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Il colonialismo italiano by mengoni e guerri - tesina del liceo
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LICEO SCIENTIFICO“LEONARDO DA VINCI”
TOLENTINO
RICERCA DI STORIA
IL COLONIALISMOITALIANO
E IL FASCISMO
STUDENTI:GUERRI FEDERICO
MENGONI LUCA
Anno scolastico 1996-1997
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Le prime fasi del colonialismo fascistaLe prime fasi del colonialismo fascista
Una situazione nuova rispetto all’Italia liberale si profilò solo a partire
dall’ottobre 1922 quando, a coronamento della marcia su Roma, Benito
Mussolini venne incaricato dal re di formare un governo. In materia di
costruzione della politica coloniale la più immediata novità consisté nel fatto che
le idee forza del governo di Mussolini (con il nazionalista Federzoni ministro
delle Colonie) furono quelle stesse degli ambienti colonialisti, che per questo lo
accolsero con comprensibile soddisfazione. Il programma coloniale risultava
quindi di una serie varia di rivendicazioni espansioniste: rivendicazioni che non
fecero che allarmare le cancellerie europee. Un altro dato nuovo divenne
evidente man mano che il tempo passava. Sia i primi governi Mussolini sia
ancor più il regime fascista in cui quelli sfociarono diedero all’imperialismo e
alle colonie un rilievo nuovo e sconosciuto all’Italia liberale. La propaganda
coloniale fu riorganizzata, perfezionata e resa più capillare. Non solo i temi
della politica coloniale rispetto a quelli più generali della politica estera, ma in
genere i temi del colonialismo e dell’imperialismo ne risultarono esaltati. Il
nuovo spazio dato all’imperialismo, alla propaganda coloniale e anche alle più
avventuriste e destabilizzanti rivendicazioni era d’altronde perfettamente
consono all’ideologia espansionista, bellicista e razzista propria del fascismo. Il
terzo fatto nuovo era più generale e riassumeva i primi due. Se si eccettuano il
Portogallo di Salazar e la Spagna del caudillo Franco - nazioni che però avevano
una tradizione coloniale plurisecolare - l‘Italia di Mussolini fu l’unico regime
fascista a disporre di colonie. Intanto, ritornando alla costruzione della politica
coloniale, le avventuriste e talora minacciose prese di posizione dei primi
governi Mussolini rivelarono presto il loro carattere strumentale. Quali serie
possibilità aveva d’altronde l’Italia di poter ottenere mandati o protettorati sulle
colonie delle potenze sconfitte nella Grande Guerra, del Golfo di Nigeria ecc.? Il
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fatto che le prime prese di posizione dei governi di Mussolini rimanessero
puramente verbali non deve però indurre a sottovalutarle, o a ignorarle. Né
deve spingere a vederle solo nel loro aspetto strumentale, di strumentalità
interna, come la ricercata differenziazione dai predecessori liberali o esterna,
come la presa di distanze, o minaccia, dalla Francia.
Quelle prese di posizione in realtà riflettevano assai bene sia la nuova ideologia
fascista sia quella rappresentanza politica garantita dai nuovi governanti
nazionalisti e fascisti ai vecchi circoli colonialisti. Per tutti gli anni Venti la
politica coloniale italiana fu intessuta di cicliche alternanze di rivendicazioni e
assopimenti.
Qualche successo fu comunque marcato dai governi fascisti: la cessione
dell’Oltregiuba da parte dell’Inghilterra, il riconoscimento inglese (1925) alla
costruzione di una ferrovia Eritrea - Somalia, ferrovia che non andò però mai al
di là dei progetti, qualche lembo di Sahara a sud della Libia ecc.
I l fascismo e le colonieI l fascismo e le colonie
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Più importante era semmai il fatto che, già negli anni Venti, il regime andava
precisando nelle colonie il proprio volto fascista. Un fatto nuovo - ma per il
momento tutto affatto che scontato, immediato o indolore - fu lo spazio
conquistato dal PNF: un nuovo centro di potere veniva a inserirsi nel gioco fra
colonia e governo. Un secondo elemento che connotò presto i possedimenti
oltremare del fascismo fu la scelta di Mussolini di inviare come governatori
coloniali personaggi di rilievo del regime, come Volpi, De Vecchi di Val
Cismon, De Bono, Balbo, Badoglio, Graziani ecc. Anche se ciò doveva servire nei
calcoli del dittatore più per allontanare dall’Italia personaggi scomodi che per
valorizzare le colonie, la scelta si inscriveva nella logica generale che vedeva il
regime fascista dare alle tematiche “imperiali” un rilievo maggiore di quanto
aveva fatto l’Italia liberale. Nuovo fu inoltre il ruolo assunto dal ministero delle
Colonie e in genere dalla burocrazia coloniale. Oltre che una scelta vera e
propria del regime, che anzi in alcune sue frange sarebbe stato propenso a
“deburocratizzare” molto anche nella politica coloniale, fu questo un portato dei
tempi. Gli organici del dicastero istituito solo nel 1911 apparvero ai suoi critici
sempre eccessivi, ma di fatto rimasero per vari anni ridotti ai minimi termini.
