Storia sociale e ‘rifondazione’ della storia politica
Maurizio Ridolfi
Non sono passati molti anni da quando, nel coro quasi generalizzato dei cantori della storia sociale, si riservava una collocazione residuale ai temi della politica. Ancora nel 1987, un osservatore attento degli indirizzi storiografici come Nicola Gallerano aveva potuto scrivere della maggior parte dei giovani ricercatori come di “storici politici” che si erano “svegliati storici sociali” . Inoltre, sempre Gallerano aveva indicato una sorta di equazione nella correlazione riscontrabile tra storiografia contemporaneistica italiana e storia del secondo dopoguerra: “a fase politica alta, storia politica, a fase politica bassa, storia sociale”1. In realtà, già nel corso della seconda metà degli anni ottanta, anche in Italia era stata avviata una “rifondazione” della storia politica. Sebbene il rinnovamento sia in pieno svolgimento, su di esso è opportuna una riflessione non estemporanea. Mentre sarà necessario individuarne e misurarne le principali direttrici con interventi specifici e mirati, in questa occasione può risultare utile delineare alcune possibili coordinate storiografiche su un piano problematico e metodologico. Sembra utile
concentrare maggiormente l’attenzione sui decenni dell’Italia liberale — e del secondo Ottocento in particolare —, sui quali diversi e significativi contributi hanno cercato di evidenziare le moderne espressioni e le trasformazioni della politica (regole, forme, modelli, contenuti, identità, culture, linguaggi, ecc.).
La nuova storia politica: prologhi e “percezioni”
Se già nella prima metà degli anni ottanta, con la costituzione a Bologna del Centro ricerche di storia politica2, anche in Italia assunse veste istituzionale l’esigenza di un rinnovamento della storia politica, non pare azzardato individuare una data periodizzante nella “percezione” dei mutamenti della storia politica e nella assunzione di questi a fattore costitutivo del più largo “senso comune” storiografico. Si tratta del convegno di studi su “Il partito politico nella Belle Epoque”, promosso dalla Luiss a Roma nell’aprile 1989. Ad esso è seguita la sollecita
1 Nicola Gallerano, Fine del caso italiano? La storia politica tra “politicità” e “scienza”, “Movimento operaio e socialista”, 1987, n. 2, p. 18.2 II Centro sorse nel 1981 ed è forse utile ricordarne i primi approdi di ricerca. Cfr. Aa.Vv., A ll’origine della “forma-partito” contemporanea. Emilia-Romagna 1876-1892: un caso di studio, Bologna, Il Mulino, 1984; Paolo Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma-partito del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1984 e quindi Id., Introduzione alla storia dei partiti politici, Bologna, Il Mulino, 1985.
Italia contemporanea”, settembre 1993, n. 192
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pubblicazione degli atti3, nella cui introduzione il curatore esplicita il “ritorno della storia politica” in Europa; un auspicio certamente anche per l’Italia ma, allo stesso tempo, la constatazione di un mutato clima storiografico. Anzitutto, in che termini è possibile qualificare questo moto di rifondazione della storia politica? Nei principali paesi del continente, come sappiamo, il ritorno di attenzione verso la dimensione politica nella ricerca si è già rivelato prodigo di studi. Se in Germania il dibattito ha riguardato prevalentemente il “laboratorio” del sistema politico e in Francia ha assunto invece importanza centrale la correlazione dei processi di scissione-integrazione nello stato-nazione, in Gran Bretagna la lunga tradizione istituzionale ha orientato gli studi sul rapporto tra continuità e mutamento4. In Italia, se la “riscoperta” della politica negli studi storici è recente, si può cominciare col dire che essa sta avvenendo sulla scorta di riflessioni metodologiche impegnate e non occasionali. Se, nella direzione ricordata, preliminare è la definizione di un diverso rapporto tra storia e scienza della politica5 — che non si risolva in una semplice operazione di “maquillage” —, anche in Italia, a ben vedere, è un più largo e rivendicato rapporto tra storia e scienze sociali a contrassegnare le tendenze in atto. Anzi, proprio in ragione del suo essere area di frontiera rispetto ai
territori di ricerca dissodati dalla storia sociale e grazie ai nuovi linguaggi e saperi mutuati dalla ricerca interdisciplinare, la storia politica tende ad accreditare una profonda riscrittura del suo statuto scientifico, con risvolti simbolici ed evocativi alquanto suggestivi.
Mosso da una condivisibile insofferenza verso gli usi e gli abusi della storia politica da parte dei mass-media, Piero Bevilacqua ha osservato come l’emancipazione del “sociale” preluda non tanto ad una riedizione aggiornata di “una storia senza la politica”, quanto permetta proprio alla stessa storia politica di ridefinire un proprio ambito specialistico, meno generico e ideologizzato che un tempo, ma sicuramente anche meno vulnerabile sul piano scientifico.La storia politica — ha scritto Bevilacqua — può finalmente trasformarsi in storia della politica, ricostruzione di tutti quei processi, disseminati nell’universo sociale o strutturati nelle articolazioni molteplici dello Stato, in cui si esprime la lotta per il controllo delle risorse, per il potere di comando nelle istituzioni, per il governo degli uomini6.
A sua volta, nel riflettere sui percorsi di ricerca recentemente emersi negli studi sulla dimensione politico-istituzionale delle vicende storiche, grazie ad una felice coniugazione tra scienze sociali e storia, Paolo Macry ne ha riassunto gli itinerari, ormai non più estranei alla stessa storiografia italiana:
3 Gaetano Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella Belle Epoque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ’800 e ’900, Milano, Giuffrè, 1990. Per un’ampia discussione del volume, Federico Mioni, La cupola incrinata: forma-partito e forme della politica in Italia tra Ottocento e Novecento, “Il Pensiero Politico”, 1990, n. 2.4 Per una ricognizione sulle principali storiografie europee, G. Quagliariello, Il ritorno della storia politica. Note sui recenti sviluppi della ricerca, in II partito politico, cit., pp. XXIX-XXX in particolare. Va comunque segnalata l’intensità con la quale in Francia ci si interroga sulla “nuova” storia politica; cfr. René Remond (a cura di), Pour une histoire politique, Paris, Ed. du Seuil e Denis Peschansky-M. Pollak-Henri Rousso (a cura di), Histoire politique et sciences sociales, Bruxelles, Editions Complexe, 1991.5 Non è forse superfluo ricordare come, a dispetto della scarsa ricezione da parte della storiografia, sempre importante sia l’eredità degli studi di Paolo Farneti per l’analisi del rapporto tra società civile e sistema politico e quindi per un incontro fecondo tra storia e scienza della politica. A patto che se ne discutano criticamente gli assunti metodologici e se ne verifichino le linee interpretative sulle fonti.6 Piero Bevilacqua, Storia della politica o uso politico della storia?, “Meridiana”, 1988, n. 3, p. 176. Si vedano anche Ernesto Galli Della Loggia, Una storiografia indifferente, “Il Mulino”, 1986, n. 4, e Francesco Barbagallo, Politica, ideologia, scienze sociali nella storiografia dell’Italia repubblicana, “Studi storici”, 1986, n. 4.
