtà sociale circostante. Rappresentava davvero, il lavoro a domicilio, una

integrazione marginale e precaria delle attività delle famiglie coloniche, che contribuendo a

stabilizzarle, ritardava la formazione di un proletariato libero disponibile

all'urbanizzazione e all'industrializzazione su larga scala? Per rispondere ai quesiti sulla

formazione del proletariato è indispensabile confrontarsi con l'ipotesi demografica

"protoindustriale" di una fecondità differenziata fra aree strettamente agricole e paesi della

manifattura a domicilio. La vitalità demografica delle aree di lavoro a domicilio esercitò una

funzione attiva e feconda anche come prerequisito del costituirsi dei sistemi di piccola e

media impresa? E' sembrato essenziale, in questa prospettiva di ricerca, mettere al centro

del discorso la manifattura fiorentina dei cappelli, in primo luogo di per sè, come settore

principale dell'industrializzazione delle campagne toscane ottocentesche, in secondo luogo

come elemento di connessione che evidenzia le linee di diffusione di altre esperienze di

lavoro a domicilio.

Per quanto riguarda il primo punto (gli spazi del lavoro a domicilio), la cronaca degli

scioperi delle trecciaiole del 1896-1897 e del 1911, insieme ai dati sulle famiglie delle

scioperanti, cancella immediatamente l'idea che il lavoro si facesse solo o prevalentemente

nelle famiglie coloniche, e rivela una realtà diversa, quella dei paesi dove vivevano

agglomerate le trecciaiole pigionali. Un tozzo di pane per le famiglie dei paesi e dei borghi

di campagna era appunto la base della sopravvivenza. Operai, braccianti, pescatori part-

time, lavoratori dai cento mestieri, barrocciai e granatai, tessitori e cannellai: una grande

varietà di figure ruota intorno alla manifattura sia traendone direttamente un guadagno

nelle fasi di maggiore espansione sia trovando un sostegno vitale nel lavoro delle donne

della famiglia. Gli scioperi svelano, anzi il problema dei diversi gradi di bisogno e offrono

informazioni sulle articolazioni interne e sulle demarcazioni fra i ceti popolari, accentuate

dalla miseria. Le "pigionali", le lavoratrici povere che vivevano nei borghi e nelle case lungo

le strade si consideravano le vere trecciaiole, e chiedevano che le mezzadre, a cui non

mancava il pane, fossero escluse dal lavoro. Intere comunità, in un'area che coinciderà poi

largamente con quella della geografia elettorale socialista, sostenevano l'azione delle

donne.

Per quanto riguarda il secondo punto - i tempi dell'esperienza del lavoro a domicilio - va

sottolineato la continuità di una vicenda che fu sempre oscillante, ma non si esaurì con la

fine dell'Ottocento. Qualche dato regionale servirà a chiarire quest'affermazione

l'anticipazione di un dato: nel 1911 il censimento della popolazione registrava un numero

di trecciaiole superiore a quante la stessa fonte ne avesse mai contate: 83.288 lavoranti fra

trecciaiole e fiascaie. Un numero consistente, se si considera che le donne in età adatta a

svolgere un'attività erano poco più di 1.000.000 (12).

Il numero delle trecciaiole oscillava e di nuovo cresceva nei primi decenni del Novecento.

Ma i salari non si evolvevano nello stesso senso: lo iato fra la diffusione quantitativa e il

reddito offerto dalla manifattura portava agli scioperi.

Due vincoli demilitavano il campo dei possibili percorsi di ricerca. Da un lato l'assenza di

cognizioni generali sulla storia della manifattura, dall'altro la disgregazione delle fonti

d'archivio in un'area povera di memoria e di consapevolezza del proprio passato. La scelta

di ricerca e di esposizione del lavoro è stata dunque, piuttosto che di impostare uno studio

di comunità, di articolare un quadro d'insieme con alcuni approfondimenti micro-analitici.

E di partire, appunto, dai tumulti, che rivelano la struttura territoriale e sociale dell'arte

della treccia (cap. II), per poi identificare nel secondo capitolo i principali elementi di un

quadro generale dello sviluppo ottocentesco dallo slancio della manifattura degli anni della

Restaurazione, alla crisi che a fine secolo ne segnala il declassamento a settore a salario

decrescente (Cap. III, par. 1). Si è quindi costruito un quadro complessivo sociale e

demografico di una porzione di territorio (la piana di Firenze fra Lastra a Signa, Signa,

Campi, e Prato) molto investita da questa lavorazione e dove alla fine del processo -ancora

oggi- il lavoro a domicilio si ramifica nei popolosi paesi che fanno da contrappeso

all'urbanizzazione di Prato e di Firenze (Cap. III, par.2).

Per valutare più chiaramente il ruolo del lavoro e dei redditi che ne derivano nelle

economie familiari dei diversi strati sociali (mezzadri e borghigiani, ceti popolari e strati

intermedi), si è portato avanti un approfondimento dei microprocessi che si accompagnano

al mutare del peso e del ruolo della paglia in due parrocchie specializzate nella manifattura,

ma diversamente dipendenti dal suo ciclo di sviluppo nel lungo periodo (cap. III, par.3 e 4).

Emerge da questa ricostruzione che la paglia da settore principale della sussistenza delle

famiglie non coloniche vede progressivamente diminuire il suo peso in termini di salario e

quindi la sua capacità di attrazione, la sua concorrenzialità relativa nel mercato del lavoro.

Se la prima ondata almeno nell'area centrale di Lastra, Signa e Campi aveva attratto anche

gli uomini dando luogo alla cooperazione di tutta la famiglia, successivamente col

declassamento del settore la "segregazione femminile" prende il sopravvento.

Paradossalmente, in conseguenza di specifiche strategie sociali, essa diviene la norma

anche dove gli uomini non hanno lavori alternativi. In ogni caso, attraverso una continua

oscillazione il settore resta importante per il popolamento dei paesi e dei borghi: sia dove

resta la principale fonte di reddito (a Lastra, a Signa, a Campi) sia dove (nei paesi della

piana pratese) altre fluttuanti fonti di lavoro a domicilio attraggono gli uomini delle

famiglie. Dove in particolare (come nel caso di Campi) la popolazione operaia, addensata

nei paesi della paglia, prevale sulle famiglie dei mezzadri, la natalità fu vivacissima non

soltanto nel periodo del primo slancio ottocentesco, quando superò per due decenni il 50

per mille, ma anche, in termini differenziali rispetto agli altri comuni della regione, per

tutto il secolo. Saldi naturali elevati offrivano risorse non solo ad una vivace crescita della

popolazione dei paesi ma anche all'emigrazione verso Prato e Firenze. Anche Brozzi,

Lastra, e in misura inferiore, Signa e Carmignano si distinguevano rispetto agli altri comuni

per una natalità più vivace. La notevole natalità dei comuni della paglia tuttavia tendeva a

declinare e a convergere con quella delle altre aree. Anche il flusso di emigrazione,

proporzionato alla vivacità degli andamenti naturali e crescente nel tempo, regolava la

crescita della popolazione. L'andamento diverso di Prato, dove saldi naturali più bassi

erano compensati da una crescente immigrazione, era collegato alla presenza del centro

urbano e di una manifattura tessile sempre più dinamica, ma anche ad un peso diverso e

crescente della mezzadria che nel corso del secolo sembra allentare i meccanismi

malthusiani per imboccare la via del neo-malthusianesimo (13).

Quali diversità e quali analogie col modello protoindustriale caratterizzano il lavoro a

domicilio nella piana fiorentina? Sotto il profilo sociale resta centrale il ruolo della

mezzadria, che lega rigidamente i contadini maschi all'agricoltura. Tuttavia il discorso deve

essere articolato per comprendere ciò che grazie a questo sistema si crea al di fuori di esso.

La mezzadria lascia che nel lavoro a domicilio si specializzino gli strati più poveri che

immigrano nei borghi da altre aree o sono espulsi dalle stesse famiglie coloniche. Si crea

così uno strato di contadini senza terra interamente proletarizzati, non specializzati,

disponibili a ogni tipo di lavoro: braccianti mantenuti dalle mogli nella stagione morta,

lavoratori a domicilio part-time. Piuttosto che impedire "il distacco dei lavoratori agricoli

dalla terra" la manifattura dei cappelli contribuisce, almeno nelle sue fasi più prospere, alla

proletarizzazione di strati contadini, alla formazione di uno strato precario e libero ma non

sradicato.

La permanenza e la riproduzione di una quota notevole della popolazione nei borghi, nei

villaggi, è alla radice del formarsi, in queste zone, di quel tessuto originale

dell'insediamento, cui è stato dato il nome di "campagna urbanizzata", consolidato

successivamente dalla crisi della mezzadria. Almeno fino alla svolta del Novecento, la

crescita della popolazione e lo sviluppo manifatturiero si traducono in una riproduzione

parallela dei due settori: il lavoro a domicilio e l'integrazione dei redditi agrari consentono

alla mezzadria di scaricare al di fuori le proprie eccedenze demografiche conservando al

suo interno modelli matrimoniali relativamente restrittivi. Finchè il lavoro a domicilio

rappresenta per gli strati più poveri una possibilità di vita ma non un'alternativa migliore

alla condizione contadina i due strati convivono in luoghi separati e con modelli di vita

diversi. Ma la convivenza di queste figure sociali diverse (coloni, operanti e lavoratori a

domicilio) complica il modello a due stadi della "protoindustria". Grazie a questo

meccanismo di riproduzione parallela, vi è alla fine una regolazione demografica e sociale

efficace. La proletarizzazione è controllata, morbida, circondata da freni demografici, e

tuttavia garantisce riserve di manodopera a basso prezzo, adattabile e non specializzata,

indispensabili alla genesi oscillante, precaria e misera, dell'industrializzazione diffusa.

Anche le società compatte e poco polarizzate dell'Italia di mezzo hanno dunque una delle

loro radici nella cultura degradata ma vitale, dei lavoratori protoindustriali. Nei

comportamenti, nella rappresentazione di queste figure, per quanto è possibile seguirne le

tracce, appaiono tratti comuni ad altre immagini delineate dalla storiografia degli strati

operai più miserabili dell'epoca protoindustriale: vi si rintracciano infatti alcuni elementi di

quella "cultura plebea" di cui Medick ha definito i contorni sulla base delle sue ricerche sui

tessitori a domicilio della Germania del Seicento (14): una costruzione che tuttavia appare

influenzata dal riferimento a una realtà del nostro tempo, quella degli strati proletari dei

paesi in via di sviluppo.

Nel caso dell'area della paglia l'ambivalenza dei comportamenti, che certo è amplificata

dalla natura delle fonti utilizzate, sembra tuttavia coagularsi intorno ad alcune costanti:

questo strato appare continuamente in bilico fra una realtà di miseria e la messa in scena,

l'esibizione della virilità, della forza, dello status sociale. I gesti e il linguaggio suggeriscono

l'idea di un'oscillazione fra una solidarietà forte, fondata su un costume di intensa socialità,

su una cultura specifica che simbolizza in vari modi l'ironica accettazione di una comune

condizione di miseria, e la fuga (un'evasione mentale assai più spesso che reale) verso altri

mondi. Le liti per questioni di status, la diffusione del gioco d'azzardo, che evidenziano una

visione in qualche modo mitizzata dell'onore sociale e del denaro, riflettono questa seconda

faccia dell'ambivalenza.

La sincronia fra l'industrializzazione a domicilio e i processi di radicalizzazione politica in

corso alla fine del secolo porta alla costituzione di una stretta saldatura fra solidarietà

sociale e mobilitazione politica. Ma come effetto combinato della continuità del ruolo

simbolico "debole" della figura femminile nelle relazioni sociali (caratteristico di una

società paternalistica) e della realtà "forte" del lavoro delle trecciaiole, del suo peso

nell'economia familiare (sia sul terreno sociale che su quello politico) il tessuto connettivo

fra queste figure proletarie è rappresentato alle donne. Da un lato le comunità possono

affidare alle donne il compito di rappresentare i loro bisogni alleggerendo così il peso del

conflitto. Dall'altro la stabilità, la sopravvivenza di queste comunità, la loro possibilità di

sottrarsi all'emigrazione di massa sono effettivamente affidati al lavoro femminile. Per

questi motivi la manifattura della paglia, con le sue protagoniste, conserva a lungo un ruolo

"centrale" e di connessione, che si manifesta anche nella protesta sociale. Le donne e

difendono il cespite più stabile del sostentamento delle famiglie e delle comunità o

svolgono un ruolo di "avanguardia" nelle lotte di altri strati ( i cenciaioli di Prato).

Il caso delle trecciaiole fiorentine spinge a riconsiderare il nesso fra lavoro ed

emancipazione femminile e rende necessario discutere l'idea che il lavoro delle donne,

negli strati popolari, si sia sempre associato a una posizione servile o comunque subalterna

(15). Esso suggerisce piuttosto di guardare al mutare della stratificazione sociale nei ceti

popolari e alle ideologie collegate, ai ritmi sfasati, non lineari con cui le ideologie toccano

uomini e donne. Dove le idee socialiste giungono prima della specializzazione maschile del

lavoro operaio e della politica le donne possono divenire, almeno per una breve stagione,

protagoniste di una costruzione ideologica collettiva.

2. LE DONNE COMANDANO?

GLI SCIOPERI DELLE TRECCIAIOLE TOSCANE (1896-1914)

1. Gli scioperi delle trecciaiole toscane: i più vasti scioperi italiani dell'Ottocento.

Maggio 1896. Nelle cittadine e nei borghi che con specializzazioni diverse contribuiscono al

sistema disperso ma integrato della lavorazione fiorentina della paglia si accende uno

sciopero di grande estensione. In una vasta area che si allarga intorno alle due sponde

dell'Arno, da Firenze verso la foce del fiume le trecciaiole, le donne che lavorano i cappelli

di paglia, insorgono contro le continue diminuzioni del loro salario. Le statistiche nazionali

registrano 40.000 lavoranti in sciopero sia per quest'anno che per il 1897. Sono cifre

inattendibili, buttate giù ad occhio dai comandi della P.S. e dai sindaci (16). Il numero delle

scioperanti registrato, tuttavia, era tale da provocare una repentina impennata degli indici

altrimenti stagnanti della conflittualità dei "cappellai", la voce della classificazione

nazionale che includeva le trecciaiole. Nei due decenni di fine Ottocento essi divenivano per

numero degli scioperanti la terza categoria dopo i tessili , che conducevano nelle fabbriche

del Nord un'intensa azione di resistenza, e i minatori, una voce che rifletteva il movimento

legato ai Fasci Siciliani. Si trattava di due episodi caratterizzati da una straordinaria

diffusione territoriale che ne faceva i più vasti scioperi italiani dell'Ottocento.

Ma gli originali caratteri di questo movimento (un'agitazione condotta, in una fitta rete di

borghi, di paesi, di cittadine, da lavoranti a domicilio di sesso femminile), estranei alle

immagini prevalenti negli studi sul movimento operaio, hanno impedito agli studiosi di

vedere, dietro alle quantità statistiche, i processi che le avevano generate, e di ritrovare nel

movimento delle trecciaiole un anello significativo del radicamento iniziale del movimento

operaio. La logica "nazionale" degli studi di storia del movimento operaio impediva di

ricollegare il movimento alle sue radici territoriali. Solo una diversa prospettiva, di studi

regionali colto la vivacità del conflitto sociale nella Toscana di fine Ottocento. Il carattere di

confine del movimento - fra città e campagna - i suoi legami con il processo di

radicalizzazione politica di queste stesse aree, restano tuttavia da chiarire (17).

Gli scioperi nascevano nei borghi della pianura fiorentina e pratese, o nelle città piccole e

medie (Lastra a Signa, Signa, Sesto,Prato) di questa stessa area. La vastità dello sciopero lo

avvicinava al modello caratteristico della conflittualità agraria, delle agitazioni bracciantili

(18). Tuttavia questo caratteri della conflittualità (una scarsa frequenza, un'ampia

dimensione) hanno continuato a caratterizzare le regioni "rosse" , ed in particolare la

provincia di Firenze, anche nella fase dell' industrializzazione, successiva alla seconda

guerra mondiale.

La presenza delle trecciaiole sulla scena corale dei grandi conflitti di piazza - con un ruolo

di guida o comunque molto attivo - avrebbe caratterizzato i tumulti per il prezzo del grano

del 1898, violenti, nella cintura fiorentina, a Sesto e a Prato. Progressivamente, in seguito,

questa sarebbe divenuta una componente fra le altre di una conflittualità regionale

indebolita, nell'età giolittiana. Ma una traccia ben chiara della radicalizzazione popolare

sarebbe rimasta negli alti livelli del voto socialista, che distingueva la cintura di Firenze

dalle campagne del Mugello e del Chianti. Scriveva un commentatore politico socialista nel

1901:

"In confronto di queste macchie nere di quale conforto ci sono i rinnovati dintorni di Firenze. Ivi la Vandea è sparita, il soffio nuovo è passato ed ha rifatto la coscienza degli uomini. Sesto in prima linea, Signa, Campi, Brozzi, Peretola, Rovezzano, Settignano, tutti questi paesi ove non molti anni addietro non si poteva parlare di socialismo sono conquistati o sulla via della definitiva vittoria"(19).

Colpisce - in questa testimonianza - l'esatta coincidenza fra la geografia della paglia e quella

del consenso elettorale socialista. Un consenso destinato a stabilizzarsi: Campi, Brozzi, e

Lastra ebbero, in età giolittiana, amministrazioni socialiste (20). E che, successivamente, si

sarebbe trasformato. Il successo elettorale del PCd'I, che al suo formarsi raggiungeva a

Brozzi il 34 % dei consensi sottolineava un grado di radicalizzazione politica

particolarmente intenso anche se confrontato con gli altri comuni "rossi" toscani e italiani

21. Uno sciopero femminile, dunque, inserito in un tessuto sociale e politico in via di

trasformazione, in cui il mutamento del voto (in epoca di suffragio parziale ed

esclusivamente maschile) segnala una trasformazione ampia e diffusa. Gli scioperi si

svilupparono in modo spontaneo, e fra gli agitatori presenti nelle piazze si segnalarono gli

anarchici venuti da Firenze o altri "sovversivi" non meglio identificati. La Camera del

Lavoro, invece, intervenne nel primo sciopero quand'era già avviato 22. Ma le agitazioni

segnarono l'inizio di un processo di radicamento dei socialisti nell'area, segnalato dalla

presenza di Pescetti e di Rosadi nei collegi di difesa, e dal successo crescente dei comizi

socialisti. Nel '97, anzi, lo sciopero fu dichiarato dalle donne alla conclusione di un comizio

di Pompeo Ciotti e i tumulti di Signa scoppiarono per la delusione destata dal mancato

arrivo di Pescetti, convocato dopo l'arresto di una delle donne (23).

Lo sciopero del '96 fu, per il ceto liberal-conservatore, uno shock non irrilevante. Il

movimento - per i contemporanei come per noi - era la spia della complessità di una realtà

rurale spesso omologata alla mezzadria e concepita, dunque, come un mondo organico ed

equilibrato. L'arte della paglia veniva considerata, genericamente, un'attività caratteristica

delle contadine, e descritta attraverso immagini stereotipate, come il pagliaiolo che coltiva

il buon grano da paglia locale e la trecciaiola, linda e decorosa negli abiti, che lavora all'aria

aperta. La rivolta mostrava invece che una improvvisa incrinatura si era aperta in questa

realtà (9).

La lavorazione si svolgeva in forme che fino allora avevano assicurato ai fabbricanti, ai

negozianti, agli intermediari, un controllo unilaterale del mercato del lavoro, e che

sembravano poter funzionare a lungo come punti d'appoggio di un equilibrio sociale

tradizionale. Due requisiti della manifattura offrivano, da questo punto di vista, una

garanzia. Anzitutto il carattere disperso della lavorazione, isolando i lavoratori nelle loro

abitazioni, nei loro paesi, avrebbe dovuto limitare l'influenza delle ideologie democratiche,

anarchiche e socialiste, e delle forme di lotta sociale che investivano gli operai delle città.

L'altro requisito della manifattura che avrebbe dovuto garantire la durata di un'attitudine

deferente verso i datori di lavoro era il fatto che si trattava, prevalentemente, di

un'industria femminile.

Le cronache dei tumulti rivelavano clamorosamente che queste garanzie non erano più

efficaci: uno sciopero di lavoranti a domicilio, e, al tempo stesso, un movimento di donne: lo

svolgimento delle agitazioni evidenziava una straordinaria compattezza delle scioperanti,

anche nei più piccoli borghi della campagna, ed una rete fittissima di comunicazioni fra un

borgo e l'altro, fra i borghi e i centri maggiori.

Il sesso delle scioperanti, in un'azione così vasta e radicale, era l'aspetto che destava il

maggior stupore. Uno sciopero di donne, e tuttavia un movimento diretto dall'interno, man

mano che si sviluppava, in forme spesso violente. Intorno a questo nodo, che insieme alla

dispersione territoriale costituiva l' originalità dell'evento, si possono rileggere tutta una

serie di sfumature che ne complicavano il significato. Sulla scena dello sciopero compare

una grande varietà di figure femminili.

2.Donne e generali: La Baldissera e la Garibaldina

Il registro comune, che collega tra loro i singoli episodi della protesta, è quello

dell'emotività a lungo repressa, finalmente liberata e messa in atto. In tutti i centri della

lavorazione lo sciopero si organizza attraverso i raduni sulla piazza del paese e i cortei che

si snodano da un centro all'altro seguendo la traccia di una grande sceneggiata. Con episodi

a volte tragicomici, a volte drammatici, sempre movimentati, che si moltiplicano in uno

straordinario clima di trasgressione delle forme abituali di deferenza, di rovesciamento

delle gerarchie sociali.

Il 18 maggio le trecciaiole insorgono a Peretola. Secondo una testimonianza indiretta ma

affidabile esse gridano "Pane e lavoro" (24). Il tema del pane che manca, dell'impossibilità di

continuare a campare, percorre lo sciopero. Un gruppo alla testa del corteo porta il

tricolore, ma l'azione diviene violenta quando le forze dell'ordine intervengono e un

maresciallo dei carabinieri sequestra la bandiera. Le donne improvvisano una sassaiola.

Alcune strappano le trecce alle compagne che lavorano. Quindi le dimostranti si sdraiano

sui binari e bloccano il tram a vapore che ogni giorno raccoglie le balle di treccia lungo la

linea fra Poggio a Caiano e Firenze. Si impadroniscono delle pezze di treccia e ne fanno un

falò. Infine vanno nelle case e impediscono alle altre donne di lavorare (25). Alla fine sono

caricate dagli squadroni dei carabinieri a cavallo.

Il controllo minaccioso del territorio, l'imposizione violenta della cessazione dell'attività si

estendono rapidamente. A Petriolo, un borgo dello stesso comune (Brozzi), un "picchetto"

di donne impedisce alle compagne l'ingresso nello stabilimento di Adele Becagli (26).

Il giorno successivo la Pubblica Sicurezza tutela, in quest'area, i movimenti dei negozianti e

degli intermediari venuti da Campi a portare il lavoro. Ma a Peretola una donna minaccia

un negoziante - Augusto Ballerini - che vuole ridurle il salario da 10 a 7 centesimi per

alcuni metri di treccia. Immediatamente lo sciopero dilaga in tutta l'area. Il movimento

sfocia nei consueti atti di danneggiamento delle fabbriche, nell'azione contro i gli

intermediari (i cosiddetti "fattorini") che distribuiscono il lavoro alle donne . Un crescendo

incalzante di azioni sottolinea la potenza, la forza collettiva delle scioperanti. I falò delle

trecce e le perquisizioni del tram e dei barrocci che portano la paglia divengono sistematici:

i mercati dove si vende la paglia e le linee di trasporto sono i centri nevralgici dell'azione 27.

La cessazione dell'attività delle donne è imposta dai cortei che si muovono dai centri più

grossi ai borghi ma soprattutto da questi alle cittadine più grandi. Come nelle frazioni del

Comune di Brozzi, anche negli altri paesi della cintura fiorentina (Ponte a Greve,

Impruneta, Settignano, Rovezzano) le donne costruiscono un linguaggio e una scena dello

sciopero. Inventano slogans, portano bandiere e trofei di paglia. Una regia attenta, che

segnala la volontà di richiamarsi alla tradizione democratica, di affermare la propria

appartenenza a una sfera di vita più vasta di quella del paese, della comunità locale. Le

radici della legittimità della propria azione vengono proiettate in uno spazio simbolico che

evoca il problema dei diritti del cittadino, del lavoratore.

A Ponte a Greve, un borgo del Comune di Casellina, compare nelle mani di una bambina di

10 anni una bandiera rossa. Il gesto, che segnala una precoce radicalizzazione dei

sobborghi operai lungo la Pisana, è sdrammatizzato dall'età della giovane protagonista, a

cui il vessillo è stato affidato da una trecciaia più anziana. Le donne adulte però portano più

spesso, nei giorni dello sciopero, il tricolore. All'Impruneta, il 22 maggio, una "turba di

donne scioperanti del Galluzzo, ingrossatasi nelle frazioni di Tavarnuzze, Montebuoni ed

altre, entra nel paese dell'Impruneta". Esse portano bandiere e cartelli. Il corteo si ingrossa

ancora e infine 500 persone si dirigono "schiamazzando" verso la piazza principale (28).

All'imposizione dello scioglimento fanno seguito tumulti ed arresti.

Bandiere, slogans, trofei, tornano anche nei cortei di Rovezzano. Il 25 maggio una

cinquantina di donne giunge nel paese da Settignano. Portano una bandiera sormontata da

un fascio di trecce e da un cartello che reca la scritta "Evviva l'unione". Alcune trecciaiole e

una contadina di S.Andrea a Rovezzano sottraggono della paglia a un fattorino e la

bruciano. Il 28, poi, si forma un nuovo corteo:

"Verso le ore 8 cominciarono a giungere vari gruppi di scioperanti nei pressi di Rovezzano e dopo circa un'ora erano già in numero di circa trecento, portando alcune delle trecce di paglia intorno alla vita e agli ombrelli"(29).

Questa volta l'iconografia dello sciopero associa in modo originale il ruolo professionale

delle donne e il ruolo sessuale, la percezione della propria femminilità, sottolineata dagli

ornamenti. Ma il corteo è sciolto dalla forza pubblica e molte donne vengono arrestate.

Le manifestazioni di Sesto e di Castello rivelano, in modo anche più chiaro di quelle del

Galluzzo, dell'Impruneta, di Rovezzano, la costruzione cosciente di una regia dello sciopero.

