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Discorso de Sankara all’ONU le 4 ottobre 1984
New York, 4 ottobre 1984, 39ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
Traduzione Marinelle Corregia
Presidente, Segretario generale, onorevoli rappresentanti della comunità internazionale.
Vi porto i saluti fraterni di un paese di 274.000 chilometri quadrati in cui sette milioni di bambini, donne e uomini
si rifiutano di morire di ignoranza, di fame e di sete, non riuscendo più a vivere nonostante abbiano alle spalle un
quarto di secolo di esistenza come stato sovrano rappresentato alle Nazioni Unite.
Sono davanti a voi in nome di un popolo che ha deciso, sul suolo dei propri antenati, di affermare, d’ora in avanti,
se stesso e farsi carico della propria storia – negli aspetti positivi quanto in quelli negativi – senza la minima
esitazione.
Sono qui, infine, su mandato del Consiglio nazionale della rivoluzione (Cnr) del Burkina Faso, per esprimere il suo
punto di vista sui problemi iscritti all’ordine del giorno, che costituiscono una tragica ragnatela di eventi che scuotono
dolorosamente le fondamenta del nostro mondo alla fine di questo millennio. Un mondo dove l’umanità è trasformata
in circo, lacerata da lotte fra i grandi e i meno grandi, attaccata da bande armate e sottoposta a violenze e saccheggi.
Un mondo dove le nazioni agiscono sottraendosi alla giurisdizione internazionale, armando gruppi di banditi che
vivono di ruberie e di altri sordidi traffici.
Non pretendo qui di affermare dottrine. Non sono un messia né un profeta; non posseggo verità. I miei obiettivi
sono due: in primo luogo, parlare in nome del mio popolo, il popolo del Burkina Faso, con parole semplici, con il
linguaggio dei fatti e della chiarezza; e poi, arrivare ad esprimere, a modo mio, la parola del “grande popolo dei
diseredati”, di coloro che appartengono a quel mondo che viene sprezzantemente chiamato Terzo mondo. E dire,
anche se non riesco a farle comprendere, le ragioni della nostra rivolta. È chiaro il nostro interesse per le Nazioni
Unite, ed è nostro diritto essere qui con il vigore e il rigore derivanti dalla chiara consapevolezza dei nostri compiti.
Nessuno sarà sorpreso di vederci associare l’ex Alto Volta – oggi Burkina Faso – con questo insieme così denigrato
che viene chiamato Terzo mondo, una parola inventata dal resto del mondo al momento dell’indipendenza formale
per assicurarsi meglio l’alienazione sulla nostra vita intellettuale, culturale, economica e politica.
Noi vogliamo inserirci nel mondo senza giustificare comunque questo inganno della storia, né accettiamo lo status
di “entroterra del sazio Occidente”. Affermiamo la nostra consapevolezza di appartenere a un insieme tricontinentale,
ci riconosciamo come paese non allineato e siamo profondamente convinti che una solidarietà speciale unisca i tre
continenti, Asia, America Latina ed Africa in una lotta contro gli stessi banditi politici e gli stessi sfruttatori economici.
Riconoscendoci parte del Terzo mondo vuol dire, parafrasando José Martí, “affermare che sentiamo sulla nostra
guancia ogni schiaffo inflitto contro ciascun essere umano ovunque nel mondo”. Finora abbiamo porto l’altra guancia,
gli schiaffi sono stati raddoppiati. Ma il cuore del cattivo non si è ammorbidito. Hanno calpestato le verità del giusto.
Hanno tradito la parola di Cristo e trasformato la sua croce in mazza. Si sono rivestiti della sua tunica e poi hanno
fatto a pezzi i nostri corpi e le nostre anime. Hanno oscurato il suo messaggio. L’hanno occidentalizzato, mentre per
noi aveva un significato di liberazione universale. Ebbene, i nostri occhi si sono aperti alla lotta di classe, non
riceveremo più schiaffi.
Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti
i tipi hanno cercato di venderci per vent’anni. Non ci sarà salvezza per noi al di fuori da questo rifiuto, né sviluppo
fuori da una tale rottura. Tutti quei nuovi “intellettuali” emersi dal loro sonno – risvegliati dalla sollevazione di miliardi
di uomini coperti di stracci, atterriti dalla minaccia di questa moltitudine guidata dalla fame che pesa sulla loro
digestione – iniziano a riscrivere i propri discorsi, e ancora una volta ansiosamente cercano concetti miracolosi e
nuove forme di sviluppo per i nostri paesi. Basta leggere i numerosi atti di innumerevoli forum e seminari per
rendersene conto.
Non voglio certo ridicolizzare i pazienti sforzi di intellettuali onesti che, avendo gli occhi per vedere, scoprono le
terribili conseguenze delle devastazioni che ci hanno imposto i cosiddetti “specialisti” dello sviluppo del Terzo mondo. Il
mio timore è che i frutti di tanta energia siano confiscati dai Prospero di tutti i tipi che – con un giro della loro
bacchetta magica – ci rimandano in un mondo di schiavitù in abiti moderni.
Questo mio timore è tanto più giustificato in quanto l’istruita piccola borghesia africana – se non quella di tutto il
Terzo mondo – non è pronta a lasciare i propri privilegi, per pigrizia intellettuale o semplicemente perché ha
assaggiato lo stile di vita occidentale. Così, questi nostri piccolo borghesi dimenticano che ogni vera lotta politica
richiede un rigoroso dibattito, e rifiutano lo sforzo intellettuale per inventare concetti nuovi che siano all’altezza degli
assalti assassini che ci attendono. Consumatori passivi e patetici, essi sguazzano nella terminologia che l’Occidente ha
reso un feticcio, proprio come sguazzano nel whisky e nello champagne occidentali in salotti dalle luci soffuse.
Dopo i concetti di negritudine o di personalità africana, segnati ormai dal tempo, risulta vana la ricerca di idee
veramente nuove prodotte dai cervelli dei nostri “grandi” intellettuali. Il nostro vocabolario e le nostre idee hanno
un’altra provenienza. I nostri professori, i nostri ingegneri ed economisti si accontentano di aggiungervi
semplicemente un po’ di colore – perché spesso le sole cose che si sono riportati indietro dalle università europee
sono le lauree e i loro eleganti aggettivi e superlativi!
È al tempo stesso necessario e urgente che i nostri esperti e chi lavora con la penna imparino che non esiste uno
scrivere neutro. In questi tempi burrascosi non possiamo lasciare ai nemici di ieri e di oggi alcun monopolio sul
pensiero, sull’immaginazione e sulla creatività. Prima che sia troppo tardi – ed è già tardi – questa élite, questi uomini
dell’Africa, del Terzo mondo, devono tornare a casa davvero, cioè tornare alla loro società e alla miseria che abbiamo
ereditato, per comprendere non solo che la lotta per un’ideologia al servizio dei bisogni delle masse diseredate non è
vana, ma che possono diventare credibili a livello internazionale solo divenendo autenticamente creativi, ritraendo
un’immagine veritiera dei propri popoli. Un’immagine che gli permetta di realizzare dei cambiamenti profondi delle
condizioni politiche e sociali e che strappi i nostri paesi dal dominio e dallo sfruttamento stranieri che lasciano i nostri
stati nella bancarotta come unica prospettiva.
È questo che noi, popolo burkinabé, abbiamo capito la notte del 4 agosto 1983, quando le prime stelle hanno
iniziato a scintillare nel cielo della nostra terra. Abbiamo dovuto guidare la rivolta dei contadini che vivevano piegati in
due in una campagna insidiata dal deserto che avanza, abbandonata e stremata dalla sete e dalla fame. Abbiamo
dovuto indirizzare la rivolta delle masse urbane prive di lavoro, frustrate e stanche di vedere le limousine guidate da
élite governative estraniate che offrivano loro solo false soluzioni concepite da cervelli altrui. Abbiamo dovuto dare
un’anima ideologica alle giuste lotte delle masse popolari che si mobilitavano contro il mostro dell’imperialismo.
Abbiamo dovuto sostituire per sempre i brevi fuochi della rivolta con la rivoluzione, lotta permanente ad ogni forma di
dominazione.
Prima di me, altri hanno spiegato, e senza dubbio altri spiegheranno ancora, quanto è cresciuto l’abisso fra i popoli
ricchi e quelli la cui prima aspirazione è saziare la propria fame e calmare la propria sete, e sopravvivere seguendo e
conservando la propria dignità. Ma è al di là di ogni immaginazione la quantità di “derrate dei poveri che sono andate
a nutrire il bestiame dei nostri ricchi!”
Lo stato che era chiamato Alto Volta è stato uno degli esempi più lampanti di questo processo. Eravamo
l’incredibile concentrato, l’essenza di tutte le tragedie che da sempre colpiscono i cosiddetti paesi in via di sviluppo. Lo
testimonia in modo eloquente l’esempio dell’aiuto estero, tanto sbandierato e presentato, a torto, come la panacea.
Pochi paesi sono stati inondati come il Burkina Faso da ogni immaginabile forma di aiuto. Teoricamente, si suppone
che la cooperazione debba lavorare in favore del nostro sviluppo. Nel caso dell’Alto Volta, potevate cercare a lungo e
invano una traccia di qualunque cosa si potesse chiamare sviluppo. Chi è al potere, per ingenuità o per egoismo di
classe non ha potuto o voluto controllare questo afflusso dall’esterno, e orientarlo in modo da rispondere alle esigenze
del nostro popolo.
Analizzando una tabella pubblicata nel 1983 dal Club del Sahel, con notevole buon senso Jacques Giri concludeva
nel suo libro “Il Sahel domani” che, per i suoi contenuti e i meccanismi che ne reggono il funzionamento, l’aiuto al
Sahel era un aiuto alla mera sopravvivenza. Solo il 30%, sottolinea Giri, di questo aiuto permette al Sahel di vivere.