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una nuova storiografia politica cerca di uscire dalla trappola del “racconto dei fatti” e riesuma, dal passato, i sistemi politici più che le vicende dei singoli stati, i processi decisionali legislativi più che la storia di singoli governi o di singoli statisti, le tipologie dell’organizzazione politica più che la narrazione di congressi di partito o l’illustrazione delle idee dei leader sindacali, il comportamento elettorale nelle sue variabili socio-culturali più che la descrizione dei parlamenti e del loro operato ecc. Niente di più lontano, insomma, dalla vecchia histoire événementielle. [...] Anche taluni storici politici producono dunque tipologie e sistemi, introducendo in un campo tradizionalmente descrittivo un livello di generalizzazione e di formalizzazione che è evidentemente mutuato dalle scienze sociali. [...] Analisi di reti impersonali e di conflitti tra individui e famiglie riscoprono, dietro le etichette di partito, la realtà della lotta politica e le sue motivazioni concrete7.
In sostanza, come anche Macry è indotto a osservare, “la nuova storia politica è, in realtà, storia della politica”.
La storia come scienza della politica
Nell’editoriale che nel 1986 annunciava il primo annale del Centro ricerche di storia politica si prospettava un’ “agenda di lavoro” che, negli anni a seguire, sarebbe stata confortata da molteplici apporti. Nell’osser- vare come “l’ambito della politica” fosse ancora “un territorio abbastanza disertato dai dibattiti teorici degli storici italiani”, si contestava la circostanza per cui
la discussione su cosa sia la politica, quali le regole e le modellistiche che la governano, quali le forme in cui essa si organizza, quali le sue istituzioni fondanti ed i loro ritmi di trasformazione, si vorrebbe da più parti esclusa per lo storico8.Attraverso la promozione e lo svolgimento di studi volti a porre l’attenzione storiografica sulla nascita della moderna forma-partito in Italia e in Europa9, Paolo Pombeni ha delineato una precisa e concettualmente agguerrita proposta metodologica di ricerca sulle trasformazioni che interessano l’organizzazione della politica e la regolamentazione dell’obbligazione politica nella società contemporanea. Nella ricongiunzione alla storia costituzionale di Brunner e Hintze e attraverso una riattualizzazione della lezione webe- riana, la prospettiva di riconsiderare la storia come una delle scienze della politica rivela molteplici potenzialità esplicative e interpretative. La premessa è però duplice: da una parte, che la scienza della politica attivi fecondi contatti col sapere storico (“l’uso della categoria del tempo e dello spazio come momenti determinanti nell’indagine del disporsi di relazioni”) e contempli una forte attenzione per la dimensione giuridico-formale, il terreno costituzionale e le tradizioni di pensiero politico; dall’altra, che la storia metta fine alla marginalizzazione di “ogni interesse per lo studio dei sistemi di relazioni che non [siano] sistemi di relazioni personali”10 e si riprometta di “studiare non più semplice- mente delle vicende della sfera politica, ma le relazioni, e se possibile i sistemi di relazione
1 Paolo Macry, La società contemporanea. Una introduzione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 321-322. Il volume, rivolto ad un prevalente scopo didattico, si articola sulla base di una precedente edizione (Bologna, Il Mulino, 1980), con la significativa aggiunta di un nuovo capitolo anche su “Lo stato e la politica”. Un “segno dei tempi”, si potrebbe osservare.8 Editoriale, “Ricerche di Storia Politica”, 1986, n. 1, p. 5.9 Si considerino i volumi collettanei: P. Pombeni (a cura di), La trasformazione politica nell’Europa liberale 1870- 1890, Bologna,, Il Mulino, 1986; Nicola Matteucci e P. Pombeni (a cura di), L ’organizzazione della politica. Cultura, istituzioni, partiti nell’Europa liberale, Bologna, Il Mulino, 1988; P. Pombeni (a cura di), Potere costituente e riforme costituzionali, Bologna, Il Mulino, 1992.10 P. Pombeni, La storia come scienza della politica. A proposito della forma partito, in II partito politico, cit., pp. 70-71.
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che hanno presieduto alla costruzione della sfera politica in un determinato contesto”11. Ecco allora che il mosaico della dimensione politica da ricostruire storicamente appare ben schizzato nei suoi soggetti centrali:La cultura politica europea, cioè quel patrimonio di riflessioni in cui si fondono apporti del pensiero storico, del pensiero giuridico e del pensiero politico (nel senso classico del termine); l’organizzazione dello spazio politico nell’Europa tra il 1830 e il 1950, cioè quello che noi possiamo e vogliamo chiamare le “costituzioni materiali” dei vari stati; l’organizzazione delle relazioni e delle obbligazioni politiche all’interno delle diverse società prese in considerazione12.
Nella proposta metodologica avanzata da Pombeni assume un rilievo caratterizzante il ritorno alla lezione weberiana dell’idealtipo-, “uno strumento abbastanza sconosciuto” — avverte lo stesso Pombeni13 — e che spesso è facilmente confuso con il modello o con la categoria classificatoria. In sostanza, si tratta di costruire uno strumento scientifico che, nell’analisi della dimensione politica, pur prescindendo dai dati reali e presentandosi allo stato “puro”, mantenga un indispensabile carattere di “verificabilità”14. Come “una storia inevitabilmente idealtipica” si presenta infatti la ricognizione effettuata da Pombeni sul rapporto tra potere politico e
autorità sociale nell’Italia postunitaria. Muovendo dalla mancanza di un sufficiente panorama di studi, nonché da un codice disciplinare ancora poco aduso a cimentarsi oltre il piano descrittivo e privo di una formalizzazione lessicale, l’autore persegue la “costruzione di uno strumentario di categorie e di concetti”: per l’appunto di idealtipi, grazie ai quali “non solo capirci, ma interpretare il nostro oggetto di studio, piegare la lettura del passato a una attribuzione di significato”15. Si tratta di un impianto che compendia problemi di metodo, acquisizioni della più recente storia costituzionale e premesse di ulteriori ricerche. L’approccio adottato come “schema di riferimento” per dar conto degli sviluppi della storia politicocostituzionale, verte sui sistemi di relazioni politiche osservabili grazie alla costruzione idealtipica della “costituzione materiale” .
I problemi analitici e interpretativi relativi agli anni di fondazione dello stato-nazione italiano sono oggetto di numerosi contributi di storia costituzionale. Le analogie e la comparazione col “caso tedesco”16, a partire da un processo di modernizzazione che accomuna i due paesi sia per la mancata nazionalizzazione dell’arena politica17 che per una asimmetrica trasformazione della società e della politica, permettono di rilevare la rigi-
11 P. Pombeni, La storia come scienza della politica, cit., p. 83.12 P. Pombeni, La storia come scienza della politica, cit., p. 78.13 P. Pombeni, Premessa a Autorità sociale e potere politico nell’Italia contemporanea, Venezia, Marsilio, 1993, p. 15.14 P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti, cit., pp. 12-13.15 P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, cit., pp. 14-15. In sostanza, nella riproposizione idealtipica della “costituzione materiale”, si attualizzano e si reinterpretano le congiunte eredità scientifiche di Costantino Mortati e Otto Brunner.16 Su questi orizzonti comparativi è da anni impegnato l’Istituto storico italo-germanico in Trento. Con diretto riferimento ad un tema quale quello della storia dei concetti che è strettamente legato allo sviluppo della storia costituzionale e istituzionale, da ultimo si veda Raffaella Gherardi e Gustavo Gozzi (a cura di), I concetti fondamentali delle scienze sociali e dello stato in Italia e in Germania tra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1992.17 Sulla percezione delle forze antisistema — socialiste e cattoliche in particolare — da parte della classe dirigente liberale, tra la trasformazione delle relazioni sociali in una dimensione sempre più politicizzata e la invece complessa individuazione di un’arena nazionale per l’azione dei soggetti politici, cfr. Fulvio Cammarano, Nazionalizzazione della politica e politicizzazione della nazione. I dilemmi della classe dirigente nell’Italia liberale, relazione presentata al convegno sul tema “Dalla città alla nazione. Borghesie ottocentesche in Italia e in Germania” (Trento, 22 maggio 1992), in corso di stampa.
