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Petali vorticanti

Anila Resuli

花 吹 雪

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Petali vorticanti

Anila Resuli

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Prima edizione: marzo 2009

Ebook © Edizioni foglia

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sostieni la mia pelle sulla tua bocca e fanne un ramo come un osso d’albero che si lacera e si trattiene; volgi qui un po’ del tuo occhio sorpreso del mio odore. sapessi quanto aspettare richiede l’amore; sapessi come io, lunga, dal mio ventre al tuo ginocchio mi sorprendo altra. piccola ma greve, la fiamma s’incastra alla tua bocca e al tuo dente, forte, diviene ancora.

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qui parla e qui s’allontana la foglia: l’autunno ci migra addosso come polline storpio che sgola al mare. altra mano, la tua, a disegnare ciò che in corpo ha vita sterile, ciò che denuda e che brucia come un fiato scemato senza scendere in gola. lì, si termina in uno; in un’unica testa con gambe congiunte a fisarmonica; in un unico braccio che incarna il possesso e più non si strappa. così l’anima s’appresta a finire dentro la tua carne, un pezzo alla volta, ancora ed ancora.

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sorprendi per come la palpebra inganna ciò che di te assesta il giorno sopra la mia ombra: tutto ha volto qui e tutto ha bocca. masticare – a granelli appena – l’anima, è darle un nome nuovo e corpo altro; forse nuovi sappiamo dove arrivano gli occhi, il colore delle bocche, la pelle smistata al sole, le case che una nell’altra prendono forma in noi, le nostre mani silenziose; le pietre guardano e io so nulla di te. distacco solo un ciglio dal battito per rendere viva la ragione.

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dentro, come un osso bucato al collo, una ghiandola che opprime il respiro, un fiato oppresso già prima di nascere - dimentichi come e dove l’amore ci ha corteggiato le vene, e poi strappato una ad una lasciandoci sventrati dalla solitudine. – sappiamo: m’accorgo e non so dire, come urlare esprima più della parola; nella carne osservo le tante vie del sangue fino al vuoto che assedia la mente – la ragione, l’andirivieni dell’essere è una goccia trafitta nel mare una sola prima di vivere, ancora.

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qui gli umori sono trappole come corde vive che s’arrestano soltanto alla fine. la loro stessa bocca la nostra irride. marca il sole qui e il raggio nella tua gola sorprende per la forma circolare. t’incarni sì, nelle pietre che ogni muro assoda, nella pioggia che tormenta non solo l’ansia del soffitto, ma gli occhi così correnti e sfiniti nel corpo delle pareti, tanto basta.

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incassi la mia anca come fosse normale attingere dal fiato un po’ di pudore: le mie mani sanno che i vetri pietrificano quando ho pena d’amare. orrenda la gola, orrendo il piede che ne fa una cava intera, un bordo proprio di ciò che in fine lascia fine, e se ne vergogna. ti penti, dillo – del mio sesso ultimo, una scorciatoia di carne che in te s’arrende, una pietra o una cozza che presa ha odor di mare – che l’alba consumi poco la mia fede come fossi un corpo zoppo sulle tue bocche coi tuoi tratti d’animale, di fine precoce.

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e forse un nodo conosce mille modi per slegarsi: si trattiene così poco alle mani da aver paura di contare le memorie, le dita conche e le lingue larghe poi fino a stringersi quasi in croce. le mura qui sanno chi sono. sanno dove il mio cordone ombelicale termina e dove ha inizio la mia sete. sono sterile di notte, come una lunga luna che s’incastra all’occhio, appena ci corteggia la sera.

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m’arrendo pure se ogni caso deve essere causa di partenza. il dimenticare a volte ha più nomi di te sulla mia bocca. un fiume scorre meno se gli argini s’accorgono delle lame dei nostri occhi. ho forse altro da dire o da dare ad un cuore come il tuo: pietra dopo pietra, un tormentarsi continuo è il lapidarmi di questo addio.

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mostra come la tua carne dimora nella mia quiete con un movimento leggero dell’anca che poco s’appresta all’amore. avessimo tempo come tanto perdono sarebbe migliore la fine. le mani s’agganciano alle ginocchia e s’arrendono dunque per prendere il fiato alle ore e disdire i tuoi baci ha sempre una virgola d’amo all’anima, che mai s’arrende con l’andare.

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