Riflessioni su storiografia e romanzo in prospettiva novecentescaMassimo Legnani
La discussione che si è sviluppata sul revival della storia narrativa può scuotere la reciproca indifferenza tra storiografia e romanzo, instauratasi in seguito a processi interpretati come divergenti, iniziati con l’eclissi del romanzo di ascendenza ottocentesca e l’affermarsi della storiografia come analisi delle strutture del passato? Per rispondere alla domanda l’autore analizza il dibattito, maturato tra gli storici dagli anni cinquanta, su storiografia e romanzo (e in particolare sul rapporto tra storia narrativa e romanzo, sulle implicazioni teoriche del ricorso al romanzo come fonte per la storia o sul romanzo come unica storia possibile), in seguito al- l’esaurirsi di esperienze come quelle delle “Anna- les” e della storiografia marxista, da cui emerge, a suo avviso, la palese riluttanza a misurarsi con la costruzione romanzesca nella sua interezza. Egli passa perciò sinteticamente in rassegna alcune delle principali riflessioni dei teorici del romanzo a partire dagli anni venti e trenta per concludere che le evoluzioni del genere sono leggibili solo all’in- temo di un percorso di storia della cultura in cui vengano connesse alla caduta di fede nella scientificità e nell’efficacia politica della letteratura. Una sfiducia che è anche alla base del più recente accentuarsi, nella storiografia, dell’impianto narrativo, visto come adesione alla supposta singolarità e dunque irripetibilità di ogni accadimento storico. La categoria della dicotomia tra tempo esterno e tempo interno, pur essendo un buon punto di partenza, è dunque troppo rozza per guidare alla comprensione della rottura nei rapporti tra le due aree e perciò a un suo possibile superamento. Gli storici dovrebbero perciò reimpostare il problema e, avvalendosi dei contributi provenienti da altri studiosi (teorici della letteratura, filosofi, linguisti), porsi il quesito “di che cosa fabbrichi lo storico quando diventa scrittore”, (p.r.)
Can the recent debate on the revival o f narrative history possibly shake the mutual indifference o f historiography and the novel, an heritage o f both the decline o f the Nineteenth century novel and the parallel rise o f historiography as an analysis o f the structures o f the past? The A. tackles this question by examining the discussion arisen among historians during the Fifties, focusing in particular the relationship between narrative history and the novel, as well as the theoretical implications o f the resort to the novel as a kind o f historical source or even as the sole possible history — all issues someway connected with the exhaustion o f such experiences as the “Anuales" and the marxist school, which proved manifestly reluctant to cope with the novel pattern in its fu ll extension. A synthetic survey o f several major theories developed since the Twenties about the novel leads to the conclusion that the evolution o f this literary genre can be understood only along a path o f cultural history marked by the loss o f faith in scientific thought and in the political efficacy o f literature. A similar lack o f confidence underlies the more recent emphasis placed upon the narrative pattern, seen by the A. as a recognition o f the supposed singularity and therefore uniqueness o f each historical event. The category o f the dichotomy between internal and external time, although a good starting point, appears to rough to help understand the existing split between the two areas and thus lead to its possible overcoming. Historians should therefore reset the question and, profiting from the contributions by other scholars (literature theoreticians, philosophers, and linguists), deal with the problem o f “what the historian does produce on becoming a writer".
‘Italia contemporanea”, dicembre 1998, n. 213
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Il discorso può avviarsi ponendo in epigrafe un ricordo di Louis Chevalier, lo studioso che ha indagato su “classes labourieuses et classes dan- gereuses” nella Parigi della rivoluzione industriale filtrando le fonti demografiche attraverso i romanzi di Balzac1.
Quando cominciai ad occuparmi di storia — ha scritto Chevalier rievocando il clima accademico francese tra le due guerre — le relazioni tra la storia e la letteratura, o meglio più concretamente tra gli storici e quelli che venivano chiamati letterati, gli specialisti cioè di storia letteraria, erano di cortese indifferenza: con una punta di condiscendenza un po’ sdegnosa da parte dei letterati nei confronti degli storici, generalmente considerati dai primi una categoria inferiore; e con un pizzico di insofferenza, di gelosia e di ostilità da parte degli storici verso i letterati.
Con gli adattamenti d ’obbligo, la constatazione è estendibile ad altri paesi e ad altre culture; e dilatabile fino al presente2. Non senza rilevare peraltro una modificazione significativa. Il consolidamento e gli sviluppi che la professione storiografica ha conosciuto intorno alla metà del Novecento sembrano aver riequilibrato a vantaggio degli storici quell’“indifferenza” cui allude Chevalier. Ma se ciò è vero a livello della istituzionalizzazione delle carriere, lo è assai meno per le relazioni scientifiche tra i due territori disciplinari, relazioni tuttora caratterizzate da una reciproca, tenace impermeabilità. La forbice si è anzi allargata per effetto di processi generalmente interpretati come divergenti: l ’ambizione degli storici a candidarsi ad analisti delle strutture del passato (con conseguente disaffezione per la storia-racconto) da un lato; l ’eclissi della forma romanzo di ascendenza ottocentesca, l ’irruzione delle nuove teorie letterarie, nonché i dubbi crescenti sulla fattibilità stessa della storia letteraria dall’altro. La manualistica ad alto livello (se è lecito assumerla come spec
chio medio del contesto culturale) riflette questo stato di sostanziale separazione. A fianco, e a dispetto, dei reiterati omaggi alla interdisci- plinarietà, non è infrequente l’allinearsi di una produzione storica e letteraria i cui vicendevoli imprestiti hanno carattere del tutto estrinseco. Gli studiosi di letteratura rinunciano mal volentieri a qualche più o meno convenzionale rinvio allo sfondo storico, gli storici ricorrono spesso alla letteratura per impreziosire una costruzione le cui coordinate prescindono interamente da questi apporti. Il recente infittirsi degli interventi sul revival (se sia reale o presunto non è materia di queste pagine) della storia narrativa può contribuire a scuotere una condizione di vicendevole passività? Prima di azzardare una risposta che metta a frutto alcuni spunti del più recente dibattito, occorre almeno sfiorare due fattori che condizionano più da lontano la trattazione dell’argomento.
Il primo dato scaturisce dal mercato editoriale (e delle comunicazioni di massa). L’espansione dell’industria della storia trova nella storia-racconto un canale di intuibile efficacia. Ma la constatazione, in sé troppo ovvia, trae alimento e significato dal diffondersi di modelli di narrativa letteraria che rovesciano la concezione tradizionale, ottocentesca del romanzo storico. Si guardi alla lussureggiante fioritura di biografie, che sottolinea esemplarmente le fortune commerciali incrociate di storia e letteratura in una produzione che, pur facendo larghissimo spazio al consumo, non è sempre rubricabile sotto le insegne della Trivialliteratur. Una produzione che da un lato, sul versante della storia, mette al servizio della rievocazione/divulgazione un genere, come quello biografico, le cui capacità di persuasione e suggestione sono largamente ancorate, nel senso comune, al fatto di essere il contenitore privilegiato della dimensione romanzesca; dall’altro, sulle sponde della letteratura, fa ri-
Saggio comparso in I racconti di Clio, Pisa, Nistri-Lischi, 1989.1 Louis Chevalier, La letteratura, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca - 2. Questioni di metodo, voi. II, Firenze, La Nuova Italia, 1983.2 Con eccezioni anche cospicue, ad esempio nella cultura storica polacca (cfr. Bronislaw Geremek e al., Testi letterari e conoscenza storica, a cura di Francesco M. Cataluccio, Milano, Bruno Mondadori, 1986).