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dità del sistema istituzionale italiano e la frammentazione della società civile. Sul primo versante, si lamentano forti resistenze alla legittimazione del potere politico, dovute anche alla mancanza di un unificante mito di fondazione dello stato-nazione che supporti un condiviso e formalizzato potere costituente. A ciò si aggiungono i limiti e il debole impatto manifestati dalla pur tentata legittimazione del sistema politico come “religione civile” e “religione della patria” promossa dalla classe dirigente liberale18. Sull’altro versante, invece, nella società civile si intersecano e si sovrappongono diversi sistemi di autorità sociale, non facilmente circoscrivibili nel nuovo panorama costituzionale. Ne deriva una “costituzione materiale” in cui limitato risulta lo spazio per le riforme istituzionali, fatta eccezione per quelle elettorali, non a caso oggetto di una larga attenzione storiografica19. È questo un terreno che però evidenzia ancor più le peculiarità del caso italiano rispetto alle principali real
tà europee, con l’accostamento di una concezione astratta e quasi automatica del diritto individuale di voto a norme di gestione del corpo elettorale che collidono con le antiche logiche comunitarie, a cui rinviano ancora le istanze di aggregazione indotte dal nuovo sistema della rappresentanza. In questo sistema di relazioni assume rilevanza assoluta il ruolo del notabile. Come si dirà anche in seguito, si tratta di una figura essenziale nella vita politica e sociale dell’Italia liberale, una sorta di mediatore, nonché di garante e di agente di legittimazione, nei rapporti tra cittadino e istituzioni incapaci di instaurare un ordinario canale di comunicazione, tra interessi in cerca di una rappresentanza e possibile “discrezionalità” decisionale dell’amministrazione pubblica. Ne conseguono diffuse pratiche manipolatorie e clientelati nell’espressione del consenso e la sterilizzazione degli esiti di quest’ultimo. Inoltre, la regolamentazione dei sistemi di autorità al di fuori della “costituzione for-
18 A differenza di altre storiografie, basti pensare alle francese e tedesca, quello dei simboli e dei riti patriottici è un tema su cui manchiamo di sufficienti ricerche. Ancor più rimarchevole è perciò lo studio di Bruno Tobia, Una patria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell’Italia unita (1870-1900), Roma-Bari, Laterza, 1991. Ma ora si vedano anche Umberto Levra, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, 1992 e Massimo Baioni, I musei del Risorgimento. Santuari laici dell’Italia liberale, “Passato e Presente”, 1993, n. 29, anticipazione de La religione della patria, Padova, Pagus, 1993.19 Si veda dapprima Raffaele Romanelli, Le regole del gioco. Note sull’impianto del sistema elettorale in Italia (1848-1895), “Quaderni storici”, 1988, n. 69. Sull’impatto della riforma dei primi anni ottanta, dello stesso Romanelli, cfr. Alla ricerca di un corpo elettorale. La riforma del 1882 e il problema dell’allargamento del suffragio, ora anche in Id., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 151-206; per un “caso di studio”, mi permetto di rinviare a Maurizio Ridolfi, Associazionismo, sociabilità elettorale e organizzazione della politica. Le elezioni del 1882 in Romagna, in Id., Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1990. Mentre manca uno studio approfondito sulla riforma elettorale del 1912, per quella postbellica si veda almeno Serge Noiret, Riforme elettorali e crisi dello stato liberale 1918-1919, “Italia contemporanea”, 1989, n. 174. La questione elettorale e il dibattito su di essa sono oggetto dello studio di Maria Serena Piretti, La giustizia dei numeri. Il proporzionalismo in Italia 1870-1923, Bologna, Il Mulino, 1990. Sempre insufficienti sono invece gli studi sulle elezioni amministrative, su cui ora cfr. Pier Luigi Ballini, Riforma dell'elettorato e lotta amministrativa nella crisi di fine secolo, in Verso l ’Italia dei partiti. Gli anni della formazione del Psi, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Milano, Angeli, 1993. Sul bicameralismo e sul ruolo del Senato si vedano Nicola Antonetti, Gli invalidi della costituzione. Il Senato del Regno 1848-1924, Roma-Bari, Laterza, 1992 e Maria Elvira Lanciotti, La riforma impossibile. Idee, discussioni e progetti sulla modifica del Senato regio e vitalizio (1848-1922), Bologna, Il Mulino, 1993. Quello del diritto di voto e quindi del mancato accesso alla cittadinanza, è stato uno dei pochi temi di politica affrontati in Italia dalla storiografia sulle donne; cfr. Mariapia Bigaran, Progetti e dibattiti sul suffragio femminile: da Peruzzi a Giolitti, “Rivista di storia contemporanea”, 1985, n. 1 e l’introduzione al fascicolo di Mariuccia Salvati, La storia delle donne può essere anche storia istituzionale?
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male” e della sfera politica, senza formalizzazione giuridica, assegna un ruolo crescente all’amministrazione, ad un pur controllato decentramento dei poteri e alla negoziazione degli spazi propri dei corpi sociali e politici.
È comunque il problema della legittimazione del potere politico a campeggiare nell’Italia liberale, apertamente contestato già nei primi anni da autorità sociali distinte ma egualmente ostili come la Chiesa e la leadership democratica20. In mancanza di entità statali e costituzionali preesistenti — a differenza della stessa Germania —, la “costituzione materiale” dello stato è elaborata ex post dai giuristi. L’importazione delle dottrine liberali e dei più avanzati modelli costituzionali europei21 si scontra però con una società civile ancora refrattaria alla modernizzazione sociale ed economica borghese e attraversata da radicate identità localistiche e comunitarie.
È insomma la configurazione del “comando impossibile” descritto da Raffaele Romanelli a sostanziare il processo di fondazione della “costituzione materiale” nell’Italia liberale22.
Tra i problemi istituzionali più dirompenti vi è quello della creazione di uno stato di diritto in un paese privo di tale tradizione e con una larga frammentazione burocratica. La trama della pars administrativa del politico e dei connessi rapporti con le scienze dell’amministrazione è disegnata nello studio di Raffaella Gherardi23. È il frutto di un meditato lavoro di storia costituzionale sull’assetto politico-amministrativo dell’Italia nel secondo Ottocento e sui modelli teorici messi a punto dalla classe dirigente con l’emergere della ‘questione sociale’. Lo studio si avvale di una frequentazione approfondita delle fonti coeve e degli scritti di Marco Minghetti (tra gli anni settanta e ottanta) per scandagliare la ‘via italiana’ approntata dal moderatismo nella costruzione della “costituzione materiale”: 1’ “arte della mediazione”.