Qui per ben 4 volte , il 21 maggio, si formano "comitive molto numerose di donne e

ragazze" precedute da una bandiera, alla cui asta è appeso un fascio di trecce strappate. Le

trecciaiole gridano chiedendo la cessazione del lavoro e aumenti del loro salario. Uno

"strabocchevole" numero di donne partecipa all'episodio più violento, la rottura dei vetri

della fabbrica di cappelli Del Panta e Giachetti. Il giorno successivo molte donne di Castello

giungono al centro di Sesto per la via Vittorio Emanuele, precedute dalla bandiera tricolore.

Esse hanno la testa ornata di paglia strappata "a guisa di trofeo". Un barroccino tirato da un

ragazzo sconosciuto, carico di trecce strappate, segue il corteo (30).

Anche Prato, a partire dal 21, è attraversata da gruppi di scioperanti e manifestazioni.

Cortei con bandiere di formano il 23 a S. Rocco e a S. Trinita, due quartieri urbani. Poi un

nuovo corteo giunge dal borgo di Tavola: le donne con i bambini vanno in Comune

minacciando violenze contro i fabbricanti e le compagne che lavorano. La polizia si mobilita

alla notizia che i cenciaioli - uomini e donne che selezionano e preparano gli stracci per

l'industria tessile - vogliono entrare anch'essi in sciopero per chiedere salari più alti e

l'abolizione delle nuove macchine (i carbonizzatori) che sostituiscono una parte del loro

lavoro. Il 25 ci sono assembramenti nelle campagne e la P.S. respinge le trecciaiole di Campi

che si dirigono verso Prato. Il 26 un corteo di donne pratesi raggiunge Sesto. Infine, con

l'estinguersi dello sciopero, il 29 sulla piazza del Palazzo Municipale si crea una divisione.

Un gruppo che manifesta al questore il desiderio di riprendere il lavoro e di ottenerne per

suo tramite dai fattorini, mentre altre donne perseverano nello sciopero. Una delle donne

favorevoli allo sciopero è arrestata. Secondo l'accusa essa si è rivolta alle compagne e alle

crumire con queste parole:

"Ma che state a sentire le chiacchiere di quelle a pancia piena che stanno là...se non ci danno quello che ci devono dare non si ripigliano le trecce, se le ripigliate si verrà a casa vostra e vi si strapperanno e se vi si trovano addosso vi si bruceranno e se venite qua vi capiterà di peggio" (31).

A Signa - il piccolo centro sulle rive dell'Arno da cui la lavorazione si è irradiata in tutte le

direzioni - e a Lastra -il comune di confine- al di là dell'Arno, l'agitazione si svolge

attraverso episodi di grande vivacità. La cittadina di Signa vanta un'antica tradizione nella

lavorazione del cappello: qui le scioperanti ottengono che le piccole trecciaiole vengano

sussidiate a partire dai 7 anni, a riprova di quanto sia riconosciuta nella comunità

l'importanza di questo lavoro. Nel cuore dello sciopero, dopo l'ondata di arresti del 21 ha

luogo, nel centro di Signa, un corteo che raggruppa "diverse migliaia di donne", certo tutte

le trecciaiole della cittadina e dei suoi borghi, se di considera che in quest'epoca Signa

conta circa 8.000 abitanti 32.

"Grossi gruppi di donne si radunarono attorno a delle bandiere al suono di trombe. Ogni bandiera portava all'estremità dell'asta un mazzo di paglia, una treccia o un cappello. Indi i diversi gruppi si unirono, formando una folla di diverse migliaia ed al suono di trombette e di un tamburo, si recarono prima a Lastra, ove furono arringate dal Sindaco, poi a Calcinaia, ove la dimostrazione fece chiudere la fabbrica Scarselli" (33).

Nei borghi dei dintorni di Firenze, a Sesto, a Prato, a Signa, l'intensa attività delle trecciaiole

si manifesta da un lato nella violenta imposizione dello sciopero, dall'altro

nell'affermazione radicale del diritto al lavoro e a un salario dignitoso. La provocazione, la

dimostrazione di forza, si associano alla costruzione di un sistema di comunicazione con il

mondo esterno.

L'altro centro dove lo sciopero raggiunge la massima intensità è Campi. E' un comune

esteso, formato da un centro urbano limitato, appartato dalle vie provinciali, e da due

grossi borghi a cavallo della via Pistoiese (S.Cresci e S.Piero a Ponti). Il paese si trova nel

baricentro della piana dove la lavorazione è più diffusa: vi risiede il maggior numero dei

"fattorini" che distribuiscono la lavorazione. Qui la violenza fisica, che esplode improvvisa e

poi tace è il registro esclusivo. L'azione raggiunge il culmine il 20 e il 21 maggio a S.Piero a

Ponti.

Il 20 maggio, a S.Piero, giunge il tram che trasporta la paglia, scortato dai Reali Carabinieri,

ma una folla di "circa 2000 persone" attende le vetture. Ne deriva una vera e propria

sommossa.

"Una turba minacciosa assaliva alle ore 17 uno di quei treni, pretendendo di verificare se tra i bagagli vi fossero colli di quella mercanzia di cui si agognava la distrazione, e all'intervento degli agenti...fu risposto colle violenze. Si venne a colluttazione colle guardie di città e coi carabinieri, ed una di esse guardie, di nome Ferri Giulio, venne separata a viva forza dagli altri agenti, malmenata, percossa dalla turba fanatica, inseguita per un tratto di oltre un chilometro e disarmata della rivoltella alle grida di 'ammazzalo! ammazzalo!'" (34).

Il giorno seguente il tram che giungeva a S.Piero a Ponti alla stessa ora era scortato da un

"buon nerbo" di Carabinieri Reali. Nonostante l'intervento del deputato di Campi, il

marchese Ippolito Niccolini, giunto col tram per placare gli animi, i carabinieri vennero

assaliti. Al grido "Abbasso la forza, morte ai Cappelloni, sangue!", gli agenti furono presi a

sassate, e alle fine circondati e ingiuriati. Uno di loro fu privato del moschetto e del

cappello, mentre un corteo, nel vicino borgo di S.Cresci, prendeva a sassate l'abitazione,

attigua alla fabbrica, del negoziante Franceschini (35).

Ancora a Campi la violenza si scarica, oltre che contro i negozianti, contro i fattorini.

"La sera del 21 verso le 10 Valente Meucci uscendo dalla casa di Martinuzzi Ettore di S.Martino, portava sulle spalle una balla di trecce a fantasia del costo di L.17,50. Gli fu sopra Franceschini Giulia che con violenza voleva portargli via la balla delle trecce. Il Meucci aiutato dal Martinuzzi potè respingere la Franceschini; ma dopo 500 metri fu nuovamente aggredito da lei e da due bambini rimasti sconosciuti." Oppose resistenza ma intimorito dalle violenze e dalle minacce della Franceschini egli, vecchio di 74 anni, dovette cederle le balle e le trecce, e di queste venne subito fatto un falò nella piazza di S. Martino"(36).

I tanti episodi in cui si frantuma l'azione rivelano, come abbiamo visto, immagini diverse

delle protagoniste dei tumulti. Da un lato molte delle donne coraggiose e indipendenti, che

guidano la folla dietro al tricolore, ricordano le eroine plebee dell'iconografia democratica e

rivoluzionaria ottocentesca: esse si pongono alla testa di un movimento che chiede

miglioramenti e insieme propone una nuova considerazione dei propri diritti . Dall'altro

invece molti tratti delle cronache descrivono la figura femminile attraverso lo stereotipo

dell'isterica, sopraffatta dai propri contrasti emotivi: aggressiva, ma emotiva ed incostante,

essa provoca nelle varie figure che si incaricano della repressione reazioni che la

riconducono al proprio ruolo sociale di "minore", gesti che ridicolizzano le sue

provocazioni. A questa rappresentazione contribuiscono anche i piccoli eventi, gli episodi

minori, intessuti nella grande trama dello sciopero.

L'esito di questi contrasti fra la forza e da debolezza dell'immagine femminile è spesso

tragicomico. Nei primi giorni di sciopero un giovane apprendista telegrafico, figlio di un

fabbricante di Brozzi, dà uno schiaffo ad una scioperante ed è subito circondato e percosso:

"Il momento fu terribile: i carabinieri furono costretti ad innestare la baionetta per liberarlo e solo dopo molti sforzi riuscirono" (37).

E più tardi, a Sesto:

"Un fattorino di Barberino, che aveva sulle spalle una balla di trecce, è stato scorto dalle dimostranti e ha potuto salvarsi in fretta entrando nella macelleria Taiuti: per uscire poi da questa ha fatto gettare la balla da una finestra, ma la manovra è stata subodorata dalle scioperanti, che l'attendevano, le quali se ne impadronirono e ne fecero un falò. Un carabiniere, sopraggiunto, tentando di allontanare una delle donne, la tirava per la sottana, d'un tratto questa stracciò e la donna rimase ignuda e il carabiniere a stento ritenne l'equilibrio" (38).

Infine a Calcinaia, quando il corteo venuto da Signa invade una casa dove ancora si sta

lavorando:

"Alcune donne svennero; guardie e carabinieri, sopraggiunti, impedirono maggiori disordini" (39).

A Campi, ai margini dello sciopero scoppia una violenta rissa fra donne. Una delle

"caporione" dello sciopero è processata perchè ha aggredito la cognata che intendeva

desistere dallo sciopero:

"Avendo scorta la sua parente Sernissi Giulia intenta a lavorare la treccia, con un bastone le si fece incontro in atto minaccioso e tentò di strapparle di mano la treccia che la Sernissi Giulia fu lesta a nascondere in tasca: accapigliatesi poscia fra loro, dopo breve alterco, nel quale la Sernissi riportò delle graffiature alla faccia, la Malinconi venne messa in fuga dalla stessa Sernissi che, allo scopo di intimidirla, aveva posto mano al coltello"(40).

La figura della caporiona isterica e violenta è spesso la stessa che le cronache giudiziarie

identificano come incline a cedimenti e cadute su altri terreni. E', forse, la stessa donna,

quella che pochi mesi prima era stata condannata per lenocinio, per aver fatto prostituire la

figlia Cesira, orfana di padre "avervi lucrato sopra...e averla spinta a prostituirsi anche

quando era in casa" (41). Immoralità, licenziosità, spesso alcoolismo. Questi tratti

identificano uno stereotipo negativo, volto al femminile, del comportamento delle "classi

pericolose". Essi ricorrono tutti insieme nell'immagine della caporiona arrestata a Prato. Di

lei ricorda il questore della P.S. :"Ebbi in precedenza ad occuparmi di lei per affari

innominabili". Essa era infatti "notoriamente conosciuta di pessimi costumi". E un

bottegaio chiamato a testimoniare, certo per difenderla, aggiunge: "dubito che quel giorno

la Bresci avesse un po'bevuto" (42).

Fra le tante eroine della piazza, minacciose e provocatorie, una si sottrae tuttavia allo

stereotipo dell'isterica. E' la figura più nota e che fa spicco nelle cronache: la Baldissera di

Signa, la generalessa delle donne. Sprezzante, forte e coraggiosa, ha meritato di essere

chiamata col nome del generale che conduce l'impresa crispina in Eritrea. Il registro

ironico, il rovesciamento sarcastico della mitologia patriottica, implicito nel soprannome,

sottolineano in questo caso il distacco, l'alterità del popolo rispetto alla politica nazionale.

Vuole l'aneddoto che proprio la Baldissera alluda ai gendarmi mandati a reprimere lo

sciopero con la minacciosa battuta: "Mi paiono tre fiammiferi" (43). Il fuoco è lo strumento

di lotta, il deterrente che queste caporione contadine utilizzano con maggior dimestichezza.

Non il riferimento ai simboli di di un diverso ordine sociale, come le bandiere, ma la

potenza distruttiva e risanatrice del fuoco, è il mezzo per incutere timore e rispetto. I falò

che nelle feste contadine alimentano le speranze di purificazione e di rigenerazione della

comunità entrano a far parte, ora, del rituale dello sciopero.

La figura femminile presenta ancora questi volti diversi negli scioperi del 1897. Di nuovo il

conflitto fra le scioperanti e le forze dell'ordine si disperde - ai margini delle espressioni

collettive - in piccoli litigi, canzonature, offese reciproche fra scioperanti e forze di polizia.

Un brigadiere dei carabinieri è processato per essersi rivolto con l'espressione "brutta

bagascia" ad una donna che rifiutava di seguirlo in caserma 44. Una donna finisce in pretura

per aver rifiutato di dire il suo nome ai carabinieri "in tono quasi canzonatorio" 45 .I punti

nevralgici dell'azione sono questa volta Signa e Lastra: la polizia controlla il ponte sull'Arno

che divide i due paesi per evitare che sia percorso da gruppi e cortei (46). Qui si svolge, il 21

settembre, l'episodio culminante del conflitto, che provoca l'arresto di una donna e violenti

tumulti.

"Una turba di donne e di uomini si presentò alla fabbrica Cinelli di Signa e alla fabbrica Santini di Lastra a Signa per ottenere come ottenne la chiusura delle fabbriche, la sospensione del lavoro, l'allontanamento degli operai... Cecchi Fillide agitando i pugni con minaccia chiedeva categoricamente la chiusura della fabbrica" (47). "Il Cinelli nell'indicarla ...disse che la detta donna aveva concluso le sue minacciose intimazioni così: 'licenziate le donne e non le richiamate se non vi viene ordine'"(48).

Un'altra arrestata, Giuseppa Potenti, incitò il corteo dei dimostranti, dopo l'arresto della

Cecchi, alla caserma dei carabinieri, dove un agente fu ferito da una sassaiola.

Ma, ancora a Signa, di nuovo nel '97, ritroviamo un'altra immagine femminile, che rivela il

esiderio delle scioperanti di riferirsi, di partecipare alla tradizione democratica e nazionale:

"Ieri alcune ...avevano fissato di vestire una loro compagna da garibaldina. Costei doveva girare per i paesi con una bandiera, invitando tutte le lavoratrici a desistere dal lavoro. Anche quest'espediente venne denunciato" (49).

La sfaccettature diverse della figura femminile si spiegano, certo, anche con l'ambiguità del

linguaggio delle immagini, di una comunicazione allusiva e impressionistica. Inoltre,

l'aspetto festoso dello sciopero, l'abitudine di paese di vestirsi come si fa in città spingono

le scioperanti a sperimentare queste forme espressive senza soppesarne troppo il

significato. Le fonti che stiamo utilizzando amplificano, col loro tono di paternalismo

distaccato, l'impressione che le donne giochino una parte, e come bambini si servano degli

oggetti degli adulti in modo intercambiabile.E tuttavia il desiderio di imitare, di

partecipare, ci dicono che anche in queste aree appartate, in queste cittadine di campagna,

la mentalità popolare è intensamente influenzata dal ritmo delle trasformazioni sociali che

toccano i centri maggiori.

A Prato, a Sesto, le città operaie dal tessuto sociale più differenziato, in quest'area, anche il

maggio 1898 vede le trecciaiole in primo piano. E', ancora, l'immagine delle donne compare

con la sua ambiguità, con la sua complessità.

A Prato i disordini iniziano quando un corteo di braccianti giunge allla più grande fabbrica

tessile invitando i tessitori a scioperare. Si forma un corteo che saccheggia e brucia gli uffici

daziari e i magazzini dei cereali, poi dà fuoco alla fabbrica di pasta Fineschi. Alla testa del

corteo si trova una trecciaiola:

"Anche la Bandini Elisa si teneva alla testa della dimostrazione, sempre eccitatissima e diceva continuamente...'venite con me, si va ai magazzini, v'insegnerò io dove si trovano. E vociava: 'Popolo, perchè non ti muovi? Popolo vigliacco, vieni con me'" (50).

Nonostante la grave condanna inflitta i membri del tribunale militare attenuavano il

giudizio ricordando come la donna "di temperamento piuttosto isterico, esacerbata dal

languire della famiglia, a cui ella pure contribuisce col suo lavoro di trecciaiola,

scarsamente lucroso, si limitasse ad istigare gli uomini alla rivolta"(51).

Anche a Sesto, le trecciaiole incitavano il gruppo maschile alla rivolta, ma in forme che

evidenziavano una diversa percezione della lotta in corso. Un folto gruppo di trecciaiole

compariva accanto agl uomini nei tumulti. Facendo la treccia, esse discutevano sul prezzo

del pane. Le due animatissime giornate del '98 sestese, con le dimostrazioni e la sassaiola

seguite all'arresto di due socialisti e lo scioglimento forzato della dimostrazione ebbero un

esito tragico: cinque morti e dieci feriti52.Delle trecciaiole processate una "fu vista esortare

le altre donne e i ragazzi alla ribellione alle autorità", altre "furono viste e intese

chiaramente fra la turba delle tumultuanti lanciare invettive e gettare sassi contro la

pubblica forza agli ordini della quale resistevano", un'altra ancora "acquistò un drappo

rosso col quale fece una bandiera che diede a dei ragazzi che...spingeva avanti sul luogo dei

disordini". Le forme espressive prescelte sottolineavano dunque la crescente influenza dei

socialisti nella cittadina (53).

Di nuovo le comandanti della piazza assumono comportamenti che possono essere

ricondotti a modelli diversi. Alcune restano imprigionate nello stereotipo tradizionale

dell'isterica, della "donna che comanda" trasgredendo il suo naturale ruolo subalterno. Per

inserire queste osservazioni in una prospettiva dinamica, è necessario ricordare ciò che ha

sottolineato N.Zemon Davis a questo proposito. L'inversione simbolica dei ruoli sessuali

tradizionali, l'immagine della "donna che comanda" venne utilizzata coscientemente, nella

fase di transizione dell'Europa moderna verso la società industriale, dalle classi subalterne.

Travestirsi da donna per mettere in scena comportamenti ribelli o delegare alle donne certi

tipi di protesta (ad esempio nei moti annonari) poteva servire a chiedere dei

miglioramenti senza revocare in dubbio i ruoli gerarchici: la violenza, al femminile, era

meno minacciosa. 54. Anche nello sciopero, che di per sè rappresentava una forma di lotta

nuova e legata a mutamenti strutturali, alla diffusione del lavoro salariato fra le donne dei

borghi, veniva in parte riconfermato questo modello "di transizione". Le donne

esprimevano nel movimento una presenza attiva. Al tempo stesso il loro sesso, la loro

minorità sociale, largamente sottolineata dalla risposta giudiziaria agli scioperi, mite con le

donne e dura con gli uomini, rendeva ambiguo il senso dello sciopero, incerto il grado di

radicalità della protesta. Questa stessa ambiguità attrae l'attenzione, oggi, sul significato di

un movimento che dopo essere stato omologato a forme più consuete di azione operaia ha

suscitato un interesse diretto solo attraverso il filtro ideologico (o grazie alla spinta) del

movimento femminista e che è stato classificato senza riserve come un precedente storico

del movimento di emancipazione (55). Ma anche le immagini più stereotipate e note dei

tumulti producono un effetto di dissonanza rispetto a questa interpretazione. E l'idea che le

donne avanzassero in forme così esplicite e violente il tema della parità salariale con gli

uomini appare poco coerente col quadro complessivo delle agitazioni operaie femminili

della Toscana e dell'Italia di questi anni.

L'analisi della protesta mostra in realtà, prima di ogni altro aspetto, la continuità con la

tradizione dell'Europa moderna: la donna "che comanda" non è derisa dalla comunità

popolare, che anzi le affida le proprie richieste di miglioramento, giocando sul significato

ambiguo della violenza femminile. La forza esibita dalle dimostranti rivela l'estraneità di

queste campagnole all'ideale di una femminilità fragile e indifesa. Tuttavia essa non può

spaventare quanto la violenza degli uomini: sul terreno dei valori la sommossa delle donne

si traduce in una richiesta di attenzione e si presta ad essere interpretata nell'ambito dei

codici culturali di una società paternalista.

L'azione delle scioperanti evidenzia però anche qualcosa di nuovo e diverso: una

partecipazione attiva ad una costruzione ideologica collettiva. I brani della cronaca

mostrano che in molti centri, in uno strato non epidermico della coscienza delle trecciaiole,

si era formata l'idea che il lavoro fosse al centro di un sistema di diritti e di doveri. Secondo

E.Hobsbawm la presenza dell'immagine femminile nell'iconografia rivoluzionaria

democratica, che precede, nei decenni centrali dell'Ottocento, la specializzazione

"maschile" della protesta operata dall'ideologia socialista e sindacalista, aveva radici reali

in un ruolo produttivo mutato, nel diffondersi fra le donne, nella fase proto-industriale, del

lavoro a domicilio (56).

Quest'analisi conferma che il lavoro a domicilio fu per le donne la base di una diffusa

partecipazione alle ideologie del lavoro democratiche e socialiste. L'influenza ideologica

esercitata dai centri urbani maggiori si ramificava negli agglomerati della campagna, dove

la divisione sessuale del lavoro lasciava alle donne l'attività più diffusa, omogenea, meno

disgregata nel territorio. Al tempo stesso, le diverse sfumature dell'immagine femminile si

collegavano alle articolazioni locali della manifattura, e, in un senso meno ristretto, al

variare della composizione sociale nei diversi centri. Si pone il problema di analizzare il

contesto per capire che ruolo svolgeva nella famiglia e nella società il lavoro delle donne. Le

cronache della protesta offrono una prima chiave per spiegare tali differenze. A Signa, dove

la manifattura aveva conquistato e conservava il maggior prestigio, dove si svolevano le

operazioni più qualificate, il linguaggio patriottico dell'ideologia repubblicana, adeguato

agli ideali artigiani della comunità, modellava le forme della protesta e alimentava una

visione non gerarchica dei ruoli sessuali: le donne inventavano più liberamente le proprie

forme espressive. Nel centro di Prato, il processo di industrializzazione e di organizzazione

sindacale legato al tessile indeboliva già da prima il peso specifico delle trecciaiole nei

processi di socializzazione degli strati popolari, ma intensificava le connessioni con gruppi

contigui, come i cenciaioli. Nei borghi più appartati dai centri urbani uomini e donne si

esprimevano in linguaggio vicino ai rituali e ai simboli della tradizione contadina.

In conclusione il ruolo femminile nei tumulti appare come il risulato di un incastrarsi di

elementi di continuità e di mutamento. Insieme ai compiti produttivi diretti delle donne, è

il carattere ancora poco formalizzato di una rappresentanza politica della classe operaia

che rafforza il ruolo delle donne nella comunità e valorizza le relazioni informali di cui le

donne sono al centro.

Sotto quest'aspetto, è importante mettere a fuoco il contesto sociale dei borghi e delle

cittadine di cui le scioperanti sono al centro. Le caratteristiche delle famiglie coinvolte

nell'economia della manifattura emergono spesso dalle cronache in modo diretto,

attraverso una successione di episodi in cui gli uomini compaiono sulla scena insieme alle

scioperanti. Ma, per ampliare il quadro, è necessario risalire dalle scarni indizi sui

protagonisti dello sciopero che restano nelle cronache giudiziarie ai riflessi anagrafici della

loro vita familiare.

3. I mariti, le famiglie, il contesto sociale.

Anche il comportamento maschile, durante gli scioperi, assume più di un registro. La

schiera indefinita degli uomini che compaiono nei tumulti è, come abbiamo visto, sempre

solidale con le donne, spesso più violenta. In alcuni casi gli uomini incitano le trecciaiole

alla ribellione; come l'anziano cappellaio di Badia a Settimo, che venendo a Firenze lungo la

Pisana all'inizio dello sciopero del '96 si ferma per qualche istante a S.Quirico a Legnaia e

grida a un gruppo di trecciaiole:

"Con due soldi al giorno non si può campare: se vedete qualche donna che lavora, stracciatele la treccia, e se la trovo io farò altrettanto" (57).

Fra i mariti e le mogli, negli episodi minori e marginali, la solidarietà contro agenti e

fattorini è il registro prevalente. Come a Rovezzano, dove un intero paese spalleggia il

marito di un'arrestata contro le prevaricazioni di una guardia ubriaca. Agli agenti che

piantonano l'abitazione l'uomo grida che nella propria casa lui solo ha il diritto di

comandare. E investe le guardie con gli epiteti di "Vigliacchi, schifi, mascalzoni e

vagabondi!". Infine trascende, secondo la comica testimonianza dell'agente, servendosi di

un linguaggio più immediato e fisico, e facendogli "delle scorregge proprio in faccia"58. Altri

episodi restano ambigui nella ricostruzione giudiziaria. Come la vicenda di Pacifico Borchi,

bracciante di Seano, preso a pugni da un fattorino durante lo sciopero del '96. Secondo la

sua testimonianza l'uomo, tornando a casa, non vi aveva trovato la moglie Maddalena.

"Saputo che si era imbrancata con altre trecciaiole che volevano andare a Carmignano le corse dietro e la raggiunse a Campignoli. Quivi stava persuadendo la sua consorte a tornarsene a casa, tanto più che ci aveva una creatura lattante di 10 mesi, quando improvvisamente gli si slancia addosso un certo Capecchi Domizio cappellaio di Seano e lo percuote ripetutamente con dei pugni coprendolo in pari tempo d'ingiurie coi titoli di ladro vagabondo"(59).

Il fattorino imputato si discolpava con una ricostruzione diversa: egli colpì l'uomo perchè

invece di placare le donne "assumeva un atteggiamento se non di istigazione almeno tale da

eccitarle maggiormente contro i fattorini" (60).

Un altro episodio mostra con più chiarezza che la determinazione della moglie nel

partecipare allo sciopero e nel subirne le conseguenze è la scintilla che fa esplodere il litigio

fra i coniugi, che spinge il marito ad una brutale difesa del proprio dominio patriarcale

nella famiglia. Come in quest'episodio:

"A S.Donnino Alessandro Boretti percosse brutalmente la propria moglie Orsolina Becagli che voleva abbandonare il tetto coniugale per paura di essere arrestata" (61).

Ma più spesso, come abbiamo visto, gli uomini partecipano collettivamente ai tumulti

accanto alle donne. E' il caso di uno degli episodi cruciali dello sciopero, la sommossa di

S.Piero a Ponti. Gli arrestati delle due giornate sono uomini, che risiedono nei tre borghi di

S.Mauro a Signa, S.Cresci, S.Piero a Ponti. Questi ultimi sono paesi fra Signa e Campi,

attraversati dalla via Pistoiese, che marca il confine. Il processo contro i 34 arrestati, uno

dei pochi di cui siano stati conservati gli atti, è ricco di informazioni (62). Il controllo

dell'alibi per le due giornate di tumulti ci fa entrare per qualche ora nella vita quotidiana

del gruppo degli arrestati.

