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Presentazione della monografia Luigi Tomaz, In Adriatico nel secondo millennio, Think ADV, Conselve, 2010.
L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE.
CAUSE E CONSEGUENZE POLITICHE ED ECONOMICHE
ARNALDO MAURI
Working Paper n. 2011-09 MAGGIO 2011
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L’OLTRE ADRIATICO, UN OBIETTIVO MANCATO NEL
PROCESSO DI UNIFICAZIONE NAZIONALE
Implicazioni politiche ed economiche
Arnaldo Mauri
Università degli Studi di Milano
1. Introduzione
Nel 2003 avevo scritto la presentazione di un ponderoso volume di Luigi
Tomaz intitolato In Adriatico nell’Antichità e nell’Alto Medioevo; da Dionigi di
Siracusa ai dogi Orseolo, che esaminava la storia dell’Adriatico sino all’anno
mille. L’opera di Tomaz fu segnalata da numerosi ed importanti quotidiani e
periodici in Italia e all’estero. In tempi successivi apparvero su riviste culturali,
comprese quelle di natura accademica, ampie e meditate recensioni che ne
illustravano i contenuti riconoscendo sia il grande interesse dei temi affrontati sia
la validità delle metodologie di ricerca adottate.
Il libro di Luigi Tomaz, pur nella specificità degli argomenti trattati, ha riscosso
un lusinghiero successo sia nella diffusione sia di critica per il fatto di coniugare
sapientemente il rigore della ricerca storica con la piacevolezza dello stile
narrativo e per la ricchezza del corredo di illustrazioni: belle fotografie e di
disegni dell’autore. Erano inoltre riprodotti interessanti documenti in latino
accompagnati da traduzioni a fronte. Anche grazie a queste preziose dotazioni
quell’opera di Tomaz, così come altre monografie dello stesso autore date alle
stampe in precedenza o negli anni seguenti, appare nei cataloghi di prestigiose
biblioteche universitarie, civiche e private sia italiane sia straniere.
2
2. Il secondo tomo dell’opera
Oggi Luigi Tomaz si accinge a pubblicare un secondo libro che abbraccia un ampio arco temporale immediatamente successivo a quello del citato volume. Questo nuovo importante contributo, intitolato In Adriatico nel secondo
millennio: dai dogi Orseolo alla prima guerra mondiale, rappresenta un ulteriore
tassello che si inserisce in un progetto di ricerca di ampia portata dedicato alla
storia dell’Adriatico e della sua civiltà. Anche in veste di studioso di temi
economici mi sento molto attratto dalle letture storiche. Niehans (1990) enfatizza
l’utilità della conoscenza dell’economia per interpretare compiutamente la storia e
viceversa. A questo riguardo ritengo che la storia dell’Adriatico, un mare tanto
importante per i collegamenti marittimi fra il sud mediterraneo e l’Europa
centrale, ed in particolare quella degli ultimi secoli, rappresenti un caso da
manuale di interrelazione fra economia, storia e geopolitica.
L’analisi storica condotta con approccio interdisciplinare da Tomaz risulta
di grande interesse dal momento che, come indica chiaramente il sottotitolo
dell’opera, parte dall’affermarsi della supremazia veneziana su questo mare al
tempo dei dogi Orseolo per arrivare al termine di quella che giustamente l’Autore
definisce, nel filone del pensiero irredentista, come la quarta guerra di
indipendenza italiana, ovvero la prima guerra mondiale.
Lo studio copre quindi un ampio arco temporale, corrispondente quasi a un
millennio, nell’ambito del quale viene delineato con nitidezza e vivacità da Luigi
Tomaz un complesso e problematico quadro storico allargato a tematiche
politiche, militari, economiche e sociali, che riguarda da vicino questo mare e le
terre che vi si affacciano, ma che a ben vedere riflette sullo sfondo anche l’intera
Nazione italiana. Riallacciandoci a quanto detto in precedenza sui legami fra
storia ed economia, non si deve dimenticare che l’Adriatico è un mare che si
presenta, nell’ottica economico-commerciale dei traffici marittimi, come un
gigantesco ed importante canale navigabile lungo circa 800 km., largo
mediamente 150 km. e che si protende dal bacino centrale del Mediterraneo verso
l’area mitteleuropea. Orbene l’Adriatico è stato per secoli un golfo italiano, un
dominio incontrastato della Serenissima, tanto che la sua metà superiore era
indicata frequentemente nelle carte dell’epoca, anche straniere, come Golfo di
Venezia (Golfe de Venise, Gulf of Venice, Golf von Venedig).
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Concordo inoltre pienamente con Luigi Tomaz (2003), quando sostiene che
l’Adriatico, a differenza di altri mari che circondano la nostra penisola, sin
dall’antichità non ha rappresentato per lunghi periodi di tempo una frontiera, una
netta linea di separazione fra popoli differenziati per etnia, lingua, cultura,
religione e fra stati separati e fra loro ostili, ma ha svolto egregiamente invece
un’utilissima funzione di ponte, di collegamento senza soluzione di continuità
delle terre che vi si affacciano, le une a fronte delle altre, e dei popoli che le
abitano, un ponte che ha alimentato scambi di merci e migrazioni stagionali o
definitive di persone. Lo stesso graduale e lento processo di formazione della
Nazione Italiana, germogliato spontaneamente, nel Medioevo1 dal seme fecondo
dell’Italia Augustea, suddivisa in undici regioni,2 ha riguardato e accomunato per
alcuni secoli entrambe le sponde di questo mare. Per inciso contesto con fermezza
la tesi di una Nazione Italiana improvvisamente sbocciata dal nulla nel secolo
XIX con il Risorgimento, precisamente nel 1861, una tesi che purtroppo nei tempi
odierni sembra raccogliere consensi almeno in base a quanto si ascolta nei
programmi radiotelevisivi e si legge nelle pagine culturali dei quotidiani in
occasione della celebrazione del centocinquantenario dell’unità d’Italia. Questa
tesi farebbe iniziare il processo di nation building concernente l’Italia nella
seconda metà del secolo XIX, ma è una tesi che mal si concilia con la stesso
termine di “Risorgimento” che porta a pensare a qualcosa che esiste già, la
nazione, che è in stato di catalessi e che si risveglia e risorge.
3. Il Regno d’Italia napoleonico
Si è visto nel paragrafo precedente come il lento e graduale processo
costitutivo della Nazione Italiana abbia avuto inizio in epoca medioevale come
fenomeno spontaneo, che prescinde sia dalla volontà umana sia in particolare
1 Punto di avvio del lento processo di formazione della Nazione italiana è stata l’assimilazione degli invasori germani da parte della popolazione indigena latina. Questa assimilazione è avvenuta nel giro di qualche secolo in tutto il paese, con l’eccezione dell’Alto Adige dove le popolazioni di stirpe bavarese immigrate non sono state assorbite dagli indigeni, ma anzi hanno assorbito gli scampati all’aggressione. La popolazione indigena (gli odierni ladini) è sopravvissuta in alcune valli. 2 Elenco delle undici regioni dell’Italia augustea: Regio I, Latium et Campania; Regio II, Apulia et Calabria; Regio III, Lucania et Brutii; Regio IV, Samnium; Regio V, Picenum; Regio VI, Umbria; Regio VII, Etruria; Regio VIII, Aemilia; Regio IX, Liguria; Regio X, Venetia et Histria; Regio XI, Transpadana.
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dalle decisioni politiche. Se si passa invece a considerare l’Italia non nella sua
idea di identità di popolo o di identità nazionale e neppure come entità storico-
geografica. ma semplicemente nella sua cornice giuridico-politica di entità
statuale così come concepita al presente, perveniamo, agli inizi della Storia
contemporanea, esattamente al 26 gennaio 1802. In tale data, per iniziativa di
Napoleone Bonaparte, viene proclamata a Lione dalla Consulta straordinaria
cisalpina la Repubblica Italiana che eredita dalla preesistente Repubblica
Cisalpina il tricolore3 e un ampio territorio comprendente il Piemonte orientale, la
Lombardia, la parte occidentale e meridionale del Veneto, gran parte dell’Emilia e
la provincia di Massa e Carrara.
La Repubblica Italiana viene successivamente trasformata in monarchia
con la nascita nel marzo 1805 del Regno d’Italia sul cui trono ascende lo stesso
Napoleone Bonaparte che è incoronato il successivo 24 maggio con la corona
ferrea dei re longobardi. Nasce allora, sotto tutela francese, uno Stato pienamente
italiano, con capitale Milano, che, pur adottando il nome di Italia, corrisponde
solo parzialmente sia alla Nazione Italiana sia all’Italia fisica o intesa come
regione storico-geografica. Uno Stato del quale spesso e volentieri ci si dimentica
nei discorsi che affrontano anche in questi tempi le tematiche risorgimentali e il
processo di unificazione nazionale.
Uno Stato, il Regno d’Italia napoleonico, che tuttavia non viene percepito
allora dai suoi cittadini come una bizzarra, insensata ed artificiale costruzione
politica imposta con la forza delle armi da un invasore straniero (così considerato
pur se l’Imperatore francese era nato ad Ajaccio, parlava l’italiano della Corsica
come madrelingua e portava un cognome indubbiamente italiano di origine
toscana). E’ opportuno sottolineare a questo riguardo che il regno napoleonico
riscuote vasti consensi, suscita in molti italiani grandi speranze e risveglia sopiti
sentimenti di appartenenza nazionale (Ghiringhelli, 2008). Il Regno d’Italia
napoleonico amplia la superficie del territorio posseduto dalla preesistente
Repubblica Italiana estendendosi notevolmente verso est con l’annessione di
Venezia. Questo Stato italiano nei suoi primi anni di vita - è fondamentale
ricordarlo in questa sede - comprende oltre al Friuli anche le terre della sponda
orientale dell’Adriatico così come le isole immerse in questo mare in precedenza
appartenenti sia al commonwealth veneziano sia alla Repubblica di Ragusa. A
3 Il tricolore adottato per la prima volta a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 su proposta di Giuseppe Compagnoni.
5
distanza di qualche anno il Regno d’Italia napoleonico acquisisce il Trentino e
buona parte dell’odierna provincia di Bolzano.4
Purtroppo, quando non si è ancora prossimi alla meta rappresentata
dall’unità nazionale, che sarà raggiunta ad oltre un secolo di distanza, il
Congresso di Vienna convocato dai vincitori per definire l’assetto territoriale da
conferire all’Europa continentale dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, decreta
stolidamente la morte prematura del Regno d’Italia scartando una soluzione forse
più intelligente e sicuramente meno impopolare rappresentata da una sua
sopravvivenza sotto il saldo controllo di Vienna.
