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Partiti politici, forma di governo
e forma di Stato (di democrazia pluralista) di Silvio Gambino
1. Partiti politici, forma di Stato e forma di governo. Note metodologiche e
sottolineature problematiche per una introduzione al tema
Per chiunque voglia seguirla nelle stesse declinazioni teorico-costituzionali, fin dai
primi anni ’70 del secolo scorso è disponibile un’approfondita analisi teorica sulla
natura giuridica e sulla trasformazione dei partiti politici, e sui condizionamenti delle
istituzioni rappresentative e di governo conseguiti dagli stessi, in breve sui rapporti
fra rappresentanza politica, democrazia partecipativa e democrazia di partito. Ne
proponiamo qui una breve sintesi prima di procedere nell’analisi delle evoluzioni più
recenti della forma-partito e della relativa crisi.
La rilevanza dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale – cresciuta nel
tempo in ragione dello sviluppo delle relative funzioni – oltre che nell’ambito
associativo – nelle attività a rilevanza pubblicistica degli stessi, nonché della stessa
capacità di incidere sull’intera impalcatura costituzionale dello Stato contemporaneo
– costituisce ormai un dato pienamente condiviso dalla dottrina costituzionale italiana
e, più in generale, da quella europea (a partire dalle analisi del Triepel, negli anni
’20).
Tale orientamento pone termine a una lunga e contrastata evoluzione in cui si sono
confrontate due opposte correnti di pensiero, una che individuava nel partito politico
la natura di associazione privata (venendo disciplinato sotto il profilo civilistico dagli
artt. 36-39 c.c.) e l’altra che, al contrario, ne coglieva una natura a rilevanza
pubblicistica, di organo o quasi-organo dello Stato.
Più di recente, anche in ragione dell’instabilità e della difficoltà dei governi a darsi
indirizzi politici stabili e coesi e per il persistere della crisi istituzionale, la questione
si ripropone anche come questione di politica costituzionale, orientata alla ricerca di
soluzioni (più o meno radicali) di riforma.
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In tale ultimo approccio rilevano sia le questioni inerenti al partito (individuato
come singolo e come sistema), al posto e al ruolo occupati nel sistema costituzionale,
alla questione della sua democraticità interna, sia i relativi rapporti con le istituzioni
costituzionali di governo e gli stessi ripensamenti della dottrina costituzionale in
materia, chiamata a riflettere sullo stesso metodo giuridico-costituzionale utilizzato al
fine di renderlo più adeguato alla comprensione delle complesse fenomenologie delle
forme di stato e di governo contemporanee.
L’orientamento dottrinario orientato a sottolineare nel sistema dei partiti – oltre
all’elemento del ‘concorso’ nella definizione delle politiche nazionali (art. 49 Cost.) –
un processo (complesso, dialettico e giuridicamente incompiuto) di trasformazione
dell’originario modello della democrazia rappresentativa, si afferma embrionalmente
nei primi anni ’20 e pienamente a partire dagli anni ’40, trovando linee di riflessione
comune alla dottrina costituzionale tradizionale e a quella che potremmo definire ‘più
moderna’.
È trascorso ormai più di una metà di secolo da quando, in Italia, V.E. Orlando,
costituzionalista di formazione classica, si era cimentato (in particolare in uno dei
suoi ultimi scritti) in un tentativo – rimasto incompiuto – di sistemazione
metodologica dei partiti politici all’interno della scienza costituzionale, riconoscendo
la necessità di avviare uno studio finalizzato ad elaborare una nuova teoria dei partiti
che potesse servire per una più adeguata comprensione del mutamento profondo nella
vita degli Stati contemporanei.
Nella sua analisi, egli sottolineava con lucidità – registrandone pienamente l’effetto
dirompente rispetto all’organizzazione costituzionale dei poteri esistente – il ruolo
significativo che andava assumendo lo sviluppo dei partiti nella profonda
trasformazione della struttura dei regimi politici e della stessa forma dello Stato
moderno (e contemporaneo).
Nella stessa direzione, qualche anno più tardi, introducendo un omologo studio sul
‘partito nello ordinamento giuridico’ – destinato a divenire un classico nello studio
dei rapporti fra partiti politici ed ordinamento costituzionale – Pietro Virga osservava
che “sia che i partiti siano assurti ad elementi costitutivi del sistema di governo
(‘Stato di partiti’), sia che un unico partito abbia informato ai suoi princìpi lo stesso
ordinamento dello Stato divenendone l’elemento motore (‘Stato-partito’), non si può
negare che, parallelamente allo sviluppo ed all’organizzazione dei partiti, si sia
profondamente mutata la realtà costituzionale”.
Se, da un approccio generale, l’analisi si volge a considerare le carte costituzionali,
per cogliere il grado di istituzionalizzazione e di costituzionalizzazione conseguito in
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esse dai partiti, si può osservare che le ragioni dell’attenzione e del ruolo attribuito ad
essi nelle nuove costituzioni della fase storica che va dalla fine della prima guerra
mondiale all’inizio della seconda deve attribuirsi – unitamente ad altri fattori storico-
politici – ai loro autori, molto spesso uomini di partito, che in questo modo tendevano
a legittimare la loro azione diplomatica e/o rivoluzionaria.
Ma le ragioni teoriche profonde sono da individuare soprattutto nella ricerca di
meccanismi di ‘razionalizzazione’ del potere, concepiti come ricerca di strumenti per
il bilanciamento fra i poteri dello Stato, che apparivano, nel tempo,
significativamente sfasati a causa dell’ingresso sulla scena politico-istituzionale, in
modo organizzato, del popolo, inteso sia nella sua generalità, sia – e forse soprattutto
– nelle sue articolazioni in gruppi e classi sociali portatori di interessi fra loro
confliggenti.
A un esame anche sommario, infatti, i testi costituzionali di questo periodo
dimostrano una notevole incertezza nei confronti dei partiti, come, più in generale,
nei confronti dell’associazionismo politico e sindacale. Solo alcune costituzioni si
spingono fino a riconoscere in modo esplicito i partiti e ad attribuire loro ruoli
rilevanti; fra di esse, come è noto, la Legge Fondamentale di Bonn (art. 21) perviene
al processo più spinto di attrazione del partito nell’ambito costituzionale.
Ispiratore principale, in modo diretto o indiretto, di questo atteggiamento delle
costituzioni europee verso i partiti, e più in generale del modello di democrazia
politica che si va affermando (ispiratore egli stesso della Costituzione austriaca del
1920), è senz’altro il Kelsen degli studi teorico-dogmatici sul diritto e sullo Stato.
La concezione kelseniana della democrazia – come è noto – ha fondamenti ben
diversi da quelli radicali-giacobini teorizzati dal Rousseau, secondo cui la
individuazione della ‘sovranità’ nella ‘volontà generale’ della collettività implicava
necessariamente indivisibilità e rifiuto della delega. La libertà del singolo, in questo
modello, viene garantita dal suo assoggettamento alla legge. Tuttavia, la produzione
di tale ‘strumento di libertà’, la legge, in una collettività dagli interessi e dai valori
sostanzialmente disomogenei, non potrà essere che l’atto finale di un compromesso
fra maggioranza e minoranza, in cui quest’ultima cercherà di far passare nella
decisione finale la maggior parte possibile delle proprie domande ed aspettative.
Con Kelsen si ha, così, l’affermazione di una teoria della sovranità del popolo che
si contrappone alla teoria della ‘sovranità nazionale’: una teoria che nega
l’attribuzione della sovranità a una entità astratta, come la nazione, per ripartirla –
restando sempre integra – fra la totalità dei soggetti che compongono lo Stato-società.
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Le conseguenze di una simile teorizzazione sono ovvie; con il principio della
rappresentanza del corpo elettorale, ogni deputato rappresenterà una parte della
collettività. In questo modello, la rappresentanza suppone l’esistenza e
l’organizzazione dei partiti politici, soprattutto per presiedere alle fasi costitutive
delle liste elettorali ed alla sorveglianza delle operazioni elettorali. Nella concezione
kelseniana, così, è il partito, in base al consenso numerico di cui dispone, a dover
selezionare i propri deputati da mandare in Parlamento.
Se ne può concludere che se nelle costituzioni del primo dopoguerra non sono state
trasfuse tutte le intuizioni del Kelsen, la maggior parte di esse sono senz’altro
presenti nel definire il quadro giuridico delle associazioni-partiti, che costituiscono, al
contempo, le premesse teoriche per l’evoluzione ulteriore che il rapporto Stato-partiti
registrerà nelle costituzioni del secondo dopo-guerra.
Ma il processo di avvicinamento dei partiti allo Stato – e con esso la ridefinizione
fattuale del suo funzionamento – non è certo un processo lineare, unidirezionale e
senza contraddizioni.
Nella fase di transizione dallo Stato liberale (monoclasse, secondo l’appropriata
definizione-descrizione del Giannini) allo Stato ‘sociale’ contemporaneo (pluriclasse)
si introduce, così, uno degli elementi fondamentali nella definizione dei sistemi
politico-istituzionali contemporanei. Esso è dato, in via generale, da un insieme di
attività dello Stato che concretizzano un principio definibile di auto-tutela, che si
esplica in modo precipuo attraverso l’espunsione dal sistema politico-istituzionale del
partito o dei partiti ritenuti anti-istituzionali, cioè dei partiti la cui ‘lealtà’ sostanziale
ai principi liberal-democratici posti a base degli ordinamenti costituzionali, alle
regole di fondo della democrazia liberale non appaia garantita.
Questo modello, che si è riprodotto, nella sua forma più abnorme, nei regimi
fascista, nazista, franchista, salazarista, consiste nella reazione violenta dello Stato
contro i partiti nella loro pluralità per lasciare spazio, nella teoria e nella pratica
politica, al partito-unico che diviene espressione e sintesi dell’unità della nazione –
concepita essa stessa con forti contenuti etico-idealistici – e si fa al contempo organo
dello Stato-persona. Tale evoluzione si rafforza mutando le forme in cui si esprime
con il procedere negli anni verso la grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso e con
il processo di delegittimazione sostanziale a cui la crisi economica sottoponeva il
sistema politico nelle più diverse realtà nazionali.
L’analisi dottrinaria relativa ai rapporti (nel diritto e nella realtà) fra partiti politici
e Stato s’inscrive, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, nel contesto di una
chiara tendenza al superamento delle concezioni tradizionali del diritto, che se non
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comportano il superamento del rigido approccio formalistico ai problemi del diritto (e
dello Stato) almeno favoriscono una più attenta riconsiderazione dei complessi
rapporti esistenti tra la realtà sociale ed il complesso delle norme, in un tentativo di
riconoscimento del continuum pregiuridico-giuridico che solo riesce a rendere la
complessità dell’ordinamento giuridico vigente, della c.d. costituzione ‘vivente’,
‘reale’.
Peraltro, tale tendenza appare ancora più rilevante all’interno della scienza
costituzionale, dove forte è l’insoddisfazione da parte dello studioso per una scienza
meramente esegetica, incapace di identificare i fini e i valori della società e dove viva
è l’esigenza di una più adeguata comprensione degli istituti giuridici e degli stretti
rapporti esistenti tra essi e le norme fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Nella prospettiva di tale sforzo di rinnovamento metodologico, la novità
fondamentale dello studio dei partiti (e del loro inserirsi fattualmente nella
organizzazione costituzionale dello Stato), considerati sia nel loro aspetto sociologico
(partiti di massa o di quadri, partiti istituzionali o anti-istituzionali, partiti cartello,
ecc.), sia nel loro aspetto di sistema, consiste nel fatto che essi costituiscono ormai un
elemento fondamentale per giungere all’identificazione della forma dello Stato e del
suo modello organizzativo, la forma di governo.
Sia l’una che l’altra non si definiscono più in termini astrattamente fissi quanto
piuttosto, come sottolinea L. Elia, in funzione dinamica, “come parti del diritto
costituzionale vivente”, non potendosi più trascurare le reciproche influenze e
interferenze che vanno istaurandosi tra le due figure, fino al punto che l’instabilità
dell’assetto governativo opera in termini fortemente negativi sulla stessa vitalità-
sopravvivenza della forma dello Stato. Proprio in questo rinnovamento metodologico,
che ha imposto alla dottrina costituzionale una verifica di forme e di contenuti, trova
ampia giustificazione il tentativo di assumere il sistema dei partiti come un elemento
imprescindibile nello studio dei governi parlamentari di tipo rappresentativo, come un
elemento fondamentale per comprendere il funzionamento del meccanismo
costituzionale complessivo.
In tal senso, nell’approccio alla living Constitution, diviene obiettivo primario
l’analisi della rilevanza dei partiti politici, nella loro duplice e dialettica
configurazione giuridica, all’interno dei sistemi di governo degli stati contemporanei.
Essi si presentano, infatti, come organi costituzionali sostanziali di indirizzo politico
in posizione di parità giuridica e al contempo come associazioni di tipo privato e
dunque strettamente collegate alla società.
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La concezione dello Stato contemporaneo come ‘Stato di partiti’, così, costituisce
un apporto rilevante a una moderna teoria dello Stato democratico-rappresentativo.
Come si è ricordato, essa fu in gran parte elaborata, anche sotto il profilo dogmatico,
dalla dottrina tedesca degli anni ’20 del secolo scorso e solo successivamente fatta
propria da quella italiana, passando per un approccio metodologico, quello
mortatiano della ‘costituzione materiale’ che, nella realtà (almeno a livello
tendenziale), risulta per più profili giustificazionistico di prassi di occupazione
indebita di poteri costituzionali. Con essa sembra farsi maggiore chiarezza su tutta
una serie di problematiche che il costituzionalismo classico non riusciva più ormai a
risolvere, fermo com’era a concezioni ancora asettiche e statiche delle forme di Stato
e di governo, in cui non trovavano posto i moderni e complessi problemi imposti
dalla crisi non solo del parlamentarismo ma anche dei partiti.
Pur costituendo un indubbio passo in avanti nell’elaborazione dottrinaria, lo ‘Stato
dei partiti’, nell’accezione che ne ha offerto la dottrina costituzionale, tuttavia, non
riesce più a cogliere in modo adeguato la complessità della problematica dello Stato
contemporaneo. Ed è qui che la scienza costituzionale avverte maggiormente, nella
fase attuale, la necessità di recuperare la propria socialità e pertanto di ricorrere
all’ausilio di altre scienze, per comprendere a fondo gli stretti rapporti d’interazione
esistenti fra l’insieme delle strutture, comportamenti sociali e ambiti giuridici al fine
precipuo di rispondere alle problematiche poste dall’effettività delle norme giuridico-
costituzionali.
In questo contesto, assume rilievo e significato l’analisi del ruolo effettivo svolto
da tutte le formazioni sociali e politiche diverse dai partiti che operano sia attraverso
forme dirette di pressione sul potere esecutivo sia attraverso forme di democrazia
semi-diretta come il referendum, l’iniziativa popolare ma anche l’associazionismo e
l’azione sindacale.
In questa nuova luce appaiono nettamente i limiti della concezione dello Stato
contemporaneo come ‘Stato di partiti’, che sembra attribuire in modo riduttivo ad
alcune strutture soltanto, investite da un processo evidente di istituzionalizzazione, le
funzioni di rappresentanza e di mediazione della realtà sociale all’interno dello Stato-
persona, laddove il sistema prefigurato dalla Costituzione nei suoi primi tre articoli e
nell’art. 49 rifiuta tale interpretazione per accogliere nel diritto di partecipazione
‘permanente’ dei cittadini alla determinazione della politica nazionale tutte le
conseguenze di un simile capovolgimento di prospettiva.
È quanto costituisce parte rilevante della dottrina costituzionale quando,
sottolineando l’ambiguità di talune categorie costituzionali, affronta la mutata
prospettiva di analisi in termini di ‘Stato di democrazia pluralista’ o ‘Stato di
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democrazia partecipativa’, con tale terminologia sottolineando la necessità di
considerare la realtà sociale nella sua complessa e conflittuale articolazione.
Come si può osservare, in breve, nel quadro dell’esigenza di rinnovamento della
metodologia scientifica nel campo della scienza giuridica e soprattutto in quello del
diritto costituzionale – diritto che è, per sua natura, ‘di frontiera’ – il problema
fondamentale non è più quello di una mera analisi della ‘costituzionalità’ o meno del
sistema dei partiti nei suoi rapporti con lo Stato, quanto piuttosto di verificare, non
più in termini di modello astratto, la concreta funzionalità delle forme di governo
dello Stato contemporaneo, caratterizzate e ridefinite dalla presenza dei grandi partiti
di massa.
Tale impostazione, che comincia a farsi strada anche nella dottrina più tradizionale,
finisce però con il concentrare l’attenzione sulle relazioni tra i partiti e le istituzioni
tipiche del sistema di governo parlamentare (sostanzialmente sul binomio partiti-
Parlamento e partiti-Governo) mettendo in secondo piano elementi fondamentali
della fenomenologia dei rapporti politici che pure avevano dato corpo alla crisi del
sistema stesso.
I partiti politici, come si può cogliere dalle considerazioni finora svolte, non si
limitano soltanto ad incidere sulla forma di governo per organizzare il proprio
concorso partecipativo, ideologicamente caratterizzato; essi incidono sulla stessa
forma dello Stato, costituendone la cosiddetta ‘costituzione materiale’, il ‘regime
politico’.
In tale ottica, risulta ormai del tutto superata la tradizionale querelle teorico-
politica che, con il termine ‘partitocrazia’, assumeva ogni tipo di critica sulla scarsa
capacità rappresentativa dei partiti e sulla relativa invadenza negli ambiti propri dei
soggetti titolari di sovranità.
Il sistema dei partiti, dunque, sia nella sua funzione di impulso che in quella di
condizionamento delle istituzioni costituzionali costituisce un dato sempre più
accettato, almeno dalla dottrina prevalente.
Risultano inaccettabili sotto tale profilo quegli orientamenti dottrinari i quali
assumono che “solo attraverso la partecipazione alla vita di un partito il cittadino può
aspirare ad esercitare pienamente i suoi diritti sovrani o, che fa lo stesso, che la
sovranità popolare si realizza solo attraverso i partiti politici”.
Così, se rientra indubbiamente nell’aggiornamento del modello costituzionale il
riconoscimento ai partiti politici della funzione di organizzare il popolo secondo una
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data ideologia, dando voce agli interessi e alle esigenze dei paese reale, nella sua
concreta articolazione di ceti, formazioni sociali e gruppi contrastanti, ciò che risulta
meno convincente in tale modello esplicativo è piuttosto la concezione secondo cui la
sovranità del popolo si esaurirebbe in modo esclusivo (o quasi) nei partiti, i quali,
così, da strumento di rappresentanza, di mediazione fra corpo sociale e Stato
finiscono per trasformarsi in uno dei poli di tale raccordo.
L’allusione al partito-Stato, alla Inkorporierung della tipizzazione del Triepel è
sufficientemente evidente per non avvertire l’esigenza di sottolineare i limiti di una
siffatta concezione. Rispetto al problema del singolo partito si può agevolmente
concludere che, se risultano valide le osservazioni finora svolte, siamo in presenza di
una doppia istituzionalità (interna ed esterna) e si è in presenza altresì di una tendenza
che vede il partito (e il sistema dei partiti) perdere quelle funzioni di tramite
permanente, costituendosi spesso come un pericoloso diaframma, uno strumento di
organizzazione – più che di rappresentanza – della società nello Stato, finendo in tal
modo con il restringere più che ampliare gli spazi di libertà della moderna
democrazia.