Dal contrasto fra la professione dichiarata e quella che gli imputati assicurano di avere

svolto nelle due giornate emerge un'estrema fluidità delle occupazioni. Infatti il gruppo, ad

un primo esame delle professioni, sembra prevalentemente estraneo alla manifattura della

paglia. Questo è del resto il giudizio sugli arrestati del giornale di categoria dei cappellai

(63). Si tratta di figure la cui biografia e la cui vita quotidiana sfuggono alle classificazioni dei

lavoratori di questo settore codificate dall'inchiesta ufficiale del '96. Dei 30 arrestati che

giungono al giudizio solo 6 sono registrati nell'intestazione della sentenza come lavoranti

in paglia a vario titolo: 3 cappellai, 1 lavorante in paglia, un lustratore di cappelli, un

imbianchino. L'attività prevalente è invece il bracciantato. In realtà dei 34 arrestati 14 sono

coinvolti direttamente nella rete di attività che si intesse intorno alla manifattura. Fra quelli

che si dichiarano braccianti (12 casi) o senza professione (5 casi), 9 persone affermano di

avere passato quei due giorni a vendere cappelli a Firenze, e risultano dal certificato di

miserabilità, se è nel fascicolo, "lavoranti in paglia". Un bracciante che secondo il certificato

di miserabilità era "lavorante in trecce e granate" ha passato la giornata nel vicino comune

di Brozzi, lavorando presso un parente come granataio "senza compenso pur di non

rimanere ozioso": alla mancanza di occasioni di lavoro questo lavorante rispondeva

adoperandosi senza salario nella prospettiva di ricavarne solidarietà o aiuti futuri.

Ogni piccola possibilità di lavoro era sfruttata, e non solo nell'ambito dell'economia dei

borghi dove risiedevano i lavoranti. Questi dati rivelano anche l'intensa mobilità, il rapido

ritmo degli spostamenti all'interno della piana. Da questi borghi al confine fra Signa e

Campi verso i Firenze e la sua periferia, e verso i paesi dei Comuni di Campi, Brozzi, Prato .

Lisandro Bogani, ad esempio, per un giorno era andato col barroccio di un conoscente a

raccogliere sassi nel Bisenzio; il giorno successivo si era recato per conto di un altro

barrocciaio a trasportare rena da Brozzi a Sesto. Pietro Bacci, strascino, era andato a

comprare due pecore a Signa e lana a Petriolo. Gonippo Faggi aveva venduto cappelli al

Pignone e al Galluzzo, aveva mangiato a Ponte a Ema, era tornato passando per Peretola e

S.Donnino. Vincenzo Conti era andato a Iolo a comprare un somaro.

Un'attività che coinvolgeva un gruppo numeroso di arrestati e testimoni, e che li portava a

spostarsi fra l'Arno e il Bisenzio era la pesca. L'arresto del gruppo dei pescatori rivela che

al suo interno vi è una grande solidarietà rafforzata da una rete di parentela e di amicizie

estesa e solidale. I Meucci, i Pugi, i Moradei, sono tutti pescatori, imparentati fra loro, e

legati sia agli strati più bassi che alle microborghesie del borgo (negozianti, bottegai) (64). E

pescatori erano anche i loro figli. La pesca era un'attività gradevole e virile, che veniva

facilmente dichiarata come professione prevalente, ma quasi sempre si integrava con altre.

A Egidio Scarlini, invece, il certificato di miserabilità attribuiva due professioni:"lustratore

di cappelli e pescatore". Egli lavorava da 8 anni presso la stessa fabbrica e pescava quando

non c'era lavoro. Anche Giorgio Moradei figurava da fonti diverse bracciante e pescatore.

La pesca e l'attività legata alla paglia si intrecciavano, in questi borghi, con le attività

agricole svolte dai braccianti. Alcuni arrestati che si dichiaravano braccianti, ed altri che

dichiaravano altre professioni, erano impegnati, in quei giorni,a fare erba sulle terre dei

coloni e nel padule. Il controllo delle origini familiari degli arrestati, svolto su varie fonti,

confermava il prevalere, nel gruppo degli arrestati, della matrice bracciantile 65. I lavoranti

delle fabbriche di cappelli erano spesso figli di un bracciante e di una trecciaiola, e così le

trecciaiole chiamate dalla difesa a testimoniare.

Questi dati sottolineano una notevole flessibilità dei comportamenti, una larga varietà

delle risposte che venivano date alla sottoccupazione e alla disoccupazione. Fra gli

arrestati e i loro parenti comparivano altre persone che venivano dai gruppi professionali

più poveri e caratteristici di questi paesi di campagna: fruttaioli, barrocciai, ambulanti. Nei

borghi di S.Mauro, S.Piero a Signa, S.Cresci a Signa, poi, i parenti degli arrestati e dei

testimoni della difesa erano spesso dichiarati "operai", Era questa la condizione

professionale attribuita ai lavoranti delle fabbriche di paglia anche nel censimento

successivo. Anche in questo caso la genericità della definizione segnalava probabilmente

una scarsa specializzazione. La marginalità, la precarietà delle professioni segnalava in

generale che esse non erano svolte a tempo pieno. La doppia professione era dichiarata

raramente. Oltre ai casi già segnalati, c'era quello di Florio Tozzi,"falegname e

guardapecore", che secondo l'alibi custodiva le pecore in padule. Ma nella maggior parte

dei casi le attività erano così variegate da spingere i lavoranti a dichiararne una sola: come

Giulio Sernissi, che si diceva fruttaiolo, ma aveva trascorso un giorno facendo un trasloco

ed un altro a fare erba.

Da questo ceto di lavoratori dai mille mestieri, di braccianti-operai emergevano anche

attitudini all'innovazione produttiva, risposte attive alla crisi in atto. E' il caso di Consalvo

Betti, un "formaio in zinco", che era stato registrato nella sentenza come fornaio, e che venti

anni prima si dichiarava bracciante. La sua attività consisteva nella fabbricazione delle

forme per i cappelli, presso l'officina del fonditore Augusto Parretti (66). Ma in quei giorni,

insieme a un compagno , che si definiva "guardia degli argini", stava costruendo "una nuova

macchina per fare trucioli". Questo lavorante, che sapeva scrivere correttamente, si

ingegnava dunque a mettere in opera una macchina legata a un processo produttivo diffuso

in questi anni nell'area di Carpi ma innovativo rispetto alle tradizioni della manifattura

toscana (67).

La capacità di adattarsi a una condizione di vita precaria favoriva d'altra parte un uso

discontinuo del tempo: giornate di attività intensa e faticosa si alternavano a giornate di

riposo e di divertimento. Anche l'ozio assoluto faceva parte delle abitudini di questo ceto.

Ismaele Vinattieri, col sostegno di molte testimonianze, dichiarava di avere passato due

giornate a "far l'amore" con la sua donna.

Ma certo il passatempo più diffuso era andare per bettole o per prati a giocare a fiasco. Un

alibi molto frequente e facile da inventare, sulla base della solidarietà, della complicità

diffusa nelle brigate che si ritrovavano intorno al tavolo. E' il caso di Adolfo Passerini,

cappellaio di S.Cresci. Per scagiornarsi egli dichiara di avere passato due giornate a giocare

a fiasco, in padule e in una bottega. Della sua vita possiamo ricostruire altri brani, che

descrivono una gioventù scanzonata e provocatoria, ai margini della legalità. Da un

processo precedente egli risulta coinvolto in uno scandalo di paese. Nel '94 Passerini, che

allora si dichiarava bracciante, era stato spinto da due compagni, un commerciante ed un

tappezziere, che troviamo di nuovo coinvolti anche nei tumulti del '96, ad una singolare

scommessa. Aveva percorso la via di S.Cresci completamente nudo, ed in cambio aveva

avuto una lira e cinquanta centesimi. Egli stesso risultava figlio di un bracciante e di una

trecciaiola, il cui matrimonio era stato celebrato solo dopo la nascita di due figli, secondo

una tradizione diffusa fra i braccianti e gli strati più miseri, che non erano in grado di

accumulare le risorse necessarie al matrimonio (68).

A queste informazioni sull'uso del tempo libero da parte degli arrestati è interessante

associare altri dati, che emergono da fonti diverse, sui passatempi più comuni fra gli strati

miserabili dei borghi dell'area. Da essi risulta che facevano parte di un costume diffuso il

gioco delle carte e il gioco d'azzardo. Secondo la testimonianza di Villari, a cui si è già fatto

più di un riferimento, i pochi uomini adulti che avevano mantenuto l'abitudine di lavorare

la paglia, si potevano riconoscere per uno stile di vita che alternava lavori precari col gioco

delle carte. Si trattava dei cosiddetti pesciaioli: due o tre volte la settimana essi andavano a

vendere il pesce a Firenze; negli altri giorni restavano oziosi, o facevano la treccia,

giocando contemporaneamente alle carte (69). Il coinvolgimento così ampio nello sciopero

del gruppo dei pescatori, suggerisce che si potesse trattare - ma non è che un'ipotesi -

proprio di tali caratteristiche figure di "pesciaioli-trecciaioli" . Dal sondaggio delle preture

extraurbane della cintura fiorentina emerge, poi, un dato complessivo. Nei paesi di Brozzi e

di Campi braccianti, fruttivendoli, e ambulanti erano spesso accusati di avere tenuto il

banco del Biribissi, della Robella, della Tombola, della Zecchinetta, o per avere organizzato

riffe di polli con sorteggio. Alcuni anni più tardi, nel pratese, erano perseguiti la Cassetta e il

Macao (70).

Pur descrivendo il comportamento di un gruppo non numeroso di "devianti", la cronaca

giudiziaria ci avverte che proprio nelle attività più precarie si diffondeva questo tipo di

reato. Ma lo stereotipo di un'esistenza disordinata, valorizzato da tali fonti, non descrive

che un'aspetto delle abitudini di questo gruppo di lavoratori. Vivere la propria vita come

tattica quotidiana di sopravvivenza portava a sviluppare atteggiamenti contrastanti. Da un

lato la precarietà dell'esistenza alimentava una visione di sè e del proprio gruppo modesta

e smaliziata. All'interno del gruppo dei processati di S.Piero quest'atteggiamento si

esprimeva fra l'altro nell'uso di affibbiare un soprannome ai membri del gruppo. Fra i

soprannomi degli arrestati, troviamo Picchio, Ciappera, Chinichiello, Banello, ma anche

Garibaldi e Tranvai, che rivelano un'attitudine ironica verso i simboli della

modernizzazione politica e tecnica. Dall'altro il desiderio di rivincita nei confronti di una

subalternità rielaborata e in qualche modo accettata attraverso questi meccanismi si

esprimeva poi nell'esibizione del coraggio, nell'attitudine al rischio. La miseria e la

precarietà, l'assenza di prospettive sicure, piuttosto che ad un uso disciplinato e controllato

delle risorse monetarie, spingevano a vivere alla giornata, ad affidarsi alla sorte, a caricare

il denaro di funzioni simboliche, radicate nell'illusione di un'improvviso rovesciamento

della propria condizione: il desiderio di emulare i consumi delle classi più ricche appare

nell'immaginario di questo strato assai più vivo di quello di vivere una quotidianità meno

miserabile. Il gioco d'azzardo diveniva così una pratica diffusa. Ma anche le complesse

azioni di rivalsa contro le guardie campestri, le liti violente che servivano da sfogo ad

un'emotività compressa si collegavano a tale matrice psichica (71). Molti arrestati del

processo di S.Piero avevano precedenti penali per "lesioni improvvise leggere", o per

ingiurie. Erano frequenti, soprattutto, le liti fra i braccianti e i coloni, che avevano per

oggetto i piccoli furti campestri, e rivelavano visioni opposte dei reciproci diritti in materia

di accesso ai poderi e di appropriazione dell'erba e della frutta. Da tali conflitti traspariva

l'estrema diffidenza dei coloni, pronti a chiamare "galeotto" il bracciante o il borghigiano

sconosciuto che si avvicinava alle loro case (72).

Il coraggio della e l'ironia divenivano la base di una provocazione premeditata nel

confronto collettivo con i rappresentanti dell'ordine. Le tracce lasciate nei processi delle

preture confermano la diffusione di piccoli conflitti fra comitive di amici e gruppi di agenti.

L'agente Temperini, lo stesso che reprimeva nel maggio del '96 la rivolta di Brozzi,

nell'ottobre conduceva in pretura un verniciatore ed un sensale che con altri compagni gli

avevano cantato la strofetta: "A quei farabutti e vigliacchi dei carabinieri di Brozzi questa

sera dobbiamo far vedere chi siamo noi. Gira la ruota gira sugli Appennini, birbante di

brigadiere ma più birbante Temperini" (73).

Anche gli arrestati degli altri processi avevano dietro, pur mutando il contesto sociale, una

storia comune di miseria e di precarietà. Le arrestate per i fatti di S.Martino a Campi di cui

è stato possibile rintracciare gli atti di nascita erano figlie di braccianti (74). Fillide Cecchi, la

donna che nel 97 capeggiava la rivolta di Signa, era la stessa che l'anno precedente si era

presentata a "chiedere sostentamento non sapendo cosa dare ai suoi tre figli" 75. Guglielmo

Tofani e Argene Cardini, arrestati nello stesso processo erano figli di due operanti

scalpellini, e i fratelli della donna erano servitori. Silvio Serafini era figlio di un "falegname

giornaliero" e fratello di un "segatore giornaliero". Tutte le donne di queste famiglie erano

trecciaiole (76).

La figura della trecciaiola si sovrapponeva a quella della donna in età di lavoro delle

famiglie povere. Come gli uomini di queste famiglie, anche le trecciaiole potevano finire in

pretura per la piccola criminalità legata alla vita quotidiana, soprattutto litigi e risse. E se

la miseria conduceva gli uomini sulla soglia del crimine contro la proprietà, per le

trecciaiole il terreno più scivoloso era quello dei costumi morali. Attraverso il litigio , esse

difendevano il loro onore, minacciato dal pettegolezzo del paese, che si intesseva su

elaborati rituali di calunnia. Anche in questo caso le preture offronto una ricca serie di

aneddoti: una trecciaiola del borgo pratese di Narnali ingiuriava con le accuse di "porcone,

maialone" , quindi minacciava con le forbici e altri oggetti due fratelli di cui uno sosteneva

"di averla praticata per 18 mesi": un'altra, di S.Ippolito (ancora nel pratese), era

chiacchierata per aver ricevuto -in cambio di fantasiose prestazioni sessuali- ben 1000 lire

"per star bene d'inverno". La ragazza si difendeva dicendo che piuttosto che andar vestita

bene a quel prezzo si sarebbe coperta "di foglie di fico come facevano i nostri padri" (77).

4. Lavoranti, fattorini e negozianti fra mutamento sociale

e paternalismo

La durezza e la virulenza caratterizzavano anche lo stile di vita del ceto che grazie alla

manifattura tentava di emanciparsi dalla miseria: i fattorini. Odiati dalle donne, che nello

spazio ristretto dei paesi vedevano nella propria miseria l'immediato riflesso del loro

benessere, erano nello sciopero il bersaglio ricorrente delle loro azioni punitive. Ma erano

invisi anche ai negozianti che se ne servivano, e disprezzati dal ceto politico moderato, la

cui ideologia poneva in una zona d'ombra l'esigenza stessa della mobilità sociale. Il codice

etico di una società gerarchica e paternalistica offriva solo la possibilità di essere padroni o

subalterni. Muoversi fra queste due condizioni significava agire in una terra di confine

maldefinita, assumere un'identità dai contorni sfuggenti.

Le fonti di polizia alludevano ripetutamente, nel lungo periodo di tensione fra i due grandi

scioperi, alla malafede dei fattorini che non rispettavano gli accordi e abbassavano i salari

(78). L'abitudine era di attendere che le donne si abituassero a un lavoro e poi ribassare il

prezzo per spingerle ad andare più veloci (79). Le inchieste sugli scioperi erano unanimi

nell'attribuire ai fattorini la responsabilità di affamare le trecciaiole, allargando il numero

di quelle a cui portavano il lavoro, creando concorrenza, ribassando i salari in misura

intollerabile 80. La scintilla stessa dello sciopero era scoppiata dall'esasperazione di un

gruppo di donne a cui il salario era stato improvvisamente ribassato dai 20 ai 10 centesimi

al giorno. Intorno a tale episodio Villari riferiva l'aneddoto di una vera e propria

provocazione da parte dei fattorini: questi avevano detto alle trecciaiole che la prossima

volta avrebbero dato loro, per un giorno di lavoro, solo tre castagne secche o addirittura tre

salacchini (circa tre centesimi). E' ancora Villari che chiama i fattorini "vere sanguisughe

delle trecciaiole". A proposito della rete capillare che distribuisce il lavoro nei paesi e nella

campagna (fabbricanti, fattorini, sottofattorini, sottofattorine) egli ricorre a un paragone

che lascia comprendere quanto egli consideri estranee queste figure al tessuto sociale delle

armoniose e ben ordinate campagne toscane.

"E' in sostanza una nuova specie dei gabelloti e sub-gabelloti della Sicilia, e spesso ne hanno anche i modi. Soprattutto quando le cose vanno male, cercano di far ricadere ogni peso sulle povere donne " (81)

Insieme alla provocazione, al contegno cinico verso la miseria delle donne e delle loro

famiglie, le cronache degli scioperi rivelano, da parte dei fattorini e dei piccoli negozianti,

una disposizione alla violenza fisica e diretta estremamente elevata. E' il caso del fattorino

di Seano, che prendeva a pugni il marito di una scioperante perchè gli sembrava che questi

eccitasse le donne contro i fattorini 82. O quello di Emilio Martini di Malmantile (a Lastra a

Signa) che vistosi circondato dalle scioperanti, trascendeva in un "eccesso di difesa",

sparando contro di loro:

"Vistosi circondato da un branco di donne fuggì a cavallo tirando contro la folla tre colpi di rivoltella"(83).

Collegato al processo di Campi, poi, fra i precedenti penali di un arrestato, ritroviamo un

altro episodio che rivela il carattere virulento delle relazioni fra lavoratori e piccoli

negozianti. Pietro Pecchioli e il figlio Domizio, lavoranti in cappelli di paglia, avevano "al

proprio servizio" il bracciante Consalvo Betti. Licenziato per qualche giorno di assenza, li

aveva investiti con gli epiteti scurrili caratteristici della cultura popolare toscana, e

l'episodio si era chiuso con un finale tragicomico: il Betti inseguito dal Pecchioli che tirava

sassi e dal suo bull-dog che alla fine lo mordeva (84).

Non di rado i fattorini finivano in pretura per reati che mal si adattavano alle forme della

rispettabilità borghese a cui tuttavia aspiravano. E' il caso di Casimirro Pecchioli, "fattorino

in trecce" di S. Angelo a Lecore, una parrocchia fra Campi e Signa. Nell'agosto del 1896 era

processato per avere rubato pesche in un podere a mezzadria del pratese, a Castelnuovo.

Sorpreso dal colono egli lo minacciava col fucile gridando: "non ti avvicinare altrimenti ti

brucio". Dal fascicolo degli atti egli risultava nullatenente e analfabeta, già condannato per

furto. Per discolparsi sosteneva che, uscito per cacciare "non riuscì nemmeno a scaricare il

fucile" e dunque voleva raccogliere almeno le pesche per la sua bambina e la moglie incinta

(85). E' illuminante, poi, di una difficile ricerca di identità, in bilico fra la miseria e

l'esibizione dell'abbondanza, che sovraccarica il gesto e accende la suscettibilità, la vicenda

di un trafficante in trecce di Iolo. Avino Zipoli, anch'egli pregiudicato, nullatenente,

analfabeta, recatosi alla fiera di Carmignano, si aggregò ad una comitiva di poeti e suonatori

che intratteneva il pubblico in un caffè. Secondo la sua autodifesa fu per aiutarli che egli

mise due soldi nel piattino e cominciò a girare chiedendo agli astanti un obolo generoso.

Ma giunse ad una rissa con un colono che per motivare il suo rifiuto disse:"per metterli in

tasca te". Il trafficante replicava che lui non ne aveva bisogno perchè aveva "i biglietti da

mille". E l'altro rispondeva: "se tu hai i biglietti da mille mettili te, perchè io non ne ho".

L'uomo allora estraeva il coltello e feriva il colono (86).

I fabbricanti e i negozianti che avevano numerosi operai e operaie alle loro dipendenze

riuscivano ad aderire meglio ai doveri di un'etica paternalistica, giocando, nelle trattative

che seguirono gli scioperi, un ruolo di mediazione fra le donne e i fattorini, affrontando

qualche perdita pur di lenire le conseguenze della crisi. Sono esemplari i casi di Pietro

Franceschini e di Oreste Cinelli, i maggiori fabbricanti di Signa. Il primo si distinse nelle

trattative adoperandosi per mettere d'accordo le parti e garantire un po' di lavoro alle

donne 87. Anche nell'ambito della comunità locale, a S.Cresci a Signa, egli svolgeva, nel

corso della crisi che si acuiva alla fine del 1897, un'opera di assistenza, tenendo occupate

più di sessanta persone e offrendo il vitto alle famiglie più bisognose (88). Oreste Cinelli si

distingueva nel processo per i fatti di S.Piero, per il suo sforzo di scagionare un operaio. Egli

confermava l'alibi contraddittorio dell'arrestato, e giungeva ad irritare i giudici. Decisi ad

affermare le leggi dello Stato al di sopra di sistemi di relazione privati essi definivano il suo

comportamento "degno di curiosi commenti" e condannavano pesantemente l'operaio 89. In

cambio della protezione questi stessi fabbricanti chiedevano agli operai una disponibilità

quasi servile. Il lavoro di solito si svolgeva in locali adiacenti alle case dei fabbricanti, ed il

servizio domestico era il modello di riferimento anche per il lavoro salariato. Un conflitto

significativo scoppiò presso la ditta di Gernando Tesi, a S.Piero a Ponti, alla fine del '96. Il

proprietario, allontanandosi dalla fabbrica per la raccolta delle trecce nei paesi, pretendeva

che i 70 dipendenti -operai e operaie - senza muoversi dalla fabbrica , preparassero le

matasse per la trasformazione in cappelli, me lo attendessero per l'imbiancatura,

rinunciando al salario delle ore di inattività. Dopo aver serrato la fabbrica per punire gli

operai, che avevano svolto un lavoro indadeguato, tentò di tornare alle normali relazioni:

"cedendo alle preghiere di qualche povera famiglia sacrificata...scordò tutto, ed alle nove fece suonare la consueta compana e con questo si intendeva che tutti potevano rientrare al lavoro senza alcuna sottomissione. Invece molti eransi già inconsultamente intesi e non si presentò alcuno" (90),

5.Gli scioperi nel primo novecento

Nel periodo compreso fra l'inizio del secolo e la guerra gli scioperi delle trecciaiole

divvennero una componente fra le altre di una conflittualità regionale non molto vivace.

L'attività di resistenza delle fabbriche tessili e meccaniche si intensificava in Piemonte e in

Lombardia. In Emilia Romagna il fortissimo sviluppo delle agitazioni agrarie (bracciantili e

"miste" di braccianti e coloni) sosteneva, nel periodo precedente alla guerra, gli indici

"regionali" della conflittualità. In Toscana invece gli scioperi erano legati a un mosaico di

attività minerarie, industriali e manifatturiere, e a circoscritti scioperi agrari, ma non

ebbero un esito altrettanto vistoso. Si trattava, soprattutto, del movimento ascendente

degli scioperi edili e degli scioperi di solidarietà che si sviluppavano intorno a quelli, di per

sè non vasti di carattere industriale. La capacità di mobilitazione specifica del lavoro a

domicilio, e in particolare della manifattura della paglia, invece, diminuiva (91).

Tuttavia sia nel 1906 che nel 1911 si ebbero fra le trecciaiole agitazioni abbastanza estese.

Nel 1906 le scioperanti registrate dalla statistica erano 7797. Nel luglio 1911 8.000 donne

intrapresero una lunga agitazione. Il motivo degli scioperi era sempre lo stesso: i drastici

tagli dei salari imposti dai fattorini. Nel 1911 le trecciaiole di Signa esponevano al sindaco

le loro richieste:

"Mentre ora noi guadagnamo circa 25 centesimi al giorno, desideriamo guadagnare 80 centesimi al giorno circa" (92).

E le trecciaiole di Tavola rivolgevano al Regio Commissario del Comune di Prato queste

semplici parole:

"A nome di tutte le donne scioperanti del popolo di Tavola fanno appello alla S.V. Ill.ma se puole esistere che una donna lavorando 15 ore al giorno la più abilitata e guadagnare 45 centesimi al giorno ed ecco i prezzi che sono in circolazione della fantasia: un disegno chiamato gobbe che l'anno scorso lo pagavano cent. 30 metri 11 ed ora le pagano cent. 12, le gobbe di rafia foderata le pagavano cent.70 ed ora cent.25" (93).

Il movimento durò, con alterne vicende, fino al 20 settembre. Lo sciopero partì da Peretola

e Petriolo e alla fine di luglio riprese a Signa e a Lastra, a Casellina e Torri, a Ponte a Greve,

a Carmignano, di nuovo a Brozzi, a Tizzana, a Tavola. La periferia fiorentina, l'empolese,

Campi , la maggior parte del territorio pratese rimasero estranei all'agitazione.

I rappresentanti delle Camere del Lavoro di Firenze e di Prato guidarono le assemblee e le

trattative (94). L'azione delle scioperanti riprese in modo meno violento alcune delle forme

di intimidazione e di controllo sul territorio sperimentate nel più vasto movimento di fine

secolo: di nuovo le donne, guidate dalla "commissione delle trecciaiole", di Peretola e

Petriolo bloccarono il tram a vapore che faceva servizio fra Poggio a Caiano e Firenze

trasportando le trecce; ma invece che bruciarle spiegarono ai viaggiatori che le avrebbero

prese in consegna. In compenso il sindaco socialista di Brozzi, Ceramelli, parlò per

dissuadere le donne del comune che continuavano a lavorare dal loro "crumiraggio" e

incoraggiare le trecciaiole all'azione comune con donne di Lastra e di Signa, che avevano

chiesto un prezzo più elevato.La scena dello sciopero, nelle cronache dei giornali, era ormai

lo sfondo dell'azione. Di un'eventuale regia delle donne finalizzata ad arricchirla e a darle

un signicato politico, non resta alcuna traccia. In primo piano vi erano gli organizzatori e i

rappresentanti politici socialisti, che, prendendo le donne sotto tutela, regolavano il grado

di violenza, di emotività che esse esprimevano. Essi spingevano le trecciaiole allo sciopero

ma ne controllavano gli eccessi. A Poggio a Caiano, un noto fattorino del borgo di Catena, fu

assalito dalle scioperanti, che gli bruciarono le trecce sulla pubblica piazza. Ma subito le

donne "alquanto eccitate", furono "condotte alla calma mercè il sollecito intervento del

consigliere comunale socialista" (95).

