Franco Gaudiano
MANUALE DI SCRITTURA CREATIVA
Come stimolare e quidare l’ispirazione
per trasformarla nella stesura organica
di un corpo narrativo
Editrice NORD – 1993
Ottimizzazione by
> Yorikarus @ TNTVillage <
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Alla nonna
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INTRODUZIONE
La scrittura creativa, dall’inglese creative writing, è ormai parte integrante di qualsiasi
curriculum umanistico-letterario nei licei e nelle università statunitensi. Fu inserita
ufficialmente come materia d’esame nel 1922 dalla facoltà d’inglese dell’Università
dell’Iowa, la prima negli Stati Uniti ad accettare tesi di laurea “creative”, basate cioè su
un lavoro letterario originale.
L’innovazione, nata come esperimento in questa università d’avanguardia su richiesta
di alcuni studenti aspiranti scrittori, fu il primo passo verso lo sviluppo di un ramo
didattico, presto rivelatosi fecondo, imperniato sulla scrittura come mezzo espressivo e
veicolo di apprendimento attivo. A fianco del creative writing sono infatti sorte, e
continuano a moltiplicarsi, iniziative di approfondimento letterario e culturale. Degni di
nota i forum in cui studenti e docenti collaborano alla stesura di progetti editoriali;
l’International Writing Program, che coordina le sempre più frequenti conferenze di docenti
e scrittori stranieri; le case editrici specializzate che raccolgono saggi, critica letteraria ed
opere di narrativa; e soprattutto il creative writing workshop, letteralmente “laboratorio di
scrittura creativa”, piccolo Parnaso d’ispirazione letteraria.Se l’esempio dell’Università
dell’Iowa può considerarsi “pionieristico” in campo accademico, non si creda che la
scrittura creativa sia di per sé qualcosa di nuovo o l’ennesima importazione di una pop
culture di stampo americano. Nella penisola italica, oltre duemila anni fa, Cicerone la
praticava ed insegnava sotto il nome di ars rhetorica. Il suo modello dialettico nel De
oratore non differiva, essenzialmente, da quello di un workshop letterario nell’America
d’oggi. Nel primo secolo d. C. Quintiliano divenne il primo retore ufficialmente stipendiato
nel mondo latino e, nei dodici volumi delle sue Institutiones oratoriae, stabilì i precetti del
bello scrivere, alcuni dei quali sono tuttora i cardini fondamentali degli attuali corsi di
scrittura creativa: l’obbligo, per l’apprendista scrittore, di leggere molto per assimilare
stili letterari da modelli esistenti, e la necessità di scrivere, riscrivere e ancora riscrivere!
Nel corso dei secoli si sono susseguiti pensatori, studiosi e teorici del linguaggio. Da
Aristotele a Manzoni, da Orazio a Erasmo, dai Romantici inglesi ai Formalisti russi, tanti
luminari del linguaggio hanno accresciuto il nostro bagaglio teorico sull’arte del ben
scrivere. Oggi in America si è passati dalla teoria alla pratica, dal libro di testo al
manuale, dalla letteratura accademica al laboratorio di scrittura creativa. In fondo, il
creative writing altro non è che la messa in opera dell’arte del fare letteratura.
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Ma allora, ci si può chiedere, che senso ha questo manuale? Difficilmente potremmo
aggiungere qualcosa di nuovo a questa materia. Le librerie negli Stati Uniti traboccano di
manuali, testi scolastici, articoli e trattati sulla scrittura creativa. In Italia, d’altro canto,
proliferano testi teorici e saggi di linguistica, semiotica e critica letteraria. Il nostro
obiettivo non è quello di aggiungere carne al fuoco per l’aspirante scrittore o lo studente-
letterato. Al contrario, vorremmo riunire in queste pagine i princìpi basilari di ciò che si
può considerare “il mestiere dello scrivere oggi” sintetizzando, con l’uso di termini
semplici e definizioni il più possibile chiare, le tecniche di composizione, le teorie e le
“pratiche” alla base di un laboratorio di scrittura creativa. Che poi i nostri concetti si
possano riscontrare anche in altri volumi — primi fra tutti quelli indicati in bibliografia —
non significa che questo sia semplicemente un collage di analisi letteraria. Ogni capitolo
di questo libro è il distillato di argomenti, esperimenti e “svisceramenti” di testi letterari,
tratti direttamente dall’esperienza dei workshops di scrittura creativa seguiti e
successivamente organizzati dall’autore negli Stati Uniti e in Italia. Il libro che avete in
mano è inteso come uno strumento di facile consultazione, un manuale di composizione
e, non ultimo, un percorso umanistico-letterario aperto a tutti, dall’aspirante scrittore a
chiunque crede nella verità della Fantasia, da seguire passo dopo passo.
Imparare a scrivere, infatti, è tutt’altro che un processo automatico. Lo può diventare,
forse, per chi ha già acquisito una certa esperienza; ma, senza voler perdersi in
discussioni del tipo “scrittori si nasce o si diventa?”, resta il fatto che ogni membro della
razza homo sapiens, da Omero alla casalinga che scrive solo una lettera all’anno alla sua
amica del cuore, deve prima o poi fare i conti con il linguaggio come mezzo espressivo di
comunicazione. Esprimere le proprie idee tramite l’uso della parola è come navigare in un
meraviglioso quanto insidioso oceano a bordo di un vascello. Chiunque può “galleggiarvi”
sopra, ma solo la mano precisa di un sapiente timoniere può imprimervi la direzione
giusta. L’organizzazione di un discorso, orale o scritto che sia, è un atto “direttivo” preciso
e razionale, che richiede una continua ginnastica mentale dall’emisfero intuitivo a quello
organizzativo del cervello. La scrittura creativa è un’attività che coinvolge tutta la
dinamica del pensiero, dalla scintilla che potremmo chiamare “ispirazione”, alla fase —
anzi le fasi — di stesura, riscrittura ed editing di un testo ordinato, rifinito e corretto.
Nessuno può mai considerarsi uno scrittore “arrivato”. Ognuno di noi, d’altra parte,
può ben avere qualcosa da dire e volerla esprimere tramite la parola scritta. L’obiettivo di
questo manuale è di facilitare questo compito, puntando prima di tutto sulla
consapevolezza di certe “regole non scritte” del ben scrivere, offrendo poi un’analisi
linguistico-letteraria di brani selezionati, e proponendo esercizi di composizione su cui il
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lettore potrà cimentarsi. Questo, in breve, è il layout, lo schema, di ogni capitolo che
segue, in accordo con il principio di utilità pratica che anima il libro nel suo insieme.
Se ci limiteremo ad esplorare il campo relativamente ristretto, ma non per questo
riduttivo, della narrativa — dal racconto breve a passi di romanzi — ciò non è ad
esclusione di altri campi in cui la creatività linguistica può essere altrettanto applicabile.
Basti pensare alla poesia, al cinema e al teatro, alla pubblicità... Ma tutti questi campi,
che toccheremo soltanto en passant, sono in qualche modo già inclusi nella narrativa.
Studieremo l’abbellimento del discorso tramite metafore, allitterazioni e diverse figure
retoriche, come in poesia; i problemi pertinenti alle “voci”, ovvero il discorso diretto in
letteratura, come in un copione di cinema o di teatro; l’importanza di catturare
l’attenzione del lettore-fruitore con una frase di aggancio o un’immagine che colpisce,
come in pubblicità. Si potrebbe andare avanti con lunghe liste di funzioni della lingua
associate alla composizione letteraria! Ma di ciò tratteremo, punto per punto, nei capitoli
che seguono.
A chi è diretto questo manuale? Non soltanto agli “aspiranti scrittori”, ma a chiunque
voglia affinare i propri talenti linguistico-letterari. Dal copywriter al docente di lettere,
dallo studente al giornalista, dal caporedattore al lettore, ogni persona-che-comunica-
con-altri può beneficiare di questo manuale. Primo fra tutti l’autore, che, scrivendolo,
deve anch’egli districarsi in questa foresta di parole, insieme con voi.
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1 IL CORPO NARRATIVO
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1.1 LA RETORICA COME STRUMENTO
Organizzare un insieme di parole per raccontare una storia è, in sintesi, dare vita ad
un corpo narrativo. Lungi dall’essere un’arte arcana riservata agli adepti che si
definiscono “scrittori”, la pratica di adottare il linguaggio per fini narrativi è quanto di più
comune si possa riscontrare nell’umanità: dalla nonna che narra fiabe ai nipotini, ai
politici che propinano favole all’elettorato, tutti noi esseri umani raccontiamo.
Saper usare bene le parole è al tempo stesso un’arte, una scienza e un’arma, che,
affilata come si deve, può compiere miracoli e far vincere battaglie nei più svariati campi.
Non per niente lo studio della retorica, intesa originariamente come arte della
persuasione, sorse in campo giuridico. Ciò avvenne nell’antica Magna Grecia, dove i legali
già si battevano nell’arena dell’eloquenza e sapevano che un discorso incisivo poteva
essere la loro carta vincente. Indipendentemente dalla giustizia o meno del caso in
questione, si sviluppò così questa “scienza della parola”, la retorica, mirata a rendere il
più possibile tagliente l’esposizione di un argomento.
Le connotazioni negative che oggi si associano alla parola “retorica” sono, purtroppo,
derivate dal fatto che frequentemente essa è (stata) usata per fini non propriamente
morali. Ma non bisogna confondere i mezzi con i fini. Qualsiasi strumento, dal coltello di
cucina all’energia atomica, può essere usato nel bene o nel male. La retorica in sé non è
certo un’arte malefica. È soltanto un mezzo, niente più che uno strumento linguistico,
che costituisce l’aspetto organizzativo e formale di un discorso. Nel campo della
letteratura, l’ars rhetorica è la capacità di ordinare ed abbellire una storia, il che permette
di tradurre idee e pensieri in un corpo narrativo organico.
I primi maestri di retorica nella nostra civiltà, Empedocle d’Agrigento e Corace,
avevano già stabilito, nel V secolo a. C., una struttura di base per fornire un piano
coerente al discorso oratorio. Esso doveva comprendere le seguenti parti:
A) esordio
B) relazione dei fatti
C) argomentazione o prova
D) digressione
F) epilogo
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Anche il trattato di Aristotele sulla poetica, primo “manuale” per autori della civiltà
occidentale, insisteva sull’importanza di dare alla trama poetico-letteraria una struttura
retorica organica. Fra gli elementi considerati, per l’armonia formale di una tragedia,
Aristotele proponeva di attenersi alle tre unità di luogo, tempo ed azione. I suoi
suggerimenti furono in seguito interpretati in modo talmente rigido da diventare
imprescindibili requisisti per la “validità” di un’opera, che doveva aderire perfettamente al
paradigma organizzativo aristotelico.
Un disegno organico prestabilito per la costruzione di un intreccio letterario resta a
tutt’oggi un conveniente perno, attorno al quale possono creativamente ruotare tutti gli
elementi di stile e di contenuto del corpo narrativo. Chi di noi non ha ricevuto una sorta
di “griglia” per la composizione del tema di italiano? Torneremo sulla validità e sull’uso di
tali tracce organizzative a proposito della stesura di una trama letteraria. Per ora basti
ricordare che, nel corso dei secoli, sono state proposte numerose griglie o strutture, in
diversissimi campi del linguaggio orale e scritto, attraverso le quali tessere le fila di un
discorso. In realtà ognuno di noi, più o meno consciamente, segue un dato schema
mentale nell’atto di verbalizzare il proprio pensiero a fini comunicativi.
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1.2 IL TEMA DELLO SCRITTORE
Chi scrive, di solito, ha qualcosa da dire. Questo “qualcosa” è il contenuto del testo,
l’espressione del pensiero, il tema dello scrittore. I contenuti della narrativa riguardano,
tradizionalmente, aspetti della condizione umana. Amore e morte, religione, giustizia,
origini, sofferenza e aspirazione alla felicità sono tra le principali tematiche tratte
dall’esperienza umana, che, prese nelle loro variegate sfaccettature, costituiscono da
sempre spunti di riflessione intorno a cui sviluppare e scrivere una storia.
I filosofi, sin dagli albori della civiltà, hanno analizzato queste tematiche fondamentali
e le hanno discusse in trattati coerentemente organizzati. Anche molti psicologi,
sciamani, sociologi, sacerdoti, educatori, capi di stato e perfino alcuni santi e carcerati
hanno sviscerato questi aspetti della vita e ne hanno scritto libri sacri e di testo, saggi e
guide di comportamento, biografie, autobiografie.
Avere un “tema” di cui poter parlare è dunque patrimonio comune di ogni essere
vivente e pensante. Il modo più adatto per esprimerlo, tuttavia, differisce enormemente
tra qualsiasi categoria di persone sopracitata e l’autore di narrativa. Egli, diversamente
da chiunque altro voglia esprimere le proprie idee, si trova di fronte ad un problema
curiosamente paradossale. Pur sempre presentando un “tema” attraverso il linguaggio, lo
scrittore non deve “dire” di che si tratta: deve farlo vedere!
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1.3 SHOW, DON’T TELL!
Questo è il primo assioma dei corsi di creative writing. Tradotto letteralmente in
italiano sarebbe: «Fa’ vedere, non dire!» Suscitare una risposta emotiva, facendo vedere
come stanno le cose, è molto, ma molto più efficace che non “dire” come stanno le cose.
Dire «Ti amo» non è la stessa cosa che far sentire amata una persona. Dire al popolo
«Risolleveremo l’economia del paese» non è la stessa cosa che offrire posti di lavoro. Ora,
fatte le debite proporzioni, se uno scrittore si limitasse a “dire” quello che pensa, non
darebbe vita ad un corpo narrativo. La letteratura, pur contenendo tutte le “analisi” di
Freud sulla natura umana (su ammissione dello stesso Sigmund), non è e non vuol
essere un testo di psicologia. Lo scrittore di narrativa deve trascendere i propri pensieri e,
tramite il linguaggio, offrire qualcosa di più di un enunciato.
Prendiamo ad esempio il tema del carpe diem. Una persona che si limitasse a dire le
proprie idee in proposito, potrebbe giustamente annunciare: «Attenzione che il tempo
vola! È bene cogliere e godere l’attimo fuggente, altrimenti le occasioni andranno perdute
per sempre». Ma questo tipo di discorso, per quanto possa essere convincente a livello
razionale, difficilmente arriverebbe a toccare, a smuovere qualcosa dentro la persona che
lo legge. (O voi vi siete mossi? Dico a te, sì! Hai fatto quella benedetta telefonata? O sei
ancora qui a lasciare che il tempo passi?)
Un testo letterario deve dare qualcosa di più. E anche chiedere al lettore qualcosa di
più che non un passivo ascoltare e prendere appunti. Marty Bickman, un mio professore
di scrittura creativa all’Università di Boulder, diceva che «Learning is not a spectator’s
sport» — «Apprendere non è uno sport da spettatori». Che cosa intendeva dire?
Apprendere è uno sport (notare la parola sport, che già denota attività) in cui non basta
sedersi ad ascoltare. Bisogna partecipare, darsi da fare! Altrimenti l’apprendimento
rimane passivo e sterile. Chi vuole imparare a Scrivere, con la lettera maiuscola, deve a
sua volta saper Leggere. Carpire i segreti di un corpo narrativo e farli suoi. Come
dall’esercizio sportivo si trae un rafforzamento dei muscoli, dalla lettura attiva segue un
affinamento dei muscoli mentali. L’aspirante scrittore, come del resto chiunque voglia
trarre un beneficio personale dalla lettura, deve dare qualcosa di sé, tuffarsi con la
propria anima nella fontana della conoscenza... e solo allora qualcosa rimane dentro.
L’autore di narrativa, pur presentando aspetti dell’esistenza né più né meno come
qualsiasi altra persona pensante, non può limitarsi a dispensare un enunciato dei suoi
pensieri, né dilungarsi in spiegazioni puramente razionali sul come affrontare o risolvere
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un dato problema. Il suo compito è mostrare, spasso tra le righe, il vero contenuto della
narrazione. Il campo d’azione dello scrittore, il terreno di gioco per lo “sport” della
narrativa, è l’allegoria.
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1.4 IL CORPO NARRATIVO COME ALLEGORIA
Che cosa s’intende per allegoria? Un qualcosa di “detto tra le righe”, o il messaggio
implicito di un racconto, vero? Ciò che si cela dietro una narrazione, in parole povere. Ma
i racconti sono tutti allegorici, o ce n’è qualcuno che si possa prendere alla lettera e
basta? La risposta ci viene (implicitamente) dal Nuovo Vocabolario Devoto-Oli con la sua
definizione di allegoria: «Figura retorica per mezzo della quale l’autore esprime e il lettore
ravvisa un significato riposto, diverso da quello letterale». Eccoci all’attività “sportiva”, a
quell’imprevedibile partita a tennis fra l’autore e il lettore, dove l’autore esprime e il lettore
ravvisa. La partita di cui parliamo, la letteratura, è fatta di continui rimbalzi fra l’autore,
che vuole dire (ma senza dire!) qualcosa, e il lettore che cerca qualcosa in ciò che legge.
Rimbalzi di parole, rimbalzi di significati riposti, di immagini, di azioni e reazioni. Spetta
a ciascun lettore-partecipante di questo “sport” intercettare il lancio (o i lanci) che
l’autore ha fatto da dietro la rete del linguaggio. Lo sport, per il lettore, è cogliere
l’allegoria. Per lo scrittore è saperla servire.
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1.5 LETTURA DI UN RACCONTO
I giorni perduti
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra,
rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una
porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito. Allora lo inseguì in auto. E il
camion fece una lunga strada, fino all’estrema periferia della città, fermandosi sul ciglio di
un vallone.
Kazirra scese dall’auto e andò a vedere. Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e,
fatti pochi passi, la scaraventò nel botro; che era ingombro di migliaia e migliaia di altre
casse uguali.
Si avvicinò all’uomo e gli chiese: — Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco.
Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte queste casse?
Quello lo guardò e sorrise: — Ne ho ancora sul camion, da buttare.
— Non sai? Sono i giorni.
— Che giorni?
— I giorni tuoi.
— I miei giorni?
— I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai
fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso?
Kazirra guardò. Formavano un mucchio immenso. Scese giù per la scarpata e ne aprì
uno.
C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata che se n
‘andava per sempre. E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo. C’era una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che
stava male e lo aspettava. Ma lui era in giro per affari.
Ne aprì un terzo. Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino
che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa. E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava
diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
— Signore! — gridò Kazirra. — Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni.
La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.
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Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile,
come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio era più possibile. Poi svanì
nell’aria, e all’istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose. E
l’ombra della notte scendeva 1.
Non sarà per caso il momento di fare quella telefonata?
1 Dino Buzzati, “I giorni perduti”, in 180 racconti, Milano, Mondadori, 1982.
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1.6 ANALISI DI UN TESTO LETTERARIO
Quando un lettore si trova davanti ad un brano di narrativa, specialmente se vuole a
sua volta scrivere, farebbe bene a porsi qualche domanda. Due domande fondamentali
sono «Che cosa?» e «Come?», riguardanti il contenuto e lo stile del racconto. Che cosa sta
cercando di dire l’autore? Che cosa ravvisiamo noi, in questa lettura? Che cosa e come ci
colpisce maggiormente? Come riesce l’autore a “dire senza dire”, ovvero a metterci
davanti agli occhi il suo messaggio senza enunciarlo esplicitamente? Come ci coinvolge
nella lettura?
Queste sono domande valide per qualsiasi narrazione, ed in particolare per il testo che
abbiamo appena letto. Una risposta di carattere generale, ed altrettanto universalmente
valida, è che lo scrittore di narrativa ha a sua disposizione, per “esporre” senza “dire” le
sue considerazioni, due elementi chiave: PERSONAGGI e TRAMA. Questi due elementi
sono propri della narrativa (rispetto, ad esempio, alla dimensione puramente intellettuale
del trattato filosofico) e sono strettamente collegati fra loro. La trama, o intreccio,
svolgimento dell’azione, non può sussistere senza qualcuno che la viva; e quel “qualcuno”
altri non è che il personaggio letterario, un alter ego che l’autore usa, in un certo qual
modo, per vivere — e far vivere — un’esperienza significativa in quel piccolo mondo
alternativo che è il testo letterario.
Torneremo in seguito su questi due elementi chiave — personaggi e trama — e
vedremo in quale misura permettono ad uno scrittore di esprimere un’idea (e al lettore di
ravvisarla) figurativamente, al di là del significato letterale del testo.
Su questo breve racconto di Buzzati possiamo già fare alcune osservazioni di base. I
personaggi sono due — il padrone della villa e un “ladro” — e anche le trame in un certo
senso sono due: un apparente furto, e ciò che il furto risulta poi veramente essere. È
proprio sul tema del “furto” che verte questa storia: dapprima in modo apparentemente
ovvio e lineare (un uomo esce da una villa portandosi via delle casse su un camion), poi,
sottilmente, sull’inversione o capovolgimento di chi è veramente il ladro, che cosa ha
rubato e come lo ha fatto. In realtà il ladro è il padrone di casa, Ernst Kazirra, “ladro” dei
suoi stessi giorni. Si è derubato dei suoi rapporti umani per inseguire chissà quali
ambizioni di carriera. Le cose rubate — il contenuto delle casse — non sono beni
materiali, ma al contrario è il conseguimento dei beni materiali la causa del vero “furto”,
quello dei suoi affetti, delle persone o del cane che gli erano affezionati.
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Il ribaltamento della trama avviene insieme ad una svolta lessicale e semantica nel
mezzo della storia. Ciò che all’inizio erano “casse” (sostantivo femminile plurale) d’un
tratto diventano “giorni”: «Scese giù per la scarpata e ne aprì uno». Il contrasto semantico
è evidenziato dal verbo “aprì”, ovviamente riferito alla cassa, accanto al pronome maschile
“uno”. Il racconto, che era iniziato in tono realistico, prosegue ora in uno stile che si può
definire realismo magico, ove la “magia” s’insinua sottilmente (anche grammaticalmente!)
nello svolgimento della trama. Essa viene accettata come parte integrante della realtà dal
protagonista, che vede nelle casse i suoi giorni perduti, e quindi dal lettore che ravvisa il
significato allegorico del “furto dei giorni”. Ognuno, forse, ha visto simili “casse”
precipitate in qualche sperduta fossa della sua vita.
Il coinvolgimento del lettore nel corso della storia è coadiuvato dall’autore anche
tramite l’uso di un avverbio, semanticamente “errato” come il pronome “uno” riferito alle
casse, scelto però ad hoc con la funzione di colpire il lettore a un livello subliminale: «Si
sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco». Questo “qui”, con la sua
forza grammaticale di vicinanza, sposta immediatamente l’emozione di Kazirra alla bocca
dello stomaco del lettore. Un dosato slittamento semantico o grammaticale può ben
costituire uno strumento retorico valido in letteratura.
Il gioco del ribaltamento dei “furti” è ulteriormente sottolineato col passaggio dal “tu”
al “lei” e col rovesciamento della posizione in cui si trovano i personaggi. All’inizio, il
signor Kazirra si rivolge spregiativamente con il “tu” all’uomo che era uscito da una
porticina secondaria della sua sontuosa villa: «Ti ho visto portar fuori quella cassa dal
mio parco». Poi, quando si rende conto che il ladro è lui stesso, cambia completamente
tono e il lettore lo vede, sceso giù per la scarpata, implorarlo così: «Signore...! Mi ascolti.
Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico». Kazirra, dal basso, cerca
pateticamente di corrompere il “signore” offrendogli tutte le sue ricchezze, ma non è con i
beni materiali che può recuperare gli affetti dei suoi giorni perduti.
La storia che abbiamo letto è un testo letterario, un corpo narrativo compiuto.
L’autore, Dino Buzzati, non ci “dice” niente. Anche l’ovvia morale che se ne può trarre
non è resa esplicita dall’autore in nessun momento del racconto: ci è data da “vedere” con
i nostri occhi, da “sentire” qui, alla bocca dello stomaco, ed è per questo che ci rimane
impressa ad un livello non solo razionale, ma più profondo. Il vero contenuto del racconto
si scopre strada facendo, seguendo la graduale presa di coscienza del protagonista. Con
Kazirra inseguiamo il camion delle casse, ci fermiamo sul “ciglio” di un vallone e
spalanchiamo gli occhi insieme a lui che “guarda”, “apre” e infine “grida” quando vede
che ormai è troppo tardi. Tradurre tutto questo in una massima filosofico-moralistica
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sarebbe ridurre il testo ad una formuletta, sminuire il valore artistico del racconto. Il
significato allegorico che invece ciascun lettore può ravvisare nel racconto, è tanto più
ampio quanto più l’autore si è mantenuto in disparte, dietro le quinte delle sue stesse
parole, facendoci diventare il protagonista della storia attraverso i nostri occhi di lettore
che seguono “in diretta” ciò che vede e sente il protagonista del racconto.
Quanto di tutto ciò costituisca un’attività conscia o inconscia, fruttuosa o fugace,
dipende solo da voi. Nella lettura attiva vi è insito un dono, che unisce al “gusto” estetico
il “sapore” della scoperta di significati nascosti. Ed è questo il nutrimento che rimane
dentro.
Esistono, naturalmente, diversi tipi di discorso letterario che contengono una morale
o un messaggio reso dall’autore in maniera esplicita. Ma ai fini del nostro cammino di
apprendisti scrittori ci eserciteremo in questo tipo di discorso “detto ma non detto”. Starà
poi a ciascun autore decidere cosa, quanto e come dire, a seconda della propria natura,
formazione ed inclinazione letteraria. Ma per cominciare, accettiamo che saper Scrivere
includa la capacità, da parte di chi lo fa, di suggerire qualcosa “tra le righe”, di
trasmettere un messaggio a un livello subliminale, visivo o allegorico. E adesso tocca a
voi.
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1.7 AL LAVORO!
Show, don’t tell: Mostrate, senza dire, un sentimento o uno stato d’animo umano.
Dipingete la noia senza usare la parola noia. Il senso di vertigine senza usare la parola
vertigine. Se volete cimentarvi in qualcosa di più stimolante, eliminate anche sinonimi o
locuzioni troppo ovvie. Niente “sbadigli” per la noia, niente “paura di cadere” per le
vertigini. Più l’immagine è originale, più colpirà il lettore e sarà quindi efficace come
apprendimento attivo nello sport del fare letteratura.
A questi brevi esercizi possono seguirne altri più complessi in cui si sviluppi una
trama narrativa, costruendo, ad esempio, una storia che illustri la verità di un proverbio.
Cimentatevi con «Chi non risica non rosica» o «Chi la dura la vince», sostituendo al “chi”
del proverbio un personaggio da voi inventato ed illustrando ciò che ottiene (o non
ottiene) nel corso di un episodio significativo. Cercate di rimanere il più possibile
invisibile come autore, ovvero di non “dire” al lettore niente di simile al proverbio,
insomma niente frasi fatte! Lasciate che l’azione (la trama) e la reazione del personaggio
mostrino da sé la verità del proverbio che voi avete in mente.
Per il momento va bene limitarsi alla stesura di un breve episodio, una pagina al
massimo di “corpo narrativo”. In seguito tratteremo più approfonditamente lo sviluppo di
una trama letteraria e la creazione di diversi tipi di personaggi.
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2 L’INCIPIT
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2.1 COINVOLGERE SUBITO IL LETTORE
In un inizio di narrativa, nelle sue infinite varietà, c’è tutto un microcosmo sintattico
ed estetico che svolge la funzione primaria di attirare il lettore al racconto, come un’ape al
fiore. I colori e i profumi del fiore narrativo sono le parole, e il loro ventaglio in apertura di
pagina è la corolla di petali che si schiude al sole del mattino. È pertanto cruciale
disporre tali parole in modo che il lettore sia invogliato a passare l’intera giornata con
esse, se è vero che il buon giorno si vede dal mattino... Si sa che una storia iniziava
tradizionalmente con «C’era una volta...», a cui seguiva l’azione. Oggi si tende ad iniziare
con l’azione, a cui segue un flashback, un balzo indietro nel tempo narrativo per chiarire
gli antecedenti. Diciamo subito che non è data una regola fissa sul dove o sul come
iniziare un racconto, ma esiste una tendenza sempre più marcata ad attaccare in medias
res, nel mezzo della cosa o dell’azione. Si vuole stimolare immediatamente il lettore
(primo fra tutti quello della casa editrice, a cui spetta il compito ingrato di scartare il 90%
degli inediti in visione...) con premesse-promesse che smuovano le acque sin dal primo
istante.
Un incipit drammatico ed immediato o una struttura sintattica “originale” sono i mezzi
retorici con cui lo scrittore può tentare di aprirsi un varco a colpi di machete nella
giungla dell’editoria odierna. Quanti capolavori letterari del secolo scorso rischierebbero
di venire oggi scartati solo perché le prime pagine si dilungavano in elaborate
presentazioni introduttive. Ora, a meno che voi non siate un Dostoevskij già affermato e
riconosciuto, questo modesto manuale vi consiglia di seguire i canoni letterari d’oggi,
ovvero d’iniziare a metà, intermezzare con l’inizio, e finire senza fine. Può sembrare un
gioco di parole (e forse lo è), ma non dimentichiamo che l’arte è, dopo tutto, una sapiente
manipolazione di vari elementi, per un fine tanto “contenutistico” quanto estetico. Una
forma gradevole, o una disposizione vivace degli elementi narrativi, è gioco perfettamente
lecito in letteratura, anzi è il gioco del fare un testo letterario.
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2.2 CREATIVITÀ NELLA SINTASSI
Cominciamo con un’attenta lettura di alcuni inizi di racconti di un nostro autore
contemporaneo, Cesare Pavese, e vediamo come egli ha fatto uso di una particolare
struttura sintattica per introdurre il lettore nel suo mondo narrativo.
L ‘estate
Di tutta l’estate che trascorsi nella città semivuota non so proprio che dire.
Il mare
Alle volte penso che se avessi avuto il coraggio di salire fino in cima alla collina, non
sarei poi scappato di casa.
Storia segreta
Per questa strada passava mio padre. Passava di notte perché era lunga e voleva
arrivare di buon’ora.
Notte di festa
Sull’aia liscia e soda come un tavolo di marmo, saliva il fresco della sera.
Amici
Dal cortile di cemento un giovanotto a gola tesa gridava al terzo piano di ombre e
sprazzi di luce: — State tranquilli, sono disoccupato.
Temporale d’estate
Sul casotto dell’“imbarco” ai piedi delle colline, non giungeva ancora il sole.
Anni
Di quel ch’ero allora non resta più niente: appena uomo, ero ancora ragazzo 2.
Avete già notato, vero, la struttura sintattica che caratterizza tutti questi inizi? Qual è
quel particolare tocco che li contraddistingue? Esordiscono tutti con una preposizione,
semplice o articolata, che dà loro una svolta peculiare: poiché si reggono su una
2 Cesare Pavese, Racconti, vol. I e II, Milano, Mondadori, 1969.
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“particella” secondaria del discorso, questi inizi costringono sintatticamente il lettore ad
avanzare di qualche parola per scoprire la parte principale. Il ritmo della frase è tale da
provocare una lettura attiva. Vediamo come.
Innanzitutto, una struttura sintattica come questa (diversa dal solito schema
soggetto-verbo-oggetto) dà un twist alla frase, ovvero una svolta o cambiamento inatteso,
che può, di per sé, colpire il lettore e spingerlo a soffermarsi sulla posizione e sul
significato delle singole parole. L’enunciato principale posto alla fine del periodo invita a
seguire con attenzione tutta la frase, per coglierne il senso completo. L’ordine alterato
delle parti del discorso, inoltre, può arricchire l’incipit di una più vasta gamma di
significati possibili che aleggiano intorno all’ambiguità della preposizione in inizio di
frase.
Prendiamo l’incipit del racconto intitolato “L’estate”. Iniziando più convenzionalmente
con il verbo, si potrebbe rifrasare: «Non so proprio che dire di tutta l’estate che trascorsi
nella città semivuota». Notate la differenza? Un autore che inizi con «Non so proprio che
dire» rischia di scoraggiare il lettore prima ancora che arrivi alla «città semivuota». Pavese
tiene il lettore in sospeso invertendo le parti del discorso, ponendo l’enfasi iniziale
sull’argomento «di tutta l’estate» (di cui ancora non sappiamo nulla), retto da una
preposizione che ritarda lo svolgimento della frase e che quindi invita ad indagare oltre.
Anche se chi inizia a leggere non si cimenta certo, a livello conscio, con domande del tipo
«ma perché parlare di tutta un’estate o di una città semivuota, se non si sa che dirne?»,
l’apparente controsenso in una frase strutturata con quel «non so proprio che dire» finale,
carica l’insieme delle parole di una enigmaticità (perplessità? stupore? sospetto?) che
aggancia, a livello inconscio, il lettore a ciò che seguirà: dalla particella al discorso, dalla
sintassi ribaltata all’equilibrio instabile dell’esistenza, come Pavese vede e comunica in
tutta la sua opera.
Prendiamo adesso “Notte di festa”. Un modo più convenzionale di cominciare questo
racconto potrebbe essere: «Il fresco della sera saliva sull’aia, liscia e soda come un tavolo
di marmo». Funziona? Certo, è sintatticamente impeccabile, ma l’enfasi iniziale sul
«fresco della sera» trasmetterebbe una sensazione di piacere o gradevolezza e l’immagine,
sia pur originale e caratteristica, dell’aia paragonata ad un tavolo di marmo rischierebbe
di passare in second’ordine, quasi fosse soltanto un abbellimento della proposizione
principale.
Osservando invece la differenza fra le due diverse disposizioni dello stesso insieme di
parole, possiamo supporre quell’impercettibile brivido di freddo che attraversa il lettore
all’impatto subitaneo con la similitudine fra l’aia e il tavolo di marmo, posta da Pavese in
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inizio di frase. Il fresco della sera, arrivando dopo tale immagine, assume ben altri toni!
La narrativa, così, acquisisce subito una qualità emotiva diversa, una dinamica che
impregna le parole di significato.
Notiamo, infine, l’effetto della preposizione “su” in inizio di frase. Essa può lasciar
presumere una varietà di possibili interpretazioni, dovute non soltanto alla posizione
predominante della particella, ma anche alla funzione bivalente di questa particolare
preposizione. Considerando “su” come preposizione di stato in luogo, ovvero «sulla
superficie dell’aia...», verrebbe da chiedersi: chi c’è sull’aia? Cosa vi sta accadendo? Solo
in un secondo momento scopriamo, con il verbo “saliva”, che “su” indica un moto a luogo:
il moto dell’aria che sale “su”, dal basso verso l’aia. Una buona fetta di creatività, in
letteratura, consiste proprio nello sfruttare la plurivalenza o polisemia della parola per
“insinuare” diversi livelli di lettura.
Lasciamo al lettore volenteroso ulteriori analisi di questi inizi di racconti di Pavese, e
chiudiamo il paragrafo con un ultimo esempio, il celeberrimo incipit con preposizione a
capo della nostra letteratura: «Nel mezzo del cammin di nostra vita...» Credete che Dante
non avrebbe potuto iniziare la Divina Commedia, più convenzionalmente, con «Mi ritrovai
per una selva oscura / nel mezzo del cammin...»? Ma l’immersione immediata “Nel mezzo”
di qualcosa (in medias res, con quel “Nel” che già di per sé trascina intrinsecamente
“dentro”), sortisce un effetto di immediata “immersione” nella storia. In aggiunta, il
pronome “nostra”, riguardante universalmente tutti noi umani a fianco dell’io narratore,
coinvolge il lettore attivo nel “cammino” del Poeta sin dall’inizio della narrazione.
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2.3 COME SBLOCCARE IL BLOCCO...
Il blocco dello scrittore — quel blocco glaciale, rigido e bianco come la pagina nuda
che gli sta di fronte — è una delle afflizioni più mortificanti per chi senta il desiderio di
scrivere e non riesca neanche a scalfire il foglio con la prima riga. Questo può capitare a
tutti. Anche agli “scrittori” veri. Uno scrittore consumato, però, ha alcuni trucchi ed
espedienti nel suo bagaglio di esperienze, che gli permettono di trovare più facilmente la
via della scrittura, o di “rompere il ghiaccio” con la pagina. L’arnese di lavoro, quando
l’idea c’è ma la parola manca, è quello strumento tanto odiato dagli studenti quanto
corteggiato dagli scrittori: si tratta, signori cari, della grammatica.
Conoscere le regole della grammatica e romperle, o anche solo forzarle un pochino
dosandole con un pizzico di creatività letteraria, può essere un gioco divertente e al
tempo stesso uno strumento di “sbloccaggio”. Abbiamo già visto come lo spostamento,
rispetto alla norma, di alcune parti del discorso possa dar luogo ad effetti e risultati
interessanti. Lo stesso dicasi di un uso originale di parole, solitamente confinate ad un
certo campo, collocate in prima riga come catalizzatori della vostra energia creativa!
Poniamo il caso che vogliate scrivere la storia (vera o romanzata) di una donna che vi
sta a cuore. Il tema è “la sua vita”, ma non si tratta di una vita qualsiasi; è la sua,
specialissima esistenza che vi ha spinti a scrivere su di lei. Guai, allora, a cominciare con
una frase banale o peggio ancora utilizzare una formula anagrafica del tipo “È nata a...
il... “. Volete far sì che lo spirito di questa donna spicchi subito, balzando agli occhi del
lettore e incuriosendolo sin dalla prima frase. Com’è questa donna? Giovane? Bella?
Aggressiva? Bene, abbiamo di che scrivere! Non vogliamo però limitarci a “dire” che la
nostra protagonista possiede queste qualità. Ci vuole uno stile che vibri esso stesso del
contenuto di quello che scrivete, in questo caso, uno stile giovane, bello, aggressivo.
E qui interviene la grammatica. Faremo del sostantivo, questo padre del discorso,
l’eroe dei nostri agenti grammaticali. Scegliamo il sostantivo “ragazza”, che si riferisce
ovviamente a “lei”, ma vediamo subito di vivacizzarne l’uso con un accorgimento
grammaticale. Questo sostantivo femminile singolare richiede, normalmente, l’articolo
“la” o “una”. Bene: noi faremo a meno dell’articolo! Iniziamo quindi con il sostantivo:
«Ragazza».
Come continuare la nostra narrazione? Pensiamoci un attimo. Dopo un attacco così
“essenziale”, si potrebbero introdurre, ad esempio, due persone il cui dialogo riprenda il
“tema” annunciato nella prima riga, con una frase di aggancio quale:
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«Ragazza era e ragazza resterà per sempre».
Questo commento, che intanto esprime la giovanilità della nostra protagonista, lascia
anche presagire qualcosa dietro le quinte delle parole...
Prendiamo poi l’aggettivo “bella”: banalissimo in sé, soprattutto nella frase “bella
ragazza”. Il dizionario dei sinonimi ci può dare un’infinità di alternative a “bella”, ma
anche senza fare uso di questo pur utilissimo strumento, già solo invertire l’ordine tipico
delle due parole cambia qualcosa: “Ragazza bella” suona più incisivo di “bella ragazza”,
dà una carica in più sia a lei che alla sua bellezza. Questa inversione sostantivo-aggettivo
rispetto al consueto può anche fungere da grilletto per stimolare i sensi del lettore, che
vorrà poi vedere la bellezza della protagonista.
Passiamo all’aggressività di questo personaggio. Vogliamo trovare una parola che
“suoni” aggressiva? Tanto più se accostata al gentil sesso... Come vi suona “ragazza
rapace”? L’allitterazione (o ripetizione) del suono “ra” ha in sé qualcosa di selvaggio, come
il grido di un uccello. Rapace, tuttavia, è un aggettivo più tipicamente maschio che
femmina e rischia di caratterizzare il vostro personaggio in un modo insolito e particolare.
Se l’aggettivo “rapace” non vi va a genio, ma vi richiama alla mente il volo fiero e
maestoso dell’aquila e vi dà l’idea di delineare così il vostro personaggio, niente di più
facile. Prendete quest’altro sostantivo, precisamente “aquila”, e usatelo coraggiosamente
come qualificativo dell’altro, “ragazza”. Ragazza aquila.
Qualcosa si sta muovendo nella biografia di questa donna, vero? Ad ogni alterazione o
modifica dell’uso grammaticale di una parola, meglio si delinea il ritratto di questo
personaggio. A voi la continuazione!
Non è detto che questi “giochi grammaticali” portino sempre a capolavori d’arte
letteraria, ma una cosa è certa: sbloccano la timidezza iniziale dello scrittore di fronte alla
pagina bianca, e possono aprire canali creativi di considerevole portata.
Prima di concludere il paragrafo, un trucco semplice ed efficace per superare il
“blocco dello scrittore”. Usare una qualsiasi “parola d’avvio” che nulla abbia a che vedere
con l’argomento da trattare. Proprio come girare la chiavetta del motore per raggiungere i
100 km/h, usare una parola d’avvio per “accendere” il motore dei vostri cavalli creativi.