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corso alla storia non più come contrappunto (sostegno e spiegazione) degli intenti pedagogici e civili della vicenda narrata, ma assume que- st’ultima come parametro dissacratorio; dimostrazione, è stato osservato, del “non senso della storia” stessa3. Può essere ingannevole trarre troppe illazioni interpretative (se non altro per difetto di indagini specifiche) da questa confluenza, ma sembra fuori dubbio che essa si riconnetta — anche con un ruolo di attiva ‘pro- pangadista’? — al diffondersi delle ideologie neoindividualistiche nelle culture occidentali degli anni ottanta4. In ogni caso l ’ampliarsi dei confini del mercato ridefinisce di fatto l’impostazione del rapporto autori-pubblico e una maggiore attenzione alla sociologia dei lettori potrebbe dirci, soprattutto nel caso delle biografie, sin dove i vari segmenti di consumatori sono tra di loro separati o ricomponibili in un percorso continuo (e, quindi, sin dove l’abito letterario sia un rivestimento necessario ad accrescere la commercializzazione del testo o, per converso, sin dove la storia sia un deposito di “trame” cui la scrittura narrativa si incarica di conferire significato).
Il secondo fattore è interno al lavoro storiografico, e pone in evidenza come gli approfondimenti degli ultimi anni in materia di storia narrativa, lungi dal segnare una soluzione di continuità rispetto alle elaborazioni precedenti, rappresentino semmai il punto terminale di un dibattito protrattosi per oltre un trentennio alle più diverse latitudini, dagli storici ai filosofi del linguaggio.
Il punto terminale e, forse, l ’esaurimento, se è vero che la fase che stiamo attraversando appare caratterizzata non tanto da nuove formulazioni, quanto da un più diretto contatto, mancato in passato, tra gli storici e gli studiosi di altre discipline5, oltre che da una più convinta assunzione del problema in sede storiografica. Ciò può spiegare in parte perché l ’iniziale, netta contrapposizione prò o contro la storia narrativa, prò o contro la storia delle strutture, abbia ceduto progressivamente il passo ad atteggiamenti più sfumati, maggiormente legati alle esperienze di lavoro dei singoli studiosi piuttosto che ad orientamenti nettamente identificabili con scuole o correnti. Tale nuova situazione va tuttavia letta soprattutto come indebolimento del fronte dei sostenitori della storia-problema: la prolungata disputa sul recupero dell’evento6 e la diaspora che su questo come su altri temi si è manifestata nella cerchia delle “Annales”7 (la più ostile, nel corso della ‘dittatura’ braudelia- na, a interrogarsi sulla funzione degli elementi narrativi del prodotto storiografico) costituiscono i segni più evidenti del fatto che la ‘ripresa’ della storia narrativa sia più frutto delle difficoltà dei suoi interlocutori/oppositori che non la consapevole proposizione di soluzioni diverse e alternative rispetto al più recente passato. La teoria narrativista, forte soprattutto nell’area nordamericana, e sostanzialmente sviluppatasi al di fuori del campo storiografico, sembra oggi incontrare un’udienza — come accenneremo in seguito — direttamente collegata alle incertezze della storia.
3 Recensione di Benedetta Craveri a Gilles Lapouge, La battaglia di Wagram, “Tuttolibri”, 16 maggio 1987.4 Accenni in questo senso in Jürgen Kocka, Theory Orientation and thè New Quest for Narrative. Some Trends and Débats in West Germany, “Storia della storiografia”, 1986, n. 10.5 Una testimonianza particolarmente significativa di questo maggiore contatto è rappresentata dal volume: Pietro Rossi (a cura di), La teoria della storiografia oggi, Milano, Il Saggiatore, 1983, che mette a confronto, fra gli altri, Arthur C. Danto, Hay- den White, Jerzy Topolski, François Furet, Gustav Faber, Wolfgang J. Mommsen e Reinhart Koselleck. Ad alcuni di questi contributi faremo cenno più avanti. Carattere tutto interno al campo storiografico ha avuto invece il colloquio organizzato dalla Commissione per la storia della storiografia nell’ambito del XVI Congresso mondiale di scienze storiche (Stoccarda, 1985) e i cui atti sono parzialmente contenuti nel fascicolo di “Storia della storiografia” citato alla nota 4.6 Cfr. Mauro Moretti, Parlando di "eventi". Un aspetto del dibattito storiografico attorno alle “Annales" dal secondo dopoguerra ad oggi, “Società e storia”, 1985, n. 28.7 Si vedano le considerazioni di Furet sul rapporto tra narrazione e storia della mentalità in P. Rossi (a cura di). La teorìa della storiografia oggi, cit.
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Rispetto all’ampia cornice ora richiamata, i confini del nostro discorso sono ristretti e particolari; essi tendono a recuperare quegli spunti che, nell’ambito della discussione sulla riscossa della storia-racconto, stabiliscono delle connessioni tra questa ‘riscoperta’ e la narrativa letteraria. Un utile, e comodo, punto di partenza, è fornito dal noto saggio di Lawrence Stone8. In apertura (dopo aver ricordato che nel precedente mezzo secolo la “funzione narrativa” della storia “aveva goduto di pessima fama tra coloro che si ritenevano all’avanguardia della professione”), lo storico dell’aristocrazia inglese ha potuto affermare: “ora però intravedo segni di una corrente sotterranea che sta risucchiando vari eminenti ‘nuovi storici’ in qualche forma di narrazione”. La cautela, peraltro non priva di ironia, dell’osservazione assumerebbe oggi, a quasi un decennio di distanza, contorni quasi paradossali: la “corrente sotterranea” si è infatti trasformata in un’onda di piena, e scorre a cielo aperto, come si conviene ai fenomeni che vogliono apparire, oltre che imponenti, rispettabili. Del resto Stone sembra in grado di arruolare preziosi alleati proprio al piano nobile della “nuova storia”. Nel 1980 infatti, e sia pure nella forma asistem atica di un libro-intervista, Georges Duby dichiarava di ritenere che “un libro di storia, che la storia, in ultima analisi, sia un genere letterario, un genere che ha a che fare con la letteratura d ’evasione”9. Il giudizio non sembra prestarsi a troppi equivoci (Gianni Vattimo infatti ha recensito la traduzione italiana sotto il titolo II passato è romanzo10) tanto che Jacques Le Goff, che accusa di “ambiguità” l ’analisi di Stone, si affanna a ridimensionare l ’af
fermazione di Duby, ma è indotto a concludere, per la verità senza sprecarsi: “è dunque chiaro che l ’opera storica non è un’opera d ’arte come le altre, che il discorso ha una sua specificità”11. Siamo davvero lontani da quanto asseriva dieci anni prima Paul Veyne scrivendo che la storia è “null’altro che un racconto?”12. Ma, soprattutto, quali relazioni intercorrono tra ritorno alla narrazione e rivalutazione della natura anche letteraria del prodotto storiografico? Per Stone alla base del primo fenomeno stanno i disinganni della storia quantitativa e però la rivincita narrativa non è inquadrata come una restaurazione, bensì ancorata al fiorire di nuovi interessi di studio identificabili nella storia della mentalità. È in questo settore che lo storico inglese coglie gli aspetti a suo dire più nuovi; qui l ’attenzione, per riprendere la terminologia di Stone, toma a concentrarsi sull ’uomo e ricaccia sullo sfondo le circostanze. I protagonisti della svolta non sono dunque i cultori tradizionali della storia politica (incapaci di esprimersi se non ponendo in bel- l ’ordine i “fatti” e quindi subalterni ad una concezione puramente cronologica dell’impianto narrativo-esplicativo) bensì quelli dei ‘nuovi storici’ che, nel loro sforzo di “capire cosa passasse nella mente della gente del passato e cosa volesse dire vivere nel passato”, ci “riportano inevitabilmente all’uso della narrazione”. “Inevitabilmente”: il passaggio logico è un po’ sbrigativo e non appare del tutto chiaro sin dove l ’espunzione della storia politica dai nuovi moduli narrativi scaturisca da un rifiuto dei contenuti che stanno al centro di quella produzione o piuttosto dal ritenere che 1’impianto narrativo ad essa corrispondente si presenti come pura con-
8 Lawrence Stone, The Revival of Narrative: Reflections on a New Old History, “Past and Present”, 1979, n. 85 [traduzione italiana in “Comunità”, 1981, con un’ampia e utile premessa di Renzo Zorzi]. Una “replica” è costituita da Eric J. Hobsbawn, The Revival of Narrative: Some Comments, “Past and Present”, 1980, n. 86.9 Georges Duby, Il sogno della storia, Milano, Garzanti, 1986 [ed. orig. 1980], p. 42.10 “La Stampa”, 28 agosto 1986.11 Jacques Le Goff, Storia, in Enciclopedia, voi. XIII, Torino, Enaudi, 1981. Le Goff consente sul fatto che il prodotto storiografico incorpori il racconto ma attribuisce a questa presenza una valenza puramente pedagogica, per dar conto del come prima di affrontare il perché.12 Paul Veyne, Come si scrive la storia, Bari, Laterza, 1973. Su Veyne e sul più recente dibattito molto utile Antonella Tarpino, Raccontare storie: la narrazione sul tempo nella storiografia, “Quaderni piacentini”, ns., 1984, n. 14.