La ricostruzione del movimento mostra, dunque, profondi mutamenti rispetto ai tumulti

del biennio 1896-1897: l'estensione geografica era minore, e la protesta aveva preso nuovi

canali; si esprimeva in forme meno intimidatorie e si affidava alle istituzioni socialiste

ormai consolidate per ottenerne l'appoggio. L'azione, in sè, appariva come il riflesso opaco

e affievolito del sorprendente sciopero di fine secolo.

I pochi riferimenti anagrafici che è stato possibile raccogliere sulle scioperanti mostrano

tuttavia che esse venivano da un ambiente che somigliava da vicino a quello degli arrestati

dei primi scioperi: fra le donne della commissione delle trecciaiole di Tavola, Gilda Bellini

era figlia di un bracciante, Regina Maffii era, nel 1901, moglie di un barrocciaio, Zaira Papi,

Zelaide Bartolini, e Paola Vignozzi erano sposate a tre braccianti giornalieri. Elvira Panerai

a un pastore, Giovanna Mattei a un commerciante di frutta non possidente, che

apparteneva ad una famiglia di fruttivendoli e braccianti, i quali discendevano da un

pigionale operante. Tutte abitavano nel borgo. Ma i loro figli maschi, se erano in età di

lavoro, dichiaravano, nel 1901, professioni diverse da quelle dei padri: cannellaio e

tessitore i figli di Regina Maffii, granataio il figlio di Elvira Panerai (96). Anche queste nuove

attività a domicilio, soprattutto maschili, partecipavano con rivendicazioni e dinamiche

specifiche al movimento ascendente degli scioperi caratteristico del periodo. Le agitazioni

dei granatai di Tavola e Casale e dei "tessitori-braccianti" pratesi ebbero un certo peso nel

ciclo di lotte sindacali del biennio 1907-1908 (97). Ma nessun settore, di per sè, esprimeva

un grado di conflittualità significativo.

La tensione sociale legata ad attività molteplici, precarie e malpagate, a fine secolo, si era

coagulata intorno all'attività delle donne, che pur svolgendosi a domicilio aveva una

notevole continuità ed una controparte riconoscibile. Nel nuovo secolo il disagio, invece di

sfogarsi attraverso un unico canale, trovava modo di esprimersi nei molti rivoli delle nuove

attività maschili, che nascevano sia all'interno che all'esterno dell'economia dei borghi.

Parallelamente, l'azione delle donne si impoveriva dei valori simbolici complessivi, politici,

di cui era stata investita per una breve stagione.

La vitalità, la ricchezza espressiva che scaturiscono dai primi scioperi delle trecciaiole ci

costringono, in ogni caso, a rivedere un preconcetto diffuso. Infatti la ricostruzione dello

sciopero indebolisce la convinzione che il lavoro a domicilio, il decentramento produttivo,

producano automaticamente disgregazione sociale e subalternità dei lavoranti nei

confronti dei datori di lavoro. E', invece, l'intera struttura delle relazioni sociali in cui il

lavoro è inserito che influisce sulla capacità dei produttori di porsi come soggetti di un

movimento sindacale e politico.

3. LE TRECCIAIOLE FRA EMARGINAZIONE E RESISTENZA:

LE ECONOMIE FAMILIARI DI FRONTE AL MERCATO E ALLO SVILUPPO DEMOGRAFICO

1. La divisione internazionale del lavoro fra mutamenti produttivi e trasformazione dei

mercati

Quella di costruire e di vendere cappelli di paglia è sicuramente un'attività antica. Nella

seconda metà del Cinquecento la lavorazione per il mercato era già sviluppata: risulta

infatti che nel 1574 i cappellai di paglia erano sottoposti alla tassa di matricola (98) Ma alla

fine del secolo Sir Robert Dallington, nella sua descrizione della Toscana, raccontava di aver

assistito a Prato all'esposizione di un'immagine sacra alla quale concorreva gran popolo di

miserabili, scalzi e con cappelli di paglia (99).Ciò fa supporre che il nobile inglese

identificasse l'uso del cappello di paglia con la povertà e che non conoscesse ancora i

raffinati cappelli di paglia che i toscani esporteranno in Inghilterra oltre un secolo dopo.

Infatti è nel corso Settecento e il primo Ottocento che si compiono alcune importanti

trasformazioni della produzione e del mercato attraverso le quali il cappello di paglia

diviene nello stesso tempo da un lato un manufatto artigianale di qualità, dall'altro una

vasta produzione organizzata su scala regionale e destinata a mercati lontani.

Il miglioramento qualitativo del prodotto fu raggiunto attraverso un passaggio essenziale,

legato all'innovazione introdotta da un mercante-imprenditore bolognese. La coltivazione

del grano da paglia detto "marzuolo", il cui seme proveniva soprattutto dal modenese, fu

sperimentata a partire dal 1718 nei fertili terreni intorno a Signa per iniziativa di

Domenico Michelacci. Da allora l'immagine del cappello fiorentino fu associata ad una

morbidezza e ad una lucentezza particolari. Sotto l'aspetto mercantile fu determinante

l'azione di politica doganale di Pietro Leopoldo I di Lorena. La politica liberista introdotta

nel 1771 dal granduca favorì l'introduzione delle paglie forestiere e stimolò il commercio

dei cappelli fabbricati nelle campagne intorno a Signa, che si diffusero sui mercati degli

Stati italiani e, in Europa, soprattutto in Inghilterra.

Pur con qualche incertezza dovuta alle guerre doganali del periodo napoleonico, il cappello

fiorentino attraversò dunque fra la fine del Settecento e il primo Ottocento una fase di

sviluppo produttivo e mercantile. La coltivazione della paglia era condotta da affittuari che

al momento del raccolto vendevano la paglia a particolari intermediari detti in generale

"fattorini", i quali a loro volta consegnavano la materia prima alle lavoranti, e rivendevano

le trecce e i cappelli finiti ai negozianti di trecce e cappelli.

L'ondata di maggiore sviluppo della manifattura, che inizia e con gli anni Venti

dell'Ottocento, e attraverso numerose crisi cicliche si spinge fino ai primi decenni del

Novecento, facendo della paglia la più importante manifattura toscana, è legata all'apertura

del nuovo mercato statunitense e quindi alla costruzione di un duraturo rapporto con

quest'area commerciale. E' in occasione del "blocco continentale"imposto dall'Inghilterra

che si aprono i primi contatti commerciali con gli Stati Uniti (100)

Le oscillazioni della manifattura, l' alterna fortuna dei diversi modelli erano componenti

strutturali della vita di un settore legato alle fluttuazioni della moda nelle capitali europee e

negli Stati Uniti, e all'andamento del ciclo ottocentesco, con le sue ripetute crisi di

sovrapproduzione. Al "fioretto" che dominò il mercato all'inizio del secolo si avvicendò

nella seconda metà dell'Ottocento il classico cappello di paglia "in tredici fili", noto come "il

cappello di paglia di Firenze". Più tardi, dalla "Belle Epoque" agli anni Venti del Novecento,

la "paglietta" divenne un elemento indispensabile dell'abbigliamento maschile. Ma al di là

di queste oscillazioni congiunturali vi è nell'Ottocento uno slittamento del ruolo della

manifattura nella divisione internazionale del lavoro, uno spostamento del baricentro della

produzione verso le "periferie dello sviluppo". Fino agli anni Sessanta dell'Ottocento infatti

fra i concorrenti della manifattura toscana vi erano gli stessi paesi consumatori: la

Svizzera, l'Inghilterra, gli Stati Uniti. Già nel 1767 dalle memorie del Convento di S.Lucia si

ha notizia di una crisi della manifattura fiorentina dovuta ai dazi elevati dagli inglesi

sull'importazione dei cappelli toscani per proteggere la loro manifattura (101) La cottage

industry del Bedfordshire e del Buckinghamshire riconquistò spazi di mercato durante le

guerre napoleoniche, all'ombra del "blocco continentale", che aveva momentaneamente

neutralizzato la concorrenza toscana. Essa si rivolgeva al consumo interno e al mercato

americano e fu protetta con tariffe doganali fino al 1860. Le trecciaiole inglesi, ricordate da

Marx come uno degli esempi più dolorosi di sfruttamento delle lavoratrici a domicilio,

vivevano in condizioni molto vicine a quelle delle loro compagne toscane (102). Tuttavia la

manifattura inglese non potè sopravvivere a lungo alla politica del libero scambio: nel

quadro di uno sviluppo complessivamente dinamico dell'industrializzazione e di un

rallentamento dello sviluppo demografico non era possibile sottoporre le lavoranti ad

un'ulteriore compressione dei salari (103). Anche negli USA, nei primi decenni

dell'Ottocento, le contadine del New England intrecciavano la fibra di palma e ne facevano

cappelli (104)

Ma nel 1875 si giunse ad una crisi destinata a segnare uno spartiacque nella storia del

settore. Si annunciava infatti una profonda trasformazione della divisione internazionale

del lavoro. L'attività mercantile e la diffusione dei modelli erano controllate dalle case di

esportazione e importazione belghe, olandesi, tedesche, inglesi, che acquistavano i cappelli

e le trecce dai negozianti e dai fabbricanti locali (105). La costruzione di un sistema di

trasporti e di comunicazioni internazionali trasformava il sistema degli interessi

commerciali legati alla paglia. Anche il mutamento tecnologico premeva nella stessa

direzione. L'accentramento nelle fabbriche della messa in forma dei cappelli, che dagli anni

Sessanta si faceva le presse idrauliche, consentiva di separare la preparazione delle pezze,

facilmente trasportabili, da quella del cappello. Nel 1870 le case introdussero sul mercato

le trecce cinesi e negli anni Novanta quelle giapponesi. In Giappone le donne intrecciavano

la paglia e le case mercantili vi introdussero la lavorazione del truciolo di legno,

tradizionale in Boemia e nella zona di Carpi (106). I modelli si moltiplicavano, ma le trecce

potevano venire da centri distanti dai luoghi dove si decideva la moda. Gli splendidi

campionari delle case mercantili di Lipsia e di Dresda, conservati come modelli dalla più

grande fabbrica fiorentina di cappelli (107), mostrano la varietà e la raffinatezza dei modelli,

e suggeriscono, insieme a tante altre immagini dell'epoca, che il cappello era, nei primi anni

del 1900, un aspetto essenziale dell'abbigliamento per tutte le età e per una quota

crescente della popolazione europea. Cappelli da bambino e da bambina, cappelli per

signore e per signora: un'incredibile quantità di cappellini sobri o frivoli, deliziosi o ridicoli,

affollava le pagine dei campionari.

La crisi del 1895, che diede il via agli scioperi, giungeva al termine di una prolungata

stagnazione, che si manifestava nelle forme ambigue caratteristiche della Grande

Depressione ottocentesca. Il declino dei prezzi, la deflazione, si accompagnavano ad un

andamento molto dinamico del mercato. Nel triennio 1880-1882 l'Italia aveva raggiunto

valori delle esportazioni molto elevati: i cappelli di paglia esportati erano stati 7.818.100

nel 1881 e le trecce avevano raggiunto nel 1882 i 10.181 quintali. La produzione toscana

era quasi interamente rivolta all'esportazione: nel 1884 su un valore di circa 20-25 milioni

di produzione complessiva l'esportazione era di circa 17-20 milioni fra cappelli e trecce

(108). Alla riduzione delle esportazioni di treccia i negozianti e i fattorini avevano reagito

contraendo i salari, col risultato che nel 1895 si esportò una grande quantità di

trecce:12.168 quintali. Ma il valore di un quintale esportato era sceso da 2200 lire a a 500

lire. Molto di più si era ridotto il valore delle trecce importate, che era sceso a 215 lire al

quintale. Posto che una donna intrecciasse, in una settimana, un chilogrammo di treccia, il

valore finale del prodotto si poteva considerare, ora, 5 lire o addirittura di 2,15 lire (109).

La crisi della manifattura non fu definitiva. Le vicende degli anni 1895-1897 - dalla crisi

agli scioperi - accelerarono una trasformazione interna. La tradizionale area della paglia, da

Signa, a Lastra, a Brozzi, si specializzava nella fabbricazione e nella rifinitura dei cappelli,

procedendo in un'industrializzazione su piccola scala (110). Il lavoro delle trecciaiole si

riqualificava nell'ambito di una nuova specializzazione dei fattorini orientata a

diversificare gli intrecci, i disegni, le materie prime.

Questa lenta trasformazione interna consentiva la ripresa e lo sviluppo dell'attività. Alla

fine del secolo secondo una testimonianza "tutta l'industria tornò alla normalità".Dopo una

breve stasi, nel biennio 1914-15, negli anni della guerra e in quelli successivi, "le

transazioni si svolsero veramente imponenti" . Negli anni 1912-1913 si esportarono circa

10.166.707 cappelli l'anno. Nel 1911 trecce e cappelli rappresentavano ancora il 40 % delle

esportazioni della regione (111). Ma una percentuale non indifferente delle trecce (6.048

quintali contro i 294 del 1980 e i 759 del 1895), ormai, era importata, ed una parte

crescente della produzione italiana non veniva dalla Toscana. Fino al 1923 l'intensa

svalutazione della lira sostenne le esportazioni, ma poi si giunse ad una grave stagnazione.

Gli Stati Uniti, "il grande emporio di vendita e consumo della produzione toscana" che negli

anni del conflitto avevano alimentato una vastissima importazione di pagliette da uomo,

imposero nel 1926 alte tariffe protettive. Sempre più legata al mercato di sbocco

americano, l'industria dei cappelli, con la Grande depressione del'29, si avviò al definitivo

declino (112). Nei centri dell'area della paglia molte donne, soprattutto le vecchie,

continuarono a intrecciare paglia e cappelli fino agli anni Cinquanta, ma questo non era più

considerato un vero lavoro salariato. Altre attività, collegate alla specializzazione diverse

dei borghi e dei "distretti industriali" della provincia, dalla maglieria, alle confezioni, alle

rifinizioni tessili per l'industria pratese, si intrecciarono progressivamente con la

tradizionale manifattura fiorentina e infine la sostituirono.

La storia della manifattura fiorentina della paglia è dunque un asse portante della

formazione, in Toscana, di un modello produttivo "intermedio " rispetto ai processi di

industrializzazione del triangolo industriale e alla deindustrializzazione del Mezzogiorno.

Mentre le manifatture tessili a domicilio, nel Meridione e nelle campagne italiane, subivano

nell'ultima parte dell'Ottocento l'impatto dell'industrializzazione avviata in Inghilterra e

nell'Italia centro-settentrionale e andavano incontro ad una rapida deindustrializzazione

(113), in Toscana i primi decenni del Novecento vedevano un'espansione delle attività

femminili a domicilio, in primo luogo legate ai cappelli di paglia. Questa manifattura

dunque, pur trasformandosi e meccanizzandosi, continuava a svilupparsi come attività

manuale svolta a domicilio. Il baricentro della produzione - seguendo il percorso indicato

dalla teoria del ciclo del prodotto - si spostava verso i paesi poveri (la Cina e il Giappone)

dove era più basso il costo del lavoro. Ma la manifattura della paglia riusciva a conservare

un ruolo importante, in Toscana, da un lato riqualificando e meccanizzando alcune fasi

della produzione, dall'altro utilizzando le vaste riserve di lavoro offerte dallo sviluppo

demografico dell'area e comprimendo i salari delle trecciaiole (114).

2. Popolazione e lavoro nell'area della paglia: sviluppo demografico, occupazione e salari

La specializzazione di una regione in una "protoindustria", (cioè in una manifattura rurale a

domicilio che produce le sue merci per vasti mercati lontani dall'area di produzione)

allenta - secondo gli studiosi dello sviluppo protoindustriale - i vincoli malthusiani che nelle

società rurali tradizionali frenano l'aumento della popolazione. In particolare nelle società

contadine si avvierebbe, in conseguenza dello sviluppo protoindustriale, una spirale di

miseria: a partire dall'abbassamento dell'età di matrimonio, si avrebbe un aumento della

natalità e del numero dei figli degli artigiani-contadini addetti alla manifattura. Ciò

porterebbe al frazionamento delle terre e ad una crescente dipendenza dal reddito offerto

dalla manifattura. E infine, in un lasso di tempo abbastanza breve, data la giovane età dei

lavoranti, ad un aumento dell'offerta di lavoro più rapido di quello della domanda; uno

scarto destinato a deprimere i salari, a lungo andare, al di sotto della soglia di sussistenza.

La struttura sociale sarebbe alla lunga messa in crisi da questa stessa "trappola

demografica" e la protoindustria volgerebbe necessariamente al declino, aprendo la strada

a due sviluppi alternativi: da un lato il passaggio all'industrializzazione su basi di fabbrica,

dall'altro l'industrializzazione (115).

Il modello di sviluppo della manifattura della paglia ha molte somiglianze con quello

protoindustriale sul terreno dell'organizzazione produttiva e di mercato. Si tratta come

abbiamo visto di una manifattura rurale a domicilio, organizzata su una base territoriale

regionale e orientata all'esportazione in mercati lontani. Sorge allora un rilevante

interrogativo di ricerca: in che cosa esso si avvicina e in che cosa, invece, si allontana da

questo meccanismo sociale e demografico?. Una prima risposta a questi interrogativi viene

dall'osservazione dell'andamento demografico complessivo dell'area dove si diffonde la

lavorazione nel tempo dello sviluppo della manifattura.

Le Comunità attive in questa manifattura facevano parte di un territorio coinvolto da

tempo in un processo di addensamento della popolazione. Un processo che aveva radici

antiche, collegate al lucido disegno, promosso dai granduchi medicei, di riorganizzare il

territorio fra Firenze e Livorno intorno ai fulcri del porto di Livorno, del porto fluviale di

Signa, nel polo urbano di Prato. La manifattura della paglia si sviluppava nel cuore di

quest'ambiente, a nord e a sud del porto fluviale di Ponte a Signa, collegato a Pisa e Livorno

attraverso l'Arno (116).

Già nel corso della seconda parte del Cinquecento e nei Seicento le trasformazioni del

territorio e le nuove occasioni di lavoro a queste connesse determinavano una notevole

crescita della popolazione nella vasta area pianeggiante fra Firenze e Pisa (117). Da un lato

erano i lavori di bonifica e la costruzione di nuove vie a trattenere ed attrarre una

popolazione crescente. Dall'altro i nuovi consumi urbani e l'aumento dei commerci

riattivavano le tradizioni produttive locali. Lo sviluppo dell'industria della paglia si

affiancava al formarsi e al consolidarsi, in numerose Comunità di questa stessa area, di

specializzazioni artigianali legate ad un territorio ben definito: la lana a Prato, la seta a

S.Croce sull'Arno, la stoviglieria a Capraia, la cantieristica a Limite (118). Queste opportunità

di lavoro avevano determinato la concentrazione nei paesi della valle dell'Arno e del

Bisenzio di una quantità di "pigionali" che non avrebbero potuto trovar podere. I pigionali,

a differenza dei mezzadri, prendevano la casa a pigione e traevano la propria

sopravvivenza da economie familiari fondate sul libero lavoro delle donne nelle

manifatture a domicilio e degli uomini nelle attività più svariate, a seconda delle occasioni

offerte dai cicli sfalsati dell'agricoltura, dalle opere di bonifica, e dalle stesse attività

manifatturiere: una sovrappopolazione "fluttuante" rispetto ai cicli dell'agricoltura, della

manifattura, delle altre attività, dotata di capacità manuali variegate e flessibili, disponibile

a cambiare lavoro quando se ne presentava l'occasione.

Con la ripresa settecentesca dello sviluppo demografico anche questi processi si

intensificavano. Nel corso del Settecento l'addensamento intorno ai borghi della piana

dell'Arno di un largo numero dei pigionali si fece più rapido. Le intensità del processo

variavano da una zona all'altra in relazione ai caratteri assunti su base locale dai processi

di sviluppo agricolo e manifatturiero. Le capacità del sistema mezzadrile di assorbire gli

incrementi di popolazione erano limitate (119). Soltanto la variante pratese di questi

fenomeni è stata oggetto di ricerche ravvicinate. Tuttavia il meccanismo dello sviluppo

demografico descritto per il caso pratese da Della Pina, era certamente valido per tutta

l'area della paglia:

"Con la fine della stagnazione secentesca e la ripresa demografica, la compatta struttura mezzadrile si rivela inadeguata a sostenere la maggiore pressione della popolazione e l'aumento della dimensione delle stirpi, ossia delle unità familiari nucleari che formano la grande famiglia colonica....In un periodo di crescita demografica, l'espulsione di singoli o di intere stirpi dalla famiglia di origine si traduce spesso nell'impossibilità di trovare un nuovo podere e nel passaggio alla categoria dei "pigionali""(120).

Le potenzialità di sviluppo demografico, nel quadro della particolare struttura sociale delle

campagne mezzadrili, riuscivano a realizzarsi, in una fase di relativo sviluppo economico,

principalmente all'esterno del mondo contadino vero e proprio, del sistema dell'agricoltura

appoderata. Nonostante la crescita della popolazione, la vasta area della manifattura si

caratterizzava in forme profondamente diverse da quelle di altre società contadine, nelle

quali gli agricoltori possedevano la terra. Piuttosto che ad una proletarizzazione dei

mezzadri, e ad un erosione interna della mezzadria, la manifattura portava ad una

crescente differenziazione, ad una dualità, all'interno del mondo rurale. Da un lato le aree

appoderate, con i loro insediamenti sparsi, erano condotte a mezzadria, cioè secondo

rapporti contrattuali che fissavano la maglia poderale e stabilizzavano la densità

demografica degli insediamenti contadini: una nuzialità selettiva, perseguita espellendo le

donne dalle famiglie (con il matrimonio, o destinandole al servizio domestico a Firenze o a

Prato) e ricorrendo ad alti livelli di celibato maschile assicurava uno stabile equilibrio fra

bocche e terra. Il dinamismo economico si traduceva in questo caso in una più facile

espulsione all'esterno dei giovani delle famiglie, in una diminuzione del celibato maschile.

Dall'altro lato di questo confine vi erano i pigionali che, in numero crescente, vivevano

accentrati nei borghi. I pigionali erano esposti alla congiuntura variabile del mercato del

lavoro e controllavano la fecondità, principalmente, regolando l'età di matrimonio: in

particolare abbassandola quando lo sviluppo demografico rallentava e innalzandola nelle

fasi di squilibrio fra popolazione e risorse(121).

Sotto l'impulso dello sviluppo della manifattura della paglia la crescita della popolazione

dei pigionali assumeva un ritmo particolarmente rapido nei primi decenni dell'Ottocento,

dopo la fase di ristagno demografico legata alle guerre napoleoniche. La stagione felice di

sviluppo della manifattura consentiva in questi anni agli operanti agricoli il precoce e

fruttuoso matrimonio con le trecciaiole. Come hanno mostrato recenti studi, a causa dello

sviluppo della paglia le campagne pratesi erano attraversate in questi decenni da una

frenesia di matrimoni, ed erano soprattutto numerose le unioni fra operanti e trecciaiole:

negli anni Venti e Trenta, l'età di matrimonio dei celibi e delle nubili si abbassò:

approssimativamente da 29 anni a 27 anni per gli uomini e da circa 26 anni a 23 anni per le

donne. Inoltre, a differenza che a Prato nell'area centrale della manifattura (Signa, Lastra,

Campi), una notevole quantità di uomini adulti, attratti dagli alti salari della manifattura,

iniziò a lavorare come trecciaioli o agguagliatori di paglia. Il processo è sintetizzato in

modo efficace dalle parole di Ridolfi:

"Si videro in breve tempo sorgere borgate intere ove non era che rasa campagna, e quelle case si costruivano coi guadagni delle donne lavoratrici di cappelli. Si videro gli uomini validi e robusti lasciar mestieri usitati ed oziare come Alcide fra le ancelle scegliendo la paglia fine dalla più grossa, si videro stabilire matrimoni e crear famiglie e viver liete solo occupate d'intrecciar paglia"(122).

I processi di riproduzione naturale delle famiglie mezzadrili e delle stesse famiglie degli

operanti portava nel complesso ad un notevolissimo sviluppo della popolazione accentrata

nei borghi dell'area. Questi fenomeni furono descritti da numerosi testimonianze dei

contemporanei. Scriveva Repetti negli anni Trenta:

"In grazia di quest'utilissima manifattura, le borgate di Brozzi sono da vent'anni quasi raddoppiate di abitazioni. In mancanza di pietra sogliono costruirsi costà i muri con i così detti cantoni, specie di smalto impastato con melletta ghiaia e poca calcina, ridotto in forme regolari. Un tal metodo economico di edificatoria concorre sempre più all'aumento e sollecita la costruzione delle case nei borghi e lungo le strade che fiancheggiano l'una e l'altra riva dell'Arno sotto Firenze"(123).

L'inchiesta dedicata allo sviluppo della manifattura alla fine dell'Ottocento giungeva alla

conclusione che segue:

"dal 1745 al 1853 la popolazione si è più che raddoppiata e certamente non perchè i territori di quei comuni si siano arricchiti di lavoratori dei campi, ma bensì di famiglie di cui uomini e donne trovavano occupazione nelle varie operazioni che la paglia richiede " (124)

Per esaminare lo sviluppo della popolazione in maniera sistematica e in un quadro

comparativo nella tabella 1 abbiamo affiancato i dati relativi all'incremento demografico

ottocentesco delle più importanti Comunità specializzate nella manifattura (Signa, Lastra a

Signa, Campi Bisenzio, Prato) con quelli della Toscana (125). Risalta qui l'intensità dello

sviluppo nei primi due decenni considerati, cioè nel periodo 1820-1839. La rapida crescita

della popolazione nelle Comunità investite dallo sviluppo della manifattura faceva spicco

nel quadro dello sviluppo demografico pur intenso della Toscana ottocentesca. In tutte le

comunità la popolazione negli anni Trenta superava in misura compresa fra il 20 e il 43 %

quella del primo decennio del secolo. La crescita della popolazione rallentava nelle

comunità della paglia nel secondo Ottocento mentre restava più sostenuta nel pratese. Nel

complesso comunque in tutte le comunità studiate la popolazione appariva pressochè

raddoppiata all'inizio del Novecento.