Una volta passata la crisi del dopoguerra il ministero delle Colonie cominciò
però a crescere, dapprima nell’ambito di una più generale crescita burocratica e
di personale dello Stato, poi perché “favorito” dal regime. Già a metà degli anni
Venti, molto negli anni Trenta e massime dopo la conquista dell’Etiopia il
dicastero crebbe esponenzialmente, a un ritmo sconosciuto alle altre
amministrazioni pubbliche, a dimostrazione del ruolo consegnatogli dal regime.
L’ultimo elemento che caratterizzò la politica coloniale dei primi anni di
fascismo fu il ruolo ancora una volta notevole svolto dai militari. Già padroni
della primissima Eritrea e della prima Libia, ma indeboliti dalla valorizzazione
delle amministrazioni civili del periodo giolittiano e del tempo degli “Statuti”, i
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militari tornarono a “pesare” proprio con il fascismo: pesarono direttamente,
come quando il capo di stato maggiore generale Pietro Badoglio fu investito
della carica di governatore della Libia. Pesarono soprattutto indirettamente, con
il nuovo spazio dato già dai primi governi Mussolini alle aspirazioni
espansionistiche e alla prospettiva della “riconquista” delle colonie. Fu così che
il governatore fascista De Vecchi di Val Cismon scatenò i militari in cerca del
controllo totale della Somalia. Fu così soprattutto, come già s’è accennato, con la
“riconquista” della Tripolitania e della Cirenaica: una riconquista che attraversò
varie fasi e fu condotta con tecniche varie dai vari governatori e dai vari
comandanti delle truppe coinvolti (da Volpi a Badoglio, da Graziani a Balbo, che
ne ereditò i risultati).
Premessa al l ’ impresa et iopicaPremessa al l ’ impresa et iopica
Gli interessi dell’Italia sul territorio etiopico iniziarono prima dell’avvento del
fascismo in Italia. Nel 1906 Italia, Francia e Inghilterra avevano stipulato un
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trattato nel quale le tre potenze avevano convenuto di spartirsi amichevolmente
l’intero territorio etiopico, quando l’impero etiopico, che Menelik era riuscito a
fondare grazie all’aumentato prestigio delle centrali e battagliere genti amhara
dopo la vittoria sulle truppe italiane a Adua, avesse manifestato segni di collasso.
Questo trattato verrà più volte usato da Mussolini per rivendicare i diritti
dell’Italia sul suddetto territorio.
Gli accordi tra Mussolini e l’ambasciatore inglese a Roma, Graham,
riprendevano questo trattato, con gli Inglesi che sostenevano che era giunto il
momento di “dar corso” ai “ diritti” sanciti nel 1906. Nell’accordo, erano
stabilite “zone di influenza”, che trattandosi di una nazione sovrana,
assumevano un significato alquanto ipocrita.
Bisogna inoltre evidenziare, per meglio capire gli avvenimenti tra il 1925 e il
1935, che non si è mai potuta individuare una netta frontiera: per quanto Italia
ed Etiopia si fossero impegnate a delimitarla, questo non era mai avvenuto, per
cui l’intera situazione poggiava soltanto sui “diritti d’acqua” delle varie tribù,
che in pratica dimoravano “prevalentemente” nella nostra colonia, ma che
andavano ad abbeverare il bestiame molto più a nord, e viceversa. Questo stato
di fatto aveva generato una vecchia ruggine: noi non perdonavamo agli etiopi di
essersi impadroniti di tribù con le quali da tempo avevamo stretto trattati.
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Impresa et iopicaImpresa et iopica
Benché siano passati quasi cinquant’anni, non è facile neppure oggi ricostruire
con la necessaria precisione storica come e perché si venne, nell’ottobre 1935, a
quella campagna d’Etiopia che doveva servire da piattaforma a Mussolini per la
proclamazione di un impero, che d’altra parte non sarebbe durato più di cinque
anni.
Alcuni motivi che spinsero Mussolini all’aggressione all’Etiopia, su cui puntava
moltissimo, furono: necessità di un compattamento interno, far dimenticare i
riflessi della Grande Crisi sull’economia italiana; ragioni ideologiche,
assegnando al fascismo il compito di vendicare quell’Adua subita dall’Italia
liberale; e soprattutto per motivi di prestigio internazionale, visto anche che dal
1933 il nazionalsocialista Hitler comandava in Germania un regime totalitario e
bellicista che minacciava di ricacciare l’Italia (seppur primo regime fascista) nei
ranghi di potenza secondaria.
Mussolini impiegò dieci anni per mettere a punto quella spedizione africana
che avrebbe dovuto “dare un posto al sole agli italiani” e vendicare l’onta di
Adua.
Questo periodo di preparativi e provvedimenti iniziò nel 1925, anche se solo
nel marzo 1935 Mussolini prese le sue “grandi decisioni”, cioè dopo lo scoppio
della “bomba” tedesca e dopo i colloqui di Roma con Laval: ma esse non
vennero realmente concretizzate che il 21 e 22 aprile, sei giorni dopo i colloqui
di Stresa.
Nel 1925 Mussolini ordino’ di studiare provvedimenti idonei a fronteggiare
quella che veniva definita “una incombente minaccia”.
