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Ucraina tra Europa e Russia Traccia del discorso dell’Amb. Giulio Terzi Cena Rotary del 24/04/2014 1

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Il mio discorso alla cena Rotary del 24/04/2014

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Traccia del discorso dell’Amb. Giulio Terzi Cena Rotary del 24/04/2014

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Ringrazio il Presidente, Dario Moresco, e saluto il prossimo Governatore del nostro Distretto, Pietro Giannini. È un gran piacere essere finalmente "a casa", al Rotary Bergamo Alta, dopo aver peregrinato negli ultimi anni tra i Rotary di Roma, Washington e Tel Aviv.

Quando con Dario abbiamo pensato a un argomento di politica estera per avviare la nostra conversazione, abbiamo individuato l'Ucraina quale tema di attualità.

Speravamo entrambi, come sono sicuro Voi tutti, che la crisi "uscisse" dalle prime pagine dei giornali e dalle "emergenze" discusse ai vertici atlantici ed europei.

L'annessione russa della Crimea, con la seria minaccia di altre annessioni territoriali in Ucraina e perfino al di là dell'Ucraina, modifica radicalmente i presupposti sui quali si è basata la sicurezza Europea: non soltanto dai tempi dell'Atto finale di Helsinki nel lontano 1975, o dai tempi della Carta di Parigi sottoscritta da tutti gli Stati Europei nel 1990, all'indomani del crollo del muro di Berlino; l'annessione russa della Crimea sovverte purtroppo, e probabilmente annulla almeno per ora, le condizioni minime affinchè possa sopravvivere il Partenariato con la Russia, avviato sin dai primi anni ‘90, strutturatosi poi solidamente nel 2002 in quello "spirito di Pratica di Mare" che l'Italia non ha mai smesso di invocare neppure nel momento difficile della crisi con la Georgia dell'agosto 2008.

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Certo, non tutti i paesi europei ne erano ugualmente convinti: come era possibile, anche prima della crisi ucraina, pretendere dai Baltici incondizionate aperture di credito sulle buone intenzioni Russe?

Nell'insieme degli equilibri interni all'Ue, era però possibile, sino a non molti mesi fa, tenere vivo il principio di un vero partenariato con Mosca. Vorrei ricordare un episodio. Nell'ottobre 2012, i 28 Ministri degli Esteri europei si erano incontrati in Lussemburgo, come prassi in ambito Ue o Nato, con il Ministro russo Sergej Lavrov, collega con il quale avevo condiviso diversi anni di lavoro alle Nazioni Unite. Un diplomatico e un negoziatore abilissimo, e sul piano personale un amico.

Ebbene, insieme ad alcuni altri colleghi europei, ero giunto alla conclusione che era davvero il momento, in quell'ottobre 2012, per fare un nuovo sforzo e cercare di rilanciare seriamente il Partenariato con la Russia. Infatti nel momento in cui europei e russi si incontravano nel piovoso clima lussemburghese si erano praticamente spente quasi tutte le energie positive che si erano pur sprigionate tra il 2009 e il 2011. Sprigionate dalla politica americana per un "reset" delle relazioni con Mosca: con l'intesa sofferta, ma importante, per la riduzione delle armi strategiche (il nuovo Trattato Start); il dialogo per riattivare il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa (nel 2007 la Russia si era ritirata dal Trattato); la collaborazione sul nucleare iraniano attraverso sanzioni che convincessero Teheran la negoziato; l'autorizzazione russa ai rifornimenti militari in Afghanistan; la membership di Mosca all'OMC.

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Il successivo raffreddamento era coinciso con il ritorno di Putin alla Presidenza ed aveva ormai fatto evaporare il "reset" russo-americani. Vi erano diverse incomprensioni russe dell'atteggiamento occidentale: alcune forse giustificabili, altre decisamente strumentali.