Un esame comparato delle componenti dell'incremento demografico (saldo naturale e

saldo migratorio) delle diverse comunità (presentato nella tabella 2 e nei grafici 1 e 2) offre

alcuni spunti molto rilevanti sotto l'aspetto che qui interessa. La tabella 3 indica le

comunità coinvolte nello sviluppo della manifattura avevano, soprattutto nei due decenni

1820-9 e 1830-9 saldi naturali molto elevati. In particolare le comunità di Lastra e Campi

raggiungevano una natalità superiore al 50 per mille (126).

Una serie di coincidenze indica che proprio la concentrazione in queste aree di un

elevatissimo numero di famiglie composte da pigionali (soprattutto trecciaioli o operanti) e

da trecciaiole, sospingeva verso l'alto la nuzialità e la natalità. Della particolare

composizione sociale delle comunità della paglia è possibile avere una verifica quantitativa

soltanto in un periodo più tardo, quello del censimento granducale del 1841. La rilevazione

evidenzia chiaramente la presenza di un numero elevatissimo di pigionali (ben chiara nelle

parrocchie dove quest'indicazione compare accanto a quella della professione) nelle cui

famiglie la lavorazione della paglia svolgeva un ruolo assai più rilevante che in quelle dei

mezzadri. Tutte le donne - adulte, fanciulle o bambine -erano trecciaiole e gli uomini stessi

o trecciaioli o in moltissimi casi operanti agricoli. E'assai probabile che nel decennio

precedente molti che ora si dichiaravano operanti lavorassero anch'essi la paglia. Si

consideri ad esempio il caso di Campi Bisenzio. Qui, nelle cinque parrocchie per le quali è

stata possibile la registrazione, su 3637 persone il 15% degli uomini ed il 34 % delle donne

erano trecciaioli, il 6 % degli uomini erano operanti, e solo l'8% degli uomini erano coloni.

A Signa, su 467 famiglie il 21 % era rappresentato da famiglie con capofamiglia operante,

l'11 % da famiglie con capofamiglia trecciaiolo, e solo il 17 % da famiglie con capofamiglia

colono. La tabella 4 indica per converso una bassa percentuale dei coloni capofamiglia nelle

comunità dell'area. Circa il 14 % a Signa, a Lastra a Signa, a Campi. Un insediamento

colonico di antiche origini e numericamente più rilevante (intorno al 17 % delle famiglie di

tutto il territorio pratese), insieme ad una più vasta area urbana caratterizzata da specifici

processi demografici, contenevano invece la crescita della natalità nell'area pratese.

Tuttavia anche in questa fase di intenso sviluppo della popolazione continuavano ad

operare alcuni importanti meccanismi di riequilibrio demografico. Da un lato la tenuta

stessa del sistema mezzadrile, con i suoi meccanismi di autoregolazione demografica più

efficaci di quelli della popolazione proletarizzata frenava in parte la crescita della

popolazione. Il ritmo e la durata, il livello di sviluppo, i redditi consentiti dalla manifattura

della paglia non riuscirono a indebolire il sistema colonico distaccando dai poderi, come

sarebbe accaduto oltre un secolo più tardi, interi nuclei familiari. La penetrazione della

manifattura era chiaramente visibile al censimento del 1841, ma limitata alle donne e ai

bambini, alle seconde forze della famiglia: un reddito marginale nell'economia familiare

mezzadrile.

Altri elementi concorrevano poi ad una sorta di autoregolazione demografica dell'area. In

particolare lo sviluppo della manifattura non riusciva neanche nella sua stagione più

intensa a riassorbire tutto l'incremento demografico che produceva. E proprio nelle

comunità dove l'incremento naturale della popolazione era più elevato, anche nei dieci anni

di maggior sviluppo, interveniva l'emigrazione a controllare la crescita della popolazione.

E' il caso di Campi Bisenzio, l'area più esposta ai rischi della trappola demografica descritta

da Medick. Viceversa l'unica comunità nella quale lo sviluppo della paglia con suo ciclo

riusciva a provocare visibili fenomeni di immigrazione era Signa, dove però continuavano

ad agire sullo sviluppo della popolazione altri freni. Qui il controllo sulla crescita della

popolazione era assicurato principalmente dall'elevata mortalità infantile. Grazie al

combinarsi dello sviluppo naturale e dell'immigrazione attratta dallo sviluppo della

manifattura Signa diveniva negli anni Trenta, per il rapporto elevatissimo fra popolazione

ed estensione del territorio (circa 1000 abitanti per ogni miglio quadrato) "la più popolosa

comunità del Granducato di Toscana" (127). L'alta densità della popolazione nei borghi di

Signa, a causa della mancanza di sistemi igienici adeguati, si traduceva appunto

un'elevatissima mortalità, soprattutto infantile. La tab. 5 evidenzia che la mortalità infantile

nei tre decenni dal 1818 al 1847 colpiva circa un terzo dei nati. Lastra a Signa, collocata di

fronte a Signa all'altra estremità dell'Arno, e Prato, che pure vedeva un notevole sviluppo

della manifattura, mostravano fenomeni intermedi, cioè un saldo migratorio non rilevante

e un saldo naturale più elevato di Signa. Nel complesso i saldi naturali e migratori delle

comunità della paglia sembravano compensarsi a vicenda delimitando lo sviluppo

demografico.

Anche in virtù dei persistenti vincoli alla crescita della popolazione questa prima e breve

stagione di sviluppo della manifattura fu accompagnata da una certa scarsità dell'offerta di

lavoro, lenta a adeguarsi al ritmo di sviluppo della domanda (128), ad un tumultuoso

aumento dell'occupazione. Non esiste per questi decenni nessuna rilevazione a cui fare

riferimento per una valutazione globale attendibile del numero dei lavoranti. Fra il

censimento "napoleonico" delle manifatture effettuato nel 1811 e il censimento granducale

del 1841 vi è uno scarto dei criteri di rilevazione, e nessuna delle due statistiche era in

grado di registrare la portata dei processi in atto (129). Secondo una più credibile stima i

lavoranti divennero in questi anni circa 80.000, un numero altissimo, che implicava, date le

dimensioni demografiche delle Comunità che stiamo studiando, da un lato un'ampia

diffusione geografica della lavorazione, dall'altro il determinarsi di una fase in cui nelle

Comunità intorno a Signa si potevano percepire buoni salari (130).

Questa breve stagione è ricordata dalle testimonianze come una vera età dell'oro. Secondo

Mariotti negli anni della Restaurazione "la manodopera era pagata dalle due alle otto lire al

giorno in ragione della destrezza del lavorante"(131). L'aumento dei salari era segnalato, del

resto, dal mutamento della divisione sessuale del lavoro. Come abbiamo visto molti

operanti dai cento mestieri entrarono in grande numero in un'attività -l'intrecciar paglia -

che tradizionalmente apparteneva alla sfera dei lavori femminili.

Ma è nel lungo periodo che gli effetti cumulativi dello sviluppo della popolazione creavano

un crescente squilibrio fra l'entità della domanda e quella dell'offerta di lavoro, creando

anche un improvviso allarme sociale intorno al problema dei pigionali. Dopo i moti del

1848, che giunsero al culmine di in un periodo di crisi della manifattura, e dopo un anno di

cattivi raccolti, Cambray-Digny ad esempio restava impressionato proprio dalla questione

dei "pigionali" e li poneva al primo posto nell'elenco dei "pericoli sociali in Toscana".

"E' questa classe il naturale risultato della eccedenza della riproduzione umana tra i coloni e gli artieri,la quale vivendo nella incertezza del domani senza sicuri mezzi di sussistenza...ogni giorno maggiormente si immerge nella più estrema miseria e nella più dolorosa ignoranza; ma appunto come suole fare l'uomo ridotto in cotesto stato, si abbandonano essi ad una completa indifferenza del poi, ad una lamentevole imprevidenza,

e giovanissimi frequentemente si maritano, e spensieratamente riproducono esseri umani destinati a perire dopo breve tempo di stenti, o a vivere nella penuria di tutto"(132).

La sorpresa di Cambray rifletteva un sentimento di sorpresa, un'incomprensione dei

processi di "riproduzione" del proletariato caratteristica delle borghesie liberali, e che è

stata descritta da Marx con efficacia (133). In realtà negli anni Quaranta questo strato

proletarizzato reagiva allo squilibrio accresciuto fra risorse e sviluppo demografico con un

innalzamento dell'età di matrimonio. In questo periodo, nel pratese, l'età di matrimonio,

dopo l'improvviso abbassamento dei due decenni precedenti, tornava ad elevarsi. Essa

saliva alla fine del secolo a circa 28 anni per gli uomini e a 25 per le donne (134). Come è

stato notato anche sotto quest'aspetto la manifattura della paglia, con la sua congiuntura

oscillante, non sembrava dare luogo a fenomeni demografici paragonabili con quelli

"protoindustriali".

E tuttavia come si è detto gli effetti cumulativi della crescita precedente (pur controllato e

compensato da persistenti freni demografici) si facevano sentire nel lungo periodo, a causa

dell'aumento della popolazione operaia. Uno strato sociale che pur ritardando il

matrimonio tendeva alla lunga a costruire unioni (coniugali o di fatto) strutturate su una

misera economia familiare, che sommava i poveri guadagni della manifattura. L'aumento

della popolazione proseguì dunque ad un ritmo sostenuto anche dopo l'esaurimento della

stagione felice della manifattura. La domanda di lavoro non teneva il passo con un tale

incremento. Secondo i censimenti il numero delle lavoranti era oscillante. Nel 1871 si

registravano nella fabbricazione di cappelli di paglia 3.098 lavoranti maschi e 31.918

femmine. Nel 1901 i lavoranti in paglia apparivano lievemente diminuiti: venivano

suddivisi dal censimento in 2.584 maschi e 31.590 femmine. Nel 1911, infine, nel contesto

di una certa tendenza dei rilevatori a sopravvalutare le attività manifatturiere (135) si

registrava un numero di trecciaiole superiore a quante la stessa fonte ne avesse mai

contate: 83.288 lavoranti fra trecciaiole e fiascaie.

Il numero reale delle donne interessate a fare la treccia e in qualche modo coinvolte dalla

manifattura era probabilmente in tutto l'Ottocento superiore a quello registrato dai

censimenti. Il numero di 84.558 (80.160 femmine e 4.398 maschi) registrato alla fine del

secolo dalla Commissione d'inchiesta sugli scioperi era invece il risultato di una

sommatoria di sottovalutazioni e sopravalutazioni avvenute alla fonte, da parte dei sindaci

dei Comuni. Nel complesso è evidente da questi dati lo scarto crescente fra lo sviluppo della

manifattura e quello della popolazione. Le stesse distorsioni delle rilevazioni riflettevano,

come vedremo meglio in seguito, l'aumentata tensione fra le donne la cui famiglia

dipendeva dalla manifattura per la sopravvivenza e le altre che pure facevano la treccia

senza averne un assoluto bisogno per procurarsi il pane quotidiano. Un conflitto esplose

apertamente negli scioperi del 1896. Esso dimostrava lo scarto crescente fra lo sviluppo

della domanda di lavoro e la crescita della popolazione avvenuta, pur in misura

differenziata, sia nelle famiglie dei borghi che in quelle coloniche.

I dati del censimento del 1901 sulla popolazione agglomerata e sparsa in queste aree

comunali indicano con chiarezza che i paesi degli scioperi degli anni 1896-97 erano tutti

collocati lungo le due direttrici principali dello sviluppo della paglia. Lungo queste due vie

sorgevano i grossi borghi della paglia, nei quali la popolazione agglomerata superava l'80

%. Sulla Pistoiese, da Poggio a Caiano a Firenze, sorgevano Peretola, Quaracchi, Brozzi,

S.Donnino, S.Piero a Ponti e S.Cresci. Da S.Piero, lungo il Bisenzio, a sud verso l'Arno, a Nord

verso Prato, vi erano Signa, S.Mauro, Campi Bisenzio, Capalle.

Per effetto del crescente squilibrio fra domanda e offerta di lavoro i salari diminuivano

progressivamente. Un dato che verrebbe in parte ridimensionato se, nel quadro della

deflazione di questi anni, valutassimo il salario reale. Tuttavia anche questo venne alla fine

eroso dal processo in atto. Nel 1873 le donne guadagnavano fra i 30 e i 90 centesimi

secondo la rapidità e la destrezza (136). Nel 1911, nonostante la ripresa, i salari oscillavano

intorno ad un livello medio più basso, per una uguale produttività, non soltanto rispetto a

quello dei primi decenni dell'Ottocento, ma anche anche in confronto all'inizio degli anni

Settanta . Grazie al movimento delle trecciaiole nel 1911 le donne raggiungevano un

aumento medio del 50 % rispetto ad un salario variabile fra i 25 e i 45 centesimi.

La diminuzione del salario e la degradazione dell'arte si riflettevano anche, come abbiamo

visto, nel fenomeno, registrato dai censimenti, del progressivo abbandono dell'attività di

trecciaiolo da parte degli uomini, che in numero crescente sceglievano di andare a opere

come braccianti agricoli, con un salario più saltuario ma più elevato.

Accanto ai dati quantitativi, una serie di fonti insolitamente ricche, in un quadro

generalmente assai scarno di descrizioni, rivela la drammaticità raggiunta dallo squilibrio

fra popolazione e risorse alla fine del secolo, quando la crisi della manifattura fu aggravata

da alcune annate di cattivi raccolti.

Per quanto riguarda Signa i carteggi del sindaco con il Prefetto del biennio del biennio (137)

1896-97 si concludono con la constatazione che "la mancanza di lavori di ogni genere,

causata dalle decadenza delle industrie e dallo scarso raccolto agrario", avevano ridotto il

comune"nella più squallida miseria" (138). Anche secondo l'industriale Franceschini la crisi

economica si era "svolta gigante, non solamente nel centro ma benanco nelle frazioni (e

forse più)"(139). D'altra parte il cattivo raccolto si era inserito in un quadro caratterizzato da

un aumentata fragilità delle economie familiari dovuta alla stagnazione di lunga durata

della manifattura della paglia. La diminuzione statistica dei trecciaioli si accompagnava

all'aumento parallelo dei lavoratori agricoli (140).

Il salario pur scarso delle donne diveniva assolutamente vitale nei momenti di crisi agraria.

Il peso del reddito delle trecciaiole nella maggior parte delle famiglie era determinante per

sopravvivenza. Nel 1897 al Prefetto che domandava quante donne appartenessero "a

famiglie di pigionali per le quali la retribuzione pure essendo minima del lavoro

rappresenta il pane quotidiano" il sindaco di Signa rispondeva che 500 trecciaiole

appartenevano a famiglie di mezzadri 200 a famiglie non tanto bisognose e 2300 a famiglie

"in stato di assoluta miserabilità e per le quali il lavoro della treccia si impone in modo

assoluto per vivere"(141). In questi anni la grave mancanza di occasioni di lavoro spingeva i

braccianti a cercarne in Maremma (142). I coloni non subivano disagi paragonabili: nel 1896

furono coinvolti nell'assistenza alle famiglie delle scioperanti, e diedero loro dei pani. Una

forma di solidarietà che evidenziava una distanza sociale accresciuta e irrigidita dalla crisi

(143). Nella quotidianità, i coloni erano costretti a difendere i propri averi dai continui furti

dei braccianti, dei miserabili che abitavano nei borghi. Alcuni anni più tardi, nel 1911,i furti

di polli erano così frequenti da far pensare all'azione di una banda organizzata (144).

Come abbiamo visto in questi anni anche a Signa le emigrazioni superavano le

immigrazioni. Un sondaggio non sistematico ci dice che le famiglie degli strati poveri

(scalpellini e braccianti, cappellai e trecciaiole) venivano in generale dall'area della paglia:

da Lastra, da Campi, da Pistoia da Brozzi, da Carmignano e si spostavano verso le città e le

aree più dinamiche: Brozzi e Campi, Firenze, Empoli, Livorno. Anche i coloni tuttavia si

spostavano spesso verso nuovi poderi, soprattutto nella direzione di Tizzana e

Carmignano,i comuni al confine con Prato. Gli emigranti più poveri a volte partivano per

andare più lontano, verso l'Italia del Nord: Chiavari, Genova, Torino (145). E non mancarono,

in questi anni di crisi drammatica della sussistenza, episodi di emigrazione oltre l'Oceano.

E' il caso della trecciaiola Clementina Faggi e della sua famiglia. Dopo il viaggio, nel

dicembre del 1897, la donna scrive alla madre una lettera tragica.

"Vi fo sapere la burrasca che mi è toccata ...ci è durata quattordici ore immaginatevi quel giorno così fatale che dispiacere ho provato avendo la bambina senza poterli dare niente, si eramo qui abbasso che ci sarebbe stato il respiro per 100 persone ed invece ci seramo un mille persone, anche la bambina dal gran caldo e mi è rimasta soffocata"(146)

Anche il paese di Campi, negli stessi anni, sprofondava in una miseria crescente.Le famiglie

si ammucchiavano nelle case e nelle baracche, la popolazione cresceva "a dismisura". Dopo

lo sciopero il Comune deliberava la costruzione di nuove case popolari e il Pretore ne

spiegava le motivazioni al Prefetto:

"La popolazione del Comune di Campi, quasi tutta operaia, è per i tre quinti riunita in un solo nucleo che forma le borgate di S.Stefano a Campi, S.Maria, S.Lorenzo, S.Martino. Di fronte alla considerevole densità della popolazione le case abitabili sono assolutamente insufficienti e quindi la necessità che in una sola stanza dormano anche nove persone. Mi

sembra inutile far rilevare quali e quante deplorevoli conseguenze materiali e morali derivino da questa eccessiva e forzata comunanza di vita. Dirò solo che Campi dà uno dei contributi più forti alla clinica oculistica di Firenze"(147).

Il glaucoma era diffuso. Le case, "nei quartieri più poveri ed più abitati, erano di "una sola

stanza senza ammattonato e mal riparate negli affissi, esposte così ai venti, alla pioggia e ad

ogni intemperie"(148).

Sottoposto ad una crescita della popolazione particolarmente intensa, il comune era il più

povero dell'area ed era sottoposto ad un processo di più intensa degradazione. Anche la

religiosità era precaria e si riaccendeva soltanto in occasione delle rare visite pastorali (149).

Nonostante le lente trasformazioni, in tutta l'area fra Signa e Campi la tenuta delle

comunità, la loro capacità di resistere senza disgregarsi, soprattutto durante le crisi

agrarie, restava in gran parte affidata al lavoro delle donne.

La dipendenza dei paesi dalla vicenda oscillante della manifattura restò immutata, come

avrebbe presto messo in luce la breve crisi del 1914 (150) Nei paesi della paglia dell'area

pratese, invece, lo sviluppo dell'industria laniera propagava stimoli che si intrecciavano

con la dinamica della paglia collaborando ad una ripresa complessiva, evidenziata dalla

crescente immigrazione (151).

Lo studio della nostra area, in conclusione, consente di distinguere due fasi successive e

diverse della relazione fra la domanda di lavoro, connessa ai mutamenti del mercato e alle

trasformazioni produttive, e l'offerta di lavoro, che è strettamente collegata all'andamento

demografico. Questo mutamento si esprime nel diverso andamento dei salari monetari

nella prima e nella seconda fase. In una prima ondata di sviluppo, culminata con gli anni

Venti dell'Ottocento, lo sviluppo intenso della domanda domanda portava ad un rapido

aumento della manodopera impiegata, ad un aumento dei salari, e al tempo stesso

innescava una spirale di aumento della popolazione consistente ma controllata. Nella

seconda fase, culminata alla fine dell'Ottocento, lo sviluppo demografico rallentava, e i

processi di autoregolazione demografica si accentuavano nuovamente. Ma gli effetti

inerziali dell'incremento precedente portavano la popolazione, a fine secolo, a un livello

circa doppio di quello dell'inizio del secolo. Nell'ambito della deflazione e della diminuzione

del valore delle trecce e dei cappelli il salario delle trecciaiole toscane poteva essere

compresso anche del crescente squilibrio fra offerta e domanda di lavoro.

Questa sequenza spinge a riconsiderare il problema dell'aderenza del processo di sviluppo

socio-economico e demografico della manifattura al modello "protoindustriale" Come è

stato osservato da altri studiosi per il caso pratese, la brevità della stagione nella quale

crollano i meccanismi di autoregolazione demografica spinge a vedere nella manifattura

toscana più un caso diverso che una variante del modello (152). Tuttavia lo studio dell'area

centrale della manifattura suggerisce di introdurre alcune specificazioni significative. Se

nel lungo periodo la sostanziale tenuta di un equilibrio fra popolazione e risorse sembra

garantito, a Prato, da un ruolo relativamente marginale della manifattura rispetto

all'agricoltura mezzadrile e all'industria tessile, nei centri di irradiazione i processi di

autoregolazione demografica, sono minori e più drammatici (emigrazione, mortalità) nel

breve periodo, e inadeguati, a lungo andare, a evitare l'approfondirsi di grave squilibrio fra

popolazione e risorse.

3) I paesi della paglia: asincronie e oscillazioni nel rapporto fra agricoltura e manifatture a

domicilio.

Lo iato fra la crescita della popolazione e il limitato sviluppo quantitativo della manifattura

si manifestava nei paesi della paglia attraverso lente trasformazioni e adattamenti, che non

modificavano in forma radicale la struttura sociale. Nei borghi, infatti, l'attività di

intrecciare paglia restava nel lungo periodo il cespite principale delle economie familiari. E

tuttavia il processo alterava le proporzioni fra i diversi rami dell'occupazione

(agricoltura,manifattura, commerci), modificava il rapporto con il lavoro delle diverse

figure sociali, e portava ad uno spostamento della divisione del lavoro fra uomini e donne.

Mettere a fuoco le linee di questa sequenza significa guardare più da vicino ai protagonisti

(le donne, gli uomini, i fanciulli) della manifattura della paglia. Quest'interrogativo rinvia a

domande più particolari relative al ruolo del lavoro nel ciclo di vita, nell'economia

familiare, nella microsocietà dei paesi. Secondo quali linee di demarcazione sociale si

diffondeva la lavorazione? Con quale ruolo differenziato nell'economia familiare? In quale

fase del ciclo di vita era più frequente che le donne si dedicassero a questo lavoro? E quali

mutamenti del ruolo del lavoro per la sussistenza delle famiglie portano all'esplosione dei

tumulti?

Le indicazioni raccolte nelle inchieste, nelle annotazioni degli osservatori, possono essere

completate, ora, con lo studio analitico delle professioni femminili e dei ruoli familiari in

alcune realtà specializzate nella manifattura. Ma rispondere a queste domande pone una

serie di problemi delicati: i paesi della paglia sono tutti lievemente diversi uno dall'altro

per quanto riguarda il mix di attività produttive che vi si intrecciano nel tempo. Quindi è

necessario distinguere con chiarezza gli elementi comuni da quelli specifici. A questo scopo

è interessante mettere a fuoco il mutamento di lungo periodo della struttura sociale e

familiare nei paesi centrali dell'area della paglia e al tempo stesso identificare un termine

di comparazione in una realtà simile ma rappresentativa, dal punto di vista economico e

demografico, di un'evoluzione in qualche modo alternativa. In primo luogo dunque le

comunità centrali della manifattura, e in particolare una parrocchia di Signa. In secondo

luogo, come termine di riferimento e di confronto, una parrocchia pratese, nella cui

economia il ciclo della paglia è più marginale e si intreccia nel lungo periodo con quello

della manifattura tessile (153).

La base dell'esame è un confronto fra due parrocchie non distanti tra loro: S. Mauro a Signa

si trova a Nord del centro di Signa: isolata nella campagna, situata al confine con S.Piero a

Ponti, è uno dei centri più importanti della manifattura della paglia. Tavola è una

parrocchia pratese lontana dal centro urbano, compresa fra il confine comunale sud-

occidentale e quello pistoiese. Due grosse parrocchie di campagna, abbastanza equilibrate

per numero di abitanti. Nel 1901 2141 famiglie a S.Mauro a Signa e 2137 a Tavola. I due

paesi, che compaiono con vivacità sulla scena degli scioperi di fine secolo, sono

sostanzialmente omogenei sotto l'aspetto della struttura sociale: mezzadri, braccianti,

lavoranti in paglia sono le figure sociali più diffuse. Le donne trecciaiole rappresentano il

nucleo più numeroso fra tutti i lavoranti maschi e femmine. A S. Mauro nel 1901 il

censimento registra 514 donne trecciaiole, a Tavola soltanto 367, ma in ogni caso quella di

trecciaiola rappresenta la professione più diffusa, una figura presente nella gran parte dei

nuclei familiari, e questa somiglianza crea un particolare tessuto connettivo fra le famiglie.

Nonostante la semplicità delle strutture socioprofessionali, anche queste realtà di paese

sono attraversate da demarcazioni sociali profonde. Assenti i grandi proprietari terrieri e

l'alta borghesia, confini significativi attraversano ugualmente la popolazione delle due

parrocchie: le possibilità dei diversi gruppi socio-professionali di accedere alla proprietà di

qualche bene (terreni, fabbricati) sono rigidamente gerarchizzate e legate alla struttura

professionale. Nel caso della parrocchia di Tavola il censimento del 1901 consente di

identificare rapidamente i ceti proprietari del borgo. Una prima importante demarcazione,

in termini di possibilità di accedere alla proprietà immobiliare, passa all'interno della

borghesia piccola e media, fra i possidenti e i maggiori fabbricanti di paglia, quasi sempre

proprietari di terreni e fabbricati, e gli altri ceti microborghesi (ceti mercantili, bottegai,

mezzadri), tra i quali la percentuale dei proprietari è comunque rilevante. Accanto al 31 %

di proprietari rilevati nei ceti mercantili si può osservare che in questa situazione di

relativa prosperità il 23 % dei mezzadri possedeva qualche bene. Era profondo, invece, lo

iato fra l'insieme delle microborghesie del borgo e l'ampio strato composto da lavoranti a

domicilio, operanti, braccianti: solo molto raramente (tra il 9 ed il 4%) braccianti e

lavoranti a domicilio sono proprietari di qualche bene (154).

Le somiglianze fra queste due realtà si intrecciano in realtà con asimmetrie e asincronie

legate al ruolo più rilevante della manifattura, e delle sue crisi, nella parrocchia di Signa, e

viceversa alla presenza di altre importanti potenzialità di sviluppo nel territorio di Prato.

Attraverso una breve analisi della struttura sociale dei paesi, condotta esaminando la

professione dei capifamiglia, cercheremo di delineare un quadro di queste evoluzioni

alternative che costituisca lo sfondo sul quale basare l'analisi delle trasformazioni di lunga

durata del lavoro.

