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L’ ARTE E LA SOCIETA’ MEDIEVALE
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L’OCCIDENTE NELL’ANNO MILLE
L’Occidente nell’anno Mille è un mondo rozzo che a paragone di Bisanzio o di
Cordova appare nudo e poverissimo, un mondo primitivo assediato dalla fame.
I contadini seminando un chicco di grano non possono sperare di raccoglierne
più di tre, se l’annata non va troppo male, quanto serve a mangiar pane fino a
Pasqua e se la stagione è avversa il grano viene a mancare ancora prima, e i
vescovi devono sospendere i divieti, consentendo di mangiar carne in
quaresima. A volte i temporali infradiciano le messi e alla consueta penuria
subentrano le grandi carestie mortali. Riuscire a saziarsi tutto l’anno pareva
allora un privilegio immenso, riservato a pochi nobili, preti e monaci.
Tuttavia già da un certo tempo un’evoluzione lentissima traeva a poco a poco
quest’umanità miserabile dalla sua totale indigenza. Per le tribù dell’Europa
occidentale l’XI secolo fu l’epoca di una lenta emersione dalla barbarie:
liberatesi dalle carestie, esse entrarono una dopo l’altra nella storia. Appunto
allora, infatti, quella parte del mondo cessò per sempre di soccombere alle
invasioni. Per secoli, ondate di popoli in movimento s’erano rovesciate quasi
ininterrottamente sull’Occidente. Le conquiste carolingie erano riuscite a
ristabilire temporaneamente nell’Europa continentale una parvenza di disciplina
e di pace, ma, subito dopo la morte di Carlo Magno, orde invincibili avevano
ripreso ad abbattersi da ogni parte . I più remoti albori di quella che chiamiamo
arte romanica cominciano ad evidenziarsi nel medesimo momento in cui
cessano tali incursioni.
Nel buio del X secolo dalle grandi tenute monastiche aveva cominciato a
diffondersi un lieve progresso delle tecniche agricole. Vomeri di ferro capaci di
rivoltare la terra, rendendola più fertile, e pertanto di estendere e campi
permanenti al posto degli sterpeti, stimolando ovunque la fecondità agricola. La
carestia del 1033, fu infatti una delle ultime. Dithmar1, vescovo di Merseburgo,
scrive nelle sue cronache: «Giunto il millesimo anno che la Vergine immacolata
aveva partorito Cristo Salvatore, si vide brillare sul mondo un mattino radioso».
Quell’alba in realtà spuntava per ben pochi uomini. Tutti gli altri rimasero a
lungo immersi nella miseria; i contadini erano privi di tutto, indubbiamente meno
1 Dithmar (975-1018), cronista tedesco. La sua cronaca in otto libri va dal 908 al 1018.
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affamati ma senza alcuna speranza di elevarsi al di sopra del proprio stato. A
quel tempo i contadini erano schiacciati dalla signoria, vera struttura portante
della società; e grazie ai poteri di protezione e di sfruttamento riconosciuti ai
capi, la società si organizzava come un edificio a più piani, diviso in
compartimenti stagni e dominato al vertice da un gruppo ristretto di personaggi
potentissimi, da poche famiglie di alleati o di parenti del re: essi solo
beneficiano della ricchezza faticosamente prodotta dal progresso agricolo, e
soltanto l’assetto estremamente gerarchizzato dei rapporti sociali, i poteri dei
signori e la potenza dell’aristocrazia spiegano come il lentissimo sviluppo di
strutture materiali così primitive abbia potuto dar vita, con tanta rapidità, ai
molteplici fenomeni d’espansione dell’ultimo quarto di dell’XI secolo: il risveglio
del commercio di lusso, le imprese di conquista lanciate in ogni parte del mondo
dai guerrieri dell’Occidente, e infine la rinascita della grande cultura e dell’arte.
Ciò che colpisce in queste opere d’arte è insieme la loro diversità, l’esuberante
inventiva di cui sono prova, e la loro profonda e sostanziale unità. La varietà
non ha nulla di sorprendente: la cristianità latina copriva un’area immensa che
occorrevano mesi a percorrere, divisa com’era dai mille ostacoli di una natura
accidentata e ribelle e dai larghi vuoti presenti nel tessuto del popolamento
urbano. Pressoché impenetrabile, ciascuna provincia coltivava i propri
particolarismi.
In nessun altro luogo tali differenze erano altrettanto accentuate quanto ai
confini del mondo latino: a nord, a ovest e a est, le regioni cristiane erano
circondate da un ampio arco di profonda barbarie in cui sopravviveva il
paganesimo.
Missionari partivano dai ridotti sassoni dell’Inghilterra, dalle rive dell’Elba, dalle
foreste della Turingia e della Boemia e dell’Austria meridionale per andare a
distruggere gli ultimi idoli e a erigere croci; ma i prìncipi di quelle regioni erano
sempre più inclini al battesimo dei propri sudditi, accogliendo insieme al
Vangelo i primi elementi della civiltà. A queste frange estremamente rozze si
contrapponevano vigorosamente le marche meridionali d’Italia e della penisola
iberica, ove si attuavano i contatti con il mondo assai meno selvaggio dell’Islam
e della cristianità bizantina.
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L’immenso territorio continentale riunito da Carlo Magno sotto il proprio dominio
era estremamente differenziato anche dall’interno. I contrasti più profondi
procedevano dalla più o meno recente e chiara impronta romana, del tutto
assente nella Germania del Nord e ancora evidentissima intorno a Poitiers e al
di là delle Alpi, nelle regioni in cui le città erano fatiscenti e il linguaggio era
ancora profondamente segnato dall’accento latino. Altri contrasti discendevano
dalle sparse memorie delle diverse tribù stabilitesi in Occidente durante l’alto
Medioevo, ed evocate dai nomi delle regioni: Lombardia, Borgogna,
Guascogna, Sassonia. Il ricordo degli antiche conquistatori alimentava
nell’aristocrazia delle diverse province coscienza nazionale e xenofobia.
Più sorprendente è l’unità profonda che, a tutti i livelli di cultura, e specialmente
a quello della creazione artistica, segna una civiltà peraltro così estesa in uno
spazio tanto ostile. I motivi di questa stretta parentela sono in parte evidenti, e
soprattutto l’estrema mobilità degli uomini: a quel tempo la popolazione
dell’Occidente era ancora in gran parte nomade per natura, specialmente tutti i
suoi capi. Re, prìncipi, signori, vescovi e il numeroso seguito che sempre li
scortava, viaggiavano in continuazione, passando nel corso dell’anno dall’uno
all’altro dei loro possedimenti.
Il peggior supplizio, per un monaco, era forse quello di rinchiudersi per sempre
in un convento; pochi lo sopportavano, e pertanto bisognava farli vagabondare
anch’essi, cambiar casa, peregrinando da un’abbazia all’altra. Nel piccolo
gruppo di privilegiati da cui dipendeva la creazione dell’opera d’arte, questi
andirivieni favorivano i contatti e gli incontri.
Si può parlare di confini fra la cristianità latina e il resto dell’universo? In Spagna
nessuna barriera separò mai le regioni islamizzate dalla zona soggetta ai re
cristiani, che del resto, considerato il mutevole successo delle spedizioni
militari, variava considerevolmente d’estensione. Molti piccoli prìncipi
musulmani erano vincolati ai sovrani d’Aragona o di Castiglia da patti che gli
garantivano protezione e li obbligavano a pagare dei tributi, mentre sotto il
dominio dei califfi vivevano e prosperavano floridissime comunità cristiane da
Toledo a Cartagine fino ad Alessandria lungo le rive islamizzate del
Mediterraneo.
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Le somiglianze più intime, tuttavia, quelle cioè che stabilivano le coerenze più
profonde fra le diverse creazioni artistiche, dipendevano soprattutto dall’unica
destinazione dell’arte. Ciò che noi chiamiamo arte, aveva a quell’epoca
l’esclusiva funzione di offrire a Dio le ricchezze del mondo visibile, di permettere
all’uomo di placare con tali doni la collera dell’Onnipotente e di conciliarsene la
benevolenza.
A quel tempo la grande arte era tutta sacrificio, e aveva molto più a che vedere
con la magia che con l’estetica. Arriviamo così alle più intime caratteristiche che
fra il 980 e il 1130 definiscono in Occidente l’atto artistico. Durante questi
centocinquant’anni, lo slancio vitale che trascina la cristianità latina verso il
progresso le fornisce già i mezzi materiali per elaborare opere meno rozze e
molto più vaste, senza tuttavia che lo sviluppo ancora abbastanza avanzatola
infrangere il quadro degli atteggiamenti mentali e dei comportamenti primitivi. I
cristiani dell’XI secolo continuavano a sentirsi totalmente sopraffatti dal mistero.
Il pensiero di coloro che si collocavano ai più alti vertici della cultura brancolava
nell’irrazionale, ed era preda di ogni sorta di fantasmi. Ecco perché a questo
punto della storia, nel breve intervallo in cui l’uomo ancora prigioniero
dell’angoscia può tuttavia disporre di strumenti di creazione efficacissimi, nasce
la più grande e forse la sola arte sacra d’Europa.
In quel momento tuttavia l’Europa entrava nel feudalesimo, e il potere
monarchico tendeva a frantumarsi e a disperdersi in molte mani. In questo
mondo nuovo la direzione dell’opera d’arte a poco a poco sfuggì ai sovrani,
passando ai monaci, le cui tendenze culturali ne facevano i mediatori essenziali
fra l’uomo e il sacro. Da questo passaggio derivano la maggior parte delle
caratteristiche assunte allora dall’arte dell’Occidente.
L’ETA’ IMPERIALE
Nell’XI secolo la società umana si concepisce come l’immagine, il riflesso della
città di Dio, che è una monarchia.
Modello di tutte le perfezioni terrene, il personaggio del re sta al vertice di tutte
le costruzioni mentali con cui allora si cercava di esprimere l’ordinamento
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dell’universo visibile. Artù, Carlo Magno, Alessandro, Davide, tutti insomma gli
eroi dell’avventura cavalleresca, erano dei re, e tutti gli uomini, preti, contadini,
o soldati che fossero, si sforzavano a quel tempo di assomigliare al re. La
permanenza del mito monarchico è da considerarsi una delle più salienti
caratteristiche della civiltà medievale; e la nascita dell’opera d’arte, in
particolare, di quelle opere somme, meravigliose, che sono il modello di tutte le
altre, dipendeva strettamente dalla monarchia, dalle sue funzioni e dalle sue
risorse. Per capire esattamente le relazioni esistenti fra le strutture sociali e la
creazione artistica, occorre dunque analizzare esattamente su che cosa si
fondava e come si esercitava allora il potere monarchico.
La monarchia proveniva dal passato germanico. I Re avevano come principale
funzione quella di fare la guerra e guidavano l’avanzata dei propri armati
ponendosi alla loro testa. Per tutto il Medioevo la spada sguainata fu il
principale emblema della sovranità. Ma i re barbarici possedevano un altro
privilegio, più misterioso e più necessario al bene collettivo, ovvero il magico
potere di interporsi fra il proprio popolo e gli dei: dalla loro intercessione
dipendeva il benessere generale. Tale potere gli veniva dalla divinità stessa,
per filiazione; nelle loro vene scorreva sangue divino.