Cavalcare alla ricerca di un legame sarà poi certamente più produttivo che non starsene
lì a pensare a vuoto. Infatti, invece di preoccuparsi su come iniziare, la mente si
preoccupa subito di come agganciare la parola data (anche una scelta a caso dal
vocabolario) all’idea o al discorso che vuole esprimere. La parola così “scelta” può inoltre
fungere da spunto per nuove idee o strutture sintattiche da sviluppare.
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2.4 UN INIZIO DI ROMANZO
Carlos Castaneda, autore americano contemporaneo e bestseller in numerose lingue
fra cui l’italiano, cominciò la sua carriera di scrittore con una tesi di laurea che voleva
essere uno studio scientifico-antropologico sull’uso del peyote fra gli indiani Yaqui del
Messico, e finì col diventare anche un capolavoro di creatività letteraria, grazie forse al
mistero insito nel suo personaggio (persona?) principale, Juan Matus, uomo di
conoscenza che la sapeva più lunga di lui...
Mettere se stesso come autore-narratore pieno di buona volontà ma incapace di
comprendere il mistero — o la verità! — che veniva sottilmente svelato tra le righe, è stato
uno degli espedienti più brillanti ed efficaci di questo straordinario autore, che è riuscito
in questo modo a coinvolgere il lettore in una specie di gara di acume con “Carlos”,
protagonista, alter ego e vittima dell’autore Castaneda.
Qui è impossibile riportare per intero l’atmosfera che questo autore sa creare attorno
al suo povero alter ego, ma vogliamo almeno soffermarci sull’incipit di uno dei suoi
resoconti, anzi chiamiamolo pure romanzo:
La trasformazione di Doña Soledad
Ebbi, d’un tratto, la premonizione che Pablito e Nestor non fossero a casa. Ne fui tanto
persuaso che arrestai l’automobile. Ero giunto là dove la strada asfaltata finiva; e
intendevo riflettere se mi convenisse o no proseguire, quel giorno stesso, per la strada
ghiaiata, lunga, tortuosa, in salita, che conduceva al loro paese sperduto fra i monti del
Messico centrale 3.
Il primo stratagemma, classico ed eternamente valido, è l’attacco in medias res con
quel verbo, in prima persona e secco come un lampo, «Ebbi», che ci costringe sin dal
primo istante a calarci nel narratore-protagonista e a provare con lui un sussulto nella
locuzione avverbiale «d’un tratto», che segue immediatamente il verbo spezzando il ritmo
della frase. L’impressione di una sorpresa in arrivo è subitanea, ed è rafforzata dal
complemento oggetto, la parola «premonizione». Scopriamo in seguito che si tratta
soltanto dell’eventualità che due persone, Pablito e Nestor, «non fossero a casa». Questo
tono drammatico per una possibilità così banale può sembrare fuori luogo o incongruo,
3 Carlos Castaneda, “La trasformazione di Doña Soledad”, in Il secondo anello del potere, Milano, Rizzoli,
1978, p.7.
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ma proprio per questo incuriosisce il lettore, che già a questo punto può chiedersi cosa
c’è veramente sotto, chi sono queste due persone e dove mai saranno.
Attirate così l’attenzione e la curiosità del lettore, l’autore descrive il luogo dell’azione:
vediamo il protagonista in un’automobile, al termine di una strada asfaltata, indeciso se
proseguire o tornare indietro. Questa immagine trasmette un messaggio subliminale al
lettore: siamo sulla soglia di qualcosa di sconosciuto. L’automobile e l’asfalto, due
prodotti della civiltà moderna e simboli del dominio dell’uomo sull’ambiente, finiscono lì.
L’autore a questo punto non ci “dice” niente sullo stato emotivo del protagonista, ma
ci “fa vedere” la sua reazione: egli si ferma a “riflettere”. Se abbia paura o meno non ci è
dato di sapere con certezza, ma gli indizi di una certa palpitazione nel suo cuore sono lì,
non soltanto nel contenuto della narrativa, ma nello stesso stile, nel ritmo di queste
prime righe che vanno avanti con una serie di “spezzati”, dal verbo “Ebbi” fino
all’arrestarsi dell’automobile; e prosegue con una sintassi che si snoda a mo’ di lungo
serpente tortuoso che sale misteriosamente nelle viscere di questa storia, proprio come la
strada che entra, «lunga, tortuosa, in salita» nelle montagne del Messico centrale.
Non c’è bisogno di conoscere questa zona del Messico per intuire che si tratta di
territori selvaggi, disabitati e soggetti a strane apparizioni o a stregonerie... Basta
riconoscere — a un livello più o meno conscio, poco importa — alcuni simboli diremmo
quasi archetipici, come la strada che si perde fra i monti sperduti, la fine e l’inizio di
qualcosa, la salita, e tutto ciò che queste parole dense di significato possono trasmettere.
Non c’è da meravigliarsi che il protagonista, e con lui il lettore, provi emozione all’idea di
proseguire. Questa apprensione non dichiarata, ma implicita nella descrizione “oggettiva”
della scena, è ben più efficace in narrativa che non una serie di aggettivi o dichiarazioni
roboanti. Show, don’t tell... Dire “Aveva paura” sarebbe la fine del gioco. Farlo sentire è
l’arte dello scrittore, che lascia spazio all’immaginazione dei lettori e così li coinvolge
attivamente nell’atmosfera della storia.
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2.5 AL LAVORO!
Per cominciare, assumetevi un compito banale come la descrizione di un piatto di
pastasciutta. In attesa d’iniziare il pranzo, scegliete dal vostro menù letterario una di
queste parole:
Che — Per quanto — Non sapevo — Volendo — Difficilmente — Chiunque — Poiché.
Iniziate così un aneddoto sulla tavola imbandita. I più “affamati” possono cimentarsi
in sette diverse descrizioni dello stesso piatto di pastasciutta con le sette diverse parole
offerte come “antipasto”.
Per chi ha fame di qualcos’altro, un esercizio un po’ più lungo. Cercando di usare le
tecniche di composizione letteraria viste finora (attacco in medias res, qualche
ribaltamento grammaticale o sintattico, show don’t tell, simboli, immagini o parole con
apparenti incongruità o con significati riposti, ecc.), descrivere la situazione e lo stato
d’animo di una persona che si sta accorgendo di essersi persa in un bosco di montagna
sulla via del ritorno, all’approssimarsi del crepuscolo. Non più di una pagina.
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3 LA TRAMA LETTERARIA
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3.1 LA TRAMA COME FILO CONDUTTORE
Non a caso il significato primario di “trama” è «filo che costituisce la parte trasversale
di un tessuto» (Devoto-Oli). La trama del “tessuto” narrativo è precisamente il “filo” che
attraversa l’intreccio di una storia. Si tratta di una linea direttiva, invisibile ma
onnipresente, che connette idealmente tutti gli elementi di una narrazione.
A differenza della vita reale, dove le cose possono anche accadere fuori dal nostro
controllo, in letteratura nulla viene lasciato al caso. Perfino i mutamenti atmosferici,
dall’afa al temporale, dal sole alla bufera di neve in alta montagna, se avvengono in una
narrazione è perché c’è sotto lo zampino del Dio Autore, che ha ordito quel particolare
temporale o bufera di neve per un fine ben preciso: in nove casi su dieci, per creare
problemi ai suoi personaggi.
Devo a questo punto anticipare un paradigma della letteratura, che verrà ampliato in
un altro capitolo e che costituisce, appunto in nove casi su dieci, il filo conduttore di una
storia. Qualsiasi narrazione, dal rosa al giallo, dal romanzo psicologico a quello
d’avventura, ruota intorno ad una conflittualità. Il conflitto, oserei dire, è la linfa della
narrativa.
Nella vita facciamo di tutto per evitare incidenti e conflitti. Nella letteratura, invece, ci
sguazziamo come bambini sulla battigia. Ci sarà forse una particolare perversione nella
mente umana — anche adulta — sta di fatto che nessuno prova gusto a nuotare in acque
letterarie calme. Per quanto piacevole possa essere il vostro stile o interessanti i vostri
personaggi, difficilmente un lettore si tufferà nelle onde della vostra narrazione, a meno
che non offriate ai vostri personaggi qualche bella difficoltà da risolvere. Tanto più grande
la conflittualità, tanto più appassionante la lettura. Infatti, nel momento in cui i nodi del
filo conflittuale si sciolgono e i protagonisti giungono al fatidico “vissero felici e contenti”,
la loro vita comincia, ma la storia finisce.
Per “conflitto” non s’intende necessariamente una guerra o un duello all’ultimo
sangue. Conflitto è un qualsiasi problema con cui un personaggio deve confrontarsi se
vuole andare avanti. Conflitto può voler dire un nemico da affrontare o un rivale d’amore
da sconfiggere; ma può anche trattarsi di un conflitto interiore, come il dubbio amletico:
«Essere o non essere?», ove la congiunzione “o”, con la sua intrinseca prerogativa di
scelta, denota il conflitto interiore del protagonista.
Il mestiere del Dio Autore consiste dunque nel pungolare continuamente un
personaggio con le spine di un dilemma interiore e/o un problema esterno da risolvere,
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seguendo una linea di tensione che quando giunge al suo culmine — il momento della
verità, o climax — provoca un cambiamento nel protagonista; dopodiché il filo della
tensione si allenta e la storia termina con una risoluzione (positiva o negativa), che
chiameremo denouement.
John Gardner, il primo maestro ed autore di testi di scrittura creativa negli Stati
Uniti, sostiene che la struttura alla base pressoché di qualsiasi trama letteraria è
semplicemente questa: «Un personaggio vuole qualcosa, persegue il suo obiettivo
malgrado le opposizioni (compresi forse i suoi stessi dubbi) e giunge a un denouement» 4.
Immagino tra voi qualche sguardo perplesso. Forse non avevate mai pensato che la
quasi totalità della letteratura mondiale si potesse condensare in questa formuletta di
John Gardner, e ne siete giustamente sospettosi. Ma come! direte voi, con le infinite
trame possibili e immaginabili che... Un momento! Infinite, avete detto? Infinite sono le
possibilità di variare una trama, ma se guardiamo all’essenza, le trame letterarie
rintracciabili da Omero al giorno d’oggi sono ben poche. Il classico manualetto sulla
trama, The Plot of the Short Story di Henry Albert Phillips — uno dei primi testi “ufficiali”
di scrittura creativa negli Stati Uniti, pubblicato nel 1920 — presenta dieci possibili
schemi di trama e li riduce ulteriormente a cinque tematiche basilari: il rapporto tra i due
sessi, la lotta fra il bene e il male, divisioni razziali, il libero arbitrio contro il destino, e
l’uomo a confronto con l’irreale o l’ignoto 5. Questa classificazione, per quanto arbitraria e
non necessariamente esaustiva, contiene in nuce gli elementi di drammatizzazione che
danno vita a qualsiasi storia incentrata su membri della razza umana. Traine di vendetta,
imprigionamento e liberazione, inseguimento, rapimento, crudeltà e sventura, rivalità tra
familiari o tra superiore e inferiore, crimini d’amore volontari o involontari, ambizione,
rimorso, giudizio erroneo... e poche altre variazioni che girano sempre intorno agli stessi
temi, costituiscono le linee direttive per lo svolgimento di qualsiasi trama letteraria. A voi
la sfida di trovarne altre.
E a voi la questione se, dietro a ciascuna di queste trame, non c’è la linfa di una
conflittualità a muovere la storia. Un personaggio, un obiettivo, problemi, e come essi
vengano o meno affrontati e risolti. Questo è il filo conduttore di un intreccio narrativo.
L’originalità dell’autore, dunque, non sta tanto nell’ideare trame inedite, quanto
nell’ordire tessuti nuovi sul vecchio telaio dell’umanità.
4 John Gardner, Il mestiere dello scrittore, Genova, Marietti, 1989, p. 80.
5 Henry Albert Phillips, The Plot of the Short Story, Springfield, Mass., The Home Correspondence School,
1920, pp. 74-77.
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3.2 LE CINQUE “W”
Per accertarsi che il tessuto di una storia tenga, vale la pena rispondere mentalmente
a cinque domande di base prima di mettersi al lavoro su un racconto. Queste domande,
che non differiscono poi molto dagli schemi retorici antichi per l’organizzazione di un
valido discorso, corrispondono oggi alle cinque “W” della scuola anglosassone di
giornalismo: who, what, where, when, why. Chi, cosa, dove, quando, perché.
Who si riferisce al personaggio, al protagonista delle vicende raccontate. Se è vero che
nei circoli letterari di una volta si discuteva su cosa fosse più importante sviluppare in
una storia, la trama o il personaggio, oggi si tende ad identificare la trama proprio con il
personaggio. Ed è giusto che sia così. È attraverso il personaggio, le sue motivazioni,
ambizioni, problemi e aspirazioni, che si snoda il filo della trama. Ci soffermeremo in
dettaglio sull’importanza e la tipologia del personaggio nei capitoli seguenti.
What si riferisce al “cosa succede”: l’incidente, l’avvenimento portante della trama, ciò
che può disturbare o alterare le azioni e le reazioni dei personaggi. Una malattia, la morte
di una persona cara, un amore non corrisposto, tanto per menzionare alcuni degli
“incidenti” più comuni che forniscono alla narrativa la sua forza motrice. Spesso al what
segue un climax, o momento della verità, in cui esplode concretamente la conflittualità
insita nei personaggi e nelle situazioni.
Where e when corrispondono alle unità aristoteliche di luogo e di tempo. Si riferiscono
all’ambientazione: alla località e al periodo storico, stagionale, ecc. in cui si svolge
l’azione. Servono per definire e meglio caratterizzare una trama narrativa inserendola in
un preciso contesto spazio-temporale.
Why è una domanda che ogni scrittore dovrebbe porre a se stesso — e quindi ai suoi
lettori, tramite i suoi personaggi — prima di cimentarsi in qualsiasi lavoro letterario.
Molta narrativa pubblicata al giorno d’oggi risulta tecnicamente impeccabile ma carente
di una motivazione centrale. Una motivazione, il perché (e per chi) scrivete, dovrebbe
secondo me essere l’asse portante delle altre quattro “W”, in definitiva, la ragion d’essere
di un’opera letteraria degna di tale nome. Solo dalla linea direttiva della vostra
motivazione potrà seguire un’autentica spinta propulsiva nei vostri personaggi. I
capolavori della letteratura mondiale, quelli che rimangono nel tempo, sono quasi sempre
incentrati sulle più profonde motivazioni dei loro protagonisti, sulla falsariga di quelle dei
loro autori.
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Nella maggior parte delle opere letterarie, anche di gran lunga antecedenti alla scuola
britannica di giornalismo, si può rintracciare un ordito di trama che risponde alle cinque
“W”. Tanto per fare un esempio classico, consideriamo l’Odissea. Il who del poema
omerico, il suo protagonista principale, è Ulisse. Figura umana tra le più ricche che la
poesia greca abbia creato, egli contiene in sé, nei tratti della sua personalità, gli elementi
essenziali che muovono i temi e gli avvenimenti del poema. La sua insaziabile curiosità di
conoscere, l’astuzia e il coraggio, uniti all’amore per la terra natia, alimentano il “motore
propellente” della trama: gli episodi salienti del poema, a cominciare dalla lotta con
Polifemo, ci mostrano un Ulisse deciso ad andare fino in fondo alle cose e corrispondono
tematicamente, coerentemente alla sua personalità, al suo arrivo a casa, dove, prima
ancora di farsi riconoscere da Penelope, Ulisse vuole vedere e sapere tutto in prima
persona. Il “richiamo” della sua sete di conoscenza, insieme al richiamo della madre
patria, danno luogo a tutte le sue maggiori imprese e quindi alla trama del poema. Il
what della trama, sia pur spezzettato nella complessa struttura episodica dell’ Odissea, si
può riassumere essenzialmente nelle avventurose navigazioni di Ulisse e nel suo ritorno a
casa. Ma ancora più in sunto, l’elemento portante del what, il “che cosa succede” dietro
tutti gli episodi, è il conflitto fra la volontà (il libero arbitrio) del protagonista e le difficoltà
che gli frappone il destino. La guerra di Troia, che ha causato l’allontanamento iniziale di
Ulisse dalla sua terra, non è che uno spunto, nell’Odissea, per generare la tensione verso
il suo ritorno a casa, attorno a cui ruota tutta la trama.
Il when, il tempo in cui si svolge l’opera, è, come nell’Iliade, contenuto in quaranta
giorni: da quando Ulisse abbandona l’isola di Calipso a quando, sterminati i Proci, egli
riprende possesso della sua casa e del suo regno. È importante notare, però, che il tempo
totale della sua assenza da casa — guerra di Troia e viaggi inclusi — è di ben venti anni,
periodo di sufficiente lunghezza da rendere credibile la non-riconoscibilità di Ulisse al suo
ritorno a casa. Questa “trovata”, fondamentale nella seconda metà dell’Odissea, utilizza
propriamente la dimensione tempo ai fini della trama.
Il where, il Mar Mediterraneo, è abbastanza ampio da dare adito alle più svariate
situazioni e da conferire un’aura di epica vastità alle peregrinazioni di Ulisse, ma
soprattutto serve a rafforzare il senso di nostalgia e il desiderio di ritorno che egli prova
nei confronti della sua isola lontana. Il when e il where, con la loro ampiezza, supportano
il tema dominante della lontananza forzata da casa e della volontà del ritorno: tema
portante nell’Odissea sia per contrasto — come valore di vita stabile da ritrovare dopo le
innumerevoli “deviazioni” — sia come globale motivazione che regge l’opera intera.
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Nel why, accanto al tema del “ritorno”, emerge il valore eroico del personaggio di
Ulisse, determinato a superare un ostacolo dopo l’altro con esemplare forza di volontà. È
questo valore umano, forse, il why ultimo che ha spinto Omero a comporre il suo lavoro
creativo. Che poi Omero sia esistito o meno non ha importanza. Anzi, se quest’opera è
stata scritta a più mani e ci è comunque pervenuta nella sua integrità, a maggior ragione
possiamo confermare che essa è retta dallo spirito — personale o collettivo — di chi l’ha
concepita. Per dirla con Croce, «quel che sempre sormonta nel suo [di Omero] sentire e lo
conclude, è l’idea della volontà eroica» 6. Ciò che il Croce chiama la «volontà eroica» nello
spirito di Omero è un tratto essenziale dell’umanità più nobile di quei tempi, di cui Ulisse
è modello. Così, il why dell’opera coincide con la missione vitale di Ulisse: un obiettivo da
raggiungere, e la ferma volontà di raggiungerlo sormontando ogni difficoltà.
Ora, per tornare a noi, io nei workshops di scrittura creativa chiedo ai miei studenti di
ordire una trama letteraria a loro scelta, purché essa contenga tutte e cinque le “W”.
Questo non per delimitare la loro struttura immaginativa ad uno schemino fisso, ma al
contrario, per costringerli ad ampliare un loro spunto originale “traducendolo” il più
pienamente possibile da un embrione di idea ad un corpo narrativo.
La trama, infatti, non deve seguire uno schema particolarmente lungo o complicato;
anzi, la sua efficacia sta proprio nella sua riducibilità a dati elementi universalmente
riconoscibili. Ciò non significa ridurre la letteratura a queste formulette: sarebbe come
voler ridurre una bella donna al suo scheletro. Non ci s’innamora di uno scheletro e
nessuno, credo, si è mai innamorato di una trama letteraria. D’altra parte, la trama è
quell’ossatura senza la quale il racconto non reggerebbe. Poi, la letteratura cresce e
seduce in tutto ciò che riveste la trama: nelle sue forme, nei suoi movimenti, nelle sue
palpitazioni, nella passione che prorompe in lei e attorno a lei...
6 cit. da Benedetto Croce, nel Dizionario letterario delle opere e dei personaggi, vol. V Milano, Bompiani,
1957.
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3.3 DALL’IDEA ALLA TRAMA LETTERARIA
Abbiamo già parlato, nel cap. 1, dell’idea del carpe diem e, per contrasto, delle
occasioni perdute. Questo tema è tanto fertile in letteratura quanto diffuso nella realtà di
ognuno di noi. Se ci sfilassero davanti agli occhi tutte le occasioni che ci siamo lasciati
sfuggire, probabilmente impazziremmo. Dopo aver letto una variante di questo tema nel
racconto “I giorni perduti” di Dino Buzzati, alcuni miei corsisti hanno attinto dal loro
pozzo tragico-fantastico di vite non vissute e le hanno sublimate in forma letteraria.
Ecco una trama basata sulle cinque “W”, comprensiva di conflitto interiore, climax e
denouement, ideata da una partecipante ad un mio workshop di scrittura creativa e
susseguentemente trasformata in soggetto cinematografico. Prossimamente (con i miei
migliori auguri, Aurelia!) sui vostri schermi...
LA VERA VITA
(trama letteraria di Aurelia Fontana)
WHO:
Maria, ragazza timida sui 30 anni, lavora nello studio di un commercialista con
attenzione e precisione. Ha un’amica dai tempi della scuola, che lavora nello stesso
palazzo.
WHAT:
L’amica, all’insaputa di Maria, le organizza un appuntamento tramite un’inserzione sul
giornale. Maria ci va.
WHEN/WHERE:
Inverno. La piazza principale della città. Maria resta nascosta nella sua auto a
guardare l’uomo ma non si fa riconoscere.
WHY:
Non perché lui non le piaccia, ma perché ha paura di quello che potrebbe succedere alla
sua vita, paura del futuro che non conosce. [Ostacolo interiore: la paura, che le impedisce di
vivere la sua vera vita]
CLIMAX:
La primavera seguente Maria incontra l’uomo del suo appuntamento: ha il braccio
intorno alle spalle di una ragazza che ride felice. Maria è colpita dalla felicità della ragazza
e si sente in qualche modo derubata come se questa felicità spettasse a lei. Li segue
scoprendo così dove la ragazza vive. Da allora, in ogni momento libero, Maria non fa altro
35
che seguire la ragazza e spiarne la vita, ossessionata dall’idea che questa sarebbe stata la
sua vita se lei...
DENOUEMENT:
Dal giorno in cui la ragazza cambia casa (va a vivere nella città di lui), Maria gira
cercandola in lungo e in largo per le strade della città, non va più a lavorare, si lascia
andare a vivere come una barbona, farneticando e chiedendo a tutti della sua VERA VITA 7.
Notate come tutti gli elementi di questa storia in nuce siano significativamente
connessi ad un “filo” invisibile. La timidezza della ragazza in apertura non è un dettaglio
buttato lì a caso, ma un tratto saliente che si rivelerà l’ostacolo interiore fatale alla
realizzazione della sua felicità. La sua iniziale «attenzione e precisione» al lavoro è posta
in contrasto alla pazzia farneticante finale. I pedinamenti segreti e l’ostinato non rivelarsi
di Maria sono le armi masochistiche con cui ella pedina la propria stessa infelicità senza
avere il coraggio di fare qualcosa, in un continuo crescendo di tensione emotiva. E così,
passo dopo passo, il taglio drammatico di questa storia è accentuato e ampliato durante
tutto il suo svolgimento.
Ogni elemento può e deve rientrare in una linea direttiva, poiché una trama ben
ideata è la sapiente concatenazione di azioni e reazioni messe insieme in modo da rivelare
la carica drammatica ed emotiva della narrazione, che si tratti di un racconto, di un
romanzo o di un film.
7 Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Milano, Mondadori, 1966, p. 7.
36
3.4 COERENZA, RITMO E CREDIBILITÀ
Per massimizzare l’efficacia di una trama e del racconto che ne segue il filo, è bene
attenersi ad alcune regole generali. La più importante — un’implicita conditio sine qua
non della narrativa — concerne la coerenza interna del testo. Ogni personaggio, ogni
scena, ogni particolare di ogni scena, deve avere un senso propriamente inserito nel
senso più globale della storia. Quante volte uno scrittore principiante è tentato di
aggiungere una “bella frase”, o una scenetta divertente, anche quando essa non ha nulla
a che fare con lo svolgimento della storia! Ma qualsiasi trovata, per quanto brillante, non
farà altro che confondere il lettore se non rientra nel contesto ben preciso della trama.
Lo scrittore consumato tiene sempre un taccuino pieno di “trovate brillanti” da
utilizzare prima o poi, sa esattamente dove e quando inserirle, e soprattutto sa dove non
inserirle. Facciamo un esempio: se state scrivendo una detective story, la cui linea
direttiva riguarda la scoperta del colpevole di un furto, sarebbe del tutto irrilevante, o
peggio ancora fuorviante, lanciarsi in una diatriba sul femminismo, forse spinti solo da
un’appassionata conversazione avuta la sera prima a casa di amici, il cui contenuto
vorreste immortalare nel vostro libro, a meno che questa non diventi una parte integrante
della vostra storia, ovvero riveli un tratto di qualche personaggio che poi condurrà alla
soluzione del mistero. Se d’altra parte la discussione sul femminismo non porta avanti la
storia, lasciatela perdere! La inserirete, semmai, nel vostro prossimo romanzo, la cui
protagonista sarà una femminista alle prese con un maschietto prepotente e ottuso, ecc.
«Una rosa è una rosa è una rosa», scrisse il poeta americano Ezra Pound. Ed io vi
dico: «Un giallo è un giallo e soltanto un giallo». Non mischiate disarmonicamente gialli,
rosa e neri, se non volete fare un gran pasticcio letterario e tradire i fedeli lettori di gialli,
di rosa, di neri... E questa regola vale anche al di là di qualsiasi particolare genere
letterario. Ogni scritto contiene un patto implicito con il lettore, sin dalle prime righe.
Questo patto è la coerenza interna del testo, la sua coesione propria di “corpo narrativo”.
Tutto questo non significa che non si possa di quando in quando fare una digressione
dal tema principale. Lo stesso Shakespeare usava magistralmente l’arte della digressione
nei suoi interludi comici per dare qualche attimo di sollievo al clima incombente di
tragedia delle sue più grandi opere. Ma a meno che non siate un novello Shakespeare,
state molto attenti a non divagare gratuitamente, o perderete la metà dei vostri lettori per
strada. Come regola generale, ogni atto deve avere un suo scopo e un suo posto nel
contesto narrativo.
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La considerazione che segue a ruota riguarda il ritmo narrativo. La trama è,
fondamentalmente, azione (o azione intellettuale, come nel caso di un detective). È inutile
e controproducente soffermarsi su descrizioni esterne alla trama, perché queste non
fanno che rallentare il ritmo della storia e distrarre il lettore. Alcune descrizioni fisiche di
ambiente e personaggi sono necessarie, ma dilungarsi troppo in dettagli o peggio ancora
in “riempitivi” equivale a distogliere l’attenzione dall’essenziale. Certo, non si può correre
come un treno dall’incidente iniziale al denouement finale. Qualche pausa strategica, o
una sottotrama che scorra lungo la storia come un binario parallelo, può essere inserita
ad hoc lungo il percorso, come vedremo nel capitolo sugli espedienti retorici. Ma salvo
queste eccezioni, mai distogliere o annoiare il lettore con esposizioni eccessive che
spezzano il ritmo di una narrazione.
Questa disciplina vale oggi più che mai, con la concorrenza spietata di cinema,
televisione e altre forme di narrativa visiva dal ritmo scenico accelerato. Se un
personaggio si sposta dall’ufficio a casa e lungo il percorso non avviene niente di
rilevante, è inutile descrivere in dettaglio come entra in macchina, ecc. Si può facilmente
chiudere un paragrafo con il personaggio che esce dall’ufficio ed aprire il seguente con il
suo ingresso in casa. Lo stesso dicasi per qualsiasi intervallo di tempo morto o per
descrizioni ovvie che possono essere supplite dall’immaginazione del lettore. In breve:
evitare transizioni inutili.
Infine, qualche raccomandazione sulla credibilità di una storia. Credibilità non è
sinonimo di realismo. Anche la fantascienza più immaginativa, anche il realismo magico,
la fantasy, l’horror e altri generi altamente immaginosi rispondono ad alcune regole
imprescindibili di credibilità interna. Se un personaggio viene gravemente ferito in un
combattimento, non lo si può mostrare in perfetta forma il giorno dopo (a meno che non
vi sia una cura magica spiegata ed accettata nel “mondo” della vostra storia). Se il vostro
protagonista ha perso il cappello, non potete più mandarlo in giro con il suo cappello in
testa, a meno che non glielo facciate prima ritrovare! Queste e simili “sviste”, non del
personaggio ma dell’autore, sono più comuni di quanto non si pensi. Un’altra classica
svista è il cambiamento di nome di qualche personaggio minore nel corso di un romanzo.
Per questo, si consiglia all’autore di compilare un “indice” o promemoria durante la sua
prima stesura, per tenere simili errori sotto controllo...
S. T. Coleridge, nel saggio critico Biographia Literaria, parlava della «sospensione
volontaria dell’incredulità», ovvero della “fede poetica” di un lettore o spettatore teatrale,
che sospende volontariamente la sua razionale incredulità, immergendosi pienamente nel
mondo fantastico di una storia, quando questa è raccontata secondo le sue leggi interne
38
di credibilità. Tale “immersione” è uno dei più bei miracoli che possa compiere la mente
umana, paragonabile ad un viaggio nello spazio, nel tempo, in personaggi inesistenti
eppur viventi nell’uomo! È un vero peccato che tutto questo crolli, nel momento in cui il
lettore coglie l’autore in fallo, quando cioè avverte una svista del tipo di cui sopra.
L’errore “infrange” per così dire la credibilità dalla storia.
A volte si riscontrano errori che non sono soltanto “sviste” di distrazione, ma che
denunciano l’incompetenza e la pigrizia dell’autore. Quando in un romanzo o in un film
avviene che uno scalatore assicuri il compagno tenendo la corda solo con le mani senza
l’ausilio di chiodi e moschettoni, la scena rivela un autore o un regista poco pratico del
mestiere e troppo pigro per informarsi. Addio sospensione dell’incredulità! E quelle partite
a scacchi totalmente idiote che sono talvolta inserite in un telefilm tanto per far passare il
tempo narrativo, fanno andare in bestia uno spettatore scacchista come me...
Un sistema semplice ma limitante per ovviare a questi problemi di credibilità, è
trattare di qualcosa che si conosce già bene. Un metodo più laborioso consiste nel
condurre accurate ricerche sul soggetto. Rendiamo omaggio al grande romanziere
d’avventure Emilio Salgari che, pur senza mai essere stato in Indonesia o nel Mar dei
Caraibi, vi ha trasportato i suoi lettori in avvincenti storie di pirati e di corsari che
sembravano vissute (ogni colpo di kriss, ogni pappafico issato o ammainato, una goccia di
sudore del suo ampio lavoro di ricerca).
Per tirare i fili del discorso: tutti gli elementi di una storia devono sia avere un senso
proprio ed esatto, sia concordare coerentemente con tutto il resto. Dal più piccolo
dettaglio al più macroscopico avvenimento, ogni singolo elemento narrativo deve potersi
ricucire al proprio scampolo di trama, al filo invisibile che fa di una narrazione un corpo
letterario.
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3.5 AL LAVORO!
Adesso sta a voi creare una trama letteraria sul tema delle occasioni perdute. O, per i
più ottimisti, su un’occasione perduta e riacciuffata. In ambo i casi, attenzione alle
cinque “W”!
Per un ulteriore esercizio, vi do io cinque “W” da sviluppare:
who: un impiegato annoiato, scontento del proprio lavoro
what: viene mandato in cassa integrazione
where: una grande città italiana che vi è familiare
when: tarda primavera. Ambientato al giorno d’oggi
why: reagire ad una crisi economica/esistenziale.
A voi il compito di ampliare le cinque “W” e di continuare questo abbozzo di trama,
trasformando, se potete, la noia esistenziale dell’ex-impiegato in una nuova risoluzione di
vita.
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4 STILE E CONTENUTO
41
4.1 LO STILE: ORNAMENTO O ESSENZA?
Un bravo sarto non si limita a cucire insieme i vari pezzi di tessuto che compongono
un vestito, ma dà al suo prodotto un aspetto, o uno stile, che lo contraddistingue da altri
vestiti anche dello stesso tessuto. Come il modello di un abito è composto, oltre che dalla
stoffa e dai colori, anche dalla piega dei risvolti, dall’abbottonatura, dalla stiratura, ecc...
così il “taglio” che uno scrittore dà alla propria “stoffa” letteraria, ne determina il modello
narrativo.
Un autore che voglia creare un testo non può limitarsi a tessere insieme gli elementi
della trama in modo che “tengano”; deve distinguerli da quelli di altre simili trame (che,
come abbiamo visto nel capitolo precedente, si rifanno tutte a pochi classici schemi; come
del resto un vestito, per quanto originale, ha pur sempre due buchi per le braccia, uno
per la testa, e così via), conferendovi quel tocco personale che caratterizza il suo
particolare lavoro. Il tocco di cui parliamo è lo stile. Gli strumenti sono le parole. Il sarto
sei tu.
Consideriamo ad esempio un microtesto che definisce, in maniera lineare, l’idea della
bellezza come «la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi». Questa
rappresentazione a parole del concetto di bellezza è la prima definizione dal Nuovo
vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli. Corrisponde alla vostra? Provate ora a
condurre questo esperimento: chiedete separatamente a dieci persone di darvi la loro
versione a parole del concetto di bellezza. Ognuno vi esporrà la sua idea con parole
diverse!
Non si tratta semplicemente di uno scambio di sinonimi verbali. Le parole che
ciascuno usa sono come piccole entità viventi che danno, ognuna, una particolare
rappresentazione della variegata molteplicità del mondo. Ogni parola mette in risalto) una
visione diversa, anche dal medesimo contenuto. Un fiore, una donna, un’alba, un
tramonto, possono racchiudere diversi aspetti del “bello”, che a sua volta si può rendere
in forme differenti: in misura attenuata tramite il suo opposto: “non brutto”; rafforzato
con un superlativo: “bellissimo”; rappresentato visualmente attraverso un’immagine:
“solare”; con un colore evocativo: “rosa”; con una descrizione fisica sensuale: “formosa e
dalle labbra calde e carnose”; o spirituale: “il suo volto velato da una patina di nobile
sofferenza”. Tutto questo — e molto di più — può costituire il concetto di “bello” per una
persona o per un’altra.
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Se è vero che le parole significano qualcosa, è anche vero che i loro significati più
sottili possono essere uno, nessuno, centomila... Quindi non basta dire che una cosa o
una persona è “bella”. È come lo si dice che determina la particolare sfumatura di
bellezza che si vuole rendere. In definitiva, è lo stile di chi parla (o scrive) che assegna ad
ogni elemento quel tratto personale, unico, essenziale.
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4.2 STILE VS CONTENUTO
Lo stile, ovvero la scelta di parole e locuzioni adatte ad esprimere un certo contenuto,
è parte integrante dell’anima stessa del contenuto. Chissà perché si usa separare questi
due aspetti della narrativa come se non fossero un tutt’uno. Forse è perché spesso,
purtroppo, non lo sono. Nella realtà dei fatti, non sempre uno scrittore riesce ad
“animare” la propria composizione con uno stile che rispecchi e metta in risalto il suo
contenuto. Quante poesie d’amore appaiono banali o addirittura luoghi comuni, mentre il
contenuto dell’amore — per chi lo prova — è così unico e speciale! Quanti manuali,
ahimé, si presentano complicati ed astrusi, quando la loro funzione dovrebbe essere di
chiarire, spiegare, semplificare! E quanti romanzi riescono a suscitare le emozioni che
intendono trasmettere?
Quando il contenuto di uno scritto non “smuove” qualcosa in chi legge, il problema
risiede il più delle volte in una forma espressiva inadeguata. Nel come, più che nel cosa
viene detto. La quasi totalità dei casi di “corrispondenza negativa” tra autore e lettore è
causata proprio dall’insufficienza dello stile rispetto al contenuto. Ciò avviene, in parole
povere, quando la cosa che si dice non è detta come si deve.
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4.3 DUE NEMICI DEL VOSTRO STILE
Questo manuale non intende propinarvi una casistica su come “si deve” dire ogni
determinata cosa. Nessuno può “insegnarvi” il vostro modo di esprimervi, né ciò sarebbe
desiderabile: ucciderebbe l’anima del vostro modo di essere! Quello che ci proponiamo di
fare è, piuttosto, seguire un cammino che liberi il vostro modo di essere e quindi dia voce
e forza espressiva al vostro stile.
I due nemici da affrontare e sgominare prima di tutto sono la pigrizia e la paura. Sì: la
tua pigrizia, e la tua paura.
Tutti noi siamo pigri. Se adocchiamo una scorciatoia siamo subito tentati di lasciare
la via maestra. D’altro canto, quando ci vengono date regole o binari da seguire,
rinunciamo troppo facilmente a chiedere a noi stessi quali sono le nostre regole, i nostri
binari. In entrambi i casi è facile perdersi per strada, cioè perdere se stessi nell’illusione
di seguire una scorciatoia, o una via più comoda in quanto già battuta da altri. Che cosa
c’entra tutto questo con lo stile? C’entra moltissimo. C’entra esattamente con il vostro
stile: con il vostro modo, unico ed irripetibile, di partecipare all’esperienza del mondo e di
rappresentarla con le vostre parole.
Quando provate un’emozione, provate qualcosa. Ma se scrivete su carta: «Ho provato
un’emozione», il vostro ipotetico lettore non proverà un bel niente. Perché? Perché siete
stati pigri. Avete preso una scorciatoia e al tempo stesso vi siete lasciati guidare dal
binario del vocabolario che automaticamente traduce ciò che avete provato con la parola
“emozione”. E magari credete di avere scritto qualcosa di emozionante...
Ricordate il primo assioma dello scrittore? Show, don’t tell! Fateci vedere ciò che avete
provato! Niente scorciatoie! Siete stati quasi aggrediti da un cagnolino, di quelli che
abbaiano come dei forsennati e sul momento avete fatto un balzo sul marciapiede dalla
paura, ma poi vi è venuta una gran voglia di sferrargli un calcio fra i denti e mandarlo a
ruzzolare fin dall’altra parte della strada? Bene, allora buttatela fuori, questa vostra (o del
vostro personaggio) emozione. Esprimetela con tutte le personalissime parole che vi
emergono dal dentro della vostra emozione. Questo è il vostro stile, ed è l’unico modo per
esprimere il vero contenuto dell’emozione che volete rappresentare.
La “scorciatoia” sarebbe riassumere l’esperienza invece di rappresentarla. Dirla invece
di mostrarla. Solo mostrandola la si può far vivere in pieno al lettore! I “binari battuti”,
d’altra parte, sarebbero delle emozioni prese pigramente in prestito o scopiazzate da altri
senza averci messo nulla di proprio, di sentito. In entrambi i casi, il filo diretto che
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dovrebbe connettere l’autore al lettore si spezza, perché il lettore si sente trascurato dalla
sommarietà, dall’imprecisione o dall’artificialità della narrazione.
Dunque la regola da ricordare sempre è: impedire alla propria pigrizia di prendere il
sopravvento. Mai fermarsi al primo luogo comune che passa per la testa. Usate invece
tutte le vostre facoltà immaginative e linguistiche che riflettono il vostro contenuto, e
trasferitele integralmente nella narrazione.
A questo punto s’insinua il secondo nemico: la paura. Non la paura del cane di cui
sopra, ma paure più interiori, più sottili e difficili da ammettere persino davanti a se
stessi. La paura di sbagliare, di non sapersi esprimere, di essere fraintesi o peggio ancora
rifiutati. Forse ancor peggio, la paura di rivelare qualcosa di voi che non avreste voluto
rivelare.
Se questo è il caso, vi consiglio di rinunciare a scrivere narrativa. Scrivere storie —
anche quelle apparentemente più “inventate” — è sempre un atto eminentemente
personale e quindi un atto di coraggio. La paura di esporvi vi condurrebbe nello stesso
mar morto dove giace la pigrizia: luoghi comuni, strade battute, emozioni senza spirito.
Ma la vostra storia non è un luogo comune! È la vostra storia. Unica ed irripetibile. Solo
voi potete darle il suo esatto taglio. Con le vostre parole.
Ovviamente non potete prescindere da una conoscenza degli strumenti lessicali e
grammaticali che compongono l’arsenale di uno scrittore, a meno che non vogliate
sentirvi insicuri e timorosi di sbagliare ogni volta che vi accingerete a scrivere qualcosa.
Una certa dimestichezza con la lingua è indispensabile, se non altro per muoversi
consapevolmente da una frase all’altra e quindi fronteggiare con le dovute armi il nemico
primario, la paura di sbagliare. Ma una volta che avete imparato a cucire insieme due
frasi, superate questa paura! Questo passo non è certo un affare che si conclude in un
momento, ma alla fin fine bisogna pur compiere il salto di qualità dallo studio della
grammatica come strumento impersonale, all’uso della lingua come mezzo espressivo
vostro. Conoscere le regole per scegliere dove, quando e perché inserirvi il vostro tocco
personale.