Passando nuovamente a riflettere, sia pure brevemente, sulla questione della natura
giuridica del partito politico e degli orientamenti dottrinari affermatisi sul punto nei
tempi più recenti, si può ricordare che, soprattutto nella prima fase della riflessione
dottrinaria, sviluppatasi alla fine degli anni ’50 del secolo scorso con significativi
contributi, l’analisi giuridica dei partiti politici si era concentrata sull’esegesi dell’art.
49 Cost. (in alcuni autori ancora disancorata da una interpretazione sistematica della
norma costituzionale) pervenendo ad una conclusione sulla natura meramente
associazionistica degli stessi, per i quali veniva prevista la mera tutela giuridica
accordata alle associazioni non riconosciute.
Una parte della dottrina, sia pubblicistica che privatistica, aveva qualificato tale
interpretazione con argomenti che l’avevano portata a sostenere che la natura
privatistica per le associazioni partitiche sarebbe stata maggiormente in grado di dare
efficace tutela ed adeguato rilievo alla libertà di associazione politica di concorrere
alla formazione della volontà statale di quanto non potesse, invece, fare una
concezione del partito intesa come organo o quasi-organo dello Stato. Tuttavia, tale
considerazione rinviava a concezioni di organicismo statuale che era stato senz’altro
volontà dei costituenti superare, dopo il pesante smacco per le libertà civili e politiche
nel regime fascista, con la giuridicizzazione-statalizzazione della realtà sociale che
esso aveva perseguito.
Benché non aliene da riflessi antistatuali, spesso immanenti in una parte della
cultura delle istituzioni (a cui si ascrivono prevalentemente tali orientamenti
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dottrinari, in gran parte dovuti a giuristi di orientamento cattolico), tali
argomentazioni, che mirano ad accentuare l’insediamento sociale dei partiti e quindi
la loro natura di ‘formazioni sociali’, come si è già osservato, non appaiono adeguate
a spiegare tutta una serie di fenomeni nuovi (prassi e convenzioni), con i relativi
riflessi e condizionamenti che è possibile osservare nel reale funzionamento delle
istituzioni rappresentative, le quali, come è noto, si presentano come ampiamente
discordanti dal modello costituzionale.
Senza soffermarsi oltre a discutere la validità di un simile approccio metodologico
nell’analisi dottrinaria, che si dà quindi come presupposto, così, si può osservare che,
se si parte da un’interpretazione più ampia dell’art. 49 Cost., mirante a cogliere la
stretta interconnessione della sua previsione normativa nell’ambito più generale del
sistema di democrazia previsto dai costituenti, non si può che trovare angusta ed
inadeguata la natura associazionistica di tipo privato che quest’orientamento
dottrinario ha individuato per il partito politico, benché l’ordinamento positivo
propenda in modo prevalente per tale indirizzo interpretativo.
Benché, con differenziazioni interne, una parte della dottrina gius-pubblicistica ha
sostanzialmente affrontato l’analisi esegetica dell’art. 49 Cost. riconoscendo, accanto
alla necessaria pluralità dei partiti e all’esigenza del ‘metodo democratico’ nel loro
funzionamento interno, una natura giuridico-costituzionale di libere associazioni di
cittadini “istituzionalmente dirette, in concorso dialettico con altrettali associazioni,
alla determinazione della politica nazionale”.
Ma, come si è fatto bene osservare, se l’analisi si ferma a questo risultato rischiano
di sfuggire tutta una serie di altri elementi che a buona ragione la fanno apparire, più
che formalistica, scarsamente adeguata a comprendere il reale equilibrio fra gli organi
costituzionali registrato nella realtà e quindi le vere problematiche, i nodi della forma
statuale della democrazia italiana contemporanea. Per tale diverso approccio più
adeguata appare una indagine ispirata alle dottrine istituzionalistiche del diritto più
che a quelle normativistiche.
Fra i tanti contributi, in tale prospettiva, appare quanto mai opportuno richiamare
in materia una riflessione di C. Esposito circa il ruolo effettivo dei partiti
nell’ordinamento costituzionale reale, per il quale “secondo considerazioni
largamente diffuse solo nelle costituzioni formali o legali degli stati contemporanei
con pluralità di partiti è scritto che le leggi sono fatte da deputati e senatori eletti dai
cittadini e rappresentativi della nazione ... In effetti, invece, all’ombra
dell’impalcatura legalistica della Costituzione, i partiti politici avrebbero nelle mani
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la legislazione, il governo, la giurisdizione e l’amministrazione ... Una costituzione
legale adeguata alla realtà dovrebbe abbandonare le finzioni delle assemblee
legislative composte da liberi deputati, dei governi formati dai capi di Stato ... e
riconoscere che nella comunità statale il potere di direzione politica spetta ai partiti;
dovrebbe inoltre precisare le forme, i presupposti e le conseguenze dell’ascesa dei
partiti al potere, determinare il valore degli accordi tra i partiti (e tra i capo-partiti),
indicare la via per la soluzione dei conflitti insorgenti fra essi”.
In questo autorevole orientamento, come si può osservare, viene richiamata, a mo’
di premessa metodologica generale all’analisi dei partiti nella Costituzione, una
problematizzazione di grande rilievo che ha ad oggetto la questione della effettività
dell’ordinamento costituzionale rispetto alle discrasie cui è sottoposto per
l’insorgenza di attività partitiche ultronee rispetto alle funzioni costituzionalmente
definite per i partiti politici nell’art. 49 Cost.
È nell’ambito di un diverso approccio – conosciuto in dottrina, ormai da tempo,
con la mutevole terminologia – ancorché incerta ed ambigua – di ‘costituzione
materiale’, ‘reale’, ‘vivente’ – che va riconosciuto come l’effettivo potere di indirizzo
politico e la formulazione e l’attuazione delle relative modalità concrete si sia
trasferito ai partiti, in grado come sono di “avere nelle mani” la legislazione, il
Governo, l’amministrazione e – per taluni (riattualizzando un approccio di Minghetti
valido per il secolo scorso) – la stessa giurisdizione.
Si riconosce, così, che non coglie l’effettiva realtà costituzionale chi ritenga ancora
di trovarsi di fronte ad una forma di Stato democratico parlamentare, disconoscendo
ciò che in via di fatto si è andato realizzando: un completo, effettuale, superamento
della democrazia rappresentativa di stampo ottocentesco, fondata sulla centralità
dell’organo parlamentare, nella direzione di una democrazia di massa basata sui
partiti politici, al cui interno, tuttavia, permangono forme, istituti e procedure della
previgente forma democratica, che riappaiono soprattutto in determinate situazioni
limite (voto segreto in contrasto con le indicazioni di partito, ecc.).
Salvo a ritornare su tale problema, che costituisce una questione centrale
nell’approfondimento della tematica oggetto di analisi, occorre ora accennare, anche
se in modo essenziale, alle principali novità metodologiche registrate nel corso degli
anni ’70 e ai più significativi risultati conseguiti nell’analisi dei partiti (considerati sia
uti singuli sia nella loro pluralità, come ‘sistema pluripartitico polarizzato’, come
‘sistema tendenzialmente bipartitico’ o a ‘bipartitismo esasperato’, a seconda delle
varie ipotesi interpretative) da parte della dottrina.
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In tal senso, nell’ambito della dottrina che si è occupata della questione, si deve
fare riferimento, in particolare, alle analisi di due autori che più di altri studiosi della
materia possono individuarsi come capofila di una approfondita analisi dottrinaria sui
partiti, incentrata, al contempo, sia sul singolo partito (colto nella sua dinamica
evolutiva, il c.d. partito ‘situé’), sia sul relativo rapporto con le istituzioni di governo;
oltre a L. Elia, ci riferiamo, in tal senso, a G.U. Rescigno, le cui analisi sono
parimenti fondamentali nel fondare la svolta metodologica nello studio dei partiti
politici come espressione e strumento della trasformazione della democrazia
contemporanea.
Alle loro analisi, in particolare e alle innovazioni nella stessa metodologica seguita
– pur partendo da premesse metodologiche diverse – si possono far risalire le
evoluzioni dottrinarie più significative in materia di partiti politici e lo stesso
riconoscimento dell’esigenza di approfondire l’analisi di tale materia ponendo
nell’obiettivo della ricerca gius-pubblicistica gli stessi aspetti della vita interna dei
partiti e della conseguente dinamica d’interazione con le istituzioni pubbliche.
Secondo quest’orientamento, che parte da premesse diverse ma raggiunge lo stesso
risultato, i partiti non possono considerarsi alla stregua di mere associazioni di diritto
privato, come ritiene parte della dottrina. Essi costituiscono un elemento
fondamentale (come per altro avevano significativamente riconosciuto ricerche sui
partiti, negli anni ‘40, dovute al Ferri e al Virga, per citare una parte soltanto della
dottrina che se ne è occupato con maggiore organicità) per giungere alla corretta
identificazione della forma di Stato e del suo modello organizzativo, la forma di
governo, rendendo obsolete ed inefficaci, a tale scopo, le stesse classiche
metodologie adottate per lo studio comparato delle forme statuali moderne e
contemporanee e della loro evoluzione nel tempo.
Tuttavia, se di tipo prevalentemente metodologiche sono le conclusioni sul punto
cui perviene Elia, le argomentazioni del Rescigno sembrano spingere oltre l’indagine,
richiamandosi ad una metodologia e ad una riflessione di vecchia data nell’ambito
della dottrina più critica, che individua per il partito politico la natura di ente
complesso, che integra, al contempo ed in modo necessariamente correlate, la natura
giuridica delle associazioni private e quella degli organi (o quasi organi) dello Stato
soggetto. La carenza di uno dei due elementi, in un quadro in cui essi si assumono,
come si è detto, necessariamente complementari, per le funzioni cui assolvono nello
Stato di democrazia pluralista (rappresentanza e mediazione-integrazione), farebbe
venir meno l’intera funzionalità del sistema di democrazia rappresentativa.
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All’interno delle forme di governo degli stati contemporanei a struttura liberal-
democratica ed in quelli a preminente caratterizzazione ‘sociale’, come quello
delineato dalla Costituzione italiana del ’47, così, i partiti politici, in ragione delle
funzioni assolte nella rappresentanza politica e nella collaborazione allo svolgimento
di funzioni a rilevanza pubblicistica, costituiscono organi di effettivo rilievo
costituzionale titolari, in via fattuale, della formulazione e della attuazione
dell’indirizzo politico. Ma essi sono, al contempo, associazioni di tipo privato e
quindi strettamente insediati nella società, difficile apparendo così la ricomposizione
strutturale e funzionale in una lineare definizione della loro natura giuridica.
Questa osservazione, peraltro, giustifica ampiamente il pessimismo sulle capacità
risolutive della crisi in atto ad opera delle riforme istituzionali-costituzionali fin qui
discusse nella prospettiva de jure condendo, le quali, nel loro limitarsi a discutere
proposizioni di riforma più o meno rilevanti dell’attuale forma di governo verso
soluzioni di neo-parlamentarismo razionalizzato o perfino di semipresidenzialismo,
escludono, tuttavia, – in modo discutibile per le ragioni argomentate in precedenza –
di affrontare le ragioni di crisi dovute appunto alle interferenze sugli organi
costituzionali di governo da parte dei partiti politici, i quali, peraltro, non sempre
sono retti da normative statutarie nelle quali sia assicurato il rispetto della democrazia
interna.
Si può, dunque, osservare come indicazione conclusiva di queste premesse generali
sulla natura giuridica del partito politico e sulle letture che ne ha dato la dottrina
costituzionale che il ritardo registrato da una parte significativa della dottrina nel
considerare il partito sotto il suo aspetto funzionale di “elemento costitutivo del
sistema di governo” costituisce anche una ragione della più generale difficoltà a
comprendere la sua configurazione “a prevalente gravitazione pubblicistica” e
dunque la sua natura di parte integrante fondamentale del modello di democrazia e
della forma di Stato vigente, la quale – come si è ricordato – viene appunto definita
‘Stato dei (di) partiti’ in quanto concretizzata ed incentrata sul funzionamento del
modello previsto dalla carta costituzionale ad opera di un sistema di partiti dai tratti
giuridici dalla natura privatistico-associativo e al contempo organicistica, mentre dai
tratti sociologico-politologici, caratterizzato dall’esistenza di una pluralità di partiti,
ma dei quali alcuni soltanto hanno potuto accedere alle maggioranze di governo
(clausola ed excludendum e inesistenza della regola dell’alternanza fino ai primi anni
‘90 come regola convenzionale che ha guidato la formazione dei governi per mezzo
secolo).
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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2. La democrazia bloccata (da superare) e l’alternanza al Governo (da realizzare)
all’origine di un processo di riforme elettorali (inadeguato e incompiuto), con effetti
sui partiti politici (depoliticizzazione, presidenzializzazione) e sulla stessa forma di
governo (iper-valorizzazione delle funzioni del capo dello Stato).
La legislazione elettorale, i relativi rapporti con i partiti politici e la forma di
governo accolta nell’ordinamento politico-costituzionale costituisce una questione
risalente al dibattito costituente e caratterizzandosi, in seguito, e soprattutto a partire
dagli anni ’90, come bisognosa di riforma. Sui contenuti di tale riforma diversi e
contrapposti erano gli orientamenti discussi nella dottrina, nel corpo elettorale e nei
movimenti referendari, muovendo da modelli maggioritaristici (‘alla inglese’) e
modelli di proporzionalismo puro.
Tuttavia, l’idoneità/congruità delle regole elettorali ad assicurare un equilibrio
accettabile fra funzioni di rappresentanza politica e di stabilità governativa – che
costituivano due profili particolarmente dibattuti agli inizi degli anni ’90, in un
contesto segnato dal crollo del Muro di Berlino e dagli eventi politico-istituzionali del
post-1989 – fu messa ben presto in questione a favore di una strategia istituzionale
volta a intervenire direttamente sul livello costituzionale. Nella Gazzetta Ufficiale
269 del 18 novembre 2005, verrà infatti pubblicata la legge costituzionale recante
«Modifiche alla Parte II della Costituzione», testo approvato in seconda votazione a
maggioranza assoluta (170 voti favorevoli, 132 contrari e 3 astenuti), e pertanto
lasciando piena libertà al corpo sociale di richiedere il referendum confermativo.
Riformulando le stesse modalità di legittimazione dell’Esecutivo e rafforzandone il
ruolo, tale testo di revisione costituzionale (felicemente respinto nel referendum
costituzionale del 25-26 giugno 2006) si ispirava a un modello di premierato forte, in
parte seguendo le formulazioni costituzionali accolte nel cancellierato tedesco (il che
naturalmente non pone problema alcuno di ordine costituzionale né di tipo politico),
ed in parte ispirandosi alle formule previste nella forma di governo israeliana prima
che le sue previsioni fossero riviste dal legislatore israeliano.
La premessa di questa analisi, dunque, è che, pur non avendo voluto il costituente
italiano assegnare veste costituzionale a leggi elettorali di tipo proporzionale,
l’architettura dei poteri costituzionali della Repubblica se ne ispirava nei contenuti di
fondo.
Ed è appunto per tale considerazione che una riflessione in questa materia impone
di tenere strettamente connesse le esigenze proprie della forma dello Stato con quella
di governo, connotandosi il modello repubblicano per scelte di legittimazione di tipo
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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rappresentativo-parlamentari arricchite ulteriormente da istituti e modalità diffuse di
partecipazione politica, operanti a loro volta nel quadro di un ampio pluralismo
politico e di un esteso sistema di libertà politiche, ispirate alla centralità del principio
personalistico e di quello partecipativo.
Con ciò si vuole sottolineare, in premessa di questa analisi, che il costituente
repubblicano ha adottato misure fortemente innovative rispetto a quelle accolte nella
Costituzione liberal-democratica (Statuto albertino).
Accanto alla previsione del voto per la prima volta nella storia costituzionale del
Paese esteso a tutti i cittadini (“uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età”,
come recita l’art. 48, I co., Cost.), tali misure costituzionali riconoscono a tutti i
cittadini il potere di concorrere alla determinazione della politica nazionale mediante
partiti (art. 49 Cost.), libere associazioni che conoscono i soli limiti costituzionali
della ‘democrazia interna’ e della loro necessaria pluralità (la Costituzione parla di
“partiti” al plurale), escludendosi in tal modo ogni ipotesi di partito unico, pur se in
ipotesi pienamente democratico.
Naturalmente, a tali organizzazioni comunitarie si estendono i più generali limiti
previsti costituzionalmente per l’esercizio della libertà di associazione. Se non
soggiacciono più al vincolo della previa autorizzazione, i cittadini possono così
esercitare il loro diritto di associarsi liberamente, rimanendo esclusa da tale garanzia
costituzionale il solo perseguimento di finalità vietate ai singoli dalla legge penale,
cui si aggiunge il divieto di associazionismo segreto che persegua, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (art. 18
Cost. ).
Tanto brevemente richiamato, pare necessario sottolineare come le soluzioni
accolte in tema di riforme elettorali e quelle che si dovranno in futuro ancora
prevedere in tale materia devono dimostrare, per tabulas, la capacità di assolvere da
parte dei partiti politici – concepiti in Costituzione come centri tipizzati di potere
politico-comunitario – alle funzioni di partecipazione politica per essi
costituzionalmente previste.
Ed è per questa ragione che, nell’approccio al tema che ne faremo, riteniamo
necessario richiamare, sia pure per grandi linee, le tematiche relative al rapporto fra
riforme elettorali, sistema politico-partitico e partecipazione politica, colte, tuttavia,
secondo un approccio che non si vuole attento prevalentemente alle technicalities,
quanto piuttosto al necessario raccordo fra (funzioni di) rappresentanza politica e
(funzione di) governo o, per dirlo senza molte mediazioni, fra finalità democratiche
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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proprie della forma di Stato democratico disegnata dal costituente repubblicano e
forma di governo.
L’attenzione centrale che riteniamo di dover assegnare alla trattazione del tema,
cioè, riguarda i rapporti fra gli organi attivi della rappresentanza e del governo
nell’ottica – l’uno e l’altro – di garantire la realizzazione delle finalità democratiche
dello Stato.
La riflessione sulle problematiche politiche e costituzionali poste dalla
‘democrazia dei partiti’ (ParteienStaat) ma anche ‘nei partiti’ ha caratterizzato lo
sviluppo della vita democratica del Paese, dal 1948 ad oggi, all’interno più ampio di
una forma di Stato e di una democrazia partecipativa fondate sul concorso alla
determinazione dei cittadini alla politica nazionale.
Una forma di democrazia che in modo fortemente innovativo e per la prima volta
venne pensata dai costituenti repubblicani come fondata sui partiti di massa (forgiati
dalle durezze imposte dalla clandestinità in cui la lotta al fascismo li aveva costretti e
superando radicalmente l’originaria natura di partiti borghesi, di élite, come gli stessi
si connotavano nella fase della liberal-democrazia del suffragio ristretto sulla base del
censo) e sulla partecipazione politica (allargata a multiformi altri strumenti di
partecipazione, che vanno dal referendum abrogativo alla iniziativa legislativa
popolare, dalla partecipazione sindacale alla manifestazione del pensiero
(naturalmente anche di quello critico) accolta nell’art. 21 Cost.).