Ma la Restaurazione implementata sotto l’abile regia del cancelliere
Klemens von Metternich, che mira a costruire una duratura egemonia politica ed
economica austriaca sulla Penisola, diversamente da come ci si sarebbe aspettato
per un minimo di onestà e di coerenza con i principi e gli intendimenti conclamati
di ripristino della legalità e della situazione precedente alla Rivoluzione francese,
non resuscita la gloriosa Repubblica di Venezia e gli altri stati indipendenti
italiani del settecento.
Seguirà, dopo meno di mezzo secolo, la nascita dello Stato-nazione italiano
rappresentato dal Regno sabaudo proclamato nel 1861. Si dovrà poi attendere la
fine della prima guerra mondiale per vedere garrire di nuovo al vento il tricolore
italiano sulla sponda orientale dell’Adriatico anche se, in questo caso, solo su una
parte limitata di tale sponda e non durevolmente, a causa delle mutilazioni subite
dall’Italia con il Trattato di Parigi del 1947 (Gabrielli, 2004).
4. Le grandi potenze europee e il Risorgimento
Senza voler togliere nulla ai grandi meriti degli apostoli del Risorgimento
e degli artefici dell’unità nazionale dobbiamo ricordare che l’unificazione
dell’Italia avrebbe incontrato ben maggiori e forse insormontabili difficoltà se le
grandi potenze europee si fossero concordemente e decisamente opposte a questo
4 Già in precedenza quando il Ducato di Milano era dominio austriaco ed esisteva ancora la Repubblica di Venezia vi erano legami culturali fra il capoluogo lombardo e l’Istria. E’ significativo il caso di Gian Rinaldo Carli, illustre illuminista ed economista nato a Capodistria nel 1720, che fu chiamato dagli austriaci alla presidenza del Supremo Consiglio dell’Economia del ducato milanese nel 1765. E’ famoso l’articolo pubblicato dal Carli su in n. 2/1765 de Il Caffè, intitolato La patria degli Italiani, intriso di patriottismo, uno degli scritti del XVIII secolo che anticipano il Risorgimento.
6
progetto. In realtà avvenne proprio il contrario e Cavour seppe sfruttare
tempestivamente ed intelligentemente, senza mettere a repentaglio il progetto
originario di un’Italia indipendente ed unita, le circostanze favorevoli che di volta
in volta si presentavano. In verità solamente l’Austria contrastava
sistematicamente e tenacemente l’unificazione di una regione geografica (così
infatti l’Italia era vista a Vienna5) che, dopo la caduta di Napoleone, considerava
una propria dipendenza. Questa posizione dominante assicurava, infatti,
all’Austria notevoli vantaggi sia sul piano politico che su quello economico.
La Russia, che dopo il Congresso di Vienna aveva invano cercato di
contendere all’Austria l’egemonia sull’Italia (Reinerman, 1974), aveva
successivamente assunto un atteggiamento oscillante in quanto da un lato
prendeva atto con malcelata soddisfazione che l’Austria, suo principale
concorrente nel disegno di acquisizione dei territori balcanici del grande malato,
l’Impero Ottomano,6 fosse assillata da grattacapi ai confini sud-occidentali mentre
dall’altro lato il governo russo guardava con sospetto tutti i movimenti
indipendentisti ed inoltre non dimenticava l’intervento piemontese nella guerra di
Crimea a fianco di Francia e Inghilterra. La Russia si considerava infine a pieno
titolo il difensore del mondo slavo, soprattutto di quello di religione ortodossa,
che si affacciava sull’Adriatico.
Francia, Gran Bretagna e Prussia invece pur in tempi diversi, con modi
diversi, in misura diversa e spinte da obiettivi e interessi diversi aiutarono il nostro
Risorgimento. La Francia di Napoleone III, rifiutando una politica conciliante di
spartizione dell’Italia con l’Austria, si schierò militarmente in Italia a fianco del
Regno di Sardegna nella seconda guerra di indipendenza non solo per ottenere il
Nizzardo e la Savoia, che comunque rappresentavano un non trascurabile
compenso. Parigi desiderava infatti avere accanto uno stato satellite, un’Italia
destinata, nei disegni francesi, a restare potenza di media grandezza, un’Italia di
dimensioni territoriali limitate e disposta ad accettare nella politica internazionale
una posizione subalterna rispetto alla sorella latina maggiore, la Francia.
5 Si ricorda al riguardo la celebre battuta di Klemens von Metternich sull’Italia espressione geografica. 6 In realtà nei mutamenti dell’assetto dei confini riscontrabili nel periodo racchiuso fra le due guerre mondiali la compagine imperiale maggiormente colpita non fu la Turchia, che riuscì comunque a mantenere una parte importante del territorio controllato agli inizi del secolo XIX, ma paradossalmente proprio l’Austria, ridotta dapprima ad un piccolo stato e successivamente sparita di scena, fagocitata dalla Germania nazista.
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Per quanto riguarda la Gran Bretagna, come osservava acutamente De Felice
(2011), non si deve confondere la posizione dell’opinione pubblica, decisamente
simpatizzante per il movimento risorgimentale italiano, con la politica
governativa, non insensibile in uno stato democratico in piena era vittoriana al
pensiero prevalente dei cittadini, ma in realtà sempre vigile, calcolatrice, fredda e
risoluta nella tutela degli interessi economici e strategici britannici in gioco.7
Forse in Italia si tende oggi a sopravvalutare l’apporto inglese all’unificazione del
paese. La Gran Bretagna in certi momenti diede il suo appoggio al processo di
unificazione, ma in altri creò invece delle difficoltà.
Gran Bretagna e Prussia temevano entrambe che la Francia approfittasse di
questo vuoto geopolitico rappresentato da un’Italia frammentata per espandersi a
sud-est annettendosi, come aveva già fatto con successo in tempi diversi per la
Corsica e il Nizzardo e temporaneamente a cavallo fra i secoli XVIII e XIX per
altri territori italiani (Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta, Toscana. Umbria e
Lazio).8 La Francia sarebbe diventata, in questa ipotesi, una potenza di maggiori
dimensioni per superficie e per popolazione, una potenza prepotentemente
presente nel Mediterraneo ed economicamente e militarmente più forte.9
Il cancelliere Otto von Bismark, che pure non nutriva particolari sentimenti
di simpatia e stima per gli italiani sosteneva al riguardo che se non fosse esistito
uno Regno d’Italia lo si sarebbe dovuto inventare, lasciando quindi intuire una
utile funzione di argine all’espansione territoriale della Francia verso sud-est
assegnata al giovane stato nazionale italiano. Inoltre alla Prussia non dispiaceva
affatto vedere l’Austria umiliata, dal momento che tra i due paesi era in corso una
competizione senza esclusione di colpi per l’egemonia in seno alla
Confederazione Germanica e che gli Asburgo potevano rappresentare un ostacolo
al conseguimento dell’obiettivo rappresentato unificazione della Germania sotto la
guida della Prussia retta dalla dinastia Hohenzollern..
7 Già Carlo Cattaneo con apprensione si poneva il problema di come l’Inghilterra avrebbe accolto l’unione di Venezia e Genova sotto il medesimo stato, evento che avrebbe mutato in una certa misura i rapporti di forza nel Mediterraneo (Cattaneo, 1849, pp. 101,102). La posizione britannica verso l’Italia nel contesto di una politica mediterranea è stata chiaramente riassunta dal New York Times (22.08.1887) nell’articolo Italy and Her Ambition: “England will never sacrifice a man or a shilling except where her own interests are directly involved” . 8 E’ interessante ricordare a questo riguardo i sarcastici commenti della stampa europea, e soprattutto di quella britannica, sui plebisciti gestiti dalla Francia a Nizza e in Savoia. 9 Possiamo immaginare quanto l’Inghilterra temesse l’annessione da parte della Francia delle città portuali della Liguria e della Toscana.
8
Su un solo punto tutte le grandi potenze europee concordavano, pur se con
obiettivi e sensibilità differenti, riguardo alla formazione dello stato unitario
italiano: desideravano che il processo di unificazione italiana non interessasse la
totalità delle terre storicamente italiane e che non coinvolgesse interamente l’oltre
Adriatico, sia quello appartenuto per secoli e Venezia e successivamente, per
alcuni anni, al Regno d’Italia napoleonico sia, soprattutto, i due grandi porti di
Trieste e di Fiume.
L’Austria che astutamente nel 1815 aveva fatto conglobare anche territori
con popolazione italiana come il Trentino e Trieste nella Confederazione
Germanica, difendeva a denti stretti e con tutti i mezzi a sua disposizione i propri
domini adriatici e gli sbocchi al mare del suo grande e plurietnico impero
continentale che implicavano rilevanti e vitali interessi economici gravitanti
sull’area mitteleuropea. La difesa austriaca dell’oltre Adriatico si era ancor più
incattivita quando il governo di Vienna, dopo aver perso completamente il
Lombardo-Veneto alla fine della terza guerra di indipendenza, giocava tutte le sue
carte sullo scacchiere balcanico sperando di trarre profitto dal processo di
decomposizione dell’Impero ottomano e si riprometteva conseguentemente di
mantenere il pieno controllo della Dalmazia. Infine, anche dopo la cessione di
Venezia, l’Impero asburgico non intendeva rinunciare ad una posizione
preminente in Adriatico nel ricordo della lezione impartita nello scontro navale di
Lissa ai presuntuosi parvenu italiani.
La Gran Bretagna, dominatrice dei mari e, in particolare del Mediterraneo,
non era disposta a rinunciare a Malta ed era decisamente contraria all’eventualità
che un singolo Stato (nella fattispecie l’Italia) acquisisse il controllo totale di tutte
le coste dell’Adriatico (occidentali e orientali) e dei porti affacciati su questo mare
in modo da monopolizzare il commercio via Mediterraneo con i vasti e ricchi
mercati dell’Europa centrale.
