RESTAURAZIONE E
RIVOLUZIONE IN EUROPA
La Restaurazione e il nuovo assetto
europeo
Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze
europee si accordarono per la ricostituzione del vecchio
ordine, infranto prima dall'ondata rivoluzionaria poi dalle
conquiste delle armate francesi: iniziava l'età della
Restaurazione. Restaurazione in primo luogo dei sovrani
spodestati, ma anche delle gerarchie sociali tradizionali,
degli ordinamenti prerivoluzionari, dei modi di governare
tipici dell'ancien régime. Il progetto ottenne alcuni iniziali
successi politici, ma ben presto mobilitazioni
rivoluzionarie e indipendentiste avrebbero preso il
sopravvento.
Un programma irrealizzabile
I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove
spinte di una società in mutamento avrebbero dimostrato
che si trattava di un progetto velleitario. Impossibili da
rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza
del diritto e dell'uguaglianza formale fra i cittadini, ma
anche su quello dell'organizzazione burocratica e della
razionalizzazione delle attività economiche. Tutto ciò
rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia
— della proprietà terriera e delle professioni, del
commercio e dell'industria — che aveva acquisito una
nuova consapevolezza del suo ruolo nella società.
Il congresso di Vienna
Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con
maggior decisione e con risultati più evidenti fu
certamente quello dei rapporti internazionali definiti dal
congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), il più
affollato consesso di sovrani e governanti che mai si fosse
visto in Europa. Le decisioni più importanti, tuttavia,
vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori potenze
vincitrici: Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria. Il
ministro degli Esteri austriaco Metternich fu l'autentico
regista dei lavori. Ma in questo gruppo riuscì a inserirsi
anche il rappresentante della Francia sconfitta,
Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della
Rivoluzione e dell'Impero. Uomo di grande abilità,
Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio del suo paese il
principio di legittimità: il principio, cioè, in base al quale
dovevano essere anzitutto restaurati i diritti «legittimi»
violati dalla Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei
Borbone di Francia.
L'Europa nel 1815
Il nuovo assetto europeo
Era del resto interesse delle stesse potenze vincitrici fare
della Francia monarchica un pilastro del nuovo equilibrio
conservatore piuttosto che rischiare, umiliandola, di
creare il terreno propizio per nuovi esperimenti
rivoluzionari. Per questo motivo la Francia non subì
alcuna amputazione rispetto alle frontiere del 1791. Il
nuovo assetto territoriale fu realizzato senza il minimo
riguardo per i principi di nazionalità, ma comportò
ugualmente una certa razionalizzazione della geografia
politica europea in relazione ai rapporti di forza che si
erano consolidati nelle guerre antinapoleoniche. Fu
confermata l'abolizione del Sacro romano impero, che era
stato cancellato da Napoleone nel 1806, mentre i
mutamenti più importanti rispetto alla situazione
prerivoluzionaria si verificarono nel Centro e nel Nord
dell'Europa. La Russia si espanse verso occidente,
occupando la Finlandia e buona parte della Polonia.
Anche la Prussia si ingrandì a ovest, annettendo una serie
di territori nella zona del Reno che si sarebbero poi
rivelati di decisiva importanza economica. Gli Stati
tedeschi si ridussero drasticamente di numero e furono
riuniti in una Confederazione germanica, la cui presidenza
era tenuta dall'imperatore d'Austria. L'Impero asburgico,
sotto l'abile guida di Metternich, si affermò come il fulcro
dell'equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto un ruolo
egemone sull'intera Penisola italiana. Il Belgio e il
Lussemburgo, uniti all'Olanda, formarono il Regno dei
Paesi Bassi. Nessun mutamento di rilievo si ebbe nella
Penisola iberica, né nei Balcani. La Gran Bretagna non
accampò pretese territoriali sul continente, ma si
preoccupò di assicurare in Europa un equilibrio tale da
impedire l'emergere di nuove ambizioni egemoniche.
L'Italia
Quanto all'Italia, essa fu riportata, con poche varianti, alla
situazione precedente alle guerre napoleoniche. La
maggiore novità fu il rafforzamento dell'egemonia
austriaca, ottenuta non solo con la sovranità sul
L'Italia nel 1815
Lombardo-Veneto, ma anche attraverso una serie di
legami militari e dinastici con gli altri Stati della penisola,
fra cui il Regno di Napoli, ricostituito sotto la dinastia dei
Borbone e ribattezzato Regno delle Due Sicilie. L'unico
tra gli Stati italiani a mantenere una certa autonomia
rispetto all'Impero asburgico fu il Regno di Sardegna,
ingranditosi con l'acquisto di alcuni territori della Savoia e
soprattutto di una regione ricca e popolosa come la
Liguria.
Le nuove alleanze
A presidio di questi assetti furono varate due alleanze: la
prima fu la Santa alleanza, nata nel settembre 1815 da
un'iniziativa dello zar Alessandro I, cui aderirono anche
l'imperatore d'Austria e il re di Prussia. Si trattava di una
sorta di alleanza personale fra i tre sovrani, il cui testo era
ricco di riferimenti alla religione cristiana. Alla Santa
alleanza aderirono successivamente molti altri Stati
europei, fra cui la Francia. Non vi aderì invece la Gran
Bretagna che, nel novembre dello stesso anno, propose un
secondo accordo alle potenze vincitrici (Austria, Russia e
Prussia), la cosiddetta Quadruplice alleanza: i quattro
contraenti si impegnavano a vigilare contro possibili
tentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire
contro ogni minaccia all'equilibrio europeo.
Questo sistema di alleanze dava vita a una sorta di
direttorio che aveva il compito di risolvere pacificamente
eventuali contrasti fra Stato e Stato. Nasceva così quello
che fu chiamato il concerto europeo, ossia un dialogo
costante fra le grandi potenze che contribuì a ridurre le
tensioni sul continente e ad assicurare all'Europa un
quarantennio di pace.
Il ritorno all'ordine
Dopo la gran ventata rivoluzionaria e napoleonica si ebbe,
quasi ovunque in Europa, un assestamento degli equilibri
interni in senso conservatore, sostenuto anche
dall'alleanza tra i sovrani e il potere religioso delle Chiese.