Se riuscirete a realizzare questo salto, a dire esattamente quello che volete dire con le
frasi che voi avete scelto fra le miriadi possibili, ecco che, come per magia, si
dissolveranno i due nemici e si stabilirà una corrispondenza positiva, un “filo diretto” fra
voi e chi vi legge. Il lettore potrà conoscervi, anzi riconoscervi, attraverso le vostre parole,
il vostro stile. Solo così si attuerà anche il connubio magico fra stile e contenuto: la
materia prima del racconto prenderà forma proprio come voi l’avrete voluta forgiare.
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4.4 TRE ESEMPI DI NARRATIVA IN STILE
I seguenti passi letterari sono tratti da tre diversi romanzi di uno stesso autore.
Premio Nobel. D’oltreoceano. Siete in grado di riconoscerlo a prima vista?
47
4.4.1
Gli strilli di Amaranta Ursula, le sue canzoni agoniche, esplodevano sia alle due del
pomeriggio sul tavolo della sala da pranzo, che alle due del mattino nel granaio. — Quello
che più mi spiace, — rideva, — è tutto il tempo che abbiamo perso. — Nello stordimento
della passione, vide le formiche che devastavano il giardino, saziando la loro fame
preistorica coi legni della casa, e vide il torrente di lava viva che si impadroniva di nuovo
del portico, ma si preoccupò di combatterlo soltanto quando lo trovò nella sua stanza 8.
8 Gabriel Garda Márquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 414.
48
4.4.2
Il suo domestico più antico lo trovò che galleggiava sulle acque depurative della vasca
da bagno, nudo e con gli occhi aperti, e credette che fosse annegato. Sapeva che era uno
dei suoi molti metodi per meditare, ma lo stato di estasi in cui giaceva alla deriva sembrava
quello di chi non appartiene più a questo mondo. Non si azzardò ad avvicinarsi, ma lo
chiamò con voce sorda secondo l’ordine di svegliarlo quando non fossero ancora le cinque
per mettersi in marcia alle prime luci. Il generale emerse dalla malìa, e vide nella penombra
gli occhi azzurri e diafani, i capelli crespi color scoiattolo, la maestà impavida del suo
maggiordomo di tutti i giorni che reggeva in mano la ciotola dell’infuso di papavero con
gomma arabica. Il generale strinse senza forza le anse della vasca da bagno, ed emerse
dalle acque medicinali in uno slancio da delfino che non ci si sarebbe aspettati da un corpo
così infiacchito 9.
9 Gabriel Garda Márquez, Il generale nel suo labirinto, Milano, Mondadori, 1989, p. 9.
49
4.4.3
Contrariamente a quanto faceva credere la sua corpulenza, Lotario Thugut aveva un
pisellino da cherubino che sembrava un bocciolo di rosa, ma questo doveva essere un
difetto fortunato perché le comete più appannate si contendevano la fortuna di dormire con
lui, e le loro urla da sgozzate scuotevano i contrafforti del palazzo e facevano tremare di
paura i suoi fantasmi. Si diceva che usasse una pomata al veleno di vipera che
infiammava la sella turcica delle donne, ma lui giurava di non avere risorse diverse da
quelle che Dio gli aveva dato. Morto dal ridere diceva: — È puro amore 10.
10Gabriel Garcia Márquez, L’amore ai tempi del colera, Milano, Mondadori, 1986, p. 71.
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Nessuno potrà mai accusare Gabriel Garcia Márquez (lo avete riconosciuto?) di
mancare di coraggio, né di personalità espressiva... Ma che cos’è che lo contraddistingue,
come un’impronta digitale unica e inconfondibile, fra le migliaia di autori di questo
mondo? Precisamente il suo stile. Uno stile forbito e insieme spregiudicato, con un
linguaggio roboante, rocambolesco e paradossale che dipinge a vivi colori le situazioni (il
contenuto) in questione: la passione di una donna in mezzo a un «torrente di lava viva» di
formiche divoratrici; il generale che medita come un morto e poi salta su della vasca da
bagno «in uno slancio da delfino»; il dongiovanni che fa «urlare da sgozzate» le donne dal
piacere...
Sarebbe possibile descrivere le stesse cose in uno stile diverso? Certamente, ma non
sarebbero più le stesse cose. Le paradossali stramberie dei personaggi e delle loro
situazioni sono sottolineate da Márquez con immagini inusitate e con ossimori:
accostamenti di termini dai significato contrastante. Per esempio voce sorda e difetto
fortunato, rispettivamente dal secondo e dal terzo brano. Tali figure retoriche erano
chiamate in causa sin dall’antichità per la loro particolare funzione espressiva che
colpisce chi legge con un paradosso verbale. Essere creativi parte proprio da qui, dalla
capacità di trasmettere il senso complessivo di una scena attraverso un linguaggio
figurato che rinforzi e vivifichi il suo stesso contenuto. La creatività espressiva di un
Márquez non è dovuta soltanto al suo genio innato, ma appoggia su classici stratagemmi
della retorica, questo ricettario espressivo del linguaggio. Conoscere il vecchio e
rimpastarlo per creare il nuovo. Ricette culinarie, curative e letterarie sono centrifugate
insieme costringendo il lettore a tuffarsi, per così dire, nel grottesco vortice di queste
narrazioni. Lo stile di Márquez potrà anche fare arricciare il naso a qualcuno per la sua
visceralità, ma proprio per questo viene fuori tanto più autentico, più suo,
paradossalmente verace, come l’essenza latino americana che rappresenta.
51
4.5 STESSA SCENA, STILI DIVERSI
Proviamo adesso a cambiare stile ad una medesima scena. Consideriamo la seguente
situazione:
Una signora ha difficoltà a scendere dal treno, finché un signore le tende ambo le
braccia, e lei in qualche modo salta giù.
Questa scena può essere visualizzata in diversi modi, ad esempio:
1) oggettivamente, senza commenti
2) drammaticamente
3) umoristicamente
4) romanticamente
Per ogni singolo “taglio” va scelto uno stile diverso, o le parole più adatte a forgiare un
particolare tipo di “corpo” attorno a questa mini-ossatura di trama.
Già la parola “signora” si presta a diverse varianti che possono subito dare un taglio
rispetto ad un altro: vecchia, vecchietta, donnona, dama del gentil sesso, bruttona, tipa,
o semplicemente donna. Ognuna di queste parole contiene in sé un’“anima” diversa,
vero? Non solo. Ci si può poi soffermare su questa nostra protagonista e farla vedere così:
1) Oggettivamente, precisandone l’età (settantenne), lo stato fisico (gracile, piccolina,
gambe troppo corte per gli alti scalini del treno), il vestito (gonna lunga, scarpe coi
tacchi). Questi dettagli descrittivi oggettivi già anticipano la sua difficoltà nello scendere
dal treno, senza ancora dare una connotazione emotiva all’episodio.
2) Per creare un effetto di drammaticità, si può mettere in risalto che questa anziana
signora ha urgenza di scendere, ha avuto un malore e sta per svenire per il gran caldo e
la ressa; è la prima ad aprire la porta del treno, seguita da una pressante coda di gente,
ma non riesce a fare il lungo passo finché non arriva quel provvidenziale signore che la
assiste nella discesa.
3) Totalmente comico può invece risultare il contrasto tra la classe sociale di questa
signora — distinta, altezzosa, col nasino all’insù — e la sua goffaggine nell’affrontare il
primo gradino, aggrappata disperatamente alla maniglia verticale e visibilmente timorosa
di finire a terra con un capitombolo.
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4) Romantico può essere l’atteggiamento di questa signora, che, anche se in età
avanzata, attira a sé con uno sguardo l’uomo sul marciapiede e gli tende le braccia in
uno slancio di audace richiesta di galanteria.
Queste quattro diverse introduzioni possono indurre rispettivamente curiosità,
apprensione, una risata o un sorriso. Dopodiché, come una trama deve rispettare le sue
leggi di coerenza interna, così lo stile di una data scena dovrà mantenere fino in fondo le
sue intrinseche promesse. Ogni gesto della signora — la sua difficoltà nello scendere, le
sue braccia tese, il modo in cui salta giù — deve continuare a corrispondere al “taglio”
che vi abbiamo impresso in modo da caratterizzare la scena. Se il momento è
drammatico, eviteremo di far scivolare la nostra povera signora sulla classica buccia di
banana; mostreremo invece le sue braccia tremanti, il suo sforzo e il miracolo di
equilibrio con cui riesce a tenersi in piedi nonostante la calca che preme alle sue spalle.
Se d’altra parte il momento è comico, non entreremo con troppo pathos nello stato
emotivo di questa signora, ma ne evidenzieremo le incongruenze fisiche e di
comportamento: la signora evita qualsiasi contatto con la folla, ma quando sta per cadere
si butta teatralmente addosso al primo passante per non finire a terra come una patata.
Rendo l’idea? Ogni immagine, ogni passo di ogni trama narrativa, ogni momento
descrittivo o d’azione può essere reso in migliaia di modi diversi. La signora può saltare
giù dal treno agitando le braccia, sgambettando, in silenzio o borbottando o imprecando,
irrigidendosi tutta o affidandosi anima e corpo al suo uomo, il quale a sua volta può
essere salvatore o importuno, galante o scostante, o come che sia.
How.
Come. Questo pronome interrogativo, dopo le cinque “W”, è la chiave del vostro stile:
come presentare il vostro contenuto.
53
4.6 FILO DIRETTO DALL’AUTORE AL LETTORE
Abbiamo accennato al “filo diretto” che non dovrebbe mai venir meno tra autore e
lettore, e a come esso possa generarsi “magicamente” dal taglio personale che l’autore
inietta nella sua narrativa. Ma con tutto il rispetto per la personalità di ciascun autore,
egli non può non tener conto di chi è il suo destinatario.
Quando uno parla, si rivolge sempre a qualcuno. O quasi sempre. Se avete mai
assistito ad una conferenza letta monotonamente dall’occhialuto relatore, sapete cosa
vuol dire sentirsi alienati (e profondamente annoiati) quali spettatori passivi, ove la
comunicazione diventa pretesto per un soliloquio e anche l’argomento più interessante è
reso sterile dalla mancanza di uno stile personale o di un “filo diretto” tra chi parla e chi
ascolta. C’è chi consiglia, con giusto acume psicologico, che il conferenziere immagini di
parlare non con una platea indistinta, ma con un interlocutore ideale o una persona
reale di sua conoscenza, a cui rivolgere tutta la propria espressività e animare così quello
che dice. Parlare a qualcuno, comunicare transitivamente. Da me a te.
Lo stesso vale per il racconto o romanzo che volete scrivere. (Chiunque abbia affetti
lontani sa cosa vuol dire scrivere una lettera. Gli stessi identici fatti — casa, scuola,
lavoro, rapporti sentimentali, ecc. — assumono tonalità diversissime a seconda che il
destinatario sia la vostra anziana madre o vostra sorella o l’amico del cuore o il fidanzato
oltreoceano. E allora, perché non dovrebbe sussistere la stessa “corrispondenza” fra un
testo letterario e il suo pubblico di lettori? Se vi rivolgete ad un pubblico giovane, usate
un linguaggio vivo, giovane, sfrondato di vuota retorica e di termini obsoleti. Se il vostro
pubblico è essenzialmente colto e perbene, evitate di offenderlo con un linguaggio volgare
o di tediarlo con spiegazioni eccessive. Se, al contrario, scrivete storie per bambini, non
esitate ad usare ripetizioni, spiegazioni, definizioni e un linguaggio semplice che renda la
storia piana ed accessibile.
Non tutti i lettori possiedono la stessa sensibilità ricettiva, per cui non ci si può
aspettare una sintonia universale con chiunque, anche quando il messaggio è autentico e
lo stile appropriato. Non essendo possibile stabilire un “filo diretto” con tutti, si può però
almeno acquisire una consapevolezza della propria audience e, tenendo presenti i suoi
gusti, aspettative ed esigenze, accordarsi con essa. Accordarsi non vuol dire tradire il
proprio stile personale. Se il vostro modo naturale di esprimervi è serio-drammatico,
difficilmente riuscirete ad essere dei buoni comici, e viceversa. Quello che potete fare (ed
è il mio più sentito consiglio) è prima di tutto essere voi stessi, sviluppando al meglio le
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vostre doti espressive naturali, approfondendole ed affinandole con l’esperienza, fino ad
acquisire un vostro vocabolario mentale. Poi, scegliere cosa scrivere e per chi,
indirizzando la vostra narrativa ad un certo tipo di audience che possa meglio
apprezzarla.
55
4.7 AL LAVORO!
Come avrete ormai intuito, è lungo il cammino per arrivare ad esprimersi in maniera
chiara, precisa, e per di più stilisticamente appropriata. È un cammino che comporta
tanto la scintilla dell’ispirazione, quanto il lavorio dell’emisfero razionale ed organizzativo
del cervello.
Ecco: riscrivete quest’ultimo paragrafo (da «Come avrete ormai intuito...» a «... del
cervello») nei seguenti modi:
1) Usando le vostre parole
2) Rivolgendovi consapevolmente a dei “chiarissimi professori” universitari
3) Rivolgendovi agli studenti e alle studentesse, ventenni o giù di lì, in assenza dei loro
professori
4) Alla persona che più rispettate
5) Alla persona che più disprezzate
Per i più volonterosi, un esercizio davvero utile con il quale sorprenderete voi stessi.
Prendete un fatto di cronaca nera da un giornale o inventatene uno. Anche l’uccisione di
un gatto investito da un’auto può andare.
Rappresentate lo stesso episodio usando:
1) una serie di aggettivi roboanti, punti esclamativi, ecc.
2) un linguaggio scientificamente oggettivo, distaccato, indifferente
3) uno stile dolce e poetico, come se si trattasse di una scena pastorale
Lasciateli sedimentare per almeno qualche ora, poi tornate a leggerli. E rispondete
alla domanda: che effetto fanno questi stili diversi applicati al medesimo contenuto? Se la
risposta si rivela più complessa del previsto e vi fa riflettere, bene, siete sulla strada
giusta per imparare da voi stessi l’arte del ben scrivere.
56
5 IL PERSONAGGIO
57
5.1 L’IMMAGINARIO RICONOSCIBILE
Qualsiasi storia, per esistere, deve essere vissuta da qualcuno. Poco importa che
questo “qualcuno” sia umano, animale, androide o extraterrestre, purché sia un essere
vivente nel contesto narrativo e, sottolineiamolo subito, abbastanza interessante da
attirare l’attenzione del lettore.
Ma cosa vuol dire esattamente che un personaggio sia “interessante”? Per quanto sia
impossibile dare una risposta uguale per tutti, si può individuare un denominatore
comune su cui cresce l’interesse del lettore per pressoché qualsiasi personaggio fittizio.
Anche il personaggio più strano o alieno deve risultare fondamentalmente riconoscibile al
lettore. Un romanzo può benissimo avere per protagonista un essere inesistente sulla
terra o un mago di terre remote, purché qualche suo tratto sia rintracciabile fra le
caratteristiche umane. O meglio ancora, in cui il lettore possa ritrovare qualcosa di sé.
Infatti, che lo si voglia ammettere o no, abbiamo tutti una visione antropocentrica del
mondo, ed egocentrica della nostra vita. La distruzione delle foreste dell’Amazzonia ci
interessa non tanto per i poveri alberi feriti e abbattuti, ma perché rischia di causare
cambiamenti climatici che colpiscono anche noi. Le fortune o le disgrazie di una foresta,
o del popolo straniero che in essa vive, ci colpiscono meno di quelle dei nostri cari, o delle
nostre. Così anche in narrativa: ciò che tocca maggiormente il lettore è quel
riconoscimento intimo, quel senso di identificazione, che fa vibrare una corda interna.
Non importa che il personaggio assomigli fisicamente al lettore e nemmeno che sia
dichiaratamente umano; l’importante è che vi sia, pulsante, quell’elemento di
riconoscibilità che dia modo al lettore di immedesimarsi, di provare un moto di sintonia
con il personaggio. Solo così il lettore andrà avanti nella lettura, per scoprire come il
personaggio “interessante” va avanti nella sua storia.
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5.2 DALL’EROE CLASSICO ALL’ANTIEROE MODERNO
Ogni epoca storica ha i suoi personaggi più rappresentativi, il che risponde alla legge
di “riconoscibilità” che assegna un personaggio al tempo e alla società in cui è inserito. Il
personaggio costituisce sempre un modello — positivo o negativo — di confronto, quindi è
ovvio che debba corrispondere, almeno nei suoi tratti essenziali, a certe caratteristiche
individuali delle persone a cui è rivolto. Gli spettatori ateniesi del IV secolo a. C. potevano
riscontrare il loro concetto di nobiltà umana nelle azioni eroiche dei protagonisti delle
tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide. Già Aristotele nel suo trattato sulla poetica offriva
un’acuta analisi psicologica del senso di esaltazione e di purificazione che provava uno
spettatore di fronte alla rappresentazione di gesta eroiche. Curiosamente, osservava
Aristotele, anche le scene più tragiche di sofferenza, sconfitta e morte lasciavano negli
spettatori un senso non di depressione ma di sollievo, come se le loro emozioni interne di
paura e pietà, stimolate dal teatro, venissero “scaricate” dall’animo dello spettatore,
attraverso la tragedia del protagonista. Questo particolare effetto purificatore del
dramma, chiamato catarsi, fu poi ripreso dalla psicanalisi come processo di liberazione
da situazioni conflittuali interiori, e si ottiene col far riaffiorare alla coscienza
dell’individuo, rivissute sul piano emotivo, le esperienze responsabili di quelle situazioni
subconscie.
Nelle tragedie greche era indispensabile, per provocare un effetto di catarsi, che l’eroe
tragico, pur incarnando un personaggio superiore all’uomo comune, possedesse delle
caratteristiche umane che lo rendessero credibile e riconoscibile. In particolare, che
possedesse un difetto o un punto debole che lo rendeva fallibile come ogni uomo di
questa terra. Un eroe invincibile non avrebbe potuto suscitare catarsi, né identificazione,
proprio perché l’invincibilità non è umana. Ecco perché i più grandi eroi nella storia della
letteratura, da Achille a Superman, sono vulnerabili in un tallone, o alla kryptonite... Ciò
li rende più umani, più riconoscibili, più “noi”.
Degna di studio sarebbe, in un altro contesto e per una curiosità più mirata, tutta la
carrellata di eroi tragici o epici, dall’età classica a quella moderna, rispondenti ai
rispettivi canoni storici dell’arte guerriera, seduttrice, cavalleresca, ecc. Ogni epoca ha i
suoi protagonisti tipici, che riflettono non semplicemente una moda, bensì un modo di
essere intrinseco dell’uomo nel suo tempo. Non è un caso che Lancillotto sia nato nel
medioevo e non oggi; che Robinson Crusoe scaturisca dall’epoca delle grandi esplorazioni
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navali e non oggi; e che Fantozzi si copra il suo faccione oggi e non ai tempi della
cavalleria...
Naturalmente tutti questi personaggi non rappresentano fedelmente la realtà. Sono
sempre idealizzazioni o distorsioni, esaltazioni o caricature di un qualche elemento
umano, che comunque si può riscontrare, in forma magari meno eclatante ma non meno
“presente”, nell’umanità del tempo a cui si riferiscono. Fantozzi non sei tu. Non
esattamente. Però il grande successo del personaggio di Paolo Villaggio è dovuto proprio a
quell’elemento di riconoscibilità con l’italiano medio di oggi. E non solo con l’italiano. Il
nostro ragioniere è figura ormai mitica in mezzo mondo, approdato in traduzione perfino
in caratteri cirillici. Gli ideali frustrati di Fantozzi sembrano trovare uno sfogo naturale,
quindi comprensibile a tutti anche se in forma esagerata, nelle sue infime meschinerie
per evitare una multa o per uno scatto di stipendio. Il paradosso fantozziano di tensione
verso la felicità e della sua continua frustrazione è il paradosso della condizione umana
di sempre, universalmente riconoscibile, ma in particolar modo della condizione
dell’uomo moderno, consapevole più che mai delle intime contraddizioni della società e di
chi si gloria di appartenervi pur facendo torto a se stesso. Il rapporto amore-odio con il
proprio lavoro e con la famiglia; il concetto tipicamente moderno di vacanza come fuga,
che però, ben lungi dall’essere una fuga liberatrice, è spesso un cadere dalla padella in
una brace tentatrice; una certa propensione più o meno conscia alla catastrofe fisica e
spirituale, in un ritmo di vita che condanna anche l’uomo di successo a un insuccesso
esistenziale, sono tutti aspetti della vita di oggi che toccano, in forma più o meno
enfatica, ciascuno di noi. Lo spettatore odierno trova nel tragicomico antieroe fantozziano
una forma di identificazione e, speriamolo, di catarsi. Fantozzo, ergo sum.
La letteratura del ventesimo secolo è costellata di antieroi. Per antieroe si intende un
personaggio che, invece di manifestare grandezza d’animo, dignità, forza e tutte quelle
qualità che contraddistinguevano l’eroe classico, di fronte alle avversità si rivela
meschino, inefficiente, passivo, incapace, o addirittura uno sbandato. Nello scenario della
letteratura del nostro secolo gli antieroi sono, purtroppo, i protagonisti principali. Da
Leopold Bloom, il moderno Ulisse di Joyce che vaga senza gloria in una Dublino
artificialmente civilizzata, agli inetti di Svevo, la cui “coscienza” non è neanche sufficiente
all’atto di volontà di smettere di fumare; dal vuoto esistenziale che rode i personaggi di
Sartre e Camus, alla vuota esistenza che conducono i personaggi dei minimalisti
americani; dall’uomo-insetto di Kafka all’uomo senza qualità di Musil; dall’Innominabile
di Beckett ai suoi buffoni in attesa di chissà quale “Godot” o dio della provvidenza che
non arriva mai... sembra che questi personaggi siano tutti miseramente sperduti, in
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conflitto con se stessi e/o con un mondo che non concede loro di realizzarsi come esseri
umani.
Lascio a voi le riflessioni sulla società moderna che gli antieroi letterari o televisivi
mettono a nudo così spietatamente. Qui mi limito ad una riflessione sul significato e
sullo scopo di essere scrittori oggi.
Essere scrittori, sempre, vuol dire creare dei personaggi in un dato contesto storico.
Questi personaggi diventano a loro volta degli esempi per così dire storici da cui i lettori,
più o meno consciamente, traggono modelli di comportamento. Spesso capita che la
letteratura non solo rappresenti, ma addirittura anticipi i tempi e che i suoi personaggi
prefigurino atteggiamenti che stanno per esplodere nella realtà sociale. Consideriamo il
mito del superuomo di Nietzsche, ripreso con qualche variazione dal nostro D’Annunzio,
cui seguirono rispettivamente i fenomeni del nazismo in Germania e del fascismo in
Italia. O il futurismo, che già nel primo Novecento esaltava una società tecnologica,
aggressiva ed iperveloce. O scrittrici “emancipate” di metà secolo, quali Simone de
Beauvoir e Anaïs Nin, che hanno anticipato i più recenti movimenti femministi o di
manifestazione dell’espressività femminile.
Essere scrittori oggi, in una società dove i valori tradizionali si vanno sempre più
sgretolando e i giovani non sanno più da che parte voltarsi per poter guardare con fiducia
al futuro, significa anche affrontare questi problemi. Il che comporta a sua volta la
creazione di personaggi che affrontino le problematiche di oggi. Se la letteratura del
nostro secolo ha per lo più messo a nudo il vuoto o l’angoscia interiore dell’uomo
moderno attraverso la figura dell’antieroe, potrebbe anche essere ora di dare alla luce un
nuovo tipo di protagonista: l’uomo — o la donna — che, consapevolmente, si mette a
confronto con la confusione odierna e ne fa il punto di partenza per una risoluzione
completamente nuova. Qui, più che mai, risiede la “creatività” dello scrittore e la sua
possibilità di divinare ciò che bolle in pentola.
61
5.3 TIPI, STEREOTIPI E PERSONE
La parola “tipo” denota un «esemplare singolo cui sia riconducibile, sulla base di
caratteristiche comuni fisse, una molteplicità di oggetti» (Devoto-Oli). Nel linguaggio
comune, un “tipo” è un “esemplare singolo” di persona che si distingue per i suoi
atteggiamenti (p. es., un tipo strano, un tipo buffo, un bel tipo), o una persona il cui
comportamento la contraddistingue come “particolare” («Sei proprio un tipo, sai?»).
Ogni personaggio che si rispetti, che non sia puramente una comparsa, deve essere
un “tipo” particolare di personaggio e non soltanto un nome su cui far passare la trama
della vostra storia. Questa è stata la prima lezione di scrittura creativa che ho ricevuto,
all’età di 13 anni, da una mia zia letterata che, dopo essersi sorbita le prime cinquanta
pagine di un mio romanzo western, mi ha detto: «Franco, tu hai una fantasia
meravigliosa, ma qui non si capisce chi è chi: Jack, Harris, Morton, tutti i tuoi eroi...
sono tutti uguali!» Così ho cominciato a dar loro qualche caratteristica distintiva: Jack
sempre affamato, Harris un po’ sbadato, Morton serio e meditabondo... In breve, ho
cominciato a prendere in considerazione diversi “tipi” di personaggi e di colpo si è
spalancata, nel mio romanzo, una dimensione in più rispetto alla pura e semplice
avventura: l’avventura interiore della creazione di personaggi, che mi crescevano davanti
agli occhi e diventavano sempre più “vivi” a mano a mano che la storia proseguiva.
Il mio suggerimento a chiunque si accinga a scrivere narrativa è di cominciare col
chiedersi, per ogni personaggio: “Questo, che tipo voglio che sia?” Per una prima
caratterizzazione può bastare un aggettivo qualificativo, come simpatico, brontolone,
ficcanaso. Da questa “qualifica” preliminare possono poi diramarsi numerosi
comportamenti, azioni e reazioni, che definiscano e delineino più vivamente il
personaggio.
Walt Disney, che nelle sue storie per bambini doveva creare personaggi relativamente
semplici e ben definiti, ha fatto uso di questa tecnica lineare di caratterizzazione dando
ad ogni personaggio di Paperopoli un tratto distintivo, identificabile con uno o al massimo
due “qualificativi”: Gastone fortunato, Paperino simpatico ma sfortunato, Paperone ricco
e avaro, Amelia la fattucchiera che ammalia, e così via, rendendo immediatamente
riconoscibili i suoi personaggi per i giovani lettori di Topolino.
Per un discorso letterario più ampio, però, questo è soltanto un primo passo.
Ai fini della stesura di un romanzo o di un’opera letteraria un po’ più complessa di
Topolino, è necessario che un personaggio risulti la somma composita delle sue
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sfumature caratteriali, considerevolmente meno uniformi di quelle dei paperi di Walt
Disney. È bene comunque distinguere tra caratterizzazioni di personaggi principali e
secondari.
Per i secondari può bastare un tratto distintivo che faccia di ogni personaggio un
“tipo”. Il capo ufficio, il maestro, la casalinga, la commessa del negozio, che compaiono a
fianco dei protagonisti, possono già quasi essere caratterizzati dal loro mestiere o dalla
loro funzione nella storia. In più, basta aggiunger loro qualche tocco personale che li
renda riconoscibili al lettore nelle susseguenti apparizioni, senza necessariamente
addentrarsi nei meandri delle loro personalità.
Per i personaggi principali il discorso è diverso. Un protagonista deve avere o una
caratteristica accentuata ed ampliata al massimo, o una personalità complessa, a
seconda del genere narrativo.
Per generi “fissi” in cui il lettore sa cosa e chi aspettarsi, è bene approfondire una o al
massimo due caratteristiche principali del personaggio, e mantenerle consistentemente
per tutta l’opera. Nel western c’è spesso un “cattivo” che è proprio cattivo e basta. Nel
giallo c’è un detective intelligente che è poco più che una mente — intelligente, appunto
— al lavoro. Nel romanzo picaresco c’è sempre un viaggiatore itinerante che vive di
trovate e bricconate, il cui carattere rimane pressoché immutato attraverso qualsiasi
traversia. In questo tipo di opere, i protagonisti, uni o bi-dimensionali, sono
l’incarnazione di qualche qualità umana spinta ed esplorata all’estremo. Questi
personaggi tendono a diventare degli stereotipi, ovvero dei “tipi” talmente definiti e fissi
da diventare addirittura emblematici, almeno i più famosi, della caratteristica che
rappresentano. Uno Sherlock Holmes, un Don Chisciotte, un Don Giovanni, presentano
dei tratti talmente “tipici” da costituire dei modelli di riferimento inconfondibili.
Non c’è da meravigliarsi che attualmente si preferisca dare a un personaggio letterario
una personalità più complessa, meno fissa, con una più vasta gamma di sfumature
psicologiche. Questo non soltanto perché personaggi tipici sono già stati “sfornati” in
abbondanza, ma, credo, anche perché al giorno d’oggi non si può più tanto facilmente
distinguere fra il “buono” e il “cattivo”, fra il colpevole e la vittima, e diversi ruoli e
inclinazioni umane tendono a fondersi. Oggi c’è una marcata proclività a trovare del
buono nel cattivo, e viceversa. Tipi di personaggi tradizionalmente visti come “cattivi” —
gli Indiani nei film western, i carcerati, i rinnegati della società — sono ormai rivisti da
un’ottica diversa, al punto che la loro personalità emerge nella sua complessità sociale e
psicologica ed essi, come persone o personaggi, si rivelano non più cattivi dei cosiddetti
“buoni”. Anzi.
63
Ma al di là delle riflessioni sul buono e sul cattivo che si possono fare su ogni persona
o personaggio, la considerazione base è che le persone reali non sono stereotipi, ma
persone! Chi di voi si considera un tipo uni o bi-dimensionale si può fermare a questo
punto. Chi invece ritiene di avere una personalità più complessa, continui pure a leggere.
Che l’essere umano sia un marchingegno piuttosto intricato lo si è sempre sospettato;
ma a maggior ragione in questo secolo, da quando la psicanalisi è assurta a status di
scienza e la psicologia è diventata materia universitaria di studio, la complessità
dell’uomo non può assolutamente più essere ignorata da uno scrittore che intenda
rappresentare in narrativa degli esseri umani. Ne segue che la stragrande maggioranza
dei romanzi moderni presenta dei protagonisti abbastanza compositi o poliedrici da non
essere facilmente “fissabili”. Essi non saranno immediatamente riconoscibili come “tipi”,
ma raffigurano più autenticamente la realtà della natura umana.
Un autore deve essere un buon osservatore della realtà umana prima ancora che un
artista della fantasia. La realtà umana è una miniera da cui l’autore può e deve estrarre
consapevolmente la materia prima per la sua narrativa. La regola d’oro, conosci te stesso,
vale anche per la creazione di personaggi fittizi. Solo da una conoscenza profonda di se
stessi, e naturalmente del proprio prossimo, scaturiranno dei personaggi pienamente
autentici, vissuti, umani.
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5.4 CARO LETTORE, TI PRESENTO...
Esplorare fino in fondo le motivazioni, le azioni e le possibili reazioni di un
personaggio è un compito fondamentale dello scrittore. Assolto questo compito, l’autore
sentirà che il personaggio prende a “camminare con le sue gambe” nella narrativa. Prima
di giungere a questo punto, bisogna distinguere due modi per rendere effettivo il suo
ingresso nella storia: il metodo indiretto, tramite le interpolazioni dell’autore o di altri
personaggi, e quello diretto, attraverso il suo aspetto, atteggiamento, parole, pensieri,
azioni, in breve, il suo comportamento. La differenza fra il metodo indiretto e quello
diretto è la stessa differenza fra il dire e il mostrare e, se ben ricordate, uno degli assiomi
del fare letteratura oggi è show, don’t tell: fa’ vedere, non dire.
Certo, il metodo indiretto presenta dei vantaggi allettanti.
L’autore può facilmente “dire” molto con poche parole, condensando i tratti salienti di
un personaggio in qualche aggettivo, risparmiando pagine di descrizione dettagliata “in
diretta”. È molto facile e comodo dire che un personaggio è “buono e simpatico”, invece di
farlo vedere dal suo comportamento. Ma il grave inconveniente di questo metodo è che il
lettore finisce col sentirsi preso per mano dall’autore e non ha più lo spazio creativo di
ricerca, e di giudizio, sulle qualità di un dato personaggio. Il metodo indiretto è dunque
poco consigliabile, soprattutto per l’odierno standard di rapporto autore/lettore, se non
per riassumere informazioni su personaggi secondari senza dilungarsi troppo; o a meno
che non si voglia creare un effetto di ironia, di contrasto fra ciò che viene detto e ciò che
viene mostrato per aggredire più incisivamente l’attenzione del lettore. Considereremo
questo caso particolare nel capitolo sui punti di vista.
Col metodo diretto di presentazione, invece, il personaggio appare agli occhi del lettore
in simultanea con le sue azioni, per cui il lettore non ha altro metro di giudizio se non il
comportamento del personaggio. Si potrebbe considerare questo metodo di presentazione
“esistenzialista”, parafrasando Sartre che affermava che l’esistenza precede l’essenza. È
inutile dichiarare l’essenza di un personaggio se prima non se ne mostra l’esistenza.
L’autore, naturalmente, può scegliere cosa mostrare e cosa non mostrare del
personaggio, ma in ogni caso non “dice” al lettore niente che lo possa indurre ad un pre-
giudizio sul personaggio. Il quale si rivela al lettore a mano a mano che si vedono gli
elementi esteriori (l’aspetto fisico, come si veste, come cammina...) ed interiori (le sue
motivazioni e desideri, i suoi pensieri, ecc...) della sua personalità. Innumerevoli sono i
tratti che possono caratterizzare un personaggio, e il metodo diretto di presentazione
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consiste nel selezionarne alcuni fra i più significativi, dosandoli al punto giusto per dare
al lettore abbastanza elementi perché possa farsi una sua idea del personaggio.
Naturalmente è possibile, per presentare pienamente un personaggio, fare uso di
entrambi i metodi — indiretto e diretto — perché essi non costituiscono affatto due
categorie assolute e inscindibili. Consideriamo, ad esempio, l’esposizione del pensiero di
un personaggio fatta non tra virgolette ma con le parole dell’autore. Questo è un metodo
semi-diretto, in quanto scaturisce sì dal personaggio, ma è mediato dall’autore che “vede”
nella sua testa e che, in veste di relatore attendibile, riporta il succo dei suoi pensieri.
Questo può essere un sistema per rendere note le motivazioni più intime del personaggio,
da mettere in parallelo o in contrasto, eventualmente, con il suo comportamento
esteriore.
Qualunque metodo o combinazione di metodi adottiate, fate in modo che i vostri
personaggi contengano in se stessi l’anima della storia; che agiscano con una
motivazione, per un fine, e coerentemente con i tratti salienti della loro personalità; e,
cosa più complessa ma anche più affascinante, con le contraddizioni interne della loro
personalità. Per questo è indispensabile che, prima ancora di pensare a sviluppare una
trama, conosciate bene i vostri personaggi: saranno loro, a tutti gli effetti, a dettarvi lo
svolgimento della storia.
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5.5 TOSCA
Esistono personaggi talmente “classici” da costituire una fonte d’ispirazione per
innumerevoli storie, tutte imperniate sullo stesso “tipo” di personaggio, come le variazioni
musicali che scaturiscono da uno stesso tema. Quanti Frankenstein e Dracula sono
passati sui nostri schermi, a seguito delle loro versioni letterarie originali! Anche le opere
di Shakespeare, senza nulla voler togliere al genio creativo del grande drammaturgo
inglese, sono quasi tutte nate da personaggi preesistenti in forme letterarie diverse.
Un personaggio romantico per eccellenza, noto in particolare a noi italiani grazie
all’omonima opera di Puccini, è Tosca, donna volitiva, impulsiva e passionale, idealista,
fedele al suo amore fino alla morte, ma votata alla tragedia nello scontro con la realtà.
Questo “tipo” di personaggio è stato preso a prestito dalla scrittrice cilena Isabel Allende,
che ne ha ri-creato una versione moderna, mantenendo intatta l’“anima” del personaggio
femminile, facendola trasmigrare però in una situazione e in un’epoca completamente
differenti. L’autrice mette in risalto, con uno stile brillante e spregiudicato, aspetti diversi
rispetto all’eroina di Puccini; o meglio, mette a nudo l’assurdità di un personaggio d’altri
tempi che si ostina a voler vivere al giorno d’oggi.
Ecco l’incipit del racconto della Allende, intitolato, appunto, “Tosca”.
Suo padre la mise al pianoforte a cinque anni, e a dieci Maurizia Rugieri si esibì nel suo
primo concerto al Club Garibaldi, vestita di organza rosa e scarpine di vernice, dinanzi a un
pubblico benevolo composto in maggioranza da membri della colonia italiana. Al termine le
depositarono ai piedi diversi mazzi di fiori, e il presidente del club le consegnò una targa
commemorativa e una bambola di porcellana adorna di nastri e di pizzi.
— Ti salutiamo, Maurizia Rugieri, come un genio precoce, un novello Mozart. I grandi
palcoscenici del mondo ti attendono, — declamò.
La bimba attese che si spegnesse l’applauso, e al di sopra del pianto orgoglioso di sua
madre fece udire la propria voce con alterigia inattesa.
Questa è l’ultima volta che suono il piano. Io voglio diventare una cantante, —
annunciò, e uscì dalla sala trascinando la bambola per un piede 11.
Già l’“alterigia inattesa” di questa bambina e la sua perentoria uscita dal teatro
trascinandosi dietro la bambola, preannunciano il tipo di carattere di questa donna:
11Isabel Allende, “Tosca”, in Eva Luna racconta, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 87.
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volubile e sdegnosa, incapace di accettare la realtà anche quando essa è più che
soddisfacente, desiderosa di un ideale più grande. Non contenta di coltivare il suo talento
di pianista, la bambina vuole diventare una cantante, anche se, come apprenderemo
appena voltata pagina, «aveva una voce da uccellino, appena sufficiente a ninnare un
infante nella culla, per cui dovette deporre le sue pretese da soprano per un destino più
banale» (p. 88).
Lo stesso motivo si ripete con gli uomini della sua vita. Maurizia si sposa a 19 anni
con un uomo solido e che la ama, da cui ha un figlio; ma, non soddisfatta di quest’uomo,
lo lascia per uno studente «esile e pallido, con un profilo da statua romana» che, guarda
caso, fischiettava tra i denti un’aria della Tosca. Personaggio quasi etereo, questo
giovane, che, come il sogno di un passato perduto, colpisce Maurizia Rugieri nel suo
romantico idealismo.
La caratterizzazione di Maurizia procede con una serie di illusioni che lei appone a se
stessa, sull’uomo che ama. Lui si trasferisce senza neanche salutarla, ma lei lo segue fino
in cima al mondo, «con i suoi veli, il suo ombrellino e le sue scarpette da ballo, come un
personaggio scappato da un’altra storia» (p. 93). Tanto idealizza il suo uomo e il loro
presunto amore, che ad Agua Santa, il paese dove i due si stabiliscono, «vissero molti
anni, rispettati dalla gente, che li indicava come un esempio di amore perfetto» (p. 95),
anche se il loro rapporto in realtà si riduce ad un’immagine per il pubblico. A un certo
punto l’uomo muore, ma Maurizia non si rassegna a rinunciare al suo ruolo: da perfetta
ex-moglie, ora fa del suo amore un ideale eterno a cui aggrapparsi con tutta se stessa: «...
nella vedovanza costruì la leggenda della sua inconsolabilità. Rimase ad Agua Santa,
sempre vestita di nero, benché il lutto non si usasse più da molto tempo» (p. 96).
Ma il tempo passa e la realtà colpisce ancora: arriva Ezio Longo, il primo marito, con
la sua impresa di costruzioni che sta lavorando su un’autostrada che colleghi Agua Santa
col resto del paese. Maurizia, di primo impulso, tenta di sfuggire alla realtà: «Vedendo le
insegne e i macchinari del suo ex marito, Maurizia Rugieri si nascose in casa con porte e
finestre sbarrate, con l’insensata speranza di mantenersi fuori portata del suo passato»
(p. 97). Ma il pensiero del figlio, che non vedeva da 28 anni e che ora è lì con l’ex marito,
la induce ad uscire dal suo nascondiglio e, «senza tentare di dissimulare la canizie» (p.
97), a compiere il grande passo di confrontarsi con la nuova realtà: rivedere il marito e il
figlio, ripresentandosi a loro di persona.
Questo è il punto in cui il personaggio sembra finalmente “crescere”, accettando la
realtà, se stessa e gli altri così come sono.