La Prussia vedeva nei porti dell’Adriatico nord-orientale, e particolarmente
in Trieste, inserita nella Confederazione germanica, lo sbocco al Mediterraneo del
mondo germanico pur se non era ostile alle aspirazioni italiane per la Dalmazia,
soprattutto se limitate ai territori che per secoli avevano fatto parte del
Commonwealth veneziano. Non si spiegherebbe altrimenti il fallito tentativo
italiano di occupare l’isola dalmata di Lissa nel 1866, quando l’Italia era alleata
della Prussia nella guerra contro l’Impero Austro-ungarico.
9
L’Impero zarista parteggiava ovviamente per i popoli slavi nell’ottica di un
prevedibile futuro confronto con gli italiani per il dominio dell’Adriatico. Non a
caso, durante la fase preparatoria del Trattato di Londra del 1915, il
rappresentante russo conte Alexander Benkendorff, sostenendo le rivendicazioni
della Serbia in Dalmazia, fu il più convinto e tenace oppositore delle mire italiane
su questa regione. Anche l’Unione Sovietica, succeduta alla Russia, continuò la
politica adriatica ostile all’Italia, in particolar modo nella definizione del confine
italo-iugoslavo durante la fase preparatoria del Trattato di Parigi del 1947. La
proposte sovietiche furono infatti quelle maggiormente punitive per l’Italia.
Osserviamo infine la Francia, che era inizialmente lo stato meno avverso
all’espansione dell’Italia verso l’Adriatico. Tomaz ricorda a questo riguardo che
durante la seconda guerra di indipendenza la flotta franco-sarda era riuscita a
incutere soggezione alla flotta austriaca e aveva occupato l’Isola di Lussino nel
Golfo del Quarnaro, sbarcandovi 3.000 uomini accolti festosamente dalla
popolazione tra uno sventolio di tricolori mentre i comandanti erano ricevuti con
tutti gli onori dalle autorità comunali. Successivamente era stata liberata anche la
vicina Cherso dopo che il presidio militare austriaco era stato richiamato sulla
terraferma. Autorevoli personaggi di Lussino, e in particolare il podestà Premuda,
a causa del loro comportamento collaborativo verso i franco-sardi furono in
seguito processati dopo il rientro degli austriaci a seguito dell’accordo di
Villafranca (Tomaz, 2010).
Questo episodio lascia intravedere come il governo di Parigi non fosse
contrario a quel tempo ad un inserimento di almeno alcune terre dell’oltre
Adriatico già appartenute per secoli a Venezia nei disegni dell’unificazione
italiana mentre non ci sono dubbi sul fatto che la popolazione e le autorità
comunali di Lussino interpretassero in questo senso lo sbarco nell’isola di militari
piemontesi e francesi, tanto da comportarsi in modo tale da compromettere
seriamente i futuri rapporti con il governo di Vienna. La Francia poi vedeva con
favore l’irredentismo anti-austriaco che serviva a dirottare l’attenzione degli
italiani dalla Corsica e da Nizza per concentrarla verso il Trentino, Trieste, l’Istria
e la Dalmazia. Solo in seguito, nel secolo XX, e precisamente a partire dalle
discussioni sul nuovo assetto dei confini al termine della prima guerra mondiale,
la Francia cambiò decisamente rotta, spinta da motivi legati a un’ottica
geopolitica, ed assunse conseguentemente un posizione nettamente ostile
10
all’espansione territoriale italiana verso le sponde orientali dell’Adriatico
contrapponendosi agli interessi italiani nello spazio balcanico.10 L’atteggiamento
di Parigi non mutò al termine del secondo conflitto mondiale. Basti ricordare che
la linea di confine tra Italia e Iugoslavia proposta dalla Francia prima del Trattato
di Pace del 1947 era la più sfavorevole per l’Italia dopo quella sovietica.
5. L’ultima occasione
Ad ogni modo, come si evince dalla lettura della monografia di Luigi
Tomaz, dopo la prima occasione maturata durante la seconda guerra di
indipendenza11 e andata perduta a seguito del ripensamento di Napoleone III a
Villafranca, l’ultima vera occasione per l’Italia di completare l’unificazione
nazionale auspicata da tutti i protagonisti del Risorgimento, un progetto di
unificazione che contemplava l’annessione di tratti di costa sulla sponda orientale
dell’Adriatico e di isole immerse in questo mare, non si è presentata per l’Italia,
come generalmente si pensa anche a causa del non infondato - ma per gli italiani
pernicioso - mito della “vittoria mutilata”, alla fine della prima guerra mondiale.12
Agli inizi del XX secolo, infatti, la composizione demografica per etnie di molti
territori della riva orientale dell’Adriatico, già incerta nei secoli precedenti, era
stata irreparabilmente compromessa.13 Se la costa occidentale dell’Istria e Trieste
erano ancora in larga maggioranza abitate da italiani, all’interno di questi territori,
in Istria e soprattutto in Dalmazia la situazione era molto diversa e da tempo assai
10 Seguendo questa politica la Francia al termine del primo conflitto mondiale si adoperò per bloccare l’espansione italiana ad est e per favorire la nascita, l’ampliamento e il potenziamento di uno stato che unisse tutti gli slavi del sud, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni sotto la dinastia dei Karadordevic, divenuto successivamente Regno di Iugoslavia. Nel contempo, sempre in base ai medesimi obiettivi di geopolitica, la Francia guardava con particolare interesse anche altri paesi come la Cecoslovacchia, la Polonia e la Romania. 11 Si veda quanto detto in precedenza in occasione dell’occupazione dell’Isola di Lussino da parte di un contingente franco-sardo di 3.000 uomini nel 1859. 12 Il mito della “vittoria mutilata” non era infondato in quanto incontestabilmente non erano stati rispettati precisi impegni assunti dai membri dell’Intesa verso l’Italia con il Patto di Londra del 1915 che aveva preceduto la dichiarazione di guerra del governo di Roma agli Imperi centrali. D’altra parte non vi sono dubbi sul fatto che si trattò di un mito pernicioso. Si creò infatti un diffuso senso di insoddisfazione che concorse a preparare il terreno all’ascesa al potere del fascismo, all’adozione di una politica estera fondata sul revisionismo che condusse l’Italia all’adesione all’Asse ed all’ingresso nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista.. 13 Era infatti impensabile da parte dell’Italia una gigantesca operazione di pulizia etnica come quella realizzata dalla Turchia nei primi decenni del secolo XX al fine di annichilire la presenza di importanti insediamenti di altre etnie sul proprio territorio (genocidio armeno, espulsione in massa dei greci).
11
problematica per l’Italia. Per quanto concerne in particolare la situazione della
costa dalmata, solo la città di Zara mostrava una chiara presenza maggioritaria
dell’etnia italiana.14 Anche nella maggior parte delle isole dalmate l’etnia italiana
non deteneva più la maggioranza.
Si trattava evidentemente in primo luogo del risultato naturale del sommarsi
di variabili demografiche (natalità e movimenti migratori) riguardanti le varie
etnie. L’inizio del flusso migratorio slavo verso la Dalmazia risaliva agli ultimi
secoli del primo millennio mentre relativamente all’Istria poteva soprattutto essere
ricondotto all’epoca della dominazione della Serenissima ed alla discutibile e
comunque imprudente politica di Venezia di ripopolare indiscriminatamente con
slavi, morlacchi, albanesi e greci delle isole egee, spesso profughi a causa
dell’avanzata dei turchi, le aree rurali istriane che avevano subito un calo di
popolazione a causa del fenomeno dell’urbanizzazione o di epidemie portate dalle
navi provenienti dal Mediterraneo orientale (Salimbeni, 1994).15 Il flusso
migratorio era destinato ad irrobustirsi notevolmente sotto il dominio austriaco.
Non si deve omettere di aggiungere che entravano in gioco anche gli effetti della
politica di assimilazione e snazionalizzazione seguita dall’Austria-Ungheria,
principalmente a partire dalla la terza guerra di indipendenza.16 Una politica di
snazionalizzazione che si avvaleva anche della preziosa collaborazione del clero
cattolico dal momento che le massime cariche nelle gerarchia ecclesiastica erano
state opportunamente affidate ad elementi ostili al gruppo etnico italiano.17
14 Il 18 marzo 1861, quando a Zara giunge la notizia della proclamazione del Regno d’Italia la popolazione è presa dall’entusiasmo e alle finestre appaiono i tricolori. 15 Fra un secolo alcuni paesi europei si accorgeranno degli errori compiuti nella seconda metà del secolo XX e nei primi decenni del secolo successivo imputabili all’assenza di una chiara politica dell’immigrazione fondata sulla selezione, sull’accoglienza e sul completo inserimento dei nuovi arrivati nella società del paese meta del flusso migratorio. 16 L’impero Austro-Ungarico, contrariamente a quanto compiuto in precedenza o successivamente da parte di altri stati di quest’area non attuava pulizie etniche, ma seguiva invece politiche di snazionalizzazione non violente a danno delle etnie che facevano riferimento a Stati indipendenti confinanti e che alimentavano sentimenti irredentisti. In particolare nei territori adriatici si incoraggiava l’immigrazione slava, si provvedeva ad arrestare la spinta all’italianizzazione degli immigrati slavi chiudendo le scuole italiane e si favoriva l’ascesa sociale di croati e sloveni anche attraverso l’accesso alle carriere pubbliche. In generale le politiche di assimilazione e snazionalizzazione avvantaggiavano, soprattutto nelle aree dell’Impero caratterizzate da maggiore criticità, le etnie dominanti tedesche e ungheresi e quelle considerate leali agli Asburgo come ad esempio croati, sloveni, ruteni e mentre penalizzavano le etnie meno affidabili come italiani, romeni e serbi. Furono incoraggiati anche movimenti migratori in uscita dai territori italiani dell’Impero asburgico verso territori dell’area danubiano-balcanica appartenenti al medesimo impero come la Slavonia, la Bosnia-Erzegovina, la Transilvania dove sopravvivono comunità di origine italiana (Vignoli, 2000). 17 Ad esempio, a Trieste si ha, a partire dal 1831, una serie ininterrotta di sette vescovi non appartenenti all’etnia italiana, precisamente sei slavi e un tedesco.
12
Possiamo invece affermare, con il senno di poi, che fu forse proprio la terza
guerra di indipendenza italiana ad offrire al Risorgimento l’ultima chance per
conseguire un’unità nazionale comprensiva delle terre della sponda orientale
dell’Adriatico. Duole costatare come allora un obiettivo che sembrava a portata di
mano non fosse stato raggiunto nonostante le favorevoli premesse18 e ciò a causa
della deludente performance dell’esercito evidenziata dallo smacco di Custoza e
dell’umiliante e del tutto imprevedibile sconfitta subita dalla flotta italiana ad
opera di quella austriaca nello scontro navale di Lissa del 1866.