In Gran Bretagna
Persino in Gran Bretagna, il paese in cui le istituzioni
parlamentari erano nate, gli anni successivi al 1815 videro
il prevalere dell'ala destra del partito conservatore: quella
che aveva la sua base nell'aristocrazia terriera e nell'alto
clero anglicano. Il dominio della destra tory si tradusse in
una politica volta a favorire gli interessi della grande
proprietà terriera, attraverso l'imposizione di un forte
dazio di importazione sul grano, che proteggeva la
produzione interna e manteneva elevati i prezzi al
consumo. Questa politica sacrificava gli interessi
dell'industria esportatrice — che costituiva da tempo la
vera base della potenza economica britannica — e
inaspriva le tensioni sociali, alzando il costo della vita. Si
ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie,
sempre duramente represse, come nel caso del «massacro
di Peterloo» a Manchester nel 1819.
In Spagna e nell'Europa del Nord
La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in
Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare
la «Costituzione di Cadice» del 1812 e mise in atto una
durissima repressione nei confronti delle correnti liberali.
Regimi a base parzialmente rappresentativa (con
parlamenti eletti a suffragio ristretto e dotati di poteri
assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno dei
Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione
germanica, oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera.
In Francia
Il caso più interessante per i legami col passato e per gli
sviluppi futuri fu quello della Francia. Appena insediato
sul trono, nel giugno 1814, il nuovo re Luigi XVIII aveva
concesso una Costituzione, ma si preferì chiamarla col
nome generico di «Carta», che proclamava l'uguaglianza
di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva le libertà
fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e
prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una
Camera dei pari di nomina regia e da una Camera dei
deputati elettiva. Il limitato contenuto liberale della Carta
era ulteriormente diminuito sia dagli scarsi poteri di cui
godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo
della legge elettorale, che legava il diritto di voto all'età
(30 anni) e al livello di reddito: in pratica godevano di tale
diritto non più di 100 mila cittadini. Nonostante ciò, la
Francia «restaurata» era pur sempre uno dei pochi regimi
costituzionali esistenti in Europa. Vi furono inoltre
mantenute molte delle più importanti innovazioni del
periodo napoleonico — dal Codice civile all'ordinamento
amministrativo, al sistema scolastico statale — e
soprattutto fu garantita l'inviolabilità di tutte le proprietà
vecchie e nuove, comprese dunque quelle derivate
dall'acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero. La
moderazione del re scontentava naturalmente i legittimisti
più intransigenti, soprattutto quei nobili emigrati che,
rientrati in patria, si aspettavano di tornare interamente in
possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi
feudali.
In Italia
In Italia, la restaurazione dei vecchi Stati e delle vecchie
dinastie comportò un arresto del processo di sviluppo
civile e politico che si era avviato durante il periodo
francese.
Nel Regno sabaudo
Il re Vittorio Emanuele I abrogò in blocco la legislazione
napoleonica, epurò drasticamente la pubblica
amministrazione, ristabilì il controllo della Chiesa
sull'istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro
le minoranze religiose (ebrei e valdesi).
Nello Stato della Chiesa
La relativa moderazione del papa Pio VII fu presto
sconfitta dalla linea di pura restaurazione teocratica
sostenuta dall'ala intransigente del collegio cardinalizio e
dalla Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814).
Nel Regno delle Due Sicilie
Nel Regno di Napoli la legislazione antifeudale fu
mantenuta ed estesa anche alla Sicilia. Lo Stato fu
unificato dal punto di vista amministrativo, quando
assunse nel 1816 il nuovo nome di Regno delle Due
Sicilie: un'opera di cauta razionalizzazione, che però, oltre
a suscitare la protesta autonomi stica della nobiltà
siciliana, non comportò alcuna liberalizzazione in campo
politico e culturale né alcun inizio di modernizzazione
economica.
In Toscana e nei Ducati
Da questo punto di vista, le cose andavano meglio nei
territori direttamente amministrati dall'Austria e negli
Stati minori del Centro-nord – Granducato di Toscana,
Ducati di Parma e Modena – da essa controllati. In
Toscana, il governo del granduca Ferdinando III si
riallacciò alla miglior tradizione dell'assolutismo
illuminato. Particolari cure furono dedicate al progresso
dell'agricoltura, sempre caratterizzata dalla prevalenza
della mezzadria. Qualche segno di apertura politico-
culturale poté svilupparsi in un clima di relativa
tolleranza: la rivista «L'Antologia», fondata nel 1821 da
Gian Pietro Vieusseux e Gino Capponi, sarebbe rimasta
per oltre un decennio il principale punto di riferimento per
gli intellettuali liberali di tutta Italia.
Nel Lombardo-Veneto
Autoritarismo e buona amministrazione caratterizzarono il
dominio austriaco nel Lombardo-Veneto. La Lombardia
continuò a essere la regione economicamente più avanzata
d'Italia, nonostante fosse sottoposta a un regime fiscale e
doganale che ne penalizzava lo sviluppo. Inoltre, lo stretto
controllo esercitato dalle autorità austriache sulla vita
politica e intellettuale non impediva il manifestarsi di una
vivace attività culturale, che aveva le sue radici nella
tradizione dell'Illuminismo settecentesco. Dall'incontro
fra questa tradizione e i nuovi fermenti della cultura
romantica ebbe origine l'esperienza, breve ma
significativa, della rivista «Il Conciliatore». Nata nel
settembre 1818 e soppressa un anno dopo per l'intervento
della censura, la rivista svolse un ruolo importante, come
espressione delle correnti liberali e patriottiche, ma anche
per l'attenzione alle tendenze più avanzate della cultura
europea.
Aristocrazia e borghesia nell'Europa
restaurata
La borghesia e la proprietà terriera
Nei decenni della Restaurazione in Europa, al sistema di
dominio politico ed economico dell'aristocrazia,
prevalentemente terriera, faceva ormai riscontro l'ascesa
della borghesia: una borghesia che, pur connotata da una
vocazione professionale, commerciale e imprenditoriale,
cercava in molti casi di imitare gli stili di vita e la
propensione alla proprietà terriera tipica dei ceti nobiliari.
Questa commistione avrebbe caratterizzato gran parte
della storia sociale dei ceti superiori nell'800.