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Ma no! Il suo idealismo prende ancora il sopravvento su di lei e, nel momento in cui
entra nella locanda dove Ezio e suo figlio stanno pranzando, ricade nella trappola
mentale di «vedere se stessa da un’altra dimensione, come se fosse stata su un
palcoscenico...» e «volle credere che lui avesse continuato a desiderarla e ad aspettarla
per tutti quegli anni con l’amore tenace e appassionato...» (p. 98). Di nuovo vittima delle
sue romantiche illusioni, Maurizia crolla nel momento in cui la realtà le si para davanti
in tutta la sua banalità e semplicità: padre e figlio stanno ridendo insieme, «battendosi
sulle braccia, scompigliandosi reciprocamente i capelli» (p. 98) con una naturalezza e una
felicità da cui lei si sente esclusa. E da cui si auto-esclude: «Vacillò per un istante infinito
sulla frontiera tra la realtà e il sogno, poi indietreggiò» (p. 98), per ritornare a casa, sola,
con il suo ombrellino nero.
Questa storia, per un certo verso toccante e drammatica, è alleggerita dal tono
sottilmente ironico con cui la Allende presenta la sua eroina. Credo che ogni persona
idealista possa provare un moto di immedesimazione — e di catartica compassione — per
questo personaggio. D’altra parte, la distanza ironica dell’autrice a fianco dell’iperbolico
idealismo del suo personaggio, ne fa un “tipo” di cui possiamo anche salutarmente
sorridere. Il personaggio di Maurizia, esemplare al negativo dell’ostinato prevalere delle
idealizzazioni sulla realtà, dà modo al lettore, così, di immergersi pienamente, ma senza
“affogare” in prima persona, in quest’avventura dolce-amara dell’animo umano.
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5.6 AL LAVORO!
Avevate mai pensato che chiunque può trasformarsi in personaggio letterario?
Prendiamo una cassiera del supermercato. Sta a voi osservarla abbastanza attentamente
da coglierne qualche tratto significativo, et voilà, ecco il vostro personaggio.
Cominciate con delle attente osservazioni dal vero su una persona qualsiasi,
possibilmente non di vostra conoscenza, senza farle notare che la state osservando. Non
si tratta di giocare al detective (per quanto, questo potrebbe essere un interessante
risvolto!). Si tratta semplicemente di “captare” la personalità di una persona
osservandone le caratteristiche fisiche e di comportamento. Dall’età, sesso, classe sociale,
abbigliamento... all’espressione della faccia, lo sguardo, il suo modo di sorridere, il tono
della sua voce nel salutare le persone...
Fatte queste osservazioni preliminari, cogliete i messaggi involontari che questa
persona trasmette attraverso la sua gestualità. Come muove le mani? È nervosa? Ha
qualche tic? Cammina dritta o strascica i piedi? È stanca? Attiva? Iperattiva? Qualsiasi
vostra “intuizione” è valida, purché derivi da osservazioni di “dettagli significanti” di
aspetto e comportamento della persona.
Poi, nella tranquillità di casa vostra, inserite questa persona reale in una situazione
immaginaria. Come si comporterebbe se...? Fatene il personaggio di una storia, o di una
scena di cui lei sia protagonista, facendola comportare coerentemente con se stessa, con
la se stessa che voi avete percepito.
Questo, vi assicuro, è uno degli esercizi più divertenti e istruttivi di un corso di
scrittura creativa per la creazione di un personaggio. E dal personaggio, forse, con un
pizzico di fantasia uscirà una bella storia.
70
6 IL CONFLITTO INTERNO
71
6.1 UN CAMPO DA GIOCO OLIMPIONICO
Nei capitoli precedenti abbiamo visto che una trama narrativa non può essere
concepita separatamente dai suoi personaggi, dal momento che essa scaturisce dalle loro
azioni. Questo vale non solo in una storia d’azione o d’avventura, ma, in modo ancor più
incisivo, quando un protagonista ha in sé dei conflitti interiori i cui stessi nodi
costituiscono gli ostacoli principali sul filo della narrazione. Pur non essendo certo
obbligatorio dare ad ogni personaggio un nodo di conflitto interno da sciogliere, ritengo
che questo sia il fattore di drammatizzazione più significativo della narrativa moderna,
quindi un punto cruciale nelle fasi di costruzione di un personaggio.
Una caratterizzazione efficace, che cioè permetta all’ingranaggio narrativo di muoversi
attorno al suo protagonista, implica necessariamente un’intrinseca drammatizzazione.
Può darsi che ciò sia dettato da uno spirito “maschilista”, che non si appaga se non in
una lotta di forze opposte. Non a caso gli uomini sono sempre stati dei guerrafondai, e la
letteratura fino alla seconda guerra mondiale è stata scritta al 90% da uomini. Ho notato,
per contrasto, che le donne nei miei corsi di scrittura creativa tendono a scrivere storie
magari stilisticamente al bacio, che io però faccio fatica ad accettare come “racconti”
quando manca nei loro personaggi (e conseguentemente nella trama) un filo di tensione
drammatica, considerato di solito il requisito primo per portare avanti una storia. In
un’occasione, temevo di aver urtato la sensibilità di una partecipante al mio corso nel
dirle che il suo racconto mi sembrava un “quadro espressionistico” pieno di belle
pennellate, ma privo di una linea direttiva portante. Se non che lei, tutta contenta, ha
confermato che quello era il suo intento e non ha voluto saperne di cambiare una riga.
Noi uomini...
D’altra parte, se posso ancora rifarmi all’autorità del vecchio Aristotele, egli fu il primo
ad osservare che ogni individuo è la somma dei suoi desideri. Come tale, la sua “linea
direttiva” passa attraverso i suoi tentativi di realizzarli. Le azioni di un uomo (e di una
donna, suppongo) sono guidate dalle sue aspirazioni, ma frenate dalle costrizioni della
vita o dalle sue stesse limitazioni. Ne risulta una situazione di conflittualità interna,
quasi sempre irrisolta e dinamicamente tesa verso la sua risoluzione, che costituisce il
succo dell’esistenza umana. Un personaggio letterario che risulti “riconoscibile” come
membro della nostra razza deve, dunque, volere qualcosa e cercare di ottenerla. Più
intensamente la vuole, più la tensione drammatica cresce e più il lettore viene coinvolto
nell’energia emotiva che prorompe dal personaggio.
72
Cime tempestose, uno dei romanzi della letteratura mondiale più pieni di desiderio
inappagato, si impernia tutto sul conflitto fra la passione di Heathcliff e Catherine e la
loro impossibilità di realizzarla. I protagonisti sono mossi dalla linea di tensione che corre
tra i loro impulsi irrealizzati e le loro azioni. Gli stratagemmi che Heathcliff escogita per
ricongiungersi a Catherine e la violenza che egli usa su tutti gli altri personaggi, sono
ripercussioni del tormento interiore del personaggio, che assurge quasi a personificazione
delle passioni umane più dilanianti. Scritto di pugno da una fanciulla inglese del secolo
scorso, non per niente soprannominata una Shakespeare in gonnella, questo romanzo ha
appassionato generazioni di lettori e lettrici. Emily Brontë (inizialmente sotto pseudonimo
maschile, per proteggersi da censure) ha osato toccare certi tasti, “intoccabili” per una
donna del suo tempo, eppur presenti, anzi pulsanti, nella natura umana. V’è da chiedersi
fino a che punto la scrittura femminile sia ancor oggi condizionata dalla cultura, e fino a
che punto gli elementi conflittuali dell’animo umano siano confinati a quei pochi artisti
che li hanno estrinsecati nelle loro opere.
Ma prima che i miei conflitti interiori mi distolgano dalla retta via della stesura di
questo capitolo ribelle, buttiamo nella mischia due innocenti parole che, guarda caso,
sembrano svilupparsi l’una dall’altra: AZIONE e MOTIVAZIONE. Nella narrativa, l’azione
è la molla propulsiva della trama e la motivazione (del personaggio) la molla propulsiva
dell’azione. Il filo conduttore della trama si può rappresentare così:
Personaggio – IO
Motivazione – VOGLIO!
Ostacolo – NO!
Azione – SI!
Crisi/risoluzione – ECCO!
Personaggio – IO?!
L’ultimo “IO?!” del diagramma rappresenta il punto d’arrivo del personaggio, che alla
fine della storia sarà in qualche modo cambiato dal raggiungimento dei suoi obiettivi o
dall’impossibilità di raggiungerli. Lo stesso, sia detto per inciso, vale per ciascuno di noi
nella vita. Da qui deriva quel processo fondamentale di riconoscimento ed identificazione
tra personaggio e lettore.
Ora, di tutti gli ostacoli che possono interporsi fra la motivazione del personaggio e la
sua conseguente azione, quello di gran lunga più tormentoso è il nemico interno, quel
brutto gnomo che gli impedisce di essere come vorrebbe essere, di agire come vorrebbe
73
agire, di vivere come vorrebbe vivere. In parole povere, di realizzare i suoi veri desideri. Il
nemico interno si può chiamare paura. Si può chiamare insicurezza. Dubbio. Indecisione.
Incoerenza. Inosservanza. Disistima di sé. Disperazione. Vanità. Hybris... Quante brutte
bestie, eh? Non per deprimervi, ma ognuna di queste “brutte bestie” è il nemico interno di
qualcuno di noi. D’altra parte, la sfida della vita consiste proprio nell’affrontare questi
avversari: contrapporre ai nostri “nemici” le forze positive che abbiamo in noi, che ci
spronano ad andare avanti per arrivare, bene o male, da qualche parte.
Ecco. Io trovo che la narrativa sia un campo da gioco olimpionico per sperimentare lo
scontro di queste forze. In noi, autori, e nei nostri personaggi.
74
6.2 QUESTO È IL DILEMMA
Passiamo direttamente ad un racconto imperniato su un conflitto interiore del
protagonista. E forse del suo autore. Giuseppe Pontiggia, il primo maestro di scrittura
creativa in Italia, è un uomo che non passa inosservato, non solo per la notevole dote
della sua letteratura, ma anche per la ragguardevole mole della sua corporatura. Il
connubio fra le qualità fisiche e letterarie di questo autore è all’apice in un suo delizioso
raccontino su un pingue signore, combattuto tra i piaceri della gola e i dolori della
pancia... Pontiggia, a scanso di equivoci, prende subito le distanze dal suo protagonista
con un incipit in terza persona singolare (vedremo nel capitolo sui punti di vista come
questo favorisca un sano distacco ironico fra autore e protagonista), per poi tuffarsi senza
remore nel conflitto interno del suo innominato ciccione.
Mangiare o non mangiare: questo è il dilemma.
Goloso
Era a dieta dimagrante da molti anni o almeno da molti anni lo andava dicendo, anche
se mai nessuno ne aveva constatato gli effetti: di profilo faceva pensare a un emisfero, e di
fronte l’adipe aveva finito per dilatargli e uniformargli il viso.
Esile e gracile nell’adolescenza, teneva nel portafoglio una fotografia di quel periodo: un
ragazzo scarno, in costume da bagno, scendeva cauto da uno scoglio appuntito per calarsi
in mare.
Lo riconosci? — chiedeva, mostrando la fotografia al suo interlocutore.
E quando l’altro, dopo una occhiata di sfuggita, lo guardava incredulo, aggiungeva con
un sorriso, tra l’orgoglio e la malinconia:
Sì, sono io.
Poi, riponendo la fotografia nel portafoglio, diceva:
Ora sono a dieta.
Da quando?
Da lunedì — rispondeva.
Oppure:
Da giovedì.
Non si andava mai oltre la settimana, ma l’interlocutore, ignaro, commentava:
Mi sembra un’ottima idea 12.
12Giuseppe Pontiggia, “Goloso”, in La morte in banca, ed. ampl., Milano, Mondadori, 1991, p. 137.
75
Sin dalla prima riga è messo a fuoco il dilemma che costituirà l’asse portante della
storia, in un tono spigliato e leggero che permette al lettore di sorridere benevolmente al
problema, peraltro serio, del protagonista. Come la Allende ha puntato il dito
sull’idealismo di Maurizia-Tosca, così Pontiggia punta i riflettori su un aspetto “perdente”
dell’indole del suo protagonista — la sua negligenza nell’osservare una dieta — facendo di
questo “difetto” un validissimo spunto letterario e mettendone in luce i risvolti
tragicomici. Il racconto continua in un crescendo drammatico di immagini e situazioni
paradossali, tutte ruotanti intorno a questo problema del personaggio.
Il quintale, limite a trent’anni considerato invalicabile, era stato superato verso i
quaranta; e quanto, prima, aveva temuto il suo avvicinarsi, tanto, poi, il suo allontanarsi:
gli ricordava il passaggio di un pianeta in un film di fantascienza. Forse perché una sera
d’estate, mentre guardava nella vetrina di un libraio il suo ventre che premeva contro la
giacca, l’aveva contemporaneamente attratto un titolo di astronomia: L’universo in
espansione. Quello che lo atterriva non era che toccasse nuovi limiti, ma che
apparentemente non ce ne fossero. (p. 138)
Il paragone, volutamente esagerato, tra la sua pancia che preme contro la giacca e
l’universo in espansione, mette in evidenza la condizione psicologica del protagonista, che
ora sente di dover prendere il problema veramente sul serio. Va a farsi visitare da un
dottore, che lo dichiara senza pietà “malato” e “obeso” e gli intima di «mangiare un quinto
di quello che mangia attualmente» (p. 139). Vien da chiedersi se il dottore non esageri un
tantino nel senso opposto, ma intanto il nostro protagonista, sgomento, se ne torna a
casa e l’autore dipinge il suo stato d’animo con due nitide pennellate:
La sera non mangiò. Si sdraiò sul letto, gli occhi al soffitto, la mano destra sul ventre.
Tre anni prima il corpo formava una linea orizzontale: invece adesso il ventre si
arrotondava come quello di una donna gravida. Disse ad alta voce:
— Basta. (p. 140)
La sua nuova risoluzione di mettersi a dieta è lodevole, ma il conflitto interiore si
accende la sera seguente quando, tornando a casa dal lavoro...
76
Si fermò davanti alla pasticceria La Favorita. Una delle commesse, riconoscendolo, gli
fece un cenno. Lui sorrise, ma non entrò. Restò a testa bassa davanti alla vetrina, dove
una torta di meringhe diffondeva una sorta di refrigerio bianco tra i boeri con il pennacchio,
specialità del locale, e una cascata di marrons glacés su foglie vere. (p. 141)
L’immagine di lui «a testa bassa davanti alla vetrina», di fronte a un tale ben di Dio di
pasticceria, è quanto di più struggente si possa immaginare per un uomo nelle sue
condizioni. I dettagli visivi dei dolci dietro la vetrina farebbero ingolosire qualsiasi lettore
mediamente affamato. Figuriamoci il protagonista! L’autore ha ormai stabilito le basi per
quel senso di immedesimazione e di coinvolgimento del lettore nel conflitto interiore del
personaggio. Trasportato così il lettore all’interno del suo stato d’animo, il passo seguente
è di fargli sentire i morsi della fame del protagonista, e il sapore della tentazione.
... si alzò dal letto e brancolando nel buio spalancò il frigorifero: nel suo cono di luce
sedette sul pavimento, le gambe incrociate, il ventre che toccava le piastrelle gelide.
Addentò un pezzo di formaggio, poi, con un ansimare che divenne quasi un gemito, un’ala
di tacchino. Stava distruggendo i benefici della dieta, afferrò un cioccolato nero e ne staccò
un morso. Le narici gli si erano dilatate, mai aveva avuto un olfatto così sensibile, era tutto
il giorno che sentiva odori. Masticò un’altra striscia della tavoletta e, nel timore di lasciare il
resto, lo mangiò. Poi aprì una scatola di ananas e divorò tutti gli anelli. Bevve il liquido
zuccherato della latta. Infine, scuotendo la testa, barcollando, tornò a letto e si addormentò
di colpo. (p. 142)
Notare la voracità con cui il protagonista divora tutti gli “anelli” di ananas, quasi
fossero degli anelli di catena che lo intrappolano. Il suo «timore di lasciare il resto»
sembra un inconscio presagio di sconfitta associato alla dieta, in contrasto con l’impulso
di superare, mangiando, la propria condizione esistenziale di affamato. Dopo una simile
conflittuale abbuffata, non c’è da meravigliarsi che il poveretto si svegli «attanagliato dai
crampi e dai rimorsi». La parola “crampi”, particolarmente pregna di significato nel
contesto, richiama alla mente sia i crampi fisici dello stomaco, sia della coscienza, con
l’abbinamento alla parola “rimorsi”. I crampi e i rimorsi simboleggiano il conflitto fisico e
metafisico che attanaglia il protagonista, ormai allo stremo delle sue forze.
Ma con una sorprendente forza di volontà rinnovata, egli decide di iscriversi ad un
corso di ginnastica dimagrante. Eseguendo gli ordini del professore, uno psicologo
«insinuante e inflessibile», il nostro eroe riesce a perdere ben 22 chili. Vittoria finale sul
77
nemico? Sì e no. La parola “perdere” non è messa lì a caso: egli adesso può tornare nel
mondo dei magri e gli amici, «stupiti che per la prima volta calasse veramente», lo
incoraggiano e gli sorridono; ma di fatto si sente “un orfano” ogni volta che passa davanti
a delle cibarie e, peggio ancora, «a mano a mano che perdeva il peso, si sentiva come
spogliare di un involucro caldo, che lo proteggeva» (p. 143).
Il personaggio, così eroicamente teso nella tenzone tra volontà e istinti, ha in definitiva
sconfitto la parte di sé che sapeva godersi la vita. Eliminando il suo grasso, si è spogliato
del suo stesso involucro di carne, del nutrimento fisico di cui aveva personalmente
bisogno. Giunge l’inverno e lui sente più freddo del solito. A nulla vale il parere del
dottore che gli assicura: «Abbiamo raggiunto la quota di sicurezza» (p. 143). Il suo corpo,
ora infreddolito, e il suo spirito, ora infiacchito, forse la sapevano più lunga di certi
luminari della scienza che avrebbero dovuto salvarlo: lo psicologo, il dottore, il professore
di ginnastica nulla possono quando il sipario cala sul protagonista, steso sul letto di un
ospedale, ucciso da un attacco di cuore.
Qualsiasi morale si voglia trarre da questa storia, è da ammirare il twist finale, quel
colpo di coda del destino che dà un risvolto del tutto particolare al conflitto interno del
protagonista e alla sua soluzione. A che gli è servito lottare contro se stesso, se poi
l’obiettivo che si era prefisso gli si è ribaltato contro? Uno combatte i suoi istinti per tutta
la vita, e vince, ma poi le “forze del bene” finiscono per ucciderlo. Certo, sarebbe potuto
morire d’infarto per la sua obesità, e invece è morto d’infarto... a pancia vuota.
Questo finale, pungente metafora degli scherzi amari della vita, è molto postmoderno
nel suo capovolgimento di aspettative, di ruoli, di valori e, col sapore di perplessità che
lascia in bocca, costringe a leggervisi dentro. La conflittualità fondamentalmente irrisolta
del personaggio, l’impotenza dell’uomo di fronte a un destino incomprensibile e
incontrollabile, il ribaltamento del “bene” e del “male” e dei ruoli di guaritore e boia...
tutto ciò fa parte di una corrente irresistibile che percorre la vita e la letteratura di oggi.
Nessuno, a quanto sembra, può facilmente sfuggire alla condizione di disorientamento di
questo fine millennio. Ciò che può fare uno scrittore è cogliere qualche segno del
paradosso umano e sublimarlo, in forma letteraria, attraverso i suoi personaggi. È questa
forse l’ultima libertà che ci resta: l’autonomia creativa, nel teatro della letteratura, con
uno sguardo d’ironia sulla dolce-amara realtà.
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6.3 IO E FRANK
Se le mie considerazioni sul “Goloso” di Pontiggia vi avessero dato l’impressione che si
possa automaticamente stabilire l’equazione autore = protagonista, mi rincresce
disingannarvi, ma non è così. Questo non soltanto perché Pontiggia (l’uomo) è ben lungi
dall’essere obeso e disperato come il suo personaggio, ma anche perché il proprio io,
preso di sana pianta dalla realtà, non può mai “funzionare”, in narrativa, come un
personaggio elaborato interiormente. Non so bene spiegarvi perché sia così, ma è così.
Chiedetelo a qualsiasi autore.
La conoscenza della natura umana è certamente indispensabile per conferire un
senso di autenticità ai propri personaggi, ed è vero che un autore parte sempre o quasi
sempre da qualche aspetto della propria personalità o esperienza; ma l’arte è creazione, e
creare non è replicare. La narrativa è una ramificazione della realtà, filtrata
dall’immaginazione. Non dimentichiamo che una vasta porzione dell’esperienza umana è
mentale. Se per un certo verso si può dire che tutta la narrativa sia autobiografica, lo si
può dire solo nel senso che è stata “vissuta” dalla mente dello scrittore. Alla fantasia di
un creativo, un chiletto di sovrappeso può bastare a far scattare l’idea — l’esperienza
mentale — dell’obesità e delle sue conseguenti sofferenze. Come del resto può bastare il
“sentire” la tortura di una mosca schiacciata fra la tenda e il vetro della finestra per
creare quelle atroci scene di film dove l’Indiana Jones di turno si ritrova schiacciato fra
due pareti che si stringono come un incubo attorno a lui.
La drammatizzazione immaginaria dei propri conflitti interiori attraverso il tormento
di un personaggio inventato è un’estrinsecazione (sana, a mio avviso) dei mostri
dell’inconscio. Altrimenti l’assassino sarei io. Invece, l’assassino è Frank.
Frank accese una sigaretta. Ne fumò metà, inalando lentamente il fumo nei polmoni e
assaporandovi il paradosso della combustione. Cancro. La punta arancione della sigaretta
sembrava dirgli: “bruciatore bruciato”. Sghignazzò al pensiero.
Non finì la sigaretta. Se la levò dalla bocca e la schiacciò nel portacenere sul tavolo
davanti a lui, premendo il lungo mozzicone sotto il pollice come se volesse disintegrarlo.
Mentre con una pressione circolare del dito lo riduceva ad una pallottola, un’espressione di
pena acuta gli deformò il volto. Ma dai suoi occhi usciva una luce fredda più forte del
dolore. Un’occhiata al polso: 23 e 47. Era sufficientemente tardi.
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Questo è l’incipit di un mio romanzo nel cassetto. Si nota una certa conflittualità
interiore nel personaggio? Quali sono i dettagli più significativi che ne svelano lo stato
d’animo? Cosa pensate che si accinga a fare, adesso, Frank?
Non intendo proporre un’analisi letteraria né un riassunto della trama del romanzo. Il
motivo per cui ho riportato qui la presentazione di questo mio personaggio, è per
illustrare il processo mentale associato alla sua creazione. Posso fare questo solo con un
mio testo perché io sono l’unico autore di cui conosco anche i processi mentali. Non che
il mio caso debba valere per tutti, ma c’è un punto fondamentale nell’atto creativo
letterario, che vale sicuramente per me e credo non solo per me.
Un personaggio nasce e cresce in narrativa perché esiste già nella mente.
È inutile ingegnarsi a scopiazzare personaggi di altri. Guardatevi dentro. Credo che
tutti, in forma più o meno conscia, viviamo mentalmente dei dilemmi o dei conflitti
interiori. Lo scrittore in me trasforma i miei drammi mentali in vite “vissute” di
personaggi fittizi. Ma questo non è l’equivalente di una confessione pubblica. È la mia
espressa libertà di immaginare cosa proverebbe “Frank” se avesse deciso di andare ad
ammazzare una giovane coppia, quella notte, in quel particolare momento. So di non
essere il primo ad avere avuto un’idea simile; d’altra parte so anche che l’idea esisteva in
me prima che mi capitasse di leggere Delitto e castigo o altre variazioni sul tema. È stato
straordinario, poi, rendermi conto che qualcun altro aveva già espresso in forma
narrativa sensazioni simili alle mie. Simili, ma non identiche.
Solo io ho “vissuto” dentro di me quell’esperienza, quella notte, in quel particolare
modo. Solo io avrei potuto creare Frank, così. Voglio precisare, per chi fosse ancora
incline a fare l’equazione Frank = Franco, che io non fumo e non porto mai l’orologio al
polso, se non quando ho un appuntamento fuori casa. Per chi si ri-crea, scrivendosi, è
così salutare falsificarsi in piccoli dettagli concreti e irrilevanti. Potrei aggiungere, se
necessario, che non ho mai ammazzato nessuno, né ho intenzione di provarci. Questa è
la verità, nient’altro che la verità. Ma nella mia vita interiore, oh, se ci ho provato! Ho
sentito il bisogno di chiamare “lui” Frank proprio perché, in effetti, lui è un mio alter ego,
e per di più perché il nome “Frank” mi è cordialmente antipatico, quindi ben si adattava,
nella mia mente, a farne un assassino. Eppure Frank c’è. È anche lui parte di me.
Chiamiamolo pure... mio conflitto interiore.
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6.4 AL LAVORO!
Isolate due aspetti contraddittori o contrastanti del vostro carattere e drammatizzateli,
esagerandoli se è il caso, fino a generare un conflitto interno apparentemente irresolubile.
Tanto per fare qualche esempio, siete timidi e innamorati, ambiziosi ma pigri, altruisti ma
un po’ troppo attaccati al vostro denaro.
Escogitate una situazione problematica, in cui il vostro io immaginario debba
prendere una decisione, ovvero agire, risolvendo la contraddizione interna delle due
propensioni contrastanti. Descrivetevi, in prima o in terza persona, come vi viene più
naturale, in modo comunque da lasciar trasparire pienamente il conflitto interiore.
Immaginate ogni gesto, ogni comportamento, ogni azione risultante dalla combinazione
delle due inclinazioni opposte, nel particolare contesto che avete ideato. Va benissimo
anche un confronto diretto con un altro personaggio, ad esempio qualcuno mai
incontrato prima, che di colpo mette a nudo le due tendenze contraddittorie.
Non importa che la storia abbia un inizio e una fine. L’esercizio consiste
nell’esacerbare la conflittualità interna, generando un filo di tensione “palpabile” nel
vostro protagonista. Solo per questo vi ho suggerito di prendere due aspetti del vostro
carattere: per essere sicuri di conoscerne veramente a fondo tutte le sfumature e di
rappresentare con autenticità il vostro conflittuale alter ego.
81
7 IL DIALOGO
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7.1 NERO SU BIANCO
Eccoci al compito più delicato, nella caratterizzazione di un personaggio: riuscire a
riprodurre qualcosa di invisibile, intangibile, immateriale, eppur così preponderante come
la voce umana, nero su bianco. Se è vero che tradurre è tradire, ancor più certo è il
tradimento che si fa alla ricchezza delle espressioni verbali umane “traducendole” su un
foglio bidimensionale di carta che non può essere udito, ma che deve essere “sentito” da
chi legge spezzoni di dialogo scritto. Questa specie particolare di trasposizione dalla
lingua orale è una vera e propria arte, quasi una magia dello scrittore, che deve fungere
da silenzioso medium delle voci dei suoi personaggi.
Ci sono scrittori che rifuggono il discorso diretto come la peste, ed altri che ne fanno
un uso talmente malsano da ammorbare la loro narrativa invece di infonderle vita col
respiro della lingua parlata. Il fatto è che una buona resa del dialogo in letteratura è forse
quanto di più difficile ci sia nel mestiere dello scrittore. Non basta l’aiuto tecnico di un
registratore da cui trascrivere tale e quale un dialogo, né è sufficiente il dono della
parlantina, per poter dire di saper trasmettere le sfumature e le tonalità di una
conversazione in una storia narrata per iscritto.
D’altra parte, così come la lingua parlata è l’espressione per eccellenza della
comunicazione umana e può considerarsi la carta d’identità di una persona, le parole
stampate di un dialogo costituiscono un fondamentale tratto identificante dei rispettivi
personaggi letterari. Perché il discorso diretto diventi una carta narrativa vincente, è
necessario rimboccarsi le maniche, impararne il “codice”, conoscerne i tranelli e i segreti,
e infine sposare il parlato con lo scritto. Il primo passo in questa direzione è leggere con
attenzione buoni dialoghi in letteratura, per abituarsi a cogliere in essi quelle sfumature
di “traduzione” dal parlato allo scritto che danno l’impressione di ascoltare le voci dei
personaggi così come sono. Anche se, in realtà, non sono così! Vi accorgerete presto che
ciò che suona bene in narrativa non sempre (anzi, quasi mai) corrisponde esattamente a
come le persone parlano nella vita reale. Di tutto il fascio espressivo che accompagna la
lingua parlata, solo alcune caratteristiche sono riproducibili in un testo scritto. Punti
esclamativi, ellissi, parole in grassetto o sottolineate, ecc. non sono che poveri espedienti
letterari per enfatizzare o diminuire il tono di voce dei personaggi di un racconto.
Tuttavia, quando il lavoro è ben fatto, chi legge può a sua volta “ritradurre” mentalmente
il discorso diretto in parlato, e l’illusione (suspension of disbelief) dell’autenticità potrà
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dirsi realizzata. Il premio in palio, nella singolar tenzone tra la lingua e la penna, sarà un
corpo narrativo più comunicativo attraverso personaggi più vivi.
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7.2 GIOIE E DOLORI DEL DISCORSO DIRETTO
Le persone reali (primi fra tutti gli italiani!) parlano per gesti, per versi, per occhiate,
con locuzioni o frasi interrotte, vocali pronunciate aperte o chiuse, intonazioni prolungate
o parole sincopate, e comunicano tramite insinuazioni, allusioni, battute e riferimenti che
soltanto i diretti interlocutori, e qualche volta neanche loro, possono pienamente
intendere. La sintassi e le “parti del discorso”, poi, sono letteralmente fatte a pezzi nel
linguaggio comune. Ascoltate attentamente la gente che parla e ve ne renderete conto.
Mi sembra giusto ed opportuno, in questo capitolo di un manuale di scrittura, citare
un passo illustrativo dal Manuale di conversazione di Achille Campanile. Un “manuale”
fatto di aneddoti e racconti, i cui personaggi s’inceppano in certi “piccoli” equivoci del
parlato, dove una parola, una frase, un’inezia della pronuncia mettono in crisi il loro
intero sistema comunicativo. Particolarmente rilevante nel nostro contesto è il qui pro
quo che deriva dall’erronea “traduzione” di una parola dallo scritto al parlato, e viceversa.
Nel leggere il raccontino che segue, oltre al gusto di scoprire la parola colpevole,
notate la vivacità espressiva con cui Campanile fa uso del discorso diretto per presentare
i personaggi e le loro rispettive personalità, e come la loro comunicazione diventa pretesto
per una specie di monologo a due, in cui ognuno dice quello che vuole dire e... sente
quello che vuole sentire.
La “o” larga
— Che modi! — borbottò Beppe guardandosi attorno nei sontuosi locali del periodico
mondano. — Prima t’invitano a fare una cosa e poi protestano se la fai.
— Ma nessuno vi ha invitato a domandarmi certe cose! — strepitò la contessa Mara con
le gote imporporate di sdegno e di pudico rossore.
— Come no? — fece Antonio. — Sono questi o non sono questi gli uffici del periodico
d’arte, moda e mondanità La vita in rosa?
— Sono questi — fece la contessa Mara. — E con ciò?
— Un momento — continuò l’altro. — È lei o non è lei che scrive in questo periodico
firmandosi Nirvana?
— Sono io, — disse la contessa con fierezza — e me ne vanto. Si tratta di un periodico
di larga diffusione, che entra nelle migliori famiglie.
— Questo non m’interessa — proseguì il visitatore, impassibile. [...]
Mise sotto gli occhi della dama un numero del periodico, indicando un trafiletto.
85
— È lei che ha scritto questo? — domandò.
— Sono io — disse la signora, sbirciando il giornale.
— E dunque! — esclamò l’altro con un tono che non ammetteva repliche. — Se so
leggere, non ho sbagliato. Legga.
— Che cosa?
— Questo.
— Ebbene?
— Legga quello che lei ha scritto.
La nobile dama lesse, rilesse, concentrandosi nell’attenzione, per cercar di capire in che
consistesse quello che, secondo l’altro, aveva autorizzato la di lui sconveniente domanda.
Alla fine si strinse nelle spalle.
— Io — mormorò — non ci trovo niente che possa giustificare...
— Ah, non ci trova niente? — strepitò l’altro. — Non ci trova niente? E allora le leggerò io
quello che lei ha scritto. Il suo trafiletto termina con le parole: «Se avete quesiti da porci,
rivolgetevi a me che sono qui per soddisfarvi».
— Ebbene? — balbettò la contessa.
— Quesiti da porci! — strepitò il visitatore.
La contessa impallidì.
— Ma no! — gemé. — Con la “o” stretta, e non con la “o” larga.
— Come sarebbe a dire? — fece l’altro.
— Voce del verbo “porre” — spiegò la scrittrice con un fil di voce. — Se avete quesiti da
pórci, e non da pòrci.
E cadde svenuta mentre il visitatore rileggeva la frase incriminata.
— Che posso sapere, — borbottava fra sé — che posso sapere io, leggendo, se una
vocale è stretta o larga? Io credevo con la “o” larga! Ho letto: «una domanda da porci», e ho
rivolto una domanda da porco 13.
La “scrittrice” in questa situazione si ritrova suo malgrado vittima degli strumenti del
suo mestiere: le parole. Tutt’altro che unità univoche o lineari, le parole possono dire,
implicare, sottintendere, palesare molto più di quanto non s’immagini ad un’analisi
superficiale. La nobildonna del racconto di Campanile non si sarebbe mai sognata di
scrivere quella parola, mentre il visitatore, probabilmente, se la sognava di notte...
Eppure, è proprio in questo meraviglioso caos che una persona parlante si distingue da
un’altra. Il lessico di ciascuno di noi è caratterizzante quanto lo stile letterario che
13Achille Campanile, “La ‘o’ larga”, in Manuale di conversazione, Milano, Rizzoli, 1973, pp. 91-93.
86
distingue un testo (e il suo autore) da un altro. Si tratta allora di conferire uno stile al
“parlato” di ogni personaggio, che sia coerente con il suo carattere e con il suo ruolo nel
racconto. Spesso è proprio la reazione di un personaggio, davanti a un dato messaggio
verbale, che offre alla storia l’impulso ad andare avanti.
87
7.3 IL VERBO FATTO CARNE
Il discorso parlato, proprio in quanto “diretto”, deve dare a chi legge un’impressione di
immediatezza, come se scaturisse direttamente dalle bocche dei protagonisti e non dalla
testa dell’autore. È pertanto necessario che l’autore conosca bene, dei suoi personaggi,
l’estrazione sociale, il contesto in cui agiscono, il linguaggio che usano fra di loro, le
peculiarità della regione o località a cui appartengono, ecc. in modo da farsi medium
invisibile della loro parlata. Ogni frase in discorso diretto deve rivelare qualcosa di loro,
proprio come accade tra le persone reali, che sin dal primo momento che s’incontrano si
fanno conoscere (o riconoscere) da quello che dicono.
E che non dicono.
L’autore deve sapere ciò che i personaggi intendono e ciò che non intendono dire
dietro le quinte delle loro parole. La parola, questo tratto eminentemente umano di
comunicazione, non può e non deve rispecchiare “alla lettera” ciò che uno intende
veramente. Spesso il dialogo più significativo è quello che “dice senza dire”. Una persona
in uno stato emotivo molto intenso — che si tratti di rancore, paura, dolore o amore —
difficilmente riesce ad articolare con precisione quello che prova. A volte, in preda ad
un’emozione, si finisce col dire addirittura l’opposto di quello che si ha dentro! Lo stesso
deve valere per i vostri personaggi. Ricordo una scena da Orgoglio e pregiudizio in cui
Lizzy asserisce di non pentirsi assolutamente di aver rifiutato la proposta di Darcy, di
non provare il minimo moto dell’anima o stima per quest’uomo che è stato tanto scortese
con lei... Ma le frasi al negativo che Jane Austen le mette in bocca rivelano esattamente
l’opposto di quello che dicono: togliendo i “non” dalle frasi di Lizzy, il lettore “sente” i
sentimenti affioranti della confusa eroina, filtrati dall’affermazione contraria delle sue
parole.
Il dialogo scade, a volte, proprio quando diventa troppo esplicito; quando, per
eccessiva cura di un autore troppo razionalizzante, non rivela niente “tra le righe” del
discorso. Ricordiamoci che la parola, pur essendo un tentativo conscio di esternazione
del pensiero, è ben lungi dal rappresentarlo fedelmente. La “carne” che c’è dentro il
“verbo” può essere ben altra da quella che viene enunciata a parole. E questo non
soltanto nei casi di volontaria menzogna, seduzione o inganno. Il più delle volte si tratta
di meccanismi interni che fanno da filtri tra il “contenuto” di una persona e la sua
espressione verbale. L’autore deve essere abbastanza psicologo da lasciare che i
personaggi si svelino sì, attraverso le loro parole — e che il lettore possa “sentirli” — ma
88
non sotto forma di equazione elementare del tipo: ha detto così = è così; bensì a livello di
percezione immediata, di intuizione non-mediata da eccessive razionalizzazioni, così come
nel dialogo tra persone in carne ed ossa.
Qui più che mai lo sport del fare un testo letterario diventa un gioco d’equilibrio tra
l’emisfero intuitivo e quello razionale-organizzativo della mente creatrice. L’autore deve
calarsi nei suoi personaggi tanto da poter utilizzare consciamente il personalissimo
sistema di comunicazione verbale che ogni personaggio istintivamente usa, al punto da
sapere anche come le loro parole traducono — o tradiscono! — i loro più intimi pensieri.
Se l’autore avrà fatto un buon lavoro, starà poi al lettore attento coglierne ed assaporarne
i frutti.
Ma come si può, in definitiva, tradurre la molteplicità di sfumature della lingua
parlata in uno scritto, mantenendone le qualità di lingua viva e di espressività, senza
perdere in chiarezza per il lettore? Non vi è una risposta semplice a questa domanda.
Possiamo però affermare che questa è una grande sfida, e forse il più grande invito, per
l’autore che voglia introdursi pienamente nella vita interiore ed esteriore dei suoi
eloquenti personaggi.
89
7.4 MANZONI E LA SUA “PROMESSA SPOSA”
Che il Manzoni conoscesse intimamente la Lucia dei Promessi sposi è un dato di fatto
storico e biografico, in quanto la sua eroina gli era stata ispirata dalla propria moglie
Enrichetta, «donna di eccezionale forza e virtù» 14 e ricca di pietà, sensibilità e profonda
devozione. Potremmo aggiungere che il profilo della protagonista del romanzo fu curato
dall’autore con particolare attenzione proprio perché, a prescindere dalla sua magistrale
arte di narratore, il Manzoni aveva particolarmente a cuore il personaggio di Lucia: «quel
nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ di affetto e di riverenza» 15.
Che poi questa figura femminile abbia suscitato antipatie in alcuni critici e lettori per
la sua apparente passività e sottomissione, o forse per il suo riserbo scambiato per un
carattere freddo, è una questione su cui non è il caso di addentrarsi qui, se non per
constatare amaramente che talvolta la virtù può suscitare antipatie.
Considerando obiettivamente il personaggio di Lucia, comunque, notiamo che la
fanciulla è tutt’altro che passiva e sottomessa, e meno ancora fredda. La sua passione e
la sua fermezza d’animo spiccano, con dolce forza, agli occhi di chi sa leggere lo spirito
dietro le sue misurate ma essenziali parole. Vediamone qualche esempio.
La scena: Lucia è in casa con sua madre e con altre donne, in attesa del suo
promesso sposo. Entra Renzo, furioso per avere appena scoperto che il potente don
Rodrigo, invaghitosi della sua amata, ha vietato al curato don Abbondio di celebrare il
loro matrimonio.
Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, — cosa c’è? — disse, non
senza un presentimento di terrore.
— Lucia! — rispose Renzo, — per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser
marito e moglie.
— Che? — disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella
mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, — ah! —
esclamò, arrossendo e tremando, — fino a questo segno!
— Dunque voi sapevate...? — disse Renzo.
— Pur troppo! — rispose Lucia; — ma a questo segno!
14Enzo Noè Girardi, Saggi di letteratura italiana, Milano, Vita e Pensiero, 1974, p. 196.
15Alessandro Manzoni, I promessi sposi; questa citazione e le successive si riferiscono all’edizione
Mondadori Scuola, 1985, a cui rimandano i numeri di pagina fra parentesi nel testo.
90
— Che cosa sapevate?
— Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a
licenziar le donne: bisogna che siam soli.
Mentre ella partiva, Renzo sussurrò: — non m’avete mai detto niente.
— Ah, Renzo! — rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi. Renzo intese
benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva
dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri? (PS, Cap. II, p.
44).
Notate la brevità delle prime battute di Lucia: «Cosa c’è?», «Che?», «Ah!» e poi
l’esclamazione, ripetuta quasi di seguito: «fino a questo segno!» / «ma a questo segno!».