Una forma di democrazia, dunque, che si edifica nella resistenza al fascismo, nel
compromesso costituzionale fra forze politiche e ideologiche differenziate (cattolici,
marxisti e laico-risorgimentali) e si perfeziona nel dibattito costituente, trovando
approdo nel testo costituzionale del 1947, e attuazione sia pure graduale e incompleta
nei quasi settanta anni che ci separano dalla vigenza della carta costituzionale a
partire dal 1° gennaio 1948.
Nei primi anni ’90, il dibattito sui rapporti fra democrazia/forma di Stato e forma
di governo si sviluppa in occasione dell’adozione delle nuove leggi elettorali per la
Camera e per il Senato, per le amministrazioni locali (l. 142/90) e per le regioni e più
in generale nello sforzo politico-istituzionale – rimasto in gran parte incompiuto – di
avviare una importante riforma nella direzione della trasparenza amministrativa e di
democratizzazione della amministrazione (l. 241/90), mediante il coinvolgimento
attivo dei destinatari dell’azione amministrativa all’interno dello stesso procedimento
amministrativo, e limitando forme risalenti della gestione amministrativa, spesso
autoreferenziali e autoritarie (nel mentre lo spazio normativo loro consentito era solo
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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quello dell’autoritatività, ma su queste questioni anche tecniche non potremo
fermarci, salvo che il dibattito non vorrà positivamente riprenderlo).
In questo quadro, così, la riflessione è chiamata ad incentrarsi tanto sulla dinamica
(formale e sostanziale) dei rapporti fra sistema dei partiti e istituti costituzionali del
circuito rappresentativo e di governo, quanto sulla questione dell’autoriforma dei
partiti e quindi della democratizzazione della loro vita interna e sulla previsione di
una diversa disciplina dei relativi rapporti con gli organi e i poteri costituzionali dello
Stato (e delle assemblee rappresentative territoriali).
L’attuazione di una simile dinamica di rapporti richiede una disciplina legislativa
delle più significative attività a rilevanza pubblicistica svolte da parte dei partiti
politici, a partire dalla previsione legislativa di uno statuto tipo per (tutti) i partiti, di
forme di controllo che impediscano il prodursi (e il ripetersi) di fatti penalmente (e
politicamente) rilevanti, come nella vita parlamentare ma soprattutto nella vita
istituzionale di molte regioni è dato osservare, senza differenze di rilievo nella gravità
degli eventi denunciati alla opinione pubblica (ora in via di accertamento delle
relative responsabilità legali) fra regioni del centro, del nord e del sud. Se non si
banalizzasse un problema serio di credibilità democratica e istituzionale, lo
chiameremmo il “modello Batman”, la capacità evocativa dei cui effetti
delegittimanti la credibilità istituzionale di istituzioni territoriali rende superfluo
profondersi in molte altre spiegazioni.
Tale esigenza trovava la sua giustificazione nella considerazione fattuale secondo
cui i partiti si sono ormai trasformati, prima in modo embrionale e in seguito in modo
sempre più marcato, in macchine organizzative autoreferenziali, chiuse in sé e
scarsamente capaci di sintonizzarsi (per rappresentarle) con le domande della società
e (soprattutto) dei cittadini.
L’evoluzione più di recente ne sottolinea la relativa evoluzione individuandone la
trasformazione in veri e propri ‘partiti personali’, portando a conclusione in tal modo
una evoluzione già lucidamente anticipata da Robert Michels, che nelle sue analisi
parlava di un modello di ‘partito pigliatutto’ come esito del processo di
trasformazione del partito di massa.
La letteratura sociologica e politologica sui partiti politici, in tal senso, ha da
tempo sottolineato come i ‘partiti di combattimento’ della prima stagione liberal-
democratica (il partito socialista della fase tardo-ottocentesca di cui ci ha parlato G.U.
Rescigno nelle sue lucide analisi sul punto) – e i ‘partiti di massa’, più di recente,
negli ultimi 66 anni che ci separano dal varo della Costituzione repubblicana del ’47,
sono ormai definitivamente scomparsi, venendo sostituiti da un nuovo modello di
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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partito che analisi politologiche approfondite (Richard Katz e Peter Mair, già dal
1995) hanno colto come partito elettorale, come ‘partito cartello’.
Le connotazioni interne ai partiti (“collusione intra-partitica”) e quelle esterne agli
stessi (compenetrazione fra partito e Stato) danno pienamente ragione di questa
analisi circa il processo di trasformazione profonda registrata dai partiti alla fine del
XX sec. e dei connessi effetti di depoliticizzazione indotta dagli stessi, con
conseguenze inevitabili sullo stesso contenuto e sulla qualità della democrazia
contemporanea1.
Fatti penalmente rilevanti, disvelati a partire dai primi anni ’90, hanno confermato
come simili ‘macchine’ – prima di configurarsi/trasformarsi in vere e proprie ‘caste’
– avessero perso nel tempo una parte significativa della capacità e della qualità
rappresentativa, per concentrarsi su tecniche di ricerca del consenso secondo modalità
che poco avevano a che fare con le funzioni proprie del partito, che sono quelle della
rappresentanza degli interessi dei cittadini volte ad assicurarne il concorso alla
determinazione della politica nazionale, nel rispetto del dettato costituzionale.
In evidente asimmetria con una interpretazione diffusa dei risultati elettorali delle
più recenti elezioni politiche e in contrasto con talune tesi pessimistiche (pur)
sostenute da autorevoli studiosi, per i quali la legislazione elettorale dei primi anni
’90 del secolo scorso – di tipo prevalentemente maggioritaria, e quella disegnata
dall’on. Calderoli, nel 2005 (con il consenso di molti e il non dissenso di quasi tutti
gli altri, tranne che dei partiti piccoli, cd partiti cespuglio) – avrebbe definitivamente
distrutto i partiti di massa (così come li abbiamo conosciuto nell’ultima metà del
secolo scorso), e contrariamente ad ogni rappresentazione che ne viene fatta,
1 “Il partito cartello è un tipo di partito che emerge nelle democrazie avanzate ed è caratterizzato dalla interpenetrazione
del partito e dello Stato e da un modello di collusione intra-partitica. Con lo sviluppo del partito cartello, le finalità della
politica diventano autoreferenziali, professionali e tecnocratiche, e quel poco che resta della competizione tra partiti si
focalizza sulla gestione del sistema di governo. Le campagne elettorali condotte dai partiti cartello sono ad alta intensità
di capitale, professionalizzate e centralizzate, e sono organizzate sulla base di una forte dipendenza dallo stato per
finanziamenti, e altri rimborsi e privilegi. All’interno del partito, la differenza tra iscritti e non iscritti al partito diventa
confusa, in quanto, attraverso primarie, sondaggi elettronici ecc., i partiti invitano tutti i loro sostenitori, iscritti o non
iscritti, a partecipare alle attività di partito e alle decisioni. Soprattutto, con l’emergere dei partiti cartello, la politica
diventa sempre più depoliticizzata”. Con ciò i partiti si staccano nettamente dalla società civile per divenire “alleanze di
professionisti”, “sistemi di franchising, non associazioni di cittadini”. “La politica diventa un lavoro”; così è “quasi
inevitabile che essi [i partiti] inizino ad assomigliarsi sempre di più”, e prendano a sviluppare dei comportamenti
velatamente o scopertamente collusivi, appunto di cartello. Cambia con ciò il contenuto stesso della democrazia: “La
democrazia sta nel tentativo delle élite di accattivarsi il favore del pubblico, piuttosto che nel coinvolgimento del
pubblico nella politica”.
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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argomentata con richiami al rifiuto della delega teorizzato da J.J. Rousseau, non
troviamo convincente la prognosi più o meno interessata di chi prospetta i partiti
come ormai definitivamente scomparsi dall’orizzonte degli strumenti della
democrazia partecipativa.
Nonostante gli eventi dell’attualità politica ed elettorale – con la emersione di
importanti ‘partiti-movimento’ che (pur operando in tutto e per tutto come veri e
propri partiti accentrati e gerarchizzati) vorrebbero essere colti come ‘non partiti’,
espressamente dichiarandosi per questo indisponibili a darsi regole statutarie –
continuiamo a ritenere tutt’altro che conclusa la funzione rappresentativa dei partiti a
favore di modalità rappresentative di tipo esclusivamente personalistico, assicurate
dal ruolo svolto dalle leadership nel quadro di formule di legittimazione politica che
respingono la democrazia rappresentativa a favore di forme di democrazia diretta, e
che troverebbero il loro pendant costituzionale nella prospettiva di nuovi assetti di
“presidenzializzazione della politica” e delle istituzioni di governo del Paese.
Ciò sia che si pensi alle inadeguate formule di governo semipresidenzialistiche
previste nei lavori della Commissione bicamerale operante nella meta degli anni’90
del secolo scorso, sia che si pensi alle (perfino ancora più) discutibili soluzioni di
parlamentarismo iper-razionalizzato per la forma di governo accolte nel progetto di
riforma costituzionale (approvato il 23 marzo 2005 dalla Camera dei deputati e il 16
novembre 2005 dal Senato), relativamente alle forme di elezione (quasi) diretta del
Presidente del Consiglio/Primo Ministro. Uno studioso di qualità ha parlato per tale
formula di un “premierato assoluto”, volendo sottolineare la carenza di pesi e
contrappesi presenti nella richiamata formula di riforma del governo voluto dalla
maggioranza di centro-destra.
Rispetto alle diverse proposte di riforma costituzionale prospettate con riferimento
a ipotesi (più o meno radicali) di presidenzialismo e di “personalizzazione della
politica”, esse possono ritenersi del tutto inadeguate quando si rifletta al fatto che una
parte significativa degli stessi studiosi degli Stati Uniti ritiene la forma di governo
presidenziale inadeguata rispetto alle esigenze di ‘governabilità’ del Paese nord-
americano.
Discorso omologo può farsi anche per il semipresidenzialismo, per ragioni che
sembrano trovare ormai d’accordo la maggioritaria dottrina costituzionale del nostro
Paese, del Paese francese e la dottrina europea, nonostante le declinazioni
evidentemente presidenzialistiche che, da alcuni anni nel Paese, la gestione della
grave crisi finanziaria in corso da almeno un quinquennio, sta facendo assumere alla
forma del governo (parlamentare) e allo stesso Presidente della Repubblica.
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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Sia pure nel quadro di un conclamato scenario di crisi economica e finanziaria del
Paese, in particolare, secondo tale ottica, la nomina del Governo Monti, in Italia, ad
esempio, avrebbe risposto appunto a questa eccezionalità costituita dalla successione
temporale ravvicinata della nomina del prof. Monti a senatore a vita e
immediatamente dopo nel conferimento allo stesso della formazione del governo (di
crisi), aperto ad una (fino ad allora inedita) maggioranza costituita, oltre che dalle
forze politiche (fino a quel momento) maggioritarie in Parlamento, dalla gran parte
delle stesse forze di opposizione.
La qualificazione che taluno ha dato di questa esperienza di governo come
“governo del Presidente”, tuttavia, risulta incongrua a coglierne i profili strutturali e
istituzionali, quando si consideri che il Governo Monti ha goduto comunque, per tutta
la sua (non lunga) durata, della fiducia del Parlamento, fino a quando la stessa non è
venuta meno a seguito delle dichiarazioni (parlamentari, ancorché non in sede di un
voto formalizzato di sfiducia al Governo, e dunque nella persistenza di forme di crisi
extraparlamentari del Governo) del segretario (pro tempore) del partito di
maggioranza in Parlamento, determinando in tal modo la decisione presidenziale di
scioglimento del Parlamento e di indizione delle nuove elezioni.
Se, dunque – nonostante la diversa convinzione dell’ex Presidente del Consiglio
Berlusconi, che si era perfino candidato a dirigere la Convenzione costituzionale
chiamata e riscrivere la Seconda Parte della Costituzione – la presente fase politica
non sembra lasciare aperte molte strade a una ingegneria costituzionale fondata
sull’accoglimento di forme di ‘presidenzializzazione’ della politica, con le relative
conseguenze di accentuata ‘personalizzazione’ delle cariche istituzionali (di vertice e
non), si conferma che i partiti politici, così come ridefiniti alla luce delle esigenze
rappresentative imposte dalla legislazione elettorale, (e nonostante la gravità della
crisi nella quale da tempo versano, secondo un giudizio che è molto diffuso)
continuano a costituire strumenti qualificati e insostituibili per assicurare le funzioni
di rappresentanza politica e di mediazione che risultano assolutamente necessarie
rispetto alla eterogenea e conflittuale congerie degli interessi rappresentati in
Parlamento (e nelle altre assemblee elettive territoriali).
Tale necessità dei partiti al fini di assicurare le esigenze di mediazione/integrazione
sociale e di rappresentanza politica, tuttavia, non consentono ai partiti di poter
rivendicare ruoli di ‘esclusività’ nell’esercizio di tali funzioni, che in passato hanno
politicamente preteso e praticato, ma che attualmente devono apprendere a
condividere con le manifestazioni del pluralismo politico e istituzionale emerse dal
basso della partecipazione politica diffusa presente nel Paese
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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La crisi dei partiti, tuttavia, non riguarda la sola loro funzione –
sociale/comunitaria – di concorso dei cittadini alla determinazione alla politica
nazionale – che comunque costituiva e costituisce tuttora un modello avanzato e
come si è già detto insostituibile costituzionalmente di partecipazione e di democrazia
politica – quanto piuttosto il processo di condizionamento degli organi costituzionali
di rappresentanza e di governo, soprattutto in ciò che viene colta come una “fusione
partitocratrica” di Esecutivo e Legislativo (con ciò che ne consegue in termini di
deresponsabilizzazione e di confusione istituzionale).
Lungi dalla pretesa di svalorizzare le più recenti manifestazioni del concorso dei
cittadini alla formazione della politica nazionale, tale orientamento di pensiero
assume che il principio democratico e quello partecipativo devono ulteriormente e più
adeguatamente diffondersi sia nell’ambito delle organizzazioni partitiche sia
attraverso l’utilizzazione di nuovi e più efficaci strumenti di formazione della volontà
politica.
Ciò soprattutto dopo la scelta operata con le (ormai non più recenti) leggi di
riforma elettorale che, come è comune osservazione, non hanno conseguito gli
obiettivi sistemici ai quali si erano ispirate, irrigidendo ulteriormente il carattere
oligarchico ed autoreferenziale dei partiti politici.
In tale visione, infatti, era stato assunto che il sistema elettorale, inteso non
semplicemente come strumento tecnico-giuridico di trasposizione dei voti in seggi
ma come un fondamentale elemento di ridefinizione-riqualificazione della
rappresentanza politica, potesse svolgere una delicata quanto fondamentale funzione
istituzionale finalizzata alla trasformazione della stessa forma di governo verso il
modello prevalente nelle contemporanee democrazie rappresentative, fondato sul
ricambio della classe di governo e sull’alternanza al potere fra partiti (o coalizioni di
partiti) alternativi, tutti comunque legittimati a governare, realizzando in tal modo
una democrazia ‘compiuta’ e ‘governante’.
Va tuttavia rilevato, in merito, come l’approccio con cui per lungo tempo sia la
dottrina costituzionale che (e soprattutto) i partiti politici hanno affrontato la
questione elettorale si sia rivelato del tutto strumentale ed insufficiente. Solo nel
dibattito teorico e parlamentare più recente la riforma della rappresentanza politica,
infatti, viene presa in considerazione non più solo come valore autonomo ma come
elemento che va considerato in stretta correlazione con l’obiettivo sistemico
identificabile nella definizione di una forma di governo ispirata al principio di
alternanza e a quello, correlato, dell’effettualità della responsabilità politica del ceto
politico (di governo e di opposizione) nei confronti del corpo elettorale e delle
dinamiche costituzionali maggioranza/opposizione. Quest’ultima verrebbe conseguita
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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anche attraverso una valorizzazione del peso decisionale del voto (non più solo per la
scelta delle rappresentanze parlamentari ma per l’investitura ‘quasi diretta’ dello
stesso Governo e come ‘voto-sanzione’).
In un orientamento di pensiero che è stato maggioritario nel Paese (e che da più
tempo s’interroga sui limiti di riforme elettorali non accompagnate da riforme
istituzionali e costituzionali nella direzione della garanzia delle minoranze, della par
condicio nell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa e del rispetto del divieto di
concentrazione degli stessi), si era ritenuto che le distorsioni presenti nel sistema
politico, che avevano la loro manifestazione più evidente nella crisi della
rappresentanza, nella carente funzionalità degli apparati istituzionali di governo
(circuito Parlamento-Governo) e ancor di più nella occupazione/lottizzazione
partitica dello Stato, fossero aggredibili attraverso il superamento del carattere
‘bloccato’ e incompiuto della forma di democrazia conosciuta nel Paese (e della
cosiddetta ‘prassi consociativa’), ispirandosi a concetti di democrazia di tipo
sistemico, di tipo competitivi più che proiettivi.
Secondo l’opinione prevalente, pur avendo garantito il funzionamento delle
istituzioni rappresentative durante le fasi cruciali della storia repubblicana, un simile
‘patto compromissorio’ aveva finito con il privilegiare il metodo della cogestione
rispetto all’esercizio del controllo democratico sul Governo e all’elaborazione di
progetti alternativi, impedendo, in tal modo, una nitida differenziazione in ordine alla
imputazione chiara delle rispettive responsabilità e competenze istituzionali tra
maggioranza ed opposizione, tra Parlamento e Governo, tra esecutivi e legislativi in
generale.
Pur nella sottolineatura dei rischi di deriva populistico-plebiscitaria connessi allo
sviluppo delle forme della ‘democrazia referendaria’ e di formule assimilabili di
democrazia diretta (cd direttismo), si deve ricordare come uno gli obiettivi centrali
del movimento referendario, che si era attivamente impegnato nei primi anni ’90 per
l’abrogazione delle leggi elettorali a base proporzionale al tempo vigenti (nonché per
la soppressione delle preferenze multiple), fosse appunto quello di giungere ad un
pieno dispiegamento del modello democratico-parlamentare attraverso la
trasposizione delle regole istituzionali proprie dei regimi costituzionali cosiddetti
dell’alternanza, che si caratterizzano per un’accentuata competitività delle forze
politiche rappresentate in Parlamento, per la funzione di critica, controllo e di
rappresentanza di posizioni alternative sulle singole issues svolte dall’opposizione,
della quale viene pertanto garantita ‘istituzionalmente’ la possibilità reale di
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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sostituirsi al/i partito/i di maggioranza (battendolo/i alle elezioni politiche) nel
governo del Paese.
In tale contesto, l’avvio di un processo di riforme elettorali si era proposto
l’obiettivo del superamento dei processi consociativi con i limiti che, in sede di
‘costituzione reale’, avevano caratterizzato la forma di governo del Paese nell’ultima
metà del secolo appena alle spalle.
Nel concreto svolgimento dei rapporti fra (funzioni di) rappresentanza politica e
(funzionalità degli) organi di governo, infatti, la mancata alternanza fra forze
politiche ed in particolare l’operatività di convenzioni preclusive verso alcune forze
politiche, a sinistra e a destra dello schieramento parlamentare, si erano
accompagnate con prassi consociative, sia nell’ambito legislativo che nella stessa
amministrazione, secondo moduli convenzionali che Giuliano Amato aveva colto
come “governo spartitorio” in una ricerca pubblicata in quegli anni.