Gli effetti della defeudalizzazione
Il periodo dagli anni '20 agli anni '40 del secolo
rappresenta una fase importante di questo processo perché
vede il definitivo smantellamento del sistema dei privilegi
e vincoli feudali che ostacolavano la circolazione delle
proprietà. Zone estese dominate da rapporti ancora feudali
rimarranno ancora nell'Europa orientale fino al 1848 e in
Russia (dove la servitù della gleba costituiva ancora il
fulcro dell'ordine sociale delle campagne) fino al 1861,
ma nel resto del continente la defeudalizzazione era ormai
molto avanzata. In Francia e nei paesi vicini passati
attraverso la dominazione napoleonica come le regioni
occidentali della Germania, i Paesi Bassi, l'Italia
settentrionale la rivoluzione antifeudale si era compiuta in
modo irreversibile e la borghesia aveva aumentato
considerevolmente la sua quota di partecipazione alla
proprietà della terra. Ma ciò non si era tradotto sempre in
una generale modernizzazione delle tecniche agricole né
in un apprezzabile miglioramento delle condizioni di vita
delle masse rurali. La vendita delle terre già appartenenti
al clero e alla nobiltà non aveva in genere avvantaggiato i
piccoli coltivatori e i contadini senza terra, ma era servita
soprattutto a incrementare la grande proprietà borghese.
Nell'Europa del Sud (Penisola iberica, Italia meridionale e
insulare) la defeudalizzazione fu più rapida, ma non
intaccò se non in minima parte le tradizionali gerarchie
sociali né modificò la struttura della proprietà terriera,
caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande
proprietà ecclesiastica.
I tempi diversi della modernità
Queste trasformazioni confermavano il permanente
sovrapporsi di tradizione e modernità nel mondo rurale,
tanto nei rapporti economici che in quelli tra proprietari e
contadini: una considerazione che vale, in diversi gradi,
per tutta l'Europa se teniamo presenti i diversi livelli dei
punti di partenza. In ogni caso la modernità politica non
abitava le campagne, ma rimaneva espressione
prevalentemente urbana: è dalle città e dai ceti urbani,
infatti, che si sarebbero mosse tutte le iniziative
rivoluzionarie degli anni successivi.
I moti rivoluzionari del 1820-21
A partire dall'inizio degli anni '20 l'ordine imposto
all'Europa dalla Restaurazione contrastato da tre
successive ondate rivoluzionarie: nel 1820-21, nel 1830 e
nel 1848-49. Limitate inizialmente ad alcuni paesi,
soprattutto dell'Europa meridionale, più estese nel 1830,
culminarono nella "rivoluzione dei popoli" del 1848-49.
Le sette nell'Europa restaurata
Come governi e regnanti erano uniti dalla trama delle
alleanze, così quanti lottavano contro l'ordine costituito,
per l'affermazione degli ideali liberali, democratici e
nazionali, facevano inizialmente capo a organizzazioni
clandestine che, nate per lo più nel '700 o in età
napoleonica, si diffusero in questo periodo con grande
rapidità: sette e società segrete divennero nell'età della
Restaurazione il principale strumento di lotta politica.
più numerose e importanti erano le sètte di tendenza
democratica o liberale. Alcune di esse traevano origine e
ispirazione dalla Massoneria: a essa era collegata la più
importante e la più diffusa fra quelle attive nell'età della
Restaurazione, la Carboneria, presente soprattutto in Italia
e in Spagna. I carbonari – che riprendevano i loro simboli
e i loro rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai (come i
massoni da quello dei muratori) – ispiravano per lo più la
loro azione a ideali di costituzionalismo e di liberalismo
moderato.
I moti del '20-'21
Ma i confini fra le società segrete erano spesso abbastanza
incerti: sia perché le diverse associazioni erano unite tra
loro da molti legami, sia perché la struttura verticistica e
rigorosamente clandestina delle organizzazioni – i cui
aderenti erano per lo più tenuti all'oscuro sia del contenuto
completo del programma sia dell'identità dei capi –
favoriva la coesistenza nella stessa setta di diversi progetti
politici, corrispondenti ai diversi gradi di iniziazione.
A prescindere dai fini che si proponevano, queste
associazioni poggiavano tutte su una base piuttosto
ristretta: pochissimi artigiani e popolani, qualche membro
dell'aristocrazia liberale, qualche esponente della
borghesia del commercio e delle professioni, ma
soprattutto intellettuali, studenti e militari. Furono i
militari, in particolare gli ufficiali e i sottufficiali formatisi
nel periodo napoleonico, a fornire alle sètte i nuclei più
preparati e intraprendenti: i soli che, potendo disporre di
una «forza armata», fossero in grado di minacciare
seriamente la stabilità di troni e governi.
Le rivoluzioni del '20-'21
Furono i militari a dare inizio alla prima ondata
rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni '20.
Il moto parti dalla Spagna, dove era cresciuta la tensione
per la rivolta delle colonie latino-americane, che il re
Ferdinando VII cercò di soffocare inviando oltreoceano
forti contingenti di truppe. Il 1° gennaio 1820, alcuni
reparti concentrati nel porto di Cadice in attesa di essere
imbarcati per l'America si ammutinarono. In pochi giorni
la rivolta si estese ad altri reparti, rendendo vani i tentativi
di repressione e costringendo il re a richiamare in vigore
la Costituzione del 1812 e a indire le elezioni per le
Cortes (ossia la Camera elettiva). In Spagna si costituiva
così un regime liberal-democratico, reso però fragile
dall'ostilità del re e, soprattutto, dallo scarso consenso di
cui godeva presso le masse contadine, influenzate dalla
Chiesa.
Gli avvenimenti di Spagna ebbero come immediata
conseguenza una generale ripresa dell'attività
rivoluzionaria. Nell'estate del 1820, moti insurrezionali,
sempre iniziati da militari, scoppiarono a poche settimane
di distanza nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo.
Nel marzo 1821 una rivolta scoppiò in Piemonte.
L'intervento delle potenze e la repressione
Le rivoluzioni costituzionali di Spagna e d'Italia
rappresentavano una grave minaccia per l'equilibrio uscito
dal congresso di Vienna. Le potenze aderenti alla Santa
alleanza decisero così di intervenire militarmente. Mentre
l'Austria restaurava il potere assoluto di Ferdinando I nel
Regno delle Due Sicilie e aiutava i Savoia a sconfiggere i
rivoluzionari in Piemonte, la Francia si assumeva il
compito di restaurare l'ordine in Spagna sia per ragioni di
politica interna, sia per equilibrare il peso della presenza
austriaca in Italia. Il fronte conservatore usciva rinsaldato
dalla crisi, mentre le forze liberali avevano dato prova di
scarsa unità, di carenze sul piano dell'organizzazione e
soprattutto di un'assoluta mancanza di legami con le
masse popolari.