A questo riguardo è necessario aggiungere che la flotta italiana era presente
nelle acque di Lissa non per compiere una mera esibizione di forza al centro
dell’Adriatico, ma con il preciso compito di proteggere le operazioni di sbarco di
militari italiani sull’isola. L’Italia intendeva infatti prendere possesso di un’isola
dalmata dove l’etnia italiana aveva una significativa presenza e dove già gli
isolani si accingevano a festeggiare lo sbarco del contingente italiano. Poi ci fu
l’improvviso micidiale attacco da parte della flotta austriaca che evidentemente
aveva messo da parte l’atteggiamento di massima prudenza adottato durante la
seconda guerra di indipendenza. La marina militare austriaca continuava a contare
molti italiani fra ufficiali e marinai nei propri equipaggi e la flotta vittoriosa nello
scontro navale di Lissa era comandata dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff,
già brillante allievo dell’Accademia navale imperiale di Venezia.
D’altra parte il governo italiano sin dai tempi di Cavour, durante la seconda
guerra di indipendenza, aveva ben compreso la posizione dell’Inghilterra,
favorevole in linea di massima alla spinta risorgimentale per l’unità d’Italia, ma
sempre vigile sulla questione del dominio dei mari e poco disposta a rinunce e
concessioni al riguardo.19 L’Italia si muoveva, conseguentemente, in questo
scacchiere con molta prudenza monitorando attentamente anche le mosse
britanniche.
Il governo di Londra non avrebbe probabilmente battuto ciglio se l’Italia,
grazie ad una vittoriosa campagna militare di Garibaldi proseguita oltre l’arco
alpino, fosse entrata inopinatamente in possesso dell’intero Tirolo e in aggiunta
18 La Prussia, mentre era contraria all’acquisizione da parte dell’Italia di territori inclusi nella Confederazione Germanica, con l’eccezione forse del Trentino (non si spiegherebbe altrimenti la via libera verso Trento data dal governo italiano a Garibaldi), sembrava non contrastare le aspirazioni italiane sull’oltre Adriatico già appartenuto alla Repubblica di Venezia. 19 Con riferimento alla Seconda guerra di indipendenza italiana si deve ricordare la decisione di Londra per una significativa presenza navale britannica in Adriatico che fece riflettere Napoleone III e lo stesso Cavour concorrendo a mitigarne le ambizioni (Simpson, 1962).
13
del Vorarlberg o se ci fosse stata l’annessione di qualche isola nel Golfo del
Quarnaro (ad esempio Cherso e Lussino) o al largo della costa dalmata come ad
esempio Lissa. L’Inghilterra mostrava invece inequivocabilmente di non gradire
una consistente e generalizzata espansione dell’Italia sulla costa orientale
dell’Adriatico e di non essere affatto disposta ad accettare che questo mare
diventasse un golfo molto più italiano di quanto lo fosse stato in passato un golfo
veneziano.20 Infatti Venezia estendeva il proprio dominio su buona parte della
costa orientale, ma non controllava la costa adriatica della penisola italiana e
neppure i grandi porti di Trieste e di Fiume. Invece il Regno d’Italia di recente
nascita aveva aspirazioni molto più ambiziose che riguardavano entrambe le coste
del Mare Adriatico. Il medesimo atteggiamento sarà tenuto dalla Gran Bretagna
anche dopo l’annessione italiana di Trieste, Fiume e Istria al termine della prima
guerra mondiale. Si comprende chiaramente quindi in quest’ottica la mancanza di
entusiasmo e persino la contrarietà palesate dal governo britannico nel rispettare i
precisi impegni riguardanti l’assetto della sponda orientale adriatica previsti dal
Trattato di Londra del 191521 sia i motivi dell’appoggio fornito dai servizi segreti
inglesi nel periodo infrabellico all’organizzazione terroristica croato-slovena di
ispirazione nazionalistica, denominata TIGR (Trst, Istra, Gorica, Rijeka) che
operava in Venezia Giulia contro gli italiani (Apollonio, 2004). La Gran Bretagna
mantenne sostanzialmente una posizione di ostilità rispetto alla presenza italiana
in Adriatico anche dopo il secondo conflitto mondiale, dapprima nella fase di
definizione del confine italo-iugoslavo e successivamente nella gestione del
Territorio Libero di Trieste istituito dal Trattato di Parigi del 1947 e mai realizzato
anche per il fatto che la Zona B era stata affidata in amministrazione ad una delle
parti interessate in situazione di chiaro conflitto di interessi. Nella stessa Zona A
20 Per il medesimo motivo il governo britannico non darà il proprio appoggio all’acquisizione italiana della Tunisia, proprio per il fatto che l’Italia già controllava la sponda opposta del Canale di Sicilia, mentre non si opporrà all’occupazione di questo territorio da parte della Francia, (Langer, 1925; Mardsen, 1970). 21 Con il Trattato di Londra l’Italia otteneva il consenso degli Alleati dell’Intesa l’allineamento del futuro confine alla frontiera naturale delle Alpi sino alle Alpi Giulie, le isole di Cherso e Lussino, la Dalmazia centro-settentrionale sino al fiume Cherca comprendente le città di Zara e Sebenico e inoltre le seguenti isole dalmate: Premuda, Selve, Ulbo, Scherda, Maon, Pago, Puntadura, Meleda, San Andrea, Busi, Lissa, Torcola, Curzola, Cazza, Lagosta. All’Italia veniva promesso inoltre l’Arcipelago di Pelagosa al largo del Gargano, già in precedenza appartenuto al Regno di Napoli. Il Trattato invece prevedeva la rinuncia da parte italiana a città ed isole in precedenza facenti parte del Commonwealth veneziano e successivamente incluse nel Regno d’Italia napoleonico come Spalato, Ragusa, Traù, Cattaro, Antivari, Dulcigno e le isole di Veglia, Arbe, Lesina e Brazza. Era inoltre esclusa la città portuale di Fiume con una popolazione a maggioranza italiana ma che non aveva appartenuto in passato né a Venezia né al Regno d’Italia napoleonico.
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gli inglesi, ai quali spettava la carica di governatore non assunsero un
atteggiamento benevolo verso il gruppo etnico italiano che pure rappresentava la
larga maggioranza della popolazione complessiva e repressero con estrema
durezza le manifestazioni patriottiche triestine del 1953. In quell’occasione le
forze dell’ordine aprirono il fuoco contro i manifestanti provocando la morte di
sei giovani.
Si è affermato in precedenza che gli infausti esiti delle battaglie di Custoza
e di Lissa furono opposti rispetto a ragionevoli attese fondate sul confronto delle
forze in campo. A questo punto sarebbe interessante immaginare uno scenario
alternativo nell’ipotesi di un pieno successo militare italiano e di conseguenti più
consistenti acquisizioni territoriali a seguito delle tre guerre di indipendenza
contro l’Austria.22 In questa visione storica controfattuale si configura una
situazione, che non era sconsiderato congetturare ex ante: l’Italia avrebbe potuto
annettersi non solo il Lombardo-Veneto, ma anche il Trentino ed una consistente
porzione dei territori già veneziani dell’oltre Adriatico.
Cerchiamo di immaginare cosa sarebbe successo all’Italia in questa ipotesi. Lo
stato delle alleanze internazionali non sarebbe probabilmente mutato. Il secolo
XX sarebbe iniziato vedendo l’Italia membro nella Triplice. L’Italia, tuttavia, non
sarebbe intervenuta nel primo conflitto mondiale in assenza di presupposti e di
stimoli validi a giustificare una decisione tanto grave. Non certamente a fianco
degli imperi centrali perché impedita dalla grande vulnerabilità delle sue coste
peninsulari e insulari in presenza di un dominio navale incontrastato del
Mediterraneo da parte degli anglo-francesi. D’altra parte l’acquisizione della sola
Trieste non rappresentava un incentivo sufficiente a bilanciare i rischi e le perdite
prevedibili con l’abbandono della neutralità e con l’opzione di cobelligeranza a
fianco dell’Intesa.
Con tutta probabilità, a seguito della dissoluzione dell’Impero asburgico, la città
di Trieste, attraverso una consultazione popolare, si sarebbe unita pacificamente
all’Italia nel dopoguerra. Si deve poi aggiungere che, senza la partecipazione alla
22 A ben vedere, non solo la terza guerra di indipendenza, ma in precedenza anche la prima e la seconda avrebbero potuto consentire una estensione del processo di unificazione nazionale anche alla sponda orientale dell’Adriatico. Per quanto riguarda la prima guerra di indipendenza, Luigi Tomaz (2010, pag, 513) cita uno scritto di nazionalista croato, Mattia Ban, che parlando della presenza in Adriatico della flotta veneto-sardo-napoletana nel 1848, affermava; “Se, appena scoppiati i primi moti, la flotta italiana avesse potuto costeggiare la Dalmazia, questa si sarebbe sollevata”. Per quanto attiene invece alla seconda guerra di indipendenza, si è accennato nel precedente paragrafo al tripudio con cui venne accolto dalla popolazione di Lussino lo sbarco delle truppe franco-piemontesi nel 1859.
15
prima guerra mondiale, all’Italia sarebbero state risparmiati non solo seicentomila
morti, ma la dittatura fascista, la politica estera revisionista ed il conseguente
ingresso nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania nazista. D’altra
parte alla Germania, nel secondo conflitto mondiale, sarebbe stata più utile
un’Italia neutrale con cui commerciare che un territorio occupato da gestire e
difendere e questa considerazione ci avrebbe evitato un’invasione dal Brennero,
almeno sino al momento di una improbabile vittoria finale di Hitler. Gli Alleati
avrebbero esercitato pressioni economiche e finanziarie sull’Italia per spingerla
verso la guerra contro la Germania, ma il governo di Roma avrebbe potuto
opporre un motivato rifiuto.