1. Le "primavere arabe". Dalle prime avvisaglie delle rivolte contro Ben Ali, e poi a Piazza Tharir contro Mubarak, Mosca si era mostrata assai critica, denunciando i rischi di destabilizzazione nel mondo islamico. Anziché riconoscere - come avevano subito fatto i paesi occidentali - che le rivolte nascevano da esigenze incomprimibili di giustizia e di democrazia nei confronti di regimi totalmente corrotti e repressivi, a Mosca prevaleva una duplice inquietudine: A)che l'esempio antiregime delle piazze tunisine, egiziane, libiche, yemenite e siriane, si diffondesse, come poi è avvenuto sino a Istanbul, ben oltre il mondo Arabo, e potesse a un certo punto contaminare l'opinione pubblica russa in una contestazione del sistema di potere a Mosca; B) il secondo motivo di inquietudine riguardava il complesso rapporto tra lo Stato e i venti milioni di musulmani della Federazione Russa. Mosca, come hanno ripetutamente sottolineato sia Medvedev che Putin negli ultimi anni, si sente "parte organica" del mondo islamico e vuole perciò restaurare, facendo leva su tale senso di appartenenza, il suo status di Grande Potenza in Medio Oriente e in Asia:

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1. Le "primavere arabe". Dalle prime avvisaglie delle rivolte contro Ben Ali, e poi a Piazza Tharir contro Mubarak, Mosca si era mostrata assai critica, denunciando i rischi di destabilizzazione nel mondo islamico. Anziché riconoscere - come avevano subito fatto i paesi occidentali - che le rivolte nascevano da esigenze incomprimibili di giustizia e di democrazia nei confronti di regimi totalmente corrotti e repressivi, a Mosca prevaleva una duplice inquietudine: A)che l'esempio antiregime delle piazze tunisine, egiziane, libiche, yemenite e siriane, si diffondesse, come poi è avvenuto sino a Istanbul, ben oltre il mondo Arabo, e potesse a un certo punto contaminare l'opinione pubblica russa in una contestazione del sistema di potere a Mosca; B) il secondo motivo di inquietudine riguardava il complesso rapporto tra lo Stato e i venti milioni di musulmani della Federazione Russa. Mosca, come hanno ripetutamente sottolineato sia Medvedev che Putin negli ultimi anni, si sente "parte organica" del mondo islamico e vuole perciò restaurare, facendo leva su tale senso di appartenenza, il suo status di Grande Potenza in Medio Oriente e in Asia: un'ambizione peraltro ricca di contraddizioni. I nuovi arrivati a potere dopo Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Salehi, non potevano certo essere entusiasti della difesa russa del preesistente statu quo; si moltiplicavano nel frattempo a Mosca iniziative e voci xenofobe e anti-immigrazione che erano percepite molto negativamente dalle comunità musulmane dentro e fuori la Russia. Dalle Primavere Arabe nasceva così una duplice, potenziale frizione con l'Europa e con gli Stati Uniti; una frizione diventata acuta durante l'intervento occidentale in Libia.

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2. La Libia. La creazione della "no fly zone", con intervento di Paesi Nato per garantirla, era stata decisa nel marzo 2011 dalla Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza. La finalità era essenzialmente quella di proteggere la popolazione libica dai massacri che il regime stava perpetrando. La Russia era fortemente scettica e nel voto si astenne; senza peraltro porre un veto che avrebbe impedito l'intervento militare. Lo fece invece per le risoluzioni sulla Siria. Assai poco sensibile, per non dire ostile, al principio della "responsabilità di proteggere" affermatosi nella comunità internazionale dopo il genocidio ruandese e le stragi balcaniche, Mosca era contraria a interventi occidentali che modificassero lo statu quo in un Paese così importante per la sua presenza in Medio Oriente. La caduta di Gheddafi era stata un boccone amaro per Putin e la diplomazia russa ne sottolineava ad ogni piè sospinto le conseguenze negative.