Secondo Giri, il solo obiettivo dell’aiuto estero è continuare a sviluppare settori non produttivi, imporre pesi
insopportabili ai nostri magri bilanci, disorganizzare le campagne, aumentare il deficit della nostra bilancia
commerciale, accelerare il nostro indebitamento.
Pochi dati bastano a descrivere l’ex Alto Volta. Un paese di sette milioni di abitanti, più di sei milioni dei quali sono
contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un
tasso di analfabetismo del 98%, se definiamo alfabetizzato colui che sa leggere, scrivere e parlare una lingua; un
medico ogni 50.000 abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16%; infine un prodotto interno lordo pro capite di
53.356 franchi CFA, cioè poco più di 100 dollari per abitante. La diagnosi era cupa ai nostri occhi. La causa della
malattia era politica. Solo politica poteva dunque essere la cura. Naturalmente incoraggiamo l’aiuto che ci aiuta a
superare la necessità di aiuti. Ma in generale, la politica dell’aiuto e dell’assistenza internazionale non ha prodotto
altro che disorganizzazione e schiavitù permanente, e ci ha derubati del senso di responsabilità per il nostro territorio
economico, politico e culturale.
Abbiamo scelto di rischiare nuove vie per giungere ad una maggiore felicità. Abbiamo scelto di applicare nuove
tecniche e stiamo cercando forme organizzative più adatte alla nostra civiltà, respingendo duramente e
definitivamente ogni forma di diktat esterno, al fine di creare le condizioni per una dignità pari al nostro valore.
Respingere l’idea di una mera sopravvivenza e alleviare le pressioni insostenibili; liberare le campagne dalla paralisi e
dalla regressione feudale; democratizzare la nostra società, aprire le nostre anime ad un universo di responsabilità
collettiva, per osare inventare l’avvenire. Smontare l’apparato amministrativo per ricostruire una nuova immagine di
dipendente statale; fondere il nostro esercito con il popolo attraverso il lavoro produttivo avendo ben presente che
senza un’educazione politica patriottica, un militare non è nient’altro che un potenziale criminale. Questo è il nostro
programma politico.
Dal punto di vista della pianificazione economica, stiamo imparando a vivere con modestia e siamo pronti ad
affrontare quell’austerità che ci siamo imposti per poter sostenere i nostri ambiziosi progetti. Già ora, grazie a un
fondo di solidarietà nazionale alimentato da contributi volontari, stiamo cominciando a trovare risposte all’enorme
problema della siccità. Abbiamo sostenuto ed applicato i principi di Alma Ata aumentando il nostro livello dei servizi
sanitari di base. Abbiamo fatto nostra come politica di stato la strategia del GOBI FFF consigliata dall’UNICEF;
pensiamo che le Nazioni Unite dovrebbero utilizzare il proprio ufficio nel Sahel per elaborare piani a medio e lungo
termine che permettano ai paesi che soffrono per la siccità di raggiungere l’autosufficienza alimentare.
In vista del XXI secolo abbiamo lanciato una grande campagna per l’educazione e la formazione dei nostri bambini
in un nuovo tipo di scuola, finanziato da una sezione speciale della nostra lotteria nazionale “istruiamo i nostri
bambini”. E, grazie al lavoro dei Comitati per la difesa della rivoluzione, abbiamo lanciato un vasto progetto di
costruzione di case pubbliche (500 in cinque mesi), strade, piccoli bacini idrici ecc. Il nostro obiettivo economico è
creare una situazione in cui ogni burkinabé possa impiegare le proprie braccia ed il proprio cervello per produrre
abbastanza da garantirsi almeno due pasti al giorno ed acqua potabile.
Promettiamo solennemente che d’ora in avanti nulla in Burkina Faso sarà portato avanti senza la partecipazione
dei burkinabé. D’ora in avanti, saremo tutti noi a ideare e decidere tutto. Non permetteremo altri attentati al nostro
pudore e alla nostra dignità.
Rafforzati da questa convinzione, vorremmo abbracciare con le nostre parole tutti quelli che soffrono e la cui
dignità è calpestata da un pugno di uomini o da un sistema oppressivo.
Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di
tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti
perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli
Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero
aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella
dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che è strutturalmente ingiusto e
congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti.
Parlo in nome delle donne del mondo intero, che soffrono sotto un sistema maschilista che le sfrutta. Per quel che
ci riguarda siano benvenuti tutti i suggerimenti, di qualunque parte del mondo, circa i modi per favorire il pieno
sviluppo della donna burkinabé. In cambio, possiamo condividere con tutti gli altri paesi la nostra esperienza positiva
realizzata con le donne ormai presenti ad ogni livello dell’apparato statale e in tutti gli aspetti della vita sociale
burkinabé. Le donne in lotta proclamano all’unisono con noi che lo schiavo che non organizza la propria ribellione non
merita compassione per la sua sorte. Questo schiavo è responsabile della sua sfortuna se nutre qualche illusione
quando il padrone gli promette libertà. La libertà può essere conquistata solo con la lotta e noi chiamiamo tutte le
nostre sorelle di tutte le razze a sollevarsi e a lottare per conquistare i loro diritti.
Parlo in nome delle madri dei nostri paesi impoveriti che vedono i loro bambini morire di malaria o di diarrea e che
ignorano che esistono per salvarli dei mezzi semplici che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo
piuttosto investire nei laboratori cosmetici, nella chirurgia estetica a beneficio dei capricci di pochi uomini e donne il
cui fascino è minacciato dagli eccessi di calorie nei pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel.
Questi mezzi semplici raccomandati dall’OMS e dall’UNICEF abbiamo deciso di adottarli e diffonderli.
Parlo, anche, in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in
una bottega dei ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di spesso vetro; la finestra è protetta da inferriate; queste
sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui,
venire a servirsi, o piuttosto, essere servito, giusto perché ha credenziali garantite dalle regole del sistema
capitalistico.
Parlo in nome degli artisti – poeti, pittori, scultori, musicisti, attori – che vedono la propria arte prostituita per le
alchimie dei businessman dello spettacolo. Grido in nome dei giornalisti ridotti sia al silenzio che alla menzogna per
sfuggire alla dura legge della disoccupazione. Protesto in nome degli atleti di tutto il mondo i cui muscoli sono sfruttati
dai sistemi politici o dai moderni mercanti di schiavi.
Il mio paese è la quintessenza di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze
dell’umanità, ma anche e soprattutto una sintesi delle speranze derivanti dalla nostra lotta. Ecco perché ci sentiamo
una sola persona con i malati che scrutano ansiosamente l’orizzonte di una scienza monopolizzata dai mercanti
d’armi. Il mio pensiero va a tutti coloro che sono colpiti dalla distruzione della natura e ai trenta milioni di persone che
muoiono ogni anno abbattute da quella terribile arma chiamata fame.
Come militare non posso dimenticare il soldato che obbedisce agli ordini, il dito sul grilletto e che sa che la
pallottola che sta per partire porta solo un messaggio di morte. Parlo con indignazione a nome dei palestinesi, che
un’umanità disumana ha scelto di sostituire con un altro popolo, solo ieri martirizzato. Il mio pensiero va al valoroso
popolo palestinese, alle famiglie frantumate che vagano per il mondo in cerca di asilo. Coraggiosi, determinati, stoici e
instancabili, i palestinesi ricordano alla coscienza umana la necessità e l’obbligo morale di rispettare i diritti di un
popolo: i palestinesi, con i loro fratelli ebrei, si oppongono al sionismo.
Sono al fianco dei miei fratelli soldati dell’Iran e dell’Iraq che muoiono in una guerra fratricida e suicida, come sono
vicino ai compagni del Nicaragua, i cui porti minati e i villaggi bombardati affrontano il loro destino con tanto coraggio
e lucidità. Soffro con tutti i latinoamericani che faticano e lottano sotto i predatori dell’imperialismo. Sono a fianco dei
popoli dell’Afghanistan e dell’Irlanda, di Grenada e di Timor Est, tutti alla ricerca di una serenità ispirata dalla loro
dignità e dalle leggi della propria cultura. Parlo qui in nome di tutti coloro che cercano invano una tribuna davvero
mondiale dove far sentire la propria voce ed essere presi in considerazione realmente. Molti mi hanno preceduto su
questo palco e altri seguiranno. Però solo alcuni prenderanno le decisioni. Eppure, qui ufficialmente siamo tutti
uguali.
Bene, mi faccio portavoce di tutti coloro che invano cercano un’arena dalla quale essere ascoltati. Sì, vorrei parlare
in nome di tutti gli “abbandonati del mondo”, perché sono un uomo e niente di quello che è umano mi è estraneo. La
nostra rivoluzione in Burkina Faso abbraccia le sfortune di tutti i popoli; vuole ispirarsi alla totalità delle esperienze
umane dall’inizio del mondo. Vogliamo essere gli eredi di tutte le rivoluzioni del mondo e di tutte le lotte di liberazione
dei popoli del Terzo mondo. I nostri occhi guardano ai profondi sconvolgimenti che hanno trasformato il mondo.
Traiamo insegnamenti dalla rivoluzione americana, le lezioni della sua vittoria contro la dominazione coloniale e le
conseguenze della sua vittoria. Facciamo nostra la dottrina della non ingerenza degli europei negli affari americani e
degli americani negli affari europei. Ciò che Monroe proclamava nel 1823 “l’America agli Americani”, oggi viene da noi
ripreso affermando “l’Africa agli Africani” e “il Burkina Faso ai Burkinabé”. La rivoluzione francese del 1789,
distruggendo le basi dell’assolutismo, ci ha insegnato l’intimo legame che esiste fra diritti umani e diritti dei popoli alla
libertà. La grande rivoluzione d’ottobre del 1917 ha trasformato il mondo, portato il proletariato alla vittoria, scosso le
fondamenta del capitalismo e realizzato i sogni di giustizia della comune di Parigi.