Una svolta decisiva, nella storia delle monarchie europee, si colloca a metà
dell’VIII secolo; da quel momento in poi il re dei Franchi, il più potente sovrano
d’Occidente, fu consacrato. Egli, cioè, non dovette più i carismi alla mitica
parentela con le potenze del pantheon pagano, ma li ottenne direttamente dal
Dio della Bibbia grazie ad un atto sacramentale. I preti lo ungevano con l’olio
santo, che gli impregnava il corpo colmandolo della forza del Signore e di tutti i
poteri dell’aldilà; e questo cerimoniale non solo autorizzava i passaggi dinastici,
ma introduceva il sovrano nella Chiesa, collocandolo fra i vescovi consacrati
come lui. Egli era rex et sacerdos e riceveva l’anello e il bastone, simboli della
missione pastorale; e in tal modo la Chiesa installava la sua persona fra le
gerarchie soprannaturali, precisando le sue funzioni che non erano più soltanto
di lotta, ma anche di pace e di giustizia. Infine poiché nell’Occidente dell’VIII
secolo le tradizioni artistiche sopravvivevano soltanto nella Chiesa cristiana,
poiché tutto lo sforzo di costruzione e decorazione tendeva ormai a celebrare il
potere divino, si collocava naturalmente all’origine delle più grandi imprese
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artistiche. La consacrazione fece dell’arte una questione essenzialmente
regale.
Dopo l’anno 800, la restaurazione dell’Impero accrebbe nell’Europa occidentale
le dimensioni della monarchia. La nuova missione dell’imperatore d’Occidente
fu d’essere la sola guida verso la salvezza eterna di tutta la cristianità latina. Gli
imperatori però erano ben consci di essere anche i successori di Cesare, e i
gesti di consacrazione con cui davano vita all’opera d’arte ricordavano loro i
propri predecessori. Essi vollero quindi che gli oggetti offerti a Dio per loro
ordine fossero improntati a un’estetica particolare, quella dell’Impero, quella
cioè di Roma. Gli artisti che eseguivano i loro ordini si ispirarono per tanto
sempre più deliberatamente all’Antichità.
Nell’anno Mille i più attivi centri creativi si situano intorno all’imperatore, unica
guida di tutti i credenti. L’impero continua ad essere il mito cui la cristianità
romana, polverizzata dal feudalesimo, si aggrappa ostinatamente, ritrovandovi
la fondamentale unità sognata e ritenuta conforme al piano divino.
L’imperatore guida il popolo di Dio verso l’estremo trionfo, quello del bene sul
male e della resurrezione sulla morte. La potenza degli imperatori ottoniani si
volle totale, al pari di quella divina; e quando essi commissionavano ai pittori di
corte dei libri di liturgia; si compiacevano di vederci dipinte delle atre figure di
donne inginocchiate, simboleggianti le nazioni dell’Occidente, riunite ai piedi del
trono imperiale a guisa di docile scorta. Un simbolo tipicamente imperiale,
perché significa vittoria, e perché in esso l’imperatore s’identifica a Gesù
Salvatore.
In realtà, per l’imperatore era difficile restare a Roma dove la sua autorità era
limitata dalla presenza delle grandi famiglie nobili locali annidate nelle antiche
rovine. Indubbiamente l’imperatore era re d’Italia, ma in realtà regnava
veramente solo sulle Germanie e sulla Lotaringia, da cui veniva la stirpe di
Carlo Magno.
Restaurata ma imperfetta, la potenza imperiale cercava di riallacciarsi al tronco
carolingio, si voleva romana, universale, ma in realtà diventava sempre più
decisamente germanica. Nell’XI secolo, questa caratteristica del nuovo Impero
fa sì che i più vitali ceppi della creazione artistica in Sassonia, facendo delle
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province germaniche la terra d’elezione dell’arte monarchica di tradizione
franca.
L’impero non aveva abolito la monarchia, ad esso anteriore e altrettanto sacra.
Anche i re, come i vescovi, erano eletti per intervento dello Spirito Santo, e
acclamati in una cattedrale dalla folla riunita dei chierici e dei guerrieri.
Alcuni re d’Occidente contestavano peraltro ai sovrani romani e germanici il
titolo imperiale, soprattutto nelle regioni mai assoggettate a Carlo Magno.
All’interno dell’area carolingia, infine, c’era ancora un re, ma uno solo, cui i suoi
biografi si compiacevano di attribuire la dignità augustea: per essi l’imperator
francorum non era il re di Germania, bensì quello della Francia occidentale.
Nell’anno Mille tutti lo consideravno il rivale dell’imperatore teutonico.
L’imperatore di Germania infatti lo trattava come un suo eguale, e allorché nel
1023 l’imperatore Enrico II e Roberto re di Francia s’incontrarono sulla Mosa ai
confini dei loro Stati, per discutere dello «stato dell’Impero», si fecero
reciprocamente un’accoglienza fraterna.
A quel tempo quasi tutti gli uomini di pensiero vedevano l’occidente diviso in
due grandi regni, di cui l’uno era dominato da Cesare, mentre nell’altro regnava
il vero discendente di Clodoveo. Così erano suddivise nell’Occidente dell’anno
Mille le sfere d’influenza europee. Tale ripartizione mette in netto rilievo due
Europe: l’una quella del Sud, senza re, giacchè se appena varcata la Loira e
fino alla Catalogna il re di Francia non aveva alcun potere, a Lione e in
Provenza nemmeno l’imperatore aveva diritti che non fossero puramente
nominali, e in tutta l’Italia la sua autorità tendeva a diventare un mito; nelle
province del Mezzogiorno v’era quindi ampio spazio per uno sviluppo artistico
affrancato dall’influenza monarchica.
L’Europa delle monarchie era invece tutta settentrionale, eccettuati alcuni ridotti
montani intorno a Leon e presso Jaca, ove erano i sovrani cristiani di Spagna.
IL RE E LA CULTURA
L’uomo dell’XI secolo vede il suo re come un cavaliere, che con la spada in
pugno assicura al popolo pace e giustizia; ma lo vede anche come un sapiente,
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e vuole pertanto che sappia leggere. Non appena l’Occidente cominciò a
considerare la monarchia come la renovatio, la rinascita, del potere imperiale i
sovrani non poterono più restare analfabeti com’erano un tempo i barbari loro
avi; e affinché si sforzassero di assomigliarle, si risuscitò l’immagine ideale che
Roma si era fatta del buon imperatore, fonte di sapere e sorgente di saggezza.
Era la consacrazione, tuttavia, che aveva sigillato la definitiva alleanza fra la
dignità monarchica e la cultura scritta. Il sovrano si era integrato alla Chiesa, e
se i preti cristiani dovevano necessariamente maneggiare i libri, visto che nei
libri era scritta la parola del loro Dio, altrettanto necessario era che il re
consacrato conoscesse le lettere, e facesse educare come un vescovo il figlio
chiamato a succedergli nella sua magistratura.
Al sovrano, responsabile della salvezza del suo popolo, toccava inoltre vigilare
a che il corpo ecclesiastico di cui era divenuto membro, fosse di buona qualità,
e quindi istruito.
Carlo Magno, meglio di ogni altro cercò di assolvere gli obblighi inerenti alla
propria consacrazione, ordinando che presso ogni vescovato e ogni abbazia
venisse creato un centro di studi. Tutti i sovrani dell’anno Mille lo imitarono,
preoccupandosi che i monasteri e le cattedrali fossero largamente provvisti di
libri e maestri, e cercando di creare nei propri palazzi i migliori centri scolastici.
La scuola, di conseguenza, era strettamente legata alla monarchia per due
ragioni: perché il monarca si considerava il successore di Cesare, e soprattutto
perché Dio, nelle scritture tradotte da San Gerolamo, parlava la lingua di
Augusto. Era una cultura classica, che manteneva vivo il ricordo di Roma.
Delle sette «arti liberali», ossa delle sette vie della conoscenza, secondo cui i
pedagoghi della tarda antichità avevano ordinato i livelli dell’istruzione
scolastica, i magistri dell’XI secolo coltivavano veramente solo la prima, la più
elementare, che era una iniziazione del linguaggio della Vulgata.
Gli scolari dovevano soprattutto imparare la grammatica di Prisciano e
successivamente, per meglio intendere il significato del Genesi e dei Profeti,
era necessario leggessero dei modelli di buona lingua come Virgilio, Stazio,
Giovenale, Orazio, Luciano o Terenzio.
I metodi dell’insegnamento ecclesiastico, gli orientamenti della cultura
scolastica, e la sua netta tendenza a esaltare le lettere latine, legarono ancora
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più strettamente l’istituzione monarchica alle risuscitate forme dell’antichità
romana. Sempre più decisamente la scuola orientò verso il classicismo tutte le
forme di creazione artistica emanati a quel tempo dalla persona del sovrano.
L’ARTE IMPERIALE
La tradizione dell’arte antica si tramandò soprattutto grazie all’arte del libro.
Oltre che strumento di conoscenza, il libro era considerato un valido accessorio
liturgico, in quanto contribuiva al servizio del divino; e pertanto doveva essere
ornato al pari dell’altare, dei calici sacri e delle pareti del santuario. In
quest’oggetto d’arte si realizzava una fusione, fra immagine e cultura scritta,
molto più profonda che in qualsiasi altro luogo: moltissimi sacrametari, lezionari
e Bibbie, costituivano ancora nell’XI secolo il fondo di tutte biblioteche
monastiche ed episcopali. Le figure dei libri carolingi suscitavano il medesimo
rispetto degli auctores, in quanto considerate portatrici del messaggio della
Roma augustea e perché al pari dell’insegnamento del grammatico,
risuscitavano la latinità pura, intatta, immuni da corruzioni barbariche. Per
realizzare le decorazioni consone alla dignità regale, gli artisti che dipingevano
le pergamene degli evangeliari, imitavano i miniatori del IX secolo, ma in realtà
inventavano e a poco a poco le forme da essi tracciate si allontanavano dai
prototipi carolingi.
Più audace fu la rinascita del rilievo. Gli artisti carolingi si erano ispirati alla
plastica romana, ma in modo quasi furtivo, giacché nel IX secolo il paganesimo
era ancora un’incombente minaccia: esponendo alla vista del popolo le statue
del Signore, e soprattutto quelle dei santi, non si correva forse il rischio di
ridestare il potere degli idoli? Le figure scolpite nell’avorio, o cesellate dagli
orafi, rimanevano pertanto confinate presso l’altare, ed erano avvicinate
soltanto dagli iniziati, dai celebranti, uomini di sicura fede e di profonda cultura.
Nell’anno Mille tutto cambia: la croce trionfa, i dirigenti ecclesiastici hanno meno
paura degli antichi dèi, e si arricchiscono pertanto a collocare le
rappresentazioni divine sulle porte di santuari, nella persuasiva potenza
conferita dal volume.