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3. La crisi Siriana. Nella crisi siriana, dalle prime manifestazioni a Daara e la criminale repressione da parte di Assad, nasceva una vera ossessione russa che i Paesi Nato mirassero a replicare in Siria lo scenario libico. Ci sentivamo chiedere da colleghi russi a Washington se alla Nato se ne stesse anche solo parlando. Quando dicevamo la verità, che alla Nato la questione non era sul tavolo, i russi restavano scettici. Nel frattempo le continue oscillazioni e incertezze americane e europee nel sostenere le forze dell'opposizione siriana incoraggiavano Putin a sostenere Assad in modo sempre più massiccio: non solo per garantirsi un alleato di rilevanza strategica (base di Latakia, collegamenti con Iran e Iraq); ma anche per impedire ulteriori cambi di regime in Medio Oriente che avvantaggiassero, agli occhi di Putin, gli interessi occidentali.

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4. La Difesa missilistica contro l'Iran. Mentre le frizioni sulle Primavere Arabe riguardavano il ruolo della Russia in Medio Oriente e lo "zero sum game" nei confronti dell'Occidente, la questione della Difesa antimissile influiva direttamente, secondo il Cremlino, sugli equilibri strategici Est-Ovest. La decisione di Bush nel 2002 di accantonare il Trattato ABM (Anti Ballistic Missile), una decisione da considerare un altro "effetto collaterale" dell'11 settembre, non era certo fatta per rassicurare la Russia. Ancor meno lo era l'annunciato spiegamento di radar e missili intercettori in Polonia e Repubblica ceca, per contrastare di deterrenza la crescente minaccia missilistica iraniana. In effetti sul piano tecnico vi erano aspetti che potevano infastidire i russi. Ma Usa e Nato avevano fornito chiarimenti approfonditi e persino proposto a Mosca di "gestire insieme" le postazioni della Difesa Missilistica, inserendo personale russo nella catena di comando e controllo, condividendo analisi del rischio e conseguenti strategie. Proposte respinte in toto da parte russa. Diventava così abbastanza evidente la strumentalizzazione russa di questo dossier, nonostante una sua genesi non proprio felice.

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5. Politica europea. La politica europea del “Partenariato orientale" cominciava a rappresentare un vero elemento di rottura. Ciò poteva essere previsto; eppure, come ha detto il Ministro degli Esteri Lituano, ospite del Vertice Ue di Vilnius "l'Unione Europea ha sbagliato decisamente i calcoli sulla reazione russa". Col senno di poi, se si deve lamentare mancanza di chiarezza da entrambe le parti, c'è stata anche qui una notevole strumentalizzazione russa. È vero che guru della diplomazia mondiale come George Kennan e Henry Kissinger segnalavano da anni l'opportunità di escludere categoricamente un ampliamento dell'Alleanza Atlantica a nuovi territori dell'ex Urss. Ma il Partenariato Orientale non intendeva in alcun modo costituire una piattaforma di lancio della Nato, come il Cremlino si ostinava a far propagandisticamente credere. Il Partenariato orientale poteva invece ben preoccupare la Russia per altri motivi che il Cremlino non aveva certo convenienza ad ammettere. Poteva ben preoccupare l'apparato di potere russo l'enfasi posta, nel Partenariato orientale, sullo Stato di Diritto, sulla lotta alla corruzione, sulla promozione delle libertà individuali e dell'informazione, sulle regole di mercato, sulle "modernizzazioni" e le riforme. In questo senso, quel sistema di potere esistente a Mosca poteva ritenersi minacciato. Proprio alla vigilia del Vertice di Vilnius, un esponente del Governo Russo si rivolgeva pubblicamente agli oligarchi di Kiev per stigmatizzare che la firma dell'Accordo di Associazione con l'Ue avrebbe comportato per gli ucraini parità di diritti economici, norme anticorruzione, liberalizzazioni incompatibili con il sistema ucraino.

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Aprendo quell'importante dibattito in Lussemburgo, nell'ottobre 2012, prospettavo a Lavrov una visione avanzata del rapporto tra Ue e Russia, in modo da non limitarci allo sterile confronto di posizioni che aveva caratterizzato gli ultimi mesi. Avevo perciò insistito affinché si cercasse di ricostruire insieme una vera "Partnership strategica", mirata alla sicurezza continentale, estesa alle aree di vitale interesse per Europa e Russia, come il Mediterraneo e il Medio Oriente.