Aperti a tutti i venti di volontà dei popoli e delle loro rivoluzioni, ad avendo appreso anche la lezione di alcuni
terribili fallimenti che hanno portato a tragiche violazioni dei diritti umani, vogliamo prendere da ogni rivoluzione solo
il suo nocciolo di purezza che ci impedisce di diventare schiavi della realtà di altri, anche quando, dal punto di vista
ideologico, ci ritroviamo con interessi comuni.
Signor presidente, questo inganno non è più possibile. Il nuovo ordine economico mondiale per cui stiamo lottando
e continueremo a lottare può essere raggiunto solo se saremo capaci di fare a pezzi il vecchio ordine che ci ignora; se
occuperemo il posto che ci spetta nell’organizzazione politica internazionale e se, data la nostra importanza nel
mondo, otterremo il diritto di essere parte delle discussioni e delle decisioni che riguardano i meccanismi regolatori del
commercio, dell’economia e del sistema monetario su scala mondiale. Il nuovo ordine economico internazionale non
può che affiancarsi a tutti gli altri diritti dei popoli, – diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione nelle forme e
strutture di governo – come il diritto allo sviluppo. Come tutti gli altri diritti dei popoli può essere conquistato solo
nella lotta e attraverso la lotta dei popoli. Non sarà mai il risultato di un atto di generosità di qualche grande potenza.
Continuo a nutrire un’incrollabile fiducia – condivisa dalla grande comunità dei paesi non allineati – che sotto le
grida di dolore dei nostri popoli, il nostro gruppo manterrà la sua coesione, rafforzerà il suo potere di negoziazione
collettivo, troverà alleati fra tutte le nazioni, e insieme a quelli che ci possono ascoltare, inizierà ad organizzare un
sistema di relazioni economiche internazionali realmente nuovo.
Signor Presidente, ho accettato di parlare in questa illustre assemblea perché, malgrado tutte le critiche che le
sono rivolte da alcuni dei membri più importanti, le Nazioni Unite rimangono un forum ideale per le nostre richieste,
un luogo indispensabile di legittimità per tutti i paesi senza voce.
È questo giustamente ciò che il Segretario Generale dell’Onu vuole significare quando scrive: “L’organizzazione
delle Nazioni Unite è unica nel senso che riflette le aspirazioni e le frustrazioni di numerosi paesi e raggruppamenti in
tutto il mondo. Uno dei maggiori meriti dell’Onu è che tutte le nazioni, incluse quelle oppresse e vittime
dell’ingiustizia” – sta parlando di noi – “anche quando devono fronteggiare la dura realtà del potere, possono venire e
trovare una tribuna dove essere ascoltati. Una giusta causa può anche incontrare opposizione o indifferenza, ma
troverà comunque una eco presso le Nazioni Unite; tale caratteristica non è sempre stata apprezzata, tuttavia è
fondamentale”. Non ci può essere migliore definizione del senso e del significato della nostra organizzazione.
C’è quindi la necessità urgente che ciascuno di noi lavori per consolidare le fondamenta dell’Onu e per attribuirgli i
mezzi necessari all’azione. Adottiamo quindi le proposte fatte dal Segretario generale perché possiamo aiutare la
nostra organizzazione a superare i numerosi ostacoli che i grandi poteri le oppongono con tanta solerzia per
screditarla agli occhi dell’opinione pubblica.
Signor presidente, riconosciuti i meriti, benché limitati, della nostra organizzazione, non posso che essere lieto
dell’arrivo di nuovi membri. La delegazione burkinabé dà quindi il benvenuto al 159° membro della nostra
organizzazione, lo stato del Brunei Darussalam. A causa della follia di coloro che, per la stravaganza del destino,
hanno in mano la leadership del mondo, il Movimento dei non allineati – di cui, mi auguro, il Brunei Darussalam farà
presto parte – ha l’obbligo di considerare la lotta per il disarmo un obiettivo permanente, come presupposto essenziale
del nostro diritto allo sviluppo.
A nostro parere, dobbiamo analizzare con cura tutti gli elementi che hanno portato alle calamità che hanno afflitto
il mondo. In questo senso, il presidente Fidel Castro esprimeva in modo mirabile il nostro punto di vista quando, nel
1979, all’apertura del Sesto summit dei non allineati, dichiarava: “Trecento miliardi di dollari sono sufficienti a
costruire 600.000 scuole all’anno per 400 milioni di bambini; oppure 60 milioni di case confortevoli per 300 milioni di
persone; oppure 30.000 ospedali con 18 milioni di letti; oppure 20.000 fabbriche che possono dare lavoro a 20
milioni di lavoratori; oppure a rendere possibile l’irrigazione di 150 milioni di ettari di terra che, con adeguate scelte
tecniche, possono produrre cibo per un miliardo di persone…”. Se moltiplichiamo queste cifre per dieci – e sono sicuro
che rimarremmo al di sotto della realtà di spesa odierna – ci rendiamo conto di quanto l’umanità sperperi ogni anno
nel settore militare a scapito della pace.
Ecco perché l’indignazione delle masse si trasforma rapidamente in rivolta e in rivoluzione contro le briciole che
vengono loro gettate sotto la forma insultante degli “aiuti”, aiuti spesso legati a condizioni francamente spregevoli. Si
può comprendere infine perché il nostro impegno per lo sviluppo ci chiede di essere dei combattenti per la pace,
sempre.
Promettiamo dunque di lottare per sciogliere le tensioni e introdurre nelle relazioni internazionali principi degni di
un modo di vivere civile, estendendoli a tutte le regioni del mondo. Ciò significa che non possiamo continuare a
vendere passivamente parole. Riaffermiamo la nostra determinazione ad essere proponenti attivi di pace, ad
assumere il nostro posto nella lotta per il disarmo, e infine ad agire come fattori decisivi nella politica internazionale,
liberi dal controllo delle superpotenze, qualunque piano esse possano avere.
La ricerca della pace va di pari passo con la realizzazione dei diritti dei paesi all’indipendenza, dei popoli alla libertà e
delle nazioni all’autodeterminazione. In questo senso il premio più miserabile e terribile – sì, terribile – va assegnato
al Medio Oriente, in termini di arroganza, insolenza e incredibile ostinazione, ad un piccolo paese, Israele, che da più di
venti anni con l’inqualificabile complicità della sua potenza protettrice, gli Stati Uniti, continua a sfidare la comunità
internazionale. Beffa della storia, che solo ieri consegnava gli ebrei all’orrore delle camere a gas, Israele infligge ora
agli altri la sofferenza che ieri fu sua. Israele, il cui popolo amiamo per il suo coraggio e i sacrifici del passato, deve
sapere che le condizioni della propria tranquillità non possono essere raggiunte con la forza delle armi finanziate
dall’estero. Israele deve imparare a diventare una nazione come le altre e con le altre. Oggi, da questo podio,
affermiamo la nostra solidarietà attiva e militante con gli uomini e le donne dello splendido combattivo popolo
palestinese, e ci rincuoriamo sapendo che nessuna sofferenza dura per sempre.
Signor Presidente, quanto alla situazione politica ed economica dell’Africa, nutriamo una profonda preoccupazione
per le pericolose sfide che vengono lanciate ai diritti dei nostri popoli, da parte di alcuni paesi che, sicuri delle proprie
alleanze, si fanno beffe dell’etica internazionale. Naturalmente, abbiamo il diritto di rallegrarci per la decisione di
ritirare le truppe straniere dal Ciad affinché gli abitanti di questo paese, liberi da ingerenze esterne, possano cercare
tra loro nuove vie per porre fine a questa guerra fratricida e, dare al popolo che piange da molte stagioni, i mezzi per
asciugarsi le lacrime.
Tuttavia, malgrado alcuni progressi registrati dai popoli africani nelle lotte all’emancipazione economica, il nostro
continente continua a riflettere la realtà essenziale delle contraddizioni tra le superpotenze, a portare il peso delle
intollerabili e apparentemente infinite tribolazioni del mondo contemporaneo. Riteniamo inaccettabile e condanniamo
incondizionatamente il destino dispensato al popolo del Sahara occidentale dal regno del Marocco che ricorre a tattiche
dilatorie per rinviare il momento inevitabile della restituzione, che il volere del popolo Saharawi imporrà. Dopo aver
visitato personalmente le regioni liberate dai Saharawi, mi è chiaro che nulla potrà impedire il cammino verso la
liberazione totale del paese sotto la guida militante e lungimirante del Fronte Polisario.
Signor Presidente, non parlerò a lungo della questione di Mayotte e delle isole dell’arcipelago Malagasy
(Madagascar). Quando le cose sono ovvie, e quando i principi sono chiari, non c’è bisogno di elaborarli. Mayotte
appartiene alle Isole Comore; le isole dell’arcipelago al Madagascar.
In America Latina, salutiamo l’iniziativa del gruppo di Contadora che costituisce un passo positivo nella ricerca di
una giusta soluzione per una situazione esplosiva. Il comandante Daniel Ortega, a nome del popolo rivoluzionario del
Nicaragua, ha fatto qui proposte concrete ed ha posto questioni di fondo a chi di dovere. Aspettiamo di vedere la pace
nel suo paese e in tutta l’America centrale il prossimo 15 ottobre e dopo il 15 ottobre, e prendiamo l’opinione pubblica
mondiale a testimone di ciò.
Come abbiamo condannato l’aggressione straniera nell’isola di Grenada, condanniamo tutte le invasioni; ecco
perché non possiamo tacere di fronte all’invasione armata dell’Afghanistan.