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L’iniziativa partì senza dubbio dalla Sassonia, dal cuore della rinascenza
imperiale. Bernward2, vescovo di Hildesheim, seguendo l’esempio di Carlo
Magno e degli altri dignitari della Chiesa carolingia, nel 1015 fece fondere
pezzo per pezzo due porte di piombo per la sua chiesa. Fino ad allora i portali
di bronzo erano sempre stati nudi, mentre quelli di Hildesheim sono coperti di
sculture: sedici scene, giustapposte su due colonne parallele, spiegano al
popolo i vincoli mistici che uniscono il cielo alla terra: a sinistra, dall’alto verso il
basso, le figure dell’Antico Testamento conducono chi guarda dalla creazione
del mondo fino all’uccisione di Abele, rappresentando il peccato; mentre a
destra, dal basso in alto, le immagini del Vangelo, dall’annunciazione fino alla
resurrezione di Cristo, accompagnano lo slancio salvatore che trascina
l’umanità redenta verso la gloria eterna. Questo monumento riportò la grande
scultura fin nei margini più selvaggi dell’Impero, e tale rinascita ispirò
probabilmente la grande scultura cluniacense, e certamente gettò le basi della
nuova statuaria monumentale di cui Chartres divenne il centro, dopo Saint-
Denis, verso la metà del XII secolo.
L’ARTE DEL TESORO REALE
I magistri delle scuole protette dai monarchi non si adoperavano soltanto per
salvare dei testi, ma anche tutto ciò che restava di Roma. I suoi monumenti
crollavano, ma si raccoglievano gelosamente cammei, avori e frammenti di
statue. Le tendenze anticheggianti dell’estetica monarchica si affermarono così
vigorosamente perché le sue scuole subivano l’influenza di una collezione, e
sorgevano accanto ad un tesoro.
Il re è generoso, la sua magnificenza dispensa gioielli e tessuti preziosi a tutti i
santuari di cui è il protettore, ed egli stesso deve campeggiare in piena luce
coperto di ornamenti splendidi.
Quegli oggetti preziosi sono la sua forza, l’immagine evidente della sua
potenza, e abbagliano i suoi rivali. Non v’è re senza tesoro, e, quando lo
splendore di quest’ultimo si offusca la potenza monarchica si disgrega. Quelle 2 Bernward (960-1022). Di nobile famiglia sassone, curò l’educazione di Ottone III. Fondatore di numerosi monasteri, promosse tutte le arti.
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collezioni erano costituite da eredità lentamente accumulate e quasi stratificate:
molti dei loro pezzi più belli si tramandavano nella dinastia di generazione in
generazione; alcuni erano doni dei monarchi orientali, quasi tutti recavano
l’impronta di Roma – dell’antica Roma saccheggiata dai re barbarici per
arricchire il proprio fasto, e della Roma nuova: Bisanzio, dove ancora viveva lo
stile antico.
Al primitivo fondo del tesoro, inoltre, lo scambio dei doni aggiungeva sempre
nuovi oggetti. Uno dei più importanti incarichi degli artisti di corte consisteva
nella conservazione del tesoro reale, nel restaurare gli antichi ornamenti onde
trovargli una più utile collocazione fra gli accessori della liturgia sacra o profana,
nell’incastonare cammei nella rilegatura di un evangelario o nel trasformare una
coppa in un calice, e infine nel modificare gli oggetti acquisiti più di recente per
inserirli armoniosamente fra gli altri elementi del tesoro. E poiché in quel
mucchio di oggetti preziosi dominavano le testimonianze del classicismo, gli
artisti di palazzo, nella loro opera di restauro e di adattamento, cercarono di
eguagliare la perfezione tecnica dei pezzi antichi, sforzandosi soprattutto di
assimilarne i principi stilistici.
L’ARCHITETTURA IMPERIALE
Infine, come l’arte del tesoro, e per le stesse ragioni, nell’Europa dei re
l’architettura sacra si collocava deliberatamente nel filone dell’arte imperiale. La
chiesa era infatti l’edificio regale per eccellenza, sia perché Dio si mostrava agli
uomini come sovrano del mondo, sia perché di regola tutti i santuari erano posti
sotto la protezione del re, e venivano costruiti con l’aiuto delle offerte dei
sovrani. Questi ultimi, d’altronde, si ergevano a continuatori dell’impresa
carolingia, ossia di quella di Roma: si costruivano perciò alla romana edifici di
due tipi diversi. Carlo Magno aveva voluto che il suo oratorio assomigliasse alle
cappelle imperiali, di cui aveva visto un esempio a Ravenna: una chiesa a
pianta centrale. Questa struttura architettonica intende esprimere la specifica
missione del re, quella cioè d’intercessione del suo popolo presso il Signore,
stabilendo una relazione fra il quadrato, segno della terra, e il cerchio, segno
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del cielo; e in base alla simbologia dei numeri l’ottagono, attraverso il quale si
opera in questo passaggio, diventa anch’esso un’espressione dell’eternità. La
pianta centrale a due piani sovrapposti si addiceva, ovviamente, agli edifici ove
il sovrano, posto al di sopra della sua famiglia e dei suoi servi prosternati,
rivolgeva a Dio le preghiere d’intercessione, inoltre a pianta centrale, come la
cappella dell’imperatore, era anche il santuario del Santo Sepolcro di
Gerusalemme, donde il successo di questa forma architettonica.
Ma subito dopo il trionfo della Chiesa, quasi tutti i santuari di Roma, erano stati
delle basiliche, ossia delle sale regali; un ampio spazio rettangolare adibito ai
dibattiti giudiziari, in cui le file di arcate simili a portici esterni sostenevano il
leggero tetto di travi e delimitavano tre navate parallele; un’abside con lo
scranno del magistrato che pronunciava il verdetto, un’intensa illuminazione
proveniente dalle alte finestre della navata centrale: simile a un foro, la casa del
popolo di Dio. Gli sviluppi della liturgia, all’epoca carolingia, avevano portato
delle modifiche all’ingresso di questi edifici: l’atrio era stato coperto e
trasformato in un edificio iniziale, una specie di «antichiesa» a due piani, con un
portico coperto al piano terra e la sala di preghiera al piano rialzato.
DECADIMENTO DELLA MONARCHIA
Nell’XI secolo, le imitazioni eseguite dagli artigiani agli ordini dei re erano
indubbiamente meno ossequenti di quelle dei loro predecessori del tempo di
Carlo Magno e della prima rinascita della cultura imperiale: due secoli li
separavano ormai dall’Antichità, che spesso essi conoscevano soltanto grazie
alle copie carolingie, e il cui ricordo svaniva lasciando più spazio all’inventiva
dell’artista. Ciò che conta, tuttavia, è che la grande cultura del tempo era
dominata da atteggiamenti scolastici di reverenza e di rispettosa soggezione:
qualunque iniziativa o tendenza modernista era frenata da un acuto senso della
barbarie presente, e dalla convinzione che il passato fosse la culla di tutte le
perfezioni. Come i futuri prelati, e come gli stessi re, che passavano la notte a
imparare a leggere, orefici, pittori, fonditori di corte e costruttori di chiese si
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consideravano tutti degli scolari: il loro sogno era di avvicinarsi il più possibile ai
modelli classici, e tutti seguivano scrupolosamente le vie della tradizione.
Dopo l’anno mille, tuttavia, lo splendore di quei centri di cultura classica si
offuscò, e nello stesso tempo il potere dei re cominciò a vacillare. Già nel 980 la
presenza dei sovrani si faceva sentire in una parte molto limitata dei rispettivi
regni; ma nei decenni successivi la loro autorità decadde progressivamente,
travolta da una tendenza generale che fu più viva e precoce in Francia.
Intorno al tronco regale prolificava il feudalesimo, che sviluppandosi lo
soffocava lentamente, pur considerandolo il proprio necessario sostegno. Ormai
la corona era soltanto un segno, una delle tante figure di un discorso simbolico:
gli autentici poteri, i regalia, gli attributi della sovranità - fra cui il patrocinio delle
chiese, il compito di onorarle e insomma la direzione dell’opera d’arte – erano
ormai dispersi in molte mani diverse. A partire dalla metà dell’XI secolo il più
grande costruttore di chiese, nella Francia del Nord, non è più il re, ma il duca di
Normandia suo vassallo.
Il potere del re di Germania decadde meno rapidamente, e infatti prima del
1130 non si può ancora dire che la Germania sia feudalizzata. Ma l’imperatore
vedeva lentamente disgregarsi i pochi diritti rimastigli in Italia; e soprattutto,
contrapposte alla sua maestà, si ergevano le rivendicazioni di un’altra potenza
in piena ascesa, quella del vescovo di Roma.
Così fra il 980 e il 1130, due vigorose tendenze si unirono ovunque per togliere
ai re i loro veri mezzi d’azione: l’una sorta nei paesi occidentali e tendente a
disintegrare l’autorità monarchica, l’altra più uniformemente diffusa in tutta la
cristianità latina e diretta trasferire l’auctoritas agli alti prelati, stretti intorno al
soglio pontificio per favorire la riforma della Chiesa.
La decadenza della monarchia, e il superamento dei modelli di cultura
artificiosamente risuscitati in passato per volontà degli imperatori, rimuovono gli
ostacoli che si frapponevano alla nascita delle nuove forme artistiche cui nell’XI
secolo dà vita il vecchio ceppo latino; e la stessa vigorosa linfa che porta il
feudalesimo al trionfo le libera e le spinge a dar frutti. Alle tradizioni classiche
della scuola monarchica si contrappone tutto ciò che di Roma ancora non giace
mummificato nelle biblioteche e nei tesori, ma continua a informare una cultura
vissuta quotidianamente, così come all’arte regale si contrappone la vera e
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propria arte romanica, che fiorisce dopo l’anno Mille nella nuova primavera del
mondo.
PERDITA DI POTERE DEI RE E NASCITA DEL FEUDALESIMO
Agli occhi di Dio – agli occhi dei suoi servi, i prelati del IX secolo – gli uomini
formano un solo popolo. Esistono indubbiamente fra loro differenze di razza, di
condizione, sesso, nascita o funzione, ma, come al tempo dell’imperatore
Ludovico il Pio scriveva Agobardo3, arcivescovo di Lione, «vogliono tutti un solo
regno». La società umana continua il suo cammino verso la luce al seguito del
re, che riunisce le funzioni sacerdotali e militari. Ma in realtà quella società era
divisa: vere e proprie barriere separavano i chierici dai monaci, i laici dagli
ecclesiastici, e soprattutto, gli uomini liberi da quelli trattati invece come bestie.