Nell’itinerario che conduce l’Italia dall’età della costituzione all’età dell’amministrazione — scrive Gherardi — e che dai segni della “crisi” dello Stato di diritto già vede delinearsi all’orizzonte lo Stato amministrativo, tanto più rilevanti diverranno l’incontro tra scienza e politica e la conseguente nuova legittimazione di cui, proprio sulla
20 Cfr. P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, cit., pp. 41-42, dove comunque si rileva il carattere ambivalente della leadership democratica, formalmente all’ “opposizione” in quanto fautrice di un alternativo modello costituzionale, ma in fondo accomunata alla classe dirigente liberale da una cultura politica spesso affine. La competizione coi moderati sembrerebbe allora spostarsi sul piano sociale più che su quello politico-istituzionale. Il discorso pare ancora più complesso dove il mondo democratico gode effettivamente di un largo radicamento sociale; cfr. Roberto Balzani, Aurelio Saffi e la crisi della sinistra romantica (1882-1887), Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1988 e M. Ridolfi, Il partito della Repubblica. La Consociazione repubblicana romagnola e le origini del Pri nell’Italia liberale (1872-1895), Milano, Angeli, 1989.21 Gli studi sulla crisi di legittimazione del potere politico liberale hanno fatto emergere un diffuso richiamo al modello istituzionale inglese, esempio di un equilibrio tra i poteri costituzionali. Oltre ai citati studi di P. Pombeni, cfr. F. Cammarano, Il modello politico britannico nella cultura del moderatismo italiano di fine secolo, in La scienza moderata. Fedele Lampertico e l ’Italia liberale, a cura di Renato Camurri, Milano, Angeli, 1992.22 R. Romanelli, Il comando impossibile, cit., pp. 7-30, sulla “natura del progetto liberale di governo”. Un approccio diverso, con una accentuazione dello “statocentrismo” italiano, muove lo studio di Umberto Allegretti, Profilo di storia costituzionale. Individualismo e assolutismo nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1989; si veda la discussione a più voci del volume in “Società e storia”, 1991, n. 53.23 R. Gherardi, L ’arte del compromesso. La politica della mediazione dell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1993. Sulla “filosofia civile” del liberalismo (in relazione al pensiero di Staurt Mill) e anche per meglio comprendere come in Italia la scienza della politica si sviluppi più come scienza dell’amministrazione che come scienza della società, cfr. Nadia Urbinati, Le civili libertà. Positivismo e liberalismo dell’Italia unita, Venezia, Marsilio, 1990.
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base di accorti compromessi che si tingono di un alone scientifico, le forze moderate andranno alla ricerca.
E ancora:A fondamento primo del “sistema” che queste ultime vanno costruendo, esse faranno costante- mente appello, nei decenni di fine secolo, alla loro vocazione anti-ideologica, identificando quale prototipo dell’astrattismo dell’ideologia sia il loro nemico di sempre, il socialismo, sia “vecchie idolatrie” della costituzione tipica della dottrina liberale nella sua fase primigenia24.
Gherardi confuta l’interpretazione relativa alle presunte “carenze” del liberalismo italiano rispetto ai pur evocati modelli del costituzionalismo europeo; anzi, ricostruisce la presenza di una consapevole strategia di “disincantamento politico” e di “sperimentalismo”, con una perseguita osmosi tra politica e scienza volta a neutralizzare i conflitti politico-ideologici, a perorare le buone ragioni dell’assimilazione ed a legittimare la via media nel passaggio dall’ ‘età della politica’ all’ ‘età dell’amministrazione’.Facendosi forte delle armi della scienza, la sfida anti-progettuale del liberalismo italiano, patrocinata dalle forze moderate, risulterà alla fine tessere da vicino la trama di una Realpolitik per la quale i concetti di trasformazione e di trasformi
smo sembreranno addirittura sinonimi, colorandosi ben altrimenti che della mera incapacità di porre in atto un modello25.
Nonostante ciò, l’elitismo liberale postunitario non riesce ad adeguare sistema rappresentativo e sistema sociale. Nell’affrontare di petto il problema della legittimazione del potere, Crispi intraprenderà la via giacobina del primato della politica sulla società civile e del governo come strumento di un nuovo equilibrio istituzionale che esprima i principi della razionalità borghese26. Non si viene però a capo del “governo” delle trasformazioni sociali in corso, con la sfida alla legittimità del potere politico posta dalle nuove forme di aggregazione e di difesa sociale; anche perché, causa il debole rapporto tra società civile e classe politica liberale, la moderna organizzazione partitica viene ritenuta la ‘forma’ degli ‘esclusi’27: i socialisti per ragioni di classe e i cattolici per la resistenza opposta alla disgregazione dei tradizionali equilibri comunitari provocata dai processi di laicizzazione e di secolarizzazione. In entrambi i casi si rivendicano forti fattori di identità antagonistica e autonomi sistemi di relazione sociali e politiche, alternativi allo stato nei contesti di insediamento territoriale di queste forze28. Ciò contrasterà con l’ela-
24 R. Gherardi, L ’arte del compromesso, cit., p. 8.25 R. Gherardi, L ’arte del compromesso, cit., pp. 9, 24-25 e, in particolare, 34-35.26 P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, cit., p. 44. Si guardi comunque Le riforme crispine, “Archivio Isap”, n. 6, 4 voli., Milano, Giuffrè, 1990 e quindi Problemi istituzionali e riforme nell’età crispina, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, 1992.27 Sul problema del partito nella classe dirigente liberale, si veda Hartmut Ullrich, Ragione di stato e ragione di partito. Il “grande partito liberale” dall’Unità alla prima guerra mondiale, in II partito politico nella Belle Epoque, cit., pp. 107-191. A proposito della pur breve vita della Federazione “Cavour”, un organismo a metà tra movimento d’opinione ed embrione partitico, cfr. F. Cammarano, Il progresso moderato. Un’opposizione liberale nella svolta dell’Italia crispina (1887-1892), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 61-137.28 Su questi temi, in quanto preliminari ad ogni analisi delle moderne forme associative e dei processi di politicizzazione, ho avuto occasione di avanzare alcune osservazioni nel mio II circolo virtuoso, cit., pp. 32-37. Ora però, in questo stesso fascicolo, cfr. soprattutto la riflessione comparativa di Marco Fincardi, Sociabilità e secolarizzazione negli studi francesi e italiani. Nonostante la consuetudine sociologica a trattare delle identità politiche nelle subculture territoriali, in campo storiografico sono del tutto insufficienti gli studi, sia sui “bianchi” che sui “rossi”. Per la ricerca recente più significativa, rinvio ancora a M. Fincardi, Primo Maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana, Reggio Emilia, Edizioni della Camera del lavoro di Reggio Emilia e Guastalla, 1990.
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borazione e la condivisione di una civic culture, vale a dire di un comune nucleo di valori e comportamenti collettivi. L’accettazione della politica sarà allora confinata alle istituzioni statali-governative e alle strutture burocratiche dell ’ amministrazione.