L'indipendenza della Grecia
Patria e religione
L'insurrezione dei greci contro il dominio turco,
cominciata nel 1821 e protrattasi per quasi un decennio,
fu l'unica tra le rivoluzioni degli anni '20 a concludersi
con un sostanziale successo. Fu anche la sola che, pur
essendo nata dall'iniziativa delle società segrete, finì con
l'assumere il carattere di una guerra di popolo, nazionale a
fondamento religioso ortodosso ancor prima che politica.
Ma il successo della lotta per l'indipendenza greca si
dovette anche e soprattutto a fattori di carattere
internazionale. Se l'Impero ottomano era considerato
ancora da Austria e Gran Bretagna un prezioso elemento
di equilibrio continentale, altre potenze, come la Russia e
la Francia, erano attratte dalle possibilità di espansione
che il suo indebolimento avrebbe aperto nell'area
mediterranea e nei Balcani.
La debolezza dell'Impero ottomano
In realtà l'antico Impero ottomano faticava sempre più,
come sappiamo, a tenere uniti i suoi vastissimi
possedimenti. Sempre più problematico per il governo
turco era poi il controllo dei popoli balcanici (greci, serbi,
macedoni, albanesi, bulgari, romeni): qui mancava anche
il legame religioso, dal momento che la maggior parte
della popolazione era formata da cristiani ortodossi. Nei
confronti di questi ultimi l'Impero aveva sempre praticato
una politica tollerante sul piano religioso, ma
discriminatoria su quello politico e sociale. In tutta la
Penisola balcanica i cristiani si trovavano nella condizione
di popolo soggetto: non potendo accedere alla proprietà
terriera, detenuta a titolo feudale dai signori turchi, erano
nella grande maggioranza servi della gleba, contadini
poveri, pastori nomadi dediti non di rado al brigantaggio,
ma formavano anche, coi loro strati superiori, la
maggioranza del ceto mercantile e una parte importante
della burocrazia imperiale.
La rivolta
Nel 1815 già i serbi erano riusciti a conquistarsi un'ampia
autonomia. Nel 1821 insorsero i greci che svolgevano un
ruolo chiave nella vita economica dell'Impero ottomano,
grazie a una forte borghesia mercantile che si era
sviluppata nelle isole dell'Egeo, a Smirne, a Salonicco e
nella stessa Istanbul. La setta patriottica greca Eteáa
('associazione, fratellanza'), che organizzò l'insurrezione,
contava numerosi aderenti tra le file di questa borghesia e
trovò immediato sostegno anche fra le masse popolari. Per
fermare la guerriglia, i turchi ricorsero a una serie di
durissime repressioni che suscitarono condanna e
riprovazione in tutta Europa.
Si creò allora in favore degli insorti una forte corrente di
opinione pubblica internazionale, in cui confluivano
motivazioni politico-ideologiche (la solidarietà con chi
combatteva per la libertà), religiose (la difesa dei cristiani)
e anche culturali, fondate sul mito della Grecia classica.
Da tutta Europa accorsero volontari per unirsi alla
guerra contro i turchi: fra gli altri il poeta inglese Byron e
l'italiano Santorre di Santarosa, che trovarono entrambi la
morte in Grecia. La spinta dell'opinione pubblica impose
una svolta nella politica delle potenze. La Russia, che si
atteggiava a protettrice dei cristiani ortodossi, ruppe nel
'22 le relazioni diplomatiche con la Turchia. La Gran
Bretagna riconobbe nello stesso anno la Grecia come
paese belligerante.
L'indipendenza
Fu proprio l'intervento delle potenze europee – che nel
luglio '27 distrussero a Navarino una flotta turco-egiziana
– a imporre all'Impero ottomano la firma della pace di
Adrianopoli (1829), con cui si riconosceva l'indipendenza
greca. Al nuovo Stato – che nasceva con una estensione
limitata a poco più del Peloponneso e dell'Attica – le
grandi potenze imposero un regime monarchico
costituzionale e come sovrano un principe della casa di
Baviera.
La soluzione della questione greca rappresentò un
precedente di grande importanza per le lotte di
indipendenza nazionale dell'800 e un colpo letale per
l'equilibrio conservatore europeo. Per l'Impero ottomano –
ulteriormente indebolito, nell'estate del 1830,
dall'occupazione di Algeri da parte della Francia (di cui si
leggerà nel paragrafo seguente) – la sconfitta fu la
conferma Ai una lunga crisi, in atto ormai da oltre un
secolo e destinata a protrarsi per altri cent'anni fino agli
inizi del '900.
I moti rivoluzionari del 1830-31
Nel 1830, una nuova ondata rivoluzionaria partita dalla
Francia portò a trasformazioni profonde e durature negli
assetti politici europei: la cacciata della dinastia dei
Borbone in Francia e l'indipendenza del Belgio.
La rivoluzione in Francia
La rivoluzione che scoppiò a Parigi nel luglio 1830 fu la
diretta conseguenza del tentativo messo in atto dal re
Carlo X (salito al trono nel 1824) e dagli ambienti
ultrarealisti («ultras») di restringere il più possibile le
libertà costituzionali garantite dalla Carta del '14. Contro
la politica di Carlo X si schierarono non solo i
democratici e gli intellettuali liberalmoderati, ma anche la
grande borghesia degli affari e della finanza e un'ala
consistente della stessa aristocrazia. Nelle elezioni del
1827, le forze di opposizione ottennero una netta
maggioranza alla Camera.
Il re scelse allora la strada dello scontro col potere
legislativo e contemporaneamente cercò un diversivo in
politica estera inviando, all'inizio di luglio, un corpo di
spedizione in Algeria. L'occupazione di Algeri, che
costituì la premessa per la successiva espansione francese
in Nord Africa, non ottenne però i risultati sperati. Nelle
elezioni che si tennero subito dopo, l'opposizione fece
ulteriori progressi. A questo punto Carlo X diede avvio a
un vero e proprio colpo di Stato, emanando quattro
ordinanze che sospendevano la libertà di stampa,
scioglievano la Camera appena eletta, modificavano la
legge elettorale rendendola ancora più restrittiva e
convocavano nuove elezioni.