Non è difficile immaginare i grandi benefici ottenibili da parte dell’Italia
nel caso in cui gli eventi storici avessero seguito questo percorso alternativo. In
particolare l’economia dell’intero bacino adriatico avrebbe ricevuto un notevole
impulso dallo sviluppo dei rapporti fra le due sponde. Di contro sarebbero forse
sorte tensioni a partire dal periodo infrabellico in merito ai confini dell’Istria e
della Dalmazia (Tomaz, 2007). Tensioni alimentate dal risveglio nazionale degli
slavi del sud e in particolare dalla rapida e turbolenta ascesa di movimenti
nazionalisti croati e sloveni vista con simpatia o strumentalizzata da alcune grandi
potenze. In un periodo successivo questi sviluppi politici sfavorevoli alla causa
italiana avrebbero forse costretto l’Italia a sottoscrivere accordi internazionali
implicanti rettifiche di confine nell’oltre Adriatico, ma si sarebbe probabilmente
trattato di cessioni territoriali di entità non ragguardevole e comunque limitate
quasi esclusivamente alla terraferma. Infine, accettando la peggiore delle ipotesi,
l’Italia sarebbe stata estromessa da gran parte della Dalmazia continentale, ma
avrebbe conservato il controllo di tutte o quasi tutte le isole dell’Adriatico.23 Si
sarebbe quindi creata una situazione simile a quella riscontrabile nell’odierno
confine turco-ellenico, dove la Grecia, espulsa dalla terraferma anatolica,
mantiene la sovranità su tutte le isole del Mare Egeo con l’eccezione di Imbro e
Tenedo.
23 Oggi invece la Croazia controlla la quasi totalità delle isole in mare aperto dell’Adriatico, compreso l’Arcipelago di Pelagosa, al largo del Gargano, mentre all’Italia è rimasto solo l’Arcipelago delle Tremiti.
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6. L’Italia e l’Adriatico dopo il Congresso di Vienna
Ma ritornando al Congresso di Vienna del 1814-15 è opportuno ricordare,
come giustamente sottolinea Luigi Tomaz, che il nuovo assetto politico conferito
all’Italia dai vincitori di Napoleone, contrassegnato dalla costituzione del Regno
Lombardo-Veneto e del Regno di Illiria, non intacca di fatto l’unità economica e
culturale delle terre italiane che si affacciano sull’Adriatico conseguita nel 1805
con la nascita del Regno d’Italia napoleonico e conservata dopo la creazione delle
Province Illiriche sotto un’amministrazione francese, che era oltretutto esercitata
in larga parte a mezzo di funzionari italiani.24
La medesima situazione viene mantenuta anche dopo successive
riorganizzazioni amministrative territoriali decise a più riprese dalle autorità di
Vienna. L’Austria tuttavia non accoglie le suppliche degli italiani di Dalmazia
miranti a raggruppare sotto un unico governo, sottoposto alla corona imperiale,
tutti i territori che potevano essere considerati italiani per lingua, storia e cultura
situati sulle due sponde dell’Adriatico con il pensiero recondito di creare, almeno
di fatto, una struttura dualistica austro-italiana.25 Le stesse autorità viennesi,
sempre come non manca di ricordare Tomaz, difendono, d’altro lato, l’autonomia
della Dalmazia respingendo con fermezza le reiterate e pressanti rivendicazioni
croate miranti a inglobare questa contesa regione nel Regno di Croazia e Slavonia
(Tomaz, 2007). Il governo di Vienna respinge anche la richiesta formulata da
autorevoli esponenti della comunità slovena, di unire Trieste e l’Istria alla
Carniola motivando la propria decisione sulla diversità presente nelle etnie
prevalenti nelle due aree (Tomaz, 2010).
Solo la Terza guerra di indipendenza, seguita dall’annessione del Veneto
all’Italia, genera un distacco traumatico da Venezia delle comunità italiane della
riva orientale dell’Adriatico. Un distacco che viene sofferto non solo a Venezia e
nel Veneto, ma soprattutto in Istria e in Dalmazia dove ancora molti fra gli
abitanti si sentono orfani della Serenissima e rimpiangono l’immagine
24 A titolo esemplificativo di questa unità degli italiani sottoposti all’amministrazione imperiale austriaca riportiamo il caso della flotta militare imperiale denominata, sino al 1849, Ostereichisce-Veneziansche Kriegsmarine, i cui equipaggi sia a livello di ufficiali che di marinai erano in larga parte formati da italiani reclutati a Venezia e nel Veneto, a Trieste, a Fiume, in Istria e in Dalmazia. 25 Tomaz (2007), a questo riguardo, commenta: “l’Impero d’Austria, persa l’occasione di divenire Austro-Italiano, divenne Austro-Ungarico e decise di avviarsi verso il trialismo Austro-Ungarico-Slavo”.
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rassicurante del glorioso gonfalone di San Marco. Vengono repentinamente
tagliati legami secolari fra le due sponde dell’Adriatico riguardanti la cultura, la
scuola, la pubblica amministrazione, la marina militare e mercantile, la finanza, il
commercio, l’agricoltura e l’industria (D’Alia, 1916). Negli anni successivi, poi,
per effetto di guerre, trattati internazionali, decisioni politiche interne di ordine
amministrativo, politiche di assimilazione etnica e snazionalizzazione, mutamenti
della composizione etnica causati da fattori demografici si è arrivati ad una
definitiva rottura di tale unità.
7. Lo spazio danubiano-balcanico
Sulla sponda orientale dell’Adriatico l’Italia confina con lo spazio
danubiano-balcanico, che gli autori di lingua inglese definiscono comunemente
patchwork of states. Si tratta di un vasto spazio geografico abitato da una pluralità
di etnie profondamente diverse fra loro per origini, razza, storia, lingua, cultura, e
religione (Ancel, 1926; Analis 1978; Prévélakis, 1997). Su questi territori, infatti
dopo la caduta dell’Impero romano si sono succedute per secoli ondate migratorie
e invasioni che hanno determinato esodi e hanno seminato ovunque distruzione e
morte. Gli invasori non sono stati assimilati dagli indigeni come è avvenuto nella
Gallia, nella penisola iberica e in Italia. I vari popoli insediati nell’area coabitano
da secoli riluttanti ad amalgamarsi fra loro, spesso in assenza di chiari confini o
con insediamenti disposti a macchia di leopardo in un clima di perenne incertezza
e di accesa conflittualità interetnica (Analis, 1987; Poulton, 1993). Ed è proprio in
questo travagliato spazio ad oriente dell’Italia, considerato da alcuni autori come
una grande sentina gentium (Comyn-Platt, 1906), in cui sono confluiti popoli
provenienti dalle aree boscose e paludose dell’Europa centro-orientale (slavi),
dalle steppe dell’Asia centrale (uralici e iranici) e dal subcontinente indiano
(zingari), che si è verificata nei due ultimi secoli la maggiore turbolenza
accompagnata da frequenti variazioni nei confini fra stati. Il cancelliere Bismark,
preoccupato che le crescenti tensioni austro-russe nella spartizione dei Balcani
potessero, come effettivamente in seguito avvenne, coinvolgere la Germania in
una guerra contro la Russia, affermava che i Balcani non valevano la vita di un
18
solo granatiere di Pomerania. Ad un secolo di distanza risale invece la nota battuta
di Winston Churchill: “the Balkans produce more history than they can consume”.
Dalla dissoluzione di tre vasti imperi al termine del primo conflitto
mondiale, l’Impero Austro-Ungarico, l’Impero Russo e l’Impero Ottomano, sono
successivamente sorti nuovi stati, alcuni dei quali si sono a loro volta frantumati
per dare vita ancora ad un’altra pluralità di stati (Malcom, 1994; Hösch, 2006). I
ricorrenti mutamenti nei tracciati delle frontiere sono stati talora accompagnati da
vessazioni imposte alle minoranze etniche o peggio da spostamenti forzosi di
popolazioni e da sanguinose pulizie etniche (Analis, 1987; Poulton, 1993).
Questa non invidiabile posizione di contiguità con un mondo così
turbolento, violento e spietato è stata per secoli causa di problemi per l’Italia e per
gli stati italiani che avevano preceduto l’unità nazionale. Nel secondo dopoguerra
si ricordano le penose amputazioni territoriali subite dall’Italia e le sofferenze
delle popolazioni italiane di confine. Si ricordano al riguardo le stragi delle
foibe, il grande esodo dei giuliano-dalmati e la confisca dei beni abbandonati
dagli esuli (Solari, 2002).
Ancora oggi, in questa parte dell’Europa rimasta ibernata per quasi mezzo
secolo oltre la cortina di ferro, ostaggio dell’arcigno potere sovietico e retta talora
da ferrei regimi nazional-comunisti come quelli di Enver Hoxa in Albania, di
Josip Broz Tito in Iugoslavia e di Nicolae Ceausescu in Romania, i discorsi sui
confini, alimentati dal mito ancora radicato dello Stato-nazione, hanno l’effetto di
surriscaldare gli animi e di creare frizioni nei rapporti con i paesi limitrofi. Ci si
augura che l’ingresso nella Comunità Europea, già avvenuto per Bulgaria,
Romania, Slovenia e Ungheria e previsto a scaglioni per tutti gli altri paesi
dell’area, abbia l’effetto positivo di allentare queste pericolose tensioni
potenzialmente conflittuali.
8. Obiettivi dei nazionalismi
Nell’ottica dei nazionalismi ogni Stato-nazione dovrebbe mirare al
raggiungimento di confini “giusti” o “ adeguati” rispetto alla visione della “patria”
riflessa non infrequentemente nella massima espansione territoriale conseguita
nella storia, con il risultato che si vengono purtroppo a configurare ampie e
19
diffuse sovrapposizioni di rivendicazioni territoriali (Mauri, 2007). Chi aspira ad
una grande Slovenia rimette in discussione le frontiere con tre stati confinanti:
l’Austria, l’Italia e la Croazia. A chi auspica una grande Ucraina o una grande
Bulgaria risponde chi evoca il ritorno ad una grande Romania o una grande
Ungheria. Il sogno di una grande Serbia si scontra inevitabilmente a nord con gli
ambiziosi progetti della grande Croazia e a sud con le aspirazioni dagli albanesi
all’unità nazionale. Ma la sagoma della grande Albania si sovrappone anche ai
presuntuosi disegni espansionistici per una grande Macedonia slava, che
contemplano l’annessione di parte della Grecia settentrionale e di una piccola
porzione di Bulgaria (Poulton, 1995; Rossos, 2008).