È comunque con l’Italia giolittiana che si afferma compiutamente 1’ ‘età dell’amministrazione’. La pubblica amministrazione diviene la dimensione centrale nella trasformazione dello stato di diritto, imposto dalla percezione del processo di massificazione della società; essa si impone come perno del sistema di mediazione degli interessi della società civile, altrimenti frammentati e tali da risultare privi di adeguata rappresentanza. L’integrazione politica avviene però attraverso il depotenziamento delle nuove forze sociali su un piano sindacale, settoriale e corporativo, con una reiterata scissione tra potere e autorità sociale ed un sistema politico capace sì di assorbire i conflitti, ma non di attivare un largo processo di legittimazione29. È una condizione che l’impatto della guerra e la crisi successiva renderà esplosiva, con il dissolvimento dello ‘stato amministrativo’ e la paralisi politico-costituzionale della classe dirigente liberale. Basti pensare a come avviene l’introduzione della rappresentanza proporzionale: essa si rivelerà inetta di fronte al problema del superamento delle rigidità di un sistema politico retto sul
modello notabilare della rappresentanza e quindi di un suo adattamento ai cleavages socio-culturali, alla diffusa mobilitazione politica e alla discesa nell’arena nazionale dei nuovi partiti di massa30.
Storia politica e storia sociale
Se dovessimo limitarci a confrontare il codice scientifico e il tradizionale campo d’azione tanto della storia politica quanto della storia sociale, apparirebbe poco incoraggiante qualsiasi ricerca di punti di incontro. Infatti, se la storia politica ha perseguito a lungo un terreno di analisi che espungeva gli uomini, dibattendosi tra eccessi di cronachismo e la veste di protagonisti accordata sia alle ideologie che agli organismi partiti- co-sindacali, la storia sociale aveva rivendicato un autonomo spazio proprio in opposizione alla histoire événementielle. In effetti, anche in Italia, almeno fino alla metà degli anni ottanta, sulla scorta di un dibattito storiografico che all’inizio del decennio precedente aveva registrato un’accesa e salutare contestazione dei metodi e dei contenuti della tradizionale storia politica31, la dimensione politica dei problemi analitici e interpretativi aveva trovato una scarsa eco nella traduzione nazionale della storia sociale. Non erano però mancati interventi tesi a
29 Sul rapporto tra questione sociale, politica e amministrazione, vanno richiamati almeno gli studi di Guido Melis, Burocrazia e socialismo nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1980 e G. Gozzi, Modelli politici e questione sociale in Italia e in Germania fra Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1986. Sulla correlazione tra istituzionalizzazione della società civile borghese in ascesa, burocrazia statale e processi di modernizzazione, cfr. R. Romanelli, Un ceto di impiegati tra privato e pubblico: i segretari comunali in Italia (1860-1915), Bologna, Il Mulino, 1989. Cfr. infine Maurizio Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello stato, in Aldo Schiavone (a cura di), Storia e cultura giuridica dall’unità alla repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1990, per il prefascismo.30 Oltre agli studi citati di M.S. Piretti e S. Noiret, cfr. R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L ’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, vol. II, Bologna, Il Mulino, 1991, capp. I e II. Sulla percezione del partito di massa nell’Italia prefascista, cfr. Francesco Traniello, La figura del partito politico nella cultura politica del primo Novecento, in Id., Città dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d ’Italia, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 99-138.31 II dibattito sulle tendenze della storiografia contemporaneistica italiana era stato aperto da Alberto Caracciolo e Pasquale Villani, Proposte per un riesame critico, “Quaderni storici”, 1972, n. 20. Per alcuni aspetti del seguito che esso ebbe negli anni seguenti, si vedano i citati articoli di N. Gallerano, E. Galli Della Loggia e F. Barbagallo.
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reimpostare le questioni metodologiche e storiografiche al di là degli iniziali steccati. Già nella seconda metà degli anni settanta, Raffaele Romanelli e Tommaso Detti si erano orientati verso la ricerca di un possibile terreno di incontro tra storia politica e storia sociale. Raccogliendo alcune valutazioni espresse da Giuseppe Galasso sul dinamico rapporto tra società e stato riscontrato nella Storia politica e sociale condotta da Ernesto Ragionieri (e Carlo Pinzani) all’interno del- l’einaudiana Storia d ’Italia, Romanelli aveva rilanciato alcune esigenze di innovazione metodologica. Facendo propria l’individuazione del nucleo del lavoro ragionieriano nella storia istituzionale, volta a porre l’analisi dei “rapporti di potere” come la via attraverso la quale ricostruire la “storia della società”, Romanelli traeva l’indicazione per un’attività di ricerca capacedi avere più compiuta nozione delle realtà sociali che sono alla base di quelle politiche, di sostanziare la descrizione delle seconde con la conoscenza delle prime, e semmai di far storia del “politico” e non della “politica”, come lungamente si è fatto32.
Mentre però Detti, in relazione agli studi sul movimento operaio, rilevava nella metodologia ragionieriana la possibilità di fare di una nuova storia istituzionale il terreno per
una “ricomposizione unitaria di storia sociale e storia politica”33, Romanelli suggeriva una revisione più profonda. Nel prospettare un più stretto intreccio tra storia e scienze sociali — antropologia e psicologia sociale in particolare —, si lamentava come la “sfera del politico” continuasse ad essere limitata ai conflitti di classe e ai momenti organizzativi, secondo lo schema di indagine proprio dello storicismo marxista e ritenuto inadeguato allo studio dell’età contemporanea. Bisognava insomma prender atto che la storia politica non solo non è rappresentativa della totalità del vissuto nella quotidianità dei singoli e nelle relazioni interpersonali, ma anche cheil sistema delle classi non si definisce più soltanto nella società civile, bensì anche nel “politico”, mentre la “politica” non è più soltanto l’espressione di una autocoscienza, o lo specchio del rapporto tra le classi, ma è anche il campo dell’organizzazione ideologica di massa, nel quale l’egemonia mal si distingue da nuove forme di dominio.34
Alla storia sociale, invece, Romanelli chiedeva di assumere come proprio compito conoscitivo lo studio dei mutamenti e dei soggetti che ne sono protagonisti; un oggetto analitico “costituito dai tempi e dalle forme in cui la disgregazione degli equilibri sociali
32 R. Romanelli, Storia politica e storia sociale: questioni aperte, in P. Macry e Antonio Palermo (a cura di), Società e cultura dell’Italia unita, Napoli, Guida, 1978, p. 90.33 Tommaso Detti, Storia politica e storia sociale nella storiografia sul movimento operaio, in L ’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di Nicola Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 309. In ogni caso, sulle funzioni della politica e sulla centralità del rapporto tra momento associativo e momento istituzionale nella nascente “microstoria”, già aveva richiamato l ’attenzione Edoardo Grendi, Una prospettiva per la storia del movimento operaio, “Quaderni storici”, 1972, n. 20. Per un aggiornamento del dibattito metodologico alla fine degli anni ottanta, cfr. invece Giovanni Gozzini, Lavoro e classe. Le tendenze della storiografia, “Passato e presente”, 1990, n. 24, dove il recupero e la ridefinizione della politica alimentati dalla network analysis di taglio sociologico e antropologico vengono valorizzati, pur nella sottolineatura dei rischi dell’ “individualismo metodologico” e di una unilaterale lettura “razionale” e funzionalista dei comportamenti umani. Il richiamo di G. Gozzini (pp. 108-109) è soprattutto allo studio di Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987; si veda comunque anche Gabriella Gribaudi, La metafora della rete. Individuo e contesto sociale, “Meridiana”, 1992, n. 15. Per una puntuale discussione di un concetto largamente e disinvoltamente utilizzato negli studi di storia sociale sulla politica, cfr. gli interventi su Comunità, fascicolo di “Parole Chiave”, 1993, n. 1 (la nuova serie di “Problemi del socialismo”).34 R. Romanelli, Storia politica e storia sociale, cit., p. 93.