Subito dopo la pubblicazione delle ordinanze, il popolo di
Parigi scese in piazza, come non accadeva più dai tempi
della grande Rivoluzione e, dopo tre giorni di duri scontri
con le truppe regie (27, 28 e 29 luglio), costrinse Carlo X
ad abbandonare la capitale. Il 29 luglio le Camere riunite
in seduta comune dichiaravano la decadenza della dinastia
borbonica e nominavano luogotenente del regno Luigi
Filippo d'Orléans, cugino del re appena deposto. La scelta
di Luigi Filippo – che era stato, negli anni della
Restaurazione, uno dei punti di riferimento
dell'aristocrazia «illuminata» e, in genere, dei gruppi
liberal-moderati – andava incontro in qualche modo alle
richieste della piazza, che chiedeva prima di tutto la
cacciata dei Borbone. Ma d'altra parte aveva lo scopo di
bloccare un processo rivoluzionario di cui erano in molti a
temere gli sviluppi: protagoniste delle tre gloriose
giornate di luglio erano state infatti le masse popolari,
soprattutto artigiane, guidate dai club repubblicani e
giacobini.
Il 9 agosto, Luigi Filippo fu proclamato dal Parlamento
«re dei francesi per volontà della nazione»: una formula
che conciliava il principio monarchico con quello della
sovranità popolare. Il tricolore della Francia
rivoluzionaria – blu, bianco e rosso –tornò a essere la
bandiera nazionale. Fu varata una nuova Costituzione che
accresceva il controllo del Parlamento sul potere
esecutivo, allargava il diritto di voto, in misura peraltro
modesta, e realizzava una più netta separazione fra Stato e
Chiesa.
I moti in Belgio, Italia e Polonia
Il successo dell'insurrezione di luglio apri nuovi spazi
all'iniziativa delle forze liberali e democratiche europee:
in agosto insorse il Belgio annesso, per decisione del
congresso di Vienna, al Reno dei Paesi Bassi. L'Olanda
chiese l'aiuto delle grandi potenze, ma Francia e Gran
Bretagna si opposero e riconobbero l'indipendenza del
Belgio. Era una decisione di portata storica perché
segnava, col delinearsi dell'intesa franco-inglese, la fine
del sistema di rapporti disegnato nel 1815. Esito diverso
ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia centro-
settentrionale e in Polonia. Essi furono schiacciati
dall'intervento militare rispettivamente di Austria e
Russia.
Liberalismo e autoritarismo
La scelta conservatrice della monarchia di luglio
in Francia
Pur essendo nato da un'insurrezione popolare, il regime
orleanista si resse su una base di consenso piuttosto
ristretta e precaria: la monarchia di luglio finì per
identificarsi gradatamente con i valori e con gli interessi
dell'alta borghesia degli affari, che vide costantemente
crescere il suo peso economico e la sua influenza politica.
L'alta borghesia e l'aristocrazia liberale a essa alleata –
che in pratica detenevano il monopolio della
rappresentanza politica, dato il carattere ristretto del
suffragio – costituivano però uno strato esiguo della
società francese ed erano privi, peraltro, dell'appoggio del
clero.
Sul fronte dell'opposizione, particolarmente attivi furono i
gruppi democratico-repubblicani che erano stati i
protagonisti dell'insurrezione parigina del '30 e che erano
collegati ai primi nuclei socialisti già attivi nei grandi
centri urbani. Organizzati in una fitta rete di associazioni
più o meno clandestine, repubblicani e socialisti
costituirono un costante pericolo per la stabilità del
regime orleanista, costretto a fronteggiare una lunga serie
di agitazioni e di veri e propri tentativi insurrezionali. La
ricorrente minaccia rivoluzionaria provocò per
contraccolpo un'involuzione conservatrice della
monarchia di luglio, che si tradusse in alcune misure
limitative della libertà di stampa e di associazione. Questa
involuzione si accentuò a partire dal 1840, quando
François Guizot divenne la figura dominante della scena
politica francese. Guizot attuò una politica
Moti del '30-'31
sostanzialmente conservatrice, tutta centrata sulla ricerca
dell'ordine e della stabilità, volta a favorire le velleità
speculative della borghesia degli affari. Ciò finì con
l'accentuare i caratteri oligarchici del regime, scavando un
fossato sempre più profondo fra il paese e la classe
dirigente.
Il liberalismo in Gran Bretagna
Una svolta liberale si era aperta invece in Gran Bretagna
fin dalla metà degli anni '20, quando nelle file del partito
conservatore (tory) si affermò la figura di Robert Peel.
Fino alla metà dell'800 il paese fu guidato dal partito whig
e da quello conservatore alternativamente, sebbene il
primo avesse governato per ben 16 anni e il secondo per
5.
Il diritto di unirsi in libere associazioni
Con Peel furono attuate alcune importanti riforme interne,
prima fra tutte quella del 1824, che riconosceva ai
lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni. Sorsero
così numerose unioni di mestiere, Trade Unions,
organizzate su base di classe, formate cioè dai soli operai
per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro
rivendicazioni economiche.
La riforma elettorale e le misure per le classi disagiate
Il nodo principale da sciogliere era tuttavia quello
dell'ampliamento del diritto di voto, allora limitato a una
ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%).
Un problema a sé era poi quello delle circoscrizioni
elettorali, che non tenevano ancora conto degli sviluppi
dell'urbanizzazione legati alla rivoluzione industriale.
Accadeva così che le circoscrizioni urbane fossero
gravemente sacrificate nella distribuzione dei seggi a
vantaggio di quelle rurali: vi erano minuscoli collegi
rurali, i cosiddetti "borghi putridi" (rotten boroughs), in
cui bastavano poche decine di voti per mandare in
Parlamento un deputato, con evidente vantaggio per gli
esponenti della grande proprietà terriera, visto che l'eletto
era spesso il signore del luogo. La legge, approvata dal
Parlamento nel giugno 1832 con un governo a guida
whig, allargava il corpo elettorale di oltre il 50% e, cosa
ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni,
aumentando il numero di quelle urbane. Il sistema restava
censitario, ma era pur sempre il più aperto nell'Europa di
allora. Alla riforma elettorale si accompagnarono, negli
anni '30, misure legislative per migliorare le condizioni
delle classi più disagiate. La legge sul lavoro nelle
fabbriche, del 1833, fissava in dieci ore l'orario massimo
per i ragazzi sotto i diciotto anni e in otto per i bambini
sotto i dodici. La legge sui poveri, del 1834, affidava a
istituzioni ed enti locali l'assistenza ai bisognosi.