Corresponsabilizzando impropriamente (sia pure con diverso grado) le forze
parlamentari di governo e quelle di opposizione, tale prospettiva (di natura
consociativa) aveva reso difficile per il cittadino-sovrano l’esercizio del voto-
indirizzo e del voto-sanzione, essendo quest’ultimo, in tal modo, limitato ad
esprimere, sostanzialmente, un mero voto-mandato al partito (e al sistema dei partiti).
Coniugandosi con le rigidità imposte dalla ‘crisi fiscale dello Stato’ e con le
resistenze del sistema politico-istituzionale a varare riforme organiche nella direzione
della razionalizzazione delle istituzioni pubbliche, i limiti di un simile ‘governo
spartitorio’ avevano alimentato un convincimento diffuso sulle positive opportunità
offerte da una riforma elettorale che si proponesse di conseguire l’obiettivo di una
maggiore responsabilizzazione della rappresentanza politica, rispondendo meglio
all’esigenza di sciogliere i principali nodi evidenziati nel sistema politico-
istituzionale.
I termini della questione erano stati identificati, in tale ambito, nella necessità
d’individuare nuovi e più efficaci strumenti di rappresentanza e di governo in un
panorama istituzionale capace di ridare nuova linfa e corretto svolgimento allo
schema classico delle democrazie rappresentative, con una chiara distinzione di ruolo
e di responsabilità tra maggioranza ed opposizione parlamentare. Si poteva ritenere,
infatti, che tali elementi potessero concorrere a rafforzare, anche all’interno della
cultura e della prassi delle forze politiche, una tendenza verso la trasformazione della
democrazia rappresentativa, con una riforma del sistema istituzionale che potesse
segnare il passaggio dalla ‘cultura della coalizione alla cultura della rappresentanza’ –
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
23
che costituisce, come è noto, la regola di fondo della trasparenza e della
responsabilizzazione politica delle istituzioni rappresentative e di governo –.
In tale contesto, dunque, la questione elettorale era affrontata con riferimento alle
reali condizioni del sistema politico ed a quella che era stata definita la ‘costituzione
materiale’ realizzata dai più importanti centri di potere politico-comunitari, partiti
politici in primis.
In tale chiave interpretativa, la revisione del sistema elettorale si collocava,
dunque, come un elemento di assestamento istituzionale rispetto ai profondi
mutamenti registrati sul piano della ‘costituzione materiale’, che si riconducevano,
fondamentalmente, alla crisi della concezione di “esclusività” nella rappresentanza
politica ritenuta dai partiti politici, anche al di là della previsione costituzionale,
nonché all’inadeguatezza del modello consociativo a definire una forma compiuta di
democrazia parlamentare.
Tali analisi, in breve, portavano a sottolineare come – a fronte della natura
peculiare della crisi istituzionale in atto nel Paese (consistente, più che nella
debolezza dell’Esecutivo, nella trasformazione complessiva del sistema
costituzionale di governo rispetto all’impatto con il sistema politico-partitico) –
s’imponesse una strategia istituzionale volta a restituire certezza alle regole,
autorevolezza, funzionalità e capacità decisionale alle istituzioni costituzionali di
governo, unitamente alle funzioni rappresentative proprie delle assemblee elettive.
In tal senso, si era fatto osservare come la questione cruciale non fosse data dalla
sola modificazione della forma di governo quanto piuttosto dalla previsione di un
sistema elettorale capace di consentire ai cittadini di operare in modo diretto delle
scelte sui rappresentanti (eletti e partiti), sulle politiche (programmi politici) e sugli
schieramenti (alternativi).
In una parola, la riforma elettorale costituiva argomento centrale perché era
chiamata – secondo la filosofia istituzionale cui s’ispirava – a operare una nuova
legittimazione delle istituzioni della rappresentanza e del governo, attraverso una
maggiore responsabilizzazione delle forze politiche (nella dinamica maggioranza-
opposizione) e una possibilità reale garantita ai cittadini-elettori di una loro
sanzionabilità politica.
3. La riforma del ParteienStaat, fra leggi elettorali e modelli di democrazia
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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Una riflessione sull’inquadramento di tale tema nel più ampio dibattito sulle
riforme istituzionali, la stessa valutazione delle proposte di riforma istituzionali
(recenti e non), così, impongono di sottolineare un dato, che è anche di ordine
metodologico, su cui concordano da tempo gli studiosi di diritto costituzionale. Esso
è dato, come si è già osservato, dal superamento della stessa validità ermeneutica
delle analisi sulle forme di governo che si fondano sul tradizionale principio della
separazione dei poteri.
L’evoluzione del costituzionalismo italiano (ma analogo discorso può farsi per tutti
gli altri ordinamenti costituzionali europei), dalla originaria fase liberal-democratica a
quella contemporanea, impone di accogliere – accanto alla disciplina dei rapporti fra
Stato e cittadini (posta a presidio delle libertà civili e politiche) e a quella relativa alle
diverse relazioni fra i soggetti costituzionali – la presenza e l’operatività di attori
sociali differenziati, di centri di potere politico-comunitari, che organizzano –
rendendolo efficace – l’esercizio della libertà di partecipazione politica e che, in
qualche modo, mettono in questione – condizionandoli significativamente – la stessa
attività e l’indirizzo degli organi costituzionali di governo, in ciò concretizzandosi il
modello della ‘democrazia di partito/i’.
Per il tipo di rapporti che sono andati intessendo con lo Stato e la manifestazione
sociale e pubblica dei relativi poteri, i partiti politici, centri di potere comunitario, che
ne costituiscono l’espressione più stabile, organizzata e in questo senso più
qualificata, (sono stati e) possono (tuttora) cogliersi come organi ausiliari dello Stato,
se non come veri propri organi statali, come pure sono stati definiti da autorevole
dottrina, nei primi anni ’50, a partire da Pietro Virga autorevole costituzionalista
operante nelle università di Catania e di Palermo. Nello stesso senso anche V.
Crisafulli, T. Martines, G.U. Rescigno, L. Elia.
All’interno delle forme di governo degli stati contemporanei, a livello embrionale
nella fase originaria (come quella delineata dalla Costituzione italiana del ’47) e in
modo compiuto in quella più recente, così, i partiti politici, per le modalità di
svolgimento delle funzioni connesse alla rappresentanza politica (e alla mediazione
fra gli interessi sociali), diventano sempre più – sia pure nella sola via fattuale –
organi di rilievo costituzionale, capaci di determinare o anche solo d’incidere in
modo determinante sulla formulazione e sull’esercizio dell’indirizzo politico. Ma essi
sono, al contempo, associazioni di tipo privato e come tali sono fortemente insediate
nella società, apparendo difficile, anche per tale ragione, la ricomposizione strutturale
e funzionale in una lineare, soddisfacente, definizione della loro stessa natura
giuridica.
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
25
Si può osservare, in proposito, che il ritardo registrato da una parte significativa
della dottrina nel considerare il partito sotto il suo aspetto funzionale di ‘elemento
costitutivo del sistema di governo’ costituisce anche una ragione della più generale
difficoltà a comprendere la sua configurazione ‘a prevalente gravitazione
pubblicistica’ e dunque la sua natura di parte integrante fondamentale del modello di
democrazia e della forma di Stato vigente.
Quest’ultima è stata appunto definita ‘Stato dei (di) partiti’ in quanto caratterizza il
funzionamento del modello di democrazia previsto dalla Carta costituzionale a partire
dall’attività prevalente dei partiti, nella cui configurazione giuridica, come si è detto,
rileva tanto una natura associazionistica di rango privatistico, quanto una, contestuale
e inscindibile, di tipo organicistico, di natura pubblicistica.
In un quadro come quello appena richiamato, il dibattito sulle forme di governo ha
ritrovato una sua nuova attualità (soprattutto) dopo la riforma elettorale italiana dei
primi anni ’90, a seguito del pronunciamento referendario sulla (parziale)
abrogazione della previgente legge elettorale per la Camera e per il Senato.
Per richiamare, in modo essenziale, con qualche interesse ai fini dell’analisi che
stiamo conducendo (sulla forma-partito e) sulla comparazione con altri sistemi
politico-costituzionali le soluzioni offerte dalla riforma elettorale dei primi anni ’90 e
accostarsi alle problematiche che essa ha dischiuso nell’analisi giuridica e nel
dibattito politico del Paese, occorre inquadrare l’intera tematica ora in considerazione
nella più generale problematica posta dalla trasformazione da tempo in corso del
sistema dei partiti, da una parte, e dalla riforma istituzionale (e costituzionale), essa
stessa in corso da tempo (almeno nell’analisi teorico-politica), e che ha conosciuto
una sua accelerazione, soprattutto a partire dai primi anni ’80, con la proposta
craxiana della ‘grande riforma’ e quelle dottrinarie avanzate dal c.d. ‘gruppo di
Milano’, orientate a una riforma costituzionale nella prospettiva di ‘governi
presidenziali’ o ‘semi-presidenziali’, nel primo caso, oppure verso ‘governi di
legislatura’, secondo l’orientamento del richiamato gruppo di giuristi milanesi. Questi
ultimi hanno trovato parziale accoglimento nelle previsioni di riforma costituzionale
del Titolo V della Costituzione e nella forma di governo regionale.
In questo contesto, le riforme elettorali venivano individuate in via generale come
snodo obbligato per affrontare le problematiche istituzionali dell’instabilità
governativa e della connessa difficoltà di assicurare la coesione delle coalizioni di
governo e la omogeneità dei relativi indirizzi politici.
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
26
L’analisi teorico-dottrinaria e il dibattito parlamentare, nel loro complesso, hanno
evidenziato, tuttavia, un atteggiamento di forte resistenza nelle forze politiche a
ritrovare un accordo su riforme istituzionali e costituzionali relative alla forma di
governo e alla c.d. ‘legislazione di contorno’.
Le resistenze espresse dalle forze parlamentari a varare riforme istituzionali-
costituzionali in tali àmbiti (superate nel merito dall’intervento del corpo elettorale
attraverso il referendum) rinviano alla questione centrale posta dall’esistenza nel
Paese di una ‘costituzione reale’ che non sempre si conforma a quella formale e, al
suo interno, dalla centralità occupata dai partiti politici nel loro concreto impatto sulla
forma di governo effettivamente vigente.
Dal punto di vista costituzionale, così, la questione viene ricollegata alla necessità
di analizzare – accanto ai meccanismi costituzionali predisposti per disciplinare in
una forma ‘razionalizzata’ (rispetto al parlamentarismo ottocentesco e novecentesco e
alle stesse vigenti disposizioni costituzionali) i rapporti fra gli organi della
rappresentanza politica e quelli del governo, – tutta una serie di prassi e di
convenzioni costituzionali (ultra ma anche contra constitutionem) che, nelle diverse
fasi della vita repubblicana del Paese, hanno caratterizzato lo svolgimento e gli
equilibri costituzionali complessivi della forma di governo.
Dal punto di vista più strettamente politico, l’esperienza italiana si caratterizzava,
fino ai primi anni ’90, come è noto anche agli osservatori stranieri, per una costante
indisponibilità ad aprire le coalizioni di governo alle forze politiche collocate a destra
e (soprattutto) a sinistra delle tradizionali coalizioni governative. Un’autorevole
dottrina (Elia) aveva colto in tale assetto materiale l’esistenza di una vera e propria
‘conventio ad excludendum’, che delineava scenari di ‘democrazia zoppa’, una
democrazia, cioé, nella quale risultava assente la ‘regola aurea’ del parlamentarismo
liberal-democratico – costituita dall’alternanza al governo fra forze politiche, intesa –
quest’ultima – come principio di trasparenza e di effettualità della responsabilità
politica, rispettivamente, del Parlamento e del Governo.
Tale crisi delle forme costituzionali relative alla organizzazione e al funzionamento
del Governo (soprattutto nelle sue fasi fondamentali relative alla formazione e alla
crisi) si salda, soprattutto a cavallo degli anni ’90, con la crisi delle principali forze
politiche di maggioranza (e della relativa leadership), evidenziandosi con la
affermazione di movimenti politici nuovi, di caratterizzazione eminentemente
regionale/localistico (leghe), e aggravandosi in modo irreversibile con riferimento al
coinvolgimento giudiziario dei più importanti leaders partitici dell’area di governo,
ma anche di opposizione (sia pure in questo caso in misura minore).
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
27
Così richiamati i termini fondamentali dello scenario politico in cui si affermano le
nuove regole elettorali, occorre richiamare nuovamente, sia pure in termini essenziali,
la filosofia politica e i princìpi istituzionali invocati a sostegno delle riforme elettorali
da parte del movimento referendario e della stessa dottrina che ne aveva sostenuto le
ragioni.
Quali che fossero le scelte auspicate dai partiti politici, rimane come dato certo
che, nelle aspettative del corpo sociale, gli obiettivi cui doveva conformarsi la
riforma elettorale erano sostanzialmente di due tipi. Innanzitutto, si trattava
d’individuare meccanismi capaci di assicurare una maggiore stabilità, forza e
autorevolezza allo Esecutivo (riassunti nella formula descrittiva della
‘governabilità’), rafforzando le coalizioni di governo attraverso i vantaggi assicurati
dalla distribuzione dei seggi parlamentari effettuata con un sistema elettorale di tipo
(prevalentemente) maggioritario.
Un secondo obiettivo assegnato alla riforma elettorale, sul quale erano stati
enunciati orientamenti dottrinari articolati ed anche fortemente critici, era
riassumibile, secondo una formula di successo di quegli anni, nella “restituzione dello
scettro al principe” – i cittadini-sovrani – uno scettro che era stato occupato, con
scarsa qualità rappresentativa, dai partiti politici che, da strumenti di partecipazione
politica, gradualmente, si erano andati costituendo come un vero e proprio diaframma
fra i cittadini (titolari della “concorsualità” nella determinazione della politica
nazionale attraverso i partiti politici) e i partiti (ormai stabilmente costituiti in
oligarchie cristallizzate ed ossificate al loro interno e nella funzione di rappresentanza
e di mediazione rispetto alle istituzioni rappresentative e di governo).
Secondo tale profilo (che risulta centrale se si vuole riannodare il tema elettorale
con quello dei partiti ed anche con lo stesso tema dell’efficienza del circuito
parlamentare e governativo), questo orientamento assumeva, in modi e con finalità
esplicite, la necessità di orientare le linee di direzione del processo riformistico
(elettorale ed istituzionale) verso forme di democrazia che tendessero a comprimere i
ruoli impropri svolti dai partiti politici per espandere una più piena e matura crescita
partecipativa/decisionale del cittadino, come singolo e nelle multiformi
manifestazioni assicurate dall’esercizio delle libertà costituzionali.
Tali modalità, nel dibattito costituzionale, con formula indubbiamente schematica
mutuata dalla dottrina d’oltralpe, sono state anche definite ‘immediate’ per
sottolineare un rapporto di diretta investitura dei governi da parte del corpo elettorale.
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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Un nuovo orientamento a favore di sistemi elettorali a base maggioritaria, che
altrove erano stati sperimentati da tempo e con relativo successo (rispetto agli
obiettivi loro assegnati), appariva, così, maggiormente convincente per la sua
capacità di dare una risposta alle aspettative del corpo sociale relativamente alla
valorizzazione del conflitto democratico ed alla garanzia dell’alternanza fra forze
politiche, in una parola alla realizzazione di un processo di maggiore trasparenza dei
(e nei) rapporti fra istituzioni rappresentative e di governo e con il corpo elettorale.
Accanto alle opportunità offerte dalle diverse formule elettorali, lo scenario di tale
dibattito, come si può osservare, metteva a confronto due diversi modelli di
democrazia.
Rispetto al primo dei due, che il Paese aveva sperimentato nell’ultima metà di
secolo – un modello di democrazia ‘mediata’, ‘consociativa’, fondato sul
pluripartitismo più o meno esasperato (benché bilanciato al suo interno dalla già
richiamata clausola preclusiva, nella formazione dei governi, verso i partiti ritenuti
‘antisistema’) –, il secondo dei due modelli ha rinviato a forme di organizzazione
della democrazia di tipo ‘competitivo’, che sono state anche definite ‘immediate’ per
sottolineare la ricerca di un rapporto di maggiore prossimità del cittadino sovrano nel
suo potere d’influenza/determinazione della politica nazionale, soprattutto in sede di
scelta dei suoi organi rappresentativi e dei vertici degli esecutivi, la cui
determinazione, in tal modo, veniva sottratta alla disponibilità dei partiti. Secondo
tale diversa e nuova formula, il modello di democrazia risultava particolarmente
agevolato, transitando, in tal modo, da una cultura della coalizione a una
dell’alternanza.
Così evocata la filosofia istituzionale ispiratrice della riforma elettorale dei primi
anni ’90, rimane ora da chiedersi, alla luce di (più di) un ventennio di
sperimentazione, quali effetti concreti essa ha potuto/saputo esercitare sulla
costituzione materiale del Paese (soprattutto in tema di coesione interna ai governi ‘di
coalizione’) e sulla stessa legittimazione (sociale e politica) dei partiti.
Rimane, inoltre, da riproporsi il quesito se la stessa sia stata (o meno) capace di
assicurare quegli obiettivi attesi di ‘governabilità’ ai quali si era ispirata (e che il
corpo elettorale aveva fatto propri con un esito referendario particolarmente chiaro).
Nell’accostarsi a un tema che appare indubbiamente complesso, attesa la
prossimità storica alla fase politico-istituzionale oggetto ora di analisi, può dirsi, in
una prima valutazione generale, che la riforma elettorale dei primi anni ’90 ha
indubbiamente assicurato uno degli obiettivi per il quale era stato richiesto e
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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approvato, quello cioè di consentire l’effettività dell’alternanza al governo fra forze
politiche contrapposte.
Nelle due legislature successive alla riforma, infatti, due partiti che in precedenza
erano stati ritenuti ‘antistema’ e per questo erano stati esclusi dalla formazione dei
governi per circa una metà di secolo – sia pure in uno scenario politico-istituzionale
nuovo, caratterizzato dalla ridefinizione delle relative ragioni sociali e da nuovi
programmi/statuti politici (il PCI poi trasformatosi in DS e di recente in PD e il MSI
in AN, poi confluito nella Casa delle libertà ed infine scomparso dalla scena politica)
– hanno potuto accedere per la prima volta al governo, all’interno di governi di
coalizione.
Con tale accesso all’interno delle maggioranze parlamentari di turno, si è parimenti
determinato un secondo importante effetto, quello della loro piena legittimazione
(nell’accesso al governo) e di un loro reciproco riconoscimento democratico di forze
politiche operanti nel sistema.
Sotto tale profilo, dunque, non può che sottolinearsi il successo di un sistema
elettorale che ha visto allargata la base di formazione dei governi, confermando, in tal
senso, la fondatezza delle aspettative in esso riposte sia da parte del corpo
referendario sia da parte del Parlamento e della dottrina che ne aveva sostenuto
(almeno parzialmente) le ragioni.
Tuttavia, problemi non erano mancati soprattutto con riferimento alla debolezza
dei vincoli di lealtà esistenti all’interno dei partiti della coalizione (soprattutto di
governo).