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‘tradizionali’ libera soggetti ‘moderni’ — come gli individui e le classi — disponendoli a rapporti di nuovo tipo e contenuto”35. Si scontano qui le peculiarità del caso nazionale; vale a dire di una realtà quale quella italiana in cui, rispetto ai modelli europei classici, col continuo riproporsi di una sovrapposizione tra ‘atavismo’ e ‘modernità’, si riscontra una “modernizzazione indotta da strumenti politico-istituzionali fortemente connotati ideologicamente”36 e condizionata da pervasivi modelli organicistici e politicizzati di acculturazione.
È anche nello svolgimento di questi itinerari di ricerca che la storia sociale ha contribuito a ricollocare le relazioni politiche in una posizione centrale negli studi contempo- raneistici, accentuandone la natura interdisciplinare e comparativa. Anzi, non sembra azzardato rilevare come la trasformazione
degli idiomi e dei moduli della comunicazione politica tra i gruppi umani e il mutamento delle strutture sociali siano ormai diventati il vero terreno di incontro tra gli interessi della storia politica e quelli della storia sociale37. Sotto questo profilo, sembra possibile il superamento della spesso denunciata incomunicabilità tra le analisi dedicate a strutture sociali, mobilità dei ceti, relazioni politiche e misurazione quantitativa dei fenomeni. In particolare, rincontro pare rivelarsi fecondo negli studi recentemente dedicati alla formazione della rappresentanza e alla vita dei collegi elettorali38; un tema che permette di evidenziare come si avvicina e si pratica la politica, attraverso una stretta correlazione tra lo ‘spazio del potere’ privilegiato dalla storia politico-costituzionale — le istituzioni e lo stato centrale39 — e quello a cui meglio corrisponde la metodologia di
35 R. Romanelli, Storia politica e storia sociale, cit., p. 106. Tra gli individui e i gruppi “liberati” dagli equilibri sociali tradizionali che la storiografia avrebbe privilegiato, figurano le donne. Anche in Italia la “contaminazione” tra storia politica e storia sociale negli anni ottanta ha prodotto infatti un superamento della tradizionale identificazione della storia delle donne con la storia dei movimenti emancipazionisti e politici femminili. La traduzione nazionale della gender history non ha però ancora comportato lo sviluppo degli studi sulla ‘qualità’ della partecipazione politica tra le donne e sulla micropolitica dei sistemi di relazione nella configurazione dei poteri quotidiani; e ciò attraverso una visione duttile dei confini tra sfera privata e sfera pubblica. Sulla storia delle donne, una storia fatta di continua “rimozione”, muovendo da un’attenzione per il rapporto tra politica e donne dimostrata in diversi lavori, cfr. Annarita Buttafuoco, Vuoti di memoria. Sulla storiografia politica in Italia, in Sulla storia politica, “Memoria”, 1991, n. 31. Si aggiunga almeno La sfera pubblica femminile. Percorsi di storia delle donne tra liberalismo e fascismo, a cura di Dianella Gagliani e M. Salvati, Bologna, Clueb, 1992.36 R. Romanelli, Storia politica e sociale, cit., pp. 109-110.37 A distanza di molti anni, Romanelli è ritornato a riflettere in modo organico su “storia politica e storia sociale”. Lo ha fatto in un seminario tenuto T ll maggio 1993 presso la Luiss. In attesa di un testo a stampa, esprimo il mio debito verso alcune sue considerazioni. Per quanto mi riguarda, il rinvio è a quanto ho già proposto nell’intervento su Organizzazione e “ricerca del partito" nei movimenti democratici italiani della seconda metà dell’Ottocento: note sui nuovi orientamenti degli studi tra storia politica e storia sociale, “Ricerche di Storia Politica”, 1986, n. 1.38 Si vedano dapprima i contributi compresi in Antonio Annino e R. Romanelli (a cura di), Notabili, elettori, elezioni, “Quaderni storici”, 1988, n. 69. Emblematica è la carriera politica di un notabile liberal-progressista piemontese, intrecciata con la biografia di un quotidiano di provincia e con quella del collegio elettorale (tra 1892 e 1913) ricostruita da Emma Mana, La professione del deputato. Tancredi Galimberti fra Cuneo e Roma (1856-1939), Treviso, Pagus, 1992, in particolare pp. 235-307. Ai collegi “rossi” e alla classe politica socialista nell’Italia prefascista sono dedicati appositi capitoli nel mio studio su II Psi e la nascita del partito di massa 1892-1922, Roma-Bari, La- terza, 1992. Rimarchevole e da additare come esempio è ora il lavoro di ricerca e di sistemazione di informazioni che sorregge i due volumi: M.S. Piretti e Giovanni Guidi (a cura di), L ’Emilia Romagna in Parlamento (1861- 1919), Bologna, Centro Ricerche di Storia Politica, 1992.39 II tema del potere locale, come osserva lo stesso autore, non è oggetto di trattazione neppure in P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, cit., p. 88, nota 3. Al contrario, anche sotto la spinta della crisi di identità nazionale di questa fine secolo, la configurazione di poteri e localismi si sta rivelando come una dimensione centrale nelle ricerche. Basti pensare alla proposizione di un tema ancora poco consueto negli studi come la Questione settentriona-
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ricerca approntata dalla storia sociale — il territorio, il municipio, i gruppi, la comunità40.
Per gran parte dei decenni dell’Italia liberale e nonostante l’allargamento del diritto di voto promosso dalla riforma del 1882, è il sistema territoriale di relazioni politiche proprio del modello di mediazione notabilare a regolare i meccanismi della rappresentanza, senza sostanziali variazioni rispetto ai supposti e del resto mutevoli quanto vaghi ‘colori’ politici dei contendenti41. È un sistema clientelare di organizzazione del consenso e delle relazioni politiche che — almeno nel caso veneto evidenziato da Emilio Franzina —, stante la necessità di adattare una realtà sociale frammentata che va modernizzandosi alle ‘regole del gioco’, la classe dirigente liberale non ha remore a legittimare e a po
stulare. Se infatti si supera una visione moralistica del clientelismo e non lo si assimila tout court alla corruzione, si coglie come esso sia “espressione tipica del basso grado di autonomia del sistema politico dalla società civile” e sia quindi uno “strumento di una certa perdurante ‘privatizzazione’ della politica da parte dei notabili”42. In forza della sua autorità sociale nel novero delle gerarchie locali, il notabile assurto alla soglia della rappresentanza, oltre a proiettare le tradizionali funzioni elitaristico-patronali dell’originario retroterra rurale nel nuovo rapporto di “scambio” politico attivato con l’elettore43, prefigura e controlla lo scambio di legittimazione tra l’elettore e le istituzioni del potere.