In quel luglio 1925, il ministero delle Colonie partorì perciò una prima misura
di rafforzamento, consistente nel prolungamento delle due linee ferroviarie
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esistenti, tuttavia le misure rimasero confinate nel loro stretto ambito
burocratico: in pratica non si fece nulla.
Un soprassalto di autentico allarme è rintracciabile nel giugno dell’anno dopo, il
I926. Verso la fine del mese piombò a Roma un lungo rapporto del nostro
ambasciatore ad Addis Abeba, il conte Colli di Felizzana. Vi si riferiva che ras
Tafari, colui che poi doveva divenire Negus Neghesti col nome di Hailè Selassiè,
era ancora furioso per gli accordi Mussolini-Graham del dicembre precedente,
e che c’era da temere un qualche suo colpo di testa alle frontiere, soprattutto a
quelle eritree. Per un istante, parve che Mussolini intendesse davvero prendere
energici provvedimenti: ma l’ordine passato a Badoglio, e poi al Malladra, di
porre in stato di difesa la colonia, era in realtà frutto di preoccupazioni che
poco avevano a spartire con la sicurezza reale della colonia.
All’indomani del delitto Matteotti, in una situazione interna scabrosa e
pericolosa, Mussolini intuiva di non potersi permettere nulla che somigliasse
neppur lontanamente al più piccolo scacco coloniale. Era sulla lama del coltello:
bastava un niente per tagliarsi.
Nell’estate del 1926, il generale Malladra tenne comunque all’Asmara una serie
di riunioni e realizzò due studi, uno per l’Eritrea e uno per la Somalia. Da questi
studi si capiva che né in quel momento né in futuro le colonie ce l’avrebbero
mai fatta a sopravvivere, se la madrepatria non avesse mandato in tempo
consistenti rinforzi. In definitiva, occorreva un grosso sforzo soltanto per poter
incominciare a resistere a una eventuale aggressione.
Il povero Malladra, pensando che a Roma si fossero decisi a risolvere una buona
volta la situazione, si sbagliava di grosso. Sul piano militare non venne fatto
assolutamente nulla. Invece, il governo di Mussolini preferì battere la strada di
una riappacificazione. Che era poi il modo più semplice per non risolvere il
problema. Così nel 1928 si arrivò a quel trattato di amicizia italo - etiopico che
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permise a tutti di rimettersi tranquillamente a dormire. Da entrambe le parti, si
trattava di una “pezza” formale su una situazione di fondo del tutto
inequivocabile.
Nel 1929 lo Stato Maggiore, risvegliatosi momentaneamente, sentenziò che
occorreva rifare la rete stradale, costituire un’aeronautica embrionale e
perfezionare la difesa: ma, una volta di più, nulla venne realmente fatto.
Le rivendicazioni del “fitaurari” Gabremariam, governatore di Harar, su un
territorio a sud dell’Ogaden, sulla nostra frontiera somala, e la sua comparsa sui
nostri confini con 20000 uomini nell’agosto del 1931, fecero decidere lo Stato
Maggiore al principio del 1932 a preparare il progetto “O.M.E.”, il cui scopo
dichiarato era quello di dare sicurezza completa alle colonie.
Questo piano soffriva per due punti realmente deboli. Intanto, era previsto che
tutti i rinforzi andassero all’Eritrea, lasciando cuocere la Somalia nel suo
anemico e pericoloso brodo. Poi si stabiliva tassativamente che essi sarebbero
stati mandati “ a situazione completamente tranquilla”, ma questa era un’utopia.
Da un sopralluogo politico - militare in Eritrea , il generale De Bono sostenne
che la situazione non era poi così grave e che uno dei mezzi per raggiungere
una stabile sicurezza delle due colonie poteva esser quello di riportare un grosso
successo militare sugli etiopi, buono a tenerli poi tranquilli per un congruo
numero di anni. Con le truppe e i mezzi messi a disposizione con il progetto
“O.M.E” non era possibile fare molto di più di quanto il piano prevedeva: e anzi
era dubbio anche questo. Proprio per questo, sul filo del bruciante ricordo di
Adua, la “Memoria circa un’azione offensiva contro l’Etiopia”, che venne
redatta nel marzo - aprile 1932 in aggiunta al piano “O.M.E.” da De Bono,
concludeva dicendo che “prudenza” consigliava a mobilitare non tre, ma sei
divisioni.
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De Bono, analizzato il progetto, ne trasse una conclusione equilibrata e assai
diversa da quanto oggi si ama tramandare: disse in sostanza che le spese
prevedibili erano forti, e che sarebbe stato bene prima discutere se questo sforzo
non sarebbe stato meglio applicato altrove. La risposta di Mussolini fu vaga e
portò al rinvio della risoluzione del problema coloniale di altri due anni.
In questi due anni avvennero degli eventi che portarono Mussolini a cambiare
idea in merito alla questione coloniale, fra i quali gli incidenti di Ual Ual e
l’avvento di Hitler alla cancelleria tedesca
Finalmente nel 1934 venne varato a Palazzo Venezia un nuovo piano chiamato
“AO”, che prevedeva l’invio nella colonia di non meno di tre divisioni,
appoggiate da 75 apparecchi. E’ importante notare che nessuno di questi
provvedimenti venne preso nel corso del 1934, e dei primi due mesi del 1935.