Gli impulsi dinamici propagati nella nella realtà pratese dall'industria tessile si manifestava

in modo accentuato e si rifletteva in una rilevante diminuzione della proporzione della

popolazione agricola rispetto a quella occupata nelle attività manifatturiere e commerciali.

La popolazione maschile attiva nell'agricoltura passava dal 44 al 34 % secondo gli studi di

Corsini (155). Al tempo stesso nella piana pratese il sistema mezzadrile si sviluppava

attraverso un processo di intensificazione delle colture e di frazionamento dei poderi che

procedeva di pari passo con lo sviluppo manifatturiero: la proporzione delle famigli

coloniche aumentava, mentre il processo di industrializzazione attraeva soprattutto i

salariati agricoli, il cui numero decresceva in termini relativi (156). Questi processi si

manifestavano nella parrocchia di Tavola con un aumento del numero dei capifamiglia

occupati nelle manifatture, e con una crescita molto rilevante del numero delle famiglie

coloniche. Diminuiva, invece, la percentuale delle famiglie di salariati agricoli (tab. 6 e 7).

Anche a Signa la tenuta della manifattura della paglia si intrecciava alla fine dell'Ottocento

con lo sviluppo di molteplici attività sostitutive. Cresceva in particolare, nelle parrocchie

centrali di Signa, il numero dei calzolai e degli scalpellini. Tuttavia il processo era meno

dinamico riassorbimento della popolazione bracciantile era più lento.Il borgo di S.Mauro,

dove alla paglia non si affiancavano nuove attività manifatturiere, appariva coinvolto in un

processo di relativa deindustrializzazione.

I tempi dell'industrializzaione apparivano quindi sfasati e contrapposti nelle due

parrocchie. A S.Mauro infatti il numero dei capifamiglia addetti alle manifatture ristagnava

nell'arco dei sessant'anni fra i due censimenti, ed in percentuale diminuiva (tab.6). Da 137

a 148 capifamiglia ed in percentuale dal 45 al 35 %. La nascita di un consistente nucleo di

operai di fabbrica, addetti alla fabbricazione dei cappelli, non riusciva a compensare il

declino delle manifatture a domicilio in termini di occupazione. Al contrario la parrocchia

pratese di Tavola attraversava nei sessant'anni fra il 1841 ed il 1901 un processo (se pure

limitato) di industrializzazione a domicilio (tab.7). Il numero dei capifamiglia impegnati

nell'artigianato e nelle manifatture saliva da 16 a 51 ed in percentuale dal 9% al 14 % del

totale. La fabbricazione delle granate si diffondeva da alcuni anni nel paese, mentre i figli

dei braccianti cominciavano a divenire tessitori a domicilio, cannellai del tessile, cenciaioli.

Una asimmetria che si rifletteva anche nel diverso sviluppo quantitativo dello strato degli

operanti e dei braccianti. Questo nucleo miserabile, sulla soglia della sussistenza, cresceva

in ambedue le parrocchie per effetto dello sviluppo della popolazione e dell'assenza di

lavori alternativi. Ma a S.Mauro il numero dei braccianti aumentava anche in termini

relativi, per effetto dei processi esaminati in precedenza. Il declino dei salari, la

degradazione della manifattura della paglia, portavano all'abbandono del lavoro di

trecciaiolo da parte degli uomini e alla loro trasformazione in lavoratori occasionali per i

quali quella di bracciante era solo l'attività prevalente.

A conferma di queste evoluzioni alternative osserviamo alcuni dati sull'ampiezza media

delle famiglie (tab.8). Le famiglie del ceto popolare, e quindi anche quelle dei lavoranti a

domicilio erano più piccole perchè, come è noto, erano strutturate in modo diverso rispetto

alle grandi famiglie dei mezzadri, quasi sempre composte da più nuclei familiari (tab.8). Si

trattava, nella maggior parte dei casi, di famiglie composte da un unico nucleo (genitori e

figli), ma di dimensione variabile in relazione al numero dei coniugi e dei figli presenti. La

prevalente struttura nucleare delle famiglie dei braccianti e dei lavoranti a domicilio non

era il risultato di una tendenza lineare dei figli ad abbandonare la casa paterna col

matrimonio, ma piuttosto, in negativo, dell'assenza di un vincolo strutturale (il legame col

podere) che spingesse le famiglie alla convivenza. Le strategie matrimoniali differenziate

dei figli primogeniti e degli altri si traducevano in una minore frequenza statistica delle

famiglie multiple. Sia nella parrocchia di Tavola che in quella di S.Mauro i padri dei

braccianti e dei lavoranti a domicilio, qualora fossero in vita, convivevano in generale con il

figlio primogenito coniugato (157). Tuttavia si trattava di un caso estremamente raro, e le

famiglie di questo strato sociale erano in generale di tipo nucleare.

All'interno di questa struttura comune delle tipologie familiari dei diversi strati sociali

l'evoluzione della dimensione delle famiglie dei ceti popolari più miseri sottolinea la

differenza fra i processi in corso nelle due parrocchie. Le famiglie dei lavoranti a domicilio

divenivano a Tavola più ampie, nel 1901, poichè ora nel lavoro a domicilio entravano gli

uomini adulti e le loro famiglie erano in generale nuclei familiari completi. A S.Mauro

invece le famiglie dei lavoranti a domicilio si restringevano, poichè non coincidevano più

con famiglie complete di trecciaioli maschi, come nel 1841, bensì con le famiglie più fragili

delle trecciaiole vedove. Il contesto pratese appariva più vivace, in questi anni, anche sotto

il profilo della cadenza del matrimonio: aumentavano le occasioni di lavoro e con queste la

cadenza dei matrimoni (158). Un fenomeno, questo, a cui faceva riscontro nell'area di Signa,

almeno nel caso qui studiato, una notevole staticità, nelle quali il numero dei celibi

"definitivi" aumentava (dal 9 al 10 % circa degli uomini sopra i 30 anni) evidenziando le

forti difficoltà di creare nuove unioni coniugali.

Nell'area centrale della paglia, dunque, il ruolo relativo della manifattura appariva in

declino rispetto alla stagione di maggior sviluppo. Un andamento analogo a questo è

confermato da un ampio sondaggio che riguarda una comunità diversa ma vicina a Signa e

molto legata alla sua economia: la vicina comunità di Lastra a Signa, un altro fra i centri

principali della manifattura. Si tratta di un'analisi basata sull'imposta di famiglia, a

intervalli decennali, nel corso di tutto l'Ottocento. La tabella 9 mostra che il numero dei

capifamiglia impiegati nelle manifatture e colpiti dall'imposta raggiungeva il livello più

elevato nel 1835 e successivamente declinava (159). Il settore primario raggiungeva

viceversa in quell'anno il minimo storico del suo peso. Il ciclo oscillante della manifattura

evidenzia al tempo stesso un ridimensionamento ed una relativa tenuta, piuttosto che una

sequenza lineare di sviluppo o di deindustrializzazione.

4. Le trecciaiole fra emarginazione dell'arte e centralità nelle economie familiari

In questo quadro, in lento movimento, deve essere riconsiderato il mutamento del ruolo

della manifattura, del lavoro di trecciaioli e trecciaiole nell'economia dei paesi e delle

famiglie. A tale scopo prenderemo in considerazione la distribuzione del lavoro fra i sessi, il

modello di partecipazione per età, il grado di coinvolgimento dei diversi strati sociali, ed

evidenzieremo i tassi di partecipazione all'attività dei gruppi e degli strati in questione,

costruendoli in base ai dati dei censimenti del 1841 e del 1901.

Ma per affrontare questi temi è preliminare un chiarimento sulla natura ed il mutamento

dei criteri della registrazione delle professioni ai due censimenti. Nel 1841 i soggetti della

rilevazione (i parroci) non erano tenuti a registrare la professione dei membri non

capofamiglia e quindi decidevano individualmente se prenderne nota. Ciò consentiva ampi

margini di oscillazione nella registrazione del lavoro da una parrocchia all'altra. Nelle

parrocchie della paglia, ogni volta che tale rilevazione veniva effettuata dal parroco, i tassi

di attività maschili e femminili risultavano estremamente elevati. Ad esempio a S. Mauro il

tasso di partecipazione era circa del 97 % per i maschi al di sopra degli 11 anni e di circa

l'87% per le femmine. Sessant'anni più tardi il censimento del 1901 registrava le

professioni in base al criterio in teoria diverso della professione individuale, ma questo

mutamento non sembrava portare nella rilevazione ad una percezione della nuova

professionalità (160). Nelle parrocchie della paglia è possibile osservare, laddove le

professioni sono registrate integralmente al 1841, un declino generalizzato dei tassi di

attività. Ad esempio a S.Mauro il tasso di attività scendeva per i maschi all'87%, per le

femmine al 74 %. Tuttavia i modelli di partecipazione al lavoro apparivano nel lungo

periodo solo parzialmente dissimili.

Il confronto fra i risultati quantitativi delle inchieste di questo periodo e le loro istruttorie

preparatorie, la cononoscenza dei processi reali in atto, consentono di formulare l'ipotesi

che il declino del tasso di attività, così come le principali variazioni dei modelli di

partecipazione, fossero il risultato non tanto di un mutamento dei criteri di rilevazione,

quanto di due processi "esterni" ai procedimenti di produzione della fonte e strettamente

concatenati: l'uno di natura reale, l'altro di carattere culturale e ideologico.

Il processo reale consisteva nell'aumento della concorrenza fra le trecciaiole per ottenere il

lavoro, in una generalizzata tensione che portava non tanto un gruppo di donne a ritirarsi

dal lavoro, bensì alcune a lavorare meno ed altre a lavorare di più. Era questo il risultato

dell'accresciuto scarto fra l'offerta e la domanda di lavoro, fra il numero delle donne

disponibili e capaci di fare la treccia (e che in effetti la faceva in alcuni momenti della vita) e

la possibilità di avere lavoro per tutte. Su questo quadro, caratterizzato da tensioni

profonde e latenti, si impianta alla fine del secolo un mutamento delle ideologie del lavoro

che tendono ora a delegittimare e a scoraggiare l'impegno delle donne nel lavoro. Da un

lato le ideologie della "domesticità" suggerivano che il compito femminile primario o

esclusivo fosse la cura della casa e dei familiari, dall'altro le azioni giuridiche di tutela del

lavoro delle donne e dei fanciulli sollevavano nuovi timori e spingevano questi gruppi a non

dichiarare la propria partecipazione al lavoro.

Paradossalmente, dopo gli scioperi del 1896, che evidenziavano la concorrenza accresciuta

fra le donne trecciaiole, le ideologie della domesticità raggiungevano questa attività, che

apparteneva alla sfera del lavoro a domicilio. Sulla Gazzetta dei cappellai, ad esempio, era

possibile leggere:

"Non sappiamo che genere di massaie o di donne di casa, possano riescire quelle campagnole toscane dei centri di pagliareschi, visto che meno del 10% si occupa delle cose di famiglia, preferendo anche, come ci fu dichiarato più volte, fare le maglie o trecce con minor guadagno, che non quelle mille piccole cianfrusaglie necessarie all'intimità domestica (17)" (161).

Anche Pasquale Villari scriveva:

"... le trecciaiole, sempre peggio pagate, non diminuiscono di numero, o almeno non quanto sarebbe desiderabile. Per molte di esse questo non è più un lavoro veramente retribuito, è una specie d'industria domestica, come il fare la calza o filar la canapa alla rocca. Con essa la madre, le sorelle, le figlie, la nonna, lavorando e chiacchierando (anche questo è un punto di capitale importanza) mettono insieme qualche lira che, aggiunta al salario con cui gli uomini sostentano la famiglia, serve ai loro minuti piaceri ed ornamenti (...). Queste donne finiscono spesso, non solamente per non saper più cucire o rattoppar le vesti dei loro bimbi, ma col non sapere neppur fare la calza. E non si può astenersi dal pensare, che se una metà di esse si occupassero della casa, tagliassero, cucissero gli abiti del marito e dei figli, facessero qualche altro lavoro domestico, non solo esse guadagnerebbero di più, ma anche l'altra metà, rimasta a fare la treccia, sarebbe più umanamente retribuita. Nondimeno la più parte persistono nella vecchia usanza, e si vedono qualche volta donne di condizione addirittura agiata, divertirsi a fare la treccia per 10 o 15 centesimi al giorno. Le vecchie dicono che non possono, che non sanno far altro, perchè ormai nella loro testa non

c'entra più altro. Ma intanto ricusano di mandar le bimbe a scuola, se non si insegna loro la treccia, che in molte scuole s'è dovuta perciò dei municipi introdurre (18)" (162).

La tenace difesa dell'arte della treccia, così difficile da comprendere per questi testimoni

improvvisati, aveva le proprie radici in un antico modello di partecipazione, che nel passato

aveva dato luogo -lo abbiamo visto- a tassi elevatissimi di partecipazione all'attivita'.

La strategia di scoraggiamento e di manipolazione delle immagini del lavoro, messa in atto

dai ceti egemoni e della classe politica dei comuni della paglia, dopo la rivolta del 1896, si

rifletteva anche nei lavori di costruzione dei dati prodotti per l'inchiesta del 1896. In prima

istanza i sindaci davano valutazioni impressionistiche ma in qualche modo efficaci del

numero delle trecciaiole. Ad esempio in una lettera al prefetto il sindaco che dichiarava:

"Le significo che in questo comune quasi tutte le donne e una parte degli uomini fanno la treccia per cappelli, e quindi mi è impossibile indicare anche approssimativamente il mumero di detti operai. Posso solo dirle che due terzi sono pigionali ed un terzo coloni.(163)"

Successivamente i sindaci procedevano ad una stima dei dati globali proiettando

l'incremento della popolazione sul numero delle trecciaiole registrate nel censimento del

1881 (164), mentre la suddivisione conclusiva, pubblicata nell'inchiesta del numero delle

lavoranti fra mezzadre e "pigionali" rifletteva una nuova manipolazione dei dati che teneva

conto dei gradi di bisogno relativo dei diversi strati sociali (165). Ad esempio a Prato, dopo

diversi tentativi di stimare il numero delle trecciaiole delle famiglie coloniche, si giungeva a

escludere questo strato, meno dipendente dalla treccia per la sussistenza, dalla rilevazione

statistica. Il dato numerico globale pubblicato nell'inchiesta sarebbe poi ricomparso

inalterato nelle statistiche della Camera di commercio del 1907 e del 1911 (166). Ciò

dimostra che si sarebbe presto rinunciato, nelle indagini locali, a "contare" le trecciaiole.

Al di là delle distorsioni delle fonti, il confronto fra i censimenti rivela le linee di diffusione

dell'attività, e mette in luce differenze e mutamenti che hanno una radice nella realtà.

Un primo importante aspetto del mutamento della struttura sociale della manifattura è lo

slittamento, visibile nel lungo periodo, della divisione sessuale del lavoro. Se osserviamo la

struttura dei mestieri della paglia e il grado di specializzazione di uomini e donne in queste

attività, vediamo che fra le due aree studiate passa una differenza profonda. Nel pratese il

coinvolgimento maschile nelle attività a domicilio era limitato anche all'inizio del periodo.

Il mestiere di trecciaiolo era raramente registrato, nel 1841, fra i bambini e i ragazzi. Le

maggiori possibilità di lavoro offerte dapprima da un'agricoltura relativamente ricca, e

quindi dalla diffusione di altre attività a domicilio, spiegano probabilmente questa

differenza: quella di trecciaiolo poteva essere un'attività non dichiarata ma non una vera

professione. A fine secolo invece le attività a domicilio (la fabbricazione delle granate, i

mestieri di cenciaiolo e di tessitore per l'industria tessile) erano registrate dai censimenti

professioni diffuse, nei borghi di campagna, fra i figli dei braccianti.

A Signa, al contrario, il numero degli uomini, anche adulti e capifamiglia, registrati come

lavoranti della paglia nel 1841, pochi anni dopo la stagione migliore della manifattura, era

consistente, anche se l'attività di trecciaiola restava soprattutto femminile: a S.Mauro vi

erano 172 trecciaioli, 37 sportai, 14 sceglitori di paglia (tab. 10), e 500 donne trecciaiole.

Ancora nel 1861, secondo i dettagliati prospetti del censimento di Signa, in tutta la

comunità si potevano contare, su un totale di 2066 lavoranti, 293 trecciaioli maschi. Ma alla

svolta del Novecento, dopo la lunga stagnazione della manifattura, gli uomini erano quasi

scomparsi dalle attività a domicilio. A S.Mauro si contavano 31 lavoranti fra cappellai,

trecciaioli e sportai. Il grafico 3 mostra il mutamento di lungo periodo del rapporto tra i

sessi nelle attività a domicilio legate alla paglia. Appariva invece un nucleo consistente di

"operai", 101 lavoratori impiegati nelle fabbriche di cappelli, tutti di sesso maschile. La

nascita (a S.Mauro e nella vicina S.Piero), di un certo numero di opifici per l'agguagliatura,

la messa in forma e la cucitura del cappello era segnalata, d'altra parte, anche dalla

sparizione dei negozianti in paglia (puri mercanti-imprenditori) e dalla registrazione dei

"fabbricanti di cappelli". Come nell'industria tessile pratese, anche nei borghi della paglia

un sistema di reciproci adattamenti fra fabbricanti e operai consentì che il lavoro alle

macchine restasse a lungo un'attività prevalentemente maschile.

Anche in questo caso il mutamento della registrazione statistica riflette un processo

complesso, in cui la realtà si intreccia con le immagini riflesse dalle pratiche sociali di

manipolazione del mercato del lavoro. Se è vero che l'ingresso degli uomini nella

lavorazione era sembrato in contrasto, al momento del suo verificarsi, con l'immagine

consueta della virilità, a partire dalla depressione degli anni Settanta la presenza degli

uomini nelle attività di trecciaiolo veniva di nuovo sanzionata come uno sconfinamento

dalla sfera delle attività virili (167). E' significativo, a questo proposito, un processo tenuto

nel 1874 contro un trecciaiolo di Campi Bisenzio, arrestato "per essersi mantenuto ozioso

facendo solo la treccia" (168). L'uomo era assolto perchè dimostrava "virilmente" di non aver

trovare altri lavori. Queste sanzioni tendevano probabilmente a evitare di accrescere le

tensioni sociali intorno ad un'attività molto diffusa e con scarsi margini di guadagno.

Tuttavia nei borghi della paglia alla fine dell'Ottocento gli scioperi mostrarono che, in

assenza di lavori per gli uomini, la centralità dell'arte della treccia nelle economie familiari

riproponeva un conflitto difficile da sanare: la disgregazione, l'alcoolismo, il

vagabondaggio, si affiancavano nei borghi più miseri all'aspettativa di essere mantenuti

dalle donne (169).

All'incrocio fra processi reali e distorsioni della fonte deve essere riletta anche la

partecipazione per età delle trecciaiole (e dei trecciaioli). Il grafico 1, relativo alla

parrocchia di S.Mauro a Signa, rivela la notevole continuità di un fenomeno significativo e

rilevante per la sua continuità nel tempo: il precocissimo ingresso delle bambine nel lavoro.

Si iniziava a fare la treccia e a dichiararsi trecciaiole molto presto. Già fra i 7 e gli 11 anni

più del 30% delle bambine si dichiarava trecciaiola. Mentre fra i 12 e i 16 anni compariva

come trecciaiola una percentuale di fanciulle che nelle due date variava fra il 69 ed il 97%.

Nel 1841 anzi il tasso di attività decresceva con l'età ed il livello di partecipazione variava

nel ciclo di vita con una specifica accentuazione nelle età giovanili (grafico 4). La curva

della partecipazione maschile non era molto diversa. Un modello di registrazione statistica,

questo, che rifletteva sia la realtà che le immagini del lavoro di un periodo in cui i fanciulli

non frequentavano le scuole elementari, imparavano prestissimo un mestiere, e svolgevano

un'importante funzione nell'economia familiare. In questa fase l'organizzazione sociale

della produzione che sfruttava sistematicamente il lavoro infantile era prevalente e, per

questo motivo, non era oggetto di sanzione sociale nè di tutela giuridica. Ma, al di là di una

diminuita trasparenza del fenomeno legata, alla fine del secolo, alla legislazione di tutela

del lavoro dei fanciulli, la realtà di queste aree non appariva molto diversa alla fine del

secolo. L'altissima partecipazione al lavoro delle bambine, nell'area di Signa, fu rivelata ai

testimoni che seguirono lo sciopero del 1896 da un dato sorprendente: in quell'occasione il

Municipio assegnò un sussidio di 30 centesimi a tutte le lavoranti, a partire dalle piccole

trecciaie di 7 anni (170). Per l'area pratese, è possibile fare riferimento ad alcune

testimonianze significative, relative a molti dei borghi della pianura nei quali si lavorava la

treccia. Alcuni dati, prodotti allo scopo di applicare la legge di tutela, rivelavano il ruolo

delle bambine nella produzione. A Castelnuovo una fattorina veniva ammonita perchè

teneva in una stanza di 42 metri cubi 25 "bambine dai 5 ai 23 anni". Anche l'insegnamento

del mestiere, nelle "scuole di treccia", era spesso un motivo per stipare le bambine in locali

ristretti. A Cafaggio Borgo, nel 1902, una maestra teneva in un locale angusto 40 bambine

ad imparare a fare la treccia. A Tobbiana Borgo in una camera "erano ammassate 90

ragazzine ad imparare sotto la direzione di una Monaca" (171).

La curva del ciclo di lavoro nel tempo di vita mostra che la registrazione del lavoro

declinava lievemente nella fase centrale della vita, nell'età del concepimento e della cura

dei figli, della piena maturità, e riprendeva fra le donne più anziane.

Infine, il mutare della distribuzione del lavoro di trecciaiola nei diversi ceti sociali rifletteva

l'intreccio fra i processi reali, legati all'aumento della concorrenza fra le trecciaiole e

l'influenza delle nuove ideologie del lavoro femminile generate da questi processi sulla

registrazione delle professioni. La tabella 11 ed i grafici 5 e 6 mostrano che il grado di

coinvolgimento nell'attività era diminuito radicalmente, nelle due parrocchie studiate,

soltanto nel caso dei ceti microborghesi (possidenti, mercanti e fabbricanti, bottegai,

mediatori, impiegati). All'inizio di questo periodo l'accesso all'attività delle donne di questo

strato, che viveva in generale concentrato nel borgo, appariva sia a Tavola che a S.Mauro

anche più frequente di quello dei ceti più miseri, mentre alla svolta del Novecento il tasso di

attività delle donne di questo strato era bassissimo. Al contrario fra le donne del ceto

popolare (braccianti, lavoranti a domicilio) la partecipazione all'attività, pur diminuendo

nel tempo, "teneva". L'aumento della concorrenza fra le donne per avere il lavoro portava

le più bisognose a ritmi di lavoro più intensi, a trasformarsi in "macchine viventi", e a

tentare di mantenere i vecchi guadagni con più lavoro. Secondo un attento osservatore di

una realtà non lontana nel 1911 le trecciaiole più rapide, facendo una treccia ogni 2 ore e

mezzo, e lavorando dodici ore e mezzo, facevano cinque trecce, guadagnando 55 centesimi

(172). Le mani nel corso degli anni assumevano una particolare forma contorta (173).

Fra le donne dei ceti meno miseri che vivevano concentrate nei borghi, probabilmente

alcune erano uscite effettivamente dall'attività, altre vi partecipavano con ritmi diversi e in

modo più saltuario. Nel complesso comunque le attitudini delle donne e dei funzionari del

censimento convergevano nrl riadattare l'immagine del lavoro ad un modello che

escludeva le donne meno bisognose dal lavoro salariato.

In parte simile e in parte diverso è il caso delle donne delle famiglie coloniche. Il

coinvolgimento delle mezzadre nell'arte della treccia appare nel lungo periodo più

delimitato di quello del ceto popolare, ma relativamente stabile nel tempo. I dati medi

nascondono una partecipazione strutturata secondo i ruoli familiari. Mentre le bambine e

le giovani donne nubili si dichiaravano trecciaie le coniugate, vincolate a più precise

responsabilità nella gestione della casa e della famiglia, dell'orto e del podere, risultavano

più spesso attendenti alle cure domestiche. Nel complesso i censimenti dimostrano che il

divieto fatto ai mezzadri dai patti colonici di svolgere lavori slegati dall'economia del

podere e della casa, era applicato a discrezione nel caso delle donne. Ma la tendenza delle

colone a evitar di dichiararsi "trecciaiole" era rafforzata, alla fine del secolo, da nuovi e

diversi timori. Durante la rivolta del 1896 le "pigionali" avevano posto esplicitamente fra i

loro obiettivi la richiesta che alle colone fosse impedito di partecipare alla lavorazione della

paglia (174). Passava qui, infatti, la radicale e antica discriminante fra lo strato dei mezzadri,

che aveva il pane assicurato dal rapporto stabile col podere, e i ceti sottoposti a tutte le

oscillazioni del mercato, che chiedevano protezioni almeno nell'accesso al lavoro. Nella

realtà le donne della famiglia colonica combattevano una silenziosa battaglia per

partecipare all'attività. I grafici 5 e 6 mostrano gli andamenti del tasso di partecipazione

alla attività di trecciaiola delle mezzadre. Mentre nel pratese la percentuale delle colone

registrate come attive nella treccia diminuiva, a S.Mauro si registrava un aumento della

percentuale delle mezzadre-trecciaiole. Al di là delle fluttuazioni locali della registrazione, è

probabile che almeno nell'area centrale della paglia l'infittimento della rete dei fattorini

avesse portato nel corso dell'Ottocento ad una diffusione del lavoro nelle campagne. E che

in una situazione di minore dinamismo del sistema mezzadrile, in cui era più difficile ai

mezzadri che si sposavano trovare nuovi poderi le famiglie attribuissero all'attività delle

trecciaiole un maggior valore.

L'inchiesta del 1896 descriveva così il duro conflitto fra mezzadre e pigionali per il lavoro:

"I fattorini fabbricanti incominciarono a distribuire la paglia da intrecciare, di preferenza, alle donne delle famiglie coloniche (...) le quali fanno eguale lavoro, ed in alcuni casi migliore, perchè meno affrettato, e per un compenso minore (..) Alla preferenza che i fattorini danno alle contadine non è forse estraneo qualche regaluccio di frutta, o di pollame, o tutto ciò che serve a mettere le pigionali in condizioni di inferiorità; sono quindi costrette (le pigionali. N.d.A) per aver lavoro a farlo alle stesse condizioni che i fattorini hanno stabilito con le donne delle campagne che sono portate ad esempio per ottenere la riduzione del prezzo "(175).