Mentre nel corso della prima delle due richiamate legislature basate sul nuovo
sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario tale debolezza determinava un
persistente ricorso alla risalente prassi (incostituzionale) delle crisi extra-parlamentari
(con l’abbandono della maggioranza governativa del tempo da parte di una delle sue
componenti più critiche, quella di Rifondazione comunista), nella legislatura
successiva tale debolezza del vincolo di coalizione si manifestava come
rafforzamento relativo di una delle componenti della maggioranza governativa, quella
della Lega Nord, che aveva buon gioco, in tale quadro, di ricorrere ad un potere di
‘minaccia della crisi’ per conseguire una negoziazione politico-programmatica che
risultava puntualmente di favore per tale attore politico (almeno fino alla crisi in cui
esso stesso si è ritrovato, per ragioni che sarebbe bene analizzare in quanto pertinenti
rispetto al tema ma che non avremo il tempo di effettuare in questa sede).
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
30
Il mancato prodursi di una nuova crisi extra-parlamentare in un simile quadro pare
dovuto a una evidente capacità di negoziazione bilaterale all’interno della
maggioranza governativa (con evidenti effetti critici su altre forze politiche che la
compongono) e alla piena disponibilità dell’indirizzo politico della maggioranza
governativa e soprattutto del suo leader di farsi carico di una negoziazione sullo
stesso testo di revisione della Costituzione secondo una direzione (almeno
apparentemente) imposta dalla Lega Nord.
Prima di ritornare su tale questione (come faremo fra poco), occorre anche
aggiungere che se il nuovo sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario non
appare direttamente responsabile della crisi del ‘partito di massa’ almeno può
affermarsi (ed è stato da molti affermato) che la sua pratica si è accompagnata con
tale crisi.
Le relative manifestazioni appaiono di comune osservazione; esse vanno
dall’indebolimento del vincolo di lealtà politica fra eletti e partiti (con lo sviluppo
abnorme del ‘transfughismo’), dalla costituzione di una molteplicità di gruppi
parlamentari (con la crescita parimenti abnorme del numero dei parlamentari iscritti
al gruppo misto sia alla Camera che al Senato) fino al rafforzamento della tendenza
alla ‘personalizzazione’ del potere (soprattutto, ma non solo, negli esecutivi).
L’affermazione di ‘partiti personali’, del partito-cartello, del c.d. ‘partito-azienda’
(Forza Italia), costituisce, in tal senso, così, il sintomo di un processo più vasto e
profondo, che ha le sue radici in una perdita progressiva del modulo partecipativo
nella scelta dei candidati a favore di decisioni che si trasferiscono – sia all’interno del
richiamato ‘partito-azienda’, sia (ancorché in forme più celate) negli altri partiti –
direttamente nelle mani del leader unico (nel primo dei due casi richiamati) ovvero
nelle (egualmente ristrettissime) segreterie politiche (di norma esclusivamente
nazionali) con riferimento alle altre ipotesi richiamate.
È a questo livello in particolare che trovano una loro giustificazione quegli
orientamenti giù richiamati in precedenza circa l’opportunità e/o necessità che la
riforma elettorale si accompagnasse con la ripresa di un’attenzione riformistica
relativa alla democrazia interna ai partiti e con la stessa apertura da parte di questi
ultimi alla scelta di candidati alle elezioni politiche e agli organi esecutivi di vertice
non solo al proprio interno ma aprendosi, mediante elezioni primarie aperte, anche a
candidature provenienti dalla società civile, secondo un metodo disciplinato in via
legislativa e non solo in via di autoregolazione.
Ma, come si è già sottolineato, ciò non si è verificato, con conseguenze di
disgregazioni ulteriori nel quadro del sistema politico-partitico (soprattutto nella sua
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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componente di centro-sinistra, attese le peculiarità del partito di centro-destra e della
funzione stabilizzatrice operata per tale partito dal suo leader, Silvio Berlusconi) e
con la conferma sostanziale di forme di autoreferenzialità anche dei nuovi partiti
affacciatisi sulla scena politica (materialmente impossibilitati anche a porsi il
problema della democrazia interna, avendo gli eletti di tali partiti accettato, al
momento della candidatura, regole di conformazione del proprio mandato politico
alle determinazioni del vertice ristretto del ‘partito-non partito’, con il relativo statuto
significativamente qualificato come ‘non-statuto’).
Una delle ragioni dell’almeno parziale fallimento delle nuove regole elettorali
risiede appunto nella mancata adesione da parte del sistema politico-partitico verso
quest’apertura alle regole della democrazia interna dei partiti e nella stessa mancata
apertura (formale) del procedimento elettorale, da una parte, al sistema
legislativamente regolato delle ‘elezioni primarie aperte’ e, dall’altra, alla stessa
candidatura delle donne nelle liste elettorali.
Ritornando al tema sul quale ci eravamo soffermati in precedenza, si può allora
sottolineare che quella legislazione elettorale pare indubbiamente aver risolto una
delle questioni centrali nella formazione delle maggioranze parlamentari, quella cioè
relativa all’investitura elettorale diretta (o quasi diretta) dei relativi leaders nelle
cariche di governo, la cui capacità di trascinamento elettorale si riflette in modo
indubbiamente positivo sulla (almeno tendenziale) stabilizzazione della forma di
governo, in un quadro che, come si è già detto, resta caratterizzato dal ricorso a
‘governi di coalizione’. Ma come sappiamo, anche la possibilità di esistenza di questi
ultimi diviene funzione di una necessaria riforma elettorale che consenta il formarsi
di possibili maggioranze alternativistiche all’interno del Parlamento.
Sotto tale ultimo profilo, si potrebbe osservare che la nuova costituzione materiale
determinata dalla riforma elettorale sottrae materialmente al Presidente della
Repubblica la individuazione del leader incaricato della formazione del Governo; pur
restando formalmente libero nell’esercizio di tale onere costituzionale, il capo dello
Stato riceve un indubbio e inequivoco indirizzo da parte del corpo elettorale,
risultandone in tal modo sostanzialmente condizionato.
Ciò che invece le nuove regole elettorali non potevano assicurare era la coerenza di
azione dei partiti all’interno di governi che erano (e restavano) di coalizione, con la
conseguenza che alla parziale stabilità conseguita dall’Esecutivo attraverso
l’investitura del suo leader non si accompagnavano la forza, la coesione interna e
pertanto la stessa autorevolezza delle relative scelte politico-programmatiche.
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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Qualora assunto come obiettivo positivo da conseguire (come, tuttavia, non
assumiamo, in ragione della diversa e risalente storia parlamentare del Paese), tale
obiettivo avrebbe potuto essere conseguito solo ricorrendo (come il corpo
referendario dei primi anni ’90 aveva probabilmente voluto, ma che le forze politiche
del tempo avevano assunto come non adeguato alle esigenze rappresentative e
istituzionali del Paese) a un diverso sistema elettorale, interamente maggioritario, a
base uninominale.
L’effetto di una simile formula elettorale sul sistema politico del Paese, in tale
caso, avrebbe potuto più coerentemente e sistemicamente operare secondo un’attesa
logica bipolare; tale sistema avrebbe consentito, probabilmente, la stessa presenza
parlamentare di un partito eminentemente regionale, come la Lega Nord, al pari di
quanto è dato osservare nel sistema britannico per lo Scottish party, esso stesso
partito con base regionale. La formula elettorale utilizzata in Gran Bretagna, inoltre, e
come è ben noto, più che ‘investire’ un leader legittimandolo direttamente
nell’esercizio della funzione di capo del Governo, consente la scelta da parte degli
elettori di un partito, chiamandolo direttamente alla responsabilità di governo e
sostenendolo nel suo indirizzo politico.
Tale scelta, in un’ottica che è appunto di tipo bipolare, si accompagna con regole
parlamentari particolarmente stringenti, che sono volte ad assicurare al Governo una
sua continuità nell’indirizzo politico fra maggioranza parlamentare e maggioranza di
governo, accompagnata dalla stabilità della sua compagine istituzionale; con la
conseguenza che, in caso di inadeguatezza di quest’ultimo o di un contrasto ritenuto
negativo da parte della maggioranza parlamentare di sostegno, quest’ultima potrà
liberamente decidere di sostituire il Premier senza dover ricorrere alle più complesse
e macchinose previsioni di bilanciamento, come quelle di riconoscere al Premier un
potere di scioglimento delle Camere e a queste ultime di poterlo comunque sostituire
ricorrendo ad altro leader appartenente alla stessa maggioranza parlamentare (come
si prevedeva nell’ultimo testo di revisione costituzionale).
Come si può osservare, la riflessione appena svolta invoca l’utilità del ricorso alle
esperienze comparatistiche in tema di ‘democrazia maggioritaria’; ciò anche in
considerazione del fatto che l’attesa stabilità del Governo, in Italia, è stata
sicuramente assicurata, ma non pare potersi affermare che tale successo si estenda
anche alla coerenza interna al Governo.
I governi fondati su un bipolarismo (almeno tendenziale) sostenuto dalla
legislazione elettorale (prevalentemente) maggioritaria adottata nei primi anni ’90,
così, si sono rivelati, nella realtà, per quelli che istituzionalmente essi sono, cioè
‘governi di coalizione’, in altri termini, governi sostenuti da forze politiche e fondati
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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su accordi elettorali intorno ad un leader, le quali, in Parlamento, rivendicano
(comprensibilmente) visibilità e responsabilità rappresentativa. Quali che siano i
meccanismi utilizzati, dunque, non pare conseguito l’atteso obiettivo di una
legislazione elettorale a sostegno di un ‘governo del Premier’.
Il tema ritorna così a riproporsi negli stessi termini dei primi anni ’90, allorché si
era manifestato nel Paese un orientamento indiscusso verso la ‘democrazia
maggioritaria’, fatta in gran parte di scelte d’investitura diretta dei vertici degli
esecutivi e di semplificazioni elettorali e partitiche, in breve, di formule orientate
nella direzione della ‘personalizzazione’ della politica e della ‘presidenzializzazione’
del potere esecutivo.
4. La legge n. 270/2005: una riforma elettorale ‘partitocratica’.
Dopo un ventennio di pratica di tale modello di democrazia è ragionevole
interrogarsi sui rapporti fra rappresentanza e governabilità per come assicurati da tale
legislazione prevalentemente maggioritaria, prima, e sostanzialmente maggioritaria,
in seguito, a seguito dei molteplici sbarramenti verso le forze politiche minori e in
ragione dei significativi premi elettorali che conseguono l’obiettivo di consegnare la
maggioranza di governo alla più votata delle minoranze presenti nel Parlamento.
Ciò appare particolarmente opportuno anche in ragione del fatto che se, da una
parte, i partiti politici ne sono risultati (in parte significativa) delegittimati, dall’altra,
la dinamica dei rapporti fra Parlamento e Governo ha visto il primo pressoché
totalmente asservito al secondo e quest’ultimo piegato a logiche di tutela di interessi
settoriali e spesso ‘personali’ incompatibili con un modello di democrazia che si
assume come matura.
Il bipolarismo, dunque, se doveva costituire, nell’intenzione dei riformatori dei
primi anni ’90, una modalità per farsi carico dei problemi della ‘governabilità’, non
pare riuscito nello intento e, al contempo, ha compresso oltre il ragionevole le
esigenze di rappresentanza.
Era (e resta) ragionevole interrogarsi sui rendimenti sistemici e politico-
istituzionali di tale legislazione.
Che la soluzione seguita dalla più recente riforma elettorale, nel 2005 (legge
Calderoli), costituisca una risposta plausibile appare del tutto discutibile, se non per
una evidente volontà volta verso una strategia elettorale a breve termine da parte di
uno dei partiti della maggioranza parlamentare di centro destra che volle quella
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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riforma, al fine di ricavarne un possibile vantaggio competitivo da parte della
maggioranza parlamentare del tempo.
Al contrario, se l’obiettivo fosse stato quello di affrontare in modo adeguato il
tema di un necessario ed equilibrato rapporto da prevedersi fra esigenze della
rappresentanza politica ed esigenze di ‘governabilità’, sia nel dibattito dottrinario del
Paese sia nell’esperienza di altri Paesi sarebbe possibile individuare soluzioni
adeguate a soddisfare ambedue i richiamati valori.
Fra le esperienze di razionalizzazione del parlamentarismo utili da richiamare,
ricordiamo, come vedremo meglio in seguito, la forma di governo e il sistema
elettorale accolto in Germania, con il ricorso ad un sistema elettorale proporzionale
con soglie di sbarramento (questo modello ha ben funzionato con riferimento alle
esigenze di funzionalità del cancellierato tedesco), oppure – in un’alternativa che si
vedrebbe comunque in continuità con l’opzione in favore di sistemi a base
maggioritaria – quello francese, basato su un sistema elettorale maggioritario a
doppio turno.
L’analisi può ora concludersi con alcune (brevi) riflessioni conclusive
relativamente alle linee salienti della nuova legge elettorale a base proporzionale con
premio di maggioranza (l. n. 270 del 21 dicembre 2005) e alle sue evidenti
discontinuità rispetto alle aspettative ‘maggioritaristiche’ sollevate dai primi
referendum degli anni ’90 (1991, 1993) nonché alle relative previsioni legislative di
riforma.
Seguendo un approccio già utilizzato nell’analisi della legislazione elettorale
previgente, in tale riflessione, non ci soffermeremo sull’analisi delle soluzioni
tecniche e dei molteplici sbarramenti in essa previsti (della cui legittimità, invero, si è
molto discusso in dottrina), rinviando alle specifiche analisi di dettaglio che si sono
già ampiamente profuse in merito. Non ci soffermeremo nemmeno, come pure non
sarebbe consentito in un’analisi che non si voglia troppo incompleta, sul vaglio dei
singoli profili di irrazionalità presenti nella legge, in quanto appunto disciplinante la
materia elettorale in modo (almeno in parte) irrazionale e per questo incostituzionale.
L’approccio cui c’ispireremo, pertanto, non potrà che (in)seguire la ricerca della
logica sistemica sottesa alla nuova legge elettorale, portando ad interrogarsi sulla sua
idoneità (o meno) a farsi carico, al contempo, delle esigenze di rappresentanza e di
governabilità e sui possibili (ma in realtà certi, quando si considerino gli impatti sul
sistema politico e su quello istituzionale di governo della sua prima applicazione)
effetti negativi che la stessa potrà avere relativamente alla previsione delle ‘liste
bloccate’ nell’individuazione dei candidati e degli eletti. Una scelta – quest’ultima –
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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che, in quanto fortemente dis-rappresentativa e di dubbia legittimità, rischia di
allontanare ulteriormente e in modo (forse) definitivo i cittadini dai partiti,
alimentando un sentimento antipartitico che rischia perfino di trasformarsi in un
sentimento di antipolitica. Un sentimento – quest’ultimo – che rischierebbe di minare
nel profondo la qualità e la stessa tenuta della democrazia.
La crisi in atto e le pulsioni antipartitiche registrate nel dibattito in corso del Paese,
infatti, costituiscono un riscontro non attingibile solo da quegli animali che, come
nella metafora ben nota, mettono le mani davanti agli occhi traendone la convinzione
che non si veda nulla all’orizzonte.
In un penultimo profilo, ci interrogheremo, infine, sui rapporti fra tale legislazione
e le nuove prospettive della forma di governo, per cogliere, anche in questo caso, la
funzionalità (o meno) delle nuove regole elettorali a sostenere le opzioni accolte con
particolare riferimento alle modalità di scelta del Premier nonché della coalizione
chiamata a governare.
Così richiamati i temi ora oggetto di analisi, non può non osservarsi come la nuova
legge di riforma elettorale costituisca, sotto ognuno dei profili richiamati, un netto
abbandono dei princìpi sistemici che avevano in passato ispirato la riforma
(prevalentemente) maggioritaria (essi stessi, invero, molto incerti).
Tale opzione, tuttavia, non sembrerebbe seguire un criterio formale di disinteresse
istituzionale verso l’obiettivo della governabilità, quando si consideri che (almeno)
alcune disposizioni sono previste in tale prospettiva (art. 1, V co., della l. 270/2005),
come, ad es., la presentazione alla Camera di un “programma elettorale” e
l’indicazione dei dati personali del leader indicato dai partiti o dai gruppi politici
organizzati quale “capo della forza politica”, indici – questi ultimi – che farebbero
assumere un interesse verso la formazione di coalizioni guidate da un leader certo.
Ma si tratta, come si può osservare, di disposizioni ampiamente inadeguate rispetto
all’obiettivo atteso della stabilità e della coesione interna della maggioranza di
governo, soprattutto se comparate con le più stringenti formule del sistema elettorale
previgente, sia nella individuazione del leader capofila delle coalizioni sia nei
meccanismi di trasformazione dei voti in seggi parlamentari.
È rispetto a questa incertezza di fondo nella garanzia della ‘governabilità’ che
appaiono incongrue e irrazionali le farraginose soluzioni accolte con riferimento alla
distribuzione del premio di maggioranza, fino a doversi sostenere, in unum con gli
orientamenti della prevalente dottrina che si è fin qui occupata della questione, che
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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siamo in presenza di una ‘irrazionalità complessiva’ della legge, che, per questa
ragione, dovrebbe essere censurata dal Giudice delle leggi (qualora adito).
Da una parte, infatti, la legge non prevede (ma forse non poteva, quando si
consideri la previsione accolta nell’art. 67 Cost.) alcuna sanzione per le coalizioni di
forze politiche che, dopo aver fruito del premio di maggioranza, immediatamente
dopo decidano di sciogliersi per confluire in altre forze politiche, violando in tal
modo il principio di eguaglianza del voto e alterando di conseguenza le condizioni
della competizione elettorale; dall’altra – e soprattutto – occorre sottolineare la scarsa
(e anche per questo irrazionale) capacità premiante del ‘premio di maggioranza’,
quando si consideri come la stessa, in sede di assegnazione dei seggi al Senato,
finisca in realtà per annullarsi all’interno di ogni singola regione, non producendo
quell’atteso effetto premiante espressamente voluto dalla legge e di stabilizzazione
della coalizione di forze politiche vittoriose alle elezioni per assicurare alle stesse
almeno il 55% dei seggi, a garanzia della stabilità governativa. Un premio regionale –
quest’ultimo – che diviene manifestamente un “non premio” a livello nazionale in
quanto i differenti, singoli, premi possono finire per annullarsi.
Si tratta, in conclusione, di un sistema elettorale a base proporzionale corretto con
premio di maggioranza e sbarramenti (variegati) che, tuttavia, non risulta idoneo ad
assicurare i princìpi proiettivi propri dei sistemi elettorali a base proporzionale, né ad
assicurare in modo congruo il ruolo di rappresentanza attraverso gli eletti.
Il paradosso di una riforma tanto in contrasto con la filosofia della governabilità
seguita nell’ultimo decennio, nonostante i già richiamati limiti di tale legislazione
elettorale, consistenti nella sola garanzia della stabilizzazione della maggioranza
parlamentare non accompagnata dalla relativa coesione interna, tuttavia, sollecita
l’interrogativo circa l’esistenza (o meno) di “interessi partigiani” congiunturali, che
hanno spinto la maggioranza parlamentare del tempo a violare consolidate regole
della costituzione materiale e in contrasto con i princìpi dello stesso patrimonio
costituzionale europeo.
Naturalmente, una simile ricerca non può ‘assolvere’ le ragioni d’irrazionalità, e
pertanto d’illegittimità, del nuovo sistema elettorale, per come già autorevolmente
sottolineate dalla dottrina. Ma potrà forse aiutare a comprendere l’evidente difficoltà
del più recente legislatore, anche in ragione delle esigenze politiche di vedere
garantita una coesione all’interno della maggioranza parlamentare rispetto al ‘potere
di crisi’ esercitato da una forza minore, come quella della Lega Nord.