Avrebbe dovuto guidarci una comune valutazione dei rischi derivanti dal terrorismo, dalla diffusione del fondamentalismo islamico in Medio Oriente e in Africa, dalla proliferazione nucleare specialmente in Iran. Motivi convincenti per lavorare insieme non soltanto sul piano politico, ma anche su quello operativo, nei contesti multilaterali (ONU), con programmi di "institution building" nei "Paesi in transizione". Se ci fossimo posti sul terreno della "Partnership strategica", e quindi della condivisione degli obiettivi per la nostra comune sicurezza, molte divergenze si sarebbero appianate. Avremmo lavorato per accrescere non solo i rapporti economici Ue-Russia, la circolazione di capitali e servizi, ma anche per incoraggiare i contatti tra le società civili, e per liberalizzare i visti.

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Quando il Partenariato orientale era stato lanciato nel 2008, Ue e Russia sembravano abbastanza sintonizzate sull'agenda del libero scambio e delle modernizzazioni. Era solo con il ritorno di Putin alla presidenza nel 2012 che l'enfasi russa si era spostata sulla creazione di un'Unione Euroasiatica, vista da Mosca sempre più alternativa al Partenariato con l'Ue. Mentre per noi, le due dimensioni potevano anche convivere, e ci sforzavamo di farlo capire a Lavrov e a Putin. Ma ancora nel 2012 e per buona parte del 2013 tutto appariva recuperabile; in ogni caso Mosca non poneva "linee rosse" definite, se non il costante richiamo alla Unione Euroasiatica. Nella costruzione europea il rapporto franco tedesco aveva reso inimmaginabile un nuovo conflitto nel cuore dell'Europa. Il partenariato con la Russia doveva rendere inimmaginabile la riedizione della Guerra Fredda.

Lavrov conosceva perfettamente le diversità tra i 28 Paesi europei circa il rapporto con la Russia. Sapeva della estrema - oggi sappiamo quanto motivata - diffidenza verso la Russia da parte dei nove Stati UE ex Urss e Patto di Varsavia.

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Ciononostante Lavrov colse immediatamente il senso del mio intervento. Lo riprese diverse volte scherzando sul fatto che rischiavo di essere da lui citato… persino di più di quel recordman assoluto di citazioni, che era Lenin. Nei mesi successivi il clima a livello bilaterale italo-russo continuava a essere eccellente: lo dimostravano le commissioni intergovernative, le visite a Mosca mie e di altri colleghi di Governo. Il rapporto dell'Unione Europea con Mosca veniva invece condizionato dall'accelerazione impressa da Bruxelles al Partenariato Orientale.

Non c'è dubbio che tale politica sia stata voluta e guidata soprattutto da Berlino, insieme a Paesi Baltici, Polonia, Svezia, Finlandia e in una certa misura Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria. Non che per parte italiana, francese, spagnola o britannica non se ne vedesse l'utilità. Ma la situazione creatasi con le Primavere Arabe ad inizio 2011 doveva secondo noi e altri Paesi impegnare molto di più la Commissione europea e l'Alto Rappresentante europeo per la politica estera ai temi della sicurezza in Libia, dell'immigrazione dalla Siria e dal Maghreb. Doveva esserci una netta corsia preferenziale per il Partenariato Mediterraneo, sia nei tempi che nelle risorse disponibile. Ciò è avvenuto solo parzialmente. La gravitas dell'intera politica di partenariato, per gli impulsi che ho detto, continuava ad accumularsia est, verso Ucraina, Moldova, Armenia e Georgia. Verso la fine del 2012 era ormai un dogma per Bruxelles che il Vertice di Vilnius del novembre 2013 avrebbe rappresentato la tappa decisiva per l'Accordo di Associazione con l'Ucraina a con altri Paesi del Partenariato orientale.