Osservando la situazione presente possiamo individuare sia i paesi
maggiormente avvantaggiati sia quelli maggiormente danneggiati dalle modifiche
nel tracciato delle frontiere che si sono verificate a partire dagli inizi del secolo
scorso. Tra i paesi che dovrebbero sentirsi maggiormente appagati (e che talora
invece non lo sono affatto a causa delle sfrenate ambizioni del nazionalismo)
dall’assetto attuale delle frontiere ricordiamo in primo luogo l’Ucraina, un paese
che, a rigor di termini, non dovrebbe neppure rientrare nello spazio danubiano-
balcanico, ma che vi si è prepotentemente inserito per effetto di una smisurata
espansione territoriale a spese degli stati confinanti ad occidente che oggi sono i
seguenti: Polonia, Slovacchia, Moldavia, Ungheria e Romania. L’Ucraina, grazie
alla incontenibile forza negoziale dell’URSS al termine del secondo conflitto
mondiale, una forza negoziale fondata sulla minacciosa presenza dell’Armata
rossa sui territori contesi, e a seguito dell’ottenimento dell’indipendenza nel 1991
al momento della dissoluzione dell’impero sovietico, ha visto spostare
significativamente le proprie frontiere verso occidente sino a penetrare in
profondità nel delta del Danubio, dopo aver superato il confine storico del Nistro
(Dniestr), e ad insediarsi in un lembo del Bassopiano pannonico (la
Transcarpazia), travalicando il confine naturale dei Carpazi.26
Di contro, il paese maggiormente penalizzato dalle variazioni dei confini è
stato indubbiamente l’Ungheria, alla quale in entrambi i conflitti mondiali è
26 La cessione della Transcarpazia fu imposta da Stalin alla Cecoslovacchia. Questa singolare rivendicazione territoriale mossa non ad un alleato della Germania nazista, ma a una sua vittima, era ispirata a motivazioni preminentemente di ordine strategico-militare. Partendo da queste basi, infatti, le forze corazzate sovietiche sarebbero state in grado di raggiungere in breve tempo alcune importanti città dell’Austria, dell’Ungheria, della Slovacchia, della Slovenia, della Croazia, della Serbia e della Romania.
20
toccata la cattiva sorte di trovarsi schierata dalla parte soccombente e che ha
conseguentemente perso due terzi del territorio originariamente controllato. La
Croazia, non differentemente dalla Nazione magiara, si è trovata anch’essa
schierata dalla parte sbagliata nelle due citate guerre, ma la sorte le è stata meno
avversa o anzi, a ben vedere, persino benigna dato che non solo non ha perso
nulla, ma ha esteso notevolmente il proprio territorio in varie direzioni. Una
Croazia che si è imprevedibilmente inserita nel novero dei paesi della spazio
danubiano-balcanico che si sono maggiormente avvantaggiati durante il secolo
XX.
Decisamente male sono andate invece le cose per la Serbia, che invece
aveva indovinato le sue scelte di politica internazionale allineandosi nelle due
guerre mondiali a fianco dei paesi che alla fine sarebbero usciti vincitori. Una
Serbia oggi priva di sbocchi al mare, una Serbia che ha perso a sud il controllo
della provincia del Vardar, divenuta stato indipendente sotto il nome di
Macedonia (un nome peraltro contestato dalla Grecia che paventa rivendicazioni
territoriali sulla sua regione settentrionale),27 una Serbia che ha subito il divorzio
dal Montenegro e che pare essere uscita definitivamente soccombente nell’aspro
confronto con i secessionisti albanesi del Kossovo.
La Bulgaria, schierata come Ungheria e Croazia in entrambe le guerre
mondiali dalla parte dei perdenti e sconfitta in precedenza anche nella seconda
guerra balcanica non è del tutto scontenta dell’assetto odierno dei confini essendo
riuscita almeno a recuperare la Dobrugia meridionale (detta anche Quadrilatero)
27 Nella suddivisione amministrativa della Repubblica Federale Popolare di Iugoslavia in sei repubbliche, introdotta da Tito mirava ad accentrare il potere nelle mani dei gruppi etnici slavi e ad attenuare la conflittualità fea questi gruppi. Rimanevano penalizzati i gruppi etnici non slavi per il fatto che, ad esempio, non erano state create repubbliche per la Dalmazia, la Voivodina, il Kossovo, l’Istria. Per fare un esempio che riguarda da vicino le tematiche del presente contributo basta rilevare che se le richieste iugoslave nel dopoguerra fossero state in toto esaudite, una vasta area abitata a maggioranza dall’etnia italiana assegnata alla Iugoslavia avrebbe compreso l’intera regione della Venezia Giulia e parte del Friuli (con l’inclusione di città come Trieste, Pola, Capodistria, Parenzo, Rovigno, Fiume, Gorizia, Monfalcone, Cividale e forse la stessa Udine) senza tuttavia che fosse prevista la creazione ad hoc di una “Repubblica della Marca Giuliana”, ma solo una spartizione fra Slovenia e Croazia. In questo contesto la Serbia di vide amputare la parte meridionale (la citata provincia del Vardar) abitata da una pluralità di etnie (macedo-slavi, albanesi, aromuni, megleno-romeni, rom, turchi, serbi, bulgari, ecc) fra le quali il gruppo etnico slavo-macedone, il più numeroso sulla base di stime attendibili, superava a stento la metà della popolazione. Fu creata quindi la Repubblica macedone, la quale prendeva questo nome per la circostanza di incorporare un lembo dell’antico Regno di Macedonia. Questa decisione si poneva il duplice obiettivo di ridimensionare la Serbia, per evitare un’eccessiva concentrazione di potere in questa repubblica, e di creare i presupposti per rivendicare la Macedonia greca con il fine di ottenere per la Iugoslavia uno sbocco anche sul Mare Egeo. Si comprende quindi chiaramente l’avversione della Grecia per il nome che con la propria costituzione questo nuovo stato si è attribuito (Mauri, 1995; Desotopoulos,2008 ).
21
ceduta alla Romania appunto nel 1913. Questa modifica confinaria a vantaggio
dello Stato bulgaro, imposta dalla Germania nazista nel 1940, è stata confermata
per volere dell’Unione Sovietica al termine del secondo conflitto mondiale.
La Grecia, schierata nelle due guerre mondiali dalla parte dei vincitori, ha
potuto recuperare la quasi totalità delle isole del Mare Egeo ed espandere
notevolmente i propri confini settentrionali. Tuttavia con grande sconforto i
nazionalisti ellenici hanno visto definitivamente svanire il sogno della “Megali
Idea” nel completamento dell’unificazione nazionale, una Grande Grecia che
avrebbe dovuto includere l’odierna Tracia turca e vasti territori della penisola
anatolica dove sopravvivevano consistenti minoranze etniche di religione
cristiana, le quali anche se non avevano origine greca dopo la scomparsa
dell’Impero romano d’Oriente conservavano sentimenti di appartenenza alla
cultura ellenica.
9. La presenza latina nell’area danubiano-balcanica
Lo spazio danubiano-balcanico nella sua peculiare complessità presenta
aspetti generalmente ignorati. Generalmente si pensa a quest’area geografica
come ad un mondo monopolizzato dagli slavi del sud, ma in realtà questo vasto
gruppo etnico comprensivo di vari popoli rappresenta solo una delle varie
componenti etniche della popolazione che vive in quest’area. Se prendiamo in
esame solo le etnie principali insediate oggi nello spazio danubiano-balcanico ed
escludiamo quella italiana del litorale adriatico, già oggetto di attenzione nelle
pagine precedenti, possiamo dividere la popolazione complessiva in due grandi
gruppi. Nel primo gruppo, rappresentato da popoli che, adottando come base
stabile di riferimento temporale l’epoca imperiale romana, caratterizzata anche
delle origini della presenza cristiana nell’area, possono essere considerati
autoctoni, si devono annoverare, chiamandoli con il nome attuale, gli albanesi, i
greci ed i romeni. Nel secondo gruppo invece vi sono popoli allogeni, immigrati
in quest’area geografica in diverse ondate, in tempi diversi e da differenti luoghi
di etnogenesi: possiamo elencare al riguardo gli slavi, i magiari, i tedeschi, i turchi
e gli zingari.
22
Giova ricordare che lo spazio danubiano-balcanico nell’epoca imperiale
romana, scelta opportunamente come base di riferimento, era suddiviso in due
separate aree di diffusione linguistica e culturale: un’area latina e un’area greca.
Queste due aree, tuttavia, non erano delimitate da confini di tipo formale e
amministrativo all’interno dell’Impero romano, ma erano piuttosto il risultato sia
di consolidati rapporti commerciali e culturali sia di flussi migratori interni
all’Impero (Mommsen, 1962).
Nella parte settentrionale dominavano la lingua e la cultura di Roma mentre
nella parte meridionale si erano da secoli affermate la lingua e la cultura elleniche.
Grosso modo la linea di demarcazione fra l’area latina e quella greca attraversava
da ponente a levante la penisola balcanica partendo dalla costa adriatica
dell’odierna Albania in prossimità della città di Durazzo, passando per l’odierna
Bulgaria e percorrendo le cime della catena montuosa dei Piccoli Balcani sino a
raggiungere il Mar Nero. Questa linea immaginaria è chiamata oggi dagli studiosi
“linea Jireček” dal nome dello storico ceco Konstantin Josef Jireček (1854-1918)
che la tracciò dopo un accurato studio fondato sulle scritte rinvenute sui reperti
archeologici risalenti appunto all’epoca imperiale romana.28 In particolare la parte
latina dello spazio danubiano-balcanico era molto legata all’Italia e i rapporti
culturali, politici e commerciali erano persino, in certi casi, più intensi rispetto a
quelli esistenti all’interno di quelli che sono oggi i confini dello stato italiano e
sicuramente assai più sviluppati rispetto a quelli allora esistenti fra la penisola e
altre province dell’Impero. Quest’area che abbiamo definita latina era pienamente
inserita nell’Impero tanto da fornire il fiore dell’esercito romano e della pubblica
amministrazione e da dare i natali a 40 imperatori, fra i quali si possono
annoverare Diocleziano, Aureliano, Costantino il Grande e Giustiniano (Dragan,
1996).