Il 16 marzo, quando la Germania annunciò seccamente che ripudiava il trattato
di Versailles, e che avrebbe riarmato a suo piacimento in terra e in cielo, il
mondo trattenne il fiato in attesa delle contromisure inglesi e francesi; ma non
successe nulla, oltre a qualche grido di sdegno per “l’inaudita violazione”.
Durante la conferenza di Stresa nell’Aprile del 1935, in cui si sarebbe dovuto
costruire o meglio ripristinare un “fronte” che funzionasse contro la Germania,
l’Italia cercò essenzialmente un assenso all’impresa d’Etiopia.
Già nel gennaio 1935 egli aveva nominato De Bono alto commissario per
l’Africa orientale: iniziò allora una serie di piccoli scontri lungo la frontiera
etiopica volti a giustificare l’intervento militare, mentre la propaganda fascista
sottolineava in tutta Europa il carattere barbarico del governo della nazione
africana. La preparazione dell’aggressione venne ultimata nell’ottobre del 1935
quando, il 2 dello stesso mese, dall’Eritrea e dalla Somalia mossero le truppe
italiane con grande ricchezza di mezzi. La condotta contraddittoria della Società
delle Nazioni, che nelle sanzioni economiche verso l’Italia non incluse materie
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prime fondamentali alla
condotta stessa della guerra, la
possibilità stessa di rifornirsi
presso quegli stati che non
avevano aderito alle sanzioni
(fra cui gli Stati Uniti, la
Germania e il Giappone) non
intaccò la grande disponibilità
dei mezzi impiegati.
Dopo un periodo di stasi, le
operazioni militari vennero
condotte da Pietro Badoglio, che
dall’Eritrea operava sul fronte
settentrionale, e da Rodolfo
Graziani, sul fronte meridionale:
i due comandanti ottennero allora l’autorizzazione da parte di Mussolini a fare
uso di gas asfissianti, a bombardamenti selvaggi secondo le tecniche della
«guerra totale» di carattere terroristico. Nonostante l’esercito etiopico mostrasse
grande determinazione, alla fine fu costretto alla sconfitta: il 9 maggio 1936 si
ebbe la proclamazione dell’Impero e da allora la sistematica occupazione del
territorio etiopico.
Propaganda colonialePropaganda coloniale
Non essendo abbastanza ferma, l’azione della Società delle Nazioni ebbe il solo
effetto di offrire a Mussolini una splendida opportunità di chiamare il
UN ASCARO DI CAVALLERIA ERITREO
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sentimento nazionale a schierarsi contro questa “aggressione” portata alla patria
da 52 paesi.
Come più tardi avrebbe riconosciuto, fu l’imposizione delle sanzioni che gli
consentì di “frantumare l’ultimo residuo di resistenza al fascismo in Italia”, e
permise quel che altrimenti sarebbe stato impossibile: la conquista di un impero.
L’industria della propaganda ebbe gioco facile a bollare le democrazie
occidentali come decadenti, infiacchite, codarde e incapaci di tener testa al
vigore e all’idealismo dell’Italia fascista.
I più eminenti intellettuali del paese vennero mobilitati in appoggio a questa
campagna, e invitati ad esprimere la loro indignazione per il fatto che dei
governi europei potevano preferire “un’orda barbara di Neri”, ben sapendo che
l’Italia fascista era “la più intelligente tra le nazioni”, la “madre di ogni civiltà e
maestra universale dello spirito umano”. La minaccia delle sanzioni fu decisiva
nell’allineare l’opinione pubblica dietro la guerra, e centinaia di giornalisti
furono spediti in Etiopia con il compito di stimolare ulteriormente l’eccitazione
generale.
Quando Mussolini chiamò i cittadini a donare alla causa comune le vere nuziali
e altri oggetti preziosi, la risposta fu considerevole. Ci sono scarsi dubbi che i
proventi di questa raccolta finirono nelle tasche di malversatori; ma il pubblico
atto di fede, che aveva accomunato il cittadino qualsiasi alla famiglia reale e ai
prìncipi della Chiesa, fu per il fascismo eccellente propaganda. La propaganda
fascista non si limitò solo a questo: la censura, l’uso spregiudicato e convergente
di tutti i mass-media allora disponibili, l’accorta regia da parte di quello che fu
poi il ministro di stampa e propaganda, crearono un efficace insieme di
immagini coordinate per un impero.
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La sua forza consisteva nel far leva su antichi
stereotipi e vecchi retaggi.
Per quanto “moderna” nella forma, il contenuto
dell’immagine dell’Africa da essa veicolata era
tradizionale: l’Africa come “terra misteriosa e
tenebrosa”, gli Africani come “bonari fanciulli” o
“perfidi selvaggi”, il bianco come portatore di
civiltà e artefice della trasformazione di milioni
di schiavi in lavoratori liberi..