Alla luce di queste osservazioni è possibile riconsiderare con maggiore chiarezza il

problema, posto anche dalla testimonianza di Villari, delle attitudini delle donne dei

diversi strati sociali verso il lavoro. L'attaccamento al mestiere di trecciaiola era diffuso e

coinvolgeva la maggior parte delle fra le donne dei borghi che condividevano l'attitudine,

contratta fin da piccole, a non star mai senza far nulla. Non sempre gli osservatori

riuscivano a comprendere quale sperimentata risorsa rappresentasse per le donne la

capacità di fare la treccia, quale "dote" per il futuro per le ragazze. La percezione precaria

della vita caratteristica degli strati popolari, l'abitudine ai repentini cambiamenti della

congiuntura rafforzavano nelle donne di questi ceti la convinzione che il saper fare la

treccia costituisse una possibile assicurazione contro la povertà più acuta, contro gli

squilibri più gravi che potevano aprirsi nel magro bilancio familiare.

In questo quadro tuttavia emerge con tratti specifici la condizione - braccianti, dei lavoranti

a domicilio, e comunque dei ceti più poveri, sempre più responsabilizzate nel garantire la

sussistenza delle famiglie attraverso un lavoro a salario decrescente. Dove non si offrivano

nuovi lavori agli uomini, tali processi stringevano le trecciaie povere in una morsa di

miseria.

Una testimonianza illuminante sulla responsabilità delle donne di molte famiglie povere

nell'assicurare la sopravvivenza propria e dei familiari viene da un gruppo di trecciaie di

Iolo, un borgo confinante con Tavola. Questi ricordi coprono un periodo temporale che

parte dalla prima guerra. Vi è dunque uno spostamento cronologico, ma le osservazioni

delle donne sono legate a una memoria familiare e collettiva che va al di là dell'esperienza

individuale.

"Si faceva anche nottata noi... anche mezzanotte, il tocco, s'è fatto per lavorare. Delle famiglie ce n'era molte che le campavan con la treccia, perchè un'c'era lavori per gli uomini, per le donne c'eran le trecce, e lì si sacrificavano. (Fra moglie e marito), se un uomo un lavorava e la donna la lavorava, bene s'andava lo stesso, perchè anche con la treccia si guadagnava poco. Anche il poco gli faceva, se uno un' aveva il pane (20)" (176).

Queste considerazioni consentono di capire quale importanza abbia avuto il lavoro delle

trecciaiole nell'attutire, nell'addolcire una transizione lenta, dai tempi differenziati, dalle

attività agricole a quelle manifatturiere e industriali. La manifattura della paglia consentiva

la formazione e la riproduzione di un proletariato misero ma non sradicato, che riusciva a

sopravvivere nel proprio paese o in borghi poco lontani.Nella tradizione locale, nelle sue

rielaborazioni, nella memoria collettiva dei paesi, il valore centrale attraverso il quale si

può rileggere la storia della manifattura è ben chiaro. Nonostante la grande miseria della

popolazione che vi trovava la fonte della propria sopravvivenza questa povera attività

impedì la disgregazione della comunità, indebolì i flussi di emigrazione.

1) Del dibattito, ormai ampio, sulla protoindustria si danno qui i principali riferimenti: F.MENDELS, Proto-industrialization: The First Phase of the Industrialization Process, "Journal of Economic History", 1972, n. 32; Social Mobility and Phases of Industrialization 1976, n. 7; P.KRIEDTE, H. MEDICK, J.SCHLUMBOHM, L'industrializzazione prima dell'industrializzazione, Bologna 1984 (ed. or. tedesca 1977); H.MEDICK, The Proto-industrial Family Economy: The Structural Function of Household and Family During the Transition from Peasant Society to Industrial Capitalism, "Social History", 1976, n.2. I materiali preparatori e gli atti dell'VIII Congresso di storia economica (agosto 1982) sono raccolti nei seguenti numeri monografici delle riviste: "Revue du Nord", 1981, n.16; "Quaderni storici", 1983, n. 52; "Annales ESC", 1984, n.5; altri contributi sono usciti in "Quaderni storici", 1985, n.59. 2) L'aspetto demografico del meccanismo protoindustriale è stato approfondito in particolare da D.LEVINE, in Family Formation in an Age of Nascent Capitalism, New York, 1977. 3) Della revisione "morbida" del concetto è stato promotore soprattutto P.DEYON, in Fécondité et limites du modèle protoindustriel: premier bilan. Cfr. "Annales ESC", cit., pp. 868-881. Per le critiche più radicali si può fare riferimento invece a: Ch.VANDENBROEKE, Le cas flamand: évolution sociale et comportements démographiques aux VIIe-XVIIIe siècles, ivi, pp. 915-939; Hanno criticato il carattere teleologico del modello soprattutto i seguenti lavori: C.SABEL, J. ZEITLIN, Historical Alternatives to Mass Production: Politics, Markets and Technology in Nineteenth Century Industrialization, "Past and Present", 1985, n.108, pp. 135-176; M. BERG,

P.HUDSON, M.SONENSCHER (Eds), Manifacture in town and country before the factory, Cambridge 1983 4) A.DEWERPE, L'industrie aux champs, Roma 1985. Si veda anche la prefazione di M. AYMARD. 5) Per il concetto di Terza Italia il riferimento è a A.BAGNASCO, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna 1977. Essenziale per la conoscenza del cosiddetto modello NEC (Nord Est Centro) è poiG.FUà, C.ZACCHIA (a cura di), Industrializzazione senza fratture, Bologna 1983. 6) A.BAGNASCO, R.PINI, Sviluppo economico e trasformazioni sociopolitiche dei sistemi territoriali a economia diffusa. Economia e struttura sociale, Fondazione G.Feltrinelli, "Quaderni", n.14, 1981, pp.10-19. 7) Due studiosi americani, ad esempio, individuano nei modelli di industrializzazione della Terza Italia un sentiero di sviluppo competitivo sul piano del mercato con la produzione di massa e nei sistemi sociali corrispondenti, poco polarizzati e mobili, un'alternativa democratica alla grande fabbrica alienante. Cfr. C.SABEL e J.ZEITLIN, Historical Alternatives...cit. Si mostrano dunque più ottimisti di chi guarda da vicino. 8) Per il caso pratese rimando ai lavori di MALANIMA, PAZZAGLI e PESCAROLO in F.BRAUDEL (a cura di) Prato storia di una città, voll. II e III*. I lavori saranno citati per esteso nelle note al testo. Ma lo stesso tema era già stato affrontato in P.MALANIMA, La decadenza di un'economia cittadina. L'industria di Firenze nei secoli XVI-XVIII, Bologna 1982. 9) L.DAL PANE, Industria e commercio nel granducato di Toscana nell'età del Risorgimento, Bologna 1973, vol. II, p.65. 10)P. MALANIMA, La decadenza...cit., Anche Mori, nella sua recente sintesi della storia regionale in età contemporanea, ha sottolineato, in modo diverso, i limiti dell'industrializzazione delle campagne toscane. "...qui, forse a differenza di quanto era accaduto e accadeva altrove, poco numerose e poco appariscenti, dopo la probabile fase espansiva degli ultimi decenni dell'Ottocento, erano adesso quelle macchie di margine nelle quali un settore si stemperava e si confondeva nell'altro (operai che facevano anche i contadini, contadini e contadine attivi nel secondario con il lavoro a domicilio per terzi)".Queste osservazioni sembrerebbero confermare, anche nella prospettiva "protoindustriale" il lungo blocco opposto dalla mezzadria all'industrializzazione. G.MORI, Dall'Unità alla guerra: aggregazione e disgregazione di un'area regionale, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi, La Toscana, Torino 1986, p. 294. Si veda in proposito il ricco dibattito, con i contributi di R.GIANNETTI e C.TORTI in Società e storia, a. XI (1988), n.39 (ge.-mar.), e in particolare G.BIAGIOLI, Identificazione Toscana: la Toscana e gli altri. 11) Cfr. M.PACI, Famiglia e mercato del lavoro in un'economia periferica. Il caso delle Marche, Milano, Angeli, 1979. Un'analisi affascinante della genesi delle "campagne urbanizzate" toscane, che articola meglio la questione individuando ad esempio il ruolo delle strutture mercantili storicamente costituite intorno alle produzioni di qualità toscane è nella sintesi di G.BECATTINI, Riflessioni sullo sviluppo socio-economico della Toscana in questo dopoguerra, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità ad oggi, La Toscana, cit., pp.901-926. Fra i sociologi e gli economisti che si sono occupati dei sistemi territoriali a economia diffusa, permangono interpretazioni diverse del peso e del ruolo della mezzadria. Bagnasco ad esempio attribuisce a tale sistema un peso determinante per quanto riguarda la formazione del tessuto e dei caratteri del mercato del lavoro, ma sfuma molto il discorso per quanto riguarda l'imprenditorialità, più spesso di origine urbana. Cfr. in particolare A.BAGNASCO, Il contesto sociale, in G.FUA', C.ZACCHIA, (a cura di), Industrializzazione senza fratture, cit., p. 151. Nello stesso senso conducono le verifiche compiute in M.BARBAGLI, V.CAPECCHI, ...COBALTI, La mobilità sociale in Emilia Romagna, Bologna 1989. 12) MAIC, DIREZIONE GENERALE DELLA STATISTICA, Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 31 dicembre 1871, Popolazione classificata per professioni. Categorie di professioni per circondari, Roma 1973; Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 10.2. 1901, vol. IV,

Popolazione presente in ciascun compartimento classificata per sesso, età e professione, Roma 1904. 13) Queste indicazioni sono il risultato delle comparazioni svolte nel terzo capitolo. Per quanto riguarda la fecondità complessiva dei mezzadri anche sul caso pratese non esistono finora indicazioni generali sufficientemente approfondite. Tuttavia contengono indicazioni in questa direzione i lavori citati di Biagioli, Della Pina e Pazzagli. 14) Si vedano le osservazioni di H.MEDICK sul tema della cultura plebea dei lavoranti a domicilio nella manifattura a domicilio tessile tedesca del XVII secolo. Cfr. il capitolo dedicato a questi temi in P.KRIEDTE, H. MEDICK, J.SCHLUMBOHM, L'industrializzazione... cit. 15) Mi riferisco a L.A.TILLY, J.W.SCOTT, Donne, lavoro e famiglia nell'evoluzione della società capitalistica, Bari 1981. Più che l'orientamento delle studiose, è stata la recezione italiana del saggio ad accentuare in alcuni gruppi del movimento femminista una tendenza a proiettare la figura femminile fuori dal tempo storico, e considerare un dato astorico e immutabile il carattere subalterno del lavoro femminile. 16) Ministero di agricoltura, Industria e Commercio (MAIC). Direzione Generale di Statistica, Statistica degli scioperi avvenuti nell'industria e nell'agricoltura, anni 1879-1900., Le informazioni relative agli scioperi venivano raccolte attraverso dei questionari inviati periodicamente ai sindaci e alle prefetture dalla Direzione Generale di statistica. La prefettura diramava una richiesta di informazioni alla questura. Alle dettagliate richieste del questionario i funzionari locali rispondevano, soprattutto nel caso di scioperi dispersi nel territorio, con stime approssimative. Le cifre presentate nella statistica erano dunque la somma di approssimazioni fatte da persone diverse col risultato di fornire, in un involucro esteriore molto convincente, dati spesso inattendibili. 17) Per un quadro dei modelli regionali di conflittualità in cui si inserisce il caso toscano cfr. C.TRIGILIA, Le subculture politiche territoriali, in:A.BAGNASCO, C.TRIGILIA, Sviluppo economico e trasformazioni sociopolitiche nei sistemi territoriali a economia diffusa, "Quaderni della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli", n.16, 1981, p.49. L'andamento degli indicatori regionali degli scioperi ha motivato, da parte di quest'autore, particolarmente attento alle radici storiche delle subculture politiche "rosse", alcune osservazioni significative sotto l'aspetto che qui interessa: "La Toscana e l'Emilia presentano i livelli più elevati di conflittualità...La Toscana ha una conflittualità di tipo urbano-industriale, mentre l'Emilia comincia a presentare una conflittualità agricola rilevante. Si può notare inoltre come il primato della Toscana in questa fase sia confermato anche per la dimensione degli scioperi cioè il numero medio di scioperanti per sciopero, che risulta il più elevato fra tutte le regioni". Le considerazioni svolte nel testo spingono a specificare che nel caso toscano si tratta di una conflittualità "rurale-industriale". 18)"Il peso percentuale costantemente inferiore tenuto dal numero degli scioperi rispetto agli altri due indicatori (dimensione e gravità N.d.A) suggerisce ...quale sia la forma prevalente che il conflitto assume nelle campagne: senza sostanziali alterazioni dall'inizio del secolo ai giorni nostri, le lotte si configurano come episodi decisamente meno frequenti che nel settore extra-agricolo, ma di assai più vasta dimensione". L'osservazione è tratta da L.BORDOGNA, G.PROVASI, Il movimento degli scioperi in Italia, in G.P.CELLA (a cura di), Il movimento degli scioperi nel XX secolo, Bologna 1979, p.226-227. 19 A.FRILLI, I partiti popolari, Osservazioni critiche e notizie storico- sociali, Firenze 1900, p.89 20 Cfr."La riscossa", Periodico settimanale della Federazione socialista del Collegio di Campi Bisenzio, a.I (1911),n.21. 21 U. GIUSTI, Le elezioni generali politiche del 16 novembre 1919 nel collegio di Firenze, in "Bollettino statistico del Comune di Firenze", gen.-apr. 1920, n.1-4;Le elezioni generali politiche del 15 maggio 1921, pp.10-11; E.DOZZA, Il PCd'I nella provincia di Firenze nell'anno della sua fondazione, in P.CONSOLANI, E.DOZZA, R.GILARDENGHI, G.GOZZINI, La formazione del partito comunista in Toscana, 1919-1923, Firenze 1981, p.170

22 N, CAPITINI MACCABRUNI, Gli scioperi delle trecciaiole toscane del 1896-97 e l'azione della Camera del lavoro di Firenze, in "Movimento operaio e socialista, aprile- giugno 1964. 23 Ivi, p.130; Secondo "La Nazione" le donne uscirono dalla sala del comizio gridando che l'unica soluzione era lo sciopero contro i salari di fame; per l'episodio che riguarda Pescetti cfr.PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, Sent. n.77 ,3.10.1897. 9 Il mito della manifattura della paglia come mondo organico e armonioso iniziava alla fine del Settecento, come dimostra fra l'altro il poema di M.Lastri, Il cappello di paglia, Firenze 1801, e continuò a svilupparsi per più di un secolo.La maggior parte delle monografie sulla manifattura è intonata all'idillio.In letteratura, l'ultimo contributo al mito, in piena crisi, veniva dal figlio di uno dei maggiori fabbricanti.Cfr.D.CINELLI, A mio padre, Milano 1932, pp.77-79 24 P.VILLARI, Le trecciaiole, "Nuova Antologia", 1.8.1896. 25 PRETURA DI SESTO FIORENTINO, Sentenze penali, sent.n.31,6.7.1896. 26 Ivi, sent. n.38, 30.7.1896. 27 ASF,ATTI DI POLIZIA, b.39,f.19. 28 PRETURA URBANA DI FIRENZE, Sentenze penali, sent.n.7929, 8.7.1896. TRIBUNALE DI FIRENZE, Sentenze penali sent.n.858,20.7.1896; ASF, ATTI DI POLIZIA, b.39,f.1., 29) ASF, ATTI DI POLIZIA, b.39. f.17. Cfr. anche PRETURA URBANA DI FIRENZE, Sentenze penali, sent. 2961. Su quest'episodio si veda anche G. RAVENNI, Gli asini e i sovversivi.................... 30 PRETURA DI SESTO FIORENTINO Sentenze penali, Sent,n.48,31.8.1896. 31 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Sentenze penali, Sent. n.670,29.5.1896. ivi, sent. n.ATTI DI POLIZIA, b.39,f.16 32 ISTAT, Comuni e loro popolazione ai censimenti dal 1861 al 1951, Roma 1960, p.189. 33 "La gazzetta dei cappellai", vol.I (1896), n.1, p.9. 34 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Processi penali,, b. 126, sent. n.894, 30.7.1896. 35 Ivi. Cfr. anche ATTI DI POLIZIA, b.39, f.16. 36 ASF, PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, Sent. n. 58, 30.6.1896. 37 "La gazzetta dei cappellai", cit. 38 Ivi 39 Ivi 40 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Sentenze penali, Sent. n. 772, 26.6,1896. 41 Ivi, Sent. n. 535, 23.4.1896. Amabile Malinconi fu Matteo, di anni 45, vedova di Sernissi Giovacchino, nata e domiciliata a Campi Bisenzio, trecciaiola. Questa l'identificazione anagrafica della donna condannata per lenocinio. L'intestazione è identica a quella del processo per lo sciopero, ma è riportata da una mano diversa in un secondo tempo. La circostanza che rende contraddittoria l'identificazione è che alla scioperante i giudici riconoscono l'attenuante dei buoni precedenti. Priva di documenti e quindi non identicata è anche la donna che si presenta il 18.7.1869 con Giovacchino Sernissi,per fare registrare la nascita del figlio Fiorlindo, nato dalla loro unione illegittima. Lo stesso anno segue però il matrimonio fra i due genitori, e la donna è riconosciuta come Amabile Malinconi. Cfr. COMUNE DI CAMPI BISENZIO, Stato civile, Retistro delle nascite, 1869, Registro dei matrimoni, 1869 42 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Processi penali, 1896, b.1583, proc. n.390. 43 P.VILLARI, Le trecciaiole...cit, p.394. 44 ASF, PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, Sent.n.93,7.12.1897. 45 Ivi, Sent. n. 84, 25.10.1897. Un'altra donna compare in pretura per aver rifiutato di comparire di fronte al Delegato di P.S. per accertamenti. Cfr. Ivi, Sent. n. 78, 22.10.1897. 46 ASF, ATTI POLIZIA, b.33, f. 18. 47 ASF, PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, Sent. n.77, 22.10.1897. 48 ASF, ATTI DI POLIZIA, 1897, b.33, f.18. 49 "La Nazione", 6.9.1897. 50 ASF, TRIBUNALE MILITARE, Sentenze penali, 1898, b.422 bis, Sent. n.38, 5.8.1898.

51 Ivi. 52 E.RAGIONIERI, Storia di un Comune socialista: Sesto Fiorentino, Roma 1976, p.86. 53 ASF, TRIBUNALE MILITARE, Sentenze penali, 1898,b. 422 bis, sent. n. 42, 10 ag.1898 54 N.ZEMON DAVIS, Le culture del popolo,Torino 1980,pp.199-200 55 "In Italia il legame fra il movimento borghese per il suffragio e quello più avanzato sviluppatosi all'interno del movimento socialista per rivendicare i diritti complessivi delle donne fu più stretto che in altri paesi. Le lotte delle lavoratrici, che a parità d'orario percepivano salari inferiori a quelli degli uomini, si intensificarono dopo il 1896. E memorabile fu quell'anno lo sciopero delle trecciaiole toscane, quando migliaia di donne circondarono i municipi, si sedettero sui binari e affontarono i reparti di cavalleria e fanteria inviati a fronteggiarle." Così ha scritto N.ASPESI, nella voce Movimenti femminili, in dell'Enciclopedia europea Garzanti, vol. IV............. 56 E.HOBSBAWM, Sexe, symboles, vetements et socialisme, in "Actes de la Recherche en sciences sociales, n.23, septembre 1978 57 ASF, Tribunale di Firenze,sent. n.653, 23.5.1986 58 ASF, ATTI DI POLIZIA, b.39,f.1. 59 PRETURA DI PRATO,Sentenze penali, 1896, n.335; cfr. inoltre, per la versione del cappellaio (detto anche trecciaiolo o fattorino in trecce) ivi, Sentenze penali, sent. n.296, 24.7.1896. 60 Ivi, sent. n. 296, 26.7.1896; 61 "La Nazione",26.5.1986. 62 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE,Processi penali,1896,b.1588, proc. n.626. Le informazioni che emergono dal processo sono state intrecciate, ogni volta che è stato possibile, con i dati anagrafici degli arrestati e dei testimoni della difesa, tratti dal registro della parrocchia di S.Stefano, dove si trovava il fonte battesimale, e per i nati dopo il 1865 con quelli dei registri delle nascite dello Stato Civile del Comune di Campi. Non è stato possibile risalire, invece, alle schede di famiglia del censimento del 1901, che non sono conservate presso l'archivio storico del Comune. Solo nel caso che gli arrestati e i testimoni risiedessero a S.Mauro, S.Cresci e a S.Piero, ma nel Comune di Signa, si è potuto rintracciarne le famiglie. I precedenti penali degli arrestati, se indicati nel certificato penale, hanno di risalire alle sentenze. Nel corso del lavoro sono indicati i riferimenti specifici. 63 Nella "La gazzetta dei cappellai...cit. p.9, si legge, a proposito dei disordini:"Su ventisette individui arrestati, uno solo era addetto all'industria della paglia, gli altri erano per lo più braccianti". 64 ARCHIVIO COMUNE SIGNA, Censimento generale della popolazione al 31 dicembre 1901, Schede di famiglia, III sezione. 65 Ivi; DIOCESI DI FIRENZE, COMUNITA' DI CAMPI, Registri dei battezzati; COMUNE DI CAMPI BISENZIO, STATO CIVILE, Registri delle nascite. 66 ARCHIVIO COMUNE SIGNA, Censimento generale della popolazione al 31 dicembre 1901, Schede di famiglia, n. 469, III sezione, frazione S.Cresci a Signa. La moglie è sarta, la figlia stiratora, il figlio fonditore come il padre 67 La lavorazione del truciolo era quella tradizionale di Carpi, ove l'introduzione della macchina per truciolare aveva trasformato l'antico mestiere del truciolaio. Cfr. anche "Il truciolaio", Bollettino tecnico commerciale de lavoratori del truciolo, a. I,n.1,17.5.1911. Si tratta di una macchina a vite perpetua che divide in fibre sottili il legno di salice. 68 COMUNE DI CAMPI BISENZIO, STATO CIVILE, Registro delle nascite, atto n.31, 19.1.1976, Registro dei matrimoni, atto n. 76 del 17.10.1876. I testimoni della nascita erano un bracciante e un cappellaio. I testimoni del matrimonio un bracciante e il maestro comunale. 69 P.VILLARI, Le trecciaiole, cit., p.308 70 Queste osservazioni sono il frutto di un sondaggio della Pretura di Campi Bisenzio (che include il territorio di Signa), di quella di Sesto Fiorentino (che include il territorio di Brozzi) e di quella di Prato (che include Carmignano) negli anni 1896 e 1897; della pretura di Campi si sono seguiti anche gli anni 1894 -1895, per avere una maggiore rappresentatività, e per verificare eventuali

variazioni nel tempo anche il biennio 1874- 1875. Della pretura di Prato sono stati schedati invece, oltre al biennio 1896-97, altre due annate che, all'interno del complessivo dinamismo che caratterizzava il periodo, rappresentatono dei momenti di crisi sociale. 71 Significativi a questo proposito i due procedimenti della Pretura di Campi e del Tribunale di Firenze che muovono dal tentativo di vendicarsi di un bracciante da lui perseguito per furto d'erba . Cfr.ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Sentenze penali, 1896, b.1579, proc.n. 289; Ivi,PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, sent. n. 74, 17.8.1896. 72 ASF, PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, sent. n.131, 8.11.1875; SASP, PRETURA DI PRATO, Sentenze penali, sent. n. 31, 1911. Il sondaggio delle preture rivela più in generale la frequenza delle risse violente. La composizione dei gruppi di litiganti rivelava le reti di solidarietà e le linee di demarcazione fra famiglie e gruppi sociali. Raramente i più poveri se la prendevano fra loro. Più spesso le liti contrapponevano strati sociali contigui; non soltanto borghigiani e coloni, ma anche braccianti e bottegai, trecciaiole e attendenti a casa. 73 ASF, PRETURA DI SESTO FIORENTINO, Sentenze penali, sent. n. 67, 3.10.1896. Nell'area di Brozzi, fra il 96 e il 97, sono numerosi i procedimenti contro persone che hanno dato risposte provocatorie ai Carabinieri o si sono rifiutate di collaborare con loro dando informazioni su altri. 74 DIOCESI DI FIRENZE, COMUNITA' DI CAMPI, Registro dei battezzati. 75 ARCHIVIO COMUNE SIGNA, TITOLO VI, COMMERCIO E FINANZE, 1896-1900, b.169 ,f.1896, Sciopero delle trecciaiole, Elenco delle donne sussidiate. 76 Ivi; ARCHIVIO COMUNALE SIGNA, Censimento generale della popolazione al 31 dicembre 1881. Si è preferito fare questa ricerca al censimento del 1881 perchè le schede sono ordinate in ordine alfabetico piuttosto che in ordine di sezione; non sempre si sono potuti ritrovare gli arrestati, che avevano vent'anni di meno e vivevano nella famiglia dei genitori. La ricerca su Signa al 1901 è complicata dal fatto che le famiglie sono ordinate per parrocchia. Mentre all'81 sono ordinate per cognome. 77 SASP, PRETURA DI PRATO, Sentenze penali, Sent. n. 264, 28.8.1896; Ivi, Fascicoli penali,, b.55, f. n.118 78 ASF, ATTI DI POLIZIA, 1896, b.39,ff. 1,2,6. 79 "La donna e il lavoro", Giornale delle classi lavoratrici femminili, 29.3.1911. 80 Cfr. in particolare Condizioni dell'industria delle trecce e dei cappelli di paglia nella provincia di Firenze, Relazione della Commissione d'inchiesta nominata con decreto ministeriale del 30.5.1896, Firenze 1896. 81 P.VILLARI, Le trecciaiole, cit, p 394. 82 Si tratta della vicenda a cui si è già fatto riferimento a proposito del ruolo dei mariti nelle agitazioni. Cfr. SASP, PRETURA DI PRATO, Sentenze penali, sent. n.296, 24.7.1896. 83 ASF, ATTI DI POLIZIA, 1896, b.39,f.2; ARCHIVIO COMUNE LASTRA A SIGNA, Rapporto del Sindaco al Prefetto, 2.5.1896. 84 ASF, PRETURA DI CAMPI BISENZIO, Sentenze penali, sent.n.52, 11.2.1875. 85 SASP, PRETURA PENALE, Fascicoli penali, 1896, b.55, f.333 86 Ivi, f. n. 563 87 "Il commercio toscano",23.5.1986. 88 ARCHIVIO COMUNE SIGNA, TITOLO VI, INDUSTRIA E COMMERCIO, 1896-1900, f.1896, Lettera di Pietro Franceschini al sindaco di Signa , 5.12.97. 89 ASF, TRIBUNALE DI FIRENZE, Processi penali, 1896,b.1588, proc.n.626 90 ASF, ATTI DI POLIZIA, b.39, f.11 91 MAIC, UFFICIO DEL LAVORO, Statistica degli scioperi avvenuti in Italia dal 1901 al 1905, Roma 1911; ivi, anni 1906-1911, Roma 1911-1912. "La riscossa", cit., anni I-IV (1911-1914). C.TRIGILIA, Le subculture...cit., p.47-50. 92 ARCHIVIO COMUNE SIGNA, ..... 93 ARCHIVIO COMUNALE PRATO (ACP), Miscellanea, Lavoro, 1911-1922, b. 233, f.1.