Durante il periodo delle invasioni barbariche popoli di stirpe germanica,
slava, iranica e uralica provenienti da regioni che sulla base della terminologia
odierna chiameremmo sottosviluppate penetrarono in profondità nella parte di
lingua latina nell’Europa romana (Azzara, 1999). In Occidente le ferite inferte
dagli invasori hanno lasciato cicatrici di entità limitata dal momento che i nuovi
arrivati, come osservato nelle pagine precedenti, si amalgamarono gradualmente
28 E’ opportuno precisare che nell’analisi dei reperti venne attribuita minore importanza a quelli rappresentati da opere pubbliche e da insediamenti militari per le quali la lingua latina era comunemente usata anche nell’area linguistico-culturale greca.
23
con le popolazioni indigene adottandone la lingua, la cultura e la religione. Questo
processo ha richiesto secoli ed è stato agevolato dalla sproporzione numerica
esistente al momento dell’invasione fra immigrati e indigeni e dalla notevole
inferiorità culturale dei primi rispetto ai secondi.
Il fenomeno migratorio assume tuttavia connotati assai più drammatici nella
parte orientale della comunità latina, ovvero lo spazio racchiuso fra l’Adriatico e
il Mar Nero dove gli effetti dell’invasione, dopo oltre un millennio, appaiono
significativamente diversi. In occidente il confine fra mondo latino e mondo
germanico ha sostanzialmente tenuto pur se vi è stato un arretramento ad ovest del
Reno e soprattutto a sud del Danubio; in quest’ultimo caso il confine etnico ha
anche oltrepassato la catena alpina incrociando la valle dell’Adige all’altezza della
stretta di Salorno. Ad oriente, invece, le invasioni barbariche hanno avuto
conseguenze assai più gravi e durature. In altre parole vi è stato quello che
potremmo definire un cataclisma etnico per effetto del quale il mondo latino
orientale fu frantumato e ancor oggi risulta suddiviso in più parti (Diaconescu,
2000). Ad oriente si è venuta a formare un’isola latina, staccata dalla latinità
occidentale, che conta oltre 25 milioni di abitanti, residenti prevalentemente in
Romania e in Moldavia, dove i neolatini rappresentano la larga maggioranza della
popolazione.29 Altre sacche di etnie indigene di origine latina, oggi di dimensioni
notevolmente minori e talora purtroppo in via di estinzione, sono riscontrabili nei
seguenti stati odierni: Grecia, Albania, Macedonia (FYROM), Bulgaria, Serbia,
Bosnia, Croazia e Tracia turca (Winnifrith, 1987; Malcom, 1994).
Le cause di questo ineguale impatto delle invasioni barbariche fra est e
ovest dell’Europa vanno ricercate nella diversa origine degli invasori e soprattutto nelle ineguali loro motivazioni. Differentemente dai bellicosi popoli
di stirpe germanica, che miravano a conquistare territori prosperi da governare, le
tribù slave, assai più arretrate culturalmente e di indole sanguinaria (Gibbon,
1967), erano maggiormente inclini all’agricoltura che all’arte militare ed erano in
cerca di terre fertili sulle quali insediarsi e moltiplicarsi.30 La popolazione rurale
29 Di questa grande isola etnica fanno parte anche aree limitrofe situate in Ucraina, Bulgaria, Ungheria e Serbia. 30 Si legge in Conte (1991) “venuti per restare, gli slavi plasmarono i propri insediamenti in conformità alla strutture economiche e sociali loro proprie, in forme cioè esclusivamente rurali. Si ritiene che la causa della distruzione delle città delle zone occupate e della cacciata o annientamento degli abitanti di esse vada ricercato nell’ostacolo alla ruralizzazione di per se rappresentato dai centri urbani”. Il medesimo autore sostiene che vi fu un radicale sconvolgimento
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indigena dei territori conquistati era quindi considerata dai germani come una
preziosa risorsa da conservare, proteggere e sfruttare, mentre per gli assai più
numerosi slavi rappresentava una presenza ingombrante da eliminare. Non è stata
ancora definita con esattezza la collocazione geografica della culla degli slavi
anche per assenza di informazioni esaurienti ricavate dall’archeologia e da fonti
storiche del passato. La teoria più diffusa, ma non accettata da tutti, colloca
l’etnogenesi degli slavi in Poliessia, nella zona delle paludi del Pripet ai confini di
Bielorussia, Polonia e Ucraina.31
La calata dei popoli slavi verso la penisola balcanica eliminò quindi da
molte terre fertili le popolazioni indigene, cacciate verso impervie zone montane,
scarsamente appetibili sotto il profilo agricolo e più consone alla zootecnia.32 E’
interessante notare come la diaspora verso terre povere cui furono costrette le
popolazioni indigene investite dalle ondate migratorie slave obbligasse i profughi
dalle città e dalle campagne ad abbandonare le loro precedenti attività
commerciali, artigianali ed agricole per dedicarsi alla pastorizia, un’attività che
comportava grande mobilità, requisito essenziale in una strategia della
sopravvivenza in tali drammatiche circostanze (Mauri, 1995). Si determinava
tuttavia per le popolazioni indigene una caduta della qualità della vita che aveva
effetti devastanti sulla dinamica demografica e sulla salvaguardia del loro
patrimonio culturale. Paradossalmente, a seguito di questo processo involutivo,
nell’area danubiano-balcanica i discendenti dei barbari conquistatori dopo alcuni
secoli superarono nettamente per tenore di vita e livello culturale la progenie dei
civili e raffinati romani. Per molti secoli le lingue romanze nella maggior parte di
quest’area sopravvissero infatti solo in forma orale, tramandate da una
generazione all’altra, mentre le lingue usate anche in forma scritta e le lingue
utilizzate per la religione, la legge e la cultura erano quelle degli invasori slavi.
La parte meridionale della Balcania, ovvero quella di lingua greca, non fu
risparmiata dagli invasori slavi che spinsero le loro temerarie incursioni, foriere
etnico e strutturale della società che portò alla scristianizzazione e ad un imbarbarimento dello stile di vita che durò per secoli. 31 Per altri autori l’area originaria degli slavi sarebbe più vasta e situata sul versante nord-orientale dei Carpazi in prossimità alle sorgenti della Vistola e del Dnepr (Conte, 1991). 32 Annota al riguardo Conte (1991) che a partire dal esolo VI si verificò un maremoto slavo in direzione dei mari Adriatico ed Egeo che sconvolse gli equilibri etnici, sociali e politici, gli stili di vita e la mentalità dei territori conquistati causando un notevole arretramento della civiltà che durò alcuni secoli. Potremmo aggiungere che tale caduta di civiltà fu significativamente più grave di quella verificatasi nei territori in cui si insediarono gli invasori di stirpe germanica, e precisamente nelle penisole italiana e iberica nonché in Gallia.
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costantemente di distruzioni, saccheggi e massacri delle popolazioni indigene,
sino al Peloponneso e ad alcune isole prossime alla terraferma (Conte, 1991).
Comunque la parte greca della Balcania resistette assai meglio all’impatto delle
invasioni slave rispetto alla parte latina in quanto più distante dalle basi di
partenza degli aggressori e grazie alla maggiore densità demografica e alla
protezione da parte di Costantinopoli (sia l’Impero che il Patriarcato) che
assicurava, fra l’altro, un valido scudo a tutela della lingua e della cultura
elleniche. Anche in quest’area si è dovuto registrare, tuttavia, un arretramento
verso sud del confine con il mondo slavo. In queste terre tradizionalmente greche
si insinuarono non solo i barbari invasori, ma anche comunità pastorali nomadi
latine in fuga dai territori in cui erano precedentemente stanziate, comunità che
oggi sono in via di estinzione.
10. Una nazione sorella nell’area danubuano-balcanica: la Romania
Prendiamo infine in osservazione la Romania, che occupa la settima
posizione in graduatoria per popolazione degli Stati membri dell’UE e che à il
paese più importante dello spazio danubiano-balcanico vuoi per superficie
territoriale vuoi per popolazione. Un paese che non confina con l’Italia e che non
si affaccia sull’Adriatico, ma sul Mar Nero. La Romania, che si sente legata
all’Italia da vincoli di sangue e di cultura,33 e che deve alla colonizzazione
romana la propria lingua ed il nome,34 nonostante la collocazione geografica,
tende a guardare verso l’occidente latino piuttosto che verso il mondo slavo che la
circonda (Iorga, 1920) e che in più occasioni ha tentato di fagocitarla. La Romania
negli ultimi due secoli ha vissuto vicende abbastanza simili a quelle italiane
avendo ottenuto l’indipendenza nel secolo XIX e l’unità nazionale al termine della
prima guerra mondiale.
33 La seconda strofa dell’inno nazionale romeno afferma che nelle vene dei romeni scorre sangue degli antichi romani mentre quella successiva inneggia all’Imperatore Traiano. La colonizzazione romana ha dato alla Nazione romena anche il nome e la lingua (Eliade, 1992). Persino l’evangelizzazione e l’inserimento nella Cristianità occidentale, contrariamente a quanto comunemente si crede, precedono le invasioni barbariche, che causarono la scristianizzazione di vasti territori (Conte, 1991) e la successiva integrazione nella sfera ecclesiastica bizantina: lo provano le risultanze archeologiche ed il lessico religioso di base (Alzati, 2002). 34 Molti in Italia pensano che il nome Romania sia invece collegato con il popolo Rom e con il romani, la lingua parlata da questa etnia originaria dell’India e arrivata nei Balcani probabilmente nel XV secolo passando per la penisola anatolica..
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Questo paese, pur essendo legato al pari dell’Italia, da un patto di alleanza con gli
imperi centrali e retto da una monarchia affidata alla dinastia Hohenzollern, aveva
optato in un primo tempo per la neutralità nel conflitto in corso seguendo
l’esempio italiano. Le pressioni per l’entrata in guerra erano tuttavia forti. Da un
lato la Germania premeva per il rispetto degli impegni assunti mentre dall’altro
lato l’Intesa sollecitava l’intervento a suo fianco in guerra e offriva come
contropartita tutte le “terre irredente” incluse nell’Impero Austro-Ungarico. In
verità i romeni aspiravano all’unità nazionale attraverso il recupero di tutte le
province sottoposte al giogo straniero, ma non potevano esimersi dal fare una
scelta di campo in quanto le due grandi potenze che occupavano territori
rivendicati, vale a dire l’Austria-Ungheria e la Russia, erano inserite in due
schieramenti contrapposti. Prevalse, come nel caso dell’Italia, la scelta a favore
dell’Intesa e alla fine, a seguito di una serie di circostanze favorevoli, la vittoria
degli Alleati e il collasso dell’impero zarista, la Romania fu in grado di recuperare
insperatamente quasi tutti i territori rivendicati: quindi non solo Transilvania e
Bucovina in precedenza sottoposte al dominio asburgico, ma anche la Bessarabia
già assoggettata alla Russia.