Tutti questi elementi facevano parte di un
repertorio tradizionale, stucchevole e ripetitivo,
ma di sicura presa in assenza di una critica
serrata dell’ideologia coloniale. Inoltre la propaganda coloniale del fascismo si
distinse, rispetto ad analoghe immagini proposte da altre potenze imperialiste,
per un’assenza quasi assoluta dei temi dell’emancipazione e
dell’autonomizzazione dei sudditi colonizzati. Va notata inoltre un’esasperazione
dei temi della necessaria sottomissione razziale dei Neri ai Bianchi , temi che
acquistarono sempre maggiore rilevanza con l’approssimarsi del 1938 e della
codificazione di vere e proprie leggi razziali. Ma il mutamento più importante
fu forse un altro, legato alla struttura stessa della propaganda. Già dal 1926 fu
organizzata in tutta Italia con grande risalto una “giornata coloniale”,
sull’esempio dell’Empire day britannico, che vide la contemporanea
mobilitazione di tutto il Paese e del regime fascista. Il regime si incaricò poi di
mettere ordine, e di gerarchizzare, i vari centri che si occupavano di colonie e
di propaganda coloniale. Tutte queste attività erano intonate dai soliti centri
colonialisti di un tempo: cosa che dava continuità all’attività di propaganda. Ma
il mutamento fondamentale impresso dal regime alla propaganda coloniale fu
CARTOLINA CELEBRATIVA DELL’IMPERO:
SOLDATO ITALIANO RECA IN ABISSINIALA FIACCOLA DELLA CIVILTA’
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che alla libera iniziativa, anche qui, si
sostituì l’organizzazione dello Stato e il
controllo del partito.
Violenza degli i tal iani nelle guerre colonial iViolenza degli i tal iani nelle guerre colonial i
Durante queste guerre coloniali gli italiani non si comportarono secondo la
diffusa immagine di “italiani brava gente”, ma anzi utilizzarono metodi molto
duri per reprimere le rivolte, e armi “vietate” per colonizzare i nuovi territori.
Infatti l’Etiopia subì una sorte tragica e terribile da quando iniziarono le
operazioni italiane per la conquista dell’Impero.
Il maresciallo Badoglio, che aveva sostituito il generale De Bono alla guida
dell’esercito italiano in Etiopia, usò una tattica molto più spietata del suo
“ LA LIBERAZIONE DEGLI SCHIAVI ”
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predecessore. Ordini espliciti di Mussolini imponevano all’esercito di ricorrere,
se necessario, ad ogni mezzo, dal bombardamento degli ospedali all’impiego
“anche su vasta scala di qualunque gas”, e addirittura alla guerra batteriologica
(tutte cose che però bisognava cercare di tener segrete).
Così, tra il 22 dicembre e il 18 gennaio 1936, oltre 2.000 quintali di bombe, in
gran parte caricate a gas vescicante (iprite), vengono gettate non soltanto sulle
armate etiopiche in movimento, ma anche sui villaggi indifesi, sulle mandrie, i
pascoli, le colture, i fiumi, i laghi.
Sugli effetti devastanti delle incursioni aeree fasciste è lo stesso Hailè Selassiè
che porta una drammatica testimonianza: “ Ogni essere vivente che veniva
toccato dalla leggera pioggia caduta dagli aeroplani, che aveva bevuto l’acqua
avvelenata o mangiato cibi contaminati, fuggiva urlando e andava a rifugiarsi
nelle campagne o nel folto dei boschi per morirvi. C’erano cadaveri dappertutto,
in ogni macchia, sotto ogni albero, ovunque ci fosse una parvenza di rifugio.
Presto un odore insopportabile gravò sull’intera regione. Non si poteva pensare
di seppellire i cadaveri, perché erano più numerosi dei vivi. Bisognò adattarsi a
vivere in questo carnaio. Nel prato vicino al nostro quartier generale, a
Quoram, più di 500 cadaveri si decomponevano lentamente ”.
Anche dopo la conquista dell’Etiopia, la violenza degli italiani continuò.
Né è un esempio la condotta di Rodolfo Graziani, viceré dell’Etiopia nel 1936,
incapace di governare e di affrontare le situazioni di emergenza. Fatto bersaglio,
il 19 febbraio 1937, di un attentato, la sua reazione fu sconsiderata, rabbiosa,
feroce, al punto da consentire a squadracce organizzate dal generale Guido
Cortese di compiere rappresaglie ad Addis Abeba, per tre giorni consecutivi, che
causarono la morte di migliaia di innocenti.
Non potendo mettere le mani sui veri esecutori dell’attentato, il viceré liquidò
inoltre gli intellettuali rimasti in Etiopia, fece fucilare 448 monaci e diaconi e
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persino migliaia di indovini e cantastorie, rei soltanto di aver predetto la fine
prossima dell’occupazione italiana; senza contare i 400 notabili deportati in
Italia e altre migliaia inviati nei lager micidiali di Danane e di Nocra.
Ma la violenza del regime fascista si può anche vedere nella riconquista delle
colonie e nelle loro “ordinarie amministrazioni”.