La professionalizzazione della rappresentanza e la classificazione ideologica-partitica
le, “Meridiana”, 1993, n. 16; in particolare, mentre Silvio Lanaro, Le élites settentrionali e la storia italiana, pp. 19-40, rilegge il “paradosso unitario” italiano e richiama la geografia dei poteri alla luce dell’osservatorio milanese e lombardo, la sovrapposizione tra uno “stato senza società” e diffuse “appartenenze senza stato” è delineata da Mario Isnenghi, Dalle Alpi al Lilibeo. Il “noi” difficile degli Italiani, pp. 41 -59.40 Si veda dapprima Franco Andreucci, Alessandra Pescarolo (a cura di), Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati: le coordinate territoriali della storia contemporanea, Firenze, La Casa Usher, 1989, soprattutto i contributi raccolti sotto la sezione “Lo spazio del cambiamento politico e sociale” . Cfr. quindi R. Romanelli, Il problema del potere locale dopo il 1865, in Id., Il comando impossibile, cit., pp. 32-75. Tra i casi di studio sull’Italia liberale, dove la network analysis permette di ricostruire in modo innovativo la morfologia della società e del potere locale, cfr. almeno Alberto Mario Banfi, Terra e denaro. Una borghesia padana dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989 e G. Gribaudi, A Eboli. Il mondo meridionale in cent’anni di trasformazioni, Venezia, Marsilio, 1990, in particolare le pp. 94-188, sulle tappe prefasciste della modernizzazione in un ‘laboratorio’ del Sud. Sull’iniziazione alla politica e sulla dislocazione dello spazio del potere in un’altra piccola comunità meridionale, cfr. Giuseppe Civile, Il comune rustico. Storia sociale di un paese del Mezzogiorno nell’800, Bologna, Il Mulino, 1990. Tra i diversi saggi che su questi temi si ritrovano nelle storie regionali promosse dall’editore Einaudi, vorrei richiamare Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913), in Storia d ’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. La Sicilia, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987.41 Nella promozione di pratiche clientelari e di patronage, non sembrano esserci grandi differenze, per esempio, tra i moderati veneti e un radicale dell’estrema sinistra (prima di passare con Crispi) come il forlivese Alessandro For- tis. Nel primo caso, cfr. Emilio Franzina, Le strutture elementari della clientela, in La scienza moderata, cit., pp. 377-430, dove si sottolinea come il patronage sia non una patologia ma un elemento fisiologico del sistema e del mutamento politico nel ‘modello veneto’. Nel secondo caso, il rinvio è alla fitta documentazione dell’archivio privato di A. Fortis, depositato presso l’Archivio di Stato di Forlì.42 E. Franzina, Le strutture, cit., pp. 383-384. Per le peculiarità del clientelismo nella società arretrata del meridione, si vedano i recenti studi di Luigi Musella, Clientelismo e relazioni politiche nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento, “Meridiana”, 1988, n. 2 e Relazioni, clientele, gruppi e partiti nel controllo e nell’organizzazione della partecipazione politica (1860-1914), in Storia d ’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. La Campania, a cura di P. Macry e Pasquale Villani, Torino, Einaudi, 1990.43 Sul patronage esercitato dagli imprenditori agro-industriali veneti nei villaggi operai per canalizzare l’espressione del voto, cfr. Carlo Fumian, La città del lavoro. Un’utopia agroindustriale nel Veneto contemporaneo, Venezia, Marsilio, 1991.
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che, tra i due secoli, comporta la parlamenta- rizzazione dei conflitti localistico-comunitari e del linguaggio politico, accelera la pur lenta decadenza dei notabili. L’organizzazione socialista si profila come il modello delle relazioni politiche proprie del party system italiano in gestazione, attraverso l’affermazione di candidature e di strutture organizzative con orizzonti tendenzialmente nazionali, seppur mitigati da una forte identità comunitaria e collegiale44. L’estensione progressiva del voto e il passaggio da una garanzia individuale ad una tutela collettiva e istituzionale, quale quella che nel negoziato politico può offrire il partito, “notabile collettivo” e, allo stesso tempo, “notabile informale” secondo le definizioni proposte da Pombeni45, perpetuano però il sistema di rapporti personali tra candidato ed elettori. Grazie anche alla presenza del collegio uninominale e a giudicare dalla vicenda del panachage6 — inserito in una riforma elettorale quale quella del 1919 che pure sanziona il primato del voto politico-ideologico —, ad esso la classe dirigente liberale rimarrà legata fino al dopoguerra.
Se il voto e la partecipazione alle elezioni assegnano comunque una dimensione nazionale alla politica, è necessario rilevare come i recenti studi della storiografia sociale sui “circuiti politici” e sul potere locale abbiano fortemente contribuito a reimpostare anche alcune importanti questioni analitiche. Grazie al gruppo di lavoro legato alla rivista “Meridiana”, a partire da un’ottica rivolta innanzitutto a ridiscutere gli stereotipi della storiografia meridionalistica, è stato delinea
to in modo convincente e metodologicamente raffinato il terreno di lavoro sulla “dimensione locale della politica” . In questa prospettiva, il locale non è uno “spazio minore” da opporre alla dimensione nazionale, ma
esso è piuttosto la riscoperta di una materialità nuova dell’agire umano a fini di potere, per il controllo delle risorse, in un’ambigua linea di confine che dalle aggregazioni elementari della società (famiglie, parentele, gruppi, clientele) si muove trasversalmente attraverso partiti, istituzioni, luoghi centrali o disseminati dell’universo statale. È la politica nel suo farsi, scoperta nei meccanismi prosaici e disincantati del suo quotidiano lavorio, che slarga un vecchio palcoscenico storiografico dominato da pochi attori, ripopolando la scena con una inattesa moltitudine di protagonisti. Qui, finalmente, lo Stato e la Nazione perdono le maiuscole e sono visti all’opera, entro frammenti più o meno grandi di società civile47.
Si presenta così sotto nuova luce il rapporto tra “grande politica nazionale” e “politica che si fa lontano dal centro” , così come diviene possibile ricostruire la geografia del “potere reale” in ambito locale; non senza sottoscrivere appieno le ‘avvertenze’ suggerite da Romanelli al fine di sottrarsi alle possibili ricadute tanto in studi di “patriottismo municipale” , che riproducano alla periferia gli idealtipi nazionali, quanto in studi comunitari di natura antropologica, che risultino troppo suggestionati dall’idea di una società civile senza stato ed estranea al quadro so- vralocale48. Vecchi e nuovi gruppi notabilari svolgono invece una funzione di mediazione
44 È quanto emerge nel mio ricordato studio su II Psi e la nascita del partito di massa, cit.45 P. Pombeni, Autorità sociale e potere politico, cit., pp. 69 e 72.46 In regioni del Sud dove è particolarmente diffusa la pratica elettorale su base clientelare, sembra che il voto di panachage si riversi massicciamente anche sui candidati socialisti, al di fuori dei canali associativi e partitici; cfr. Vittorio Cappelli, Politica e politici, in Storia d ’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e Augusto Placanica, Torino, Einaudi, 1985.47 Circuiti politici, “Meridiana”, 1988, n. 2, p. 9. Si veda comunque Salvatore Lupo, Tra centro e periferia. Sui modi dell’aggregazione politica nel Mezzogiorno contemporaneo, pp. 13-50. Su élite e ceti popolari in relazione a contenuti ideologici e forme della politica, cfr. anche la sintesi di P. Bevilacqua, Breve storia dell’italia meridionale dall’Ottocento a oggi, Roma, Donzelli, 1993, pp. 74-89.48 R. Romanelli, La nazionalizzazione della periferia. Casi e prospettive di studio, “Meridiana”, 1988, n. 4, pp. 13-14.