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venzione e non come strumento espressivo. In ogni caso, il confine tracciato è davvero netto? Nella introduzione alla sua Storia della politica estera italiana Chabod aveva scritto:
so bene che molta parte della storiografia moderna disdegna l’uomo, come tale, e, confondendo i pettegolezzi mondani con la ricostruzione morale e spirituale di una personalità, aborre dal cosiddetto psicologismo, per correr dietro alle dottrine pure, alle pure strutture e a quel portato di certa storiografia recentissima, alle tavole statistiche, le percentuali, le medie, i grafici [...] [in cui] [...] si vorrebbe racchiuso il segreto della storia.
Sono parole del 1951 e le distanze, non solo temporali, si colgono a colpo d ’occhio; non mi pare tuttavia che sia una forzatura rileggere la pagina di Chabod in termini analoghi alla premessa di Stone, di allarme per una ricostruzione/interpre- tazione del passato in cui le circostanze prevaricano suIVuomo al punto di rendere quest’ultimo inintelleggibile.
Per la verità, a sostegno di una netta divaricazione tra vecchia storia politica e nuova storia della mentalità, Stone compie un’incursione proprio nel campo delle tecniche narrative romanzesche. Chiamando in causa una delle opere che colloca tra le più clamorose sconfessioni della storia quantitativa (benché il suo autore avesse proclamato alla fine degli anni sessanta che “la storia non quantificabile non può pretendere di essere scientifica” 13), il Mountaillou di Le Roy Ladurie, osserva che essa “non racconta una storia lineare — anzi non c ’è una storia — ma vaga nella testa della gente”. E aggiunge: “non è un caso che proprio questo sia uno dei modi che differenziano il romanzo moderno da quello di epoche precedenti”. E ancora: influenzati dalla psicoanalisi e dall’antropologia
gli storici della mentalità raccontano la loro storia in modo diverso da Omero, da Dickens e da Balzac [...]. 11 *
Indagano con cautela sul subconscio [...] e cercano di rivelare, attraverso il comportamento, un significato simbolico.
Un ponte viene così gettato tra narrativa storiografica e narrativa romanzesca; ed è un ponte che, pur saldando sponde solo vagamente delineate (Omero, Dickens e Balzac visti come segmenti continui di un interminabile passato), sembra autorizzare l ’ipotesi di un nuovo connubio tra storia e romanzo, che finalmente si ritrovano nei labirinti dell’inconscio dopo una lunga coabitazione ottocentesca all’insegna del realismo e del positivismo. La precisazione è rilevante poiché mette in discussione quell’asse Stone-Duby che sembrava prima delinearsi. Nel secondo, infatti, anziché di un interscambio tra storia e romanzo, si vagheggia di un ruolo alternativo. L’intervistatore di Duby, il filosofo Guy Lardreu, pone infatti il ruolo vicario della storia in apertura di libro:
oggi la letteratura, almeno in Francia, non racconta più nulla. [...] Per trovare una letteratura di qualità che racconti qualcosa bisogna leggere la Storia: è rimasta soltanto la Storia a parlarci di storie.E in tal modo che molti, oggi, leggono Duby: come uno scrittore, uno scrittore grandissimo, che produce un ‘effetto vita’ sul loro sgretolamento, sul loro sparpagliamento14.
La storia che racconta e che, raccontando, adempie all’ufficio della letteratura oltre che al proprio. Siamo agli antipodi dell’accenno di Stone a Mountaillou come al prototipo, riprendiamo la citazione, di libro che “non racconta una storia lineare — anzi non c ’è una storia— ma vaga nella testa della gente”.
A fronte delle suggestioni del romanzo postfreudiano evocate da Stone, in Duby-Lardreu si erge l’eredità imponente della narrativa ottocentesca, la nostalgia — schiacciante — del grande romanzo, della sua inesorabile capacità di rac
11 Emmanuel Le Roy Ladurie, Le frontiere dello storico, Roma-Bari, Laterza, 1976.14 G.Duby, Il sogno della storia, cit., p. 9.
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contare storie. Ricacciato dapprima nel passato, Balzac toma ad essere un modello esemplare, che la letteratura (ma non la storia), ha tradito. Ed è evidente che questa diversità non tocca solo la definizione del substrato che, nelle diverse aree culturali, concorre alla formazione dello storico; essa investe direttamente la concezione stessa del lavoro storiografico, la sua codificazione disciplinare. Mentre Stone pone una connessione tra storia e letteratura per individuare in quale misura il romanzo contemporaneo possa influenzare il corso nuovo della storia narrativa, Duby, data per acquisita l’annessione della storia ai generi letterari, è spinto piuttosto a chiedersi quali siano i requisiti che fanno della storia una “narrativa di tipo particolare”. La risposta sta nella constatazione che lo storico è “obbligato a tener conto di un certo numero di cose che gli si impongono”; è dunque “trattenuto da una preoccupazione di veridicità... piuttosto, forse, che di realtà” e deve perciò insinuare la propria parte di immaginazione e di creazione aH’intemo di vincoli che la condizionano e la filtrano. Il richiamo di Lardreu al Duby “scrittore” non contraddice dunque l’autoritratto che Duby delinea nell’intervista. Con la differenza che, se nel primo caso rim pianto narrativo viene valorizzato dalle rinunce della letteratura, nel secondo si trasforma in una finalità primaria pur ricevendo la propria legittimazione dalla veridicità dei contenuti.
A rendere più evidente la posizione di Duby può concorrere utilmente un intervento di Brau- del risalente al 198315. Secondo Braudel i recenti successi della storia narrativa non derivano dal “fallimento della storia scientifica”, bensì dal “fallimento della letteratura”. La latitanza del romanzo spinge i lettori a cercare un sostitutivo nel racconto storico. Non a caso Braudel enfatizza le fortune delle “vite romanzate” e, contestualmente, protesta la propria invincibile riluttanza al genere biografico:
ho vissuto cinquant’anni accanto a Filippo II, comincio a comprenderlo, ma non oserei scrivere una biografia, temendo di aggiungere al ritratto molti segni dovuti ai miei sentimenti e al mio modo di vedere le cose.