C’è una questione particolare di una tale gravità da richiedere a ognuno di noi una posizione franca e ferma. Si
tratta, potete immaginarlo, del Sudafrica. L’incredibile insolenza che questo paese ha per tutte le nazioni del mondo,
incluse quelle che sostengono il suo sistema terroristico volto a liquidare fisicamente la maggioranza nera di questo
paese, e il disprezzo con cui accoglie tutte le risoluzioni dell’Assemblea generale costituiscono una delle preoccupazioni
maggiori del mondo contemporaneo.
Ma la cosa più tragica non è che il Sudafrica sia accusato dall’intera comunità internazionale per le sue leggi
apartheid, né che continui illegalmente a tenere la Namibia sotto il suo stivale colonialista e razzista, o che
sottometta impunemente i suoi vicini alla legge del banditismo. No, la cosa più deprecabile e umiliante per la
coscienza umana è che sia divenuta una “banalità” la miseria di milioni di esseri umani che per difendersi non hanno
altro che il loro petto e l’eroismo delle loro mani nude. Certa di poter contare sulla complicità delle grandi potenze, sul
coinvolgimento attivo di alcune di queste e sulla collaborazione di qualche triste leader africano, la minoranza bianca
non si vergogna a deridere i sentimenti dei popoli che nel mondo ritengono intollerabile la crudeltà che ha corso legale
in Sudafrica.
Un tempo si sarebbero formate brigate internazionali per difendere l’onore delle nazioni la cui dignità era
minacciata. Oggi, malgrado le ferite purulente che tutti abbiamo sopportato, votiamo risoluzioni che hanno come
unico potere, ci viene detto, di portare alla ragione un Paese di pirati che “distrugge il sorriso come la grandine
abbatte i fiori”.
Signor presidente, presto ricorrerà il 150° anniversario dell’emancipazione degli schiavi dell’impero britannico. La
mia delegazione sostiene la proposta avanzata da Antigua e Barbuda di commemorare con solennità questo evento
così importante per i paesi africani e per tutti i neri. A nostro avviso, tutto quello che potrà essere fatto, detto e
organizzato nel corso delle cerimonie commemorative dovrebbe sottolineare il terribile prezzo pagato dall’Africa e dagli
africani allo sviluppo della civiltà umana. Un prezzo pagato senza ricevere nulla in cambio e che spiega senza alcun
dubbio la tragedia attualmente in corso nel nostro continente. È il nostro sangue che ha nutrito le radici del
capitalismo, provocando la nostra attuale dipendenza e consolidando il nostro sottosviluppo. La verità non può più
essere nascosta da cifre addomesticate. Dei neri deportati nelle piantagioni, molti sono morti o sono rimasti mutilati.
Per non parlare della devastazione cui è stato sottoposto il nostro continente e delle sue conseguenze.
Signor presidente, se il mondo, grazie a Lei e al nostro Segretariato generale, si convincerà, in occasione di questo
anniversario, di tale verità, comprenderà poi perché, con tutti noi stessi, vogliamo la pace fra le nazioni e perché
sosteniamo e proclamiamo il nostro diritto allo sviluppo nell’uguaglianza assoluta attraverso l’organizzazione e la
ridistribuzione delle risorse umane.
Dal momento che tra tutte le razze umane apparteniamo a quelle che hanno sofferto di più, noi burkinabé
abbiamo giurato di non accettare d’ora in avanti la più piccola ingiustizia nel più piccolo angolo del mondo. È il ricordo
della nostra sofferenza che ci pone vicino all’OLP contro le bande armate israeliane, che ci fa sostenere l’African
National Congress (ANC) e la South West Africa People’s Organization (SWAPO), ritenendo intollerabile la presenza sul
suolo sudafricano di uomini “bianchi” che distruggono il mondo in nome del loro colore. Infine, è sempre questo
ricordo che ci fa riporre nell’Organizzazione delle Nazioni Unite una fiducia profonda in un dovere comune, in un
compito comune per una comune speranza.
Chiediamo di intensificare la campagna per la liberazione di Nelson Mandela affinché possa essere qui con noi nella
prossima sessione dell’Assemblea generale, testimone del trionfo della nostra dignità collettiva. Chiediamo che, in
ricordo delle nostre sofferenze e nel segno del perdono collettivo, sia creato un Premio internazionale della
riconciliazione umana, da assegnare a chi contribuirà alla difesa dei diritti umani. Proponiamo che il budget destinato
alle ricerche spaziali sia tagliato dell’1%, per devolvere la cifra corrispondente alla ricerca sulla salute e al ripristino
dell’ambiente umano perturbato da tutti questi fuochi d’artificio nocivi all’ecosistema.
Proponiamo anche di rivedere tutta la struttura delle Nazioni Unite per porre fine allo scandalo costituito dal diritto
di veto. È vero che certi effetti più diabolici del suo abuso sono stati controbilanciati dalla vigilanza di alcuni fra gli stati
che detengono il veto. Tuttavia, nulla può giustificare un tale diritto, né le dimensioni di un paese né la sua ricchezza.
Alcuni difendono tale iniquità sostenendo che essa si giustifica con il prezzo pagato durante la Seconda guerra
mondiale. Ma sappiano, questi paesi, che anche noi abbiamo avuto uno zio o un padre che, come migliaia di altri
innocenti, sono stati strappati dal Terzo mondo e inviati a difendere i diritti calpestati dalle orde di Hitler. Anche la
nostra carne porta i solchi delle pallottole naziste. Mettiamo fine all’arroganza delle grandi potenze che non perdono
occasione per rimettere in questione i diritti degli altri popoli. L’assenza dell’Africa dal club di quelli che hanno il diritto
di veto è ingiusta e deve finire.
La mia delegazione non avrebbe assolto al suo compito se non avesse chiesto la sospensione di Israele e
l’espulsione del Sudafrica dalle Nazioni Unite. Quando, con il tempo, questi paesi avranno compiuto le trasformazioni
necessarie a renderli ammissibili nella comunità internazionale, ognuno di noi, e il mio paese per primo, darà loro il
benvenuto e guiderà i loro primi passi.
Vogliamo riaffermare la nostra fiducia nelle Nazioni Unite. Siamo loro grati per il lavoro compiuto dalle loro agenzie
in Burkina Faso e per la loro presenza al nostro fianco mentre stiamo attraversando tempi difficili. Siamo anche grati
ai membri del Consiglio di Sicurezza per averci concesso di presiedere il lavoro del Consiglio per due volte quest’anno.
Possiamo solo augurarci che questo Consiglio adotterà e applicherà il principio della lotta contro lo sterminio per fame
di 30 milioni di esseri umani ogni anno, una distruzione maggiore di quella di una guerra nucleare.
La mia fiducia in questa organizzazione mi porta a ringraziare il Segretario generale Xavier Pérez de Cuellar, per la
sua visita in Burkina, durante la quale ha potuto toccare con mano la dura realtà della nostra esistenza, e farsi un
quadro fedele dell’aridità del Sahel e della tragedia del deserto che avanza. Non potrei terminare senza rendere
omaggio alle eccellenti qualità del nostro presidente (Paul Lusaka dello Zambia) capace di condurre questa 39ª
sessione con la saggezza che gli riconosciamo.
Signor presidente, ho viaggiato per migliaia di chilometri. Sono venuto qui per chiedere a ciascuno di voi di unirvi
in uno sforzo comune perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che
muoiono di fame, sia spazzata via l’ignoranza, vinca la legittima rivolta dei popoli, e tacciano finalmente i suoni di
guerra, e che infine si lotti con una volontà comune per la sopravvivenza dell’umanità. Cantiamo insieme con il
grande poeta Novalis: “Presto le stelle ritorneranno a visitare la terra che lasciarono durante l’era dell’oscurità; il sole
depositerà il suo spettro severo e tornerà ad essere una stella fra le stelle, tutte le razze del mondo torneranno
nuovamente insieme; dopo una lunga separazione, le famiglie rese un tempo orfane saranno riunificate e ogni giorno
sarà un giorno di riunificazione e di rinnovati abbracci; poi gli abitanti dei tempi antichi torneranno sulla terra, in ogni
tomba si riaccenderanno le spente ceneri; dappertutto le fiamme della vita bruceranno di nuovo, le antiche dimore
saranno ricostruite, i tempi antichi rinasceranno e la storia sarà il sogno di un presente esteso all’eternità”.
La patrie ou la mort, nous vaincrons!
Grazie a tutti
Le 4 octobre 1984, Sankara s’adresse à la Trente-neuvième session de
l’Assemblée générale des Nations Unies. La source de son discours ci-après est
une brochure distribuée par la représentation du Burkina Faso auprès des
Nations Unies. Vous trouverez une version audio du discours à l'adresse
Monsieur le Président, Monsieur le secrétaire Général,
Honorables représentants de la Communauté internationale
Je viens en ces lieux vous apporter le salut fraternel d’un pays de 274000 km²,
où sept millions d’enfants, de femmes et d’hommes, refusent désormais de
mourir d’ignorance, de faim, de soif, tout en n’arrivant pas à vivre véritablement
depuis un quart de siècle d’existence comme Etat souverain, siégeant à l’ONU.
Je viens à cette Trente-neuvième session vous parler au nom d’un peuple qui,
sur la terre de ses ancêtres, a choisi, dorénavant de s’affirmer et d’assumer son
histoire, dans ses aspects positifs, comme dans ses aspects négatifs, sans
complexe aucun.