Una simile ricerca, supportata da dati empirici, è stata bene svolta, di recente, con
argomentazioni pienamente condivisibili nello spirito di questa analisi. Interrogandosi
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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sugli effetti, almeno apparentemente ‘schizofrenici’, della vigente legislazione
elettorale, consistenti nella considerazione secondo cui, per effetto del premio di
maggioranza, il nuovo sistema premierebbe una minoranza rendendola maggioranza
e per altro verso penalizzerebbe oltremodo i partiti che, ancorché coalizzati, non
riescono a superare lo sbarramento, l’appena richiamata analisi pare ben sciogliere
l’arcano, il paradosso, che per questo risulterebbe solo apparente.
Rimane, infine, da affrontare la distanza – si direbbe siderale – di una simile
riforma elettorale rispetto alla filosofia-ingegneria istituzionale posta a base del testo
di revisione costituzionale (poi respinto in sede referendaria). Quest’ultimo risultava
ispirato a una “nuova democrazia” fondata sulla (pressoché esclusiva) investitura
diretta dei governi, accompagnandosi con la volontà di attutire fortemente (fino quasi
a farli scomparire) meccanismi di equilibrio che i costituenti del ’48 avevano
assegnato al capo dello Stato ed alla Corte costituzionale; equilibri – questi ultimi –
che nel complesso hanno ben funzionato, nel loro ruolo di equilibratori del sistema
fondato comunque sulla rappresentanza parlamentare.
Il modello di governo prospettato nel testo di revisione costituzionale (respinto in
sede di referendum confermativo) si allontanava dal modello britannico per
avvicinarsi alla fallimentare esperienza israeliana. Non richiamava, infatti, il modello
britannico perché il Premier inglese non dispone del potere di scioglimento delle
Camere (e d’altra parte lo stesso può essere sostituito dalla sua maggioranza con altro
leader, come è puntualmente avvenuto nello avvicendamento fra la Thatcher e
Major); si avvicinava fortemente, invece, a quello israeliano, cioè ad un premierato
espressamente elettivo con potere di scioglimento, modello di cui peraltro Israele si
era presto disfatto per i suoi conclamati limiti d’instabilità politica di quella formula
di governo.
In altri termini, pareva volersi inseguire un modello di allontanamento
dell’investitura della maggioranza parlamentare a favore di una leadership solitaria,
cioè quella del capo del Governo, dominus, nella fase di formazione del Governo e
nella sua vita istituzionale, del potere di risolvere la crisi ogni volta che essa
insorgesse, ricorrendo alle risorse istituzionali/costituzionali piuttosto che a quelle,
più adeguate, di un dialogo stringente fra il Premier e la sua maggioranza
parlamentare. In breve, si ricorreva a una ‘scorciatoia’ costituzionale che era
assolutamente in squilibrio rispetto al mix di ‘pesi e contrappesi’ che sono necessari
in una democrazia parlamentare e perfino in una forma presidenziale, come ci hanno
insegnato gli stessi costituenti nord-americani.
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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5. Riflessioni a mo’ di conclusione
Come si può facilmente cogliere, la tesi che si è voluto argomentare fin qui risulta
perfino ispirata ad una sorta di provocazione se la rapportiamo agli eventi osservabili
nelle statistiche della partecipazione politico-partitica e agli stessi esiti elettorali delle
più recenti elezioni politiche.
Tali esiti sembrano sottolineare che i partiti politici di massa – per come osservano
attenti studiosi di politologia e di sociologia politica – avrebbero ormai concluso la
loro parabola storica, passando il testimone ad una nuova forma-partito.
Tale osservazione, così, si pone in contrapposizione con la tesi che si è voluto
argomentare, secondo la quale le peculiarità della forma di Stato e di governo in Italia
e più in generale nella democrazia contemporanea, almeno in quella europea
dell’ultima metà di secolo, risiedono nella sussidiarietà dei partiti politici nella
funzione di mediazione sociale e di rappresentanza politica e per questo nel loro
proporsi come i veri garanti della democrazia, mediante il potere di concorrere alla
formazione della politica nazionale da parte dei cittadini unitamente al Parlamento
che ne è il formale rappresentate, l’espressione istituzionale della sovranità nazionale.
I partiti, dunque, hanno costituito e costituiscono tutt’oggi, sia pure con modalità e
intensità diverse, l’asse portante della democrazia, potendosi/dovendosi assumere che
dopo di essi non resta spazio di mediazione/rappresentanza altro che per i demagoghi
e per le leadership populistiche/cesaristiche. In breve, lo scenario che fu già evocato
problematicamente da L. Elia di una deriva verso forme di presidenzialismo latino-
americane, certo non compatibili con l’appartenenza del Paese all’Unione europea.
Quando allora si parla di una crisi dei partiti occorre fare bene attenzione alle
manifestazioni di tale crisi. Un errore di prospettiva, infatti, potrebbe falsare
pericolosamente, per le scelte che si andassero ad adottare, il quadro di riferimento
delle garanzie democratiche e costituzionali. La crisi dei partiti è innanzitutto una
crisi che riguarda la concezione che essi hanno di sapere/potere esaurire, in modo
esclusivo, le composite, articolate e spesso conflittuali, aspettative del corpo sociale.
In termini politico-istituzionali tale convincimento si è tradotto fin qui e si traduce
ancora, giorno dopo giorno, in politiche legislative ispirate alla convinzione circa
l’esclusività del sistema dei partiti nella funzione rappresentativa, in una parola,
nell’affermazione di un potere di monopolio rappresentativo dei partiti.
Per non risalire troppo indietro nel tempo, si può rinvenire una conferma storica di
questo atteggiamento nelle difficoltà registrate dai partiti nei confronti della
contestazione giovanile, di quella studentesca ed operaia, alla fine degli anni ’60 (il
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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“68”), nei confronti della domanda di tutela ‘radicale’ dei diritti civili e politici
affermatasi nel corso degli anni ’70, in una parola in riferimento a tutte le
manifestazioni dei movimenti collettivi sorti nel Paese, nel corso degli anni, a difesa,
di volta in volta, di interessi (più o meno) diffusi o (più o meno) settoriali, e ciò a
prescindere dalle tradizionali aree di rappresentatività dei partiti storici.
La stabilità della democrazia, dunque, e il suo fondarsi in modo prevalente sui
partiti politici di massa, ha fatto sì che non trovassero immediato ed attento ascolto le
esigenze del cambiamento, le quali hanno dovuto essere canalizzate in movimenti
collettivi cui si deve una parte molto importante della modernizzazione della vita
politica (ed anche istituzionale) nel nostro Paese.
La manifestazione più importante del processo che si è fin qui evidenziato, consiste
così nella graduale svalorizzazione della funzione rappresentativa dei partiti a favore
di funzioni di mediazione (che sono proprie delle istanze parlamentari). Si tratta, in
una parola, del processo di istituzionalizzazione dei partiti politici come soggetti
materialiter costituzionali di indirizzo politico, della loro attrazione nell’orbita delle
istituzioni e dell’autorità statale.
Tale processo si può riassumere nei termini della prevalenza delle problematiche
rappresentative e della integrazione sociale su quelle (che sono più rilevanti ai fini
della modernità e della funzionalità dello Stato e della macchina amministrativa)
della decisione-opposizione, della capacità, in breve, di fornire risposte istituzionali
adeguate per velocità e contenuti alle problematiche poste da una società
profondamente articolata e in via di crescente modernizzazione nonché da un sistema
produttivo privato fortemente concorrenziale benché frenato da una economia
pubblica la cui direzione e i cui risultati sono risultati ampiamente condizionati, nel
passato risalente ma anche recente, dalle scelte di lottizzazione operate in sede di
nomina dei vertici burocratici e manageriali.
Le tematiche di questa vera e propria delegittimazione del sistema dei partiti si
coniugano, traendone motivi di conferma, con le difficoltà registrate nel dibattito
parlamentare ma soprattutto partitico a trovare un ragionevole punto di incontro delle
rispettive esigenze in proposte di riforme istituzionali capaci di ridare stabilità,
autorevolezza e funzionalità alle istituzioni costituzionali.
Ma prima ancora, e soprattutto, l’osservazione di fenomeni elettorali come
l’astensionismo, le leghe, le coalizioni referendarie, e più di recente le declinazioni
della cd web democracy nell’ambito di forme nuove di partecipazione politica
(partito-rete) sottolineano una evidente volontà del corpo elettorale di superamento
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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delle discriminanti ideologiche a favore di tematiche di riforma ispirate alla
vitalizzazione della politica come efficienza degli apparati statali incaricati di
elaborare le decisioni politiche e di quelli predisposti per attuarne i disposti.
È ciò che si vuole intendere quando, con terminologia certamente approssimativa,
si parla dell’obiettivo di garantire la ‘governabilità’ in modo strettamente connesso
alla rappresentanza/mediazione di bisogni/domande sociali.
Ed è appunto a questo livello che è in corso, durante gli ultimi anni una vera e
propria lotta contro il sistema dei partiti “conformato in corporazione proprietaria”,
come “casta”, cioè come classe dei professionisti della politica che osteggia o, nella
versione più edulcorata, risulta indifferente verso ogni proposta di riforma che ne
metta in questione l’esistenza, la legittimità e la qualità rappresentativa.
A questa corporazione castale va contrapponendosi attualmente, più che un
movimento collettivo dai contorni ben chiari, un movimento di modernizzazione
molto composito, ma anche molto contraddittorio.
“Il fallimento di un governo sostenuto dal PD-PdL ci consegnerà nella successiva
tornata elettorale la totalità dei seggi alla Camera e al Senato”. In modo più o meno
preciso tali parole hanno di recente costituito oggetto di ricorrenti dichiarazioni
politiche del leader del Movimento 5 Stelle, Grillo.
Senza necessità di farne approfondite analisi, non può non sottolinearsi come un
simile obiettivo risulti confliggente con i principi costituzionali del pluralismo
(politico, ideologico e istituzionale). Peraltro, a ben riflettere, una simile politica –
fondata sulla pretesa di mono-rappresentatività politica – non fu perseguita
strategicamente dagli stessi totalitarismi e dai relativi leaders negli anni ’30 del
secolo scorso. Naturalmente, con tale affermazione, non vogliamo nemmeno
ipotizzare che le finalità dei nuovi movimenti politici che hanno goduto di così ampio
consenso elettorale fossero comparabili sia pure latamente a simili infauste
esperienze storiche. Ma se è così perché utilizzare terminologie e strategie tanto
incongrue (irragionevoli politicamente e insostenibili costituzionalmente) da parte dei
leader di tali movimenti? La domanda, che è pienamente legittima, non sembra poter
avere una risposta, salvo a prendere atto che il Partito/Movimento ha voluto
espressamente limitarsi a rappresentare socialmente un movimento di critica della
politica istituzionalizzata e dei partiti, senza che a tale rappresentazione
corrispondesse un’assunzione di responsabilità politica nei confronti dei propri
elettori.
Insomma, un modello di rappresentazione senza rappresentanza, un modello di
rottura fra le funzioni di mediazione e quelle di rappresentanza politica; nel fondo, un
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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modello fondato sulla rottura con i principi bisecolari della democrazia di tipo
rappresentativo a favore di indeterminate prospettive di democrazia diretta o semi-
diretta dei cittadini! Anche qui un caveat non risulta inutile.
Che la democrazia rappresentativa costituisca una “finzione rappresentativa” non
lo afferma qualche sconosciuto teorico radicale alla ricerca di qualche spazio di
notorietà ma lo stesso teorico per eccellenza della teoria pura del diritto, Hans Kelsen.
Pertanto, se di finzione rappresentativa deve parlarsi come punto di partenza
dell’analisi della democrazia contemporanea come di quella liberal-democratica
originaria, non si nega che vi sia (e vi debba essere) spazio per la ri-qualificazione
della politica e per forme di organizzazione costituzionale dello Stato idonee a
comporre democraticamente e razionalmente i bisogni e la loro soddisfazione
secondo meccanismi che impediscano il ricorso alla violenza e che per questo si
fondino sul solo principio che può dare legittimità alle decisioni parlamentari, il
principio di maggioranza.
Non va parimenti dimenticato che quando si è voluto imprimere una critica alla
teoria rappresentativa, a partire dalla rivoluzione bolscevica del 1917, da quella
fascista del 1922, da quella nazista del 1933-34 … la direzione obbligata è stata
quella verso il Partito-Stato, con tutto ciò che storicamente ha significato la
distruzione di ogni distinzione fra società e Stato a favore di forme di integrazione
organica di tipo autoritario della prima nel secondo, esso stesso ridefinito attraverso
l’identificazione fra leader del Partito unico e Stato. In breve l’apoteosi del
fuhrerprinzip!
Ma vi è un’altra spiegazione della crisi dei partiti che fa perno sulla loro
ossificazione politica come effetto indotto dalla mancata pratica di un’alternanza al
Governo nel corso del cinquantennio di esperienza repubblicana lasciata alle spalle e
come mancata pratica della democrazia al loro interno, almeno a seguito
dell’evoluzione del costituzionalismo contemporaneo post-1989.
La scarsa permeabilità dei partiti alle nuove domande sociali è a sua volta
profondamente condizionata dalle loro diverse modalità organizzative oltre che dalle
modalità e dai limiti conosciuti nelle forme di competizione esistenti nel sistema
partitico.
Tale osservazione merita tuttavia un chiarimento, che potrà risultare utile nella
stessa riflessione sulle proposte di riforma istituzionali-costituzionali in discussione.
Il generale convincimento sulla esistenza di un patto costituzionale sotteso alla
Costituzione, stipulato alle origini della Repubblica democratica dai maggiori partiti
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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politici e fondato sui valori di riferimento centrali della realtà sociale italiana (cultura
marxista, cattolica e laica) deve spingere alla conclusione che, così come la
Costituzione si fondò su un accordo, la sua eventuale modifica non può che fondarsi
su una ristipulazione di quel patto ad opera degli attori e dei soggetti politici operanti
e riconosciuti nella vita politica del Paese, ancorché aggiornato alla attualizzazione di
quei valori secondo gli orientamenti maggioritari della coscienza civile e politica del
paese.
Come corollario di questa osservazione, si può affermare con qualche
ragionevolezza che non si dà riforma istituzionale-costituzionale che non si fondi o
che non rispecchi gli interessi rappresentati dai partiti. Se mai qui sarebbe da operare
una selezione fra interessi tattici ed interessi strategici, ma non vi è dubbio che non si
possa (almeno utilmente) discutere di riforme istituzionali se non si accetta di
evidenziare e discutere degli interessi politici sottesi ad ogni proposta di riforma. La
discussione in corso nel Paese sulla opportunità di costituire una Convenzione
costituente affidata alla presidenza di un leader politico noto nel Paese per le capacità
rappresentative di tipo populistico ne costituisce una esemplificazione quanto mai
illuminante!
Assunta, come si diceva poc’anzi, una maggiore praticabilità (la stessa possibilità)
di riforme istituzionali-costituzionali attraverso la strada partitico-parlamentare – non
risultando se non in via eccezionale plausibili diverse ipotesi (come quella di una
Assemblea costituente) fondate su una grave crisi di delegittimazione del sistema
politico-costituzionale – il problema centrale che si pone e che tuttavia non risulta fin
qui adeguatamente affrontato è quello di sapere se esista un comune interesse o se sia
possibile prospettare una domanda rappresentativa forte e almeno tendenzialmente
unitaria da parte della coalizione di centro-sinistra nel suo complesso come pure da
parte dello schieramento di centro-destra (ed ora se si dia o meno un punto di
gravitazione accettabile all’interno dell’attuale maggioranza allargata che consenta di
individuare punti condivisi di riforma costituzionale, peraltro già convenuti negli anni
passati (c.d. manutenzione costituzionale), evitando di intraprendere un lacerante
percorso, inevitabilmente senza vie di uscita, che mirasse a riforme della forma di
governo fondate sulla legittimazione diretta del capo dello Stato o del Presidente del
Governo).
Il tema della riqualificazione della rappresentanza politica negli ordinamenti
costituzionali contemporanei, ed in particolare in quello italiano, così, presenta una
duplice valenza che investe, da un lato, la ridefinizione del sistema elettorale in senso
stretto, vale a dire i meccanismi di trasformazione dei voti in seggi (passaggio dal
sistema proporzionale a quello maggioritario) e, dall’altro, la c.d. ‘legislazione
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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elettorale di contorno’ (garanzie del procedimento di elezione, regolamentazione
delle campagne elettorali, ineleggibilità e incompatibilità) e più in generale il c.d.
“diritto dei partiti”, con una legge che non è ulteriormente rinviabile che disciplini
almeno i nodi più significativi costituiti dal finanziamento e dalla democrazia interna.
Tuttavia alla necessarietà politica di una simile legge non corrisponde culturalmente
una capacità del sistema politico-partitico in campo di coglierne l’urgenza, con
conseguenze fortemente problematiche sulla possibilità di recupero della
legittimazione politica da parte dei partiti, anche in ragione della critica diffusa nei
loro confronti.
5.1. La democrazia “nei” partiti: un tema da riprendere
In una pur breve riflessione conclusiva in tema di ‘democrazia nei partiti’, per le
ragioni generali già richiamate appare opportuno ricordare che l’approccio al tema
nella fase attuale non si colloca nell’ambito prevalente di quella risalente analisi per
la quale erano stati già avanzati rilievi critici da parte di autorevole dottrina.
L’esigenza di tutelare, anche per via legislativa, il cittadino nei confronti degli organi
interni dei partiti sarebbe caratterizzato, secondo un tale approccio, da un astratto
moralismo che trarrebbe linfa dal riferimento a una concezione statuale superata,
quella dello Stato nella sua caratterizzazione liberal-democratica. La questione risulta
di grande momento, essendo giunti ormai ad uno snodo fondamentale per la stessa
sopravvivenza dello ‘Stato dei partiti’ e delle stesse positive funzioni di
rappresentanza e di concorso alla politica nazionale, quella che i partiti hanno svolto
nella formazione della moderna realtà politica fondata sulla universalizzazione del
suffragio.
Ad ulteriore argomentazione si possono richiamare due elementi. Il primo è dato
dal processo critico attualmente in atto con diversa intensità nei partiti, e che ha già
portato ad importanti riassetti fra gli stessi ed anche, sia pure in casi limitati, a
riforme di statuto, volte a dare maggiore peso agli eletti e agli elettori rispetto
all’apparato di partito ed alla modifica di talune parti dei regolamenti dei gruppi
parlamentari alla Camera (è il caso del PD), nonché alla formulazione di regole
stringenti accolte nel Codice di comportamento di talune nuove forze politiche,
ancorché autoqualificate esplicitamente come ‘Non Statuto’(è il caso del Movimento
5 Stelle).
Il secondo elemento, più rilevante, consiste in quell’approccio che fa del self-
restraint, dell’autoregolamentazione, l’unico rimedio, legittimo ed auspicabile, contro
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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il prepotere dei partiti, esercitato, all’interno, verso i propri iscritti e, all’esterno, nei
confronti degli organi costituzionali. Benché questa opinione abbia costituito, nel
recente passato, dottrina pressoché maggioritaria, pare opportuno riconoscere come
tale proposta nel fondo lascia (più che) perplessi. Se è vero, infatti, che i partiti e le
relative burocrazie interne hanno consolidato situazioni di potere verso gli iscritti e
nei confronti degli organi costituzionali; se viene perfino giustificata teoricamente
tale loro posizione (privilegio dei partiti), non si comprenderebbe per quale ragione i
partiti dovrebbero muoversi verso una riforma degli statuti che ribaltasse tale loro
situazione di monopolio sostanziale. Anche questa proposta, dunque, sembrerebbe
affetta da quella scarsa efficacia operativa di cui sono caratterizzate le stesse proposte
di regolazione legislativa già a partire dalla fase immediatamente successiva
all’approvazione della Carta costituzionale.