Dopo un ventennio di pace, la Romania, a seguito del crollo della Francia
che assieme alla Gran Bretagna le aveva garantito i confini sanciti dai Trattati di
Saint-Germain (1919), del Trianon (1920) e di Parigi (1920), ricevette nel giugno
1940 un minaccioso ultimatum dall’Unione Sovietica con il quale le si intimava di
“restituire” la Bessarabia e di cedere la Bucovina settentrionale a titolo di
indennizzo per “occupazione abusiva” (sic!) della citata Bessarabia.35 Il governo
di Bucarest saggiamente accettò la modifica dei confini, ma a pochi mesi di
distanza la Germania impose alla Romania la cessione della Transilvania
settentrionale all’Ungheria (Secondo arbitrato di Vienna, 30 agosto 1940) e della
Dobrugia meridionale alla Bulgaria (Trattato di Craiova, 7 settembre 1940).
In politica estera tuttavia alla Romania era preclusa la via della neutralità,
che era stata adottata nell’Europa continentale da Spagna, Portogallo, Svezia e
35 L’occupazione sovietica della Bessarabia era prevista nei protocolli segreti del Patto Molotov-Ribbentrop, ma non quella della Bucovina, che la Germania considerava territorio mitteleuropeo. In realtà, durante la sua avanzata, l’Armata rossa non rispettò gli accordi sui tempi concessi per il ritiro dei militari romeni e inoltre non si limitò ad occupare la Bessarabia e la Bucovina settentrionale, ma conquistò anche il territorio di Herţa, con popolazione quasi totalmente romena e appartenente al Regno di Romania sin dal secolo XIX, la cui cessione non era stata menzionata né nei protocolli dell’accordo germano-sovietico né nell’ultimatum inviato dal governo di Mosca a quello di Bucarest.
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Svizzera, sia per la collocazione geografica (al centro dell’area danubiano-
balcanica e al confine con l’Unione Sovietica) sia per la significativa dotazione di
materie prime indispensabili all’economia di guerra tedesca.36 Con la speranza di
recuperare le regioni perdute ad est il dittatore Ion Antonescu, chiamato al potere
in un momento cruciale in cui, dopo la drammatica fine della Polonia, era in
pericolo la stessa sopravvivenza della Romania, scelse l’amicizia con la Germania
si fece coinvolgere nell’invasione dell’Unione Sovietica (Operazione Barbarossa
del giugno 1941).
L’esercito romeno non si limitò a liberare i territori occupati dal sovietici,
ma proseguì l’avanzata a fianco della Wehrmacht sino al Caucaso. La Romania,
con il consenso tedesco, si annesse poi la Transnistria, territorio racchiuso tra i
fiumi Nistro e Bug meridionale, dove era presente da secoli una consistente
minoranza romena, ma che non aveva mai fatto parte in passato del Principato di
Moldavia, uno degli stati storici in cui era divisa la Nazione romena, il quale,
fondendosi con il Principato di Valacchia, aveva dato vita alla Romania.37
L’inarrestabile avanzata dell’Armata rossa dopo Stalingrado portò la
Romania a ricalcare anche questa volta un ìter sperimentato in Italia: la
destituzione del conducator da parte del Re Michele e la capitolazione. L’esercito
romeno fu quindi massicciamente impiegato dai sovietici nelle operazioni militari
in Ungheria, Cecoslovacchia e Austria e questo importante e costoso (in termine
di morti e feriti) contributo valse la restituzione alla Romania dei territori sottratti
dall’Ungheria su imposizione della Germania nazista.
L’Unione Sovietica, al termine del conflitto, non restituì le regioni occupate
nel 1940, si impadronì di altri territori romeni, impose alla Romania una regime
comunista e inserì il paese fra i propri satelliti.38 Le autorità di Mosca decisero di
36 Si poteva infatti scegliere se essere amici o nemici della Germania ed in questo secondo caso si prospettava una sorte simile a quella che sarebbe toccata alla Iugoslavia. 37 I partiti democratici romeni, che pur avevano confortato con il loro assenso la decisione del conducator Antonescu di entrare in guerra contro l’URSS al fine di liberare i territori occupati dai sovietici, si opposero decisamente al proseguimento dell’avanzata dell’esercito romeno oltre il Nistro e all’annessione della Transnistria da parte della Romania. 38 L’occupazione della Romania da parte dell’Armata rossa è durata 14 anni con una presenza di effettivi che raggiunse un milione. Per alcuni anni il potere delle autorità sovietiche sulle risorse e sugli abitanti della Romania fu assoluto ed utilizzato a esclusivo vantaggio delle forze di occupazione e dell’economia dell’URSS (Baciu, 1990). Inoltre, anche successivamente alla firma del Trattato di Pace del 1947 l’Unione Sovietica procedette unilateralmente a modificarne in più punti a proprio vantaggio le clausole e, in particolare, ridisegnò il confine tra i due paesi impadronendosi, per uso militare, anche dell’unica isola in mare aperto della Romania, l’Insula Şerpilor, mai restituita e assegnata poi, in spregio ai patti, all’Ucraina al momento dell’acquisizione dell’indipendenza nel 1991.
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assegnare la Bucovina settentrionale, Herţa, la fascia costiera della Bessarabia e la
parte orientale della preesistente Repubblica Autonoma Sovietica Moldava (che
era stata creata nel 1924) e la sua capitale Balta alla Repubblica Socialista
Sovietica dell’Ucraina e con la rimanente porzione della Bessarabia, aggiunta alla
parte occidentale della citata Repubblica Autonoma Moldava diedero vita alla
Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia (Dima, 1991). La Repubblica
moldava, nata senza uno sbocco al mare,39 ottenne successivamente
l’indipendenza nel 1991, al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica,
ma contestualmente al suo interno, per iniziativa della minoranza russa e con
l’appoggio militare russo, la Transnistria, regione moldava situata ad est del
Nistro proclamò a sua volta la propria indipendenza con il nome russo di
Pridnestroskaia Moldavskaia Respublika.40
A seguito di questa serie di eventi in Moldavia, o per meglio dire nella parte
della Repubblica moldava risparmiata dall’iniziativa secessionista promossa dai
pieds noirs russi, la popolazione, pur appartenendo in larga maggioranza all’etnia
romena, appare oggi confusa nei propri sentimenti e divisa fra due orientamenti
fra loro inconciliabili (Ciobanu, 2005). L’orientamento che al momento sembra
avere maggior seguito si ricollega alla storia recente ed all’esperienza sovietica
della Repubblica moldava e corrisponde allo schieramento politico di sinistra che
è fermamente contrario alla riunificazione con la Romania, tiepido nei rapporti
con l’Unione Europea e che, coerentemente, rifiuta la concessione
dell’indipendenza alla repubblica secessionista di Transnistria. Il secondo
orientamento assegna invece priorità all’obiettivo rappresentato dalla
riunificazione nazionale con la Romania, che offrirebbe un immediato inserimento
nell’Unione Europea, e fa riferimento ad uno schieramento politico moderato che,
con non minore coerenza, è propenso, pur di ottenere l’assenso di Mosca alle
39 La Moldavia è stata privata di uno sbocco sul Mar Nero per consentire all’Ucraina di arrivare, a mezzo del possesso di una striscia costiera senza soluzione di continuità, sino al Delta del Danubio. Questa arbitraria modificazione dei confini tradizionali decretata da Mosca per favorire l’Ucraina toglieva alla Bessarabia la sua storica città portuale di Cetatea Alba, l’antica Leucopoli. Inoltre la stessa creazione della Repubblica moldava all’interno dell’Unione Sovietica aveva lo scopo di fornire i presupposti per future rivendicazioni territoriali a danno della Romania per il fatto che la maggior parte dell’originario Principato di Moldavia è inclusa in questo stato (Dima, 1991). 40 L’indipendenza di questa repubblica, governata con metodi polizieschi da una cupola di veterocomunisti , non è stata riconosciuta a livello internazionale neppure dalla Russia che pure la presidia e ne garantisce la sopravvivenza con un proprio contingente militare. Grazie all’aiuto militare russo la repubblica ribelle ha conquistato Tighina, città natale dell’ex presidente romeno Emil Constantinescu, che si affaccia sulla riva destra del Nistro.
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proprie aspirazioni unitarie, a negoziare la rinuncia definitiva alle terre situate
oltre il confine storico romeno del Nistro.41
11. I vaneggiamenti di certi nazionalismi
Le ragioni addotte alla base delle rivendicazioni territoriali dai vari
nazionalismi appaiono eterogenee dal momento che ognuno sceglie e propaganda
gli argomenti, non sempre validi e non sempre coerenti fra loro, di volta in volta
reputati più opportuni appigliandosi alla geografia fisica, alla geopolitica, alla
storia, all’economia, alla religione, alla distribuzione sul territorio dei gruppi
etnici, alla genetica, alla toponomastica attuale o passata, all’idioma più
diffusamente parlato e infine alle radici vicine o lontane, documentate o presunte
di tali idiomi. Non infrequentemente poi si ricorre disinvoltamente ad
argomentazioni pretestuose e ad interpretazioni arbitrarie di eventi storici e di dati
demografici,42 ad anacronismi nell’uso dei toponimi, oppure ad apporti che sono
frutto di fantasia o infine a veri e propri falsi come quando si sostiene che i popoli
che abitavano nell’antichità l’area danubiano-balcanica come i daci, gli illiri, i
macedoni ed i traci appartenessero tutti alla grande famiglia slava o fossero
comunque molto affini agli slavi. A personaggi storici di spicco come Alessandro
Magno, Diocleziano, Giustiniano e Marco Polo sono state attribuite da alcuni
autori imbevuti di nazionalismo origini slave. La battaglia navale di Lissa del
1866 è presentata come una schiacciante vittoria della flotta croata (de facto) su
quella italiana.
Il mondo accademico è stato coinvolto in questi scontri fra nazionalismi e
storici, geografi, etnologi, filologi e genetisti si sono sentiti spesso in dovere di
mobilitarsi al servizio della politica per offrire supporto e legittim