Negli anni Venti l’Italia era riuscita a ottenere il pieno controllo della
Tripolitania; analogamente aveva tentato di fare con la Cirenaica, ma qui aveva
fallito principalmente per il fatto che la resistenza araba - divisa in Tripolitania -
era nel Bengasino unita e ispirata dalla Senussia, potente e venerata
confraternita islamica. Nella ininterrotta serie di combattimenti che segnarono
la Cirenaica per tutti gli anni Venti la resistenza senussita, pur indebolita dagli
attacchi di un avversario che poteva sfruttare la superiorità dei propri mezzi
(radio, aeronautica, armamento moderno ecc.), non cedette il controllo del
territorio agli italiani, sostenuta com’era dal favore delle popolazioni e
dall’intelligenza strategica del suo capo Omar al Mukhtar. Tra il 1930 e il 1931
invece il potere coloniale (governatore Badoglio, vicegovernatore della
Cirenaica e comandante delle truppe Graziani) giunse alla scelta estrema: per
far crollare definitivamente le bande della resistenza non esitò a deportare gran
parte della popolazione cirenaica, facendone crollare l’economia pastorale e
concentrandola in campi dove, per gli stenti, perirono a migliaia. La resistenza si
batté ma fu travolta, Omar al Mukhtar catturato e impiccato sulla pubblica
piazza. Quando la popolazione deportata poté abbandonare i campi di
concentramento e tornare alle primitive sedi essa si trovò diminuita di alcune
decine di migliaia. La più lontana Colonia Eritrea, intanto, poteva sembrare
sonnecchiare in più “ordinarie” vicende. Eppure, fra gli anni Venti e Trenta,
l’Eritrea vide modificato il proprio assetto sociale: non tanto da uno sviluppo
generale - che non vi fu - della propria agricoltura coloniale (solo alcune zone
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conobbero l’agricoltura intensiva classica delle monocolture tropicali) quanto
dalla continua richiesta di ascari, che il regime impiegò a fondo per le
operazioni di “pacificazione” e di “riconquista” delle altre colonie. Il drenaggio
degli ascari fu così massiccio che studiosi africani hanno definito l’economia
dell’Eritrea del tempo come “militare”. In maniera altrettanto apparentemente
“ordinaria” passavano gli anni per la Somalia. Eppure anche qui le campagne di
De Vecchi avevano alfine ottenuto il disarmo e il controllo di ampie zone prima
sottratte al potere coloniale: e ciò aveva permesso di perfezionarvi un’economia
di concessione e di lavoro coatto che trasformò il volto di alcune delle poche
aree irrigue e fertili della colonia.
L’impero dopo i l 1936L’impero dopo i l 1936
L’impresa etiopica italiana dimostrò la pericolosità dei regimi fascisti e fece
compiere a tutta l’Europa un passo decisivo verso la guerra generale.
Questo è tanto più grave se si pensa che in realtà l’Etiopia fu vinta ma non
conquistata e l’animo degli italiani solo episodicamente avvinto (o convinto)
della “prospettiva dell’impero”. Anche se l’imperatore Hailé Selassié abbandonò
la sua terra, i patrioti etiopici tennero alta la sua bandiera e resero insicura la
presenza dell’occupante italiano. Questo fu costretto a rifugiarsi nelle città, a
lanciare periodicamente grandi “operazioni di polizia coloniale” (un eufemismo
con cui venivano definite le più brutali repressioni della resistenza locale) e a
tenere sempre in movimento colonne armate per battere il territorio. Tutte le
fonti disponibili rivelano la costante preoccupazione di Mussolini per lo stato di
ribellione endemica in cui l’Etiopia rimase fra il 1936 e il 1941. Se anche
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alcune zone furono “pacificate” la permanenza di sacche di resistenza nelle
altre rendeva comunque impossibile agli italiani la pianificazione di un qualsiasi
piano di sfruttamento o di “valorizzazione” del nuovo territorio “conquistato”.
Su un punto in particolare fallirono sia il primo governatore dell’AOI, il
generale Graziani, sia colui che fu chiamato a sostituirlo, il duca Amedeo di
Savoia Aosta: si trattava della trasformazione dell’Etiopia in zona di popolamento
italiano. Una delle giustificazioni scelte dal regime per legittimare l’aggressione,
quella di dare “un posto al sole” e di fornire terre africane al lavoro italiano
fallì, infatti, anche per lo stato di endemica ribellione fermentato intorno e
contro l’occupante fascista dopo il 1936. Gli italiani che si stabilirono (o che si
fermarono per qualche anno) in Etiopia furono quindi solo funzionari, operai
addetti alla creazione di grandi sistemi infrastrutturali (stradali, idrici ecc.),
piccoli commercianti, lavoratori del terziario e del sistema dei trasporti: ma non
contadini. In molti erano soldati: la combattività della resistenza costrinse il
regime sulla difensiva. Un successo in fondo non molto maggiore ebbe un’altra
iniziativa “colonial-demografica” del regime: il popolamento della Libia ormai
riconquistata. Per lunghi anni i tecnici italiani erano stati incerti se suggerire al
regime per l’agricoltura coloniale libica la via “capitalista” (con poche grandi
compagnie concessionarie) o quella “demografica” (immigrazione di tanti
piccoli coltivatori che, grazie a sussidi statali e a piccole concessioni di terre,
potessero trasformarsi in proprietari terrieri coloniali). Fu poi imboccata la via
demografica, sotto la spinta del ministro Lessona che parlava di poter impiantare
in Libia centinaia di migliaia - se non milioni - di italiani. A Lessona si affiancò il
governatore Italo Balbo che proclamò di spostare dall’Italia i contadini necessari,
a “Ventimila” alla volta. Ma solo la prima delle progettate spedizioni dei
Ventimila, con gran clamore di propaganda fu portata a compimento nel 1938.