Je viens enfin, mandaté par le Conseil National de la Révolution (CNR) du
Burkina Faso, pour exprimer les vues de mon peuple concernant les problèmes
inscrits à l’ordre du jour, et qui constituent la trame tragique des évènements
qui fissurent douloureusement les fondements du monde en cette fin du
vingtième siècle. Un monde où l’humanité est transformée en cirque, déchirée
par les luttes entre les grands et les semi-grands, battue par les bandes armées,
soumise aux violences et aux pillages. Un monde où des nations, se soustrayant
à la juridiction internationale, commandent des groupes hors-la-loi, vivant de
rapines, et organisant d’ignobles trafics, le fusil à la main.
Monsieur le Président
Je n’ai pas ici la prétention d’énoncer des dogmes. Je ne suis ni un messie ni un
prophète. Je ne détiens aucune vérité. Ma seule ambition est une double
aspiration : premièrement, pouvoir, en langage simple, celui de l’évidence et de
la clarté, parler au nom de mon peuple, le peuple du Burkina Faso ;
deuxièmement, parvenir à exprimer aussi, à ma manière, la parole du "Grand
peuple des déshérités", ceux qui appartiennent à ce monde qu’on a
malicieusement baptisé Tiers Monde. Et dire, même si je n’arrive pas à les faire
comprendre, les raisons que nous avons de nous révolter.
Tout cela dénote de l’intérêt que nous portons à l’ONU, les exigences de nos
droits y prenant une vigueur et la rigueur de la claire conscience de nos devoirs.
Nul ne s’étonnera de nous voir associer l’ex Haute-Volta, aujourd’hui le Burkina
Faso, à ce fourre-tout méprisé, le Tiers Monde, que les autres mondes ont
inventé au moment des indépendances formelles pour mieux assurer notre
aliénation culturelle, économique et politique. Nous voulons nous y insérer sans
pour autant justifier cette gigantesque escroquerie de l’Histoire. Encore moins
pour accepter d’être "l’arrière monde d’un Occident repu". Mais pour affirmer la
conscience d’appartenir à un ensemble tricontinental et admettre, en tant que
non-alignés, et avec la densité de nos convictions, qu’une solidarité spéciale unit
ces trois continents d’Asie, d’Amérique latine et d’Afrique dans un même combat
contre les mêmes trafiquants politiques, les mêmes exploiteurs économiques.
Reconnaître donc notre présence au sein du Tiers Monde c’est, pour paraphraser
José Marti, "affirmer que nous sentons sur notre joue tout coup donné à
n’importe quel homme du monde". Nous avons jusqu’ici tendu l’autre joue. Les
gifles ont redoublées. Mais le cœur du méchant ne s’est pas attendri. Ils ont
piétiné la vérité du juste. Du Christ ils ont trahi la parole. Ils ont transformé sa
croix en massue. Et après qu’ils se soient revêtus de sa tunique, ils ont lacéré
nos corps et nos âmes. Ils ont obscurci son message. Ils l’ont occidentalisé
cependant que nous le recevions comme libération universelle. Alors, nos yeux
se sont ouverts à la lutte des classes. Il n’y aura plus de gifles.
Il faut proclamer qu’il ne peut y avoir de salut pour nos peuples que si nous
tournons radicalement le dos à tous les modèles que tous les charlatans de
même acabit ont essayé de nous vendre vingt années durant. Il ne saurait y
avoir pour nous de salut en dehors de ce refus là. Pas de développement en
dehors de cette rupture.
Du reste, tous les nouveaux "maîtres-à-penser" sortant de leur sommeil,
réveillés par la montée vertigineuse de milliards d’hommes en haillons, effrayés
par la menace que fait peser sur leur digestion cette multitude traquée par la
faim, commencent à remodeler leurs discours et, dans une quête anxieuse,
recherchent une fois de plus en nos lieu et place, des concepts-miracles, de
nouvelles formes de développement pour nos pays. Il suffit pour s’en convaincre
de lire les nombreux actes des innombrables colloques et séminaires.
Loin de moi l’idée de tourner en ridicule les efforts patients de ces intellectuels
honnêtes qui, parce qu’ils ont des yeux pour voir, découvrent les terribles
conséquences des ravages imposés par lesdits "spécialistes" en développement
dans le Tiers Monde. La crainte qui m’habite c’est de voir les résultats de tant
d’énergies confisquées par les Prospéro de tout genre pour en faire la baguette
magique destinée à nous renvoyer à un monde d’esclavage maquillé au goût de
notre temps.
Cette crainte se justifie d’autant plus que la petite bourgeoisie africaine
diplômée, sinon celle du Tiers Monde, soit par paresse intellectuelle, soit plus
simplement parce qu’ayant goûté au mode de vie occidental, n’est pas prête à
renoncer à ses privilèges. De ce fait, elle oublie que toute vraie lutte politique
postule un débat théorique rigoureux et elle refuse l’effort de réflexion qui nous
attend. Consommatrice passive et lamentable, elle se regorge de vocables
fétichisés par l’Occident comme elle le fait de son whisky et de son champagne,
dans ses salons à l’harmonie douteuse.
On recherchera en vain depuis les concepts de négritude ou d’"African
Personality" marqués maintenant par les temps, des idées vraiment neuves
issues des cerveaux de nos "grands" intellectuels. Le vocabulaire et les idées
nous viennent d’ailleurs. Nos professeurs, nos ingénieurs et nos économistes se
contentent d’y adjoindre des colorants parce que, des universités européennes
dont ils sont les produits, ils n’ont ramené souvent que leurs diplômes et le
velours des adjectifs ou des superlatifs.
Il est nécessaire, il est urgent que nos cadres et nos travailleurs de la plume
apprennent qu’il n’y a pas d’écriture innocente. En ces temps de tempêtes, nous
ne pouvons laisser à nos seuls ennemis d’hier et d’aujourd’hui, le monopole de
la pensée, de l’imagination et de la créativité. Il faut, avant qu’il ne soit trop
tard, car il est déjà trop tard, que ces élites, ces hommes de l’Afrique, du Tiers
Monde, reviennent à eux-mêmes, c’est-à-dire à leur société, à la misère dont
nous avons hérité pour comprendre non seulement que la bataille pour une
pensée au service des masses déshéritées n’est pas vaine, mais qu’ils peuvent
devenir crédibles sur le plan international, qu’en inventant réellement, c’est-à-
dire, en donnant de leurs peuples une image fidèle. Une image qui leur permette
de réaliser des changements profonds de la situation sociale et politique,
susceptibles de nous arracher à la domination et à l’exploitation étrangères qui
livrent nos Etats à la seule perspective de la faillite.
C’est ce que nous avons perçu, nous, peuple burkinabè, au cours de cette nuit
du 4 août 1983, aux premiers scintillements des étoiles dans le ciel de notre
Patrie. Il nous fallait prendre la tête des jacqueries qui s’annonçaient dans les
campagnes affolées par l’avancée du désert, épuisées par la faim et la soif et
délaissées. Il nous fallait donner un sens aux révoltes grondantes des masses
urbaines désoeuvrées, frustrées et fatiguées de voir circuler les limousines des
élites aliénées qui se succédaient à la tête de l’Etat et qui ne leur offraient rien
d’autre que les fausses solutions pensées et conçues par les cerveaux des
autres. Il nous fallait donner une âme idéologique aux justes luttes de nos
masses populaires mobilisées contre l’impérialisme monstrueux. A la révolte
passagère, simple feu de paille, devait se substituer pour toujours la révolution,
lutte éternelle contre la domination.
D’autres avant moi ont dit, d’autres après moi diront à quel point s’est élargi le
fossé entre les peuples nantis et ceux qui n’aspirent qu’à manger à leur faim,
boire à leur soif, survivre et conserver leur dignité. Mais nul n’imaginera à quel
point " le grain du pauvre a nourri chez nous la vache du riche".
Dans le cas de l’ex Haute Volta, le processus était encore plus exemplaire. Nous
étions la condensation magique, le raccourci de toutes les calamités qui ont
fondu sur les pays dits "en voie de développement". Le témoignage de l’aide
présentée comme la panacée et souvent trompetée, sans rime ni raison, est ici
éloquent. Très peu sont les pays qui ont été comme le mien inondés d’aides de
toutes sortes. Cette aide est en principe censée œuvrer au développement. On
cherchera en vain dans ce qui fut autrefois la Haute-Volta, les signes de ce qui
peut relever d’un développement. Les hommes en place, soit par naïveté, soit
par égoïsme de classe, n’ont pas pu ou n’ont pas voulu maîtriser cet afflux
extérieur, en saisir la portée et exprimer des exigences dans l’intérêt de notre
peuple.
Analysant un tableau publié en 1983 par le Club du Sahel, Jacques Giri dans son
ouvrage "Le Sahel Demain", conclut avec beaucoup de bon sens que l’aide au
Sahel, à cause de son contenu et des mécanismes en place, n’est qu’une aide à
la survie. Seuls, souligne-t-il, 30 pour cent de cette aide permet simplement au
Sahel de vivre. Selon Jacques Giri, cette aide extérieure n’aurait d’autres buts
que de continuer à développer les secteurs improductifs, imposant des charges
intolérables à nos petits budgets, désorganisant nos campagnes, creusant les
déficits de notre balance commerciale, accélérant notre endettement.
Juste quelques clichés pour présenter l’ex Haute-Volta :
- 7 millions d’habitants, avec plus de 6 millions de paysannes et de paysans
- Un taux de mortalité infantile estimé à 180 pour mille
- Une espérance de vie se limitant à 40 ans
- Un taux d’analphabétisme allant jusqu’à 98 pour cent, si nous concevons
l’alphabétisé comme celui qui sait lire, écrire et parler une langue.
- Un médecin pour 50000 habitants
- Un taux de scolarisation de 16 pour cent
- et enfin un produit intérieur brut par tête d’habitant de 53356 francs CFA soit à
peine plus de 100 dollars.