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Si è così arrivati alla inaspettata giravolta di Yanukovych, appena prima del Vertice di Vilnius dello scorso novembre. Il Presidente Ucraino sotto un'enorme pressione russa annunciava che non avrebbe firmato l'Accordo di Associazione con l'UE. Ora tutto si poteva dire a Bruxelles, tranne che mostrare sorpresa. Diverse settimane prima del voltafaccia di Yanukovych, i servizi informativi della Commissione scrivevano in un loro rapporto che il Presidente Ucraino non avrebbe firmato. Numerosi i mea culpa. Il Ministro svedese Carl Bildt notava che l'Unione avrebbe dovuto respingere il principio inserito nella dottrina militare russa nel 2009 sul "diritto di proteggere" le minoranze russe al difuori dei confini della Federazione; l'UE avrebbe dovuto inoltre reagire alla decisione russa di bloccare le importazioni ucraine se Kiev avesse sottoscritto l'Accordo con l'Ue.

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La decisione di Putin di annettere la Crimea e di voler rendere l'intera Ucraina, di fatto, vassalla di Mosca con l'uso o la minaccia della forza, chiude la fase storica del "post Guerra Fredda". La violazione degli Accordi di Helsinki '75, di Parigi '90, di Budapest ‘94 (il memorandum trilaterale Us, Uk, Russia, garanzia della sovranità e integrità territoriale ucraina) e dello stesso Statuto delle Nazioni Unite, riporta addirittura le lancette dell'orologio ad un periodo precedente a quello di una cooperazione tra Est e Ovest che, per quanto altalenante, aveva dettato le regole fondamentali della sicurezza europea. Non vi è più, ovviamente, l'elemento ideologico del Comintern, o della diffusione del comunismo attraverso il sostegno alla lotta di classe. Ma emergono altre giustificazioni ideologiche, inquietanti per essere identiche a quella che hanno determinato lo scoppio di delle due guerre mondiali del XX Secolo: esse sono il principio di nazionalità, di tutela dei connazionali al difuori dei confini, dell'uso della forza nella soluzione delle controversie. Questi tre principi sono prepotentemente affermati da Putin in Crimea, nell'Ucraina Orientale, lo sono già stati in Abkhazia, in Georgia, in Transnistria, e possono essere ancor più pericolosamente affermati nei Paesi Baltici e in Asia Centrale. Ma la Russia afferma ora anche un principio nuovo, del tutto peculiare alla realtà odierna: l'utilizzo delle forniture di energia, di cui ha il monopolio nei confronti di Paesi dove risiedono minoranze russe, a fini eminentemente politici. Un' "arma non convenzionale", in un certo senso di "distruzione economica".

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Il nuovo ordine putiniano azzera l'efficacia del sistema di "sicurezza cooperativa europea" basato da 40 anni, con successo, su:• rispetto della sovranità, dell'inviolabilità delle frontiere, del principio di non

interferenza negli affari interni; • di esclusione assoluta dell'uso della forza nelle controversie internazionali; • di riconoscimento dei diritti delle minoranze da parte di tutti gli Stati europei. In

base a tale riconoscimento di diritti, incombe ai singoli Stati l'obbligo di tutelare le minoranze esistenti nel proprio territorio e poste sotto la propria sovranità. Non è ammessa l'interferenza o peggio ancora la "protezione con la forza" di queste minoranze nazionali da parte di un paese terzo. L'Organizzazione per la Cooperazione e la sicurezza in Europa ha istituito da tempo un Alto Rappresentante per le Minoranze Nazionali che interviene nei casi di asserita violazione degli obblighi che incombono agli Stati europei. Ho letto con sorpresa un autorevole editorialista di relazioni internazionali, che sosteneva, con intenti assolutori del comportamento russo, una "pari dignità" nell'Atto Finale di Helsinki tra i principi di sovranità e di rispetto delle frontiere e quelli di tutela delle minoranze. Dovrebbe rileggere con attenzione quei fondamentali documenti: sovranità e diritti delle minoranze sono ugualmente importanti, ma i secondi possono essere fatti valere esclusivamente nelle forme previste dal Diritto internazionale, con tassativa esclusione dell'uso unilaterale della forza;