Durante l’alto Medioevo, tuttavia, la piccola èlite dei capi della Chiesa, i soli dei
quali i testi ci abbiano tramandato l’opinione, si rappresentava il popolo di Dio
come un’entità omogenea, e questo prevalente senso di unità, fondato
sull’istituzione monarchica, era legato a un’altra nozione fondamentale, quella
cioè della stabilità della struttura sociale. Una parola latina, ordo, esprimeva
l’immutabilità dei gruppi in cui gli individui si suddividevano per dirigersi,
ciascuno a suo modo, verso la resurrezione e la salvezza. Ordine, ordinamento:
nell’attimo della creazione, Dio ha stabilito ogni uomo al suo posto, in una
situazione che gli conferisce certi diritti e che, nella progressiva costruzione del
regno di Dio, gli attribuisce una determinata funzione. Nessuno può uscire dal
suo stato: ogni mutamento sarebbe un sacrilegio.
In quel mondo nessuno poteva sperare di arricchirsi abbastanza da uscire dal
suo stato e accedere ai livelli superiori della gerarchia temporale. I ricchi erano
tutti eredi di una gloria e di un patrimonio tramandati di generazione in
generazione da remoti antenati; e i poveri stentavano tutti sulla medesima terra
fecondata dal sudore dei loro avi. Il mutamento era considerato un accidente, e
aveva un che di scandaloso. Come i re e come l’imperatore, Dio si collocava al
centro dell’universo come signore dell’immutabile.3 Agobardo (Spagna 779 – Lione 840) arcivescovo di Lione. Ha lasciato molte lettere e trattati pastorali, politici e liturgici contro gli ebrei e le pratiche superstiziose.
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In realtà, seppure impercettibilmente e con un ritmo che si accelerava molto
lentamente, il mondo cambiava. Verso l’anno Mille, e soprattutto nelle province
occidentali più evolute, ossia nel regno di Francia, cominciarono a manifestarsi
delle nuove strutture sociali.
La modernità dell’XI secolo sta infatti in questo sconvolgimento, così profondo
da ripercuotersi su tutti gli aspetti della civiltà, e in particolare sulla distribuzione
del potere e della ricchezza e sulla concezione dei rapporti dell’uomo con Dio, e
quindi sui meccanismi della creazione artistica.
E’ impossibile capire la nascita dell’arte romanica, e le specifiche caratteristiche
che la contraddistinguono, se non si tiene conto di questo mutamento,
l’instaurarsi cioè del feudalesimo.
Di questa mutazione non fu tanto responsabile l’economia, la cui lenta
evoluzione non provocava ancora alcun cambiamento di rilievo, quanto un fatto
politico, cioè la progressiva perdita di potere dei re.
Subito dopo la nascita dell’Impero, venne il momento in cui i re cessarono
d’essere dei conquistatori, e non ci furono più spedizioni militari, né bottino, né
ricompense: perché i grandi di ciascun regno avrebbero dovuto esporsi a disagi
e a pericoli di interminabili cavalcate, per recarsi presso un sovrano che non
dava più niente? Essi pertanto diradarono le proprie visite, le corti regali a poco
a poco si svuotarono, e lo Stato lentamente si disgregò.
Il suo sconquasso fu contemporaneamente accelerato dalle invasioni
normanne, saracene e ungheresi. Il continente e le isole si videro piombare
addosso nemici insospettati; le guerre non si facevano più in contrade lontane,
al di là dei confini della cristianità, ma all’interno, localmente, ed erano
tristissime: le inafferrabili orde pagane comparivano all’improvviso, dandosi al
saccheggio e all’incendio per poi fuggire sulle navi o a cavallo.
L’armata del re, fatta per l’assalto calcolato, pesante, lenta a riunirsi e ancor più
lenta a muoversi, era totalmente incapace di resistere a tali incursioni, di
respingerle e di prevenirle. Nel continuo pericolo cui ben presto l’intero
Occidente si trovò esposto, i piccoli prìncipi di ogni regione si rivelarono i soli
capi militari in grado di ridargli la pace, i soli che potessero sostenere degli
attacchi imprevedibili e riunire in fretta, al primo allarme, tutti gli uomini validi. La
sicurezza decisamente non dipendeva più dal re, ma da questi signori.
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L’autorità regale decadde allora completamente; essa continuò a vivere nelle
coscienze, al livello delle rappresentazioni mitiche, ma in concreto, nel vissuto
quotidiano, il prestigio e tutti i poteri effettivi passarono interamente ai capi
locali, i duchi e i conti.
Nell’Est e nel Sud della cristianità latina, nelle regioni mal sottomesse ai
Carolingi e ancora più maltrattate dalle recenti incursioni e razzie, iniziarono
due mutazioni parallele, che interessarono l’una la popolazione laica e l’altra la
Chiesa, ovvero i due più importanti settori della società. Gli uomini che in
passato radunavano sotto le proprie bandiere i contingenti di ciascuna provincia
in nome del re, loro parente e signore, si divisero totalmente dal sovrano; e pur
proclamandosi ancora suoi fidi, e a volte, se capitava, ponendo le proprie mani
nelle sue, in segno d’omaggio, cominciarono a considerare i poteri coattivi
ricevuti in delega come loro proprietà personale, come elementi del proprio
patrimonio familiare, esercitandoli liberamente e trasmettendoli ciascuno al
proprio figlio maggiore.
Alle soglie dell’anno Mille, tutti i capi che in un angolo di boschi e radure
comandavano una fortezza, le costruirono intorno un piccolo Stato
indipendente. Ancora all’inizio dell’XI secolo esistevano regni dappertutto,
ancora si consacrano dei sovrani, e nessuno mette in dubbio che siano delegati
di Dio; ma la potenza militare e il potere di giudicare e punire sono ormai
polverizzati e dispersi in una miriade di cellule politiche di tutte le dimensioni.
Ciascuna è retta da un capo che viene detto «signore» o «sire», - in latino
dominus, colui che domina veramente -, e il titolo di cui egli si fregia è lo stesso
che nel vocabolario delle cerimonie cristiane designa Dio. Nulla infatti gli
resiste, nessuno lo controlla: egli ha sempre le stesse prerogative che un tempo
erano monopolio del re, e come il sovrano è membro dinastia.
Come il re, ogni sire sente di essere chiamato a mantenere la pace e la
giustizia in nome di Dio, e il fitto intrico dei diritti che gli consente di assolvere
quest’incarico fa capo al suo castello. La torre simbolo in passato della città
sovrana, e successivamente della maestà regale nella sua funzione militare, è
ormai il centro di un potere personale, e sta alla base del prestigio e dell’autorità
di una stirpe. Intorno al castello, comunque, si organizza la distribuzione del
potere politico di tutte le strutture della nuova società .
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Esse rispecchiano i recenti mutamenti introdotti nell’arte della guerra. Il vecchio
esercito del re si era rilevato impotente contro gli invasori del IX e X secolo; i
soli che potessero fronteggiarli, portandosi rapidamente nei punti più minacciati
e caricando gli assalitori, erano i cavalieri bene equipaggiati e protetti dalla
corazza. Si cessò quindi di reclutare indiscriminatamente i contadini liberi,
senza altre armi che le fionde e i randelli, e che d’altra parte non avevano il
tempo necessario per addestrarsi al combattimento. Il servizio di guerra
divenne appannaggio di un piccolo numero di soldati di professione, e in
conseguenza di questa nuova specializzazione militare la popolazione che
viveva nei pressi della fortezza, rifugiandovisi nei momenti di pericolo e pertanto
obbedendo al suo capo, si trovò divisa in due categorie, che il castellano
trattava in maniera molto diversa. Tutti erano suoi uomini, ma i «poveri», i
«villani» che non partecipavano direttamente alla difesa delle terre, costituivano
agli occhi del sire una massa omogenea che, pur proteggendola, sfruttava a
suo piacimento. Tutti gli appartenevano, non c’era libertà né schiavitù:
requisizioni e corvées, ovvero il prezzo della pace garantita dal signore del
feudo, gravavano su tutti indistintamente.
Al contrario, i pochi giovani del luogo che avevano il privilegio di portare ancora
le armi e di sapersene servire a dovere furono considerati veramente liberi. Essi
sfuggivano allo sfruttamento e alle servitù signorili perché facevano a turno la
guardia al castello, e perché la pace pubblica dipendeva ormai dalla loro
azione. Erano «cavalieri», il loro squadrone si riuniva sotto il vessillo del capo
locale, e uniti intorno a ciascun signore, essi ne circondavano la persona di una
copia identica, seppure di dimensioni ridotte, della corte regale. Padrone di
tutto, sostenuto dalla fedeltà dei suoi cavalieri, ciascuno dei capi delle varie
fortezze è simile a un piccolo re. Gli manca tuttavia uno degli attributi
fondamentali del sovrano, è cioè non è consacrato. Questo fatto determinò
l’altro movimento, costituito da una reazione della chiesa.
RAPPORTI TRA SIGNORI E CHIESA
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I poteri dei re dell’alto Medioevo, non si esercitavano, per principio, su ciò che
nel mondo apparteneva a Dio, ossia i suoi santuari e gli uomini suoi servi. Con
la decadenza della monarchia duchi, conti e castellani difendevano un intero
territorio, e intendevano giudicare, punire e sfruttare tutti gli abitanti che non
fossero cavalieri, senza tener conto del fatto che dipendessero dalla Chiesa.
Inoltre, i signori più potenti si erano arrogata un’altra prerogativa sovrana,
ergendosi a custodi e protettori delle cattedrali e dei monasteri, e pretendendo a
tal titolo di nominare vescovi e abati. Ma la Chiesa che aveva tollerato che i
sovrani designassero i suoi dignitari, visto che i monarchi erano consacrati e
dotati dell’unzione divina di poteri sovrannaturali, non intendeva piegarsi alla
stessa ingerenza da parte di un conte o di un duca, che dalla sua aveva
soltanto la propria forza; e quindi lottò.
Le mancava tuttavia il sostegno del re. La decadenza della magistratura regale
spinse i dirigenti ecclesiastici a rivendicare la più importante funzione della
monarchia, quella di mantenere la pace. Col rito della consacrazione, Dio
delegava ai re dei poteri che i monarchi non erano più in grado di esercitare:
Egli era quindi in diritto di riprenderseli e di esercitarli direttamente attraverso i
suoi servi.
Dio stesso, ora si faceva garante dell’immunità degli edifici del culto e dell’area
circostante, degli uomini di preghiera ed infine dei poveri. Chiunque avesse
violato quegli asili e aggredito i deboli sarebbe stato maledetto ed escluso dalla
comunità dei fedeli fino al suo ravvedimento, e costretto a subire l’ira di Dio, la
collera del Signore invisibile installato nell’angoscia e in grado di scatenare tutte
le forze del terrore in questo mondo e nell’altro. «Per la salvaguardia che la
protegge, non assalirò in alcun modo una chiesa né i magazzini compresi nel
suo recinto. Non aggredirò il chierico o il monaco senz’armi secolari, né l’uomo
che li scorta, se sarà senza lancia né scudo. Non ruberò né il bue né la vacca, il
maiale, la pecora, l’agnello la capra, né l’asino o il suo fardello, e neppure i
sergenti o i mercanti; non li deruberò né li taglieggerò. Non li rovinerò
estorcendogli i loro averi col pretesto che il loro signore è in guerra». Ecco
alcune delle promesse che nel 1023, durante una di queste assemblee, furono
imposte ai cavalieri: romperle equivaleva a gettarsi a capofitto fra i demoni.