Le diagnostic à l’évidence, était sombre. La source du mal était politique. Le
traitement ne pouvait qu’être politique.
Certes nous encourageons l’aide qui nous aide à nous passer de l’aide. Mais en
général, la politique d’assistance et d’aide n’a abouti qu’à nous désorganiser, à
nous asservir, à nous déresponsabiliser dans notre espace économique, politique
et culturel.
Nous avons choisi de risquer de nouvelles voies pour être plus heureux. Nous
avons choisi de mettre en place de nouvelles techniques.
Nous avons choisi de rechercher des formes d’organisation mieux adaptées à
notre civilisation, rejetant de manière abrupte et définitive toutes sortes de
diktats extérieurs, pour créer ainsi les conditions d’une dignité à la hauteur de
nos ambitions. Refuser l’état de survie, desserrer les pressions, libérer nos
campagnes d’un immobilisme moyenâgeux ou d’une régression, démocratiser
notre société, ouvrir les esprits sur un univers de responsabilité collective pour
oser inventer l’avenir. Briser et reconstruire l’administration à travers une autre
image du fonctionnaire, plonger notre armée dans le peuple par le travail
productif et lui rappeler incessamment que sans formation patriotique, un
militaire n’est qu’un criminel en puissance. Tel est notre programme politique.
Au plan de la gestion économique, nous apprenons à vivre simplement, à
accepter et à nous imposer l’austérité afin d’être à même de réaliser de grands
desseins.
Déjà, grâce à l’exemple de la Caisse de solidarité nationale, alimentée par des
contributions volontaires, nous commençons à répondre aux cruelles questions
posées par la sécheresse. Nous avons soutenu et appliqué les principes d’Alma-
Ata en élargissant le champ des soins de santé primaires. Nous avons fait nôtre,
comme politique d’Etat, la stratégie du GOBI FFF, préconisée par l’UNICEF.
Par l’intermédiaire de l’Office du Sahel des Nations Unies (OSNU), nous pensons
que les Nations unies devraient permettre aux pays touchés par la sécheresse la
mise sur pied d’un plan moyen et long termes afin de parvenir à l’autosuffisance
alimentaire.
Pour préparer le vingt et unième siècle, nous avons, par la création d’une
tranche spéciale de la Tombola, "Instruisons nos enfants", lancé une campagne
immense pour l’éducation et la formation de nos enfants dans une école
nouvelle. Nous avons lancé à travers l’action salvatrice des Comités de Défense
de la Révolution un vaste programme de construction de logements sociaux,
500 en trois mois, de routes, de petites retenues d’eau etc… Notre ambition
économique est d’œuvrer pour que le cerveau et les bras de chaque burkinabè
puissent au moins lui servir à inventer et à créer de quoi s’assurer deux repas
par jour et de l’eau potable.
Nous jurons, nous proclamons, que désormais au Burkina Faso, plus rien ne se
fera sans la participation des burkinabè. Rien qui n’ait été au préalable décidé
par nous, élaboré par nous. Il n’y aura plus d’attentat à notre pudeur et à notre
dignité.
Forts de cette certitude, nous voudrions que notre parole s’élargisse à tous ceux
qui souffrent dans leur chair, tous ceux qui sont bafoués dans leur dignité
d’homme par un minorité d’hommes ou par un système qui les écrase.
Permettez, vous qui m’écoutez, que je le dise : je ne parle pas seulement au
nom du Burkina Faso tant aimé mais également au nom de tous ceux qui ont
mal quelque part.
Je parle au nom de ces millions d’êtres qui sont dans les ghettos parce qu’ils ont
la peau noire ou qu’ils sont de culture différente et bénéficient d’un statut à
peine supérieur à celui d’un animal.
Je souffre au nom des Indiens massacrés, écrasés, humiliés et confinés depuis
des siècles dans des réserves afin qu’ils n’aspirent à aucun droit et que leur
culture ne puisse s’enrichir en convolant en noces heureuses au contact d’autres
cultures, y compris celle de l’envahisseur.
Je m’exclame au nom des chômeurs d’un système structurellement injuste et
conjoncturellement désaxé, réduits à ne percevoir de la vie que le reflet de celle
des plus nantis.
Je parle au nom des femmes du monde entier, qui souffrent d’un système
d’exploitation imposé par les mâles. Pour ce qui nous concerne, nous sommes
prêts à accueillir toutes les suggestions du monde entier, nous permettant de
parvenir à l’épanouissement total de la femme burkinabè. En retour, nous
donnons en partage à tous les pays, l’expérience positive que nous entreprenons
avec des femmes désormais présentes à tous les échelons de l’appareil de l’État
et de la vie sociale au Burkina Faso. Des femmes qui luttent et proclament avec
nous, que l’esclave qui n’est pas capable d’assumer sa révolte ne mérite pas que
l’on s’apitoie sur son sort. Cet esclave répondra seul de son malheur s’il se fait
des illusions sur la condescendance suspecte d’un maître qui prétend
l’affranchir. Seule la lutte libère et nous en appelons à toutes nos sœurs de
toutes les races pour qu’elles montent à l’assaut pour la conquête de leurs
droits.
Je parle au nom des mères de nos pays démunis, qui voient mourir leurs enfants
de paludisme ou de diarrhée, ignorant qu’il existe, pour les sauver, des moyens
simples que la science des multinationales ne leur offre pas, préférant investir
dans les laboratoires de cosmétiques et dans la chirurgie esthétique pour les
caprices de quelques femmes ou d’hommes dont la coquetterie est menacée par
les excès de calories de leurs repas trop riches et d’une régularité à vous
donner, non, plutôt à nous donner, à nous autres du Sahel, le vertige. Ces
moyens simples recommandés par l’OMS et l’UNICEF, nous avons décidé de les
adopter et de les populariser.
Je parle aussi au nom de l’enfant. L’enfant du pauvre, qui a faim et qui louche
furtivement vers l’abondance amoncelée dans une boutique pour riches. La
boutique protégée par une vitre épaisse. La vitre défendue par une grille
infranchissable. Et la grille gardée par un policier casqué, ganté et armé de
matraque. Ce policier, placé là par le père d’un autre enfant qui viendra se servir
ou plutôt se faire servir parce que représentant toutes les garanties de
représentativité et de normes capitalistiques du système.
Je parle au nom des artistes (poètes, peintres, sculpteur, musiciens, acteurs),
hommes de bien qui voient leur art se prostituer pour l’alchimie des
prestidigitations de show-business.
Je crie au nom des journalistes qui sont réduits soit au silence, soit au
mensonge pour ne pas subir les dures lois du chômage.
Je proteste au nom des sportifs du monde entier dont les muscles sont exploités
par les systèmes politiques ou les négociants de l’esclavage modernes.
Mon pays est un concentré de tous les malheurs des peuples, une synthèse
douloureuse de toutes les souffrances de l’humanité, mais aussi et surtout des
espérances de nos luttes. C’est pourquoi je vibre naturellement au nom des
malades qui scrutent avec anxiété les horizons d’une science accaparée par les
marchands de canons. Mes pensées vont à tous ceux qui sont touchés par la
destruction de la nature et à ces trente millions d’hommes qui vont mourir
comme chaque année, abattus par la redoutable arme de la faim.
Militaire, je ne peux oublier ce soldat obéissant aux ordres, le doigt sur la
détente, et qui sait que la balle qui va partir ne porte que le message de la
mort.
Enfin, je veux m’indigner en pensant aux Palestiniens qu’une humanité
inhumaine a choisi de substituer à un autre peuple, hier encore martyrisé. Je
pense à ce vaillant peuple palestinien, c’est-à-dire à ces familles atomisées
errant de par le monde en quête d’un asile. Courageux, déterminés, stoïques et
infatigables, les Palestiniens rappellent à chaque conscience humaine la
nécessité et l’obligation morale de respecter les droits d’un peuple : avec leurs
frères juifs, ils sont antisionistes.
Aux côtés de mes frères soldats de l’Iran et de l’Irak, qui meurent dans une
guerre fratricide et suicidaire, je veux également me sentir proche des
camarades du Nicaragua dont les ports sont minés, les villes bombardées et qui,
malgré tout, affrontent avec courage et lucidité leur destin. Je souffre avec tous
ceux qui, en Amérique latine, souffrent de la mainmise impérialiste.
Je veux être aux côtés des peuples afghan et irlandais, aux côtés des peuples de
Grenade et de Timor Oriental, chacun à la recherche d’un bonheur dicté par la
dignité et les lois de sa culture.
Je m’élève ici au nom des tous ceux qui cherchent vainement dans quel forum
de ce monde ils pourront faire entendre leur voix et la faire prendre en
considération réellement. Sur cette tribune beaucoup m’ont précédé, d’autres
viendront après moi. Mais seuls quelques uns feront la décision. Pourtant nous
sommes officiellement présentés comme égaux. Eh bien, je me fais le porte voix
de tous ceux qui cherchent vainement dans quel forum de ce monde, ils peuvent
se faire entendre. Oui je veux donc parler au nom de tous les "laissés pour
compte" parce que "je suis homme et rien de ce qui est humain ne m’est
étranger".
Notre révolution au Burkina Faso est ouverte aux malheurs de tous les peuples.
Elle s’inspire aussi de toutes les expériences des hommes depuis le premier
souffle de l’Humanité. Nous voulons être les héritiers de toutes les révolutions
du monde, de toutes les luttes de libération des peuples du Tiers Monde. Nous
sommes à l’écoute des grands bouleversements qui ont transformé le monde.
Nous tirons des leçons de la révolution américaine, les leçons de sa victoire
contre la domination coloniale et les conséquences de cette victoire. Nous
faisons nôtre l’affirmation de la doctrine de la non-ingérence des Européens
dans les affaires américaines et des Américains dans les affaires européennes.