La replica, implicita, a Stone e Duby è chiaramente leggibile. Nei confronti del primo si sottolineano le ragioni extrastoriografiche del rilancio della storia/racconto; verso il secondo le riserve hanno carattere più radicale, perché riguardano le basi stesse del discorso storico. E infatti Braudel torna a sottolineare che le ricerche sulle mentalità non costituiscono “un settore a parte della storia”, ma “si inseriscono in un ambiente che le costringe”. Si noti la frequenza con cui ritorna, con significati alternativi, il concetto di costrizione: ora è quasi sinonimo di oppressione, ora di architrave che regge l ’intero processo della conoscenza storica e della sua resa attraverso la scrittura. Simmetricamente — e, se vogliamo, un poco banalmente — la contiguità della storia al romanzo è vista nel primo caso come integrazione e prolungamento della ricostruzione storiografica, nel secondo come tramite di degenerazione. N ell’intervista citata Braudel va però oltre la sottolineatura della narrazione come discriminante tra le scuole storiografiche. L’accenno al “fallimento della letteratura” pone esplicitamente il problema dei destinatari del libro di storia, di un pubblico il cui favore per la storia/racconto viene senz’altro assimilato alla fruizione della narrazione storica come letteratura d ’evasione. Si può con sicurezza postulare una strategia di mercato che influenza (quando non determina) la forma narrativa. Aggiunge Braudel in termini ancor più specifici : “i maîtres à penser delle ‘Annales’ non lo hanno in genere dimenticato, e ciò contribuisce a spiegare la loro ‘schizofrenia’ tra statistiche e realizzazione narrativa”16. Con tali giudizi, tuttavia, si resta pur sempre nell’ambito di un discorso sulle soluzioni tecniche atte ad accresce
15 Femand Braudel, Dietro le quinte della storia, “Rinascita”, 29 aprile 1983.16 Luciano Canfora, Aspetti e problemi della narrazione storica, in II mondo contemporaneo. Gli strumenti della ricerca - 2. Questioni di metodo, voi. I, Firenze, La Nuova Italia, 1983.
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re la circolazione del prodotto, laddove la questione copre probabilmente un ambito più vasto, investendo la sostanza stessa dei testi e, sulla scia di questa, la propensione del pubblico a rifugiarsi in una visione del passato che si risolva, appunto, in “racconto”. Appare allora perfettamente attuale, prescindendo da riferimenti specifici all’area delle “Annales”, l ’osservazione sviluppata da Barraclough alla metà degli anni settanta, secondo la quale
la storiografia che abbellisce un racconto e ricava una morale è tuttora immensamente popolare, soprattutto se la morale è di quelle che, in qualsiasi società, la maggioranza della gente ama sentire. E per gli storici la tentazione di piegarsi a soddisfare queste inclinazioni è grande17.
Gli spunti sinora passati in rassegna comportano un confronto, implicito ed esplicito, sui dati costitutivi del genere storiografico. Altra e diversa è l’ottica che scaturisce dal ricorso alla narrativa romanzesca come fonte per la storia. Le esperienze di Chevalier (cui si è già alluso all’inizio di queste pagine) possono fornire un utile punto di riferimento per riflettere sul rapporto tra i risultati empirici di questa pratica e il tentativo di trame delle implicazioni teoriche.
Anche Chevalier, come Duby-Lardreu, muove in varia misura dal rimpianto del romanzo ottocentesco (a conferma del fatto che esso si manifesta in m odo singolarm ente acuto, quasi ostentato, nell’area francese). Chevalier considera di fatto esaurita, all’inizio del Novecento, la stagione della grande narrativa e cumula in un identico rifiuto tanto le sperimentazioni narrative dell’ultimo mezzo secolo, quanto le operazioni di decodificazione del testo condotte sulla base delle nuove teorie letterarie. A differenza di Stone, ii romanzo contemporaneo appare a Chevalier (e sia pure per esemplificazioni limitate al panorama francese e con la parziale eccezione dei cantori del paesaggio parigino: da Aragon a Céline) sterile, disarticolato, muto al
le sollecitazioni dello storico. L’approccio di Chevalier è tuttavia — lo si è detto — radicalmente diverso. Il romanzo non è infatti cercato come serbatoio di prototipi d ’indagine psicologica (Stone) oppure come uno spazio ormai incustodito (a causa del tramonto del modello ottocentesco), che la storia finisce per occupare sospinta, oltre che da affinità genetiche, dalla sua inesauribile volontà di “raccontare”. Il romanzo è assunto come un cammino di conoscenza e di rappresentazione che corre parallelo alla indagine storiografica. Quando Chevalier risale alle sue scelte dei primi anni cinquanta (“il vaglio demografico del valore storico delle opere letterarie: fu questo il compito cui credetti di potermi dedicare”) va ben oltre la legittimazione di un’opzione specialistica, tende al recupero integrale dell’opera letteraria, come la decisiva scoperta di Balzac attesta. Ciò consente a Chevalier di fissare una tipologia delle forme narrative e di privilegiare, aH’intemo di questa, il romanziere che lavora “inconsapevolmente” per la storia. L’avverbio è decisivo. La “testimonianza involontaria dei romantici— annota Chevalier — è sovente più incontestabile della testimonianza voluta di Zola troppo spesso costruita”. “Troppa realtà uccide la realtà”, osserva ancora Chevalier riferendosi alla descrizione zoliana del “ventre” di Parigi. Ma subito dopo il discorso sembra involversi sovrapponendo piani diversi: “A meno che quella realtà non sia involontaria o che, volontaria o involontaria, essa non corrisponda a ciò che si sa grazie alla storia”.
Se con la denuncia delle forzature documentaristiche (“troppa realtà uccide la realtà”) si resta nell’ambito del giudizio sull’ottica del romanziere (ritenendola mortificata e resa opaca dall’assillo di aderire “naturalisticamente” alla realtà), il rinvio, come discriminante decisiva, al vaglio della critica storica (a “ciò che si sa grazie alla storia”) sposta l’attenzione dal romanzo come universo autosufficiente al romanzo come arsenale di nozioni ed immagini che la storia può
17 Geoffrey Barraclough, Atlante della storia 1945-1975, Roma-Bari, Laterza, 1977 [ed. orig. 1976], p. 321.
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separare, estrapolandole, dalla costruzione in cui sono inserite. Nel primo caso la fonte romanzesca si offre come organismo; nel secondo si limita a fornire materiali grezzi, destrutturati. Nel primo caso il romanziere parla a voce intera; nel secondo si limita a rispondere alle domande dello storico. E che Chevalier inclini — a dispetto di talune affermazioni prima riportate ed anche della impostazione delle sue indagini specifiche — verso quest’ultimo sbocco è dimostrato dal fatto che il quadro di riferimento che intende offrire resta alla fine impigliato nella “questione del realismo”.
A seconda dei paesi — leggiamo — le letterature sono più o meno vicine alla realtà e, quindi, più o meno facilmente utilizzabili dalla storia e anche trasponibi- li in storia qualunque sia l’evoluzione letteraria di quei paesi, lo sviluppo delle scuole, oppure il genio originale degli scrittori.
Il criterio dell’aderenza alla realtà produce immediate esclusioni: rifiutata (l’occhio è sempre alla Francia) è la letteratura degli anni venti in quanto “altamente spirituale”, mentre poco meno di nulla sembra a Chevalier di poter “trarre per la storia dalla letteratura esistenzialistica del dopoguerra” (“a meno che non si tratti della descrizione di St. Germain des Prés”). Fortunatamente queste schematizzazioni passano sullo sfondo quando Chevalier si addentra sul terreno della ricerca. L’accenno alla “testimonianza involontaria” dei romantici è un sintomo rivelatore di questo doppio registro.