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• l'interferenza negli affari interni dell'Ucraina è stata palese, documentata, e dichiarata assertivamente. Il Presidente Yanukovych, per ricordare solo un episodio, ha ricevuto una sorta di ultimatum pubblico dal Cremlino, affinchè la rivolta venisse repressa immediatamente, pena la sua destituzione. Le pressioni sono state di ogni tipo, prima sul piano politico, poi con l'attività di intelligence, le provocazioni organizzate, e infine con l'invio in Crimea e nell'Ucraina Orientale di "militari russi mascherati". Il referendum in Crimea è stato denunciato come del tutto invalido e illegale: non soltanto dai Paesi Occidentali, ma dalla stessa Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con una risoluzione votata da oltre cento Paesi e con soli 18 voti a favore di Mosca: essenzialmente, di quei Paesi che sono o "sotto scacco russo" o che, come l'Iran, Cuba, Venezuela, votano per partito preso contro qualsiasi testo sostenuto dall'Occidente;

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• il sistema di sicurezza europeo è stato completamente scardinato dalla annessione russa della Crimea. Un sistema di sicurezza che ha contribuito enormemente alla pace e alla sicurezza di tutta l'Europa; che ha superato le crisi della Guerra Fredda; che ha "tenuto" anche nei momenti di maggiore instabilità di questi ultimi venticinque anni; che ha resistito alle crisi balcaniche e all'implosione dell'impero sovietico. Tale sistema era efficace, preciso circa le "misure di fiducia" da applicare. Esso regolamentava le operazioni militari consentite all'interno di ogni singolo Stato; l'Atto finale di Helsinki e i suoi annessi, rafforzati negli anni successivi dal Trattato CFE, stabilivano lunghi preavvisi per spostamenti di truppe al disopra di determinate soglie; prevedevano limitazioni allo schieramento di forze in prossimità dei confini; imponevano verifiche e notifiche. Tutti obblighi sprezzantemente disattesi da Mosca.

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Il fatto che la Russia di Putin ritenga di avere un futuro più prospero, più stabile e più sicuro, inseguendo una propria pulsione imperiale e "euroasiatica", a scapito di un impianto di sicurezza cooperativa e di partenariato con tutti gli altri Paesi Europei - di cui pure Mosca si dichiarava convinta sino a pochi mesi fa -non significa certo che l'Italia e i Paesi Ue debbano abdicare a una loro precisa, fondamentale responsabilità: quella di garantire la sicurezza, la libertà e il benessere dei propri cittadini. L'approccio unilateralista russo, basato sulla forza, sulla negazione del diritto internazionale, sul fatto compiuto, esige certamente una risposta ; ma soprattutto richiede un' immediata, approfondita ricostruzione della architettura europea di sicurezza. Dobbiamo essere pronti a riprendere il percorso del partenariato con la Russia. Ma non possiamo basare la nostra sicurezza sul presupposto che tale partenariato esista ancora, o che la Russia non debba più essere considerato un antagonista, come l'Alleanza Atlantica aveva stabilito sin dal 1990.

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La Russia vede l'Occidente come un pericoloso rivale. Putin lo dichiara, la dottrina strategica russa convenzionale e nucleare lo afferma con chiarezza. Ci siamo illusi in questi ultimi tempi che si trattasse di un'impostazione ancora modificabile, mossa dalla ricerca di popolarità interna, dalla necessità di stimolare gli impulsi nazionalistici per dare stabilità al Governo russo. Con la crisi Ucraina abbiamo dovuto constatare che i segnali forniti sin dal 2008 dall'attacco alla Georgia, e le pressioni sui Baltici rivelavano una precisa direzione di marcia. La dottrina strategica russa si è arricchita di uno strumento militare completamente rinnovato, perfettamente addestrato, efficiente, molto diverso dall'esercito fatto di materiali obsoleti, di militari poco disciplinati e peggio addestrati di inizio anni 2000.

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Nelle relazioni tra Stati, le controversie e le crisi possono essere affrontate con un'ampia gamma di strumenti che sanzionino, impediscano e prevengano l'uso della forza.

L'attività diplomatica può essere efficacemente sostenuta da:

1) misure di tipo economico (sanzioni, politica dell'energia),

2) riorganizzazione della deterrenza convenzionale e non,

3) integrazione di sistemi di Difesa e aumento dei bilanci per una vera Difesa europea,

4) rafforzamento politico e economico della Comunità Euroatlantica.