L’anno successivo il regime riuscì a muoverne solo la metà, e nel 1940 lo
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scatenamento della guerra mondiale cancellò ogni progetto. L’arditezza del
piano di colonizzazione demografica del regime non va sottovalutato: va d’altro
canto ricordato che, per un confronto, già nel 1926 la confinante Tunisia
accoglieva 71.000 francesi mentre l’Algeria ne ospitava ben 660.000. Ma fu
soprattutto sul medio periodo e rispetto alle aspettative di Lessona che il piano
dei Ventimila fu tutt’altro che un successo: passata la guerra e crollato il
fascismo, degli italiani di Tripolitania nel 1948 a rimanere erano solo 44.000 (di
cui quasi 24.000 a Tripoli). Per quanto coperti dalla censura, questo o altri
insuccessi non tardarono a essere noti, o intuiti. Tanta era stata l’enfasi riposta
dal fascismo sin dai primi anni sulla dimensione coloniale, tanto roboante era
stata la propaganda del 1935-36, tanto alte erano state le spese per l’impero,
quanto pochi ora nell’autunno del regime sembravano essere gli utili. Negli
stessi ambienti colonialisti, assieme alle illusioni, cominciarono a serpeggiare i
dubbi. Per esempio nel 1937-38 il regime aveva avviato, anche su terreno
coloniale, lo studio, la codificazione e l’emanazione delle leggi razziali. La
discriminazione e la segregazione razziale che queste introducevano furono a
livello colonial-internazionale (se si esclude il Sudafrica) qualcosa di nuovo.
Ecco che allora persino nella burocrazia coloniale - assieme a tanti funzionari
che zelantemente applicarono le più brutali norme discriminatorie e
isolazioniste - ci fu chi si chiese se davvero l’impero italiano avesse bisogno di
un sistema segregazionista per affermare la “potenza di Roma”, come volevano
Mussolini e il fascismo. Ma i dubbi più radicali e le incertezze più grosse dei
colonialisti fu lo stesso regime a insinuarli. I più attenti e alti responsabili della
politica coloniale iniziarono a mormorare segretamente contro il dittatore di
trascurare l’impero, ora che era stato “conquistato”. C’era in ciò una parte di
caduta delle illusioni più estremiste. Ma c’era anche la constatazione del fatto
che in effetti, trascorsa la fase di mobilitazione del 1935-36, personalmente il
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dittatore (preso dalle dinamiche europee e dal confronto con Hitler) era ormai
molto meno interessato alle questioni coloniali: semmai era molto preoccupato -
per esempio - di quella ribellione dei patrioti etiopici che continuava a tenere in
scacco gli italiani in AOI. Quando la guerra scoppiò, nel settembre 1939, e
ancor più quando l’Italia fascista entrò nel conflitto a fianco della Germania
hitleriana, nel giugno 1940, fu chiaro a molti che la sorte dell’ AOI era appesa
al volere degli avversari. Mussolini e i circoli colonialisti fascisti fantasticarono
di “offensive imperiali” dalla Libia verso l’Egitto e il Canale di Suez o verso
l’Algeria e la “finestra sull’Oceano” o ancora dall’ AOI verso il Somaliland
britannico e Gibuti francese. Ma si trattava di progetti effimeri o di pericolosi
sogni. Lontano, circondato da possedimenti britannici, non sufficientemente
rafforzato, l’impero fu il primo a cadere a pezzi: Massaua passò agli inglesi ai
primi dell’aprile 1941 e il Negus volle essere ad Addis Abeba per il 5 maggio
1941 (anniversario dell’occupazione italiana). La Libia, costantemente rafforzata
da Mussolini di uomini (ma non abbastanza di mezzi) resse più a lungo. La
“quarta sponda”, accantonati tutti i progetti rural-demografici, fu militarizzata
(mentre dall’Egitto gli inglesi fecero molto per far risorgere la resistenza
senussita, o comunque araba). I territori desertici fra la Cirenaica e l’Egitto
furono trasformati nel teatro di una guerra di movimento fra forze inglesi e
forze italo-tedesche, ennesimo scontro tra europei in terra Africana della
seconda guerra mondiale. La Cirenaica, colonia italiana, fu dagli italiani
oltrepassata d’un balzo nel settembre 1940 nella loro avanzata in Egitto; fu persa
nel gennaio-febbraio 1941 per una controffensiva britannica che giunse sino a
Bengasi; fu riconquistata dalle forze nazifasciste nella ripresa del marzo - aprile
successivi arrestata però a Tobruk; fu quindi ripersa per un’altra controffensiva
inglese nel novembre-dicembre. Ma l’altalena non si era ancora fermata: ci
vollero una nuova spinta italo-tedesca (febbraio 1942, sino a El-Alamein) e la
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poderosa definitiva controspinta britannica (ottobre), aiutata dallo sbarco
statunitense in Marocco (novembre 1942) perché non solo la Cirenaica ma tutta
la Libia finisse per cedere alle forze alleate. Nel gennaio 1943 gli italiani erano
costretti ad abbandonare Tripoli e poi l’intera Libia, a passare in Tunisia e da qui
far ritorno nella penisola. L’impero era definitivamente perso. Pochi mesi dopo
le forze anglo-statunitensi sarebbero sbarcate in Sicilia. Il 25 luglio 1943, in