L’universo romanzesco viene allora recuperato nella sua integrità anche perché, in tutta evidenza, Chevalier lo ritiene rivelatore di conoscenze altrimenti inattingibili dalla indagine storiografica. Esemplare il caso di ciò che Chevalier definisce /’esistenza urbana collettiva, fondale d ’obbligo nel nuovo mondo industriale, territorio scarsamente accessibile alla storiografia e che il romanzo ha invece colonizzato se non inventato. Il nume Balzac è qui più che mai in
primo piano con il suo modulo romanzesco che “pretende di essere al servizio della storia” (e, del resto, tracciando il piano della Comédie hu- maine, Balzac non si era forse proposto di “scrivere la storia che tanti storici hanno dimenticato, quella dei costumi?”). E non è forse casuale che un implicito riferimento all’esistenza urbana collettiva faccia da piedistallo ad uno dei non frequenti tentativi, negli ultimi decenni, di legittimare, dall’interno del campo romanzesco, la tesi della “letteratura come storiografia”. E questo il titolo di un saggio di H.M. Enzensberger risalente alla fine degli anni cinquanta18. Analizzando il ritratto della società tedesca sul finire degli anni venti quale emerge dal confronto tra la pagina di un romanziere (Alfred Dòblin) e quella di uno storico (Golo Mann, uno storico, si noti, che considera la pratica storiografica come un’operazione prevalentemente letteraria), Enzensberger osserva che il discorso storiografico appare “singolarmente privo di umanità”, perché la “storia viene esibita senza il suo oggetto: le persone di cui essa è la storia”, e che queste compaiono solo come “figure accessorie, come sfondo scenico”. A ll’opposto, il romanziere “mostra un primo piano che è tutto un brulicare”, nel quale la collettività si dissolve in una molteplicità di soggetti che ti scivolano vicino, vengono captati singolarmente come da una cinepresa e poi restituiti al movimento dell’insieme”. Donde la conclusione che “gli uomini che sono vissuti prima di noi li incontriamo solo nella letteratura” e che questa rappresenta pertanto “il solo coerente sistema di segni, da cui può essere colta la storia come realtà materiale”. Le implicazioni anche di natura ideologica che Enzensberger trae dal proprio assunto (il linguaggio dello storico “nasconde chi parla, chiunque parli”; la sua pretesa di “far parlare le cose stesse, cioè i rapporti fissati in istituzioni”, rende la storiografia schiava di una “prospettiva oggettiva” che è “quella del potere”) vanno ben al di là della ricezione che Chevalier compie del testo letterario, ma non sminuiscono la suggestione
18 Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia, “Menabò”, 1960.
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dell’accostamento tra i due autori. In entrambi i casi il problema del rapporto tra il romanzo come fonte e il romanziere come testimone scaturisce con forza e richiama aree della cultura storica in cui Fapprofondimento di questa tematica ha già prodotto un cospicuo patrimonio di indagini.
Il carattere rapsodico delle osservazioni sin qui svolte preclude considerazioni conclusive. Esso aderisce del resto alla natura del materiale cui si è fatto ricorso, che è discorsiva e asistematica e, come tale, allineata ai caratteri complessivi della ripresa di discussione sulla storia narrativa. Anche per questo, forse, un aspetto almeno emerge con sufficiente nitidezza ed è la palese riluttanza, da parte degli storici, a misurarsi con la costruzione romanzesca assunta nella sua interezza. Sia che si tratti di ispirarsi al romanzo novecentesco per estrarre nuove procedure narrative (Stone), di proclamare l ’annessione della storiografia al campo letterario (Duby-Lardreu) oppure di ritenere che la contiguità tra i due generi vada interpretata come una imposizione del mercato (Braudel) o, infine, di vincolare il rilievo storiografico della letteratura alla sua adesione ai canoni del “realismo” (Chevalier), l ’approccio resta in ogni caso parziale ed in varia misura incidentale. Il giudizio recentemente espresso da Luciano Canfora e secondo il quale “i cancelli tra storiografia e narrativa si fanno, proprio nel XX secolo, sempre più opinabili e impalpabili”19 appare perciò scarsamente condivisibile o, quantomeno, carico di ambiguità e di interrogativi irrisolti. Se qualche opera recente sembra convalidare tale interpretazione, il corso dei decenni precedenti sicuramente la contraddice. Non potendo tracciare ora un diagramma esauriente, mi limito a richiamare gli aspetti salienti.
Lungo tutto l’Ottocento, le relazioni che intercorrono tra la storiografia e il romanzo sono
rappresentabili nei termini di un rapporto tra potenze impegnate a spartirsi le zone di influenza, ora amministrando con taciti accordi le mobili linee di confine, ora sprigionando disegni espansivi che prendono corpo soprattutto nell’area letteraria. Si dispiega allora quella vocazione imperialistica del romanzo che fa di esso lo specchio più emblematico della civiltà ottocentesca.
E ciò avviene in dimensioni e per gradi di intensità che abbracciano un arco ben più ampio di quello recintato dalle insegne della letteratura realistica. Al di là e al di sotto delle scuole e delle partizioni canoniche, il genere romanzesco manifesta una vitalità che appare strettamente ancorata a più generali compiti di acculturazione. Il romanzo, dunque, come laboratorio estetico, ma anche, e prima di tutto, come impulso alla circolazione di idee e modelli di vita attraverso i canali espressivi più diversi e lontani sotto il profilo della qualità letteraria. Valga in proposito il riferimento al “romanzo di formazione”20 come a quello che definirei di “incivilimento”, sia nella già ricordata veste balzachiana di “storia dei costumi”, sia in una versione di pregnante internazionalità politica fissata, fra l’altro, in un esemplare giudizio di Foscolo:
la storia dipinge le nazioni e le loro forme, il romanziere dipinge le famiglie e i loro casi; la storia noto- mizza la storia dei pochi che governano, il romanziere notomizza il cuore della pluralità che serve; la storia insegna la politica alle anime forti e agli ingegni astratti, il romanzo insegna la morale a quella classe di gente che serve il governo e indirettamente comanda la plebe21.
E anche su questa scia che si incanala la funzione, progressivamente sempre più indiscriminata, di comunicazione e sociabilità del romanzo, e che trasforma frequentemente questo genere in un deposito inesauribile di nozioni e di opinioni, in un
19 L. Canfora, Aspetti e problemi della narrazione storica, cit.20 Cfr. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1986.21 Ugo Foscolo, Saggio di novelle di Luigi Sanvitale parmigiano [1803], citato da Folco Portinaia, Un'idea di realismo, Napoli, Guida, 1976, pp. 19-20.
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contenitore potenzialmente enciclopedico. Come ha opportunatamente ricordato Mary McCarthy, esso
non forniva soltanto informazioni sui fatti, riempiva lo spazio di quelle tavole rotonde e di quei seminari che sono seguiti oggi dai telespettatori e dagli ascoltatori della radio e che sono la fonte più usuale delle idee generali22.