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Il primo risultato i tale legislazione fu di isolare nella società un gruppo ben
definito, che i dirigenti della Chiesa ritenevano in stato di perpetua aggressione
e responsabile del disordine del mondo intero; un corpo da cui occorreva
difendersi, e di cui bisognava contenere il potere distruttivo infliggendogli delle
sanzioni spirituali e ispirandogli il timore dell’ira divina. Questa categoria di
uomini altro non era che la cavalleria.
I feudatari infatti temevano il Signore, e cercavano di cattivarsene la
benevolenza spogliandosi delle proprie ricchezze in favore dei chierici e dei
monaci, come facevano i re. Alla munificenza della monarchia subentrò quella
dell’alta nobiltà, e grazie al gioco delle pie elargizioni i mezzi per costruire,
scolpire e dipingere divennero meno limitati. Diversamente dai sovrani, tuttavia,
i feudatari non ebbero un’influenza diretta sull’atto creativo: non erano istruiti,
come invece dovevano essere i re, non avevano altrettante incombenze
liturgiche, né come loro erano personalmente investiti di funzioni sacralizzanti.
Le missioni estetiche della monarchia spettavano dunque alla Chiesa, al pari di
un altro attributo regale, quello di proteggere i poveri. Ma – altra conseguenza
dello scompiglio delle condizioni politiche e sociali – l’arte ecclesiastica ebbe
origine in un mondo completamente schiacciato dalla brutalità dei guerrieri.
Essa è pertanto profondamente segnata dal marchio di una cultura violenta,
irrazionale, ignorante, unicamente sensibile ai gesti, ai riti e ai simboli: la cultura
cavalleresca.
I CAVALIERI
A poco a poco, durante l’XI secolo, si diffonde un vocabolo che, soprattutto in
Francia, diventa il titolo distintivo di tutta l’aristocrazia. Nella sua forma latina,
questo termine esprime esclusivamente la vocazione militare, mentre il dialetto
volgare, più preciso, chiama «cavalieri» tutti coloro che, dall’alto della propria
cavalcatura da guerra, dominano la massa dei poveri e terrorizzano i monaci.
Le armi, l’attitudine al combattimento, ecco ciò che unisce. Ad essi vanno
aggiunti tutti gli assai meno fortunati scudieri cresciuti nei castelli a spese dei
signori, che dormono col padrone nelle grandi sale di legno e vivono dei suoi
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doni. Essi sono tutti uomini: la grande cultura dell’XII secolo ignora le donne, e
l’arte quasi non lascia loro spazio. Nelle pareti dei santuari, le poche immagini
femminile adorne di una certa grazia sono allegorie incoronate raffiguranti le
stagioni e i mesi.
Ieratica e lontana, la Madre di Dio compare a volte nelle tradizioni della
narrazione evangelica. In realtà si tratta di una semplice comparsa: il suo volto
sta in secondo piano, al pari di quello della moglie del sire nelle assemblee dei
guerrieri.
Società maschile, la cavalleria è inoltre una società di eredi, strutturata da
vincoli di parentela. Il potere dei signori viventi si fonda sulla gloria dei signori
estinti, sul patrimonio e sulla reputazione tramandati dagli avi ai propri
discendenti come un deposito che si trasmette di generazione in generazione.
Se i duchi, i conti e i castellani sono riusciti a prendere il posto dei re ed
appropriarsi delle loro prerogative, ciò è accaduto, essi dicono, perché la loro
stirpe è legata a quella dei sovrani da un groviglio inestricabile di legami di
parentela. «Ciò che la razza dà nessuna volontà può toglierlo – scrive il
vescovo Adalberone4 – la stirpe dei nobili discende dal sangue dei re». Anche
l’ultimo degli avventurieri vanta un prode antenato, e ogni cavaliere è spinto
all’azione da una coorte di defunti che illustrarono il suo nome in passato, e con
cui un giorno dovrà fare i conti. Questa folla di morti si perde nella notte dei
tempi, ma ogni nobile conosce il nome dei fondatori della sua stirpe. Il ricordo di
questi eroi si tramanda nelle ballate dei menestrelli ed entra così nella
leggenda, fra i miti atemporali in cui continuano a vivere; i loro corpi giacciono
riuniti nella necropoli scelta in passato dal primo che, abbandonando la casa del
re, si rese indipendente, e a quelle tombe fa capo tutto ciò che nelle pratiche
religiose v’è di più vivo.
Intonato agli atteggiamenti dell’aristocrazia militare, il cristianesimo dell’anno
Mille è soprattutto una religione dei morti. La forza della solidarietà che unisce
in vita i membri della stessa casata, che li spinge a volare tutti insieme in aiuto
del congiunto vittima di un’aggressione, e che li scaglia contro i parenti
dell’aggressore per vendicarlo se soccombe, porta le autorità ecclesiastiche a
riconoscere che i congiunti viventi possono ancora contribuire alla salvezza dei
4 Adalberone o Asellino (morto in Lorena nel 1030), divenne vescovo di Laon nel 977.
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defunti e acquistargli indulgenze. Le elargizioni della cavalleria – in cui la
creazione artistica trova all’epoca uno dei suoi più sostanziosi alimenti –
rispondono quasi sempre alla preoccupazione di soccorrere i propri morti
nell’aldilà.
In questo gruppo sociale, quelli che danno il tono sono i cosiddetti «giovani», in
realtà uomini fatti che hanno finito il loro tirocinio e provato la loro forza e la loro
destrezza pubblicamente, al termine della cerimonia d’iniziazione collettiva che
li introduce solennemente nella società dei guerrieri.
Ancora per lungo tempo, tuttavia, finché il padre vivrà ed essi non riceveranno
dalle sue mani il governo della signoria, dovranno piegarsi alla dipendenza, e
perciò girano il mondo in compagnia di amici della loro età, vagabondando in
cerca di prede e piaceri. Le più alte virtù cavalleresche sono pertanto il
coraggio, la forza e l’aggressività.
L’eroe che tutti vogliono emulare, l’eroe celebrato dalla recente letteratura in
lingua volgare di cui si dà lettura nelle assemblee guerresche, è un atleta
tagliato per la lotta cavalleresca: grande, grosso, pesante, ciò che più si esalta
sono le sue caratteristiche fisiche. Solo il corpo e il coraggio contano, non lo
spirito. Il futuro cavaliere non sa leggere, perché lo studio gli corromperebbe
l’animo; la cavalleria è ignorante per sua scelta, e vede nella guerra, reale o
immaginaria che sia, l’atto fondamentale che dà un senso all’esistenza., un
gioco in cui si rischia tutto, l’onore e la vita, e dal quale i migliori tornano ricchi,
trionfanti, coperti di una gloria degna dei loro avi e che si tramanderà di
generazione in generazione.
Prigioniero della complessa gerarchia dei giuramenti e degli obblighi d’onore
che, all’epoca della decadenza dell’autorità regale, contribuivano a mantenere
una parvenza di disciplina nell’aristocrazia dell’Occidente, l’eroe cavalleresco è
insieme signore e vassallo, e impara quindi a mostrarsi generoso come il
migliore dei vassalli.
LA CHIESA
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Ogni santuario sorge al centro di una signoria che fornisce ai sui addetti i mezzi
di sussistenza. Di conseguenza, qualsiasi vescovo, abate o canonico,
costruisce torri, e introduce fin nel chiostro il fermento della sua scorta di servi-
soldati. I cavalieri vengono ad inginocchiarsi davanti a lui a testa nuda, porgono
le proprie mani nelle sue diventando così i suoi fidi, giurano sulle reliquie di
essergli fedeli e ricevono infine l’investitura di un feudo. La guerra è vietata ai
servi di Dio per principio: la Chiesa non sparge sangue. Molti tuttavia non sanno
rifiutarsi le gioie del combattimento: non tocca forse loro difendere dagli
aggressori il tesoro dei santi patroni dei loro santuari, e rischiare anche la vita
per il trionfo del regno di Cristo?
Quando questi vescovi con l’elmo in testa e la lancia in pugno cavalcano
guidando il gruppo dei giovani chierici armati della propria chiesa, le virtù
dell’onore, della lealtà e del coraggio sono per loro valori altrettanto essenziali
di quanto lo sono per i cavalieri contro cui vanno a battersi. La pace di Dio, di
cui sono responsabili non significa rifiutarsi di combattere, ma si conquista con
lo sforzo e l’azione, e il suo nome è vittoria. Lo spirito di povertà , d’altra parte,
ha abbandonato la Chiesa sin dall’anno Mille.
Se gli ecclesiastici vituperano i cavalieri, e li denunciano come strumenti del
male, è perché vedono in loro degli antagonisti, o per contestargli il potere
signorile e i profitti derivanti dallo sfruttamento dei contadini. In quest’epoca la
Chiesa è interamente dominata dal gusto della lotta e della volontà di potenza.
In quell’epoca i gesti rituali hanno una tale importanza che a poco a poco ci si
abitua a considerare la missione pastorale come un feudo, che obbliga il suo
titolare alla fedeltà e lo trasforma in un vassallo. Il corpo della Chiesa, così,
sprofonda sempre maggiormente nel feudalesimo, confondendovisi, e la
sopraffazione dello spirituale da parte del temporale è quasi totale.
Come i principi feudali, la Chiesa dell’XI secolo si copre d’oro e di pietre
preziose, persuadendo i signori a dedicare alle potenze soprannaturali una
parte dei loro tesori e, prima di morire, a spargere intorno agli altari ed
appendere al collo degli idoli-reliquiari tutto l’oro e i gioielli ammassati dalla loro
cupidigia.
Gli splendenti gioielli che un tempo i re pagani portavano nella tomba, vanno
ora ad accumularsi nella casa di Dio, rendendola più smagliante del trono dei
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principi; e mentre tra le folle affamate la cavalleria dilapida spensieratamente
ricchezze, la chiesa le riunisce in mucchi ammalianti intorno ai suoi riti, che
vuole più fastosi di quelli della festa feudale. Non deve forse Dio mostrarsi nella
gloria più smagliante, avvolto da quell’alone luminoso che gli scultori delle
Apocalissi romaniche disegnano intorno al suo corpo come una cornice a forma
di mandorla? Non merita forse di possedere un tesoro più splendido di quello di
tutti i potenti della terra?
Perché è il Signore. Tutti a quel tempo, hanno un’idea feudale della sua
autorità. Quando Sant’Anselmo tenta di descriverlo in tutta la sua onnipotenza,
in seno al mondo invisibile, lo pone al vertice di una gerarchia di omaggi: gli
angeli ricavano da lui dei feudi, e si atteggiano a suoi vassalli. I monaci sanno
combattere per lui proprio come i servi-guerrieri che, in ogni castello, si
aspettano un premio, e sperano di riconquistare un giorno, con il proprio valore,
l’eredità perduta, il feudo un tempo confiscato per la fellonia dei padri loro.