Ciò detto, può essere utile richiamare, sia pure in termini essenziali, il quadro delle
proposte di regolazione legislativa avanzate negli anni più o meno recenti. Si tratta di
proposte disomogenee fra loro e per questo difficili da inquadrare in tipologie
coerenti. Esse concernono, in primo luogo, l’azione orizzontale dei partiti, problema
che, come si è detto, è di significativo rilievo anche giuridico da quando si è
affermata la potenza organizzativa dei partiti e, quindi, di una loro strutturazione
burocratico-oligarchica e, in secondo luogo, da quando si è consolidata la dinamica
partiti-Stato-governo.
Rispetto (soprattutto) al primo problema, che in campo gius-pubblicistico è emerso
nell’analisi dei controlli attuativi del ‘metodo democratico’, di cui all’art. 49 Cost.,
non si possono che fare degli accenni essenziali (di recente, si veda anche E. Cheli, S.
Passigli, Amato, in Astrid). Può essere più utile soffermarsi sulle proposte che
concernono i rapporti partiti-organi costituzionali dello Stato e su alcune di esse più
specificamente, anche se risalenti, come il progetto Mortati e quello Sturzo.
Nell’ambito di queste ultime, di recente, sono state avanzate limitate proposte che,
nel fondo, non toccano la tematica centrale dei controlli, limitandosi ad estendere le
previsioni normative, con le relative garanzie, dalla fase dell’espressione del voto a
quella pre-elettorale, che è pressoché totalmente nelle disponibilità decisionali degli
organi dirigenziali dei partiti (senza l’attivazione delle procedure democratiche
interne ai partiti). Viene, infatti, osservato come già in questo ambito siano decise, in
termini di designazione delle candidature alle cariche elettive, le scelte sui
rappresentanti nelle assemblee rappresentative, non residuando all’elettore altra
libertà che quella di orientare il proprio voto su di esse, ovvero di non esercitare il
voto.
Altra materia su cui è stato avviato un ripensamento, in sede dottrinaria ma anche
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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di politica legislativa, è quella della legislazione sul finanziamento pubblico, che
cionondimeno (prima delle recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, nel suo
programma alle Camere nel quale si fa espresso riferimento alla sua abrogazione) ha
portato a un (più che) raddoppio del contributo economico dello Stato ai partiti. Una
revisione della legge nei suoi criteri orientatori e nelle modalità di erogazione dei
fondi pubblici, ma soprattutto un richiamo all’esperienza legislativa di alcuni
ordinamenti costituzionali e legislativi europei in materia di legislazione di sostegno
alla partecipazione politica generalizzata dei cittadini (ma soprattutto dei giovani e
delle donne), unitamente ad una diversa legislazione in materia di accesso
(soprattutto) al mezzo radiotelevisivo (libertà d’accesso, libertà d’antenna, accesso
gratuito agli spazi pubblici, par condicio) – che si potrebbe sinteticamente definire
legislazione di finanziamento indiretto della partecipazione politica – concluderà la
presentazione del quadro delle proposte.
Sul primo versante, le proposte de jure condendo riguardano fondamentalmente la
pretesa del cittadino all’iscrizione ai partiti, stante la vigente sostanziale chiusura del
loro sistema. Una eventuale disciplina legislativa dovrebbe riguardare, in tal senso,
qualche forma di “obbligatoria pubblicità delle iscrizioni”, con la previsione di
disposizioni semplici e chiare per la domanda di iscrizione, la pubblicità del nome
degli iscritti per singola sezione e soprattutto l’enunciazione del “criterio
discriminante”, con la precisazione, nello statuto, dei requisiti politici e morali
necessari per l’iscrizione.
Una simile normativa potrebbe sortire benefici effetti, oltre che nella garanzia del
diritto di iscrizione dei richiedenti, nella stessa immagine del partito, alle cui
segreterie nazionali e locali verrebbe, in tal modo, posto un freno negli abusi
amministrativi, consistenti nelle (ricorrenti) manipolazioni delle iscrizioni.
Una variante di questa proposta ritiene necessaria una più adeguata riflessione che
non si fermi alla mera tutela della domanda di ammissione al partito ma che, in
ragione della configurazione attuale della rappresentanza politica, miri a riconoscere
una sostanziale equiparazione dell’elettore all’iscritto e a garantire all’elettore una più
adeguata capacità di incisione nell’elaborazione del programma politico del partito e
nella selezione della sua classe dirigente. Le proposte in tal senso a che, a livello
nazionale come a quello regionale-locale, l’elettorato possa partecipare alla gestione
del potere esercitato dai partiti, in modo tale che la stessa sia in tal modo condizionata
non dai soli iscritti ma anche dai simpatizzanti (e più in generale dallo elettorato),
sono un terreno di riflessione dei partiti negli ultimi anni, trovando proposte e
attuazione diverse da partito a partito (ma nel complesso senza pervenire a soluzioni
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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significative).
Un altro campo in cui, come si è già osservato, da tempo si è esercitata, su fronti
contrapposti, la dottrina giuridica è quello della legislazione di finanziamento
pubblico dei partiti, legittimata come sostegno delle funzioni cui gli stessi assolvono
nell’ordinamento giuridico-costituzionale e in quello sociale (di recente, C. Pinelli, in
Astrid). Sono note a tutti le vicende della legge n. 195/1974 e delle sue integrazioni,
varata a grande maggioranza e in breve tempo. Rispetto ad un tale quadro, che merita
tuttavia ricerche specifiche sui singoli partiti, sono state avanzate almeno quattro
ipotesi di riforma della normativa sul finanziamento pubblico, che dovrebbero
riguardare: a) il settore dei divieti, b) la trasparenza della situazione del partito ed
un’anagrafe tributaria politica degli eletti a cariche pubbliche, c) controlli sulla
veridicità delle situazioni dichiarate, d) più adeguate sanzioni. Sul punto, in ogni
caso, è dato ipotizzare (per come già sottolineato) un (imminente?) mutamento
dell’indirizzo legislativo, salvo a registrarne ripensamenti dell’ultimo momento.
Vi è, infine, tutta un’altra tipologia variegata di proposte, difficilmente analizzabile
in questa sede. Alcune di esse mirano ad esercitare un controllo sulle modalità di
svolgimento delle campagne elettorali, vietando le espressioni più dispendiose, altre
ad introdurre, in sostituzione di un finanziamento diretto dei partiti, uno di tipo
indiretto (affissioni, spazi, strutture audiovisive, ecc.), i cui destinatari non sono
soltanto i candidati alle elezioni ma tutti coloro che “fanno politica”, in modo anche
minimamente organizzato.
Né si possono trascurare, in questa rapida rassegna, quelle proposte legislative che
mirano alla limitazione del prepotere dei partiti, avendo come oggetto specifico
l’eliminazione della corruzione, del malcostume politico e più di recente la
limitazione dei costi (obiettivamente eccessivi) della politica e delle stesse istituzioni
pubbliche. Ciò che viene talora anche riassunto nel termine trasparenza.
Un’ultima serie di proposte, che riguardano i rapporti interni al partito ma
concernono, altresì, una delle funzioni dello stesso – che si colloca, secondo alcuni, in
un processo strettamente connesso con la funzione pubblica esercitata nelle procedure
elettorali di espressione del voto, per altri, in una fase direttamente previa al voto ma
in ciò condizionata nettamente dall’attività e, quindi, dagli organi dirigenti dei partiti
– concerne la titolarità e le procedure di designazione dei candidati per le liste
elettorali. Per alcuni tali proposte si spingono fino a configurare come auspicabile e/o
necessario (espressione della libertà di associazione politica) un sistema di
designazione dei candidati alle cariche pubbliche affidato direttamente al corpo
elettorale, attraverso procedimenti elettivi regolati legislativamente. La logica cui si
ispira quest’ultimo sistema, c.d. delle “primarie” – che può dunque riguardare tutto
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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l’elettorato (sistema delle primarie aperte) o il solo elettorato del partito (sistema
delle primarie chiuse) previa dichiarazione di appartenenza – è quella di garantire,
ben più di quanto possa avvenire con la mera espressione elettorale del voto al
partito, una scelta diretta del cittadino-elettore, in una delle fasi che è fra le più
importanti dell’intera procedura, quella cioè della designazione dei candidati che, se
raggiungono il consenso previsto, saranno parte attiva nella determinazione delle
scelte di politica nazionale, nelle competenti sedi legislative e di governo.
Alcune osservazioni che si possono avanzare su queste proposte, peraltro di
difficile (benché non impossibile) applicazione nel sistema elettorale vigente,
spingono a ritenere che in via teorica tale sistema appare offrire una più adeguata
espressione della libertà di associazione politica ai sensi dell’art. 49 Cost. Ma si tratta
probabilmente di una libertà solo formale, stante la forza consolidata dei partiti, che
può trasferire a questo livello la pressione del proprio apparato organizzativo (ed il
residuo vincolo più prettamente ideologico di cui i partiti possono eventualmente
ancora disporre).
In uno scenario politico-istituzionale (che è stato prevalentemente maggioritario
per più di un decennio, nella vigenza delle leggi elettorali per la Camera e per il
Senato, nn. 276 e 277, del 1993, cd. legge Mattarella e successivamente
sostanzialmente maggioritario, pur formalmente proporzionale secondo la legge
Calderoli), peraltro, tali ultimi profili hanno concorso a tal punto a qualificare il
sistema della rappresentanza politica da far assumere che una scarsa considerazione
di una siffatta analisi avrebbe di certo prodotto una riduzione degli stessi standard di
efficienza rappresentativa. In tale quadro di riferimento assume rilievo la proposta di
introdurre il sistema delle elezioni primarie per la designazione delle candidature
all’interno dei partiti e nell’ambito degli schieramenti elettorali al fine di assicurare il
‘concorso’ dei cittadini alla potestà di iniziativa nella funzione elettorale
“monopolizzata” finora dai partiti politici. Considerato che le due riforme elettorali
più recenti hanno originato nel sistema partitico una tendenza quantomeno verso un
sistema bipolare di tipo coalizionale, l’introduzione di un meccanismo di elezioni
primarie dovrebbe prevedere un circuito di selezione dei candidati alquanto
articolato. Più precisamente, tale meccanismo dovrebbe fondarsi su un complesso di
regole e di garanzie che assicuri trasparenza e un alto livello partecipativo, di
rappresentatività e, nel contempo, limiti il potere di decisione dei partiti maggiori
della coalizione, e al contempo accresca le possibilità di vittoria della coalizione nella
competizione elettorale.
Mentre negli Stati Uniti, le primarie, sebbene aperte, rimangono primarie di partito,
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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in Italia, al contrario, si andrebbero a configurare come primarie di schieramento con
tutti i problemi, non solo tecnici, ma politici, dell’organizzazione di ‘primarie non per
un partito’ ma ‘per una coalizione’ che presenta al suo interno uno o più partiti
politicamente e numericamente predominanti. Per tali ragioni, appare opportuno
indirizzarsi verso un sistema di primarie ‘aperte’ anche a soggetti appartenenti a
gruppi, movimenti, sindacati e associazioni di riferimento. Un sistema massimamente
partecipativo, tale da garantire il protagonismo propositivo ed estimativo di tutte le
organizzazioni partitiche che compongono la coalizione, siano ad essa legati da un
vincolo di affinità politico-programmatica e siano, comunque, portatori di interessi
comuni da rappresentare.
Rispetto al modello delle primarie chiuse, vale a dire riservate ai soli iscritti, il
sistema delle primarie aperte, impone, tuttavia, una più articolata regolazione, magari
attraverso una definizione normativa dei principi di carattere generale e la riserva
all’autonomia di ciascun schieramento, sulla base di un accordo tra le parti della
coalizione, della puntuale disciplina elettorale.
Nello stesso tempo, vi è la necessità di assicurare la massima regolarità del voto
attraverso l’individuazione di meccanismi garanti della partecipazione dell’elettore
alle primarie di un solo partito o di una sola coalizione. Non ritenendosi esportabile il
metodo dell’autoregistrazione, utilizzato negli Stati Uniti, per il vantaggio rilevante
che ne deriverebbe per i meglio organizzati apparati partitici, la soluzione potrebbe
essere quella di rilasciare a ciascun elettore una sorta di pre-certificato elettorale
utilizzabile per una sola primaria.
Per quanto riguarda l’individuazione dei candidati è indispensabile che alle
primarie partecipino solo candidati che condividano un comune indirizzo politico-
programmatico e che siano legati da un accordo implicito che impegni gli sconfitti a
non candidarsi alle elezioni effettive e a sostenere, comunque, il candidato vincente e
la coalizione (patto di desistenza).
Se, come suggerisce la più recente tendenza alla formazione di schieramenti
coalizionali contrapposti, è preferibile indirizzarsi verso primarie aperte, il problema
più complesso appare, tuttavia, quello di definire modalità di votazione che
garantiscano tutte le componenti della coalizione e riducano l’influenza dei gruppi
più forti e organizzati, escludendo, pur nel quadro di semplici ma sicuri principi di
fondo, rigide standardizzazioni nella disciplina delle tecniche elettorali, che invece
vanno opportunamente differenziate a seconda del tipo di competizione.
Nella disciplina concreta, il problema più rilevante da affrontare è quello di
rinvenire meccanismi e regole adeguati che limitino il potere condizionante dei
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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gruppi più numerosi, organizzati e fortemente strutturati lasciando spazio, nei
processi di designazione, a candidature espresse da gruppi non organizzati, ma
altamente rappresentativi e che accrescano le reali possibilità di vittoria della
coalizione, che rimane il principale obiettivo delle elezioni primarie.
Infine, va evidenziata la necessità di limitare il circuito delle primarie ai casi
esaminati (elezioni politiche, designazione dei vertici degli esecutivi locali, regionali
e nazionale, liste rigide) escludendolo invece per gli altri livelli di elezione al fine di
evitare un eccesso di personalizzazione della politica e la riproposizione all’interno
dei partiti o delle coalizioni della pratica degli accordi o delle ‘cordate’ che aveva
così negativamente caratterizzato il sistema delle preferenze multiple nelle
competizioni elettorali.
A mo’ di indicazione conclusiva sul punto specifico, si può osservare che la
risposta al problema sollevato in dottrina e nell’opinione pubblica – che, come si è
detto, è un problema nodale della democrazia italiana di questi anni – non può
esaurirsi nell’avanzare qualche limitato adattamento legislativo.
E stato osservato come l’approccio più corretto poteva solo consistere nel
presentare il quadro delle problematiche concernenti la rappresentanza politica
(peraltro in modo essenziale) e le forme attuali verso cui essa sembra evolvere e
nell’offrire una rilettura del sistema costituzionale di democrazia delineata dai
costituenti, che non deve tuttavia far pensare ad una (kelseniana) equazione circa la
sua vigenza. E in questa luce che l’analisi ha voluto: da una parte, offrire un riesame
critico della prevalente riflessione dottrinaria circa la legittimità di una pretesa
all’esclusività nella rappresentanza da parte dei partiti politici; dall’altra, fornire
elementi di riflessione sulle proposte di regolazione legislativa, a favore di una più
attenta considerazione di una prospettiva di politica legislativa che, nel modificare, in
modo indiretto, l’attuale situazione di monopolio e di prepotere dei partiti e in
particolare di quelli di governo, sia in grado, da un versante, di rimettere in moto la
regola dell’alternanza al governo e, dall’altro, di ridare senso e garanzia alla legittima
domanda del cittadino di concorrere al processo di formazione delle scelte politiche
nazionali.
La mancata soluzione di questi nodi, come prevedono attenti studiosi della forma
di governo italiana, rischia di condurre (con premesse che appaiono ormai divenute
prassi dopo le recenti elezioni) verso la prospettiva di uno Stato post-partitico in cui,
specularmente all’ideologia proclamata di un ‘governo dal basso’, con caratteri
plebiscitari, si affermano strutture di governo improntate al mero decisionismo e alla
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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personalizzazione esasperata nella legittimazione democratica. Tali tendenze
rischiano, se definitivamente consolidate, di rendere obsolescente l’intera forma di
Stato democratico e il sistema delle decisioni e delle responsabilità in esso previste.
5.2. Modelli europei di legislazione elettorale e prospettive (incerte) sulla riforma
elettorale in Italia.
Il clima di transizione in cui, da più di un trentennio, versa il sistema politico del
Paese, e nel quale sono stati sperimentati reiterati (e vani) tentativi di riforma
costituzionale volti a realizzare la strategia istituzionale del sostegno alle finalità
partecipative e a quella della garanzia della stabilità governativa, sollecita, da ultimo,
una riflessione sul dibattito in corso in tema di riforme elettorali. In un quadro di
riferimento che auspica (e che assume comunque come determinante) un raccordo
con la riforma costituzionale della forma di governo, queste ultime assumono, così,
una loro non superata centralità nella discussione politica e istituzionale del Paese.
Prima di andare oltre nell’analisi, così, e diversamente da quanto si assumeva nei
primi anni ’90, si sottolinea che un processo di riforma deve strettamente integrare
l’autoriforma dei partiti politici, la riforma elettorale e la riforma costituzionale (sia
nel senso di un’ispirazione al principio monocratico del governo, sia nella direzione
di una riduzione del numero dei parlamentari e dello stesso superamento dell’attuale
bicameralismo).
Entrando ora (sia pure brevemente) nel merito della riflessione sul tema, si può
sottolineare, in via preliminare, che le soluzioni astrattamente ipotizzabili in tema di
riforma elettorale possono essere variegate, ancorché “specializzate” in base
all’angolo di osservazione più adeguato costituito dalle preferenze che si possono
esprimere, in via generale, a favore dell’una o dell’altra articolazione interna dei vari
sistemi elettorali astrattamente adottabili. Molte, così, sarebbero le soluzioni
ipotizzabili come maggiormente adeguate a dare soluzione alle più significative
problematiche di rappresentanza e di governo presenti nel contingente quadro
politico.
Le problematiche politiche insite nella riforma di una legge elettorale, in ogni caso,
portano ad osservare che le riforme che potranno/potrebbero concretamente
affermarsi sono quelle soltanto che maggiormente rispondono agli interessi
(partigiani) delle forze parlamentari che saranno chiamate alla relativa approvazione
parlamentare e che rispondono a una valutazione di merito relativamente alle
performance positive (o meno) del tipo di bipolarismo conosciuto nel Paese a seguito
delle riforme elettorali dei primi anni ’90. In questa fase lo scenario è ulteriormente
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
51
complicato dalla continuità/discontinuità di interesse politico delle due maggiori
forze politiche attualmente partners della maggioranza governativa.
Come ipotesi di lavoro, in ogni caso, può dubitarsi che le prevalenti modellistiche
invocate possano avere un seguito parlamentare, atteso che le stesse (soprattutto nella
modulazione accolta all’interno della c.d. Bozza Vassallo-Ceccanti) non rispondono
in modo omologo agli interessi partigiani dei due maggiori partiti del quadro politico
attuale (il Partito Democratico, appunto, e il Partito del Popolo delle libertà).