Queste espressioni suonano tanto autentiche nell’emozione del momento, come se
scaturissero da un animo femminile turbato, non “mediate” dall’autore, né da alcuna
forma di razionalità linguistica. Nella loro semplicità, queste frasi tronche, coincidenti
con la natura un po’ schiva e poco loquace di Lucia, lasciano trasparire il suo sgomento
proprio in quello che non dicono.
Renzo, infatti, si accorge dello stato d’animo della sua amata e le chiede che cosa lei
già sapesse di don Rodrigo, sussurrandole anche un velato rimprovero: «Non m’avete mai
detto niente».
A cui Lucia si limita a rispondere:
«Ah, Renzo!»
Questo succinto appello risuona di tutta la sua carica emotiva non solo per la sua
incisività, ma perché il Manzoni lo fa “sentire” al lettore insieme a Renzo, «in quel
momento, con quel tono». L’immersione nei due protagonisti è totale. E il contegno della
fanciulla, fatto di esclamazioni mai plateali ma sempre intense nella loro brevità è, per
chi legge, una finestra sul suo travaglio interiore.
Passiamo adesso ad una scena ancor più drammatica, quando Lucia si ritrova
prigioniera faccia a faccia con l’Innominato.
...Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire
una parola? Oh ecco! vedo che si muove a compassione: dica una parola, la dica. Dio
perdona tante cose, per un’opera di misericordia! (PS, Cap. XXI, p. 421).
91
La promessa di Lucia di chiedere perdono a Dio per l’Innominato ribalta
completamente la posizione rispettiva dei due personaggi. Lucia, forte della sua fede e
della sua innocenza, riesce a far breccia nella coscienza dell’Innominato e, con immediata
sottigliezza psicologica, lo sottolinea esplicitamente: «vedo che si muove a compassione».
Questa osservazione, resa non attraverso il narratore ma tramite il discorso diretto della
protagonista, colpisce sia l’Innominato, che è costretto a sentirla con le sue orecchie, sia
il lettore, che partecipa alla vicenda cogliendone attimo per attimo il drammatico
svolgimento “in diretta” dalle parole di Lucia.
Per capire con quanta meticolosa applicazione il Manzoni abbia rinforzato il discorso
parlato di Lucia, si può confrontare la versione finale dei Promessi sposi con quella
originaria del Fermo e Lucia. Nel passo equivalente a quello appena citato, l’appello di
Lucia all’Innominato sa tanto di frase fatta, come presa a prestito da un libro di
catechismo sul tema del perdono di Dio: «[Dio] è qui a vedere s’ella si muove a pietà di me,
per usarle pietà in ricambio un giorno» 16. Il tono di questa esposizione teologica non
raggiunge, direi, l’impatto emotivo del corrispondente discorso di Lucia nei Promessi
sposi.
Anche per quanto riguarda la sua perentoria richiesta — «Mi faccia condurre in una
chiesa» — nel Fermo e Lucia si riscontra a confronto una frase assai più blanda e
dispersiva: «Lasci ch’io mi ricoveri in qualche chiesa, su le montagne, in un bosco» 17. Ecco
come il carattere di Lucia, da un’edizione all’altra, ne è uscito più vibrante attraverso le
sue battute di dialogo.
Un ultimo rapido confronto fra un’altra scena del romanzo e l’equivalente nel Fermo e
Lucia, per sottolineare ancora l’importanza del discorso diretto per una caratterizzazione
più vivida del personaggio. Lucia, separata da Renzo per un tempo che sarebbe anche
potuto durare tutta la vita, si trova con Donna Prassede, la quale mette continuamente il
dito nella piaga “ricordandole” che ormai non dovrebbe più pensare all’ex promesso
sposo.
— Ebbene? — le diceva [Donna Prassede]: — non ci pensiam più a colui?
— Io non penso a nessuno, — rispondeva Lucia. (PS, Cap. XXVII, p. 541)
16I passi da Fermo e Lucia sono tratti da Giorgio Cavallini, Un filo per giungere al vero, Firenze, G.
D’Anna, 1993, p. 142.
17Ibidem.
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La risposta, così breve e asciutta, lascia trasparire, attraverso la reiterata negazione
(non / nessuno), quanto in realtà Lucia sia ancora pervasa d’amore. Da un punto di vista
psicologico, si potrebbe ben affermare che lei non pensa a nessuno — a nessun altro! —
fuorché “lui”. Al tempo stesso, una risposta così secca all’insistente Donna Prassede
rivela ancora una volta la tempra di Lucia: esteriormente timida e riservata, ma non per
questo disposta a lasciarsi mettere sotto i piedi da chicchessia. Infatti, pur senza alcuna
aggiunta da parte di Lucia, vediamo nel rigo seguente che Donna Prassede, niente affatto
convinta, «non s’appagava di una risposta simile».
Nel Fermo e Lucia, invece, la risposta di Lucia ha minore efficacia perché è inserita a
mo’ di discorso indiretto a conclusione di un periodo più articolato: «La povera Lucia
protestava da principio con voce angosciosa, e timida, ch’ella non pensava a nessuno».
Pur essendo questo un romanzo del secolo scorso, per di più ambientato nel lontano
‘600, possiamo apprezzare ancor oggi l’impegno del Manzoni nel trasmettere le sfumature
dell’animo umano attraverso un linguaggio vivo e parlato in forma di discorso diretto. Che
si ami o no l’eroina manzoniana, resta il valore dell’espressione parlata come elemento
portante della sua caratterizzazione 18.
18Per uno studio più approfondito sul discorso diretto dei personaggi manzoniani, si veda, oltre a G.
Cavallini, op.cit., anche G. Petrocchi, La tecnica manzoniana del dialogo, Firenze, Le Monnier, 1966.
93
7.5 ALTRE FUNZIONI DEL DIALOGO
Se la funzione primaria del dialogo è quella connotativa, o caratterizzante di un
personaggio, ve ne sono diverse altre degne di nota. Un abile impiego del discorso diretto
può dare allo scrittore molte carte in più da giocare nell’ambito della sua opera letteraria.
Platone fu il primo scrittore a fare uso del dialogo come strumento di “portavoce”. Egli
fece uso della “voce” di Socrate, quale personaggio nei suoi Dialoghi, per dire quello che
riteneva giusto o necessario sui più svariati argomenti, dall’etica alla politica alla filosofia.
Questo metodo di articolata esposizione dialogica, sebbene talvolta risulti un po’
artificiale in un contesto narrativo, torna particolarmente utile all’autore che voglia
esprimersi, senza esporsi in prima persona, su un soggetto controverso, lasciando che sia
un suo personaggio a farlo.
Un famoso esempio tratto dalla letteratura moderna è dato da Dostoevskij nella
“parabola” del Grande Inquisitore, che incarcera Gesù risorto nel nome della dominazione
della Chiesa sugli uomini. Questa parabola si può considerare una formulazione dei
dubbi religiosi dell’autore, espressi tramite la voce di Ivan ne I fratelli Karamazov.
Dostoevskij in persona difficilmente avrebbe potuto tenere simili discorsi in piazza, ma
dietro la copertura di un personaggio fittizio, la parabola è rimasta... non “inquisita”.
Una variante ampliata dei personaggio-portavoce ha origine dal confronto dialettico
tra due o più personaggi che sostengono vedute opposte, senza che l’autore mostri di
prendere parte; almeno, non apertamente. Molti romanzi moderni fanno uso di questo
tipo di dialettica argomentativa per presentare la complessità di certe problematiche,
spesso irrisolte, considerate da diversi punti di vista. Ci soffermeremo su un esempio di
confronto dialettico nel capitolo seguente.
Un’altra funzione chiave del dialogo è quella di accrescere la tensione drammatica, o
“soffiare sul fuoco” di un intreccio narrativo. Una delle tattiche più usate è inserire
qualche dichiarazione inattesa e parzialmente rivelatrice di un personaggio su un altro.
Se per esempio qualcuno ci viene presentato come buono e onesto, ma poi apprendiamo
da un altro personaggio di un suo lato perverso, la rivelazione aggiunta aumenta la
dimensione drammatica della storia. L’intero romanzo di Robert Louis Stevenson Lo
strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è imperniato sui riferimenti più o meno
velati allo strano comportamento del misterioso Mr. Hyde, che solo alla fine si rivelerà
quale alter ego del dottor Jekyll. Il dialogo (o altre forme di “voci” che non siano quella del
narratore, p. es., lettere, messaggi scritti, telefonate anonime, ecc.) può essere un
94
insinuante strumento rivelatore “esterno”, doppiamente efficace per creare tensione e
suspense, poiché il lettore istintivamente valuta un’informazione ricevuta da un
personaggio con più circospezione rispetto alle informazioni date direttamente
dall’autore.
Un’ultima osservazione che potrà far sorridere, ma che non va sottovalutata, è la
possibilità di usare una o due righe di discorso diretto per spezzare una lunga
esposizione, per rompere il blocco di una fitta pagina di narrativa. Anche l’occhio vuole la
sua parte, e un romanzo appare più scorrevole quando vi è un alternarsi di narrazione e
dialogo.
95
7.6 AL LAVORO!
Credevate di sfuggirmi, eh? Stavate per chiudere qui il libro e andare al bar a bere
qualcosa con gli amici... Bene. Portatevi dietro un taccuino e una matita. O se preferite,
un miniregistratore a pile; che non dia nell’occhio, però, mi raccomando.
L’esercizio consiste nel riportare esattamente le parole che vi giungono alle orecchie.
Sì, proprio al bar dove stavate per andare (o se il bar non vi ispira, va bene anche un
capolinea di autobus, la carrozza di un treno affollato, o dovunque possiate prendere
appunti in mezzo a un cicaleccio). Immergetevi nel vostro taccuino senza tema di essere
“scoperti”. Anch’io l’ho fatto diverse volte, in pubblico, fingendo di essere completamente
assorto nei miei appunti (mentre in realtà ero attentissimo alle frasi che correvano
intorno a me) e nessuno mi ha mai disturbato. L’importante è che gli interlocutori non
siano consapevoli che voi li state “registrando”, se no addio alla loro spontaneità!
Nella prima stesura, adottate un metodo stenografico di abbreviazioni in modo da non
perdere una sola parola. Ripeto: il dialogo deve essere riportato il più possibile alla
lettera. Senza intrusioni dell’“autore”, né variazioni di alcun tipo.
La seconda parte dell’esercizio invece richiederà alcune manipolazioni. Nella
tranquillità di casa vostra, riprendete il dialogo captato dal vero ed inseritelo in una
scena inventata (sebbene ispirata dalle loro parole), i cui “personaggi” emergano e
vengano caratterizzati proprio ed esclusivamente da quello che dicono. Vi accorgerete che
per farne un dialogo leggibile sarà necessario del tessuto connettivo, fatto di qualche
spiegazione e sicuramente di qualche modifica alle parole o alla sintassi. Usate
comunque, in sostanza, tutto quello che avete sentito, mantenendo al minimo
indispensabile qualsiasi descrizione esterna al dialogo. Che siano le voci stesse dei
protagonisti a svelarne i segreti!
Ripetete questo esercizio più volte in diversi contesti e diventerete maestri,
quantomeno di stenografia, ma si spera anche dell’arte del dialogo riportato per iscritto.
È consigliabile, alla fine di ogni revisione, rileggere il dialogo ad alta voce per sentire se
nell’ultima versione suona “autentico”. Un’ulteriore ed utilissima verifica è farlo leggere
ad altri (amici, conoscenti, o i compagni di un workshop di scrittura creativa) e far loro
indovinare le caratteristiche delle persone “protagoniste”: sesso, età, estrazione sociale,
appartenenza geografica, ecc.
Questo esercizio offrirà a voi e alla vostra audience inimmaginabili spunti dal vero, da
cui potranno scaturire chissà quali storie inventate. All’insaputa dei reali protagonisti...
96
8 QUESTIONI DI PUNTI DI VISTA
97
8.1 RI-IMPARARE A VEDERE
Gli antichi greci associavano una straordinaria gamma di significati al concetto di
“vedere”. L’atto del guardare (oράω) indicava la percezione visiva di un oggetto, il che
costituiva solo un primo passo nello svolgimento dell’azione del vedere. Il verbo oιδειν,
indicante il passo successivo, dava senso all’operazione compiuta dall’occhio
trasformandola nella mente in atto cognitivo. La stessa parola “idea” (ιδέα) era collegata
etimologicamente alla rappresentazione dell’aspetto (ειδos). La comprensione intuitiva
della realtà attraverso lo sguardo era dunque frutto dell’esperienza visiva effettuata nella
sua completezza, dall’atto iniziale del guardare alla formazione di idee nella mente, in un
processo circolare di conoscenza in cui il vedere diventava sapere.
Oggi andiamo così di fretta che il mondo intorno a noi ci passa davanti agli occhi
quasi inosservato. Diamo per scontata la nostra conoscenza degli oggetti che ci
circondano e non ci preoccupiamo di osservarli davvero, di cogliervi qualcosa di diverso
da quello che già sappiamo — o crediamo di sapere — di essi. Il fatto che ad ogni entità
sia assegnato un nome e che la “conosciamo” tramite la sua definizione, ci dà l’illusione
di non avere più bisogno di guardare per conoscere. Sappiamo già tutto, a parole...
Da bambini non era così. Forse perché avevamo più tempo a disposizione, o forse
perché non avevamo ancora la presunzione di conoscere qualsiasi cosa dalla sua
definizione verbale, guardavamo di più. Ogni oggetto era un mistero, i cui segreti ci si
svelavano, senza mediazioni né pre-condizionamenti, attraverso il nostro sguardo
curioso. Era un tipo di conoscenza diversa da quella acquisita dall’istruzione, più incerta
e soggettiva in un certo senso, ma anche più diretta e “oggettiva”, nella misura in cui era
l’oggetto stesso a richiamare l’attenzione del nostro sguardo, dal di fuori e al di fuori di
ogni preconcetto.
Ri-imparare a fare questo da adulti è un modo per scoprire nuovi continenti senza
caravelle... Per uno scrittore, per un artista, come per un bambino, saper guardare è
l’atto esplorativo primo, il proprio essere-nel-mondo con occhi aperti. Ce ne dà una
significativa illustrazione Italo Calvino, alias Palomar, in un famoso passo da “Le
meditazioni di Palomar”.
... il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di
fuori. Un po’ miope, distratto, introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in
quel tipo umano che viene di solito definito un osservatore. Eppure gli è sempre successo
98
che certe cose — un muro di pietre, un guscio di conchiglia, una foglia, una teiera — gli si
presentino come chiedendogli un’attenzione minuziosa e prolungata: egli si mette ad
osservarle quasi senza rendersene conto e il suo sguardo comincia a percorrere tutti i
dettagli, e non riesce più a staccarsene. Il signor Palomar ha deciso che d’ora in avanti
raddoppierà la sua attenzione: primo, nel non lasciarsi sfuggire questi richiami che gli
arrivano dalle cose; secondo, nell’attribuire all’operazione dell’osservare l’importanza che
essa merita 19.
Il signor Palomar, presentatoci come «miope, distratto, introverso», non
corrisponderebbe affatto al “tipo umano” definito un osservatore, come del resto l’autore
ci segnala. Ma attenzione, Calvino è un maestro dell’ironia. Quello che ci vuole dire tra le
righe è che un “tipo” di osservatore professionista, quale può essere uno scienziato,
essendo guidato da un’ottica particolare — dal suo scopo di raccogliere dati per una
ricerca sistematica che gli permetta di tradurre le sue osservazioni in teorie — è sempre
legato a costrutti mentali prestabiliti che fanno del suo guardare un’osservazione mirata,
dettata da una curiosità professionale, specifica. Se le qualità di Palomar — miope,
distratto, introverso — non ne farebbero un buon osservatore professionista, esse però
rivelano che egli è mosso da una curiosità più pura, slegata da scopi precisi, legata
esclusivamente alle cose che vede. I “richiami” che esse esercitano su di lui sono così forti
che vincono le sue tendenze contrarie (miopia, distrazione, ecc.) ed egli «si mette ad
osservarle quasi senza rendersene conto», affascinato dai loro minimi dettagli. Pur
vedendo, quindi, in maniera del tutto personale, paradossalmente vede anche in un modo
più distaccato, non distorto da preconcetti, e in questo senso la sua soggettività si
dissolve nell’oggetto, si annulla in una “oggettività” più genuina.
Precisiamo subito che questo modo di guardare le cose da un altro punto di vista —
da quello degli oggetti! — scisso dalla soggettività dell’osservatore, è un processo tutt’altro
che automatico di educazione al “vedere”, e non sempre porta a risultati trascendentali.
La conoscenza intrinseca della realtà attraverso il vedere è un problema che è stato
affrontato, e mai definitivamente risolto, da illustri pensatori di tutti i tempi, da Platone a
Barthes. Neanche Calvino ci ha sfornato la ricetta definitiva. Il suo Palomar infatti entra
in crisi nel momento in cui intellettualizza consapevolmente la “ricchezza infinita di cose
da guardare” e, così facendo, introduce le sue aspettative nell’atto del guardare,
rovinando tutto l’effetto del “richiamo da fuori”. Dopo una serie di elucubrazioni sull’io
guardante rispetto al mondo che guarda se stesso, Palomar-Calvino conclude che non è
19Italo Calvino, "Le meditazioni di Palomar", in Palomar, Torino, Einaudi, 1983, p. 117.
99
possibile usare consapevolmente un metodo di soppressione della soggettività
dell’osservatore, perché si cade in un paradosso irresolubile, «perché queste cose
accadono quando meno ci s’aspetta» (p. 117).
Ad esempio, in una banalissima giornata di pioggia.
Non so come dire, guarda, è terribile questa pioggia. Piove continuamente, fuori fitto e
grigio, qui contro i vetri del balcone a goccioloni grevi e duri, che fanno plaf e si schiacciano
come schiaffi uno dopo l’altro, che noia. Ecco una gocciolina alta sul riquadro della finestra,
un attimo vibra contro il cielo che la scheggia in mille luccichii spenti, cresce s’ingrossa
barcolla, cadrà non cadrà, non è ancora caduta. Si afferra con tutte le unghie, non vuole
cadere e si vede che si aggrappa con i denti mentre le si gonfia la pancia, è ormai una
gocciolona che pende maestosa e, di colpo, zup giù, plaf, disfatta, niente, una viscosità sul
marmo 20.
L’argentino Julio Cortázar, maestro del surreale forse proprio in quanto attento
osservatore del reale, ci offre in questa immagine una magica trasformazione della realtà
quotidiana grazie inizialmente alla sua capacità di coglierne i minimi dettagli oggettivi. Il
brano inizia con «Non so», dichiarazione forse inconscia di quell’attimo essenziale di
inconsapevolezza, di assenza virtuale dell’io pensante, che si fa tutto occhi, senza
precondizionamenti. L’autore chiama il lettore — “guarda” — a vedere la realtà così
com’è: il grigio fuori, i «goccioloni grevi» e, mettendo lo sguardo a fuoco su un punto della
finestra, una «gocciolina alta» che vibra contro il cielo e cresce gonfiandosi d’acqua.
Ecco che, nel mezzo della noia del pomeriggio («quando meno ci s’aspetta...») il
paradosso calviniano tanto corteggiato da Palomar si realizza in una “visione” mentale
diversa: l’osservatore entra, per così dire, nell’oggetto osservato, immergendosi nell’acqua
di cui è fatta la goccia come nel sangue di una creatura vivente. E la goccia diventa
persona. Quel che segue è la veduta, tanto oggettiva quanto personale, di una goccia che
cade.
Lascio a voi considerazioni sullo stile e sulle metafore implicite in questa caduta.
Ognuno può vederci quello che vuole, e non è necessario chiamarsi Cortázar per avere
“visioni” simili guardando una goccia che cade. Quello che è necessario, è concedersi il
tempo — e l’attitudine mentale — per guardare davvero intorno a sé. Ciò che Cortázar ha
saputo fare mirabilmente, è afferrare il passaggio dalla banalità del quotidiano
20Julio Cortázar, “Le gocce”, in Storie di Cronopios e di Fama, Torino, Einaudi, 1971, p. 97.
100
all’ispirazione poetica, e tramite essa rappresentare una diversa forma di conoscenza
della realtà.
Devo ancora rivelare quel “segreto”, molto noto e semplice, che Calvino e Cortázar vi
hanno già svelato tra le righe? Imparare a vedere, anzi, ri-imparare a vedere come
quando da bambini guardavamo un oggetto nuovo, è la chiave della porta della creatività.
101
8.2 LA DIALETTICA DELL’ESPERIENZA UMANA
Di fronte alle grandi intuizioni epistemologiche rotanti attorno all’atto cognitivo del
vedere, non possiamo che inchinarci e riconoscere l’incapacità finale dell’uomo di
conoscere la realtà. Tutte le definizioni del vocabolario, le spiegazioni del maestro, le
teorie dello scienziato, non sono che tenui, seppur dignitosi, tentativi di afferrare un’idea
del mondo e circoscriverla in termini umanamente comprensibili. Ma sotto sotto,
sappiamo bene che la verità ultima ci elude.
Tuttavia questo è un bene. Se avessimo la chiave della conoscenza perderemmo quella
della creatività. Non avremmo più nulla da afferrare e nulla da affermare. Il bello
dell’esistenza umana, in fondo, è proprio la sua natura mai perfettamente definita, quindi
dialettica. Poiché niente è assoluto, tutto si può discutere.
Uno dei mandati principali dell’autore di narrativa è di mettere in scena due o più
personaggi, con le loro rispettive “vedute”, e offrir loro uno spunto di confronto. Questioni
di etica, problemi di comportamento fra i due sessi o fra due generazioni, conflitti tra
razze e culture diverse, sanità o insanità mentale, sono tra gli esempi più comuni di
contrasti generati da punti di vista divergenti, e formano una riserva pressoché
inesauribile di spunti per lo scrittore che voglia sondarli attraverso i suoi personaggi.
Qui più che mai il “punto di vista” costituisce il “punto di partenza” per un diverso
grado di conoscenza della realtà. Ogni personaggio vede e ci rivela un mondo tutto suo,
non solo attraverso i suoi occhi, ma dall’intimo occhio della sua mente. Poter vedere le
cose simultaneamente da vari punti di vista di personaggi inventati è un gioco
affascinante in letteratura, nonché uno spiraglio di conoscenza sulla condizione umana.
Sta all’autore presentare una panoramica di punti di vista tale da fornire uno sguardo
più ampio al lettore attivo — a chi cioè è pronto a leggere una storia veramente ad occhi
aperti.
102
8.3 LA FONTANA DI LORENA
Carlo Sgorlon, scrittore contemporaneo friulano, esplora nei suoi romanzi le
dinamiche conflittuali emergenti tra la sua gente. L’ambientazione è tipicamente friulana,
ma le tematiche, profondamente umane, rispecchiano sentimenti e atteggiamenti comuni
a tutti gli italiani di oggi, divisi tra mille correnti innovative che fanno breccia in un
vecchio tessuto di valori e sistemi tradizionali.
Nel romanzo La fontana di Lorena, il conflitto generazionale è uno dei fulcri attorno a
cui stridono alcune problematiche etico-esistenziali, considerate dai punti di vista
contrastanti di madre e figlio. Essi vivono in una casa in collina, lei artista, lui
sfaccendato post-liceale dallo spirito ribelle. Il paese lì vicino aveva ospitato una mostra
di statue, che una mattina sono state trovate brutalmente distrutte.
Eva sospettò subito chi poteva essere l’autore, e quando scoprì nella rimessa una sega
d’acciaio ancora sporca di gesso ne ebbe la certezza:
— Arriano, perché l’hai fatto, in nome di Dio?
— Erano statue bruttissime.
— Ma a loro sembravano belle.
— Erano brutte al punto che offendevano chi le guardava. Non potevo più tollerarle.
— Non avevi alcun diritto di fare il distruttore.
— Che importa? Me lo sono preso, il diritto 21.
Che il brutto e il bello siano questioni di punti di vista c’è poco da discutere, ma
quando le statue esposte «offendevano chi le guardava» al punto da indurlo a
distruggerle, l’argomentazione filosofica sulla relatività della sensibilità estetica diventa
una controversia etica. Chi può stabilire i limiti di tolleranza altrui quando l’arte diventa
sozzura? E chi, d’altra parte, può assumersi il diritto di eliminarla?
Toccata personalmente dalla presa di posizione del figlio, Eva gli chiede come la
penserebbe se qualcuno venisse in casa a bruciare i suoi quadri. Arriano non ha una
risposta pronta e si limita ad alzare le spalle. Il germe dell’incomprensione s’insinua tra
madre e figlio.
21Carlo Sgorlon, La fontana di Lorena, Milano, Mondadori, 1990, p. 138.
103
Eva guardava il giovane stupefatta. Era suo figlio, ma le pareva nello stesso tempo di
vederlo per la prima volta, come fosse un marziano, un essere profondamente diverso, che
parlava un’altra lingua, del tutto incomprensibile. (p. 139)
È significativo questo passaggio dalla dialettica discorsiva all’atto muto della madre
che guarda “il giovane”, stupefatta, come se la persona davanti ai suoi occhi fosse un
essere sconosciuto che vede per la prima volta. Il guardare qui diventa conoscenza
diretta: una conoscenza emotivamente spiacevole, ma imprescindibile dalla realtà. Sarà
capitato a chissà quante mamme, che credevano di conoscere il loro figlio, finché un
giorno lo hanno “visto” sotto una luce diversa...
L’autore è rimasto dietro le quinte, osservatore onnisciente ma impenetrabile, al di
sopra della diatriba tra i suoi protagonisti. Da una parte Arriano, giovane d’oggi e in un
certo senso rappresentativo dell’antieroe moderno, che «cercava di riempire il vuoto del
mondo con una serie di bizzarrie e colpi di testa, perché questo gli sembrava un modo di
protestare contro l’assurdità dell’esistenza» (p. 140); dall’altra Eva, figura di madre
giustamente preoccupata «per le imposture e le braverie di suo figlio» (p. 144). In un
passo seguente, ella lo affronta di petto chiedendogli perché non si decide a darsi una
regolata e ad iscriversi all’università.
— Te l’ho già detto tante volte, mamma.
— Ma io non l’ho capito. Tornalo a dire.
— Ci andrei solo a perdere del tempo.
— Che discorso è mai questo?
— Io l’università l’ho già fatta. Sono già dottore honoris causa.
— Sei solo un vanitoso.
— No. Il fatto è che io mi conosco bene, e tu no. (p. 145)
Questo secco dialogo sotto forma di botta e risposta ha avuto un effetto particolare su
di me. Nel leggerlo, mi ritrovavo a simpatizzare di momento in momento con l’uno o con
l’altra. Sia lo struggimento della madre, sia la ribellione del figlio mi risultavano tanto
comprensibili da poter veramente “vedere” i loro rispettivi punti di vista come se io,
spettatore, fossi stato in ciascuno di loro. E mentre loro due scoprivano di non
conoscersi, io li ho conosciuti.
La capacità dell’autore di presentare due punti di vista opposti senza parzialità
manifeste implica la sua capacità di immedesimarsi in entrambi i personaggi e al tempo
104
stesso di “guardarli”, come dal di fuori, per quel che sono senza giudicarli. Questa è una
delle virtù massime di uno scrittore di narrativa, specialmente al giorno d’oggi quando
l’appartenenza a ruoli o categorie non è rigida come in altri tempi e non si può,
ragionevolmente, prendere le parti al cento per cento per l’uno o per l’altro personaggio. Il
rapporto dialettico-conflittuale tra Eva e il figlio rimane irrisolto nel romanzo di Sgorlon,
come nelle generazioni d’oggi. Sta al lettore fare le sue riflessioni.
105
8.4 UN’ESPLOSIONE DI PUNTI DI VISTA
L’universo più misterioso non è quello di fuori, ma quello di dentro. Anche quando si
crede di vivere nella stessa realtà, ciascuno la vive a modo suo, spesso beatamente ignaro
del punto di vista altrui. Poiché due persone non si possono fondere in una, ognuno è
condannato, nella vita, a vedere soltanto con i propri occhi. Questo da un lato ci aiuta a
mantenere un senso d’identità, dall’altro ci impedisce di capire fino in fondo un’altra
persona, di vedere come stanno le cose da un punto di vista diverso dal nostro.
Solo l’autore di narrativa, nella sua qualità di dio creatore di diversi personaggi, è
nella posizione di poter entrare nella testa di ciascuno di loro. Abbiamo avuto un
assaggino di questa facoltà dal romanzo di Sgorlon. Ma potete immaginare o ricordare un
romanzo intero che continua a rimbalzare da un punto di vista all’altro, non soltanto in
un rapporto dialettico tra due personaggi, ma attraverso la vita intera di tre, quattro o
cinque “teste” diverse, tutte narrate in prima persona? Così è il romanzo di William
Faulkner, L’urlo e il furore, che comincia direttamente con la “voce” di Benjy, minorato
mentale, e procede, narrato ancora in prima persona, ma con le voci degli altri membri
della sua famiglia, dilaniata da odî, gelosie, incomprensioni e imbrogli. Questa opera di
Faulkner, notevole per la dimensione conoscitiva (e sconvolgente!) che egli fa scaturire
dalla mente di ciascun personaggio col suo pensiero riportato in diretta, ha un solo
inconveniente: è di difficile lettura. Non so se una famiglia del Mississippi potrebbe
riconoscersi meglio di me nel linguaggio e nelle azioni dei personaggi di Faulkner, ma
dubito che chiunque possa provare facilmente una immediata sintonia con alcun
personaggio di questo romanzo. Queste fatiche sono il prezzo da pagare per chi voglia
arrivare fino alla fine, in questo percorso a ostacoli dentro i labirinti della mente.
Per una paragonabile esplosione di punti di vista multipli incentrati sulle vicende di
una famiglia, consiglierei senz’altro di leggere una scrittrice contemporanea “nostrana”,
Lara Cardella. Se Emily Brontë ha ricevuto l’appellativo di “Shakespeare in gonnella”, io
oserei conferire alla nostra Lara il titolo onorario di “Pirandello in gonnella” (anche se
forse lei... voleva i pantaloni). Scherzi a parte, la giovane autrice siciliana di Volevo i
pantaloni ha mostrato sin dal suo esordio letterario una marcata capacità di intrecciare
personaggi e casi strani in situazioni non meno paradossali di quelle ideate dal suo
famoso predecessore. Le contorsioni di punti di vista nei diversi personaggi della Cardella
sono veramente pirandelliane, ed essi possiedono quella qualità di “riconoscibilità”
106
umana, pur nella loro diversità di vedute e di modo di essere, che li fa identificare nel
lettore, e forse anche amare.
Il libro da leggere, oltre a Volevo i pantaloni, è Fedra se ne va. L’eroina della tragedia
classica, Fedra, è incarnata in una Fedra dell’odierna Sicilia, sposa di un Teseo che non
ama, e fatalmente innamorata del figliastro Ippolito, il quale però respinge il suo amore.
Su questo quadro s’innesta un meccanismo di tragedia che finisce per travolgere tutti i
personaggi. La trama, già in sé avvincente anche se non originale, si fa sempre più
coinvolgente di capitolo in capitolo, grazie allo stratagemma narrativo adottato dalla
Cardella: si mette lei in prima persona ad “intervistare” i personaggi, ciascuno dei quali
fornisce la propria versione della storia. Ne risulta che, pur mantenendo la trama
assolutamente inalterata, ogni versione raccontata da un punto di vista diverso dà alla
vicenda un taglio radicalmente contrastante rispetto agli altri. Il libro nel suo insieme
diventa un caleidoscopio di testimonianze in conflitto l’una con l’altra, eppure tutte
veritiere, narrate con un’autenticità e con una foga di sentimenti tali da far vivere al
lettore la medesima esperienza con emozioni sempre nuove.
È questo uno dei romanzi più mind-blowing, come si direbbe in inglese, “che ti fanno
esplodere la mente”, che mi sia capitato di leggere. Il virtuosismo concettuale/strutturale
del miglior Faulkner o di Pirandello è qui accompagnato da uno stile snello ed immediato,
che ti penetra dentro senza che nemmeno te ne accorga. Quello che rimane, infine, è la
sensazione di aver “visto”, attraverso la lettura di questo libro, una realtà umana nelle
sue più intime, più viscerali, più contraddittorie verità.
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8.5 AL LAVORO!
Adesso tocca a voi dare un twist alla realtà cambiandone il punto di osservazione e lo
stato d’animo di chi la guarda. Descrivete il vostro ambiente quotidiano (per esempio, le
strade del vostro quartiere) come se foste un forestiero, uno straniero che non è mai stato
dalle vostre parti e che trova tutto un po’ strano...
Ora un esercizio con più punti di vista. Immaginate il sole che picchia sulla spiaggia
in un caldo pomeriggio di luglio. Sì, dico proprio quel banale disco giallo nel cielo blu.
Perché esso entri con forza viva nella vostra pagina, questo sole deve essere “visto” da
personaggi che lo vedano e lo sentano ciascuno a suo modo.
Quindi, mantenendo sempre oggettivamente lo stesso sole sulla stessa spiaggia alla
stessa ora, fatelo “vedere” separatamente attraverso gli occhi dei membri della seguente
famiglia:
1) un bambino che sta costruendo un castello di sabbia
2) la sorella maggiore, ancora non molto abbronzata, stesa su un asciugamano
3) la madre nella sedia a sdraio sotto l’ombrellone, con un libro semichiuso in mano
4) il padre, che ha mangiato troppo e, sdraiato sulla sabbia, si sente pervaso da una
pesante sonnolenza.
Iniziate ciascuna delle quattro “osservazioni” con il verbo guardare. Meglio ancora,
tutte e quattro le descrizioni dovrebbero iniziare in modo simile, ad esempio: «Guardò il
sole e gli/le parve...» Poi caratterizzatele, una per una, in maniera diversa a seconda del
punto di vista adottato. Che il Dio Sole vi sorrida!
108
9 LA VOCE NARRANTE
109
9.1 NARRATORE VS AUTORE
I punti di vista all’interno di una storia sono potenzialmente tanti quanti sono i suoi
personaggi. Ma c’è un ulteriore punto di vista, quello che abbraccia tutta la narrazione.
Come la cornice di un quadro, che va scelta accuratamente per farne risaltare i colori nel
modo più appropriato, così pure la “cornice” di questo particolare punto di vista va scelta
e misurata oculatamente per dare alla storia il taglio più indicato. La cornice di cui
parliamo è la voce — o, più tecnicamente, il punto di vista — del narratore.
Distinguiamo subito fra autore e narratore, poiché ad una lettura disattenta essi
rischiano di essere identificati come se fossero tutt’uno. A volte, è vero, i due possono
coincidere o assomigliarsi molto; ma possono anche divergere come il sole e la luna, o
nascondersi uno dietro l’altro, scomparire, riapparire, declamare la propria presenza a
lettere maiuscole, o parlare sottovoce. Chi sono, allora, questi due personaggi occulti
della narrativa? Per dirla in breve, l’autore è una persona nel senso italiano della parola,
mentre il narratore è una persona nell’accezione latina. Persona, in latino, significa
maschera. Più precisamente, la maschera indossata dagli attori nel teatro greco e romano
o, per estensione, la parte recitata dall’attore.
Si sa che un attore non è il suo personaggio, anche se generalmente (ma non sempre)
un attore preferisce impersonare qualcuno in cui possa per sua natura o per suo talento
immedesimarsi. Lo stesso dicasi per l’autore di un testo letterario. L’autore è colui che
scrive il testo, ma il narratore è la sua “maschera”, la voce che recita il testo, dunque una
personificazione fittizia dell’autore. Le parole del testo sono sì scritte tutte dall’autore, ma
non è affatto detto che esse corrispondano davvero alle sue vedute: potrebbero essere
dette con ironia, o l’autore potrebbe anche prendersi gioco del narratore, magari non
apertamente ma in maniera tale che il lettore “veda” la stupidità o gli errori del narratore
e lo giudichi di conseguenza. Se ad esempio il narratore di una storia dice «John era un
uomo onesto», ma poi John si rivela un impostore, possiamo giustamente concludere che
il narratore era inattendibile. L’autore, dietro le quinte, sapeva benissimo che John era
un impostore, ma ha voluto, sicuramente per qualche motivo, trarre in inganno il lettore
tramite il suo poco attendibile narratore. Sta al lettore attento cogliere il perché.
La voce narrante, che chiamiamo per semplicità il narratore, non corrisponde a quella
dell’autore se non nella misura in cui l’autore l’ha deciso. Attenzione quindi a non
accusare un autore delle infamie del suo narratore, soprattutto in generi “ironici” come la
satira. Ripensiamo, ad esempio, al caso clamoroso di Jonathan Swift, che fu
110
veementemente attaccato, tacciato di crudeltà e misoginia, perché nella sua satira
intitolata “Una modesta proposta”, la sua persona letteraria consigliava ai cittadini
britannici di mangiare i loro bambini per superare i disagi della povertà. Sappiamo bene
che la feroce satira di Swift era intesa come un’accusa alla classe benestante inglese, che
per poco non costringeva la popolazione al cannibalismo, per quanto la riduceva all’osso!
Certo, far passare la propria persona letteraria per crudele o stupida o inattendibile è
sempre un gioco pericoloso da parte dell’autore, che rischia di essere frainteso e
duramente attaccato dalla critica. Si consiglia, pertanto, soprattutto ad autori esordienti,
di non abusare troppo della distanza ironica tra autore e narratore, se non altro per
motivi prettamente pragmatici. Consiglierei però al tempo stesso di acquisire la
consapevolezza della possibilità di tale divario, sia per saperlo individuare nella
letteratura esistente, sia per farne un uso opportuno in scritti originali.
111
9.2 LA SCELTA DELLA VOCE NARRANTE
Fatte queste premesse, si può giudicare quanto sia importante scegliere una voce
adatta alla storia che si vuole narrare. La voce narrante, o narratore, è anche denominata
“punto di vista” narrativo nel senso che, ovviamente, chi legge è indotto a “vedere” la
storia con gli occhi del narratore. Ma, senza troppo perderci in pignolerie semantiche,
constatiamo che esistono in pratica due modi principali di raccontare una storia e quindi
di trasmetterla al lettore: tramite la voce di un “io” narrante, in prima persona singolare;
o tramite quella di un narratore, spesso anonimo, in terza persona singolare. Entrambe le
forme narrative sono usate per scopi ben precisi e presentano dei pro e dei contro.
La prima persona singolare dà la sensazione di una storia vera, raccontata di persona
da chi l’ha vissuta. Questa è, dopo tutto, la forma che si usa in un diario, in
un’autobiografia, o in quei “generi” letterari personali che viaggiano a cavallo tra fiction e
non-fiction. Resoconti di vita e storie realmente accadute costituiscono il regno narrativo
“naturale” della prima persona singolare. Non si tratta necessariamente di
rappresentazioni esatte della realtà, anzi, esse sono intrise, palpabilmente, della
soggettiva interpretazione o visione dell’io narrante. Scrivere in prima persona comporta
quindi una responsabilità particolare, dato che l’autore non può facilmente nascondersi
dietro una “maschera”. O se lo fa, rischia fortemente di essere frainteso dal lettore, che
istintivamente vede nell’io narrante proprio colui che sta dietro la penna.
Autore, narratore e protagonista tendono a confondersi più che mai in questo tipo di
narrativa. Molto arguta è un’illustrazione di questa situazione, esposta da Jorge Luis
Borges in “Borges e io”. L’autore ci mostra l’io reale che va a spasso per la città, e ci dice
dell’io fittizio che scrive le storie di “Borges”. Poi precisa: «Io vivo, mi lascio vivere, perché
Borges possa tramare la sua letteratura, e questo mi giustifica». La “giustificazione” della
sua esistenza è dar vita all’autore Borges, che possa così scrivere le sue storie. Ma “egli”
riconosce che la sua vera vita è a mala pena riconoscibile nella letteratura firmata da
Borges. Per di più, essa è limitata nello spazio e nel tempo alla sua persona mortale: «Io
son destinato a perdermi, definitivamente, e solo qualche istante mio potrà sopravvivere
nell’altro». L’“altro” è l’autore, quello pubblicato, la cui parola scritta resterà nel tempo. Il
paradosso della momentanea coesistenza di Borges uomo e Borges autore è espresso
brillantemente nell’ultima riga del brano, che dice: «Non so chi dei due scrive questa
pagina» 22.
22Jorge Luis Borges, “Borges e io”, in Antologia personale, Milano, Silva, 1962, p. 183.
112
Dunque scrivere in prima persona è più insidioso di quanto possa sembrare a prima
vista. Al giorno d’oggi si guarda con sospetto ad un autore, soprattutto esordiente, che
scrive in prima persona. Si ritiene, forse giustamente, che questo modo di scrivere indichi
un non sufficiente distacco tra l’autore e la storia che egli racconta. L’uso della prima
persona singolare, infatti, dà l’impressione che l’autore si sia messo a scrivere non un
romanzo, ma un resoconto della propria vita. E per quanto interessante essa possa
essere, siamo tutti piuttosto riluttanti all’idea di tuffarci nella vita di un altro, o in un suo
romanzo intitolato “La mia vita”, a meno che non si tratti di una persona che già
conosciamo e amiamo.