Ce que Monroe clamait en 1823, « L’Amérique aux Américains », nous le
reprenons en disant « l’Afrique aux Africains », « Le Burkina aux Burkinabè ». La
Révolution française de 1789, bouleversant les fondements de l’absolutisme,
nous a enseigné les droits de l’homme alliés aux droits des peuples à la liberté.
La grande révolution d’octobre 1917 a transformé le monde, permis la victoire
du prolétariat, ébranlé les assises du capitalisme et rendu possible les rêves de
justice de la Commune française.
Ouverts à tous les vents de la volonté des peuples et de leurs révolutions, nous
instruisant aussi de certains terribles échecs qui ont conduits à de tragiques
manquements aux droits de l’homme, nous ne voulons conserver de chaque
révolution, que le noyau de pureté qui nous interdit de nous inféoder aux
réalités des autres, même si par la pensée, nous nous retrouvons dans une
communauté d’intérêts.
Monsieur les Président,
Il n’y a plus de duperie possible. Le Nouvel Ordre Economique Mondial pour
lequel nous luttons et continuerons à lutter, ne peut se réaliser que :
- si nous parvenons à ruiner l’ancien ordre qui nous ignore,
- si nous imposons la place qui nous revient dans l’organisation politique du
monde,
- si, prenant conscience de notre importance dans le monde, nous obtenons un
droit de regard et de décision sur les mécanismes qui régissent le commerce,
l’économie et la monnaie à l’échelle planétaire.
Le Nouvel Ordre Economique international s’inscrit tout simplement, à côté de
tous les autres droits des peuples, droit à l’indépendance, au libre choix des
formes et de structures de gouvernement, comme le droit au développement. Et
comme tous les droits des peuples, il s’arrache dans la lutte et par la lutte des
peuples. Il ne sera jamais le résultat d’un acte de la générosité d’une puissance
quelconque.
Je conserve en moi la confiance inébranlable, confiance partagée avec l’immense
communauté des pays non-alignés, que sous les coups de boutoir de la détresse
hurlante de nos peuples, notre groupe va maintenir sa cohésion, renforcer son
pouvoir de négociation collective, se trouver des alliés parmi les nations et
commencer, de concert avec ceux qu peuvent encore nous entendrez,
l’organisation d’un système de relations économiques internationales
véritablement nouveau.
Monsieur le Président,
Si j’ai accepté de me présenter devant cette illustre assemblée pour y prendre la
parole, c’est parce que malgré les critiques qui lui sont adressées par certains
grands contributeurs, les Nations Unies demeurent la tribune idéale pour nos
revendications, le lieu obligé de la légitimité des pays sans voix.
C’est cela qu’exprime avec beaucoup de justesse notre Secrétaire général
lorsqu’il écrit : "L’organisation des Nations Unies est unique en ce qu’elle reflète
les aspirations et les frustrations de nombreux pays et gouvernements du
monde entier. Un de ses grands mérites est que toutes les Nations, y compris
celles qui sont faibles, opprimées ou victimes de l’injustice, (il s’agit de nous),
peuvent, même lorsqu’elles sont confrontées aux dures réalités du pouvoir, y
trouver une tribune et s’y faire entendre. Une cause juste, même si elle ne
rencontre que revers ou indifférence, peut trouver un écho à l’Organisation des
Nations Unies ; cet attribut de l’Organisation n’est pas toujours prisé, mais il
n’en est pas moins essentiel".
On ne peut mieux définir le sens et la portée de l’Organisation.
Aussi est-il, pour chacun de nous, un impératif catégorique de consolider les
assises de notre Organisation, de lui donner les moyens de son action. Nous
adoptons en conséquence, les propositions faîtes à cette fin par le Secrétaire
Général, pour sortir l’Organisation des nombreuses impasses, soigneusement
entretenues par le jeu des grandes puissances afin de la discréditer aux yeux de
l’opinion publique.
Monsieur le Président,
Reconnaissant les mérites mêmes limités de notre Organisation, je ne peux que
me réjouir de la voir compter de nouveaux adhérents. C’est pourquoi la
délégation burkinabè salue l’entrée du 159ème membre de notre Organisation :
l’Etat du Brunei Daressalam.
C’est la déraison de ceux entre les mains desquelles la direction du monde es
tombée par le hasard des choses qui fait l’obligation au Mouvement des pays
non alignés, auquel je l’espère, se joindra bientôt l’Etat du Brunei Darussalam,
de considérer comme un des objectifs permanents de sa lutte, le combat pour le
désarmement qui est un des aspects essentiels et une condition première de
notre droit au développement.
Il faut, à notre avis des études sérieuses prenant en compte tous les éléments
qui ont conduit aux calamités qui ont fondu sur le monde. A ce titre, le Président
Fidel Castro en 1979, a admirablement exprimé notre point de vue à l’ouverture
du sixième sommet des Pays non alignés lorsqu’il déclarait : "Avec 300 milliards
de dollars, on pourrait construire en un an 600000 écoles pouvant recevoir 400
millions d’enfants ; ou 60 millions de logements confortables pour 300 millions
de personnes ; ou 30000 hôpitaux équipés de 18 millions de lits ; ou 20000
usines pouvant employer plus de 20 millions de travailleurs ou irriguer 150
millions d’hectares de terre qui, avec les moyens techniques adéquats
pourraient alimenter un milliard de personnes…"
En multipliant aujourd’hui ce chiffre par 10, je suis certainement en deçà de la
réalité, on réalise ce que l’Humanité gaspille tous les ans dans le domaine
militaire, c’est-à-dire contre la paix.
On perçoit aisément pourquoi l’indignation des peuples se transforme
rapidement en révolte et en révolution devant les miettes qu’on leur jette sous
la forme ignominieuse d’une certaine "aide", assortie de conditions parfois
franchement abjectes. On comprend enfin pourquoi dans le combat pour le
développement, nous nous désignons comme des militants inlassables de la
paix.
Nous faisons le serment de lutter pour atténuer les tensions, introduire les
principes d’une vie civilisée dans les relations internationales et les étendre à
toutes les parties du monde. Ce qui revient à dire que nous ne pouvons assister
passifs, au trafic des concepts.
Nous réitérons notre résolution d’être des agents actifs de la paix ; de tenir
notre place dans le combat pour le désarmement ; d’agir enfin dans la politique
internationale comme le facteur décisif, libéré de toute entrave vis-à-vis de
toutes les grandes puissances, quels que soient les projets de ces dernières.
Mais la recherche de la paix va de pair avec l’application ferme du droit des pays
à l’indépendance, des peuples à la liberté et des nations à l’existence autonome.
Sur ce point, le palmarès le plus pitoyable, le plus lamentable _ oui, le plus
lamentable_ est détenu au Moyen Orient en termes d’arrogance, d’insolence et
d’incroyable entêtement par un petit pays, Israël, qui, depuis, plus de vingt ans,
avec l’inqualifiable complicité de son puissant protecteur les Etats-Unis, continue
à défier la communauté internationale.
Au mépris d’une histoire qui hier encore, désignait chaque Juif à l’horreur des
fours crématoires, Israël en arrive à infliger à d’autres ce qui fut son propre
calvaire. En tout état de cause, Israël dont nous aimons le peuple pour son
courage et ses sacrifices d’hier, doit savoir que les conditions de sa propre
quiétude ne résident pas dans sa puissance militaire financée de l’extérieur.
Israël doit commencer à apprendre à devenir une nation comme les autres,
parmi les autres.
Pour l’heure, nous tenons à affirmer du haut de cette tribune, notre solidarité
militante et agissante à l’endroit des combattants, femmes et hommes, de ce
peuple merveilleux de la Palestine parce que nous savons qu’il n’y a pas de
souffrance sans fin.
Monsieur, le Président,
Analysant la situation qui prévaut en Afrique sur les plans économique et
politique, nous ne pouvons pas ne pas souligner les graves préoccupations qui
sont les nôtres, face aux dangereux défis lancés aux droits des peuples par
certaines nations qui, sûres de leurs alliances, bafouent ouvertement la morale
internationale.
Certes, nous avons le droit de nous réjouir de la décision de retrait des troupes
étrangères au Tchad, afin que le Tchadiens entre eux, sans intermédiaire,
cherchent les moyens de mettre fin à cette guerre fratricide, et donner enfin à
ce peuple qui n’en finit pas de pleurer depuis de nombreux hivernages, les
moyens de sécher ses larmes. Mais, malgré les progrès enregistrés çà et là par
les peuples africains dans leur lutte pour l’émancipation économique, notre
continent continue de refléter la réalité essentielle des contradictions entre les
grandes puissances, de charrier les insupportables apories du monde
contemporain.
C’est pourquoi nous tenons pour inadmissible et condamnons sans recours, le
sort fait au peuple du Sahara Occidental par le Royaume du Maroc qui se livre à
des méthodes dilatoires pour retarder l’échéance qui, de toute façon, lui sera
imposée par la volonté du peuple sahraoui. Pour avoir visité personnellement les
régions libérées par le peuple sahraoui, j’ai acquis la confirmation que plus rien
désormais ne saurait entraver sa marche vers la libération totale de son pays,
sous la conduite et éclairée du Front Polisario.
Monsieur le Président,
Je ne voudrais pas trop m’étendre sur la question de Mayotte et des îles de
l’Archipel malgache. Lorsque les choses sont claires, lorsque les principes sont
évidents, point n’est besoin d’élaborer. Mayotte appartient aux Comores. Les îles
de l’archipel sont malgaches.