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politica tra cittadino ed istituzioni (locali e centrali), troppo spesso ricondotta a sole dinamiche tipiche delle società arretrate care alla politologia ed invece espressiva anche della diffusione, a partire dagli anni ottanta, “di forme più complesse di organizzazione politica e amministrativa” e dello “svolgersi di una crescente e particolare partecipazione popolare agli affari politici locali”49. Anche nel meridione emerge allora una ricchezza inaspettata ed a lungo negata di “circuiti” della politica, con stimolanti prospettive di ricerca su forme e contenuti di linguaggio e conflitto politico che negli spazi comunitari connaturano il processo di “nazionalizzazione della periferia” .
Gli studi sui “circuiti” della politica in ambito comunitario e locale hanno dimostrato che quest’ultima viene definendosi con un forte carattere di diffusività, innestandosi, alla svolta del secolo, il “discorso politico” ideologizzato su preesistenti conflitti di natura fazionale, generazionale o addirittura spaziale (ad esempio, il “partito di sopra” opposto al “partito di sotto”). In ogni caso, come si è rimarcato altrove50, sono prevalentemente le vecchie e nuove forme della sociabilità e dell’associazionismo volontario — in un continuo intreccio tra ereditarietà e innovazioni — a divenire non solo uno dei principali luoghi in cui viene sanzionato il mutamento delle gerarchie e delle
stratificazioni sociali; esse sono anche i canali privilegiati per la circolazione della politica e quindi le unità fondanti e connettive della sua moderna strutturazione. È questo uno dei terreni analitici più fecondi della storiografia europea nello studio dei processi di “civilizzazione” ed anche in Italia sta divenendo uno dei lieviti di una nuova storia politica. Non è necessario insistere sul carattere “plastico”, versatile e polifunzionale (istituzionale, sociale, culturale, politico) di una categoria analitica quale quella della sociabilità. Può invece essere utile, ‘traducendone’ il significato ai fini di un utilizzo da parte della storiografia italiana, riflettere su come essa possa contribuire a focalizzare i nuovi contenuti della politica diffusa all’indomani del 1848, le forme della sua scoperta e della sua trasmissione. Insistendo sul rapporto essenziale tra habitat comunitario, identità, tradizioni ed eventi periodizzanti — 1848-1849, 1859-1860, 1882, 1888, la ‘grande guerra’ —, Simonetta Soldani ha opportunamente rilevato come il senso di appartenenza politica riguardi “tutte le sfere della mentalità e della cultura del luogo, e non solo il colore politico, anch’esso — tendenzialmente e, fino a tempi relativamente recenti — più collettivo che individuale”51. Del resto, questo modello interpretativo elaborato da Maurice Agulhon a proposito della costruzione del “politico” dall’alveo del
49 R. Romanelli, La nazionalizzazione della periferia, cit., p. 10. La storiografia sul potere locale ha recentemente prodotto risultati significativi a proposito del ruolo dei centri urbanizzati e delle istituzioni municipali come luoghi privilegiati della politicizzazione delle relazioni sociali; per il Meridione si vedano i diversi contributi sulle Città, “Meridiana”, 1989, n. 5. Per le aree settentrionali, oltre ai contributi raccolti in Salvatore Adorno e Carlotta Sorba (a cura di), Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di studio, Milano, Angeli, 1991, si segnala la ricerca monografica di Aurelio Alaimo, L ’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana a Bologna dopo l ’Unità (1859-1889), Bologna, Il Mulino, 1990. Si veda però anche Giulio Sapelli, Comunità e mercato. Socialisti, cattolici e “governo economico municipale” agli inizi del X X secolo, Bologna, Il Mulino, 1986.50 Cfr. M. Ridolfi, Associazionismo e forme di sociabilità nella società italiana: problemi storiografici e primi risultati di ricerca, in II circolo virtuoso, cit., dove si dà anche conto degli studi realizzati nel corso degli anni ottanta.51 Sociabilità e associazionismo in Italia: anatomia di una categoria debole, discussione a più voci in “Passato e Presente”, 1991, n. 26, p. 24.
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sociale e dei fenomeni di autoorganizzazione che lo attraversano52, ha una portata euristica di ampio respiro. Marco Meriggi ne ha riscontrato gli idiomi nel mondo delle élite urbane, quando ancora non si era neanche affacciata la dimensione di massa della società contemporanea. Anzi, egli richiamal’attenzione sul fatto che durante l’Ottocento la politica in Italia rappresenta una dimensione fluida e molto prossima alle istanze elementari di aggregazione sociale non solo per il variegato mondo popolare ma anche per gli stessi gruppi dirigenti: [...] V apprentissage politico, insomma, investe in pieno il mondo delle élites, prima ancora che i gruppi popolari53.
Se però anche per l’Italia sembra valida la legge di filiazione ed ereditarietà tra le associazioni — il vettore sociale e il rivelatore principale delle moderne forme di sociabilità politica —, Maria Malatesta ha rilevato come sia invece meno generalizzabile una dinamica verticale di politicizzazione54, con la “discesa della politica” dalle élite agli strati popolari grazie ai ceti intermedi della borghesia e alla permeabilità dei campi sociali. Se ciò sembra esser riscontrabile nel variegato mondo democratico urbano di aree come
la Toscana e la Romagna, si deve invece rilevare la natura “oppositiva” della sociabilità politica dei ceti operai nelle aree padane a forte concentrazione industriale e in quelle del bracciantato. Muovendo da una comparazione tra la Provenza e la Toscana e nel porre l’attenzione sul legame tra forme di sociabilità, conflittualità e processi più larghi di politicizzazione, Gilles Pécout ha indicato a ragionela necessità scientifica di ricostruire le modalità del passaggio da una sociabilità integrativa a una oppositiva [...] e di scoprirne le condizioni a livello locale, studiando l’emergere dei partiti di massa e il loro ruolo nel cambiamento del discorso politico rivolto alle masse cittadine e contadine55.
In definitiva, sembrano esserci buone premesse per prospettare anche in Italia una possibile stagione di studi storici sui principali terreni di analisi della politica: l’accesso e l’iniziazione, la rappresentanza e l’organizzazione, la mutevole ricezione e la “rappresentazione” . Il rinnovamento metodologico in atto della storia politica ed i primi risultati da esso prodotti fanno ben sperare.
Maurizio Ridolfi
52 Sul modello agulhoniano ritorna M. Malatesta nella prefazione all’edizione italiana di Maurice Agulhon, Il salotto, il circolo e il caffè. I luoghi della sociabilità nella Francia borghese (1810-1848), Roma, Donzelli, 1993 (ed. orig. 1977), pp. VII-XVI.53 Sociabilità e associazionismo, cit., pp. 30-31. Sullo “spirito di associazione” e la sua istituzionalizzazione, con la trasformazione degli idiomi di comunicazione sociale e politica, cfr. i contributi su Elite e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, “Quaderni storici”, 1991, n. 77. Uno di essi ha già assunto un carattere monografico: Marco Meriggi, Milano borghese. Circoli ed élites nell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1992.54 Cfr. M. Malatesta, Il concetto di sociabilità nella storia politica italiana dell’Ottocento, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1992, n. 1, pp. 66-69.55 Sociabilità e associazionismo, cit., pp. 28-29.