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Sulle misure economiche, Putin ha calcolato perfettamente le difficoltà occidentali? L'entità degli scambi e la dipendenza dal gas russo "immunizzano" davvero Mosca da sanzioni occidentali? Non è proprio così. La circostanza che il dollaro sia tuttora prevalente nel sistema finanziario mondiale, consente ai Paesi occidentali di esercitare pressioni considerevoli sul sistema bancario russo, colpendo persone e entità al vertice del Paese. La "leva energetica" di cui Putin dispone è certamente un grande vantaggio, ma unicamente nel breve termine. Perché l'avvio di una vera politica europea dell'energia, ancor meglio se raccordata a un'America ormai autosufficiente, può ridurre drasticamente la dipendenza dalla Russia. Ciò avverrà attraverso: acquisizioni di LNG da altri Paesi; gasdotti alternativi al Southstreram, come la TAP; creazione di interconnettori e di stoccaggi; crescita delle energie rinnovabili.

La Russia continua ad essere sostanzialmente un "petrostato" che incassa dall'UE 100milioni di euro al giorno. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento tenderà però a spostare la leva dal fornitore russo all'acquirente europeo. Si calcola occorrano due, tre anni per invertire la tendenza, se esiste la volontà politica di farlo. Tra l'altro, la competitività delle imprese europee, e soprattutto di quelle italiane esige un netto ridimensionamento dei prezzi energetici, ora del tutto fuori mercato a causa dei contratti "take or pay" negoziati a suo tempo dall'Eni.

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Il sistema Italia, Governo e industria petrolifera, deve muoversi con determinazione a Bruxelles perché decolli una politica comune dell'energia. Ne va della nostra economia e della nostra sicurezza. Un mercato europeo dell'energia deve fare dell'Unione il contraente del fornitore russo, rompendo l'attuale "divide et impera".

Se la Russia di Putin ha scelto, come dichiara e come dimostra nei fatti, la via del confronto con i Paesi Occidentali, in Europa e in altre parti del mondo, bisogna tempestivamente rivedere le strategie e le politiche di Difesa. Poiché nessuna persona di buon senso vuole correre il rischio di un conflitto, è essenziale adattare la nostra capacità di deterrenza allo scenario venutosi a creare. Nato e Unione Europea devono rivedere i loro "concetti strategici", ormai superati. Le capacità militari, dopo un decennio di costanti e forti riduzioni di bilancio (ricordiamo il "dividendo della pace" di cui ci rallegravamo negli anni '90?) devono tornare a essere credibili.

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Se è irreversibile la decisione americana di alleggerire la presenza militare in Europa, tocca ai Paesi UE di trovare il modo per dotarsi di Forze Armate credibili, dinanzi a una Russia che spende annualmente nella Difesa il 4,8% del suo PIL, a fronte di Paesi europei che non riescono a onorare l'impegno Nato di spendere almeno il 2%. Difesa Europea, integrazione delle Forze e dei programmi industriali rappresentano un percorso urgente e obbligato. Nello stesso tempo è necessario dimostrare che la Comunità euroatlantica è più vitale e concreta che mai. Nell'affermare la sovranità degli Stati che la compongono, i loro valori di libertà e di rispetto della persona umana valori di libertà. L'ulteriore integrazione del mercato transatlantico attraverso la sollecita conclusione del Trattato sul commercio e gli investimenti deve costituire l'elemento di forza e un segnale di determinazione occidentale rivolto anche alla Russia.

Solo così, come si è ampiamente sperimentato in altri momenti difficili nei rapporti Est Ovest, matureranno le condizioni per riportare Mosca a un tavolo di trattative che rilanci un nuovo grande progetto per la sicurezza europea. Un sistema che sia basato sulla cooperazione e su un partenariato, nel quale oggi Putin non è interessato a credere, perché invaghito della ritrovata forza del suo apparato militare, e forse illuso della solidità del suo sistema politico.