94 "Il Fieramosca", a XXXI (1911), 16 sett.; "Il nuovo giornale", a VI (1911), 16 sett. 95 "Il nuovo giornale", a.VI (1911), 15 sett. 96 Cfr. ACP, V Censimento generale della popolazione al 31 dicembre 1901, Schede di famiglia, Sezione di Tavola; ASF, STATO CIVILE TOSCANO, .Censimento 1841, Comunità di Prato, Parrocchia di Tavola S.M.Maddalena. 97) "Il lavoro" (Prato), 16.11.1907; Ivi, 23.3.1908. 98) F.MARIOTTI, Notizie storiche, economiche e statistiche intorno all'arte della paglia in Toscana, Firenze 1858, p.6 99) Sir Robert Dallington, Descrizione dello stato del Granduca di Toscana nell'anno di nostro Signore 1596 (a cura di N. Francovich Onesti e di L.Rombai), Firenze, All'insegna del Giglio, 1983, p.38. 100) Cfr. M.C. Marcuzzo, A.Rosselli, La teoria del Gold Standard. Ricardo e il suo tempo, Bologna 1986. 101) Ringrazio Gian Bruno Ravenni per quest'indicazione. Cfr. Diario di ricordi e memorie spettanti al Venerabile Convento di Castelmontorlando ossia Santa Lucia della Lastra a Signa dei minori osservanti riformati di S.Francesco a profitto dei posteri distese dal Reverendo padre lettore Serafino da Signa dello stesso ordine e provincia, cominciate l'anno MDCCXXXV. 102) K. Marx, Il capitale, Libro I, Roma 1967, p. 514 103 Cfr. MAIC, ISPETTORATO GENERALE DELL'INDUSTRIA E DEL COMMERCIO, UFFICIO D'INFORMAZIONI COMMERCIALI, Notizie sul commercio delle trecce e dei cappelli di truciolo di paglia all'estero, Roma 1907.Per studiare le successive sostituzioni delle attività della manifattura diffusa fu fondamentale in realtà la trasformazione della struttura mercantile e l'ingresso degli attuali intermediari specializzati detti buyers .Cfr. IRPET, I buyers, Firenze 1979. Questi furono figure chiave nella trasformazione merceologica e produttiva dei distretti a economia diffusa. Ad esempio è noto che in molte aree essi, al momento del declino della paglia, introdussero il lavoro a maglia, attività simile per moltissimi aspetti. 104 P.HORN, The Buckinghamshire straw plait trade in Victorian England,"Records of Buckinghamshire", vol. 19, Part. I, 1971, pp. 42-54; G.MORI, "Dimensione Stato" e storiografia economica e sociale: lo Stato e la rivoluzione industriale, in F.Andreucci, A. Pescarolo (a cura di), Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati. Le coordinate spaziali della storia contemporanea (XIX e XX secolo), Firenze 1989, pp. 85-86; T.DUBLIN, Women's Work and the Family Economy: Textiles and Palm Leaf Hatmaking in New England, 1830-1850, "The Tocqueville Review", Vol. V, 2 (Fall-Winter), 1983, pp. 297-313. 105 MAIC, Statistica degli scioperi avvenuti nell'anno 1911, cit. 106 "La Gazzetta dei cappellai", vol. I, 1 giu.1896, p.8. 107 Ringrazio Lela Gobbò e la signora Lina Cinelli per i materiali sulla Cinelli e la Burgisser. Cfr. anche Intervista a L.CINELLI, nata a Signa il 7.10.1902, registrata il 26.9.1984. Per la vicenda di Arnoldo Burgisser, il grande negoziante di cappelli svizzero che fondò la Banca Toscana, cfr. Accenni sulla famiglia Burgisser di Jonen, Firenze 1937 Le fabbriche fiorentine, a differenza di quelle di Signa e di Campi e Brozzi, erano quasi tutte di proprietà degli svizzeri: La Burgisser e la Bruggisser, la Bauer, la Ladstatter, la Weber, la Baese, la Zimmermann, la Dearberg. Cfr." Annali si statistica", Statistica industriale, f.LV, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Firenze, Roma 1895 108) Bollettino degli atti della Camera di commercio ed arti di Firenze, 18 feb. 1885 109 Condizioni dell'industria e dei cappelli di paglia, cit, pp.139-140 110) Intervista a R.REALI, nato a Signa nel 1905, registrata il 12-12-1986. 111 G.BIAGIOLI, La pluriattività nelle campagne toscane, Relazione al seminario La pluriattività e i rapporti con l'industria nelle campagne italiane (secoli XIX-XX), Ferrara 9-10 gen. 1987, in corso di pubblicazione negli Atti dell'Istituto Alcide Cervi.

112 N.DONATI, L'industria della paglia nella provincia di Firenze, a cura della CAMERA DI COMMERCIO E INDUSTRIA DI FIRENZE, Firenze 1927. 113) O.VITALI, Aspetti dello sviluppo economico italiano alla luce della ricostruzione della popolazione attiva, Roma, Istituto di demografia, 1970, p.59 114) Per la comprensione del caso della paglia ed in generale delle industrie dell'abbigliamento, appaiono stimolanti le osservazioni formulate da Cafagna a partire dai problemi del setificio sulla particolare natura del rapporto fra l'Italia e i mercati europei, visti come un "centro" ed una "periferia" accomunati da una particolare vicinanza culturale e storica. Cfr.L.CAFAGNA, Dualismo e sviluppo nella storia d'Italia, Venezia, Marsilio, 1989, p.XXII. 115) F.F. MENDELS, Proto-industrialization: The First Phase of the Industrialization Process, "Journal of Economic History", 32 (1972), pp. 241-261; P. KRIEDTE, H. MEDICK, J. SCHLUMBOHM, L'industrializzazione prima dell'industria-lizzazione, Bologna 1984, p. 16. 116) L.Rombai, Paesaggio e territorio nella Toscana moderna e contemporanea: una traccia di storia dell'organizzazione territoriale, in C.Corsini (a cura di), Vita morte e miracoli di gente comune. Appunti per una storia della popolazione della Toscana fra XIV e XX secolo, Firenze 1988, p.21. 117) L.DEL PANTA, Una traccia di storia demografica della Toscana nei secoli XVI-XVIII, Firenze, Dipartimento di Statistica matematica, 1974. 118) P.MALANIMA, La decadenza...cit. 119) Sulla crescita demografica dei borghi si vedano, per l'Ottocento, le considerazioni svolte da G.BIAGIOLI in Identificazione Toscana...cit. 120) M.DELLA PINA, Gli insediamenti e la popolazione, in E.FASANO GUARINI (a cura di) Prato storia di una città, vol.II, Un microcosmo in movimento, Firenze 1986, p.56. Per lo sviluppo della popolazione toscana in questo periodo cfr. L.DEL PANTA, Città e campagna in Toscana nella seconda metà del XVIII secolo: dinamica e distribuzione della popolazione, in "Storia urbana"...... 121) B.DEROUET, Une démographie différentielle; clés pour un système autoregulateur des populations rurales d'Ancien Régime, in "Annales E.S.C.", a.35 (1980), n.1, pp. 3-41. 122 C.RIDOLFI, Considerazioni sull'industria e specialmente sull'agricoltura, in "Atti dell'Accademia dei Georgofili", XII, p. 37 123) E.REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, Firenze 1833, vol. I 124) Condizioni dell'industria della paglia per cappelli...cit., p.106 125) La tabella, come si accenna anche nella nota relativa, non tiene conto del fatto che i confini delle circoscrizioni comunali variano con la riforma del 1927 e la Comunità di Brozzi è frazionata fra i Comuni confinanti (Firenze e Signa, ma soprattutto Campi). Tuttavia una verifica fatta per gli anni 1818-1848 e qui presentata mostra che gli andamenti, anche se calcolati ai confini dell'epoca sulla base della coeva Statistica decennale del Granducato di Toscana, erano simili. Ad esempio nel primo decennio (1818-27) i tassi di natalità di Campi e di Brozzi erano superiori al 55 per mille, ma Campi dava luogo ad un saldo migratorio negativo del 12 per mille. Signa spiccava invece per una mortalità del 38 per mille e per un saldo migratorio positivo del 14 per mille. Fenomeni affievoliti, ma simili, si potevano riscontrare nei due decenni successivi. 126) Nel primo decennio la Statistica decennale del Granducato qui utilizzata non riportava i nati morti e ciò implica certamente una qualche distorsione della comparazione. 127) Repetti scrive "Il territorio pertanto della Comunità si Signa el 1933 occupava una superficie di 4902 quadr., 349 dei quali spettavano a corsi d'acqua e pubbliche stradem mentre negli altri 4553 quadr. in detto anno viveva una popolazione di 5654 persone, a proporzione di mille individui per ogni miglio quadr. di suolo imponibile"Cfr. E:REPETTI, Dizionario...cit. 128) Per il caso pratese si veda M.LUNGONELLI, Dalla manifattura alla fabbrica. L'avvio dello sviluppo industriale in G.MORI (a cura di), Prato storia di una città, vol III*,Il tempo dell'industria, Firenze, Le Monnier, 1988., p.5.

129) Nel 1811 i funzionari napoleonici registravano una fabbrica di cappelli a Signa, due a Brozzi, tre a Campi.Gli operai che lavoravano nelle "fabriques" erano secondo questa fonte 100 a Signa, 200 a Brozzi, 50 a Campi. Come operai a domicilio (non si parla in particolare di donne) erano registrate 110 persone a Signa, 260 a Campi, 290 a Brozzi. Questi dati certamente sottovalutavano una realtà già molto articolata nel territorio e basata sull'attività domestica delle donne. In questi anni si può osservare in tutte queste comunità un progressivo sviluppo del lavoro a domicilio per la manifattura. Tuttavia la paglia non aveva ancora sostituito tutte le altre altre attività femminili: a Campi ad esempio si trovavano donne giovani che filavano e tessevano, invece di fare cappelli e trecce. Cfr. ASF,Censimento napoleonico 1811-13, Règne végétal. I dati del censimento granducale del 1841 (5.293 maschi e 20.027 femmine) riflettevano le distorsioni di quella rilevazione: una collazione di stati delle anime che registravano generalmente soltanto le professioni dei capifamiglia.Cfr. L.DAL PANE, nel Granducato di Toscana nell'età del Risorgimento, vol. II,Bologna 1973 130 F. MARIOTTI, , Sull'arte e sul commercio della paglia, in "Atti dell'Accademia dei Georgofili, I, p.16. 131) Ibidem. 132) G.DE CAMBRAY-DIGNY, Cenni sui pericoli sociali in Toscana, in "Atti dell'Istituto e della Regia Accademia economico-agraria dei Georgofili di Firenze", tomo XXVII(Adunanza del 7 gennaio 1849) 133) Secondo Marx i meccanismi della riproduzione proletaria creati dalle leggi dell'accumulazione capitalistica sono i seguenti: "non soltanto la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta delle famiglie" erano "inversamente proporzionali al livello del salario". Un comportamento "assurdo" che ricordava la riproduzione in massa di alcune "specie di animali individualmente. Questo passo ci ricorda che se non i marxisti, lo stesso Marx fu in grado di cogliere i meccanismi demografici dei processi di proletarizzazione con più chiarezza di quanto non gli sia stato rimproverato da Mendels nel suo lavoro sulla protoindustria. K.MARX, Il capitale, Roma 1967, p.704. Il rilievo di Mendels alla teoria marxista sul tema della proletarizzazione è contenuto in F.F. MENDELS, Des industries rurales à la protoindustrialization: bilan historique d'un changement de perspective, "Annales E.S.C.", a.39 (1984), cit. 134)C.CORSINI, Le trasformazioni demografiche e l'assetto sociale, in G. MORI (a cura di), Prato storia di una città, cit., p.364. 135) O.VITALI, Aspetti dello sviluppo economico,...cit., p.9. 136 L.DAL PANE, Industria e commercio ...cit. 137) Il sindaco chiedeva che si procurassero alle donne commesse per la confezione di effetti militari, agli uomini nuovi lavori per un nuovo ponte sulla linea ferroviaria; un insieme di provvedimenti che svolgono un ruolo non secondario nella stabilizzazione sociale di queste aree e preparano la successiva trasformazione manifatturiera dell'area (confezioni, maglieria). Cfr.ASCS, VI Periodo, Pubblica Sicurezza, Titolo XVII, b.181, Lettera del sindaco del 16.7.1896 138) Ivi, Titolo VII, Commercio e finanze, b.169, f.1897 139) Ivi, VI periodo, titolo IV, Commercio e finanze, b.169, f. 1897 140) Ivi, VI Periodo, Titolo VI Periodo, Commercio e Finanze, 1896. 141) Ivi 142) Ivi, Lettera del Questore di Firenze, 31.9.1896 143) Ivi, f. 1897 144) ASCS, Titolo XII, Pubblica Sicurezza, 1911. 145) Ivi, Titolo XIV, Popolazione, VI Periodo, 1896-1900, b. 177, VII Periodo, anni 1901-1906, b. 204 146) Continua la lettera: "Alle tre di giorno la non era morta ma poco ci mancava io gridavo aiuto perchè Gernando non ci era, era andato a riposarsi sul suo letto perchè si eramo disperati, mi raccomandai ad un uomo che andasse a chiamarmelo per vedere per vedere se la bambina era morta o viva perchè eravamo al buio non si poteva vedere me la portarono via nell'ospedale...al tocco di notte poverina essa spirò, me la presero e me la portarono via subito, e me la gettarono

nel mare: immaginatevi il dispiacere a ripensare una bambina buona come era gettarmela nell'acqua e farmela mangiare dai pesci, come se fosse stato un cane. Ha! Questo è stato troppo strazio perchè a ripensarci le sono cose da farsi stiantare il quore dunque vi prego di farvi coraggio anche voi nel ritrovarvi sola". Insieme alle disastrose condizioni del viaggio, la lettera ferma, filtrati attraverso la scrittura sgrammaticata e l'efficace retorica di uno scrivano di professione, il linguaggio e le espressioni di una donna di paese povera ma di sentimenti laici: in tanto sconforto non un'invocazione. La nostalgia e l'attenzione tornano invece all'arte della paglia e alle vicine."Avrei piacere-quando mi scrivete- di dirmi come va l'arte delle trecciaiole e mi raccomando di una pronta risposta....vi prego di fare tanti saluti a il Cucchi alla sua moglie ed ha tutte quelle donne del vicinato..." Ivi, Titolo XVII, Pubblica Sicurezza, VI Periodo, anni 1896-1900, b.181. 147) PREFETTURA DI FIRENZE, 1897, Affari Comunali, Campi Calenzano, b.132. f.2, lettera del Pretore al Prefetto, 28.6.1896 148) Ivi, Istanza al Prefetto, 15.12.1896.Snodo di passaggio degli spostamenti verso Prato e Firenze, baricentro virtuale della piana, area di bonifica nel secondo Ottocento, il paese offriva numerose possibilità di lavoro precario: l'"eccedenza della riproduzione umana", l'immigrazione, si traducevano in un aumento della sovrappopolazione relativa. Ma l'allargarsi e l'infittirsi, nelle campagne, delle reti commerciali, offriva anche qualche possibilità di arricchirsi. 990 firme furono raccolte a sostegno della proposta sulle case popolari. Un gruppo numeroso di persone dichiarava di svolgere, senza altre specificazioni, attività mercantili: 46 mediatori, 60 fra negozianti e commercianti. Fra i ceti più poveri, accanto agli operai, ai braccianti, erano numerosi i calzolai del calzaturificio locale. L'elenco registrava molti "pagliaroli" (i coltivatori della paglia). Gli addetti alla paglia, il cui peso era rozzamente riconfermato dall'inchiesta del 1896 (2000 operai e 6000 operaie addette alle diverse lavorazioni) si confondevano invece sotto la classificazione generica di braccianti e operai. 149) Le difficoltà incontrate nella consultazione dell'Archivio Vescovile di Firenze hanno impedito di completare la consultazione. Tuttavia è significativo questo brano del maggio 1881: "In quella Sacra Visita è stato immenso il vantaggio spirituale portato a questo popolo poichè moltissimi uomini, e lo dicevano pubblicamente prima di confessarsi, si erano astenuti per anni e anni dai SS.Sacramenti". Cfr. ACVF, Visita Pastorale di Dom Cecconi, f.89-90, 1881, p.1783.Dopo gli scioperi il parroco di S.Cresci volle una nuova Chiesa perchè il popolo vi trovasse raccoglimento nell'estate, che portava con sè le esplosioni del malcontento. 150) "In altri Comuni, come Prato e Firenze, dove esistono pure fabbriche e commerci congeneri, il fenomeno è meno sentito, sia perchè le case qui esistenti hanno capitali propri e possono far fronte alla crisi, sia perchè tale industria non costituisce l'unica risorsa delle popolazioni operaie che sono dedicate a molte industrie di altro genere". Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, PUBBLICA SICUREZZA, DIVISIONE POLIZIA, AFFARI GENERALI, 1898-1924, b. 1913-15, f.12000.2.25, sf.Prato, Lettera del Prefetto di Firenze al Ministero dell'Interno, 28.8.1914; con un'altra lettera il Prefetto chiedeva agevolazioni creditizie a favore del settore al Ministero dell'Agricoltura. 151) Per lo sviluppo dell'industria tessile e del lavoro a domicilio, nei borghi, alla svolta del secolo cfr. A.PESCAROLO, Modelli di industrializzazione, ruoli sociali, immagini del lavoro (1895-1943), in G.MORI (a cura di), Prato storia di una città, cit. 152) C.CORSINI, Le trasformazioni demografiche...cit.,, , p. 363 153) La scelta delle parrocchie da esaminare e delle due date di riferimento è stata dettata da un intreccio di elementi e di vincoli legati a questa prima istanza. Prato e Signa, le due comunità che di per sè rispondevano meglio delle altre a questo scopo, erano anche le uniche a conservare i fogli di famiglia post-unitari ed in particolare quelli del 1901, un punto di arrivo essenziale per comprendere la crisi della fine del secolo. Collocare il punto di partenza dell'indagine nel 1841 presenta numerosi svantaggi legati come vedremo alla differenza con i criteri di rilevazione del periodo post-unitario, ma anche l'essenziale vantaggio di situarci in un contesto ancora largamente caratterizzato dagli sviluppi della prima fase della manifattura.Le parrocchie di

S.Mauro e di Tavola sono state scelte in quanto erano particolarmente investite dalla manifattura della paglia ed offrivano il vantaggio di una buona registrazione delle professioni al censimento del 1841. Le informazioni relative ai capifamiglia e alle famiglie nel 1841 sono tratte da: ASF, STATO CIVILE TOSCANO,Censimento 1841, f....... Ringrazio Carlo Corsini, che consentendomi di vedere la schedatura delle parrocchie pratesi al 1841 da lui curata mi ha aiutato in questa parte del lavoro. Ringrazio inoltre Andrea Doveri che mi ha consentito di utilizzare la schedatura della parrocchia di S.Mauro da lui inserita in un archivio informatico. I dati relativi alla parrocchia di Tavola sono stati elaborati manualmente; i dati relativi a S.Mauro sono stati elaborati col programma Dbase3. Per la rilevazione dei dati relativi al 1901 cfr. Archivio Comunale di Prato (ACP), Statistica, Censimento della popolazione al 10 febbraio 1901, Frazioni di Iolo e Tavola. Per la parrocchia di S.Mauro al 1901 si veda Archivio Comunale di Signa, Censimento 1901, fogli di famiglia. I dati saranno poi pubblicati in MAIC, DIREZIONE GENERALE DI STATISTICA, Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 10 febbraio 1901, vol. III, Roma 1904, p. 94 Il caso pratese presenta anche il vantaggio di inquadrarsi in un contesto di conoscenze storiografiche molto ricco. 154) Cfr. Archivio Comunale di Prato (ACP) Statistica, V Censimento generale della popolazione al 10 febbraio 1901, filza n. 37, Registri di spoglio delle notizie relative al numero e alla qualità delle famiglie.I registri contengono notizie sintetiche sui capifamiglia e sulle famiglie, inclusa l'informazione relativa al fatto che questi possiedano terreni o fabbricati, e la specificazione della religione a cui appartengono. 155) C.CORSINI, Le trasformazioni demografiche...cit, p. 404 156) C. PAZZAGLI, Le campagne e i contadini fra la permanenza della mezzadria e l'attrazione urbana, in G. MORI (a cura di), Prato storia di una città, cit. Lo sviluppo della mezzadria è legato, come mostrano i risultati di questo lavoro, a nuovi investimenti in agricoltura che derivano dal dinamismo capitalistico messo in moto dall'industria tessile. Uno sviluppo, d'altra parte, che avviene attraverso un infittimento della maglia poderale ed una intensificazione del lavoro, piuttosto che attraverso una trasformazione del rapporto fra capitale e lavoro caratteristico della mezzadria. Nell'agricoltura come nell'industria di quest'area, è dunque attraverso la moltiplicazione delle aziende che si conseguono gli incrementi della produzione. Secondo Pazzagli questo complessivo processo di "attivazione" dell'agricoltura pratese avvenne a partire dagli anni Settanta e anche in coincidenza con le nuove possibilità aperte dall'alienazione dei beni ecclesiastici. A questo proposito i vedano le pp. 122-123. 157) M. BARBAGLI, in Sotto lo stesso tetto, Bologna 1984, analizza il mutare, nel ciclo di vita, delle strutture familiari dei braccianti del Comune di Ferrara e di quello di S. Giovanni in Persiceto, mostrando come la prevalenza delle famiglie nucleari mascheri una tendenza di questo gruppo a vivere in famiglie multiple nell'età immediatamente post-matrimoniale. Cfr. Op. cit., p. 81. Non mi sembra da escludere che anche in quei casi la media statistica nasconda piuttosto una differenza di comportamenti fra il primo e gli altri figli. Modelli familiari analoghi sono stati osservati per un periodo precedente, fra i filatori del comasco. Cfr. R. MERZARIO, Il capitalismo nelle montagne (1746-1811), paper presentato al seminario "Work and Family in Pre-industrial Europe", ISTITUTO UNIVERSITARIO EUROPEO, 11-13.2.1986. Merzario ipotizza che questo modello di comportamento, caratteristico della famiglia-ceppo, derivasse dalla tradizione contadina. 158) C.CORSINI, Le trasformazioni demografiche....cit., p.365 159) I dazzaioli della tassa di famiglia rilevano i capifamiglia sottoposti alla tassa suddividendoli in 5 categorie di tassazione e indicandone l'attività professionale. 160) Sul mutamento dei criteri di rilevazione fra la rilevazione dei parroci del 1841 e i censimenti moderni organizzati dallo Stato cfr. ancora C.CORSINI, Le trasformazioni demografiche...cit 161)La Gazzetta dei Cappellai", vol. I (1896), n. 2, p. 32 162) P. VILLARI, in Le trecciaiole, "Nuova Antologia", a (1986), fasc. XV, descrive l'oscillazione delle statistiche attribuendola alla presenza nella lavorazione di un nucleo di lavoratrici a tempo pieno e ad uno strato di lavoratrici (e di lavoratori) a tempo parziale.

163) ACP, Statistica, b.1896, f. 99, fasc. 1 164) Ivi, Cfr. inoltre Archivio del Comune di Signa, VI Periodo, Titolo VI Periodo, Commercio e Finanze, 1896. 165) Condizioni dell'industria delle trecce...cit, p. 175 166) CAMERA DI COMMERCIO ED ARTI DI FIRENZE, Statistica industriale, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Firenze, Firenze 1907, p. 214; CAMERA DI COMMERCIO E INDUSTRIA DI FIRENZE, Statistica industriale, Notizie...etc., p. 393 167) Ricordiamo, a questo proposito, la testimonianza già citata di Ridolfi, che negli anni della Restaurazione si stupiva di vedere gli uomini "oziar come Alcide fra le ancelle" lavorando la paglia. 168) ASF, PRETURA DI CAMPI, Sentenze penali, 1874, sent. n.21 del 18.6.1874. 169) Una situazione sociale molto simile caratterizzava, a quanto appare dal passo che segue, la manifattura della paglia inglese: i"A large portion of the male population of so-called catch workmen expect the female plaiters to mantain them throughout a great proportion of the year". Queste le osservazioni della Royal Commission on the Employment of Children, Young Persons and Women in Agricolture, nell'Inghilterra del 1868, durante la crisi della locale manifattura Cfr.P. HORN, The Buckinghamshire straw plait...cit. 170) "La Gazzetta dei cappellai", vol. I (1896), n. 1, p. 9 171) ACP, Sanità, a.1902,f.1, fasc.2, Lettera del Prefetto al Sindaco di Prato, 11.3.1902; ibidem, Lavoro, 1911-1922, Carteggio dell'assessore dell'Ufficio del Lavoro di Prato, a.1912, fasc.12 172) Si tratta del caso delle trecciaiole di Carpi descritto da C.COGLIATI, L'industria del truciolo, in "Bollettino dell'industria e del lavoro", vol. IV, n. 1-2, p. 21. Per altre testimonianze su quest'area e su quest'attività, il cui massimo sviluppo ha luogo nei primi decenni del Novecento nell'area di Modena, di Reggio Emilia, di Parma, di Mantova, di Rovigo e di Piacenza cfr. Facevan tutti la treccia: uomini, donne e bambini, datttiloscritto a cura dell'Assessorato agli istituti culturali del Comune di Carpi. Si vedano inoltre C.PONI,E.FRONZONI, Per una storia della protoindustria rurale in Emilia Romagna, Milano 1978; R. FINZI, L'estrazione della paglia da treccia nelle montagne bolognesi, "Società e storia", a. III (1980), n. 10. 173) Condizioni dell'industria delle trecce...cit. 174) "La Nazione", 21.8.1897 175) Condizioni dell'industria delle trecce...cit, p. 107 176)Intervista a Maria Rosati, registrata l'11.4.1986. Maria Rosati è nata a S. Piero Agliana il 15.3.1903.

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