È soprattutto nell’ottica di ciò che, in altra occasione23, ho definito la “ insaziabile voracità” di questo genere che dobbiamo guardare alla parabola complessiva del romanzo. Il rapporto con la storia, l ’annessione di nuovi terreni che la storia ignora o che alla storia vengono contesi per le limitazioni di visuale di cui questa è ritenuta vittima, va inquadrato nella pretesa di totalità che il romanzo esprime. Il diverso atteggiarsi — dal collateralismo alla concorrenza — della narrazione romanzesca rispetto alla storiografia prende le mosse da questo fronte largo, talvolta eterogeneo. A ll’interno del quale va certo fermata l ’attenzione sui momenti di maggiore e più specifico impatto (dalla questione del romanzo storico alle teorizzazioni del naturalismo intorno al “romanzo sperimentale”), ma senza trascurare il fatto che la valenza totalizzante del romanzo scavalca le diversità di scuola e di autore. Ancora nel 1888 Henry James annota che
rappresentare e illustrare il passato, le azioni degli uomini, è compito sia dello storico che del romanziere; la sola differenza — prosegue — che io posso vedere consiste nella maggiore difficoltà che egli [il romanziere] incontra per raccogliere le prove, che sono ben lungi dall’essere puramente letterarie”24.
È una rivendicazione di superiorità che possiamo ritrovare, nello stesso anno, sotto tutt’altra
latitudine, anche nelle precisazioni che Tolstoi fornisce sulla genesi e la concezione di Guerra e pace e grazie alle quali la sovrapposizione/con- trapposizione tra l ’occhio dello storico e l ’occhio dell’artista dà vita ad un’opera — dice Tolstoi — che “non è un romanzo, ancor meno un poema, ancor meno una cronaca storica”, bensì “ciò che l’autore volle e potè esprimere in quella forma in cui si espresse il suo intendimento”. Dove è chiaramente percepibile come la presa di distanza dal metodo storico dominante (accusato di cercare la spiegazione degli eventi esclusivamente nella volontà dei grandi uomini) lasci impregiudicata la forma letteraria attraverso la quale il progetto si realizza. La definizione di romanzo costituisce l’approssimazione più accettabile, ma è ben lontana dal risolvere i dubbi e chiudere il discorso.
In ogni caso T esempio tolstoiano conferma come la fisionomia del romanzo tenda a definirsi più per inclusioni che per esclusioni, come luogo di incrocio e di confluenze.
La svolta che si determina nel romanzo verso la fine del secolo — e che inaugura un ciclo nuovo di rapporti con la storia — rappresenta in qualche modo la negazione di quell’ambizione di totalità. L’aderenza mimetica alla realtà cessa di rappresentare il culmine di quelle capacità conoscitive che a lungo erano state celebrate come una delle principali motivazioni della onnipresenza e della pervasività del romanzo. Lo stesso James aveva definito l’esperienza, nel seguito del saggio prima citato,
una immensa sensibilità, una specie di tela di ragno con fili della seta più sottile, sospesa nella stanza della coscienza, che afferra ed immette nella sua tela ogni particella trasportata dall’aria25.
E non credo che vi sia forzatura a leggere queste parole anche come propiziatorie dell’avven
22 Mary McCarthy, Il romanzo e le idee, Palermo, Sellerio, 1985 [ed. orig. 1980], p. 42.23 Massimo Legnani, Appunti sulle relazioni tra storiografia e romanzo, “In/formazione”, novembre 1984, cui rimando per qualche maggior dettaglio sulle questioni qui solo sfiorate [ripubblicato in questo stesso fascicolo di “Italia contemporanea”].24 Henry James, L’arte del romanzo, Milano, Lerici, 1959, p. 38.25 H. James, L'arte del romanzo, cit., pp. 44-45.
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to — auspicato da Bergson appena un anno più tardi — di “qualche ardito romanziere” che, “lacerando la tela abilmente tessuta dal nostro io convenzionale, ci mostri26, al di sotto di questa logica apparente, una fondam entale assu rdità”27.
L’allontanamento del romanzo dall’impianto ottocentesco incardinato sul conflitto tra l’eroe e la realtà che lo circonda (e che tende a deviarne o paralizzarne le ambizioni) si traduce allora in un radicale rovesciamento dello schema originario: l ’eroe cessa di contrastare la realtà perché questa lotta, quale ne sia l’esito, lo trascina fuori di sé, in un tempo e in uno spazio puramente esterni e dunque irrimediabilmente scissi dalla propria coscienza. Ad un percorso accidentato ma continuo subentra una “disarmonia prestabile”, che vive la propria condizione oscillando tra l’orgogliosa consapevolezza dei nuovi territori da esplorare e il rimpianto della “normalità”. Oscillazione che si manifesta nel personaggio di Musil, cui
venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira sognando la semplicità non è se non quella dell’ordine narrativo, dell’ordine normale che consiste nel poter dire: dopo che fu successo questo, accadde que- st’altro”.
L’“ordine narrativo” : rinunciando ad esso, all’ordito dei fatti, il romanzo scava rispetto alla storia una distanza che è qualitativamente ben diversa da quella differenziazione di compiti che si era delineata, per lo più empiricamente, nei decenni precedenti e che ora si traduce in alternativa, in contrapposizione. Ed è significativo che la querelle sui nuovi destini del romanzo (o sull’esaurimento del genere) ricorra con singolare frequenza, per elaborare le proprie coordi
nate, al confronto con la storia, vista come una successione di quadri che in tanto può sussistere in quanto riproduce una catena di causalità puramente esterne. L’area in cui questo processo di dissociazione appare più pronunciato è quella inglese, seguendo una traiettoria che corre da James a Conrad a Forster e che, se da un lato attinge al filone di critica letteraria impegnato a fondo a ridimensionare il “romanzo sociale” a vantaggio del “romanzo drammatico”28, dall’altro giunge a progettare una collocazione integralmente metastorica dell’atto letterario. Secondo la definizione fissata da Forster verso la fine degli anni venti, lo storico “ha a che fare con delle azioni, e col carattere degli uomini ha a che fare soltanto fin là dove può dedurlo dalle loro azioni [...] mentre la funzione del romanziere è di rivelare alle scaturigini la vita nascosta” . Di qui l ’intim azione ai narratori di “esorcizzare il demone della cronologia”, perché nel romanzo “c ’è qualcosa più del tempo, o delle persone, o della logica, o di qualsiasi loro derivato: c ’è qualcosa più del fato [...] un imponderabile che vi passa dentro come una lama di luce [...] a codesta lama di luce daremo due nomi: fantasia e profezia”29.
Per Forster dunque ogni possibilità di scambio tra storia e romanzo è proscritta (“la storia di sviluppa, ma l’arte sta ferma”): si tratta di maturare la consapevolezza del distacco e di aderirvi pienamente. È davvero, questa, una soluzione obbligata oppure la crisi dell’“ordine narrativo” apre solo la strada ad una compresenza di spinte e tensioni destinate a continuamente riprodursi e che storia e romanzo non fanno altro che riflettere secondo angolature particolari?
Sembra muoversi in questa direzione l’itinerario esistenziale àeWuomo senza qualità, rappresentabile come
26 Recte\ mostra.27 La citazione dall’Em» sur les données immédiates de la conscience è ripresa da Marziano Guglielminetti, Il romanzo del novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986, che di essa si serve per avviare l’analisi della narrativa del decadentismo.28 Si vedano in particolare Percy Lubboch, Il mestiere della narrativa, Firenze, Sansoni, 1984 [ed. orig. 1921] e Edward Muir, La struttura del romanzo, Milano, Comunità, 1982 [ed. orig. 1928], in cui sono contenute le definizioni riportate.29 Edward M. Forster, Aspetti del romanzo, Milano, Il Saggiatore, 1968 [ed. orig. 1927], p. 56.
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conflitto tra la prospettiva dall’alto, che unifica e trascende le dissonanze ma anche ne ignora la sofferenza e la prospettiva creaturale dal basso che dà voce al- rirrisolto dolore ma anche lo esaspera, distruggendo la possibilità di dargli senso30.