seguito a una congiura ordita insieme dalla monarchia, da una parte delle forze
armate e una frazione dei più alti gerarchi fascisti che spinsero il Gran consiglio
del Fascismo a sconfessare il Duce, Mussolini veniva deposto e arrestato. A pochi
mesi dalla fine dell’impero, era il crollo del regime. Il potere fu preso per il re
dal maresciallo Badoglio che oscillò per 45 giorni fra Germania e Nazioni Unite
prima di arrivare all’armistizio. Dopo l’8 settembre 1943 la penisola fu spaccata
in due, con un Regno badogliano a Sud e una Repubblica sociale neofascista a
nord, forze anglo-statunitensi che avanzavano lentamente e quelle tedesche che
combattevano duramente arretrando. Un imponente movimento di resistenza
armata si levava intanto alle spalle dei nazifascisti. Nella crisi di regime che ne
derivò, i funzionari coloniali, gli ambienti tradizionalmente espansionisti, i
circoli “africanisti” vissero una profonda crisi. Non pochi di essi però si
cullarono nel sogno di un impossibile “Ritorneremo!”. Quasi irrealmente,
mentre il suolo patrio era insanguinato da un conflitto che assumeva molti
caratteri di una guerra civile, si sperava così di tornare in Africa, si
mantenevano le strutture dei “ministeri per l’Africa”, continuava a essere
pubblicata una certa stampa coloniale. Intanto, gli italiani d’Africa che non
erano stati rimpatriati o i soldati italiani che erano stati bloccati in territorio
coloniale dagli avversari pativano le pene dell’occupazione o della prigionia. Era
lo sfacelo di quello che si era creduto un “impero”. Sul momento pochi furono
in grado, o ebbero intenzione, di stilare un bilancio completo o definitivo
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dell’esperienza coloniale del fascismo, o del colonialismo italiano. Il
bilancio fu quindi rinviato a un più tranquillo futuro postbellico, o a una
decolonizzazione che però non vi fu, perché l’Italia post-fascista perse
definitivamente le colonie ereditate dal fascismo al tavolo delle trattative di pace.
Quel bilancio, così, è stato consegnato tutto intero - e irrisolto - agli storici.
Molte domande sollecitava quel bilancio. Fra il colonialismo dell’Italia liberale e
quello fascista prevalse la continuità o la differenziazione? A prima vista, la
diversità pare il dato dominante. Diversa, volta a volta, era stata la natura delle
varie fasi del colonialismo italiano: militare quella della prima Eritrea,
amministrativa quella del periodo del raccoglimento post-1896 e giolittiano,
segnata dalla conquista e dalla riconquista quella del fascismo. Ma una teoria del
caso per caso sarebbe impropria.
Robusti fili di continuità legano le varie fasi della storia dell’Italia coloniale:
l’uso delle imprese coloniali a fini di politica interna, per esempio (dal Crispi
della guerra italo-abissina del 1895-96 al Giolitti della Libia, a Mussolini del
1935-36); la debolezza delle ragioni economiche; la debolezza politica e al
tempo stesso la necessità di un’esibizione di forza militare; il disinteresse con cui
le ragioni degli oppositori anticoloniali furono trascurate e non ascoltate,
quando non accusate di ispirazioni antinazionali. Certo il colonialismo dell’Italia
di Mussolini fu l’unico colonialismo fascista: e la barbarie della discriminazione
razziale del 1937-1941 costituisce un caso unico nella storia del colonialismo
europeo. Ma i fili di continuità sinora ricordati e altri come persistenza delle
ambizioni territoriali, largo spazio dato ai militari, ritardo delle conoscenze e
impreparazione amministrativa, assenza di meditate strategie di avvaloramento,
ricorrenza di atti di barbarie, consigliano di ridimensionare, pur non
annullando, la soluzione di continuità fra colonialismo del regime fascista e
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colonialismo dell’Italia liberale, che porterebbe ad alleggerire troppo il carico di
responsabilità di quest’ultima.
BibliografiaBibliografia
• Nicola Labanca, Storia dell’Italia coloniale, Fenice 2000, Milano 1994
• Denis Mack Smith, Le guerre del Duce, Universale Laterza, 1980
• Angelo del Boca, da Storia Illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Settembre
1985, pp.12-24
• Mario Lombardo, da Storia Illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Dicembre
1989, pp. 33-37
• Franco Bandini, Alla conquista dell’Impero, Gruppo Editoriale Fabbri, 1983
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INDICE:INDICE:
Le prime fasi del colonialismo fascistaLe prime fasi del colonialismo fascista pag.2
I l fascismo e le colonie I l fascismo e le colonie pag.4
Premessa al l ’ impresa et iopicaPremessa al l ’ impresa et iopica pag.6
Impresa et iopica Impresa et iopica pag.7
Propaganda colonialePropaganda coloniale pag.12
Violenza degli i tal iani nelle guerre colonial iViolenza degli i tal iani nelle guerre colonial i pag.15
L’impero dopo i l 1936L’impero dopo i l 1936 pag.18
BibliografiaBibliografia pag.24
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