En Amérique Latine, nous saluons l’initiative du Groupe de Contadora, qui
constitue une étape positive dans la recherche d’une solution juste à la situation
explosive qui y prévaut. Le commandant Daniel Ortega, au nom du peuple
révolutionnaire du Nicaragua a fait ici des propositions concrètes et posé des
questions de fond à qui de droit. Nous attendons de voir la paix s’installer dans
son pays et en Amérique Centrale, le 15 octobre prochain et après le 15 octobre
et nous prenons à témoin l’opinion publique mondiale.
De même que nous avons condamné l’agression étrangère de l’île de Grenade,
de même nous fustigeons toutes les interventions étrangères. C’est ainsi que
nous ne pouvons pas nous taire face à l’intervention militaire en Afghanistan.
Il est cependant un point, mais dont la gravité exige de chacun de nous une
explication franche et décisive. Cette question, vous vous en doutez, ne peut
qu’être celle de l’Afrique du Sud. L’incroyable insolence de ce pays à l’égard de
toutes les nations du monde, même vis-à-vis de celles qui soutiennent le
terrorisme qu’il érige en système pour liquider physiquement la majorité noire
de ce pays, le mépris qu’il adopte à l’égard de toutes nos résolutions,
constituent l’une des préoccupations les plus oppressantes du monde
contemporain.
Mais le plus tragique, n’est pas que l’Afrique du Sud se soit elle-même mise au
banc de la communauté internationale à cause de l’abjection des lois de
l’apartheid, encore moins qu’elle continue de maintenir illégalement la Namibie
sous la botte colonialiste et raciste, ou de soumettre impunément ses voisins
aux lois du banditisme. Non, le plus abject, le plus humiliant pour la conscience
humaine, c’est qu’elle soit parvenue à "banaliser" le malheur de millions d’êtres
humains qui n’ont pour se défendre que leur poitrine et l’héroïsme de leurs
mains nues. Sûre de la complicité des grandes puissances et de l’engagement
actif de certaines d’entre elles à ses côtés, ainsi que de la criminelle
collaboration de quelques tristes dirigeants de pays africains, la minorité blanche
ne se gêne pas pour ridiculiser les états d’âme de tous les peuples, qui, partout
à travers le monde, trouvent intolérable la sauvagerie des méthodes en usage
dans ce pays.
Il fut un temps où les brigades internationales se constituaient pour aller
défendre l’honneur des nations agressées dans leur dignité. Aujourd’hui, malgré
la purulence des plaies que nous portons tous à nos flancs, nous allons voter des
résolutions dont les seules vertus, nous dira-t-on, seraient de conduire à
résipiscence une Nation de corsaires qui "détruit le sourire comme la grêle tue
les fleurs".
Monsieur le Président,
Nous allons bientôt fêter le cent cinquantième anniversaire de l’émancipation
des esclaves de l’Empire britannique. Ma délégation souscrit à la proposition des
pays d’Antigua et de la Barbade de commémorer avec éclat cet événement qui
revêt, pour les pays africains et le monde noir, une signification d’une très
grande importance. Pour nous, tout ce qui pourra être fait, dit ou organisé à
travers le monde au cours des cérémonies commémoratives devra mettre
l’accent sur le terrible écot payé par l’Afrique et le monde noir, au
développement de la civilisation humaine. Ecot payé sans retour et qui explique,
sans aucun doute, les raisons de la tragédie d’aujourd’hui sur notre continent.
C’est notre sang qui a nourri l’essor du capitalisme, rendu possible notre
dépendance présente et consolidé notre sous-développement. On ne peut plus
escamoter la vérité, trafiquer les chiffres. Pour chaque Nègre parvenu dans les
plantations, cinq au moins connurent la mort ou la mutilation. Et j’omets à
dessein, la désorganisation du continent et les séquelles qui s’en sont suivies.
Monsieur le Président,
Si la terre entière, grâce à vous, avec l’aide du Secrétaire Général, parvient à
l’occasion de cet anniversaire à se convaincre de cette vérité-là, elle comprendra
pourquoi, avec toute la tension de notre être, nous voulons la paix entre les
nations, pourquoi nous exigeons et réclamons notre droit au développement
dans l’égalité absolue, par une organisation et une répartition des ressources
humaines.
C’est parce que de toutes les races humaines, nous appartenons à celles qui ont
le plus souffert, que nous nous sommes jurés, nous burkinabè, de ne plus
jamais accepter sur la moindre parcelle de cette terre, le moindre déni de
justice. C’est le souvenir de la souffrance qui nous place aux côtés de l’OLP
contre les bandes armées d’Israël. C’est le souvenir de cette souffrance qui,
d’une part, nous fait soutenir l’ANC et la SWAPO, et d’autre part, nous rend
intolérable la présence en Afrique du Sud des hommes qui se disent blancs et
qui brûlent le monde à ce titre. C’est enfin ce même souvenir qui nous fait
placer l’Organisation des Nations Unies toute notre foi dans un devoir commun,
dans un tâche commune pour un espoir commun.
Nous réclamons :
- Que s’intensifie à travers le monde la campagne pour la libération de Nelson
Mandela et sa présence effective à la prochaine Assemblée générale de l’ONU
comme une victoire de fierté collective.
- Que soit créé en souvenir de nos souffrances et au titre de pardon collectif un
Prix international de l’Humanité réconciliée, décerné à tous ceux qui par leur
recherche auraient contribué à la défense des droits de l’homme.
- Que tous les budgets de recherches spatiales soient amputés de 1/10000e et
consacrés à des recherches dans le domaine de la santé et visant à la
reconstitution de l’environnement humain perturbé par tous ces feux d’artifices
nuisibles à l’écosystème
Nous proposons également que les structures des Nations Unies soient
repensées et que soit mis fin à ce scandale que constitue le droit de veto. Bien
sûr, les effets pervers de son usage abusif sont atténués par la vigilance de
certains de ses détenteurs. Cependant, rien ne justifie ce droit : ni la taille des
pays qui le détiennent ni les richesses de ces derniers.
Si l’argument développé pour justifier une telle iniquité est le prix payé au cours
de la guerre mondiale, que ces nations, qui se sont arrogé ces droits, sachent
que nous aussi nous avons chacun un oncle ou un père qui, à l’instar de milliers
d’autres innocents arrachés au Tiers Monde pour défendre les droits bafoués par
les hordes hitlériennes, porte lui aussi dans sa chair les meurtrissures des balles
nazies. Que cesse donc l’arrogance des grands qui ne perdent aucune occasion
pour remettre en cause le droit des peuples. L’absence de l’Afrique du Club de
ceux qui détiennent le droit de veto est une injustice qui doit cesser.
Enfin ma délégation n’aurait pas accompli tous ses devoirs si elle n’exigeait pas
la suspension d’Israël et le dégagement pur et simple de l’Afrique du Sud de
notre organisation. Lorsque, à la faveur du temps, ces pays auront opéré la
mutation qui les introduira dans la Communauté internationale, chacun de nous
nous, et mon pays en tête, devra les accueillir avec bonté, guider leur premier
pas.
Nous tenons à réaffirmer notre confiance en l’Organisation des Nations Unies.
Nous lui sommes redevables du travail fourni par ses agences au Burkina Faso
et de la présence de ces dernières à nos côtés dans les durs moments que nous
t traversons.
Nous sommes reconnaissants aux membres du Conseil de Sécurité de nous avoir
permis de présider deux fois cette année les travaux du Conseil. Souhaitons
seulement voir le Conseil admettre et appliquer le principe de la lutte contre
l’extermination de 30 millions d’êtres humains chaque année, par l’arme de la
faim qui, de nos jours, fait plus de ravages que l’arme nucléaire.
Cette confiance et cette foi en l’Organisation me fait obligation de remercier le
Secrétaire général, M. Xavier Pérez de Cuellar, de la visite tant appréciée qu’il
nous a faite pour constater, sur le terrain, les dures réalités de notre existence
et se donner une image fidèle de l’aridité du Sahel et la tragédie du désert
conquérant.
Je ne saurai terminer sans rendre hommage aux éminentes qualités de notre
Président (Paul Lusaka de Zambie) qui saura, avec la clairvoyance que nous lui
connaissons, diriger les travaux de cette Trente-neuvième session.
Monsieur le Président,
J’ai parcouru des milliers de kilomètres. Je suis venu pour demander à chacun
de vous que nous puissions mettre ensemble nos efforts pour que cesse la
morgue des gens qui n’ont pas raison, pour que s’efface le triste spectacle des
enfants mourant de faim, pour que disparaisse l’ignorance, pour que triomphe la
rébellion légitime des peuples, pour que se taise le bruit des armes et qu’enfin,
avec une seule et même volonté, luttant pour la survie de l’Humanité, nous
parvenions à chanter en chœur avec le grand poète Novalis :
"Bientôt les astres reviendront visiter la terre d’où ils se sont éloignés pendant
nos temps obscurs ; le soleil déposera son spectre sévère, redeviendra étoile
parmi les étoiles, toutes les races du monde se rassembleront à nouveau, après
une longue séparation, les vieilles familles orphelines se retrouveront et chaque
jour verra de nouvelles retrouvailles, de nouveaux embrassement ; alors les
habitants du temps jadis reviendront vers la terre, en chaque tombe se
réveillera la cendre éteinte, partout brûleront à nouveau les flammes de la vie,
le vieilles demeures seront rebâties, les temps anciens se renouvelleront et
l’histoire sera le rêve d’un présent à l’étendue infinie".
A bas la réaction internationale !
A bas l'impérialisme !
A bas le néocolonialisme !
A bas le fantochisme !
Gloire éternelle aux peuples qui luttent pour leur liberté !
Gloire éternelle aux peuples qui décident de s'assumer pour leur dignité !
Victoire éternelle aux peuples d'Afrique, d'Amérique latine et d'Asie qui luttent !
La Patrie ou la mort, nous vaincrons !
Je vous remercie.