Le formule elettorali maggiormente richiamate (e discusse) nel recente dibattito
politico e in quello dottrinario sono date, da una parte, da quella accolta nel sistema
elettorale tedesco e, dall’altra, da quella accolta dal legislatore elettorale spagnolo.
Se, al contrario, la riflessione seguisse il criterio sistemico, costituito
dall’integrazione fra legge elettorale, stabilità del governo e garanzia della
rappresentanza, occorrerebbe sottolineare come, fra tutti i sistemi elettorali in campo,
quello più prossimo a farsi carico dell’insieme degli obiettivi politico-istituzionali
richiamati sarebbe il sistema elettorale francese. Tale sistema parrebbe costituire il
logico e coerente sviluppo della legislazione elettorale (prevalentemente
maggioritaria) dei primi anni ’90 (vigente fino all’adozione della legge n. 270 del
2005; c.d. legge Calderoli).
Tuttavia, tale analisi non ha incontrato fin qui il consenso delle forze di centro-
destra delle precedenti maggioranze parlamentari, costituendo tale sistema elettorale,
da più di un decennio, l’opzione istituzionale accolta nei programmi politici dei DS,
almeno prima che questo partito (fondasse e) confluisse nel Partito Democratico. Gli
orientamenti che precedono, in ogni caso, esprimono una mera valutazione tecnica, di
coerenza politico-istituzionale, e non certo una preferenza personale nei riguardi del
sistema elettorale d’oltr’alpe, limitandosi a sottolineare come esso costituisca la
formula maggiormente coerente all’esito referendario dei primi anni ’90 (che andava
rispettata, al momento di progettare un nuovo sistema elettorale) e soprattutto al
sistema elettorale adottato a valle di tale pronunciamento referendario (c.d. legge
Mattarella).
Nel considerare gli effetti di tale sistema elettorale sul sistema politico francese –
ormai stabili da più di un quarantennio – così, non può non prendersi atto come, sotto
lo stesso profilo della rappresentanza parlamentare, tale sistema abbia consentito
un’efficace garanzia della stabilità e della governabilità attraverso la presenza
parlamentare, a supporto del Governo, e la stessa articolazione si è registrata nella
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
52
opposizione parlamentare, di almeno due forze politiche (la c.d. “quadriglia
bipolare”).
Nel merito dell’operatività di tale forma di governo, tuttavia, deve sottolinearsi
come la stessa non può essere colta validamente qualora analizzata in modo disgiunto
dalle caratteristiche istituzionali-costituzionali della forma di governo accolta nella
Quinta Repubblica francese (parlamentare razionalizzata con esecutivo diarchico), a
sua volta strettamente connessa, nella costituzione materiale di quel Paese, al
presidenzialismo maggioritario e a tutto ciò che lo connota istituzionalmente:
Esecutivo duale, ma gerarchizzato da un’indiscussa supremazia presidenziale,
dominio dell’esecutivo sulla maggioranza parlamentare, sistema partitico a logica
quadripolare e a formato limitato.
È per tale idoneità a conformare un bipolarismo articolato al suo interno e
accompagnato da una previa conoscibilità da parte dell’elettore che si è assunto come
tale sistema possa utilmente offrire i suoi servigi allo stesso frammentato quadro
politico del Paese.
Passiamo ora, sia pure brevemente, a qualche riflessione essenziale sui sistemi
richiamati nel dibattito in corso, a partire da sistema elettorale tedesco e a seguire da
quello spagnolo, per trarne, in conclusione, qualche prospettazione de jure condendo.
Il sistema elettorale tedesco – proporzionale personalizzato, corretto dalla clausola
di sbarramento – si presenta come un sistema misto e si caratterizza, in particolare,
per l’attribuzione all’elettore di due voti.
Tale sistema, come è noto, opera nel quadro di una forma di governo stabile ed
efficace, nella quale un ruolo di snodo è svolto indubbiamente dalla previsione
costituzionale della sfiducia costruttiva (peraltro operante nella stessa forma di
governo spagnolo, di cui si dirà in seguito) e dalla primazia del Cancelliere federale
rispetto ai ministri; una primazia – quest’ultima – che si accompagna con il potere
riconosciuto a tale organo di dettare “direttive” vincolanti nei confronti dei diversi
ministri che compongono l’Esecutivo.
Con il primo voto (Erststimme) l’elettore vota, a scrutinio uninominale (e a
maggioranza relativa dei voti espressi), per l’elezione del 50% dei deputati del
Bundestag in altrettante circoscrizioni elettorali. Pertanto, con tale voto, da parte
dell’elettore, si procede ad esprimere la propria preferenza per il candidato di uno dei
partiti presenti nel collegio uninominale, risultando eletto quel candidato che abbia
ottenuto la maggioranza relativa dei voti nel collegio stesso. Con il secondo voto
(Zweistimme), l’elettore vota la seconda metà dei componenti il Bundestag, con
sistema proporzionale, in base allo scrutinio di lista, secondo i voti riportati nei
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
53
Laender dalle liste dei singoli partiti. Si tratta di un sistema volto a dare
rappresentanza parlamentare a maggioranze già costituite, senza operare forzature
sulla base di premi elettorali, tranne quelle della preclusione delle forze politiche che
non raggiungano il 5% dei voti.
Il riparto dei seggi avviene, mediante l’applicazione del metodo d’Hondt, fra le
diverse liste di partiti in competizione, in proporzione ai voti riportati dalle singole
forze politiche a livello nazionale, che abbiano superato il 5% dei secondi voti in tutto
il territorio della Federazione (ovvero che siano riusciti a conseguire almeno tre
mandati diretti). Il riparto dei seggi fra i vari partiti avviene in una prima fase a livello
statale ed in una seconda a livello dei singoli Laender. È stato bene osservato, sul
punto, che l’originalità di tale sistema elettorale risiede appunto nel suo saper
coniugare “i vantaggi e gli svantaggi dei due sistemi elettorali di base (il
maggioritario e il proporzionale)”.
Qualche ulteriore dato di funzionamento risulta utile ai fini di una migliore
comprensione del funzionamento di tale sistema elettorale. In via generale, esso opera
all’interno di un’architettura politico-partitica di tipo centripeta, favorita dalla
previsione costituzionale di esclusione dalla partecipazione politica di quelle forze
politiche i cui statuti non assicurino la relativa conformazione ai principi liberal-
democratici posti a base dell’ordinamento costituzionale (art. 21 Legge Fondamentale
di Bonn).
Se si fa eccezione per i partiti che non superano lo sbarramento del 5% (ovvero
che, qualora ottengano meno del 5%, abbiano vinto almeno in 3 collegi uninominali),
pertanto, tale sistema elettorale opera come un sistema proporzionale puro. In questa
cornice, in Germania, si registra una evidente sovra-rappresentazione dei due
principali partiti (CDU/CSU e SPD).
Un dettaglio non secondario nel funzionamento di tale sistema elettorale, come si è
già osservato, pertanto, è quello che porta ad osservare che l’elettore esprime, sulla
stessa scheda, due voti: uno per l’elezione dei parlamentari nei collegi uninominali
maggioritari e uno sulla lista bloccata. La questione centrale, tuttavia, è data dalla
considerazione secondo cui, con il secondo voto, l’elettore può incidere anche sui
risultati del primo voto espresso. Sul punto, è stato osservato che “… il voto
proporzionale determina ‘quanti’ sono gli eletti (compresi quelli dei collegi
uninominali) per cui non sono due voti alla pari, non si tratta di due pezzi non
comunicanti del sistema. È un ‘proporzionale personalizzato’, dove il secondo decide
tutto (proporzionale) e il primo (personalizzato) serve in sostanza a individuare
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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‘quali’ sono gli eletti dentro la lista votata. Quindi, col voto di lista si determina
‘quanti’ sono eletti; col voto nei collegi ‘quali’ vengono eletti nell’ambito del partito
votato col voto di lista”.
È inoltre da sottolineare come parte qualificante di tale sistema la previsione dei
regolamenti parlamentari volta a vietare la creazione di gruppi parlamentari che non
corrispondano a forze politiche che si sono presentate alle elezioni. Una previsione –
quest’ultima – che dovrebbe essere prevista nelle riforme in discussione nel Paese,
qualunque sia il modello che alla fine prevarrà.
Diversamente da quanto si prevede in una delle bozze di riforma elettorale
maggiormente dibattute (la cd “bozza Vassallo”, predisposta per la discussione
interna al Partito democratico, laddove si prevede l’espressione unica del voto da
parte dell’elettore), dunque, uno dei profili maggiormente caratterizzanti il sistema
elettorale tedesco è appunto il sistema doppio di voto riconosciuto all’elettore,
mediante il cui esercizio si procede da parte dell’elettore al voto per il singolo
candidato e, al contempo, per il partito. A ben cogliere, la composizione del
Parlamento dipenderà in gran parte dal risultato delle elezioni nella componente
proporzionale del voto espresso.
Se appare di tutta evidenza la scarsa idoneità sistemica di una simile formula
elettorale a sostenere la strategia politica del bipolarismo, possono comprendersi le
ragioni di alcune forze politiche (e le connesse perplessità di altre) che hanno portato
ad accogliere come strumento di lavoro la “bozza Vassallo”, la quale si caratterizza
per il suo ispirarsi al sistema elettorale tedesco del 1949 (prima cioè che, nel 1953,
fosse introdotto nella scheda elettorale l’attuale doppio voto).
La strategia istituzionale alla base di tale bozza, modificativa in modo significativo
della formula elettorale tedesca, s’ispira espressamente alla finalità di “preservare la
dinamica bipolare” del sistema politico del Paese; un bipolarismo del quale, tuttavia,
occorre sottolineare come, per molti versi, sia risultato, fin qui, artificioso e
inadeguato quanto alla capacità di limitare la frammentazione partitica (successiva al
voto) e alla capacità di assicurare la coesione interna alle forze politiche delle
maggioranze di governo. Un bipolarismo, che si è accompagnato con fenomeni
assolutamente negativi nella dinamica democratica interna ai partiti (– nel senso cioè
che spesso, e per talune forze politiche quasi sempre, il vincolo costituzionale del
“metodo democratico” interno ai partiti è risultato assente sia negli statuti che nella
prassi della vita interna dei partiti –), e che ha trovato la sua logica (e non contrastata)
soluzione nell’adozione della lista bloccata dalla vigente legge elettorale (l. n.
270/2005), voluta per strategie poco adamantine dalla maggioranza di centro-destra
del tempo e non avversate in modo convincente dall’opposizione del centro-sinistra
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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del tempo (naturalmente, per omologhi interessi partigiani, sia pure di diversa
direzione).
Con l’adozione del voto unico per il collegio uninominale (e dunque per l’elezione
della metà dei parlamentari) e per il voto di lista, come è stato sottolineato, così, si
vanifica una delle ragioni di maggiori criticità nei confronti della legge elettorale
vigente, quella delle c.d. liste bloccate. La libertà di scelta dell’elettore, pertanto, ne
risulta fortemente compromessa2.
Al fine di una partecipazione anche da parte dei partiti più piccoli alla
redistribuzione dei seggi della quota proporzionale, inoltre, secondo tale ipotesi di
riforma, si prevede che ogni forza politica debba presentarsi con propri candidati nei
collegi uninominali. Una partecipazione, quest’ultima, che si presterebbe a
valutazioni molto problematiche.
Un secondo prevalente modello di riferimento presente nel dibattito elettorale
riguarda il sistema elettorale spagnolo. Pensato per conseguire un grado elevato di
bipartitismo e una buona rappresentanza dei partiti regionali e allo scopo di
disincentivare la presenza nelle Cortes dei partiti minori nazionali, tale esperienza fa
egualmente ricorso al sistema elettorale proporzionale ma operante in collegi di
piccola dimensione, con la conseguenza di produrre effetti selettivi molto efficaci di
tipo maggioritario.
Mediante una simile opzione, nelle elezioni parlamentari come anche in quelle
autonomiche, in Spagna, infatti, si è determinato una tendenza dei trend elettorali di
tipo (fattualmente) maggioritario, con una evidente sovra-rappresentazione dei due
maggiori partiti (PSOE e PP)3.
2 Come sottolinea O. Massari (“Osservazioni rapide sulla Bozza Vassallo”, in Seminario Astrid sui sistemi elettorali
tedesco e spagnolo, del 20/11/2007), “Il punto più debole, a mio avviso, è il voto unico per il collegio uninominale e il
voto di lista. Questo vanifica il primo obiettivo. L’elettore non ha la libertà di scelta, essendo costretto a scegliere in
blocco tanto il candidato (la persona) nel collegio uninominale quanto la lista bloccata. La libertà di scelta si ha, al
contrario, se il voto alla persona è disgiunto dal voto alla lista. E’ questo il pregio del sistema tedesco. Il voto unico
vanifica questo pregio, che è anche un vantaggio per l’elettore e i partiti. Il doppio voto sulla scheda, infatti, favorisce,
come accade puntualmente nelle elezioni tedesche, il voto strategico (ossia, attraverso un’azione di coordinamento i due
grandi partiti – o anche autonomamente gli elettorati fedeli – dirottano parte del loro voto sul loro più piccolo alleato,
con il quale c’è stato un accordo pre-elettorale; i socialdemocratici verso i verdi nel voto di lista proporzionale, e i
cristiano-democratici verso i liberali; viceversa i due grandi partiti ricevono più voti nei collegi uninominali, perché i
due piccoli partiti alleati riversano parte del loro voto verso i grandi). E’ un meccanismo virtuoso che garantisce tanto la
libertà dell’elettore, quanto la possibilità di costruire alleanze pre-elettorali chiare e coerenti (grazie appunto al voto
disgiunto)”.
3 Si comprende come si affermi che “a queste condizioni il sistema spagnolo funziona effettivamente come un sistema
bipolare virtuoso senza necessità di premi che costringono i partiti a fare grandi ammucchiate preelettorali. Lì non c’è
ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013
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Fondato sull’operatività del sistema proporzionale puro all’interno di ogni
circoscrizione elettorale e sul ritaglio del territorio in un numero molto elevato di
circoscrizioni, corrispondenti alle province, il sistema, come si è già detto, opera con
effetti fortemente selettivi, sulla base di uno “sbarramento implicito” molto
consistente, destinato a favorire – sovrarappresentandole – le formazioni più grandi a
discapito di quelle più piccole. Al contrario, non pare significativa la selettività
operata dallo sbarramento formale, fissato al 3% a livello circoscrizionale.
La concentrazione regionale di formazioni a base nazionalistica, ovvero regionale
(che in Spagna costituiscono una connotazione rilevante del sistema politico-
partitico), pertanto, non è tale da incorrere in effetti preclusivi operati dal livello
basso dello sbarramento previsto. Il sistema, in tal modo, consente di acquisire il
consenso di tali formazioni (medie o piccole), bilanciando in tal modo la
rappresentatività popolare con quella territoriale espressa dalle istanze
autonomistiche, molto spinte nel Paese iberico.
Diversamente da quanto deve dirsi per il sistema elettorale tedesco, sotto il profilo
tecnico (ma non sotto quello della preferenza), un simile sistema, qualora adottato, si
presenterebbe come fortemente adattabile al caso italiano, dal momento che
occorrerebbe solo procedere ad una frammentazione ulteriore delle attuali
circoscrizioni elettorali per ridurne la taglia e con esse il numero degli elettori.
Se tuttavia nessuna delle due esperienze richiamate parrebbe offrire riferimenti
certi nell’ottica del sostegno al bipolarismo (bensì in quella premiante dei partiti
maggiori del sistema politico-partitico), per come da molte parti si sollecita – a meno
di non fare ricorso a premi elettorali per sostenere la formazione di maggioranze
parlamentari, ovvero a sbarramenti debordanti, che mal celerebbero la loro inidoneità
ad assicurare l’eguaglianza costituzionale del voto – sembrerebbe doversi
sottolineare, con qualche ragionevolezza e consequenzialità, l’inidoneità delle ipotesi
di riforma elettorale maggiormente discusse in questa fase nell’ottica del sostegno al
bipolarismo (il quale, come si è già detto, non ha saputo evidenziare profili di pregio
per un intero ventennio di sperimentazione).
D’altra parte, è anche chiaro a tutti come il bipolarismo non possa prodursi in
modo artificioso, come risultato di una scelta legislativa (“per decreto” ha
commentato icasticamente taluno), e che pertanto lo spazio politico da dissodare
un premio di maggioranza, ma il vero premio è quello legato alle caratteristiche di un sistema elettorale che ha
sistematicamente sovrarappresentato i due maggiori partiti e impedito la nascita e la crescita di altri partiti nazionali che
ne potessero mettere in discussione l’egemonia. La politica, la storia, la geografia del paese sono certamente dietro a
tutto ciò, ma è il sistema elettorale il fattore decisivo, con le sue circoscrizioni piccole, le sue soglie di sbarramento
elevate e una formula elettorale – il d’Hondt – che favorisce i grandi partiti” (R. D’Alimonte).
S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)
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rimane quello della politica e della ricerca di riforme al suo interno, mediante
aggregazioni libere fra forze politiche contigue e mediante una ripresa di attenzione
all’autoriforma, alla democrazia interna ai partiti e alla integrazione di quest’ultima
con forme di apertura degli stessi alla società civile (le elezioni primarie costituiscono
una indubbia innovazione in questa direzione, come si sottolineerà in seguito).
Rispetto ai modelli elettorali richiamati, in conclusione, il modello di riferimento
che appare astrattamente obbligato per la riforma della legge elettorale in discussione,
sia in quanto non incorre in forzature legislative (premi in termini di seggi o di
sbarramenti differenziati) sia, e soprattutto, per il suo presentarsi come rispettoso di
una logica sistemica (se rapportato alle esigenze della governabilità), risulta essere
quello francese (sistema elettorale a doppio turno).
Tale sistema, come si è già detto in precedenza, si potrebbe prestare ad alcune
importanti modulazioni interne che non ne mettono in questione la piena funzionalità.
Ad esempio, se indubbiamente il primo turno svolge la funzione di garanzia della
rapppresentatività per tutte le forze politiche in campo (e che sono, naturalmente,
disponibili a presentarsi, con i loro programmi e i loro uomini), non si dovrebbe, in
via di principio, escludere che, al secondo turno, possano essere ammesse più forze
politiche rispetto a quanto prevede l’attuale legge elettorale francese (che, al
contrario, prevede uno sbarramento dell’11,5% per passare al secondo turno).
Un premio elettorale, in questo caso, premierebbe quelle forze politiche minori che
si coalizzano per competere al secondo turno, nella cornice di un accordo politico che
supera i limiti programmatici delle forze politiche singolarmente considerate. Rimane
naturalmente aperta la scelta, per i partiti alle estremità degli schieramenti politici, di
non partecipare all’accordo di coalizione per il secondo turno, decidendo in tal modo
di auto-emarginarsi dalla competizione politica. L’adozione di una simile legge
risulta offrire argomentazioni convincenti a chi si interroga, senza ricevere risposte
risolutive, sui rischi intrinseci del c.d. “nuovo bipolarismo” la cui sperimentazione
istituzionale può dirsi a buona ragione senza esiti di pregio, salvo a delegittimare
ulteriormente il sistema politico partici in campo, come le ultime elezioni politiche
sembrano aver sancito senza molte incertezze.