E del resto nel già citato saggio di Enzensber- ger sulla “letteratura come storiografia” l ’osservazione che “gli uomini vissuti prima di noi li incontriamo solo nella letteratura” è accompagnata dall’affermazione che se la storia rende il passato “comprensibile, ma non rappresentabile”, il romanzo, per converso, lo rende “rappresentabile ma non comprensibile”. Le due prospettive non potrebbero essere più nettamente contrapposte, ma la prevalenza dell’una o dell’altra produce in ogni caso una visuale di- midiata.
Va da sé che questi riferimenti — come altri di intonazione analoga anche se più sfumati31 — diverrebbero pienamente leggibili solo all’interno di un percorso complessivo di storia della cultura in cui la sorte del genere romanzo sia riconnessa anche a quella che è stata definita la caduta della “fede nella scientificità e nell’efficacia politica della letteratura”32, ma ciò che maggiormente merita una sottolineatura agli effetti del nostro discorso è che, contemporaneamente a ll’evoluzione in atto nel campo del romanzo, una tendenza per certi aspetti parallela si diffonde nella storiografia, assegnando a quest’ultima fini “essenzialmente di natura personale e individuale”. Tendenza parallela non significa, beninteso, confluenza; la frattura già richiamata tra “tempo esteriore” e “tempo interiore” conserva tutta la propria capacità di discriminazione. E tuttavia quel parallelismo produce un riflesso quasi paradossale sulla relazione fra campo storiografico e campo letterario. Mentre il romanzo “esce” dalla storia e nega (o pone in discussione) le
procedure narrative della stagione realista per abbracciare il tempo interiore della coscienza, la storiografia accentua il proprio impianto narrativo come atto di adesione alla supposta singolarità e dunque irripetibilità di ogni accadimento storico. In realtà non ne discende una smentita della scissione che lungo il Novecento si produce tra romanzo e storia, ma una diversa articolazione del fenomeno. Se i segni di allontanamento da parte del romanzo si delineano già a fine Ottocento e maturano come consapevolezza critica negli anni tra le due guerre, la “replica” della storiografia è asimmetrica e si definisce soprattutto intorno alla metà del secolo.
L’estendersi m assiccio de ll’influenza del marxismo e delle “Annales” (non assimilabile, ma nemmeno alternativa), a partire dagli anni cinquanta, si chiarisce anzitutto come tentativo di riproporre su basi nuove, per riprendere le parole di Barraclough, un’esigenza di “ordinamento razionale dei fatti complessivi della storia umana”33. Una “prospettiva dall’alto”, per riprendere i poli del dilemma vissuto àd\Yuomo senza qualità. L’incrocio variamente modulato con le scienze sociali, la costruzione di modelli interpretativi fondati sulla “lettura” delle strutture, le innovazione nel campo della metodologia cospirano alla definizione di una normativa che, legittimando le ambizioni scientifiche della storiografia, proscrive la storia racconto configurandola come riproduzione di moduli tradizionali ormai superati. A questo passaggio — e con un ovvio riferimento alle esperienze narrative del nouveau roman — il divorzio tra storiografia e romanzo può dirsi interam ente consum ato. E la ripresa delle d iscussioni intorno alla storia narrativa non può prescindere da questo accumulo di esperienze per porre in una corretta prospettiva le analogie, ma anche le profonde diversità, fra le pre
30 Claudio Magris, Narrativa, in Enciclopedia del Novecento, voi. IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1974.31 La consapevolezza di una eguale dipendenza della storia e del romanzo dagli sviluppi della psicologia sperimentale è ad esempio in José Ortega y Gasset, Sul romanzo, Milano, Sugarco, 1985 [ed. orig. 1925].32 C. Magris, Narrativa, cit.33 G. Barraclough, Atlante, cit., p. 27.
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se di posizione più recenti e le eredità delle acquisizioni precedenti.
Per questo l ’affermazione che “i cancelli tra storiografia e narrativa si fanno proprio nel XX secolo, sempre più opinabili e impalpabili” appare difficilmente accettabile: essa schiaccia il profilo del Novecento sotto il peso di una attualità (il ricorso alla forma narrativa emerso nell’ultimo quindicennio soprattutto nel settore della storia della mentalità) che non solo contiene scarsi elementi di sintesi rispetto alle esperienze precedenti, ma rappresenta un riorientamento — che attende tuttavia di essere meglio definito — a fronte delle più significative tra esse.
Sinora abbiamo affrontato, in successione, due aspetti: quello del riemergere, a ll’interno della discussione sulla riscossa della storia-racconto, di questioni che investono più generalmente i rapporti tra produzione storiografica e narrativa romanzesca; e quello — per grandi linee — delle relazioni tra storiografia e romanzo nel passaggio dall’Ottocento al Novecento. Il secondo tema si impone in larga misura come corollario del primo. Nel senso che i rinvìi della storiografia al romanzo avanzati oggi per motivare le scelte della narrazione in storia appaiono spesso frammentari e indiretti, tali comunque da esigere una verifica, quantomeno sul medio periodo, delle relazioni complessive tra storia e romanzo.
Ciò può servire a meglio chiarire i compiti che i due campi rispettivamente si riservano e, prima ancora, i criteri con i quali ciascuno di essi riesce a valutare la natura dei risultati conseguiti dal- l ’interlocutore. I quesiti e le risposte — l’abbiamo veduto — tendono a divergere; ed è assai improbabile che i futuri bilanci della cultura no- vencentesca mettano in luce, tra storiografia e romanzo, quelle tendenze allo scambio— talora alla sovrapposizione — tutt’altro che infrequenti nel corso dell’Ottocento. L’avvenuta separazione non è tuttavia interpretabile come uno sbocco conclusivo che richieda soltanto di essere registrato e catalogato.
Per i modi in cui si è realizzata e per i pro
blemi che lascia aperti (o che a sua volta accende) va piuttosto assunta come un punto di passaggio straordinariamente ricco di implicazioni. Lo dimostra il fatto che la dicotomia più volte richiamata tra tempo esterno e tempo interiore può valere al più come schematica proposizione di partenza, come intenzionalità prevalente, non certo come rigido criterio classificatorio. Lo vieterebbero le forme miste, ibride, in cui le due concezioni si presentano tanto in letteratura che in storiografia (e a proposito delle quali una più attenta riflessione sulle fortune della biografia storica riuscirebbe opportuna); lo vieterebbero le rielaborazioni, dentro e fuori il campo filosofico, sulla categoria tempo, nelle quali è rinvenibile uno dei tratti più originali della cultura novecentesca. Due implicazioni appaiono soprattutto rilevanti: quella delle modalità di accesso della storiografia al romanzo; quella dei caratteri costitutivi del discorso storiografico. Accenneremo a ll’una e a ll’altra anche come vie di superamento delle ambiguità che circondano oggi la questione della storia narrativa.
Gli esempi portati dimostrano a sufficienza, credo, come l’approccio degli storici al romanzo proceda con parzialità e unilateralità. La fonte tradizionale per eccellenza — il documento letterario — sembra comunicare con lo storico per monosillabi e non con periodi compiuti. Sfugge dunque alla sorte del testimone, per interrogare il quale occorre riconoscerne prima l’identità. Il romanzo interessa invece allo storico solo per quel segmento particolare che entra in contatto con una altrettanto particolare necessità della ricerca. In questa prospettiva rientrano sia gli accenni di Stone al romanzo novecentesco come paradigma che si pone al servizio delle esigenze narrative della nuova storia della mentalità, sia il ricorso di Chevalier a Bal- zac come strumento di “inveramento” delle dinamiche demografiche nella Parigi della prima rivoluzione industriale.