Ce lo conferma simpaticamente anche il nostro scrittore “filosofo” napoletano, Luciano
De Crescenzo:
Vediamo [...] cos’è capitato al mio povero Vita di Luciano De Crescenzo scritta da lui
medesimo. Il pubblico si è subito diviso in due schieramenti: un primo gruppo (piccolissimo),
quello dei fan di De Crescenzo, che si è precipitato a comprare il libro, e un secondo, quello
della quasi totalità degli italiani, che ha pensato: «A me, della vita di De Crescenzo, non me
ne frega niente!» Eppure Vita, a mio avviso, è la cosa migliore che sia mai riuscito a scrivere 23.
Sulla questione dei titoli, che lo stesso De Crescenzo tratta nel suo spigliatissimo
testo, torneremo in un altro capitolo. Qui sia sufficiente ribadire che un titolo come “La
mia vita” può recare più danno che pubblicità alla vostra opera. Non che ci sia nulla di
male ad estrarre pepite dalla miniera della propria esperienza, anzi, questo è il mestiere
dello scrittore. Ma, a meno che non si scriva solo per se stessi, non si può ignorare il
rapporto autore-lettore. E nella psicologia del lettore c’è sempre, seppur latente, il
desiderio di identificarsi in un personaggio che sia al tempo stesso fittizio e “universale”,
rappresentativo cioè di tratti fondamentali riconoscibili nell’umanità. E chi saresti, tu,
per auto-ergerti a rappresentante dell’umanità? Nessuno vi dirà mai questo in faccia così
brutalmente, tuttavia il più delle volte il lettore considera con poca simpatia questo tipo
di autore che, in prima persona, entra nella sua propria narrativa col tono di
protagonista.
Il seguente è un resoconto autobiografico di Ezio Franceschini che, pur essendo
scritto in prima persona, contiene uno stacco di tempo che dà modo all’autore di stabilire
una certa distanza tra il suo io narrante e l’io protagonista.
23Luciano De Crescenzo, Il dubbio, Milano, Mondadori, 1992, p. 39.
113
Anni lontanissimi. Giovinezza. Nel corpo, una forza che spaventava anche me: con un
pugno avrei spaccato la testa a un toro. Muscoli scattanti. Pazienza della fame e della sete.
Capelli foltissimi. Barba a punta, da caprone benevolo. Mai fermo. Sempre in movimento.
Sempre allegro. Prontissimo a scherzare, a prendere in giro. Non si sapeva mai quando
scherzavo e quando facevo il serio. Questo faceva andare in bestia soavi fanciulle (il perché
chiedetelo alle vostre mamme). Gran lavoratore. Passavo parte della notte a correggere
compiti. Ad ogni errore segnavo a fianco un’oca. Ma occhi limpidi, sereni: e pochissimi soldi
in tasca. Questo ero io in quegli anni lontanissimi 24.
La distanza è subito indicata dalla frase iniziale: «Anni lontanissimi». Poi,
Franceschini fa un uso particolare del pronome “me” in «... una forza che spaventava
anche me», al posto del riflessivo “me stesso”, come per distinguere fra un “me” e l’altro. Il
distacco è ancor più marcato quando l’autore si tira indietro per lasciar vedere il suo io
passato da un punto di vista altrui: «Non si sapeva mai quando scherzavo...» Il tono
ironico che attraversa tutto questo brano contribuisce all’effetto globale di fare un
personaggio del se stesso giovane. Infine, chiudere con un’eco della frase iniziale —
«Questo ero io in quegli anni lontanissimi» — ribadisce ulteriormente il divario tra l’autore
che scrive e il protagonista della storia, anche se, anagraficamente parlando, si tratta
sempre della stessa persona.
C’è da dire che la voce narrante dell’autore resta pur sempre preponderante, e sembra
quasi che la sua esplicita presa di distanza sia un espediente usato consapevolmente per
non scivolare nell’autocompiacimento. Un tono ostentato in quella direzione sarebbe
quanto di più controproducente per instaurare un rapporto di simpatia tra l’autore-
protagonista e il lettore. Che questo esempio serva come metro di valutazione
sull’opportunità o meno di usare la prima persona in narrativa, e ancor più
sull’importanza di scegliere un appropriato “tono di voce” del narratore.
Ma c’è ancora una considerazione da fare a monte di tutto ciò. Affinché l’esperienza
personale si cristallizzi in fiction è necessario un certo distacco, una sana distanza tra
l’autore e il suo protagonista, che permetta all’autore di “vedere” il protagonista, appunto,
da un punto di vista esterno, piuttosto che dal proprio sé ancora travolto dall’emozione
del vissuto. Il poeta romantico inglese Wordsworth parlava di «emotion recollected in
tranquility» come condizione indispensabile per scrivere buone poesie. La migliore poesia,
diceva, derivava sì da un’emozione personale, che però, per tramutarsi in versi, doveva
24Ezio Franceschini, La valle più bella del mondo, Milano, Vita e Pensiero, 1984, p. 50.
114
essere recollected (ricordata, raccolta, ricondotta alla mente con un processo razionale e
ordinato) nella tranquillità di un momento successivo, quando i sussulti dell’animo si
fossero calmati. Questo consiglio è valido a tutt’oggi, in poesia come in letteratura, come
pure nella vita. Ci vuole un certo distacco emotivo per poter rivedere con chiarezza il
proprio vissuto. Non è possibile definire un litigio, né una notte d’amore, mentre li si sta
vivendo. O, per fare un’analogia più propriamente visiva, non si può fotografare una
montagna mentre la si sta scalando. Il punto di vista più vantaggioso è situato
abbastanza vicino da permettere alla montagna di attrarre lo sguardo con la sua
imponente presenza, ma abbastanza lontano da poterla cogliere nel suo insieme
nell’obiettivo.
115
9.3 L’IO NARRANTE COME “FILTRO”
Esiste una figura particolare di narratore, tecnicamente di prima persona singolare,
che tuttavia fornisce un “distacco” tale da superare addirittura quello che si ottiene
normalmente in terza persona. Questo avviene quando l’io narrante non parla di se
stesso, ma si cala nel ruolo di “terza persona” che riferisce a qualcuno la storia di un
altro personaggio. Quanto più diverso il narratore dal protagonista, tanto più efficace la
sua rappresentazione.
Un vantaggio psicologico di questo metodo narrativo nei confronti del lettore è che, se
un “io” si prende la briga di raccontare la storia di un altro diverso da sé, e qualcun altro
nel testo pende dalle labbra del narratore dalla prima all’ultima parola, deve trattarsi
proprio di una storia degna di attenzione! L’inevitabile limite di questo punto di vista (il
lettore, sin dal principio, sa che non potrà mai sapere una parola di più, sul protagonista,
di quanto non “sappia” l’io narrante) crea un effetto di tensione e un desiderio di saperne
di più, che accompagna il lettore a mano a mano che il protagonista “diverso” si svela tra
le righe. Né il narratore, né il lettore potranno mai conoscerlo “dal di dentro”, per cui egli
manterrà fino alla fine un certo alone di mistero, fattore primario per tener desta la
curiosità di chi legge.
Cime tempestose, narrato addirittura da due personaggi secondari dal carattere
antitetico a quello di Heathcliff, non sarebbe altrettanto avvincente se Heathcliff fosse
presentato “in diretta” dall’autrice, e forse si ridurrebbe ad un patetico o ripugnante
melodramma se lui narrasse se stesso in prima persona. Idem dicasi per altri grandi
personaggi letterari non proprio moralmente ineccepibili, ma in qualche modo redenti dal
“filtro narrativo” di un io narrante che intravede la loro grandezza senza mai arrivare a
definirli completamente. Il capitano Achab nel Moby Dick di Melville, il Grande Gatsby di
Fitzgerald, il mostro nel Frankenstein di Mary Shelley, Kurtz nel Cuore di tenebra di
Conrad... sono tutti eroi moderni con tragici difetti, “filtrati” da un narratore che inizia il
racconto in prima persona, per poi ritirarsi e praticamente scomparire dietro il
protagonista vero, che emerge lentamente nella narrazione fino quasi a scoppiare,
nell’immaginazione stimolata del lettore, al di là dei limiti volutamente imposti dalla voce
narrante.
Essendo qui impossibile riportare, passo dopo passo, l’effetto “esplosivo” di questo
tipo di narrazione, che del resto necessita di un’opera ad ampio respiro per essere portata
a compimento, rimando ai capolavori sopra citati per una loro lettura completa. Voglio
116
comunque mostrare un esempio di “filtro” narrativo tratto da un lungo racconto di H. G.
Wells, “La porta nel muro”, in cui la funzione dell’io narrante è non soltanto quella di
“contenere” la dimensione psicologica del personaggio principale, ma anche quella di
aggiungere un elemento di mistero e suspense alla storia, grazie al tono marcatamente
incerto del narratore.
Una sera che era in vena di confidenze, nemmeno tre mesi fa, Lionel Wallace mi
raccontò questa storia della porta nel muro. E al momento pensai che, almeno per quanto lo
riguardava, fosse una storia vera.
Me la raccontò con tale semplicità e con tale forza di persuasione, che non potei fare a
meno di credergli. Ma la mattina dopo, quando mi risvegliai a casa mia, mi ritrovai in
un’atmosfera ben diversa; e ancora a letto, ripensando a ciò che mi aveva narrato [...]
trovai tutta la storia francamente incredibile 25.
Il passaggio subitaneo dalla sensazione del narratore che la storia del protagonista
«fosse una storia vera», al risveglio, la mattina dopo, con l’impressione che tutta la
vicenda fosse “incredibile”, non può che stuzzicare la curiosità del lettore. Il quale viene
poi coinvolto esplicitamente dal narratore: «È meglio che il lettore giudichi da solo» (p.
153). Fatte queste premesse, tutta la storia di Lionel Wallace, convenientemente “filtrata”
da questo narratore incerto, presenta due livelli intrecciati di assoluta inverosimiglianza e
di profonda, simbolica verità.
C’è una fantomatica porta verde, al di là della quale il protagonista da ragazzo avrebbe
scoperto una specie di paradiso perduto, che però non riesce più a ritrovare da adulto
perché, anche nelle rare occasioni in cui gli capita di rivedere la porta, è troppo occupato
o non ha il coraggio di riaprirla. Il narratore, da bravo gentiluomo britannico razionale e
scrupoloso, non potrebbe mai (o non vuole) considerare la storia dal punto di vista
simbolico, e l’unica cosa di cui sembra preoccuparsi è se i fatti narrati dall’amico siano o
no effettivamente accaduti. Il lettore, naturalmente, può “vedere”, o almeno cercare di
cogliere, la gigantesca allegoria dei vari stadi della vita di un uomo che si cela dietro i
“fatti” della storia. L’autore, naturalmente, rimane dietro le quinte e lascia che il lettore
giudichi da sé le parole del narratore.
Alla fine, quando il protagonista viene trovato morto vicino ad una porta verde molto
simile a quella da lui descritta, il narratore si chiede se egli ha così trovato il suo
25H. G. Wells, "La porta nel muro", in La biblioteca di Babele: Racconti meravigliosi, Milano, Mondadori,
1991, p. 152.
117
paradiso; se la magica porta è mai veramente esistita; che cosa c’era o ci sarebbe
dall’altra parte... senza, ovviamente, poter dare una risposta a queste domande. Nessuno,
neanche l’autore, potrebbe rispondervi, poiché in realtà siamo tutti “al di qua” della
grande porta. L’enigma dell’“al di là”, reso simbolicamente attraverso la storia di Lionel
Wallace, è drammatizzato al massimo grazie a questa forma di narrativa riferita in prima
persona ma non vissuta in prima persona.
118
9.4 LA TERZA PERSONA IMMERSA
Il procedimento letteralmente opposto a quello appena visto si verifica in un racconto
scritto in terza persona singolare, in cui però il protagonista e il narratore coincidono
esattamente: quando cioè la voce narrante, pur non essendo grammaticalmente un “io”, è
talmente immersa nel protagonista — nelle sue azioni e nei suoi pensieri — da limitare il
punto di vista narrativo a quell’unico personaggio. Per questo la si definisce anche “terza
persona limitata”. Io preferisco chiamarla “immersa” perché in effetti si tratta di
un’immersione totale nel personaggio prescelto, come se la storia fosse raccontata in
prima persona. Il limite, naturalmente, è il raggio d’azione del personaggio stesso.
Vi chiederete perché si usi una voce narrante di terza persona se il punto di vista
coincide con quello tipico della prima persona singolare. Esistono diversi buoni motivi. Il
più banale, ma non per questo da sottovalutare, è che un racconto scritto in prima
persona dà per scontato che il protagonista arriva vivo alla fine della storia, il che può
togliere parecchia suspense alla lettura. Abbiamo visto nel racconto “Goloso” di Pontiggia
che il protagonista alla fine muore, il che dà un notevole twist alla trama e al significato
della storia. Questo non sarebbe stato possibile se il racconto fosse stato scritto in prima
persona.
Un altro importante motivo per l’uso della terza persona è il distacco dell’autore dal
protagonista, facilitato dall’uso di questa forma narrativa. Sia il racconto di Pontiggia, sia
il mio romanzo su Frank, potrebbero risultare derisibili se il personaggio centrale si
mettesse a raccontare se stesso — con tutti i suoi “difetti” — in prima persona. In terza
persona, invece, l’autore può mettere tra sé e il suo protagonista quella vena ironica
necessaria per distinguere la propria persona dalla propria persona — la quale potrà
essere derisibile o criticabile, ma separatamente dall’autore.
Un ulteriore vantaggio della terza persona immersa è la possibilità di presentare altri
personaggi coinvolti nelle vicende dal punto di vista del protagonista, senza quindi la
responsabilità associata ai commenti dell’autore. Vediamo un brano, dal romanzo
Crudele amore di Mario Biondi, che utilizza così la terza persona immersa:
Delio staccò le mani dalla tastiera della vecchia Olivetti [...].
Aveva bisogno di sgranchire le vertebre più alte. E in quella posizione rimase per
qualche lungo istante. Dopo di che, alzatosi, si portò per abitudine alla finestra. Il cielo era
scuro, ma il generale grigiore dell’atmosfera sembrava rendere ancora più preziose le
119
giallorosse chiazze di fogliame degli alberi secolari. Da sotto arrivavano sfrontate le voci
delle collegiali durante la ricreazione. Giocavano, si confidavano segreti, ripassavano in
coro un poeta greco, calcando sugli accenti. Avevano una grande urgenza di crescere. Di
farsi donne. Di godere l’illusione della libertà 26.
Delio, un alter ego dell’autore e scrittore egli stesso, è il protagonista di questo
romanzo e il punto di vista è “immerso” in lui. Una volta che il lettore se ne è reso conto,
non c’è più bisogno che l’autore chiarisca che le osservazioni sugli altri personaggi non
sono quelle dell’autore Biondi, ma quelle del protagonista Delio. (Che poi esse possano
talvolta coincidere, è un altro discorso). Nel passo citato, è sufficiente che Delio si alzi e si
affacci alla finestra per far capire al lettore che le osservazioni sulle ragazze — «Avevano
una grande urgenza di crescere», ecc. — provengono dalla mente di Delio, riportate “in
diretta”, anche se in terza persona e senza virgolette, senza bisogno né di chiarificazioni,
né di giustificazioni sulla correttezza o meno del commento.
Un uso accorto della terza persona immersa offre all’autore quasi tutti i vantaggi sia
della prima che della terza persona. L’unico limite, peraltro auto-imposto, è che l’autore
non può mai separarsi dal suo protagonista e raccontare vicende che accadono fuori dal
suo punto di vista. Se lo facesse, passerebbe ad una forma di terza persona onnisciente.
26Mario Biondi, Crudele amore, Milano, Rizzoli, 1990, p. 256.
120
9.5 LA TERZA PERSONA ONNISCIENTE
Sembrerebbe un vantaggio immenso usare questa forma narrativa, che permette di
spaziare liberamente da un personaggio all’altro svelandone i più intimi segreti, di
cambiare scena a piacimento, di poter dire tutto di tutti senza le costrizioni dell’io
narrante o della terza persona immersa. Ma un narratore onnisciente, non mediato da
“filtri” di alcun genere, corre facilmente il rischio di confondere il lettore o, peggio ancora,
di limitarlo nel tentativo di non confonderlo.
Prima che sia io a confondervi con queste paradossali affermazioni, vediamo di
chiarire la natura del problema con un esempio. Supponiamo che il romanzo di Biondi, di
cui abbiamo appena letto un passo, continuasse, immediatamente dopo “l’illusione della
libertà”, con una scena all’interno della scuola in cui le ragazze parlano dei fatti loro
senza che Delio possa osservarle dalla sua finestra. Il lettore, allora, potrebbe sentirsi
fuorviato o quantomeno confuso: le riflessioni di poco prima sulle ragazze sarebbero
dunque state di Delio, o dell’autore? Nel momento in cui il punto di vista si staccasse da
Delio, a chi dovremmo imputare qualsiasi “giudizio” dato in un’anonima terza persona
singolare? Solo grazie all’immersione totale nel punto di vista del protagonista, l’autore
può mantenere con chiarezza le distanze, e con altrettanta sicurezza il lettore può
stabilire da chi provengono le riflessioni sulle ragazze in questione (o su qualsiasi altro
personaggio). Solo così, inoltre, ogni osservazione assume un significato mirato,
inquadrato nel contesto in cui si trova il protagonista, e non come osservazione buttata lì
gratuitamente dall’autore.
La scena delle ragazze nel romanzo di Biondi continua in realtà dal punto di vista di
Delio. Vediamo come tutte le osservazioni, anche se fatte in terza persona, sono
significative esattamente nella misura in cui sono proprio sue, del Delio scrittore-
protagonista.
Sentito uno strillo particolarmente acuto, Delio cercò di individuarne l’autrice attraverso
il fogliame. Avvistò vagamente un’aureola di capelli biondi, un lampo di calze bianche in
corsa. Sorrise.
Era stata proprio la coincidenza di vivere appena di fronte alle finestre di un collegio
femminile, vibrante purgatorio di fiorenti fanciulle in carne e ossa, a fargli venire in mente
la possibilità di convertire la complessa, fumosa metafora dell’ Orfeo innocente in un
121
romanzo vero. Il romanzo di un amore innocente. Non contaminato. Tra una di quelle
collegiali e un uomo adulto. (p. 256)
L’autore non ci dice se le osservazioni di Delio sulle ragazze siano esatte, se il loro
amore possa essere veramente “innocente”, né se l’ispirazione di Delio per scrivere un
romanzo su un amore di questo tipo sia giustificata dalla possibilità, chissà quanto
realistica, che una di esse si innamori di lui. Le ragazze rimangono così una visione del
protagonista, non mediate da commenti dell’autore. Un narratore onnisciente che
scendesse in campo per spiegare o commentare i pensieri di Delio al lettore sarebbe
equivalente ad un’imposizione di vedute dall’alto, togliendo a chi legge la possibilità di
scoprire da sé la verità che si cela dietro le fantasie del protagonista.
Un romanzo in terza persona onnisciente corre lo stesso rischio di uno scritto in
prima persona, ovvero che la “voce” dell’autore si faccia troppo invadente e finisca col
togliere al lettore ogni facoltà di giudicare con la sua testa. Il lettore si sente più libero di
trarre le sue conclusioni quando il racconto è “filtrato” da una prima persona esterna o
limitato da una terza persona immersa, che non quando l’autore gli serve tutta la pappa
pronta. Ma c’è di più. L’immaginazione del lettore è stimolata ad espandersi oltre i confini
di un punto di vista limitato, mentre tende a sentirsi “costretta” se è il narratore a dirgli
tutto quello che dovrebbe sapere di tutti. Ma c’è ancora di più. L’autore stesso è stimolato
a fornire più dettagli significativi/rivelatori quando è obbligato ad attenersi ad un punto
di vista particolare, che non quando ha la facoltà di dire tutto senza restrizioni.
Ricordatevi una regola d’oro: limitarsi è espandersi.
Naturalmente è possibile, e a volte anche conveniente, usare un narratore onnisciente
di terza persona, come abbiamo visto nel romanzo di Sgorlon, quando si vuole far
conoscere al lettore più di un personaggio “dal di dentro”. Allora la terza persona
onnisciente diventa l’unico strumento narrativo legalmente ammesso, perché non c’è
punto di vista limitato che possa entrare nella mente di due o più persone...
Lo stesso vale quando la trama si snoda su diversi binari, con personaggi che
agiscono separatamente e vanno tutti seguiti “personalmente”. In questi casi, però, è
sempre bene operare in blocchi di transizioni da un punto di vista all’altro, per esempio
facendo corrispondere ad ogni cambiamento un capitolo nuovo. Si possono sfruttare
brillantemente questi “salti” quando due o più punti di vista rivelano qualcosa di
determinante che non si sarebbe potuto conoscere altrimenti. Il capolavoro di
Dostoevskij, I fratelli Karamazov, è raccontato dal punto di vista illimitato di un autore-
narratore onnisciente, e contiene una pluralità di protagonisti e di avvenimenti che
122
s’intrecciano in maniera così complessa da poter essere dipanati solo da un narratore che
conosce — ma rivela soltanto al momento giusto — tutto di tutti.
Sarebbe troppo lungo e pericolosamente schematico pretendere di dare qui una
casistica di situazioni più o meno adatte ad ogni tipo di punto di vista narrativo. Ritengo
utile una consapevolezza di base dei vantaggi e degli svantaggi che s’incontrano
utilizzando un punto di vista rispetto a un altro, ma alla fin fine la scelta dipende molto
dall’attitudine dell’autore e da come si svolge la storia. C’è chi si asporta la prima persona
come un’appendice, e chi invece la ama come un proprio organo vitale. Il mio consiglio è:
sperimentate diversi punti di vista sullo stesso soggetto, finché non trovate quello che
funziona meglio per voi. Come per il vostro unico e personalissimo stile narrativo, anche
per quanto riguarda la voce narrante, cercate di stabilire quella che più vi si addice,
abbiate la costanza di adottarla, esplorarla e conoscerla fino in fondo, alla stessa stregua
di un vostro alter ego letterario. Sentendovi, comunque, sempre liberi di sperimentare
forme diverse.
123
9.6 AL LAVORO!
Avete mai tenuto un diario personale? O scritto una lettera nella quale parlate di voi
stessi? Bene. Prendete una pagina “autobiografica” scritta da voi in prima persona e
modificatela come segue:
1) Datevi un nome diverso dal vostro.
2) Riscrivete tutto tale e quale, ma in terza persona singolare.
3) Rileggete la pagina nella sua nuova versione. Vi riconoscete ancora come l’io
protagonista di quella pagina? O qualcosa è cambiato?
4) Aggiungete, oltre al cambiamento di nome, qualche caratteristica fisica o di
comportamento che vorreste possedere.
5) Modificate leggermente la narrazione in armonia con i nuovi tratti aggiunti alla
persona, (o dovremmo dire persona, a questo punto?)
6) Lasciate sedimentare la pagina per almeno qualche ora, poi rileggetela e
correggetela come se fosse un episodio narrativo che volete far leggere a qualcun altro
senza farvi “riconoscere”.
Si è delineato un personaggio abbastanza indipendente dal vostro io, da permettervi di
“prendere le distanze”? Come potrebbe ulteriormente svilupparsi questa storia? Adesso
dimenticate l’io originale del vostro diario o lettera. Mettetevi al lavoro su un racconto in
piena regola, in terza persona immersa, contenente la scena ricavata dal punto 6 di
questo esercizio. Completate il racconto, lasciatelo riposare qualche giorno, tornate a
leggerlo per apporvi altre eventuali correzioni o modifiche, infine riscrivetelo tutto in
prima persona singolare. Confrontate le due versioni finali.
124
10 L’AMBIENTAZIONE
125
10.1 IL RAPPORTO AMBIENTE-PERSONAGGI
L’ambiente in cui si muovono i personaggi di una storia corrisponde all’unità
aristotelica di luogo, o al where (dove) delle cinque “W”, di cui un buono scrittore, come
un buon giornalista, deve tener conto per redigere il suo pezzo. La visualizzazione
dell’ambiente fornisce uno sfondo alla narrativa e, ad un livello più o meno subliminale,
può definirne il genere. Se ad esempio l’azione si svolge «in una notte buia e tempestosa»,
il lettore intuisce già dalla prima riga che si tratta di una storia di stampo gotico e si
aspetterà fantasmi, assassini o comunque apparizioni da pelle d’oca. Non sempre
l’equivalenza tra ambientazione e tipo di narrativa è, o deve essere, così nettamente
identificabile; ma il legame tra i personaggi e il loro habitat è talmente “congenito” da
formare un’unità naturale all’interno di una storia.
Per uno scrittore, la scelta dell’ambiente è spesso inconscia, quasi automatica.
Sappiamo tutti dall’esperienza che certi ambienti favoriscono determinate situazioni, e
che certe situazioni richiedono effettivamente certi ambienti per potersi verificare. Non
credo ci sia bisogno di spendere molte parole per convincervi dell’importanza di scegliere
l’ambiente migliore possibile, per voi o per i vostri figli, per una vacanza, per la scuola,
per il lavoro, ecc. Nella vita tutti vorremmo vivere in un luogo in armonia con la nostra
personalità, dalla stanza da letto alla città, o alla campagna se essa è più consona alla
nostra natura. Nei limiti delle possibilità pratiche di scelta, ognuno cerca di crearsi
intorno un ambiente che maggiormente risponda alle proprie esigenze e al proprio modo
di essere.
Lo stesso discorso vale ovviamente anche per dei personaggi fittizi. Ma il problema, in
letteratura come pure nella vita, è che non sempre si riesce ad inserirsi nell’ambiente
desiderato. Se ciò nella vita può causare difficoltà e dispiaceri, in letteratura può
costituire un elemento di tensione drammatica cruciale per dare luogo al “conflitto” di
una narrazione.
Quante storie di alienazione sono state scritte nel nostro secolo! Il verbo alienare, il
cui significato primario era trasferire o allontanare («trasferire ad altri proprietà o diritti
su beni per mezzo di vendita, donazione, mutuo, ecc.» v. Lessico Universale Italiano),
inizialmente non aveva connotazioni particolarmente negative, fino a quando Marx non
riprese una definizione di Hegel, che con lo stesso termine (entfremdung) indicò un
processo della coscienza in cui essa si estrania a se stessa considerandosi come una
cosa, e lo usò a sua volta per designare l’estraniarsi dell’operaio nella società capitalistica
126
di produzione di massa. L’operaio, allontanato dalla sua natura umana in un’attività
meccanica in cui non si riconosce, diventa così “alienato” da se stesso. Questo significato
marxiano di alienazione si allarga, nella cultura contemporanea, ad indicare la
condizione dell’uomo nell’età della tecnologia, in quanto l’individuo si riduce a oggetto,
strappato alla sua autenticità quando si trova prigioniero di un ambiente che lo porta a
disumanizzarsi.
La città di New York, dove si può morire per strada senza che un passante venga a
soccorrerti, è forse la sede per eccellenza di romanzi incentrati sull’alienazione dell’uomo
moderno. Penso al recente romanzo di Bret Easton Ellis, American Psycho, il cui
protagonista, Patrick Bateman, è un top manager di successo, ricco sfondato e circondato
da donne e da ammiratori, che uccide senza pietà, completamente alienato dalla propria
e dall’altrui umanità nei rapporti artificiali con i suoi numerosissimi ma insulsi
conoscenti. Il dialogo, in questo libro, è un capolavoro di banalità. Si parla solo di vestiti,
ristoranti e programmi televisivi e il contenuto umano è pressoché zero (o “meno di zero”,
sempre per citare lo stesso autore...). Questo romanzo, violentemente attaccato dalla
critica per la violenza in esso contenuta, è secondo me una lucidissima (seppur
agghiacciante) esposizione delle conseguenze estreme a cui può portare l’alienazione di
una persona in un ambiente dove l’uomo è ridotto a manichino. Non c’è da meravigliarsi
che il protagonista spogli le sue vittime e le smembri per vedere come sono fatte dentro...
Io non attaccherei tanto l’autore, quanto le condizioni che egli ha “visto”, ormai più che in
embrione, nella sua grande città.
L’unico appunto che farei ad Ellis riguarda la parola American nel titolo. Visto che il
romanzo è ambientato esclusivamente a Manhattan, e che Manhattan non rappresenta
certo tutta l’America, non mi sembra giusto estendere all’intero continente la psicopatia
del suo dannato protagonista. Anche se, ovviamente, con “America” l’autore non intende
definire una geografia ma un tipo di realtà. Che questo valga quindi come ammonimento,
non soltanto a New York o all’America, ma a tutto il mondo civilizzato urbano.
Una cosa è certa: la storia di Patrick Bateman non potrebbe essere ambientata che in
una metropoli e al giorno d’oggi. Altre storie di tipo diverso si svolgono necessariamente
in altri ambienti. Biancaneve e i sette nani non potrebbe essere ambientata nell’odierna
New York. A meno che...
... non si voglia creare un effetto di contrasto fra un “tipo” di personaggio e un mondo
che non gli si adatta per niente. È questa un’idea sempre fresca per vedere (o
immaginare) cosa succede quando l’“anima” di un personaggio trasmigra in un ambiente
a lui inusitato. Anche questa sorta di “alienazione” è stata sfruttata in letteratura e in
127
altre forme di narrativa, e risponde, più o meno per gioco, alla domanda del personaggio:
“Ma io, che ci faccio qui?” Molte storie di fantascienza, con viaggi nello spazio e nel
tempo, offrono lo spunto per una rilocazione dove il protagonista si ritrova decisamente
“fuori luogo”. Anche il classico Alice nel paese delle meraviglie è basato tutto
sull’estraniamento dell’ignara protagonista che, per seguire un coniglio nella sua tana,
finisce in un ambiente completamente diverso da quello a lei consueto. È l’ambiente, più
di ogni altra cosa, a fornire il senso di drammatizzazione alle vicende e al personaggio di
Alice.
128
10.2 UNA CASA, UNA DONNA
Vuoi per armonia, vuoi per contrasto, un dato ambiente finisce sempre per definire o
ridefinire una persona. Descrivere la dimora di un personaggio è un validissimo
espediente per “dire senza dire” tante cose sul personaggio, oltre che per creare
un’atmosfera. Entrambe queste funzioni sono svolte dalla descrizione ambientale che
segue, l’incipit del romanzo contemporaneo italiano Caro Michele.
Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa nuova. Nevicava. Quel
giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni. La casa era in aperta campagna. In
distanza si vedeva il paese, situato su una collinetta. Il paese era a due chilometri. La città
era a quindici chilometri. Essa abitava da dieci giorni in quella casa. Infilò una vestaglia di
velo color tabacco. Cacciò i piedi lunghi e magri in un paio di pantofole color tabacco,
slabbrate, con un bordo di pelo bianco molto frusto e sudicio. Scese in cucina e si fece una
tazza di orzo Bimbo, e ci inzuppò diversi biscotti. Sul tavolo c’erano delle bucce di mela le
radunò in un giornale destinandole a dei conigli, che non aveva ancora ma aspettava
perché glieli aveva promessi il lattaio. Poi andò nel soggiorno e spalancò le imposte. Nello
specchio che era dietro il divano salutò e contemplò la sua alta persona, i suoi corti e
ondulati capelli colore del rame, la testa piccola e il collo lungo e forte, gli occhi verdi, larghi
e tristi. Poi sedette alla scrivania e scrisse una lettera al suo unico figlio maschio 27.
L’autrice, Natalia Ginzburg, dà il nome della donna, Adriana, per identificarla sin
dalla prima riga, ma oltre al nome non c’è quasi niente che la definisca come persona, se
non l’ambiente in cui vive. Che cosa apprendiamo dalle informazioni oggettive date?
Consideriamo gli elementi della sua abitazione: una casa nuova in aperta campagna, in
cui lei si è appena trasferita, sola, all’età di quarantatré anni. Sul tavolo della cucina,
delle bucce di mela lasciate dal giorno prima per dei conigli ancora inesistenti. Nel
soggiorno, uno specchio in cui lei si guarda, e una scrivania a cui si siede per scrivere
una lettera al figlio. Di Adriana sappiamo che è il suo compleanno e che porta delle
pantofole di pelo “molto frusto e sudicio”. Poi, attraverso il suo sguardo allo specchio,
l’unica concessione ad un dettaglio non puramente oggettivo, la tristezza nei suoi occhi.
Ma c’è bisogno che l’autrice ci “spieghi” la sua tristezza, a questo punto? La descrizione
dell’ambiente lo ha già fatto per lei.
27Natalia Ginzburg, Caro Michele, Milano, Mondadori, 1991, p. 3.
129
La Ginzburg non ci dice ancora niente sull’estrazione sociale e la condizione
esistenziale di questa donna, ma questa descrizione iniziale trasmette delle sensazioni
che ci danno quasi l’impressione di conoscerla già, da dentro. Siamo entrati nell’intimità
di un momento particolare, il risveglio, la mattina presto in casa sua. Il senso di freddo
(fuori nevica), di solitudine (il suo unico spunto di compagnia è scrivere una lettera al
figlio), di sciattezza (le pantofole slabbrate), sia pure in un quadro complessivo di agio
(possiede una casa nuova in campagna), ce la identificano come una donna sola, non
povera ma neanche felice.
Apprenderemo in seguito che è in effetti divorziata e che il suo mondo appartiene a
quella borghesia dalle scelte di vita piuttosto automatiche, priva di veri valori e
soprattutto di contatti umani significativi, se non su un piano prettamente superficiale. Il
freddo è un aspetto che pervade Adriana e gli altri personaggi di questo romanzo: un
freddo esterno che sembra penetrare nella loro esistenza e cristallizzarsi quale condizione
del loro stesso essere. E il lettore è subito esposto a questo “freddo”.
Anche se scritto da una gentildonna, in uno stile pacato e non aggressivo, questo
romanzo è una denuncia, forse non meno grave di quella contenuta in American Psycho,
di uno stato di alienazione dell’essere umano da se stesso e dal suo prossimo. La
Ginzburg si esprime in maniera molto più educata (e anche più sottilmente velata
d’ironia) dell’americano Bret Ellis, ma d’altra parte qui non siamo nella New York di fine
secolo, bensì nell’Italia tranquilla e agiata degli anni ‘70. L’accusa implicita però è la
stessa: l’uomo (e la donna) si va sempre più isolando, i suoi sentimenti congelati sotto
una cappa di vuoti gesti rituali.
Non sono, questi, romanzi molto piacevoli da leggere. Ma a saperli leggere davvero c’è
molto da imparare da essi. Tralasciando qui ulteriori considerazioni sulla condizione
dell’umanità odierna occidentale, vorrei fare qualche osservazione sullo stile narrativo
della Ginzburg, piatto e asciutto come la vita che rappresenta nel suo romanzo; e sulle
immagini dipinte con brevi pennellate, essenziali tocchi descrittivi che, presentando
l’ambiente che è andata a scegliersi Adriana, ne simboleggiano lo stato esistenziale.
«Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni. La casa era in
aperta campagna. In distanza si vedeva il paese...» La scansione di queste frasi, quasi
come rintocchi di campana, dà un senso del lento passare del tempo per Adriana: sempre
uguale, monotono, pesantemente cadenzato perfino nel giorno del suo compleanno.
Particolarmente toccante, poi, la messa a fuoco su di lei che, sola in cucina, avvolta in un
velo color tabacco, inzuppa biscotti in una tazza di orzo Bimbo. Bambina mai cresciuta,
forse, o adulta non realizzata, Adriana non può che compiere, con stanca abitudinaria
130
routine, quell’atto di sostentamento fisico che è il mangiare. Oltre alla sua nuda
esistenza, il resto della sua vita è tutto distante, molto distante.
131
10.3 IMMAGINI, METAFORE, O L’ESPRESSIVITÀ DELL’AMBIENTE
Un’immagine è una figura, un ritratto, un qualcosa che può essere visualizzato come
se fosse lì davanti agli occhi. La figura di Adriana che si guarda allo specchio è
un’immagine, perché anche se non la possiamo letteralmente vedere, possiamo
raffigurarla visualmente con l’occhio dell’immaginazione.
Una metafora è un’immagine alla seconda potenza: oltre a possedere le qualità “visive”
di un’immagine vera e propria, fornisce la possibilità di una trasposizione di significato,
di un tramato mentale, estendendo l’immagine iniziale a più vasti o a diversi campi.
Adriana che si guarda allo specchio, così, può essere vista come la metafora della
persona sola con se stessa, o dell’alienazione, o della condizione del narciso incapace di
amare alcuno al di fuori di sé, o...
Non esiste un traslato unico e rigido per ogni immagine metaforica in letteratura.
Molto dipende dal contesto, dal codice sociale e culturale e dal momento storico in cui
l’immagine è inserita. Inoltre, ogni lettore può percepire soggettivamente diversi significati
in un’immagine, o può non vedervi niente più che il suo significato primario o letterale:
Adriana che si guarda allo specchio perché ci passa davanti, punto e basta. Non c’è, e
forse è bene che non ci sia, un’autorità ultima che possa imporci di tradurre
un’immagine in metafora, o dirci come racchiudere un significato in una descrizione
puramente visiva. Il bello della lettura come “sport” attivo è che la ricchezza di un testo
letterario risiede non soltanto nel testo in sé, ma nello stimolo che esso costituisce per la
capacità immaginativa di chi lo legge. Far vedere e saper vedere tra le righe — scusatemi
se ribatto ancora su questo tasto — è l’unico modo, per lo scrittore e per il lettore, di fare
della letteratura qualcosa di vibrante, con cui comunicare e da cui trarre un nutrimento
personale.
Leggendo sui due piani — letterale e metaforico — si impara presto a distinguere le
descrizioni significative dai cosiddetti riempitivi. Come scrittori, si spera, avrete la
capacità di arricchire i vostri racconti con descrizioni significative, e non con dei
riempitivi. Questa esortazione vale per qualsiasi punto della narrativa, ma in particolare
(lo so per esperienza diretta di lettore e di scrittore) per le descrizioni di ambienti. Esse
hanno l’infausta tendenza ad essere buttate lì dallo scrittore come un fastidioso
“compito” da svolgere per motivi non meglio identificati che un senso professionale del
dovere, associato ad una vaga idea di realismo figurativo, e vengono a volte saltate di
sana pianta dal lettore. Ma non dovrebbe mai essere così. Un ambiente ha sempre un
132
significato, caratterizzante, simbolico, metaforico o semplicemente d’impatto emotivo. Ed
è bene che l’autore sappia coglierne l’importanza, perché poi possa farlo anche il lettore.
Qualunque storia scriviate, fate attenzione all’ambiente fisico che circonda i
personaggi. La rappresentazione visiva dell’ambiente è come lo sfondo di un quadro, che
il lettore dovrebbe sempre poter “percepire” dietro ai personaggi. Non c’è bisogno di fare
niente di eclatante per ottenere questo effetto, ma è necessario prima di tutto mettere a
fuoco i dettagli più importanti, presentandoli con immagini abbastanza pregne di
significato da lasciare un segno nell’immaginazione del lettore e fargli così vedere,
simultaneamente, la scena e l’ambiente in cui essa si svolge, come due parti integranti e
complementari di un’“unità”: l’unità del testo.
Francesco Guccini, nella sua poesia in musica intitolata “Incontro”, fa ritrovare un
uomo e una donna che avevano vissuto, e da tempo finito, un loro incontro d’amore.
Guccini ci dà un’immagine dell’ambiente, la sala da pranzo a casa di lei, da cui emergono
delle «stoviglie color nostalgia». Senza bisogno di aggiungere altro sui sentimenti del
personaggio, egli ci fa “vedere” la varietà cromatica delle emozioni accumulate in lui tra
passato e presente, prima con lei, ora non più. Tre parole, un’immagine, l’esplosione di
un mondo interiore.
Se l’ambientazione di una vostra storia non appare particolarmente significativa,
potete fare due cose: o farne a meno, evitando di tediare i vostri lettori; o renderla
significativa, partendo dai personaggi e “trasmettendo” la loro personalità o stato d’animo
al loro ambiente. Come vedremo nel capitolo sull’editing, l’ambiente è uno di quegli
aspetti che non sempre è possibile “fissare” nella stesura iniziale. Potete benissimo
lasciare qualche riga bianca, nella prima stesura di una narrazione, al posto della
descrizione dello studio o della cucina del vostro protagonista. Solo dopo che lo avrete
caratterizzato a fondo potrete tornare indietro e riempire, non con un riempitivo, ma con
un tocco d’arte mirata, lo spazio vuoto. E vedrete che il vostro personaggio ci si muoverà,
anche se immerso nei suoi disagi, più a suo agio...