Rispetto alla grazia divina, i laici sono relegati dai pensatori della chiesa al
rango di contadini asserviti, e il vescovo Eberardo arriva a fare di Cristo il
vassallo di suo Padre. La soggezione degli uomini a Dio Signore si iscrive nel
quadro dei rapporti che, sulla terra e nella vita quotidiana, assoggettano al
signore feudale tutti i suoi sudditi. Il cristiano vuole essere il «fido» del proprio
Dio, e perciò, appunto, la posizione di chi prega, in quell’epoca, è identica a
quella del vassallo che presta omaggio in ginocchio a testa nuda e a mani
giunte. Un tale giuramento obbliga alla lealtà e al servizio: e come il contratto
vassallatico impegna i due contraenti al soccorso reciproco, come il signore
feudale è tenuto ad aiutare il suo «uomo» che assolve fedelmente i propri
obblighi, così anche il cristiano, vassallo del proprio Dio spera da lui che lo
protegga da ogni pericolo, e soprattutto si aspetta quel feudo eterno che è un
posto in paradiso. I più bei doni dei signori di questa terra vanno tuttavia ai
guerrieri più prodi, e sono il premio di un atto di valore. L’uomo dunque si
guadagnerà il favore divino compiendo delle prodezze. Contaminato dai valori
cavallereschi, il cristianesimo dell’XI secolo assume un tono eroico, e i suoi
santi più grandi sono dei guerrieri. Come Sant’Alessio, di cui un poema in
volgare composto verso il 1040 per una corte principesca della Normandia
celebra le ascetiche prodezze, essi sono dei cavalieri perfetti. Ovviamente,
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questa società dominata dalla violenza delle bande cavalleresche stentava a
capire il messaggio di umiltà e di mansuetudine recato dal Vangelo. Per
commuovere il proprio uditorio di giovani guerrieri e ricondurli a Dio, i preti
cresciuti insieme ad essi all’interno del castello, e come essi servi di un
padrone, descrivevano loro la Chiesa sotto l’aspetto di una milizia che Gesù,
suo capo, guida in battaglia brandendo la croce come uno stendardo; e
narravano la vita dei santi-soldati, come San Maurizio o San Demetrio,
esortandoli a dimostrare pari coraggio nella lotta che tutti devono condurre
contro il nemico invisibile, ma sempre presente e temibile, la coorte maligna
degli spiriti vassalli del demonio.
Al cristiano dell’XI secolo, tuttavia, la potenza dell’Eterno si manifesta
soprattutto con un atto di giustizia. Dio punisce: la sua immagine più familiare è
la maestosa figura installata dagli scultori alla porta dei monasteri, l’Onnipotente
sul trono del giudice circondato dai suoi vassalli: il tribunale di Dio pronuncia le
sue sentenze al pari di quello dei signori della terra.
Davanti alle numerose assemblee terrene incaricate di riconciliare i cavalieri e
di por fine alle vendette dei clan in discordia, l’accusato non compare mai solo,
ma assistito da amici che testimoniano della sua innocenza sotto giuramento e
fra i membri della corte c’è sempre qualcuno che gli è legato da vincoli di
sangue o da reciproche fedeltà, su cui sa di poter contare, che parlerà in suo
favore e forse influirà sulla sentenza. Ecco perché gli uomini di quel tempo, nel
timore del giudizio finale, erano tanto ansiosi di accattivarsi la benevolenza dei
santi, di questi eroi della fede che formano il tribunale, che Dio ascolta e
possono quindi placarne la collera. Ognuno può guadagnarli alla propria causa
e assicurarsi l’intercessione con i doni, ossia con gli stessi mezzi che sulla terra
servono ad acquistarsi dei favori.
Nelle pratiche della giustizia terrena, con una donazione ci si poteva conciliare
lo stesso signore. Era raro infatti che le corti cavalleresche infliggessero delle
pene corporali: alla fine del placito si parlava sempre di soldi. Offrire del denaro
significava ristabilire la concordia infranta dal delitto e placare lo spirito di
vendetta suscitata da qualunque aggressione non soltanto nelle sue vittime, ma
anche nei loro amici e parenti e nel principe da cui dipendeva l’ordine pubblico.
Quest’ultimo infatti si sentiva insultato da chiunque commettesse una violenza,
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e turbasse la pace di cui egli era il custode. La sentenza, pertanto, condannava
il colpevole a pagare: oltre al compenso in denaro spettante alla famiglia
avversaria, egli doveva pagare un’ammenda che indennizzasse il danno subito
per sua colpa dal re, dal conte o dal castellano, insomma dal responsabile della
sicurezza collettiva. Così si comprava anche il perdono divino «l’elemosina lava
il peccato come l’acqua spegne il fuoco»: la pia donazione divenne dunque il
gesto di pietà fondamentale di una cristianità sopraffatta da un senso di colpa
inevitabile.
Non ci si potrebbe spiegare il vigoroso slancio che in Europa, fra il 980 e il 1030
porta avanti le conquiste dell’arte, senza quest’immenso apporto di sempre
nuove ricchezze venuto ad ingrossare il patrimonio dei santi, e a fornire ai loro
servi risorse sempre più considerevoli. La crescita agricola che favorì lo sboccio
dell’arte romanica non avrebbe potuto farla sviluppare con tanto vigore se la
casta dominante, la cavalleria, non avesse così generosamente consacrato alla
gloria di Dio tanta parte delle sue ricchezze.
I PELLEGRINAGGI
C’era anche un altro modo i conquistarsi la benevolenza di Dio, che esigeva
però un maggiore impegno del corpo e dell’anima: il pellegrinaggio, l’uscita dal
gruppo familiare e dal rifugio offerto dalla casa per affrontare l’ignoto. Il
pellegrinaggio fu la più perfetta e meglio accetta forma di ascesi proposta, dal
cristianesimo eroicizzato dell’XI secolo, ai cavalieri ansiosi della propria
salvezza. Era anche un simbolo: col suo cammino il pellegrino intendeva
mimare il viaggio del popolo di Dio verso la Terra Promessa, e progrediva verso
il regno. Il pellegrinaggio, infine, era anche un piacere. A quell’epoca non
esisteva svago più allettante di un viaggio, soprattutto se intrapreso in
compagnia di amici com’era generalmente il caso dei pellegrini. Le pie comitive
che discendevano in barca i fiumi, o in marcia lungo i tratturi, non erano infatti
granché diverse dalle frotte di giovani erranti alla ventura e ancor meno dalle
schiere di vassalli che, ligi ai loro obblighi di consiglieri rispondevano all’appello
del signore andando a riunirsi presso di lui. I pellegrini assolvevano anch’essi
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un servizio di corte, che nel giorno stabilito li riuniva intorno agli scrigni coperti
d’oro e di pietre preziose che racchiudevano le reliquie. Da quelle teche si
sprigionavano forze invisibili che guarivano il corpo e giovavano all’anima;
nessuno pensava che i misteriosi personaggi, le cui ossa sparse un po’
dappertutto erano al prova evidente della loro presenza su questa terra,
potessero negare la propria amicizia a chi aveva fatto tanta strada per venerarli.
I monaci raccoglievano gelosamente le cronache delle sempre più numerose
meraviglie comprovanti l’efficacia di tali peregrinazioni.
I pellegrinaggi si compivano a tappe successive, segnate dai santuari in cui si
conservavano le reliquie. Nell’XI secolo, infatti, soprattutto nelle provincie
meridionali, ove il potere dei re era in piena decadenza, fu proprio accanto alle
tombe miracolose che ci si lanciò nelle più grandi opere architettoniche,
sviluppando le capacità inventive da cui nacquero le nuove forme della scultura
monumentale; e queste forze creative si alimentavano delle ricchezze lasciate
intorno ai reliquiari dalle folle dei pellegrini.
Nell’XI secolo tutti i cristiani ferventi che volevano assicurarsi la clemenza divina
col pellegrinaggio sognavano di poter pregare un giorno davanti a tre tombe,
quella di San Pietro, quella di San Giacomo e quella di Cristo. Rodolfo il Glabro,
giunto all’anno 1033, osserva nelle sue Historiae che «una folla strabocchevole
accorse dal mondo intero verso il sepolcro di cristo a Gerusalemme». Per
raggiungere il Santo Sepolcro si dovevano attraversare provincie sterminate in
cui i cristiani d’Occidente, considerati praticamente dei selvaggi, non erano
sempre bene accolti. Fu dunque il sempre crescente pericolo che verso la metà
dell’XI secolo spinse i cavalieri pellegrini a riunirsi in bande armate. La chiesa
sin allora aveva cercato di difendersi dalla turbolenza dei guerrieri
contrapponendo delle barriere alla loro violenza, e innalzando cinte di
protezione intorno ai luoghi sacri e alle categorie sociali da essa protette,
ovvero i chierici, i monaci e i poveri. Ma ora essa si proponeva addirittura di
convertire i cavalieri strappandoli al male e incanalandone l’energia e la foga
verso il servizio di Dio. Nacque così l’usanza di celebrare le cerimonie
iniziatiche ed essenzialmente familiari e pagane, che introducevano i figli dei
guerrieri nel corpo dei combattenti, il giorno della pentecoste nella luce dello
Spirito Santo. Le magiche formule recitate dai preti che benedicevano le spade
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assegnavano a quelle armi santificate l’antica missione regale di difendere i
poveri e lottare contro gli infedeli.
Verso la metà del secolo, quando i pellegrinaggi a Santiago o a Gerusalemme
si trasformarono a poco a poco in vere e proprie aggressioni contro l’Islam, le
assemblee presiedute dai vescovi arrivarono a condannare qualsiasi violenza
fra cristiani: «Il cristiano non ucciderà un altro cristiano, perché chi uccide un
cristiano sparge sicuramente il sangue di Cristo». Contro chi dunque i cavalieri,
votati alla guerra dalle istituzioni divine, avrebbero rivolto d’ora in poi la potenza
delle proprie armi? Fuori della cristianità, contro i nemici della fede. Dolo la
guerra santa era lecita. Nel 1063, un papa irreggimentò i cavalieri della
Champagne e della Borgogna in procinto di recarsi in pellegrinaggio in Spagna,
esortandoli a scagliarsi conto i miscredenti; e a chi fosse morto in battaglia il
successore di Pietro, depositario delle chiavi del paradiso, promise indulgenza.
In nome di Cristo la brigata espugnò Barbastro, città saracena piena d’oro e di
donne.
Trentadue anni dopo un altro papa indicava alle violenze cavalleresche una
meta più esaltante, la liberazione del sepolcro di Cristo; e a tutti i pellegrini
armati che rispondevano al suo appello offriva un emblema, un simbolo di
vittoria, il gonfalone di Cristo, la croce. Che altro è la crociata se non il risultato
finale delle lunghe pressioni esercitate sul cristianesimo dallo spirito feudale?
La scultura sacra accolse allora fra gli attributi della potenza divina cotte,
corazze, elmi, scudi e tutta una selva di lance puntate contro le potenze delle
tenebre.