Ed egualmente vi entrano, è forse superfluo sottolinearlo, quei quadri tradizionali di storia sociale intesa, secondo la definizione di Tre-
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velyan, come “storia con esclusione della politica”34: qui anzi il ricorso al romanzo come vetrina della casistica dei costumi celebra i suoi fasti più completi — e più sterili. A dar risalto alla inadeguatezza di un simile approccio intervengono soprattutto le sollecitazioni, coeve, della letteratura storico-critica e degli studi sulla teoria del romanzo. S ’è detto della saggistica anglosassone tra le due guerre, fortemente omogenea e impegnata a svalutare il “romanzo sociale” e a denunciare i guasti prodotti dal “romanzo d’epoca” (dove il secondo va inteso come una versione degradata del primo, come pura pubblicistica ideologica o di intrattenimento sommariamente rivestita di panni letterari)35. Ma gli apporti più cospicui provengono dagli studi che, direttamente o indirettamente, da Lukàcs a Lucien Goldmann, si rifanno alle elaborazioni hegeliane sul “romanzo epopea borghese” e che proprio per questo appaiono più pronti a cogliere la portata della svolta novecentesca. Più pronti, con Lukàcs, a stabilire una connessione non superficiale tra pe- riodizzazione letteraria e cicli politico-economici (la dissoluzione del modello ottocentesco di romanzo come contrappunto, e però anche segno rivelatore, della crisi dello stato rappresentativo), ma anche più restii a recepire le radici letterarie, estetiche, delle evoluzioni interne al genere romanzesco36. Sotto questo profilo, del ricongiungimento tra i due tronconi del discorso, offrono un punto di riferimento obbligato le analisi parallele di Bachtin tese a penetrare la natura del fatto letterario (con un largo debito verso i formalisti) senza scinderlo dalla sua duplice valenza ideologica, in quanto “interpreta la realtà di fatto socio-economica” e in quanto “riflette e interpreta le altre sfere ideologiche”37. Il momento più espressivo di questo intreccio sarebbe appunto fornito dal romanzo, genere per eccellenza aper
to al “massimo contatto col presente nella sua incompiutezza” e quindi specchio dell’“ideologia in formazione”38. Ed è proprio questa concezione del romanzo come genere in costante divenire, che trattiene Bachtin dall’assumere l’esauri- mento del modello ottocentesco come un evento decisivo per la sopravvivenza stessa del romanzo e lo spinge invece a prefigurare un percorso di indagine in grado di attraversare i rivolgimenti novecenteschi senza interrompere, anzi intensificando, la comunicazione tra la letteratura e le altre discipline. Ne discende una traccia utile allo storico, ma non ad esso soltanto, per entrare in contatto con l’universo romanzesco nella sua totalità, per identificare — riprendendo l ’immagine precedente — il testimone prima di interrogarlo, per accertare le “logiche” alle quali questi obbedisce. A ll’opposto, prescindere dalle leggi che governano l’organismo romanzo significa soffocare le possibilità di scambio, declassarle a livello di poco produttivi “prestiti forzosi”. E ciò vale a maggior ragione per il riconoscimento delle specifiche strutture narrative in quanto attributi interni all’opera letteraria e non materiale grezzo trapiantabile, con una operazione inevitabilmente destinata a scadere nella retorica, in altre e diverse costruzioni.
Quest’ultimo accenno ci porta per altra via ai problemi connessi con la natura e le procedure di composizione del testo storiografico. Non v ’è dubbio che nella fase di massimo impulso della storiografia anti-événementielle la questione sia sta ta rim ossa, iden tificando senz’altro l ’adozione di specifiche tecniche narrative con l ’oggetto particolare che ne determina, o si riteneva ne determinasse, l ’applicazione (ovvero la storia etico-politica) e coinvolgendo nel rifiuto della storia-racconto quanto avesse invece attinenza al definirsi del di-
34 Citato da Eric J. Hobsbawn, Dalla storia sociale alla storia della società, “Quaderni storici”, 1973, n. 22.35 E. Muir, La struttura del romanzo, cit.36 Si veda in particolare II romanzo come epopea borghese, del 1934, inserito in Gyorgy Lukàcs, Michail Bachtin e al., Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, Torino, Einaudi, 1976.37 Pavel N. Medvedev, Il metodo formale nella scienza della letteratura. Introduzione critica al metodo sociologico, Bari, Dedalo, 1978 [ed. orig. 1928], p. 80. Autore del libro è in realtà Bachtin.38 Cfr. lo scritto presente in G. Lukàcs, M. Bachtin e al.. Problemi di teoria del romanzo, cit.
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scorso storiografico come forma di comunicazione. Un atteggiamento, se si vuole, perfettamente complementare, sulla sponda opposta, a ll’invito che abbiamo visto rivolgere da Forster ai romanzieri ad “esorcizzare il demone della cronologia”. Né i nuovi storici della mentalità hanno riaperto l ’interrogativo, preferendo semmai orientarsi verso soluzioni empiriche che, se hanno prodotto esiti suggestivi a ll’in- temo di singole opere, hanno anche accresciuto le ambiguità che nascono dalla intersezione dei due piani. Ed è anche in questa “indifferenza” che vanno cercate le ragioni dello scarso impatto delle elaborazioni maturate — prevalentemente nella seconda metà degli anni sessanta— al di fuori del campo storiografico. Un ventaglio di posizioni (dall’assoggettamento, da parte di W hite39, dell’atto storiografico ad una opzione iniziale essenzialmente “poetica”, alla cancellazione, decretata da Barthes40, della narrazione in storia per effetto dell’abbandono del reale, la cronologia, a favore dell’in- telliggibile, la struttura) che sono state richiamate con insistenza negli anni ottanta sulla scia del dibattito intorno alla ripresa della storia narrativa e dunque scontando le difficoltà e le incertezze da cui, come si è cercato di dimostra
re, questo dibattito è avvolto41. Un panorama sufficientemente completo dei diversi percorsi è quello tracciato da Paul Ricoeur42, anche se i modi di dimostrazione della tesi che si propone di sostenere (basata sulla “asserzione di un legame indiretto di derivazione, grazie al quale il sapere storico procede dalla comprensione narrativa senza perdere nulla della sua ambizione scientifica”) appaiono più prossimi ad una esplorazione documentaria delle proposte a qonfronto che non ad una sintesi creativa. Anche questi aspetti vanno tuttavia immersi in un quadro più vasto. Come ha scritto de Certeau,
considerare la storia come un’operazione significherà tentare [...] di comprenderla come rapporto tra un posto (un reclutamento, un ambiente, un mestiere eccetera), delle procedure di analisi (una disciplina) e la costruzione di un testo (una letteratura)43.
Il discorso sulle correlazioni storia-romanzo e, per quanto vi si riconnettano, sulle tecniche della narrazione in storia, può utilmente ripartire da qui, dal chiedersi “che cosa fabbrica lo storico quando diventa scrittore ”.
Massimo Legnani
39 Hayden White, Retorica e storia, Napoli, Guida, 1978 [ed orig. 1973].40 Roland Barthes, Le discours de l’histoire, “Social Science Information/Information sur le Sciences sociales”, agosto 1967.41 Cfr. l’introduzione di Pietro Rossi a Id. (a cura di), La teoria della storiografia oggi, cit.42 Paul Ricoeur, Tempo e racconto, vol. I, Milano, Jaca Book, 1986 [ed. orig. 1983], p. 144.43 Michel de Certeau, La scrittura della storia, Roma, Il pensiero scientifico editore, 1977, [ed. orig. 1975], cap. II.