133
10.4 AL LAVORO!
Ogni cucina ha un suo odore caratteristico. Sceglietene uno “di vostra conoscenza” e
traslatelo con un’immagine visiva dell’ambiente e degli eventuali personaggi presenti in
cucina. Fate in modo che l’odore si “senta” senza che voi lo definiate apertamente,
attraverso la descrizione di oggetti o di qualsiasi dettaglio visivo, in breve, attraverso il
quadro dell’ambiente.
Se non vi sembra possibile “dipingere” un odore senza nominarlo esplicitamente,
rileggete la descrizione della cucina di Adriana nel romanzo della Ginzburg e chiedetevi se
non emana un odore particolare. E adesso createne un altro.
134
11 LA DIMENSIONE TEMPO IN NARRATIVA
135
11.1 PRESENTE, PASSATO E FUTURO
Tra le facoltà del dio autore vi è quella di stabilire il tempo della sua opera letteraria. Il
sottile piacere di controllare questa elusiva entità è un vantaggio non indifferente in
narrativa rispetto alla vita. Azzardo l’ipotesi che molti, in qualche momento della loro vita,
abbiano desiderato rinascere in un’epoca diversa da quella odierna. Salvo reincarnazioni,
però, nessuno ha potuto farlo. L’autore invece può decidere il periodo storico, la stagione
e anche l’ora esatta del giorno o della notte in cui far nascere, agire e morire i suoi
personaggi. La traccia del tempo, insieme a quella dell’ambiente, è quanto di più
“caratterizzante” ci sia per creare un’atmosfera, nonché per disporre le condizioni adatte
allo svolgimento di una storia.
La parola “storia”, nella sua accezione più vasta, è generalmente intesa come un
qualcosa di passato, che ci sta dietro. Ma non è così per un romanziere. Chiedete
all’autore di un romanzo storico se non ha in qualche modo provato l’ebbrezza di
viaggiare nel tempo, compiendo un balzo nel passato con i suoi personaggi. Scrivere un
romanzo storico, una biografia, o una qualsiasi “storia” ambientata nel passato è, per
quanto umanamente possibile, vivere e far rivivere nel presente un tempo che fu.
Similmente, gli autori di fantascienza viaggiano in tempi diversi dal nostro “vivendoli”,
nella loro immaginazione, attraverso narrazioni ambientate nel futuro. Le storie di
fantascienza, estrapolate il più delle volte dalla realtà attuale, possono essere proiezioni
alquanto veritiere, o almeno verosimili, di elementi già esistenti in nuce nella società
contemporanea, reinterpretati dalla sensibilità dello scrittore e trasposti in una plausibile
società del domani.
Il presente, il passato e il futuro non sono che convenzioni umane per definire la
dimensione che li contiene tutti e tre e che raramente riusciamo ad afferrare nella sua
globalità, se non in momenti di intuizione particolare, che alcuni ritengono
“paranormale”. Ma la mente umana contiene, dentro di sé, un meccanismo per poter
rivivere il passato nel presente e proiettare il presente nel futuro. Non c’è bisogno, a
questo fine, di inventare una macchina del tempo, perché ce l’abbiamo già in noi.
L’autore di entrambi i generi, lo storico e il fantascientifico, proietta nei suoi romanzi la
sua macchina del tempo. Non mi riferisco soltanto ai casi più vistosi, come il Nautilus di
Verne che più tardi è stato realizzato dalla tecnologia. Parlo di una dimensione che non
possiamo toccare con mano, ma che è un’espansione nel tempo di un patrimonio
permanente, comune all’umanità intera ed espresso nei più svariati modi, letteralmente o
136
letterariamente. Nella realtà della mente, l’esperienza del passato e quella del futuro
coincidono nel vissuto dell’immaginazione. Tutto ciò che è immaginabile è
quintessenzialmente “presente” come potenzialità dell’essere umano. Sta all’artista
coglierne una vibrazione e rappresentarla nella sua opera.
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11.2 ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO
L’opera narrativa di Marcel Proust è un’“implosione”, nella mente dell’autore, di
luoghi, fatti e personaggi che sembravano perduti nelle sfere del tempo passato e che
sono stati richiamati alla mente, per caso, dal sapore di una madeleine inzuppata nel tè.
... à l’ìnstant même où la gorgée mêlée des miettes du gâteau toucha mon palais, je
tressaillis, attentif à ce qui se passait d’extraordinaire en moi 28.
Potrà sembrare strano che una poltiglia di briciole sciolte in una tazza di tè abbia
provocato un effetto talmente “straordinario” da indurre una persona a scrivere sette
romanzi e a dichiarare vittoria sul tempo e sulla morte, e che tutto ciò sia diventato la
massima espressione della letteratura francese del ventesimo secolo. Ma prima di
tacciare Proust e i suoi ammiratori di pazzia collettiva, cerchiamo di comprendere la
portata del “trasalimento” che prova Marcel 29 quando il suo palato percepisce il gusto
della madeleine.
Questo casuale contatto evoca un’essenza personale rintracciabile nei circuiti
misteriosi della dimensione tempo, che lega due sensazioni uguali, una nel presente,
l’altra nel passato: da bambino, Marcel gustava quello stesso sapore ogni domenica
mattina quando sua zia gli offriva un pezzo del dolce in una tazza di tè. Ora, non è né la
bontà del dolce, né il ricordo razionale della sua infanzia, a far trasalire l’uomo adulto
Marcel. È la scoperta che un tempo ormai tanto lontano da essere stato seppellito perfino
dalla memoria consapevole, può tornare a galla in un altro tipo di memoria, sensoriale,
«liée au gout du thé et du gateau» (p. 80). La madeleine funge così da macchina del tempo
per Marcel, aprendogli dentro uno spiraglio del passato nel presente.
Tutto quel che segue è una ricerca del tempo “perduto” e infine ritrovato. Non più
soltanto nella tazza di tè, ma in brani musicali, odori, suoni e risonanze mentali, il tutto
orchestrato nel proprio sé, nell’universo di conoscenza che infrange le barriere del tempo.
«Je pose la tasse et me tourne vers mon esprit. C’est à lui de trouver la vérité» (p. 81).
28Marcel Proust, A la recherche du temps perdu: Combray, New York, Appleton - Century - Crofts in
agreement with Librairie Gallimard, 1952, p. 80.
29Il protagonista dell’opera di Proust ha molti tratti in comune con l’autore, tanto che i sette "romanzi" della
Recherche si possono considerare come sue riflessioni autobiografiche. Solo in punto di morte Proust
cercò di eliminare il nome "Marcel" dall’intera opera e quasi vi riuscì, dimenticando di rimuoverlo nel
manoscritto solo in due punti.
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L’atto di cercare la “verità” dentro di sé porta Marcel all’espansione spazio-temporale
del suo conoscere. L’esprit, parola che indica tanto lo spirito quanto la mente, contiene
tutta la potenzialità del suo essere, passato presente e futuro, ed è solo questione di
lasciare che questa identità atemporale raccolga consapevolmente i frammenti di sé
“perduti” nel tempo, e li concretizzi in forma letteraria. Infatti, per Proust come per
qualunque mortale, non si tratta di riprodurre esattamente l’infanzia e il resto della vita
vissuta, bensì di ri-crearla come il sé presente la “vede” nella mente, per immortalarla nel
quadro della letteratura.
Chercher? pas seulement: créer. Il est en face de quelque chose qui n’est pas encore et
que seul [l’esprit] peut réaliser. (p. 81)
La ricerca del tempo perduto non è affatto un mero ricordare ma, a partire dal “viaggio
della mente”, si trasforma in spunto di creatività artistica o letteraria. Il sapore del
passato nel presente è come un seme da cui può germogliare un’infinita varietà di piante,
“annaffiate” dall’immaginazione del momento. Il miracolo, di cui la madeleine non è che
un casuale tramite, è che l’architettura dell’intera opera di Proust s’innalza, per dirlo con
le sue stesse parole, dall’«édifice immense du souvenir» (p. 82).
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11.3 IL TEMPO CHE PASSA E IL TEMPO CHE RESTA
Il tempo, nel romanzo di Proust, fa da soggetto stesso dell’opera. Questo tema,
scandagliato a fondo da numerosi letterati, scienziati e filosofi, meriterebbe ben più che
una sottosezione di questo modesto capitolo; d’altra parte è lui stesso, manigoldo, che
m’impedisce di parlarne più a lungo: più mi soffermassi in sua compagnia, meno ne avrei
a disposizione per terminare questo libro. Che, dopo tutto, è un manuale di scrittura
creativa e non un trattato sul tempo. Ferma restando, comunque, l’importanza del tempo
come soggetto letterario e come spunto d’ispirazione letteraria, mi limiterò, nei paragrafi
seguenti, ad indicarne gli aspetti più strettamente pertinenti alla struttura narrativa.
Il flashforward e il flashback, i tempi verbali e la punteggiatura, sono i quattro
elementi-tempo che tratteremo, a due a due, in quanto aspetti tecnici della scrittura
creativa. Essi appartengono alla “dimensione tempo” della narrativa anche quando la
“tematica” del tempo non vi è esplicitamente espressa. Come ogni altro strumento del
mestiere, fanno anch’essi parte del bagaglio permanente — che rimane nel tempo — della
mente dello scrittore.
140
11.4 FLASHFORWARD E FLASHBACK
Tutti sanno che cos’è un flashback: una scena retrospettiva, un balzo nel passato
rispetto al presente narrativo. Il flashforward è il suo opposto: un balzo in avanti nel
tempo, un’anticipazione del futuro narrativo. L’esistenza dell’uno implica
necessariamente l’esistenza dell’altro, anche se di solito si considera soltanto il flashback
come tale, perché il flashforward è... tutto ciò che non è flashback, ovvero tutto il resto
della storia. Esiste però la possibilità che il flashback costituisca la parte principale della
storia, nel qual caso si può propriamente parlare di flashforward per l’unica porzione di
tempo “anticipata” rispetto al resto.
La funzione primaria di un salto temporale in una narrazione è di dare al lettore delle
informazioni, necessarie alla comprensione globale della storia, che non potrebbero
seguire di pari passo la cronologia degli avvenimenti. L’inconveniente della manipolazione
artificiale della dimensione tempo è che il flusso narrativo viene così interrotto, e il lettore
distolto, sia pur momentaneamente, dallo svolgimento lineare dell’azione. Conviene
quindi limitarsi nell’uso del flashback e assicurarsi che esso sia particolarmente
significativo e pertinente alla storia, altrimenti rischia di apparire come una digressione
gratuita e poco gradita al lettore.
Al giorno d’oggi, con la tendenza prevalente ad iniziare una storia nel mezzo
dell’azione, si rende quasi sempre necessario l’inserimento di un flashback per chiarire
come i personaggi sono arrivati al momento descritto nell’incipit. Non è però una buona
idea appiccicare un lungo blocco di flashback esplicativo subito dopo l’attacco, come se
fosse un compito eseguito meccanicamente da parte dell’autore. Perché il flashback entri
veramente a far parte della narrazione e porti avanti — e non indietro — il lettore nella
storia, bisogna scegliere un tempismo giusto: quando cioè il lettore ha già abbastanza
elementi da essere incuriosito e da volerne sapere di più su come i personaggi sono giunti
a quel punto.
Idealmente un flashback dovrebbe “entrare in scena” solo quando esso risulta
direttamente connesso ad un personaggio per il quale il lettore prova già qualche
sentimento. Basti pensare ai rapporti reali tra voi e i “personaggi” che incontrate nella
vita. Vi importa poi tanto di sapere in dettaglio il passato di una persona che vi è appena
stata presentata? Forse il vostro educato interesse vi indurrà a chiederle di dove è, cosa
fa, in che zona della città vive. E poi? Solo se la persona risulterà davvero interessante, e
in maggior misura se comincerete a provare un’attrazione per lei, vorrete saperne di più.
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E solo dopo che l’avrete conosciuta meglio potrete trarre qualcosa di ancor più
significativo da un “flashback” sul suo passato. Lo stesso vale per un personaggio fittizio
incontrato in una storia: conviene dosare i suoi flashbacks a mano a mano che l’interesse
del lettore cresce, o usarli per creare un salto di qualità, un’intensificazione dell’interesse
già suscitato, nella misura e nel momento più opportuno e in diretta connessione allo
sviluppo della storia.
Il modo più naturale per introdurre un flashback è proprio attraverso la bocca dei
personaggi coinvolti, quando essi rivelano l’un l’altro qualcosa del loro passato che
chiarisca la loro posizione nella storia. Un flashback così raccontato suona tanto più
spontaneo che non un’intromissione forzata dell’autore e, mentre svolge la sua funzione
informativa/retrospettiva, si inserisce direttamente nel flusso narrativo sotto forma di
dialogo.
Nel romanzo di Michael Ende La notte dei desideri, i personaggi principali sono un
gatto altezzoso dall’aria aristocratica, che si fa chiamare Maurice, e un corvo povero e
spennacchiato, Iacopo. Il gatto si vanta continuamente delle sue origini, come per
sottolineare la sua superiorità rispetto al corvo, finché non giunge il momento della
verità: i due si trovano insieme, accomunati dalla sorte contro un nemico più grande di
loro, e temono che sia giunta la loro ultima ora. Maurice, forse preso da un rimorso di
coscienza o da un impulso di autenticità personale, sente il bisogno di confidarsi col
corvo:
— Ah Jacopo, Jacopo — esclamò il piccolo gatto facendo fatica a non lasciar capire
quanto fosse vicino a piangere, — io non discendo affatto da un’antica stirpe di cavalieri, e
i miei antenati non vengono affatto dalla Provenza. A essere sinceri, non so neppure bene
dove si trovi, la Provenza. E non mi chiamo neanche Maurice de Sainte-Maure, questo nome
me lo sono semplicemente inventato. In realtà mi chiamo Maurizio — Maurizio e basta. Tu
almeno sai chi erano i tuoi genitori. Io non so neppure questo, perché sono cresciuto in un
buco di cantina pieno di umidità tra gatti randagi e inselvatichiti 30.
Questa confessione, e il racconto del gatto che segue, con i dettagli delle sue misere
origini, rivela una dimensione completamente nuova del personaggio, e l’antipatia iniziale
nei suoi confronti si dissipa di fronte al crollo della sua autofalsificazione. Poco dopo il
corvo gli chiede: «E allora perché lo raccontavi?» e il gatto risponde «Era il sogno della mia
vita» (p. 150).
30Michael Ende, La notte dei desideri, Firenze, Salani, 1990, p. 149.
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Una vita vissuta nell’immaginazione, come un sogno di gloria, diventata quasi reale a
furia di raccontarla. E poi demolita in un soffio. Eppure, questa “vita” interiore ha in
qualche modo cambiato il nostro gatto. La sua spiegazione a questo punto favorisce la
comprensione reciproca dei due protagonisti... e di chi li legge. Essi scamperanno alla
tragica sorte che sembrava attenderli e ne usciranno più uniti, più umani, e più simpatici
al lettore, grazie a questo flashback inserito al momento giusto sotto forma di discorso
diretto.
Ecco adesso un esempio classico di flashforward, dato in terza persona, dopo la morte
del protagonista. È appunto l’annuncio della sua morte, da parte dei suoi colleghi di
lavoro, che costituisce l’inizio del flashforward nel romanzo di Tolstoj La morte di Ivan
Il’ič. O se preferite, tutto il resto della storia è un gigantesco flashback a seguito delle
prime pagine.
La scena iniziale, nel palazzo di giustizia, mette a nudo il tipo di ambiente che
frequentava Ivan Il’ič: i suoi colleghi del tribunale ci appaiono subito come personaggi
superficiali, falsi e ipocriti, che fanno della loro vita un insieme di convenzioni da
rispettare, senza spessore dietro la patina di formalità. Questo si accentua in occasione
delle condoglianze, dove anche la vedova si rivela una persona dello stesso stampo. Il
contatto umano si riduce a scambi di convenevoli e transazioni d’affari, e perfino il dolore
per la morte di una persona cara è una facciata dietro la quale si celano meschini
interessi e preoccupazioni di tutt’altro genere che non il rimpianto del morto.
Con simili premesse, il racconto della vita, della carriera, della malattia e dell’agonia
di Ivan Il’ič acquisiscono un sapore particolare. Il protagonista stesso si è comportato per
tutta la sua vita in maniera decorosa ma artificiale e priva di valori veri, di fronte alla
potenzialità dei contatti umani che gli si presentavano e che lui continuava ad ignorare,
fino quasi all’ultimo momento. Solo poco prima di lasciare questo mondo, grazie ad una
vicinanza fisica, prima col servo Gerasim, poi con il figlio, Ivan si rende conto di avere
sbagliato tutta l’impostazione della sua vita e solo allora, «laggiù, in fondo alla buca,
s’illuminò qualcosa» 31.
Troppo tardi, ormai, per rimediare al mal vissuto. Ma almeno, l’atto di andarsene
diventa per lui un’occasione di redenzione: invece di aggrapparsi agli ultimi brandelli di
vita rimastigli, Ivan accetta consapevolmente di morire, di liberare se stesso e i suoi
familiari dall’agonia. Solo così, in un certo senso, egli sconfigge la morte: rifiutando una
volta per tutte, con una finale disposizione all’autenticità e al perdono, la sua fasulla
esistenza.
31Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, Milano, Garzanti, 1975, p. 138.
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Senza pretese di aver reso giustizia all’intero capolavoro di Tolstoj, torno a sottolineare
l’importanza delle pagine iniziali. L’uso del flashforward toglie, da una parte, la suspense
del chiedersi come si conclude la trama. Si sa già che il protagonista muore, e con questo
il lettore superficiale potrebbe chiudere il libro. Ma proprio in virtù del fatto che l’autore
ha volontariamente svelato il what — cosa succede — l’attenzione si riversa, accentuata,
sul how — su come questo finale viene raggiunto, e sul suo significato.
La rivelazione anticipata dell’avvenimento conclusivo della storia, lungi dal
minimizzarne la portata, ne accresce la rilevanza in quanto la morte di Ivan Il’ič, con la
sua presenza incombente, segna, nel lettore consapevole, ogni stadio di comportamento
del protagonista. La finalità di ogni suo atto è acuita proprio dal fatto che il lettore sa che
non ci sarà possibilità di ritorno, per lui. Altri autori, prima e dopo di Tolstoj, hanno
affermato che se fossimo pienamente consci della nostra morte, vivremmo la vita molto
più intensamente, consapevoli dei suoi più veri valori. Ma nessuno come Tolstoj ha
mostrato in maniera così tangibile, attraverso i suoi personaggi, quanto nella nostra
limitata visione la morte ci appaia come un’entità vaga e distante, velata dallo schermo
del tempo, finché non ci tocca personalmente. In narrativa, dove il tempo può essere
strutturalmente ribaltato, il velo della morte si può scoprire in anticipo, rivelandone tutta
la sua incombenza e, per contrasto, puntualizzando il valore della vita. Questo è l’effetto
del flashforward ne La morte di Ivan Il’ič.
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11.5 I TEMPI VERBALI E LA PUNTEGGIATURA
Nel capitolo sulla trama abbiamo stabilito l’importanza di mantenere un ritmo
narrativo sostenuto nello svolgimento di un filo narrativo. Ciò si riferiva al “contenuto” di
una storia, alle azioni che si susseguono in essa. Un discorso leggermente più complesso
va fatto sul ritmo della sintassi, ovvero sulla struttura del periodo.
Un’azione può essere descritta in diversi tempi e modi verbali che ne accelerano o ne
rallentano lo svolgimento. Le voci del verbo andare “va” e “andò” suonano più immediate
di “andava” o “sta/stava andando”. Il passato remoto (ma nella narrativa più recente
anche il passato prossimo) è il tempo “normale” per raccontare una storia, mentre
l’imperfetto e i tempi progressivi composti danno l’idea di un’azione di una certa durata e
rallentano il “tempo” della narrazione. Viceversa, il ritmo accelera se, nel mezzo di un
racconto al passato, s’inserisce un presente che fa risaltare l’azione come immediata.
Richard Bach, nel classico moderno Il gabbiano Jonathan Livingston, opera un cambio
di ritmo strutturale narrativo che rispecchia il ritmo di volo dei suoi meravigliosi uccelli.
Jonathan volteggiava lentamente sopra le Scogliere Remote, e osservava il suo
discepolo. Fletcher Lynd, giovane e acerbo, era quasi perfetto come allievo. Era forte e
leggero e veloce e, quel che più contava, era divorato dalla passione del volo.
Eccolo là che arriva, grigia piccola meteora, eccolo che esce da una picchiata, e sfreccia
a centocinquanta miglia all’ora davanti al suo istruttore. 32
L’arrivo in picchiata del gabbiano è accompagnato da uno scarto di tempi
dall’imperfetto al presente. In un racconto dove la velocità (non per niente, una funzione
del tempo!) è l’obiettivo dei protagonisti, è bene che il ritmo narrativo si adegui...
Anche la punteggiatura, e di conseguenza la lunghezza del periodo, hanno un effetto
sul “tempo” strutturale di un testo. Periodi subordinati contenenti virgole e punti e
virgola, incisi, frasi relative ed altre elaborate costruzioni sintattiche, oltretutto
accompagnate da congiunzioni e similitudini, come ad esempio questa frase che ancora
non arriva al punto, ma che, se la leggerete con pazienza, vi fornirà un’idea e un esempio
di ciò che comporta scrivere — e leggere — un periodo sintatticamente complesso,
costituiscono il caso limite di una retorica spesso fine a se stessa che, pur dando
l’impressione di essere alquanto ricca e sofisticata, in realtà rende la lettura un
32Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, Milano, Rizzoli, 1974, p. 75.
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complicato processo di estrapolazione di contenuti da una struttura sintattica lenta,
convoluta e che talvolta tende a confondere le idee più che a chiarirle.
Le frasi brevi sono generalmente più chiare. Un corpo narrativo si muove più spedito
da un punto all’altro. O tra due frasi parallele coordinate da una “o” o da una “e”. Ernest
Hemingway, il maestro americano del ritmo paratattico (fatto di brevi frasi sullo stesso
piano — non subordinate — poste una accanto all’altra), se da una parte è stato accusato
di avere “appiattito” lo stile letterario, dall’altra ha avuto il merito di snellirlo e
semplificarlo, e lo ha sicuramente reso più accessibile a tutti. Nel primo capoverso del
suo romanzo Addio alle armi, la congiunzione “e” compare ben quindici volte in una
decina di righe.
Senza voler cadere da un eccesso all’altro, è bene usare consapevolmente la
punteggiatura e i tempi verbali, per conferire alla narrazione il ritmo che più le si addice.
Una regola generale, che potrà sembrare paradossale ma funziona, è accelerare i tempi
quando non succede niente d’importante e rallentare il ritmo nei momenti di maggiore
tensione o suspense. Una frase rapida come “Andò a letto e si risvegliò il giorno dopo” va
bene se nella notte non succede niente di rilevante. Mentre un periodo misurato, del tipo
“Stava andando a letto, quando si ricordò di avere lasciato la luce dell’ingresso accesa: si
rialzò in piedi sonnacchiosamente e, infilatosi le pantofole ai piedi, s’incamminò verso le
scale che conducevano al piano di sotto, ecc. “ è un rallentamento ad hoc per creare
l’impressione che da un momento all’altro qualcosa succederà. In ogni momento di una
narrazione, l’autore può accelerare o rallentare il ritmo sintattico per dei motivi ben
precisi.
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11.6 AL LAVORO!
Cogliete un ritmo nella natura, come un canto di grilli o il ticchettio della pioggia, e
descrivetelo con i tempi verbali e le strutture sintattiche che vi sembrano meglio riflettere
il “tempo” che vi trasmette quel suono. Ripetete l’esercizio più volte con diversi suoni, in
modo da abituarvi a sincronizzare il vostro ritmo narrativo con il ritmo naturale che vi
pulsa nell’orecchio.
Un passo più in là: osservate il ritmo con cui si muovono le persone, le nuvole, le
lavatrici. I lampadari, i quadri, le copertine dei libri! Scoprirete che ogni essere, vivente o
non, ha un suo ritmo naturale. E che il tempo è una dimensione che tocca tutto e tutti a
questo mondo. Percepite il movimento del tempo in qualsiasi oggetto, e descrivetelo. In
prosa o in poesia, in breve o in lungo, così come vi viene.
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12 ESPEDIENTI RETORICI VARI
148
12.1 SENZA TITOLO
Questo capitolo presenta una serie di espedienti narrativi che, per la loro disparità,
non avrebbero nessun motivo di andare raggruppati sotto un unico titolo. L’unico
“attributo” che essi hanno in comune è che, insieme, arricchiscono e rifiniscono il corredo
di strumenti retorici a disposizione di un autore. Consideriamoli pure trucchi del
mestiere che, se usati ad arte, possono trasformare una storia qualunque in una brillante
narrazione. E se la storia già brilla di una luce propria, potrà infine emergere come degna
opera letteraria.
Cominciamo dai titoli. Ditemi la verità: fra tutti i capitoli di questo manuale, vi ha
ispirato particolarmente proprio questo intitolato “Espedienti retorici vari”? Non credo. E
che cosa ne dite del presente paragrafo “Senza titolo”? Un no comment sarebbe il
commento che si merita... Un capitolo dal titolo vago o che non dice niente sul suo
contenuto non invoglia granché a farsi leggere. Se voi state ancora leggendo, complimenti
per la vostra tenacia, ma scommetto che nello sguardo iniziale all’indice eravate stati
attirati maggiormente da altri titoli più specifici, come quello chiaro e tondo sul dialogo,
se vi interessa il dialogo; o da titoli che stuzzicano la curiosità, come quello sul conflitto
interiore.
Non posso certo darvi suggerimenti particolari sulla scelta dei vostri titoli, ma solo
indicarne le proprietà salienti da prendere in considerazione. Considerate il titolo come
un testo in miniatura, con un suo carattere e una sua “voce”, ove stile e contenuto
dovrebbero combaciare, e in cui il lettore possa già cogliere un messaggio da parte
dell’autore. Il titolo di un libro è il suo biglietto da visita. E come ogni biglietto da visita
che si rispetti, esso deve dare alcune informazioni essenziali in estrema sintesi, per
invitare ad un contatto più approfondito. Queste sono le tre funzioni principali proprie di
un titolo: informativa, sintetizzante e invitante.
Delle tre, la funzione informativa è ufficialmente la prima, in quanto il titolo dovrebbe
rappresentare l’opera, dire qualcosa sul suo contenuto. Per questo, forse, trovo un po’
sospetti certi quadri d’arte moderna, di cui è difficile ravvedere un significato, intitolati
“senza titolo”. Posso soltanto dire che, di fronte a tali opere, rimango spesso “senza
parole”. Invece di provare, guardando il quadro, l’appagante soddisfazione di trovare
espresso un contenuto “senza titolo”, provo la sensazione di essere io senza titoli per
comprendere un contenuto a me invisibile. Se l’autore ha qualcosa da dire nelle sue
opere, ebbene, il titolo è la sua opportunità di informare il fruitore del contenuto delle
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medesime. Ciò non vuol dire che il titolo debba sempre presentare fedelmente ed
esattamente il contenuto di un’opera; ma dovrebbe almeno costituire un richiamo, o un
aggancio, che permetta al lettore di orientarsi sul significato e lo scopo di quel che segue.
Esistono titoli ironici, dove l’informazione è data alla rovescia (vedi questo paragrafo);
titoli enigmatici, dove l’informazione è tutta da smascherare (vedi Uno, nessuno e
centomila); titoli parzialmente rivelatori, il cui pieno senso viene alla luce solo a lettura
ultimata (vedi “La visita promessa”, più avanti in questo capitolo). Come in ogni testo o
micro-testo, anche nel titolo l’autore può ben condurre la sua “partita a tennis” con il
lettore, con rimbalzi di significati e tiri ad effetto. L’importante è non buttare lì un titolo a
caso, se no il servizio rischia di non essere mai colto dal compagno di gioco...
La prerogativa che distingue un titolo da un testo più lungo è la sua sinteticità. I titoli
brevi sono quelli che rimangono più impressi nella mente. Un’espressione che
rappresenti in nuce tutto un contenuto supera in efficacia un’esauriente spiegazione.
Questo vale per tutte le parti del testo — dall’esposizione al dialogo — ma è
particolarmente cruciale per il titolo. Molti grandi romanzi sono sintetizzati in due parole,
che rimangono e rimarranno impresse nella storia della letteratura. Accostamenti di
termini quali “Guerra e pace”, “Delitto e castigo”, “Il rosso e il nero”, evocano una vasta
complessità di significati che va al di là delle singole parole. Anche certi nomi propri,
come “Lolita”, “Alice”, “Ulisse” e “Faust” hanno ormai assunto connotazioni così ricche di
significato da rappresentare prototipi fondamentali dell’umanità e da formare i titoli di
opere letterarie maggiori. Più un titolo è breve, più ampia la sua portata, più duraturo il
suo effetto.
La terza funzione di un titolo è attirare l’attenzione del potenziale lettore. Questa,
veramente, è un’arma a doppio taglio, perché un titolo affascinante non può salvare
un’opera scadente, anzi, in un certo senso ne denuncia l’inganno e l’autore, alla lunga,
dovrà nascondersi dietro il suo bel titolo e non farsi più vedere. Se però l’opera è valida,
non c’è motivo per non valorizzarla anche con un buon titolo. Il signore degli anelli, Il
nome della rosa, Il gattopardo, sono titoli che, almeno per me, contengono un potere
occulto, simbolico, evocativo, che in qualche modo incuriosisce e invoglia alla lettura. È
difficile stabilire esattamente che cosa rende un titolo “invitante”. Come in poesia o in
musica, anche il suono delle parole invita alla lettura. Leggete un vostro titolo ad alta
voce. Recitatelo ai vostri conoscenti. Come reagiscono? È importante notare il movimento
delle labbra e degli occhi dei vostri amici, quando annunciate loro il vostro titolo. Non sto
scherzando. Un titolo vale nella misura in cui è recepito favorevolmente. Non limitatevi,
150
nel vostro titolo, a dire il what (il contenuto) dell’opera: è il how (il come lo dite) che può
fare di un buon lavoro un bestseller.
151
12.2 IL FORESHADOWING
Riderete, a leggere questo titolo astruso dopo tutto il discorso che ho fatto sui titoli.
Eppure spero che, col tempo, arriverete anche voi ad apprezzare questa parola, che
oltretutto in inglese ha un suono bellissimo, dolce e misterioso. La sua radice, shadow,
significa primariamente “ombra”, ma anche “parvenza, traccia, barlume”. Il prefisso fore
vuol dire “davanti, prima, nella parte anteriore”. Il suffisso ing, che si usa per formare il
gerundio e il participio presente dei verbi, indica qualcosa in progresso, in movimento,
che sta accadendo o che sta per accadere. Alla luce di questo conglomerato di significati e
sfumature di significati, preferisco non proporre una traduzione univoca di questa parola,
che comunque, se consultate un buon dizionario, potrà essere resa con l’idea del
presagio, dell’anticipazione o della prefigurazione. Tengo a precisare, però, che non si
tratta mai di un preannuncio vero e proprio di ciò che accadrà in seguito, ma di
un’“ombra” o una traccia all’inizio della narrazione, che soltanto a posteriori (a lettura
ultimata) potrà essere riconosciuta come significativa. È un indizio che l’autore mette
subliminalmente sotto gli occhi del lettore, non per guidarlo alla soluzione di un mistero,
ma perché al momento della rivelazione il lettore possa pensare, “Ah, ecco, è così!”
sovvenendosi della shadow apparentemente insignificante che era apparsa, come per
caso, in precedenza.
Prima di mostrare un esempio di foreshadowing, vorrei ricordare un particolare
caratteristico della tragedia greca, quello del colpo di scena finale che “calava”
letteralmente da un intervento divino. Con la locuzione deus ex machina si indicava
l’apparizione della divinità che entrava in scena dall’alto, tramite un apposito
meccanismo, e serviva a decidere una situazione che gli uomini da soli non avrebbero
potuto o saputo risolvere.
Ancor oggi usiamo questa frase latina per indicare una soluzione finale inattesa, non
preparata da ciò che precede, come se piovesse dal cielo per dare una svolta improvvisa
alle vicende in corso. Può trattarsi di un fulmine dal cielo (o anche del cosiddetto “fulmine
a ciel sereno”) o di qualsiasi altro evento straordinario e fuori controllo che colpisce il
protagonista, eliminandolo dalla scena o, al contrario, illuminandolo, come ci piace
credere che sia successo a Newton quando una mela gli cadde “per caso” in testa e lui ne
dedusse la legge della gravità. In realtà, pare che Newton avesse già fatto diversi studi
sulla gravità... E, nel caso di un personaggio letterario, pare che l’autore avesse già
predisposto le cose in modo tale che l’illuminazione o il colpo finale arrivasse al momento
152
giusto, provocando l’effetto desiderato. Sta di fatto che sia il “fulmine” sia la “mela”
rappresentano casi in cui la dea della fortuna sembra giocare un ruolo preponderante
rispetto alla volontà o alle capacità dei protagonisti.
Per chi crede nella legge del caso (o del suo anagramma, il caos) può anche andar
bene che l’intreccio di una storia sia risolto dalla dea bendata, o dall’alto di un deus ex
machina. Ma un lettore di narrativa di solito si aspetta che la storia abbia un preciso
senso, che gli avvenimenti in essa accadano non “per caso”, ma con un rapporto di causa
ed effetto, con una certa logica umana riconoscibile e spiegabile. Che il “cattivo” di una
storia venga ucciso da un fulmine è un espediente del dio autore troppo comodo (oltre
che poco credibile) per disfarsi di lui. Molto più credibile e coerente all’interno della storia
sarebbe lare uccidere il cattivo da un suo nemico dichiarato, o da una trappola che il
lettore possa riconoscere come verosimile nell’ambito della storia stessa. Anche un
fulmine potrebbe andare, purché sia stato almeno prefigurato come possibilità reale sin
dall’inizio: se, ad esempio, il protagonista era stato presentilo come uno scalatore
incosciente che va in montagna anche col brutto tempo, nel momento in cui muore
folgorato in parete, il lettore potrà sentire che tutto quadra nell’unità di coerenza interna
della storia.
L’arte del foreshadowing consiste appunto in questo: nel lasciar cadere come per caso
alcune informazioni, riguardanti l’ambiente e/o i personaggi, che a posteriori si
riveleranno determinanti e contribuiranno a dare un senso compiuto alla narrazione. Un
uso misurato del foreshadowing, vuoi nel titolo, vuoi lungo lo svolgimento, è fra i trucchi
del mestiere più sofisticati ed efficaci a disposizione dell’autore, per dare al lettore attento
la soddisfazione, arrivando alla fine di una storia, di poterne riassaporare l’intero
costrutto nei minimi dettagli con una conquistata luce d’insieme.
Il titolo del racconto che segue è “La visita promessa”. Questo titolo rivela la promessa
di una visita, ma non precisa di che visita si tratta. L’articolo “La”, ve lo anticipo subito, è
il più sottile elemento di foreshadowing di questa storia. Alla fine vedremo se anche voi,
come è successo a me, direte: «Ah, ecco!»
Il racconto, scritto in prima persona da un indiano Navajo contemporaneo, inizia con
un giovane che si reca a Window Rock, la capitale amministrativa della sua riserva, in
Arizona, nella speranza di ricevere una borsa di studio degli Stati Uniti. Dopo ore di vana
attesa, lo rimandano a casa a mani vuote.
«Avrebbero potuto scrivermi per informarmi» si lamenta fra sé e sé il protagonista. E
aggiunge, come per un’informazione casuale al lettore: «Ero talmente seccato per quel
153
viaggio inutile, che saltai del tutto il pranzo» 33. Il giovane indiano si rimette così in
viaggio a stomaco vuoto, nel tardo pomeriggio, per attraversare il deserto che lo separa da
casa.
Non mi presi il disturbo di salutare il sole che tramontava, né di offrirgli la tradizionale
preghiera, intento com’ero a fissare il cofano azzurro del pickup dritto davanti a me sopra
la strada asfaltata.
Queste frasi già costituiscono un foreshadowing tematico, o un’anticipazione del tema
che sta alla base di tutta la storia: la difficoltà, per un indiano di oggi, di orientarsi e di
trovare un equilibrio fra il suo antico mondo e quello nuovo dei bianchi. La sua
consapevole negligenza nei confronti del sole viene “punita”, poco dopo, dall’arrivo di un
improvviso temporale estivo serale. Ma lui non si scompone: si bilancia sul sedile
«secondo le istruzioni del manuale d’esame per la patente», ridendo delle “vecchie
superstizioni” del suo popolo sul vento, sul sole e sulle nuvole. Tuttavia non può fare a
meno di provare un certo disagio nel passare accanto a delle croci bianche lungo la
strada che indicano le vittime degli incidenti che sono avvenuti, guarda caso,
«specialmente durante i temporali estivi». Gli si chiudono gli occhi dalla stanchezza, e gli
elementi che si abbattono sul suo pickup lo costringono a fermarsi a lato della strada,
emotivamente stremato, «con una sensazione di morte nell’anima».
Razionalmente, il giovane è convinto che non ci sia nulla da temere dai “mostri” del
vento, così dopo un po’ riparte, proseguendo nella notte. Arrivato ad una piazzuola a
metà strada da casa, gli compare nella luce dei fari...
... una figura in piedi, forse cinquanta metri più avanti. Gli oggetti scuri di notte mi
avevano sempre fatto paura. Mi afferrò un’ansia e provai un brivido di freddo. Proseguii
lentamente dicendo a me stesso che doveva essere un pony o un vitellino.
Il suo corpo sembra istintivamente “conoscere” il pericolo, ma la sua mente continua
ad ignorarlo. Fin qui il lettore ha ricevuto dal protagonista impulsi contrastanti tra il suo
spirito indiano sempre in agguato, e la sua ostinata, “razionale” negazione di esso. Tutto
questo fa parte di un complesso ordito di foreshadowing. Ma la storia adesso prosegue in
un tono rassicurante e la figura che sembrava un’ombra a lato della strada risulta essere
33Grey Cohoe, “The Promised Visit” [La visita promessa], in Natachee Scott Momaday, ed., American
Indian Authors, Boston, Houghton Mifflin, 1976, p. 106.
154
semplicemente una ragazza indiana, tutta bagnata di pioggia, che chiede un passaggio.
Lui la fa entrare e, accorgendosi che ha freddo, le offre il suo maglione asciutto, che lei
accetta con un sorriso. Le chiede dove abita, la accompagna Un quasi a casa, all’imbocco
della stradina in terra battuta, impassabile per il suo pickup a causa del fango, e alla
fine, in una forma di pudica dichiarazione d’amore, le chiede come si chiama e se sarà
possibile rivedersi. La ragazza, una persona misteriosa dall’aria alquanto solitaria e
taciturna, sembra non ricordare neanche il proprio nome, ma infine gli dice di chiamarsi
Susan e gli promette che passerà a fargli visita.
Una di queste sere verrò a trovarti. — Sorrise uscendo dalla macchina, e s’incamminò.
Tutto contento per la visita promessa, il giovane Navajo passa la giornata seguente a
lavorare nei campi della sua fattoria. Solo verso sera, quando l’aria rinfresca, si accorge
di non avere più il suo maglione rosso, che aveva prestato alla ragazza. Il giorno dopo,
allora, si mette in cerca della sua abitazione. Ma quando giunge dalle parti della sua
capanna e chiede di lei...
«È morta dieci anni fa» gli annuncia un uomo, sconcertato per la richiesta, con
un’espressione di “antico dolore” sul volto. «È stata seppellita in quella capanna».
Sul momento il nostro giovane indiano pensa ad uno scherzo. La sua mente razionale
non può accettare una simile risposta, e immagina che l’uomo sia il padre che vuole
tenergli nascosta la figlia. In effetti nota una somiglianza fra lui e la ragazza, e anche l’età
corrisponderebbe. Ma mentre lui è immerso nei suoi sospetti, l’uomo anziano si volta
“con un’espressione nuova” e gli indica col dito un “oggetto rossastro” su un tronco
accanto alla capanna, dicendogli che è comparso lì come dal nulla. Il giovane vede da
lontano che si tratta del suo maglione. Il cuore gli sobbalza, e gli viene in mente la visita
promessa della ragazza. Secondo le “superstizioni” dei Navajo, l’anima di una persona
morta può vagare per molti anni incarnandosi in un fantasma dalle sembianze umane, e
poiché nel regno dei morti si sente sola, cerca sempre di catturare un vivo per portarlo
con sé. Di fronte all’evidenza del maglione e allo sconcerto, che ora gli appare autentico,
del padre della ragazza, nel giovane scatta qualcosa: si rende conto di avere sfiorato la
morte e di essere stato risparmiato, forse, per quel piccolo gesto d’amore che ha condiviso
con lei. Il racconto si conclude così:
So che non andrò mai a riprendermi quel maglione, ma so anche che in un’altra notte di
vento rivedrò Susan, come promesso. Che cosa farò allora?