Il movimento cartista
Tentativi di modificare ulteriormente il sistema politico
britannico furono avanzati dall'opposizione democratica,
che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai
organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle
Trade Unions partì l'iniziativa di una grande
mobilitazione popolare per imporre alla classe dirigente
l'adozione del suffragio universale, il solo mezzo per far
valere gli interessi dei lavoratori nella Camera e nel
governo. Nel 1838 la Carta del popolo chiedeva, tra
l'altro, il suffragio universale maschile, la garanzia della
segretezza del voto e una nuova riforma dei collegi
elettorali. Il movimento cartista (così chiamato appunto
dalla Carta del popolo) non riuscì a ottenere tuttavia
alcuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì
con l'esaurirsi, anche perché i leader delle Trade Unions
abbandonarono progressivamente il terreno della
mobilitazione politica per concentrarsi su quello delle
rivendicazioni economiche.
L'abolizione del dazio sul grano
Tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, il centro
dell'impegno dei progressisti, appoggiati questa volta dai
Whigs, fu quello per la riforma doganale, e in particolare
per l'abolizione del dazio sul grano (cioè delle Corn
Laws). Questa rivendicazione chiamava in causa i bisogni
delle classi popolari, poiché il dazio protettivo manteneva
elevato il prezzo dei cereali – che sarebbe sceso
detassando le importazioni – a esclusivo vantaggio dei
produttori interni e a scapito dei consumatori. Essa
esprimeva inoltre gli interessi del mondo industriale,
desideroso di veder rimossi tutti gli ostacoli che si
opponevano all'affermazione dei propri prodotti sui
mercati stranieri. Il dazio sul grano era certamente uno di
questi ostacoli, in quanto provocava l'imposizione, da
parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe
sui prodotti industriali inglesi. Non a caso il movimento
per la riforma doganale ebbe il suo centro a Manchester,
capitale dell'industria tessile, e il suo principale portavoce
in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato
liberale, leader dal 1838 della Lega contro il dazio sul
grano (Anti-Corn Law League), divenuto in questi anni il
più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste.
La battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846 quando il
governo, allora guidato da Peel, sotto la pressione della
grave carestia che stava imperversando in Irlanda, prese la
storica decisione di abolire il dazio di importazione sui
cereali.
Immobilismo e autoritarismo nelle monarchie
dell'Europa centro-orientale
Al dinamismo politico e sociale manifestato dalla Gran
Bretagna e, in minor misura, dalla Francia negli anni
1830-48, faceva riscontro l'immobilismo politico delle
monarchie autoritarie dell'Europa centro-orientale, in
particolare dell'Austria e della Russia.
La chiusura a ogni fermento innovativo, lo strapotere
delle aristocrazie, il rifiuto di introdurre qualsiasi istituto
rappresentativo, la conservazione dei vecchi e arretrati
ordinamenti agrari – caratterizzati in Russia, ma anche in
molte zone dell'Impero asburgico e della Prussia orientale,
dalla permanenza della servitù della gleba – bloccavano il
progresso civile e inasprivano le tensioni economiche e
sociali. Se per la Russia il problema maggiore era
costituito dalle continue rivolte contadine (a carattere
spontaneo e prive di qualsiasi direzione politica), l'Impero
asburgico cominciava a soffrire in questi anni delle
tensioni che lo avrebbero accompagnato sino alla sua
dissoluzione: le spinte autonomistiche delle diverse
componenti nazionali – cechi e polacchi, italiani e
ungheresi, croati e sloveni – tutte divise fra loro, ma unite
nell'avversione al centralismo di Vienna.
L'Unione doganale tedesca
Elemento di crisi per la monarchia asburgica, il
nazionalismo costituì invece un fattore di coesione per la
Prussia e per gli Stati della Confederazione germanica.
Deluse le speranze di unificazione coltivate negli anni
delle guerre napoleoniche, le aspirazioni della borghesia
tedesca si concentrarono soprattutto sull'attuazione di
un'Unione doganale, Zollverein, fra tutti gli Stati della
Confederazione. L'abolizione dei dazi doganali, avviata
nel 1818, accelerata dopo il 1830 e in gran parte compiuta
nel 1834, rappresentò non solo una tappa importante sulla
via dell'unità politica degli Stati tedeschi. Fu anche un
potente fattore di sviluppo economico, che avrebbe
favorito il loro decollo industriale su un ampio mercato
nazionale, collegato da una fitta rete di vie di
comunicazione stradali e fluviali.
Le rivoluzioni del 1848-49
Le premesse e i caratteri comuni delle
rivoluzioni
Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria
di ampiezza e intensità straordinarie. Non a caso
l'espressione "quarantotto" è diventata da allora sinonimo
di "disordine, sconvolgimento improvviso". Straordinaria
fu innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata
dalle agitazioni. Ma straordinaria fu anche la rapidità con
cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l'Europa
continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico
e alla Confederazione germanica. Un moto così ampio
non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da
alcune premesse comuni, presenti nell'intera società
europea. Un primo elemento comune era dato dalla
situazione economica: nel biennio 1846-47, l'Europa
aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito
prima il settore agricolo, poi quello industriale e
commerciale, provocando carestie, miseria,
disoccupazione. Il disagio economico e l'inquietudine
sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una
crisi di così vaste proporzioni, se su di essi non si fosse
inserita l'azione svolta dai democratici di tutta Europa, in
particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione
comune che affondava le sue origini nella Rivoluzione
francese.
Rivoluzioni del '45-'48
Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la
richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente
intrecciata – in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico
– alla spinta verso l'emancipazione nazionale. Simile fu
anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti
secondo lo schema delle «giornate rivoluzionarie»:
iniziarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle
capitali, sfociate poi in scontri armati.
Il protagonismo delle masse popolari urbane
A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono
gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle
sommosse. A Parigi la componente popolare e operaia si
mosse in relativa autonomia e, spesso in contrasto con le
forze democratico-borghesi, cercò di imporre propri
specifici obiettivi di lotta.
Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio
dei moti, era stato scritto il Manifesto del Partito
comunista di Marx ed Engels, destinato a diventare in
seguito il testo-base della rivoluzione proletaria. Questa
convergenza di date ci aiuta a capire come mai il 1848 sia
stato spesso considerato l'anno ufficiale di nascita del
movimento operaio.
Le cause della sconfitta democratica
Le rivoluzioni del 1848-49 si chiusero tutte con una
sconfitta: la causa principale di questo generale fallimento
va individuata nelle profonde fratture ideologiche e
programmatiche che attraversavano al loro interno le
forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo
sempre più le correnti democratico-radicali dai gruppi
liberai-moderati. Questi ultimi, spaventati dalla minaccia
della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie
classi dirigenti. I democratici, lasciati soli a sostenere lo
scontro politico e militare con i governi e privi di una
consistente base di massa, erano inevitabilmente destinati
a essere sconfitti.
Paradossalmente in Francia l'esito fu, come vedremo nel
paragrafo seguente, la nascita di un sistema politico
autoritario fondato su un ampio consenso popolare legato
alla tradizione rivoluzionaria di matrice napoleonica.
Altrove la sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria non
cancellò però quanto di nuovo era emerso dall'esperienza
del '48-49. Le aspirazioni verso una più ampia
partecipazione al potere politico e gli ideali di
unificazione e di indipendenza nazionale costituivano
ormai un passaggio obbligato per alcuni paesi europei,
come la Germania e l'Italia.
Il '48 in Francia. Dalla Seconda Repubblica
al Secondo Impero
La caduta della monarchia liberale
In Francia, la rivoluzione prese avvio ancora una volta da
Parigi. I limiti della monarchia borghese apparivano
ormai intollerabili a un vasto fronte di opposizione che
andava dai liberali progressisti ai democratici, dai
bonapartisti ai socialisti. Per i democratici, in particolare,
l'obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia
la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi
senza distinzione di reddito o di condizione sociale.
Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici
cercarono di trasferire la loro protesta nel «paese reale».
Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei
banchetti: grandi riunioni svolte in forma privata che
aggiravano i divieti governativi di riunione e consentivano
ai capi dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in
contatto e di far propaganda per la riforma elettorale.
L'insurrezione di febbraio
Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il
22 febbraio 1848 a Parigi, a innescare la crisi
rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini
organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per
impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale.
Espressione della borghesia cittadina, la Guardia
nazionale era stata impiegata più volte per reprimere
agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata
a difendere un governo largamente impopolare, finì col
fare causa comune con i dimostranti. Dopo due giorni di
barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350
morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio
Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa veniva
costituito un governo che si pronunciava decisamente a
favore della repubblica — la cosiddetta Seconda
Repubblica, dopo quella rivoluzionaria del 1792 – e
annunciava la convocazione di un'Assemblea costituente
da eleggere a suffragio universale maschile. Nel governo
figuravano tutti i capi dell'opposizione democratico-
repubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Louis
Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert.
L'inclusione di due rappresentanti dei lavoratori nel
governo – una novità assoluta nella storia europea –
rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle
giornate di febbraio, e sottolineava il carattere "sociale"
della nuova Repubblica.
Il diritto al lavoro
Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva
fissato in undici ore la durata massima della giornata
lavorativa e – cosa ancora più importante – aveva stabilito
il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata
rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo
fondamentale dell'economia capitalistica, quello del pieno
impiego. Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono
istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: 'officine
nazionali'). Il nome faceva pensare a quegli ateliers
sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato, come vere e
proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi
all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata
com'era alla necessità immediata di aiutare i disoccupati.
Gli operai degli ateliers furono infatti impiegati in lavori
di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e
posti alle dipendenze del ministero dei Lavori pubblici.
Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi
problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di
profondo contrasto in seno allo schieramento
repubblicano, la cui ala moderata considerava
incompatibile con i princìpi del liberismo economico un
intervento diretto dello Stato nel mercato del lavoro.
Il governo dei moderati e l'insurrezione di
giugno
Una prima netta sconfitta per le correnti di estrema
sinistra venne dalle elezioni per l'Assemblea costituente,
che si tennero in aprile, a suffragio universale. I vincitori
furono i repubblicani moderati, che costituirono l'ossatura
del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti
Blanc e Albert. Il governo emanò subito un decreto con
cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux. La
reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea.
Il 23 giugno, oltre 50 mila popolani (fra cui molti
lavoratori degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri
popolari ricomparvero le barricate. In risposta,
l'Assemblea costituente concesse pieni poteri all'esercito
per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni
successivi con spietata durezza. Migliaia di insorti
trovarono la morte sulle barricate o nelle esecuzioni
sommarie che seguirono gli scontri. Le tragiche giornate
di giugno segnarono una svolta decisiva nella breve storia
della Seconda Repubblica.
Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei
lavoratori parigini dava corpo all'incubo della rivoluzione
sociale, allo «spettro del comunismo». Gran parte della
società francese – dalla borghesia urbana al clero, ai
contadini irritati per l'aumento delle tasse – fu attraversata
da un'ondata di riflusso conservatore.
L'ascesa di Luigi Napoleone Bonaparte
In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande
maggioranza la nuova Costituzione: una costituzione
democratica, ispirata al modello statunitense, che
prevedeva un presidente della Repubblica eletto
direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e
un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a suffragio
universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i
repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori
fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone
Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore (quel Luigi
Bonaparte che aveva occupato il trono olandese).
Nonostante avesse un passato da cospiratore, l'allora
quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie
assicurazioni alla destra conservatrice e clericale mentre
garantiva, per la sola forza del suo nome, una sicura presa
su vasti strati di elettorato popolare. Il calcolo si rivelò
esatto: una vera e propria valanga di voti si riversò su Bo
naparte. Si chiudeva così definitivamente la fase
democratica della Secondi Repubblica.