L’ANNO MILLE E L’APOCALISSE
Corazzato e irto d’armi, l’Occidente dell’XI secolo vive immerso nella paura. Di
un’ondata di terrore improvvisamente abbattutasi sull’anno Mille non troviamo
nei testi alcuna traccia sicura; è evidente tuttavia che molti cristiani attesero
inquieti il millennio della Passione, l’anno 1033. L’anniversario della morte di
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Cristo in quella cultura che dava tanto peso alla commemorazione dei defunti e
alla visita delle tombe, era molto più importante di quello della sua nascita.
All’origine di quest’ansia e di questo scompiglio sta l’attesa della fine dei tempi.
Tutti vorrebbero poter prevedere il momento della tempesta che travolgerà
l’universo. Gli eruditi pertanto scrutano la Scrittura, leggendo così nel XX
capitolo dell’Apocalisse che «passati mille anni», Satana sarà liberato delle sue
catene, e un esercito di cavalieri verrà dai confini della terra a seminare il caos.
Basandosi su questa predizione, alcuni preti, verso la metà del X secolo,
predicano al popolo, in una chiesa di Parigi, che l’Anticristo sarebbe venuto alla
fine dell’anno Mille, e che a lui sarebbe seguito il Giudizio Universale. Molti
ecclesiastici tuttavia contestavano tale affermazione, sostenendo al contrario
che voler scoprire i segreti di Dio è riprovevole, e che non è dato all’uomo
conoscere il giorno e l’ora.
Che cosa sapeva delle strutture del mondo creato? Esso vedeva l’inarrivabile
moto delle stelle, il ritorno dell’alba e della primavera, la nascita e la morte di
tutti gli esseri. Era consapevole di un ordine instaurato da Dio, quell’ordine
sostanziale cui si intonano i muri delle chiese romaniche e che i loro costruttori
cercavano di esprimere. Ma a volte accadeva che quei ritmi fossero turbati: si
vedevano meteore e comete la cui traiettoria non seguiva più il movimento
circolare degli astri; dal mare uscivano mostri. Fenomeni insoliti, nel fuoco,
nell’acqua, nel cielo, nelle viscere della terra: la descrizione di tali anomalie
costituisce il principale argomento delle cronache redatte dai monaci di quel
tempo, preoccupati di tramandare il ricordo perché tali avvenimenti formavano
ai loro occhi una somma si indizi suscettibili in futuro di far luce sul destino
dell’uomo, li consideravano cioè dei presagi.
I prodigi nascono dal mistero, e l’essenziale è capire quale delle ambigue forze
celate dalle apparenze suscita. Sono esse le potenze sataniche che tutti
sentono aggirarsi sotterra e fra i cespugli, pronte a scattare, e che l’arte
romanica rappresenta sotto l’aspetto di creature bestiali in parte donne in parte
rettili?
Ma perché non pensare, al contrario che tali segni fossero lanciati da Dio
stesso? Da un Dio violento, pronto a infiammarsi di collera come i re della terra
quando si sentono traditi o sfidati, e che, continuando comunque ad amare i
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suoi figli, li ammonisce e li mette in guardia; un Dio che si rifiuta di colpirli
all’improvviso, e vuol dargli il tempo di prepararli alla sua più terribile punizione.
L’uomo è schiacciato dalla potenza divina, e tuttavia dev’essere fiducioso. Il suo
creatore gli ha dato occhi per vedere e orecchi per sentire, e come Gesù ai suoi
discepoli, gli parla per parabole, ricorrendo a oscure metafore di cui tocca al
cristiano capire il significato recondito. Mediante le calcolate modificazioni
introdotte nell’ordine cosmico Dio ammonisce l’umanità, è il suo tuono è un
primo avvertimento. I tanti flagelli abbattuti sulle campagne dell’anno Mille –
inondazioni, pestilenze, guerre, carestie – si producevano naturalmente in una
civiltà disarmata di fronte ai capricci del clima e alle aggressioni biologiche, e
assolutamente incapace di tenere a freno le proprie passioni; ed essendo
inspiegabili, erano guardati come i precursori del giorno dell’ira, gli avvertimenti
di cui parla il Vangelo di Matteo, e pertanto come esortazioni alla penitenza.
I MONACI
Indubbiamente tutti i testi che ci fanno conoscere la mentalità dell’XII secolo
provengono dai monasteri, e tali testimonianze, in quanto redatte da uomini
inclini per vocazione al pessimismo, e a cercare sol nella rinuncia i propri
modelli di comportamento, sono condizione di un’etica particolare. Per i monaci
era naturale predicare rinunce ch’essi stessi praticavano, e le loro esortazioni
erano del resto corroborate dai prodigi osservati. Dio manifesta la propria
collera moltiplicando i segni premonitori dell'imminente ritorno del Cristo
vendicatore; per entrare nella sala del banchetto, dove il suo Re è sul punto di
introdurla, l’umanità deve affrettarsi a vestire l’abito nuziale: guai a chi non sarà
pronto. Pensi dunque ciascuno a mondarsi delle proprie colpe e a disarmare il
braccio dell’Onnipotente, rinunciando spontaneamente ai piaceri del mondo.
E mentre la chiesa proponeva ai cavalieri l’astinenza periodica della tregua
come la penitenza più consona al loro stato, inaspriva nel contempo le regole
del digiuno, cominciando a ritenere che i suoi preti , modelli di vita cristiana,
dovessero dar l’esempio della povertà e della castità rinunciando al lusso
cavalleresco e scacciando le proprie concubine – vivendo insomma come dei
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monaci. Per placare la collera divina bisognava sradicare i fermenti di peccato,
e di conseguenza rispettare meglio i divieti fondamentali.
Convinto dal suo clero dell’imminenza della fine dei tempi, l’XI secolo ripose il
suo ideale – l’ideale che le opere d’arte erano destinate a significare – nei
principi stessi del monachesimo. Si credeva che la città terrena poggiasse su
due colonne e fosse difesa da due milizie unite: l’ordine di coloro che portano
le armi e quello di coloro che pregano l’Eterno.
La cavalleria campeggiava al vertice della cristianità latina, tenendola
saldamente in suo potere, ma in campo spirituale, nell’immenso campo
dell’angoscia e dei terrori religiosi e quindi nel campo della creazione artistica
l’assoluto dominio apparteneva allora ai monaci.
La più importante missione dei frati consisteva nel pregare per l’umanità. In
quell’epoca nulla contava l’individuo, semplice componente di un gruppo in cui
le iniziative del singolo si perdevano immediatamente nell’azione e nella
responsabilità collettiva. Così come la vendetta di una famiglia era attuata col
concorso di tutta la casata, e le sue ritorsioni non colpivano solo l’aggressore
ma anche tutti i suoi parenti, il popolo cristiano si sentiva solidale davanti al
male e di fronte a Dio, e tutto egualmente contaminato dalla colpa di un suo
membro o purificato dalle assenze di pochi.
I monaci erano ovviamente i principali beneficiari dei propri meriti, e l’invisibile
feudo che avrebbe costituito la celeste ricompensa dei servizi resi era destinato
in primo luogo a loro. Tuttavia anche altri partecipavano a queste grazie, e tanto
più largamente quanto più erano vicini alla comunità monastica. I monaci si
adoperavano soprattutto per la salvezza dei propri consanguinei ed è questo il
motivo per cui l’usanza di mandare i bambini in tenerissima età in un’abbazia,
affinché per tutta la vita pregassero per i loro fratelli rimasti nel secolo, era così
diffusa nelle famiglie nobili. In secondo luogo i monaci si adoperavano per la
salvezza dei propri fratelli in spirito, sicché molti laici si vincolavano a un
monastero donandogli il proprio corpo mediante l’omaggio vassallatico, o
entrando in una delle tante società di preghiera che si stendevano come una
rete intorno a tutti i santuari. I frati si adoperavano infine per la salvezza dei loro
benefattori fatto che a sua volta favoriva le donazioni.
I monasteri pertanto si moltiplicarono e prosperavano ovunque.
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La loro funzione fondamentale giustificava inoltre la destinazione di una larga
parte delle entrate monastiche a opere di abbellimento: non solo con la
preghiera si loda il Signore, ma con l’offerta del bello, con gli ornamenti e con la
disposizione architettonica più adatta a rendere manifesta l’onnipotenza di un
Dio eterno.
Secondariamente, i monasteri erano divenuti dei depositi di reliquie. Nessun
laico avrebbe più osato tenere in suo possesso i sacri resti dei santi, quelle
ossa dotate di poteri formidabili attraverso le quali il mistero affermava la sua
presenza nell’universo visibile. Solo i re, o uomini di vita purissima, potevano
permettersi di possederle. Le comunità di preti che custodivano i reliquiari da
generazioni, pur vivendo secondo i costumi del secolo, erano state a poco a
poco sostituite da comunità monastiche. Ogni monastero apparteneva a un
santo, che lo proteggeva scagliando fulmini divini contro chi violava i suoi diritti,
e vi risiedeva materialmente mediante le proprie spoglie terrene. Era pertanto
presso le reliquie che più conveniva rendergli omaggio, sollecitare il suo aiuto
nei più gravi cimenti o in certe malattie di cui governava il corso, o in punto di
morte.
Reliquiari, cimiteri, fonti d’indulgenza, i monasteri erano talmente necessari da
diventare innumerevoli; ma affinché la loro azione fosse veramente efficace,
dovevano essere luoghi di assoluta perfezione. L’istituzione monastica era stata
gravemente danneggiata dai disordini del IX e X secolo, ed era quella che più
aveva sofferto delle razzie e delle devastazione degli invasori: mal difese, piene
di tesori, le abbazie erano state saccheggiate e incendiate dalle orde
normanne, saracene e ungheresi, e i monaci, violando loro malgrado la
clausura, erano fuggiti in disordine piombando brutalmente nell’impero del
Maligno, senza alcuna difesa contro le tentazioni del secolo. La maggior parte
di essi si rifugiò nelle province meno esposte alle aggressioni pagane.
In quel periodo, tuttavia, i monasteri, sfuggiti di mano ai re che li avevano
protetti in passato, erano oppressi da un altro giogo, quello del feudalesimo.
Nel migliore dei casi, i monaci erano costretti a cedere in feudo ai cavalieri del
loro protettore la maggior parte delle loro terre.
Appena l’Occidente s’era risollevato dai tumulti e dalle catastrofi, i suoi capi si
erano dati a restaurare gli organi della preghiera collettiva come al compito più
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urgente. L’iniziativa era partita da alcuni principi che, ormai vecchi e ansiosi di
farsi degli amici in cielo, si sforzavano di ricondurre alla regola i monasteri
fondati dai loro avi e da essi stessi sottratti alla protezione dei re.