La nascita del Secondo Impero di Napoleone III
Nel giro dei successivi tre anni le conquiste democratiche
furono spazzate via. Intorno alla figura del presidente
della Repubblica si raccolse un consenso che poggiava
sugli elementi conservatori, sui clericali e sulla mai sopita
tradizione napoleonica che recluta va aderenti in tutta la
Francia urbana e rurale. Nel dicembre 1851, con un colpo
d Stato sostenuto dall'esercito, la Camera fu sciolta e
diecimila oppositori arrestati deportati. Secondo la prassi
napoleonica un plebiscito a suffragio universale convalidi
l'operato di Bonaparte. La Seconda Repubblica era ormai
tale solo di nome. E la finzione fu abolita, nel dicembre
1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una
maggioranza ancor più schiacciante di quella dell'anno
precedente, la restaurazione dell'Impero. Luigi Napoleone
assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque
incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto
nel 1832 a Vienna) col diritto di trasmettere il titolo
imperiale ai suoi eredi.
Il '48 nell'Europa centrale
La rivolta nell'impero asburgico
Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di
febbraio si propagò in poche settimane a gran parte
dell'Europa. Ma, diversamente da quanto era accaduto in
Francia, la componente «sociale» rimase in secondo piano
e lo scontro principale fu combattuto fra le borghesie
liberali – con l'appoggio di consistenti settori delle classi
popolari – e le strutture politiche tradizionali.
Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a
Vienna, il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu una
grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente
repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti,
la corte fu costretta ad allontanare il cancelliere
Metternich: l'uomo-simbolo dell'età della Restaurazione
dovette rifugiarsi all'estero.
Le notizie dell'insurrezione di Vienna e della fuga di
Metternich fecero precipitare la situazione nelle irrequiete
province dell'Impero asburgico e nella vicina
Confederazione germanica. Il 15 marzo vi furono tumulti
a Budapest. Il 17 e il 18 si sollevavano Venezia e Milano.
Negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a
Berlino, capitale della Prussia. Il 19 marzo i cittadini di
Praga inviavano una petizione all'imperatore chiedendo
autonomia e libertà politiche per i cechi. In maggio
l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere
la convocazione di un Parlamento dell'Impero, il
Reichstag, eletto a suffragio universale.
La rivoluzione a Budapest e a Praga
In Ungheria le promesse del governo imperiale di
concedere una costituzione e un Parlamento non
riuscirono a fermare l'agitazione autonomista. Sotto la
spinta dell'ala democratico-radicale, che faceva capo a
Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi
per creare a Budapest un governo nazionale e per agire in
totale autonomia da Vienna. Fu decretata la fine dei
rapporti feudali nelle campagne, una misura che contribuì
a ottenere l'appoggio dei contadini. Fu eletto un nuovo
Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine,
Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale,
primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva
ormai l'obiettivo finale degli insorti.
Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo
provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento
liberale, non mettevano in discussione i legami con la
monarchia asburgica e si limitavano a chiedere più ampie
autonomie. Ma alcuni incidenti scoppiati fra la
popolazione e i militari fornirono all'esercito il pretesto
per una dura repressione: Praga fu assediata e bombardata
e il governo ceco fu sciolto d'autorità.
La riscossa dell'Austria
La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per
il potere imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la
fedeltà dell'esercito non erano state intaccate dagli ultimi
rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la svolta si
consolidò. Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima
volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse
nazionalità – l'unica decisione di portata storica fu
l'abolizione della servitù della gleba in tutti i territori
dell'Impero in cui era ancora in vigore –, il governo
centrale riprendeva gradualmente il controllo della
situazione. In agosto, sotto la protezione dell'esercito,
l'imperatore rientrava a Vienna. Ma ai primi di ottobre
nella capitale scoppiava una nuova insurrezione di
studenti e lavoratori per impedire la partenza di nuove
truppe per il fronte ungherese. Alla fine del mese Vienna
fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi
combattimenti. La rivoluzione nell'Impero asburgico
veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche
settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava in
favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel
marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d'autorità il
Reichstag e promulgò una Costituzione che prevedeva un
Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri
molto limitati, e ribadiva al tempo stesso la struttura
centralistica dell'Impero.
L'insurrezione di Berlino e l'Assemblea di
Francoforte
Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania. A
Berlino, il 18 marzo del 1848, imponenti manifestazioni
popolari costrinsero il re Federico Guglielmo IV a
convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Intanto
agitazioni e sommosse erano scoppiate nella
Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi
spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente
dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria
compresa. A metà maggio l'Assemblea aprì i suoi lavori a
Francoforte in un clima di generale entusiasmo. Ben
presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non
aveva i poteri necessari per imporre le proprie decisioni ai
sovrani degli Stati tedeschi e per avviare un processo di
unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che
dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante,
la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberai-
democratico rientrò rapidamente, anche perché la
borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel
frattempo si andavano intensificando (in estate vi furono
sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia e a
Francoforte). Ai primi di dicembre Federico Guglielmo
sciolse il Parlamento prussiano ed emanò una
Costituzione assai poco liberale. Frattanto, i lavori
dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente
assorbiti dalle dispute sulla questione nazionale e dalla
contrapposizione fra «grandi tedeschi» e «piccoli
tedeschi»: i primi miravano a un'unione di tutti gli Stati
germanici intorno all'Austria imperiale, i secondi
sostenevano invece uno Stato nazionale più compatto, da
co struirsi intorno al nucleo principale del Regno di
Prussia. A prevalere, dopo lunghe discussioni, fu alla fine
la tesi «piccolo-tedesca». Ma quando, nell'aprile 1849,
una delegazione offri al re di Prussia la corona imperiale,
questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da
un'assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il
rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della
Costituente, che fu sciolta nel giugno 1849.
La repressione finale e la sconfitta dei
democratici
Si andavano frattanto spegnendo gli ultimi fuochi della
rivoluzione che, a partire dal marzo 1848, aveva
attraversato l'intero Impero asburgico compresa l'Italia. In
marzo gli austriaci sconfiggevano definitivamente i
piemontesi in luglio si concludeva, grazie all'intervento
francese, l'esperienza della Repubblica romana, in agosto
le truppe imperiali schiacciavano l'ultima resistenza di
Venezia e dell'Ungheria. Per aver ragione degli
indipendentisti magiari, che avevano ripreso il controllo
del paese profittando anche dell'impegno austriaco in
Italia, il governo di Vienna dovette chiedere l'aiuto
militare della Russia. La sconfitta dei democratici era a
questo punto completa.