Le funzioni fondamentali assolte dalle comunità monastiche, in questo periodo
della storia cristiana, spiegano come mai lo spirito di riforma si sia sviluppato
nelle abbazie. Rimanendo la Chiesa secolare prigioniera del mondo laico fino al
principio del XII secolo, gli abbati prevalsero sui vescovi e dovunque trionfarono
i monaci, che vivevano più santamente e rendevano a Dio servizi di qualità
molto migliore. Prima del 1130 i maggiori centri della cultura occidentale, i
grandi crogioli della nuova arte sono dunque i monasteri, e non le cattedrali,
ma il loro primato dipende soprattutto dal fatto che le istituzioni monastiche
furono più precocemente rinnovate e purificate dai mali che le avevano
temporaneamente corrotte. Nel Medioevo occidentale gli abati diventarono santi
molto prima dei vescovi, riorganizzarono la scuola assai prima di loro, e
cessarono molto più presto di sperperare le proprie entrate, continuamente
incrementate da elargizioni più generose, destinandole alla ricostruzione e
all’ornamento delle proprie chiese, a maggior gloria di Dio.
I BENEDETTINI E GLI EREMITI
Nell’XI secolo i monaci d’Europa si avvicinano a Dio seguendo due vie diverse.
L’una ricalca l’itinerario tracciato dal cristianesimo bizantino e l’area dei suoi più
grandi successi corre pertanto lungo l’incerta frontiera che attraversa l’Italia
centrale e divide la latinità dall’ellenismo estendendosi a sud fino alla Sicilia e
alle estremità della penisola.
In quelle contrade, il monaco veramente fugge il mondo alla conquista del
deserto, rintanandosi, come nel Sinai o in Cappadocia, in una solitaria
spelonca.
Questo stile di vita monastica, improntato a un assoluto rifiuto del mondo, ha
una totale povertà, alla segregazione e al silenzio, escludeva ovviamente ogni
creazione di formazione artistica. Ma il suo vero successo fu posteriore al 1130;
prima di tale data il monachesimo occidentale seguì generalmente la strada
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aperta nel VI secolo da Benedetto da Norcia. La regola di San Benedetto si era
diffusa da Montecassino e dall’abbazia di Fleury-sur-Loire, e pretendeva di
custodire le reliquie del maestro, soprattutto dall’Inghilterra, evangelizzata da
monaci di osservanza benedettina.
Questa seconda via era unita alla prima da un’identica volontà di isolamento e
di rinuncia e dall’indifferenza all’azione missionaria, ma ne differiva per due
principi: lo spirito comunitario e la moderazione. In ogni monastero benedettino
c’è una società di tipo familiare, fermamente diretta da un padre, l’abate,
investito di tutti i poteri e di tutte le responsabilità del pater familias dell’antica
Roma. I monaci sono fratelli, e le regole disciplinari, che impediscono loro
qualsiasi iniziativa personale, sono ancora più rigorose di quelle che cementano
in un unico corpo i gruppi di consanguinei. La regola di San Benedetto si fonda
sulla virtù dell’obbedienza. La stabilità, la rinuncia al vagabondaggio e ad ogni
velleità di indipendenza, sono nell’etica benedettina altrettante virtù cardinali.
Come qualsiasi altra famiglia feudale, la comunità si fonda di conseguenza su
un patrimonio, su una proprietà fondiaria in cui mette radici. Nessuno dei suoi
membri possiede nulla che gli appartenga personalmente, e può senz’altro dirsi
povero; ma la sua povertà non è diversa da quella dei figli dei cavalieri, che
sono senza un soldo pur avendo un padre ricco, e assomiglia ancora di più alla
povertà degli scudieri, che siedono alla tavola dei grandi signori e posseggono
soltanto le proprie armi. Lo spirito di moderazione a cui si ispirano i precetti di
San Benedetto sono l’equilibrio, la modestia, il senso della misura e la saggia
ragionevolezza.
Il maestro aveva posto dei limiti ai periodi di digiuno e proposto una morale
semplice, contraria agli eccessi mistici, convinto che i soldati di Cristo, per
combattere valorosamente, dovevano vestirsi, mangiare dormire in maniera
adeguata. Era meglio che il monaco dimenticasse il proprio corpo, invece di
ostinarsi a mortificarlo, e che coltivasse a dovere le terre della sua casa per
trarne raccolti più abbondanti e offrire a Dio sacrifici più opulenti. Cluny seguiva
la regola benedettina, interpretandola peraltro a suo modo e accetta senza
riserve la ricchezza e l’opulenza alimentate dalla continua pioggia di donazioni,
ritenendo che nessuno potrebbe farne un uso migliore: non le consacra essa
forse interamente al servizio di Dio? Perché dunque rifiutarle? E giacché forma
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il più grande esercito dell’Eterno, perché dovrebbe impedire ai suoi figli di vivere
da signori, come i cavalieri laici, facendosi mantenere dal lavoro dei contadini
destinato da Dio a sostentare i guerrieri e i religiosi? San Benedetto aveva
previsto che i monaci lavorassero con le loro mani, che arassero i campi e
mietessero, per mortificarsi e perché l’ozio è una porta aperta alle tentazioni. A
Cluny trionfarono invece i pregiudizi nobiliari, che ritenevano disdicevole per un
uomo veramente libero faticare come un contadino, consideravano il lavoro
manuale un castigo, una macchia, e comunque un disonore, e affermavano che
appunto per questo Dio aveva creato gli schiavi. San Benedetto aveva
trascurato le attività intellettuali: egli si preoccupava del cibo dell’anima, non
delle conquiste dello spirito, e la sua regola prevedeva che il monastero
accogliesse anche gli analfabeti.
I benedettini anglosassoni, sui cui suggerimenti s’era fondata nell’VIII secolo la
riforma della Chiesa franca, aveva colmato questa lacuna facendo nella scuola
uno dei pilastri della vita monastica, e leggevano Virgilio, giacché per loro il
latino era una lingua straniera.
L’ordine cluniacense portava però avanti il movimento di reazione all’attività
intellettuale iniziato, in vista di una maggiore austerità, in alcune abbazie
dell’Impero alle soglie del IX secolo, anche dopo l’anno Mille gli abbati di Cluny
continuarono a cercare di sviare i propri figli dalla familiarità con i classici
pagani, mettendoli in guardia con i rischi di corruzione spirituale in cui incorreva
il monaco amante della poetica romana. Delle tre arti del trivium, non
sembravano necessarie al monaco né la retorica – a che serve l’eloquenza a
chi vive nel silenzio e si esprime quasi soltanto a gesti? – né la dialettica,
scienza del ragionamento del tutto inutile nel ritiro claustrale, dove nessuno
deve mai discutere o persuadere. Solo la grammatica è indispensabile alla sua
formazione; dovrà per questo esporsi alle pericolose seduzioni delle lettere
profane? Per capire il senso delle parole latine, non basta forse che egli ricorra
ai repertori, quali le Etymologiae di Isidoro di Siviglia5? Con l’aiuto di queste
raccolte, in cui il contenuto delle opere letterarie è frammentario e privato di
5 Arcivescovo spagnolo e dottore della chiesa. Personalità di rilievo della chiesa occidentale fra il VI e il VII secolo, fu considerato dai contemporanei il più grande erudito del tempo. Le sue etimologie in venti libri costituirono una vera e propria enciclopedia cui si attinse largamente e a lungo.
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tutte le sue attrattive, il figlio di San Benedetto, solitario e sotto i portici del
chiostro, continuerà a ruminare i sacri testi fino a stamparseli nella memoria.
La caratteristica fondamentale della vita monastica di tipo cluniacense è che in
essa tutto converge nel servizio di Dio, nell’opus Dei, nella celebrazione
dell’ufficio, e tutte le modifiche introdotte dall’ordo cluniacensis nel testo della
regola concorrevano ad esaltare una funzione considerata essenziale già da
San Benedetto. Egli aveva indicato come specifica missione del monaco la
celebrazione della gloria di Dio. Il fine della professione monastica consisteva
per lui nella celebrazione collettiva, della preghiera pubblica; e se nel
monastero esisteva una scuola, essa aveva il solo scopo di preparare i monaci
a questa attività con la lettura e la meditazione solitaria. Su questo punto
tuttavia Cluny si mostrò più esigente, soprattutto allungando la durata del
servizio: secondo la regola, i monaci avrebbero dovuto dedicare alla recitazione
settimanale del salterio e alla lettura cadenzata di qualche brano della Bibbia
minor tempo che ad altre occupazioni temporali, mentre nell’uso cluniacense
l’ufficio divino giunse a occupare fino a sette ore al giorno, e ancora di più nelle
solennità. D’altra parte Cluny fece in modo di incanalare il gusto degli ornamenti
e la tendenza al lusso, propri della mentalità cavalleresca, verso l’ufficio divino,
a maggior gloria di Dio. Tutti i monasteri cluniacensi formarono una sola
immensa officina, in cui i monaci più geniali lavoravano per abbellire la casa del
Signore.
LA MUSICA
L’atto liturgico era musicale. La spiritualità dell’XI secolo si dispiega in un canto
emesso all’unisono e a voce spiegata da un coro maschile, e in cui si realizza
l’unanimità che Dio predilige nella lode delle sue creature. Il coro dei monaci
cluniacensi rispecchiava le caratteristiche che distinguono lo stile benedettino
dal monachesimo orientale: la semplicità, la modestia un’interpretazione priva di
qualsiasi tendenza alla fantasia individuale. Nei monasteri d’Occidente
l’invenzione non fu certo esclusa dalla creazione musicale: certe grandi abbazie
dell’XI secolo, come San Gallo o Saint-Martial di Limoges, furono centri
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fertilissimi d’arte liturgica, arte somma di quell’epoca, in cui si fondevano poesia
e melodia. Nel linguaggio tecnico di tali scuole «trovare» significava
esattamente adattare i testi nuovi alle modulazioni del canto fermo e gli uomini
che vi si dedicavano erano perfettamente consapevoli di sacralizzare in tal
modo la grammatica. I loro artifici costringevano il vocabolario della preghiera
ad adattarsi ai semplici ritmi della melodia gregoriana, perfettamente aderente
alle cadenze del cosmo e dunque al pensiero divino; all’eterna lode degli angeli
essi univano le parole del linguaggio umano.
La musica, e per suo tramite la liturgia, furono i più efficaci strumenti di
conoscenza di cui disponesse la cultura dell’XI secolo. Per il loro significato
simbolico e per le associazioni mentali suscitate dalle loro combinazioni, le
parole consentono di sondare intuitivamente i misteri del mondo, e conducono a
Dio; ma ancor più direttamente conduce a Dio la melodia, che lascia percepire
gli armoniosi accordi del creato e permette al cuore umano d’introdursi nella
perfezione delle intenzioni divine.
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INDICE
Pag. 2 L’occidente nell’anno Mille
5 L’età imperiale
8 Il re e la cultura
9 L’arte imperiale
11 L’arte del tesoro reale
12 L’architettura imperiale
13 Il decadimento della monarchia
14 Perdita di potere dei re e nascita del feudalesimo
18 Rapporti tra signori e chiesa
20 I cavalieri
22 La chiesa
25 I pellegrinaggi
28 L’anno Mille e l’Apocalisse
29 I monaci
32 I benedettini e gli eremiti
35 La musica
BIBLIOGRAFIA
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Duby, Georges, L’arte e la società medievale, Bari, Laterza, 2003
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