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La conclusione, contenente un’affermazione di certezza — questa volta in spirito
pienamente indiano — è seguita da un interrogativo senza risposta (in spirito...
pienamente umano!) e riprende, ribaltandolo, il tema della dicotomia fra i due mondi,
quello bianco e quello indiano. Le due chiavi di lettura, perfettamente simmetriche, sono
entrambe possibili, e sono supportate da ampia “evidenza” in foreshadowing. Per una
lettura con occhi “indiani”, appare evidente che il deridere le “superstizioni” e le preghiere
indiane non dette abbiano causato lo scatenarsi delle intemperie e poi la comparsa del
fantasma, che avrebbe condotto il protagonista alla morte se lui non si fosse “redento”
all’ultimo momento con una gentilezza gratuita. Per una lettura con occhi “bianchi”, si
può sottolineare il fatto che lui fosse stanco e a stomaco vuoto, condizioni sufficienti a
causargli l’allucinazione della ragazza; e che l’oggetto rossastro non fosse il suo maglione,
bensì un qualsiasi oggetto rosso che lui, scosso dall’allucinazione del giorno prima, non
vuole andare a vedere da vicino.
Per una lettura con occhi aperti, bianchi o indiani, sappiamo tutti che una visita
promessa può anche non verificarsi; ma che la visita promessa, quella sì, un giorno ci
toccherà. E allora cosa faremo?
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12.3 LA DIGRESSIONE
Se il foreshadowing è parte integrante della linea direttiva della trama ed anzi ne
enfatizza la portata, la digressione, al contrario, se ne stacca per rafforzarla
indirettamente. Come quando due amanti sono costretti a separarsi e il loro desiderio si
accende ancor di più, così l’autore, di quando in quando, distoglie forzatamente il lettore
dalla direttiva principale della trama per metterlo sulle spine ed accrescere la sua voglia
di riallacciarsi al filo perduto. Tanto il foreshadowing quanto la digressione vanno usati
con parsimonia: l’uno potrebbe prefigurare fin troppo palesemente la svolta chiave della
storia, annullandone l’effetto; l’altra potrebbe distrarre o infastidire il lettore al punto da
“alienarlo” dalla lettura. Ma entrambi questi espedienti vanno conosciuti ed usati a
puntino quando è il caso.
Già il primo retore siciliano, Corace, nel V secolo a. C. aveva riconosciuto nella
digressione un’arte per rendere più incisivo il discorso. In un’arringa o in un discorso
politico, basta una piccola pausa nella voce, o un “a proposito...”, o un aneddoto di cui
non si sappia ancora la rilevanza nel contesto del discorso, per generare quello “stacco”
necessario a rafforzare, per contrasto, l’importanza della linea direttiva principale.
In letteratura è sufficiente spostare la messa a fuoco da un personaggio all’altro o da
una scena all’altra, e il lettore non vedrà l’ora di “riprendere il filo” là dove è stato
interrotto. Purché, naturalmente, la trama sia abbastanza interessante in sé; altrimenti si
rischia di passare da una noia all’altra e allora non c’è stratagemma retorico che tenga.
Ma se la trama è avvincente, e soprattutto se vi si intravede una rivelazione cruciale, non
è una cattiva idea pungolare la curiosità del lettore con una piccola digressione.
L’esempio che segue è la mia traduzione di una pagina del romanzo “Gotcha!” di
James Lough, un mio compagno di scrittura creativa in Colorado. Il romanzo è tuttora
inedito, ma spero che un giorno lo possiate leggere per intero, magari anche in italiano.
La trama si snoda intorno alla vicenda piuttosto truce di un ragazzo, Julian, che ha
perso il padre in circostanze tragicomiche, strozzato da un boccone di cibo. Lo zio di
Julian, Trevor, ha praticamente preso il posto del padre in casa, e i due si accusano
vicendevolmente, anche se non proprio apertamente, di aver causato la morte del
pover’uomo. Entra in scena un bizzarro prete, Kevin, che pretende di voler “salvare” il
ragazzo e vuole conoscere di persona questo zio Trevor.
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La scena si svolge in salotto, in assenza del ragazzo: Trevor tranquillamente seduto in
poltrona davanti al televisore, Padre Kevin, appena entrato, lì in piedi davanti a lui, e la
madre del ragazzo in cucina, nello sfondo, intenta a preparare da mangiare per tutti.
Allorché i discorsi convenzionali cominciarono a languire, Trevor alzò lo sguardo su
Padre Kevin e disse:
Ha un bel lavoro davanti, lei, con il ragazzo.
Il suo tono non mi sembra molto ottimista.
No, è che lei ha un vero talento per minimizzare le cose, Padre — disse Trevor con un
tono di autocompiacimento.
Kevin sorrise. — Davvero? È la prima volta che mi si accusa di questa mancanza. Di
solito pecco del contrario.
Trevor tornò a fissare il televisore. — Sua madre gli vuole un tale bene, e per di più si
sente in colpa. Farebbe di tutto per salvarlo.
Intende dire che la situazione è tanto grave?
Non mi sognerei mai di infrangere le speranze di mia sorella. Potrà giudicare lei stesso,
questa sera. Ma tenga presente una cosa. — Trevor schiacciò un bottone dello zapping, che
era fissato sul bracciolo della poltrona. La faccia seria di un’annunciatrice bionda fu
rimpiazzata dalla faccia altrettanto seria di un anchorman asiatico. — Il ragazzo ha un
assassino dentro di sé. Mi spaventa.
A tavola — la madre annunciò dalla cucina.
Prima le immagini della televisione, poi l’intrusione della madre del ragazzo,
interrompono la tensione di questo dialogo. Tali digressioni sono, per la loro stessa
natura, fastidiose. Ma così “discretamente” inserite, dosate al punto giusto,
drammatizzano la lettura proprio in virtù del suo spezzarsi.
Lo stesso tipo di stratagemma, in scala più larga, vale per le transizioni da una scena
all’altra, quando in una storia si susseguono due o più “trame” che vanno avanti in
simultanea. Se la trama secondaria è abbastanza interessante, e ancor più se è
necessaria per corroborare quella principale, allora la digressione diventa significativa,
oltre che in sé, nell’apportare un contributo all’ordito complessivo della storia.
Il trucco è scegliere un tempismo giusto per transizioni e digressioni e mantenerle
entro certi limiti, infiltrandole possibilmente nei momenti di maggior tensione quando il
lettore è massimamente coinvolto nella narrazione, vuoi per creare un temporaneo
“distacco”, vuoi per aggiungere determinati elementi collaterali. Un vantaggio della
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digressione sotto forma di trama secondaria, rispetto a quella occasionale, è che vi si può
tornare ripetutamente, portando avanti nel contempo un filo narrativo parallelo e
integrante.
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12.4 LA PERSONIFICAZIONE
Un altro stratagemma narrativo, che in retorica coincide con la prosopopea, consiste
nel far parlare o agire oggetti inanimati attribuendovi dei caratteri umani. La
personificazione ha origine nella tendenza mitico-poetica, innata nell’uomo, di raffigurare
il mondo esterno a sua immagine e somiglianza. Senza voler entrare in discorsi teologici o
di “superstizioni” pagane, riconosciamo che l’uomo, dai tempi dei tempi, ha sempre
trasferito i propri vizi, virtù, paure e desideri in personificazioni più o meno “divine”,
letterarie e/o artistiche. Gli dèi degli antichi greci e romani, l’universale dio sole, le
divinità dell’amore, della giustizia, dell’intelligenza; le muse ispiratrici della poesia; e
perfino alcune armi (come la Durlindana di Orlando) e vulcani (quando eruttano l’ira
degli dèi) rappresentano caratteristiche tipiche della personalità umana in forma alterata,
universalizzata, cristallizzata in “personaggi” non propriamente esistenti, ma “veri”
nell’immaginazione di chi li dipinge così.
Nel linguaggio comune usiamo continuamente forme di personificazione senza
neanche accorgercene. Diciamo che la macchina non vuole partire, che il vento urla e che
il tempo corre. Per non parlare di metafore originariamente prese dalle parti del corpo
umano e ormai entrate a far parte del linguaggio corrente, come la gamba del tavolo, il
collo della bottiglia, ecc. tutte indicatrici della nostra tendenza naturale a personificare il
mondo oggettivo che ci circonda.
Esiste un vastissimo regno inanimato, accanto a quello umano, che aspetta soltanto
la nostra fantasia per essere animato. Tutto ciò che ci sta intorno può fornire una
pressoché illimitata fonte d’ispirazione per chi sa cogliervi una personalità. La
personificazione è un caso estremo di cambiamento di punto di vista, come Cortázar ha
brillantemente illustrato con una goccia d’acqua piovana. Basta aggiungervi una
personalità e una capacità di “sentire”, e la goccia, come qualsiasi altra cosa, può
arrivare a far piangere un uomo, se anch’egli la “sente” dal di dentro.
Anche il più serio dei racconti può acquisire un pizzico di vivacità se vi si infonde un
alito di personificazione. Basta dare un pizzicotto alla serietà, liberare la fantasia e...
160
12.5 AL LAVORO!
La stanza è vuota e il fumo sale verticalmente, lungo una linea sottile e piatta come
l’encefalogramma dell’aria che lo circonda. Appoggiata al bordo del cristallo, sente che la
fine sta per arrivare, e d’un tratto tutta la sua vita le riappare dinnanzi.
È nata in Svizzera, e porta discretamente un nome piuttosto famoso. Per questo si è
convinta di essere migliore delle altre e, pur senza essere certa del destino che l’aspettava,
ha sempre cercato di dimostrare un certo stile, anche a costo di apparire un po’ snob.
Si rivede trascorrere la giovinezza in un magazzino, in attesa di trovare la propria
strada ed in seguito viaggiare verso l’Italia, poco prima di fare quell’incontro che le ha
cambiato la vita.
Poi ha perso la testa per un accendino. Non uno di quegli aristocratici inglesi o francesi,
d’oro e d’argento: un comunissimo accendino di plastica, di quelli che appena possibile si
infilano nel pacchetto, al posto delle sigarette già fumate, per risparmiare lo spazio.
Giovane e ingenua, nonostante gli atteggiamenti sofisticati, si è lasciata affascinare da
quel corpo snello e dal carattere vivace. E ha creduto subito a quelle vanterie di non
sbagliare un colpo, caratteristiche degli accendini alla buona che credono di sapere come si
deve fare con le bionde.
Così, in quella fiamma arancione che ha segnato l’inizio della sua fine, lei ha creduto di
trovare l’unica ragione della sua esistenza.
Ma lui se n’è andato quasi subito e, sembra incredibile, anche il proprietario del
pacchetto l’ha abbandonata poco dopo, richiamato dallo squillo del telefono nell’altra
stanza. E adesso nel bilancio della sua vita ormai bruciata non trova molto da mettere,
anche se non ha rimpianti. Prima di spegnersi vorrebbe solo vedere un’ultima volta
l’oggetto del suo desiderio. Ma chissà dov’è lui a quest’ora, forse sta già illudendone
un’altra.
Questo simpatico raccontino è stato scritto dal giovane impiegato di banca Diego
Brunelli durante un mio workshop di scrittura creativa incentrato sul realismo magico.
Ora entrate anche voi nello spirito di collaborazione di questi corsi e...
1) Date un titolo a questa storia.
2) Aggiungete un elemento di foreshadowing alla nascita della sigaretta in Svizzera,
che ne faccia presagire l’inevitabile fine.
161
3) Inserite una piccola digressione quando dall’accendino si leva la fiamma.
4) Se questa storia vi ha ispirato, scrivetene un’altra personificando un oggetto a
vostra scelta.
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13 DAL CLIMAX AL FINALE
163
13.1 CLIMAX E ANTICLIMAX
Immaginate un romanzo come un lungo viaggio. Giorno dopo giorno, pagina dopo
pagina, si alternano gli avvenimenti, gli alti e i bassi, i momenti di gioia e i momenti di
noia. Di un viaggio, alla fine, rimarranno impressi nella mente gli scorci più drammatici,
gli avvenimenti più emozionanti, mentre le tappe di trasferimento e le ore passate a
sonnecchiare si perderanno nelle lagune del dimenticatoio.
Se voi foste una guida, non portereste certo i vostri clienti a fare un viaggio piatto e
insignificante. Cerchereste un itinerario ricco di interesse, che contenga possibilmente ad
ogni svolta un momento degno di essere ricordato. In qualità di scrittore, dovreste essere
in grado di “guidare” i vostri lettori nel percorso narrativo come in un viaggio memorabile.
Per climax s’intende una svolta memorabile nel tragitto narrativo: quel punto di
massima intensità che trasporta il lettore nell’emozione del momento, inducendolo a
“fotografarlo” nella mente come evento indelebile della narrazione. L’incontro — o lo
scontro — di due protagonisti, il salvataggio da un naufragio, l’arresto di un assassino
dopo un inseguimento, lo scaccomatto al re nemico, la conquista di una vetta o di una
donna amata... sono i “climax” che ognuno porta con sé, dalla narrativa o dalla propria
vita, e che costituiscono i picchi di tensione drammatico-emotiva di un cammino.
È inevitabile che, a seguito di un culmine di tale intensità, la tensione si sciolga e il
livello di adrenalina diminuisca. L’anticlimax in narrativa coincide con un calo di
coinvolgimento emotivo nel lettore, durante il quale egli può per così dire tirare il fiato,
per prepararsi al prossimo “colpo”...
Nell’arco totale di una linea narrativa si possono riscontrare diversi colpi di scena,
apici di tensione, svolte, rivelazioni, crisi, catastrofi o momenti cruciali, seguiti da passi
più tranquilli. Tutti insieme, essi formano il filo di tensione “a corrente alternata” della
trama, e ognuno preso a sé stante può essere considerato un climax, seguito
inevitabilmente da un anticlimax. Ma se vogliamo attenerci alla definizione più pura di
climax, quella data nel capitolo 3 come “il momento della verità”, dobbiamo distinguere
tra i vari picchi di tensione all’interno di una storia e il climax ultimo, quello in cui
esplode e si risolve il nucleo della storia stessa.
Non che sia sempre così, ma la maggior parte delle storie esistenti contiene una sua
raison d’être, una motivazione portante, il why sovrastante le cinque “W” della narrativa,
che fa andare avanti una storia anche nei momenti di anticlimax. Finché Ulisse non si è
nuovamente e definitivamente insediato nella sua patria, l’Odissea va avanti, anche se,
164
dopo Polifemo, il lettore può tirare un momentaneo sospiro di sollievo. Mentre, una volta
sgominati i Proci e riconquistata la sua casa, l’itinerario di Ulisse può dirsi propriamente
compiuto e la storia ha termine.
Definiamo allora il climax finale come il momento risolutivo di una serie “ascendente”
di avvenimenti collegati a un filo narrativo, dopo di che la tensione si scioglie in maniera
definitiva. Per questo i francesi hanno coniato il termine denouement, letteralmente
“scioglimento del nodo”, per denotare l’epilogo di una storia a seguito del climax finale.
Questo è il momento in cui è bene che la narrazione si fermi, perché una volta che tutti i
suoi “nodi” sono sciolti, qualsiasi continuazione rischia di diventare un penoso caso di
anticlimax finale. Come una coda al casello dell’autostrada a viaggio ultimato.
165
13.2 A CHE FINALE GIOCHIAMO?
Il modo migliore di concludere una storia dipende in gran parte dalla sua propria
struttura. Ogni testo che possieda un minimo di linea direttiva implica un disegno e
quindi un punto terminale. Se l’obiettivo di un personaggio è di giungere dal punto A al
punto B, il finale (se è a lieto fine) coinciderà con il suo raggiungimento. Se la storia ruota
intorno alla soluzione di un mistero, il finale coinciderà con la sua soluzione. Il senso di
compiutezza che segue le ultime parole di una narrazione gratifica il lettore con
l’appagamento delle sue aspettative o della sua curiosità, e conferma la capacità
organizzativa dell’autore.
Questo bel quadretto corrisponde, ancor oggi, alla richiesta implicita della stragrande
maggioranza di chi si accinge a leggere un libro per diletto personale. Sembra che
l’umanità cerchi per istinto di dare un senso alla vita, costruendovi attorno trame
narrative strutturalmente stabili, coerenti, complete e significative. Il finale è, di tutti gli
elementi di una storia, quello che con più forza può stabilire quest’ordine, o mandarlo
all’aria.
Nella varietà infinita di storie possibili, non è detto che un climax porti
necessariamente ad una chiara e limpida risoluzione, né che le parole finali debbano
tradursi univocamente in una “conclusione” fatta e finita. Al giorno d’oggi, anzi, vanno
sempre più di moda narrazioni “aperte”, volutamente prive di una conclusione nel senso
tradizionale del termine. Il famoso “e vissero felici e contenti”, o il sorriso del protagonista
vittorioso a coronamento delle sue peripezie, sono finali classici che corrispondono ad
una visione lineare, ottimale e forse semplicistica di come vorremmo che andassero le
cose. La letteratura, in quanto modello “esemplare” della vita, ci ha spesso propinato
questo tipo di finale rifinito e corretto. Ma oggi, in parallelo all’evoluzione dell’antieroe
come personaggio letterario portante, si tende a terminare una storia non con una
conclusione vera e propria, ma con una sorta di anti-finale, con parole a volte
sconcertanti che aprono la strada a nuovi interrogativi, lasciando il lettore con un senso
d’incertezza, d’incompiuto, d’indefinibile o incontrollabile, forse in conformità con un
certo trend della psiche umana del ventesimo secolo, in cui in questo momento non
ritengo opportuno addentrarmi.
Io qui vorrei prescindere dalle mode letterarie e dalle correnti psichiche attuali, per
proporre un modello di climax-e-finale che possa applicarsi sia alla narrativa tradizionale
lineare dalla conclusione ben definita, sia a quella sperimentale moderna o postmoderna
166
a finale aperto. Senza voler giudicare, né dare un grado di preferenza all’uno o all’altro
tipo di narrativa, resta il fatto che ogni storia pubblicata, anche la più avant-garde che si
possa immaginare, deve avere un inizio e una fine. L’inizio potrà essere in medias res e il
finale aperto, ma l’occhio di chi legge percepisce la prima parola come un inizio, e cerca
istintivamente di dare un senso all’esperienza di lettura del testo alla sua conclusione.
Anche al giorno d’oggi, dunque, insistiamo sul valore della parte conclusiva, non perché
essa debba contenere una “morale” più o meno definitiva, ma perché, di fatto, il finale
esiste e, che lo vogliate o no, dà un’impronta e una chiave di lettura a tutta la parte che
lo precede.
Il modello di finale che propongo deriva direttamente dalle considerazioni fatte finora.
Qualunque siano il soggetto, la motivazione e la struttura della vostra storia, portate
avanti tutti i suoi “fili” fino in fondo. E poi fermatevi.
Questo modello, in apparenza così semplice, si basa in realtà su una disciplina che
richiede grande rigore, esercizio ed onestà. Potrei citare (ma non ci tengo
particolarmente...) finali “sbrodolati” in cui l’autore indulge nel compiacimento di far
sentire ancora la sua voce quando la storia è a tutti gli effetti terminata; o finali affrettati
in cui l’autore, probabilmente sazio della sua stessa narrazione, tronca tutto
all’improvviso illudendosi forse, con un’arruffata conclusione ad effetto, di avere concluso
il suo patto implicito col lettore.
Un finale degno di essere letto dovrebbe — se l’autore ha svolto onestamente il suo
lavoro — offrire al lettore un punto di vista sovrastante la storia, da cui tutti gli elementi
precedenti possano essere colti, in retrospettiva, come parti significative di un insieme.
Perfino quando l’idea dell’autore è proprio illustrare l’impossibilità di un insieme
significativo.
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13.3 L’ULTIMA PAROLA
Un classico della letteratura moderna dell’assurdo, L’innominabile di Samuel Beckett,
non contiene una trama discernibile, nessun personaggio nominabile, nessuna
ambientazione descrivibile, nessun tempo misurabile. Tutto quello che ha, è una voce in
prima persona che “entra” nel testo ponendosi tre domande a bruciapelo: «Where now?
Who now? When now?» [E adesso dove? Quando? Chi?]. Queste tre fondamentali “W”
dovrebbero, secondo aspettative, dare inizio ad una storia. Invece, per tutta la durata del
libro, il narratore non riesce a dare una risposta a queste domande, né a definire se
stesso. I fallimenti dell’io narrante di dare forma alla sua storia vanno avanti per pagine e
pagine di interminabili flussi di parole, finché il testo stesso, in una specie di climax o
rivelazione interiore, sembra “intuire” l’assurdità del tentativo di definire il suo
protagonista-narratore: la storia vera di un “io” non può trovarsi nelle pagine del libro,
forse per l’ovvia ragione che un’identità umana non può mai veramente corrispondere a
quella della parola stampata. Beckett risolve il paradosso del personaggio non-esistente
facendo attraversare all’“io” narrante la porta del silenzio (il non-parlare) letterario:
... mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s’apre
sulla mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so,
non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, non posso continuare, e io
continuo 34.
L’affermazione finale, apparentemente contraddittoria, «non posso continuare, e io
continuo» è perfettamente coerente con l’impossibilità di “imbrigliare” il personaggio nella
rete del testo. Finché il testo parla, infatti, dice «non posso continuare», e nel momento in
cui il narratore prende la decisione positiva di “andare avanti” («e io continuo») si apre la
porta del silenzio nel testo, il libro finisce, e possiamo immaginare il personaggio
finalmente vivo, libero dalla costrizione delle pagine stampate. Questo finale, tra i più
intriganti della letteratura moderna, mostra che anche al di fuori di schemi letterari
tradizionali, un autore che vale ha sempre... l’ultima parola.
34Samuel Beckett, L’innominabile, in Molloy — Malone muore — L’innominabile, Milano, SugarCo., 1986,
incipit p. 309, finale p. 441.
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13.4 STRUTTURA CIRCOLARE NE IL DESERTO DEI TARTARI
Nella sfera della narrativa, l’inizio e la fine sono il nadir e lo zenit, collegati tra loro
dalla linea ideale della trama. Quando questa linea si curva su se stessa e i due punti si
toccano, ne può scaturire una scintilla che illumina l’intera storia. Ecco l’incipit del
romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei tartari:
Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per
raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione.
Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come
ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la
letizia che aveva sperato. Nella casa c’era un grande silenzio, si udivano solo piccoli rumori
da una stanza vicina; sua mamma stava alzandosi per salutarlo.
Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita.
Un attacco militaresco, giovanile, di uomo che si sente forte della sua missione di
soldato e pronto ad iniziare la sua “vera vita” nella fortezza che gli è stata assegnata.
L’unica ombra, peraltro presto superata, la mancanza di letizia sul suo volto, nel
guardarsi allo specchio al mattino presto.
La storia di Giovanni Drogo va avanti, avanti, e avanti, senza che accada mai niente
che gli permetta di realizzare i suoi sogni di gloria militare. Egli si ritrova, all’età di
cinquantaquattro anni, ufficiale infiacchito e per di più ammalato, ancora in attesa del
nemico con cui poter ingaggiare la battaglia tanto agognata. E il nemico arriva,
finalmente.
Ma per lui è troppo tardi, quando i Tartari compaiono sullo sfondo del deserto.
Qualcuno ha mandato a chiamare una carrozza apposta per lui, che lo porti via per fare
spazio ad ufficiali più giovani e in forze. Egli si ritrova così solo, sconfitto moralmente
dalla vita senza neanche avere avuto l’occasione di combattere, alloggiato nella camera da
letto di un’anonima locanda lungo la strada del ritorno, consapevole ormai che la sua vita
sta volgendo al termine. Ma ecco cosa succede alla fine:
La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del
letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna.
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Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera
palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria
di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso,
e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un
po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori
della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio,
benché nessuno lo veda, sorride. (p. 250)
La perfetta simmetria estetica e di contenuto fra questo passo finale e l’incipit forma
un gioiello letterario di rara bellezza e dal significato metaforico, simbolico, gestuale e
verbale che sembra trascendere i limiti della vita del protagonista, e del romanzo stesso.
Osservando le somiglianze e, per contrasto, le sostanziali differenze fra i due passi,
possiamo vedere, dietro la fine, “il” fine del protagonista — e dietro di lui, la mente del
suo autore — a confronto con l’ultima battaglia...
Notiamo un senso di circolarità nelle unità di luogo e di tempo Nell’incipit, una stanza
ancora buia, la sua, prima del sorgere del sole, come un ventre da cui il bambino neo-
ufficiale sta per nascere; nel finale, una camera già buia, non sua, prima del levarsi della
luna, come un’anticamera della notte in cui lui sta per morire. Ironicamente, alla sua
partenza era autunno, al suo “arrivo” è primavera. La primavera, si sa, è la stagione della
rinascita.
Anche i rumori nelle due camere hanno un non so che di simmetrico: piccoli e
familiari nella casa di partenza, la mamma che si prepara a salutarlo; palpiti e scricchiolii
leggeri nella stanza della locanda, forse soffi di vento, o forse... “lei”. Sentiamo
contrapporsi e fondersi, nella prosa magica di Buzzati, le due sublimi figure femminili,
invisibili ma presenti:
“sua mamma” la vita
e
“lei” la morte
Esse pervadono le due stanze buie in un delicato equilibrio fra lealtà e simbolo, in una
silenziosa musica di vibrazioni in contrappunto.
In entrambe le scene Drogo si accinge a partire: la sua "prima destinazione", la
Fortezza Bastiani, gli dà un’idea di forza, di grandezza, che però poi si rivelerà, come il
suo stesso nome sembra beffardamente insinuare, un "bastian contrario" di gloria e di
170
grandezza, da cui lui dovrà fare dietro-front. Invece la sua ultima destinazione, "l’ultima
sua porzione di stelle", appare piccola nel riquadro della finestra, ma quanto
infinitamente più grande, per l’uomo che sa di morire. Il cielo notturno è il punto nuovo
verso cui Drogo adesso si tende, da vero soldato, con un raddrizzamento del busto,
assestandosi il colletto dell’uniforme. Con questi ultimi gesti carichi di dignità, egli si
prepara a partire per la sua vera, finale destinazione. E si muove, sia pure con movimenti
minimi, in perfetta armonia con lo spirito originario con cui aveva indossato la divisa di
tenente per la prima volta.
Ma la sua battaglia, adesso, assume ben altro volto. La differenza si vede anche
nell’espressione che traspare dal suo stesso volto: guardandosi allo specchio, all’inizio, si
era scoperto privo di letizia; ora, mirando il cielo nella trasparenza del vetro della finestra,
gli nasce da dentro un sorriso. Proprio perché nessuno lo può vedere, il sorriso finale è
emblematico di una vittoria più profonda, prima ed ultima nella vita di un uomo. Adesso
è “Giovanni”, non più “l’ufficiale Giovanni Drogo” che, nudo con se stesso e a confronto
con la propria morte, si proietta anche con lo sguardo verso l’infinito.
Finalmente vivo proprio nell’attimo della sua morte, Giovanni oltrepassa i confini della
gloria di un comune soldato. E il resto non può essere vissuto che nel silenzio, perché
questa gloria non rientra nei confini del romanzo. La scena finale, volutamente scarna e
breve nella sua essenzialità, ribalta completamente, in immagini e nel contenuto, la
sconfitta in vittoria, e salda l’inizio alla fine facendo del romanzo un cerchio perfetto.
171
13.5 AL LAVORO!
Partite dalla fine. Non si scandalizzi la persona lineare, anzi si renda conto che
qualche volta bisogna mettersi a testa in giù (spiegherò meglio questo concetto nel
prossimo capitolo) per vedere come stanno davvero le cose. Dunque, immaginate un
finale che lasci un’impronta nel lettore, meglio ancora se la lascia in voi nel momento in
cui lo concepite. Scrivetelo, nero su bianco, con tutti i dettagli che vi sembrano opportuni
— ma non uno di più! — per farne una scena memorabile.
Per continuare l’opera, pensate a quale climax o punto culminante della trama possa
aver preceduto il vostro finale. Scrivetelo.
Cominciano a delinearsi i personaggi? Da quali speranze o da quali delusioni, da quali
angosce, da quale volontà, caso, dubbio o routine sono saltati fuori? Gli forniamo un po’
di retroscena, qualche flashback, un intreccio come si deve, un incipit? Be’, non vorrei
sovraccaricarvi con un compito troppo ambizioso, adesso. Ma d’ora in avanti, ricordatevi
questo nuovo proverbio: chi ben finisce è a metà dell’opera.
172
14 L’EDITING
173
14.1 A TESTA IN GIÙ
E adesso, dietro-front. Quello che nessuno può fare nella vita, tornare indietro, lo
potete fare nel microcosmo letterario da voi ideato. Comodo, eh? Se vi dessero
l’opportunità di rimediare al mal fatto di prima, col senno di poi, non ne approfittereste
immediatamente? Un salto indietro nel tempo, una pezza qua, un ritocco là, un episodio
tutto da scartare, un altro da riconsiderare e qualcuno, forse, da tenere così com’è.
Questa è la facoltà magica dell’editing. E pensare che c’è chi non ne vuole neanche
sapere...
Non so se per pigrizia, per presunzione, o per una cieca fede nelle Muse
dell’ispirazione, qualche allievo di scrittura creativa ritiene che la prima versione di un
suo scritto sia intoccabile, come sacra. “Se mi è venuta così, è perché deve essere così”.
Un’affermazione del genere mi risuona ancora nelle orecchie come qualcosa di quasi
convincente, ed auguro a chi l’ha proferita di diventare immortale come un Leopardi nella
sua poesia. Ma — lo vedremo tra poco — anche il grande Leopardi, per quanto
autenticamente e romanticamente “ispirato”, ha dovuto fare un bel lavoro di revisione,
prima di consegnare al mondo la sua ars poetica.
Io non escludo affatto l’eventualità che si possa scrivere di getto qualcosa di buono.
Anzi, spesso la poesia o la prosa migliore è quella che viene a briglie sciolte, “in diretta”
dai dettami dell’ispirazione. Ma questo accade di solito per pezzi brevi, che comunque
richiedono un certo “allenamento” letterario e, dopo, un occhio attento per il loro
eventuale inserimento in un contesto più ampio.
Rarissimamente una narrazione intera segue tutta, dall’incipit al finale, lo stesso
flusso d’ispirazione. E se anche così fosse, non vi è nessuna regola sacra per cui l’opera
non possa venir migliorata, in seguito, per esempio con un tocco di foreshadowing, con
immagini più incisive, con variazioni di punteggiatura e con qualsiasi altro ritocco si riveli
opportuno.
Prima di addentrarci nei dettagli dell’editing, un consiglio generale per ogni “corpo
narrativo” inedito che vi sembra che stia in piedi: mettetelo a testa in giù, e controllate
che stia ancora in piedi. Ovvero, ribaltate di 180 gradi la vostra visuale e riconsiderate la
storia dalla fine all’inizio. Perché? Perché è più facile scrivere l’introduzione dopo aver
scritto il libro. Perché i dettagli più rivelatori si misurano meglio a confronto di un climax
già scritto. Perché se il climax c’è, esso dovrebbe essere il punto verso cui tende tutta la
storia; e se non c’è, v’è da chiedersi dove la narrazione vada a parare... Perché, in
174
definitiva, tutti gli elementi della trama dovrebbero avere un senso e uno scopo, il che si
può verificare solo a storia ultimata.
Ciò non vuol dire mettersi fisicamente a leggere il testo alla rovescia. Significa rivedere
il tutto alla luce delle ultime parole, a testo completato, e possibilmente quando tutto è
ancora abbastanza fresco nella mente da procurare una chiara visione d’insieme. Un
editing prematuro rischia di risultare in lavoro sprecato, e un editing troppo protratto nel
tempo rischia di non essere più “mirato” nel contesto globale della storia. Pur essendo
certamente possibile apporre modifiche durante la prima stesura, o perfino anni dopo la
pubblicazione, consideriamo questi estremi alla stregua di correzioni occasionali.
L’editing più comprensivo, quello che si può ritenere a pieno titolo parte integrante della
stesura di un testo, è il lavoro di lettura critica e revisione che parte dalla
“consapevolezza” dell’ultima pagina per arrivare alla perfezione della prima.
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14.2 AGGIUNGERE O TOGLIERE?
È difficile dire cosa sia più importante nel coltivare un orto: piantare le piante giuste,
o strappare le erbacce? Una pianta non adatta al terreno non cresce bene; d’altra parte le
erbacce, sia pure adatte al terreno, non sono quelle che avete voluto voi e per di più
soffocano le altre piante. Per avere un orto come si deve, è bene accertarsi: primo, che le
piante siano quelle giuste, secondo, che non vi siano erbacce. Nel terreno della
letteratura, l’editing consiste principalmente nell’alternarsi di queste due attività:
innestare piantine nuove al punto giusto, e strappare erbacce.
Nella maggior parte dei casi, il campo della narrativa è invaso da un sovrappiù di
elementi inutili che si potrebbero benissimo sfoltire per far risaltare meglio le parti
essenziali. Questi “elementi inutili” possono essere personaggi secondari in
soprannumero, dialoghi triti o strascicati, lunghi periodi di esposizione, frasi piene di
vuota retorica, transizioni che non vanno da nessuna parte... Come elencarli tutti?
Molti autori, innamorati della loro prosa, commettono l’errore di includervi anche
quelle parti che fanno disinnamorare il lettore. Peccato. Ho un amico sudamericano che
ama molto l’Italia, ma che raramente legge un libro scritto da un italiano perché, dice, gli
scrittori italiani ci mettono trenta pagine prima di venire al sodo. E dopo tre pagine lui si
è già stancato di leggere...
Nella scuola americana di scrittura creativa, trim and cut sono le due azioni per
eccellenza che emergono dalla pratica dell’editing, quasi ne fossero sinonimi. Se non
sapete che cosa significano, rivolgetevi a un barbiere. Oppure leggetevi un testo
americano, da Hemingway in poi, per rendervi conto di come si può venire al dunque
senza perdersi (e perdere i lettori) in circumlocuzioni. Alla fine sarete grati a voi stessi per
avere avuto il coraggio di diserbare l’orto della vostra narrativa.
Ma non tutti gli scrittori peccano di sovrabbondanza. In un recente workshop mi è
toccato continuamente incitare una partecipante, peraltro davvero brava, a rimpolpare i
suoi racconti con qualche aneddoto, immagine o descrizione, qualcosa insomma, perché
appena il mio interesse per i personaggi si accendeva, la storia finiva!
Il senso d’incompiuto che rimane dalla lettura di un racconto scritto e concluso
troppo in fretta non è meno irritante della noia che deriva da una storia priva di climax o
che non arriva mai al sodo: in entrambi i casi il lettore si sente deluso e defraudato. A chi
non ha la pazienza di sviluppare una narrazione in tutte le sue parti, raccomanderei
prima di tutto di coltivare i suoi personaggi: dar loro un passato che li caratterizzi, un
176
presente da vivere e un futuro a cui guardare. Dar loro una personalità e degli obiettivi
per cui lottare. Sentirsi vivi in loro fino a sentirli vivi in sé. Amarli, se questo è possibile.
Solo così, ne sono convinto, si sprigionerà l’energia necessaria per comporre una storia
sostanziosa e, si spera, pienamente compiuta.
177
14.3 I PUNTI CRUCIALI DELL’EDITING
Come sintetizzare, in questo capitolo, tutto quanto presentato finora? La revisione di
un testo comporta una re-visione di ogni aspetto fin qui considerato, dall’incipit alla
conclusione, nulla escluso. Tuttavia, alcuni punti più di altri si prestano ad essere
lasciati per ultimi, o a non potersi facilmente integrare nella prima stesura. Senza pretese
di voler mettere insieme in poche pagine un trattato esauriente sull’editing, cerchiamo di
concentrarci almeno sugli elementi più “ostili” che frequentemente vengono a galla a
conclusione di un workshop di scrittura creativa. Sta poi a ciascuno andare a scovare gli
“elementi ostili” più ricorrenti nella propria narrativa.
Due parole sulla trama: la trama prima, e la trama poi. Qualche volta il disegno di un
racconto viene modificato, apparentemente all’insaputa dell’autore (!), dai suoi personaggi
e dalle loro vicissitudini. Alla fine di una storia l’autore si ritrova sotto gli occhi uno
svolgimento diverso da quello che aveva anticipato. Non c’è nulla di male in questo, anzi,
spesso ciò è indice di personaggi “vivi” e di una storia dinamica. Ma a racconto ultimato
conviene fare una verifica: rileggerlo tutto e riabbozzare uno schema di trama. Accertarsi
che il testo intero sia coerente con se stesso, anche a costo di sacrificarne o riscriverne
qualche parte (solitamente, guarda caso, l’incipit è la parte che richiede più lavoro) che
sembrava andare in una direzione, e poi invece...
Insieme alla trama, controllare la coerenza interna del punto di vista. Evitare di
confondere il lettore con troppi cambiamenti ingiustificati di punto di vista o voce
narrante. Soprattutto nella narrativa in terza persona, capita spesso di fare qualche
“scivolone” da un punto di vista all’altro senza accorgersene. Tali slittamenti si possono
cogliere (e il lettore se ne accorge subito!) anche dalle minuzie tecniche di un racconto.
Considerate il seguente brano:
Il signor Rossi uscì dall’ufficio. Era stanco e non si ricordava bene dove aveva
parcheggiato la macchina. Guardandosi intorno, soprappensiero, non si accorse che un
ragazzo in skate-board sfrecciava sul marciapiede dietro di lui. Fece un passo a destra in
direzione del parcheggio e il ragazzo, che aveva deviato a destra proprio per scansarlo, non
riuscì ad evitarlo. Così, almeno, il signor Rossi risolse il problema di trovare la sua
macchina: non ne ebbe più bisogno per quel giorno, perché lo portarono all’ospedale con
un’autoambulanza.
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Questa scenetta inventata è scritta dal punto di vista illimitato di un narratore
onnisciente. Se l’intenzione fosse stata di scrivere in terza persona immersa (dal punto di
vista esclusivo del signor Rossi), l’inciso riguardante il ragazzo — «che aveva deviato a
destra proprio per scansarlo» — risulterebbe “illegale” perché il signor Rossi non poteva
vedere il ragazzo, né men che meno la sua deviazione a destra, in quel momento. Provate
a riscrivere lo stesso episodio in prima persona sostituendo al “signor Rossi” il pronome
“io”, e vi accorgerete di ciò che comporta mantenere costantemente un punto di vista
limitato.
Un altro problema della terza persona immersa è che il narratore, pur potendo
osservare e descrivere altri personaggi, non ne può ufficialmente conoscere i pensieri. La
preposizione indicante un fine, nella frase «per scansarlo», indica l’intenzione nella mente
del ragazzo. Strettamente parlando, però, se anche il narratore-protagonista avesse
potuto vederlo, non avrebbe potuto dichiararne l’intenzione in maniera così diretta. Se si
vuole far conoscere il contenuto della mente (propositi, pensieri, sentimenti) di un non-
protagonista, si può spesso farlo, in questo tipo di narrativa come in quella di prima
persona, inserendovi la parola come. Ad esempio, “si spostò a destra come per scansarlo”.
Si tratta, in pratica, di lasciar trasparire le intenzioni dei personaggi attraverso le loro
azioni. Meglio ancora se si possono mostrare senza “dire”.
È bene accertarsi che le unità di luogo e di tempo quadrino e che siano in armonia
con il resto della storia. Controllate le lune dei vostri cieli notturni, il passaggio delle
stagioni o degli anni, l’invecchiamento dei personaggi, e visualizzate sempre l’ambiente in
cui si muovono. Queste cose si possono generalmente sistemare, come in un puzzle dai
pezzi mancanti, dopo che l’opera è stata portata a termine. Ci si accorgerà allora che di
alcune “ambientazioni” si poteva fare a meno e che altre erano invece necessarie per
fornire lo sfondo più adatto all’azione. L’importante è che ogni descrizione di spazio e di
tempo sia significativa, che cioè contribuisca all’andamento della storia o che per lo meno
crei l’atmosfera da voi voluta.
Un’ultima esortazione, valida per qualsiasi tipo di narrativa, ma specialmente per le
storie d’azione. Evitare soggetti grammaticali “generici” come quello di terza persona
plurale: andarono, fecero, pensarono... Chi pensò? Chi decise di fare...? Peggio ancora,
morirono. Chi morì? Come? Perché? Siate precisi! Anche se un intero esercito muore in
battaglia, fa molto più effetto rappresentare la morte di un soldato, che non dire
tragicamente che morirono tutti sul campo di battaglia. Non c’è niente di più noioso che
un’azione “emozionante” narrata in termini vaghi e riassuntivi.
179
Se qualcosa succede, fatela vedere! Fatela sentire al lettore, come se foste lì con una
cinepresa con tanto di audio ed effetti stereo. Piuttosto che prendere la scorciatoia di una
descrizione generica, meglio tagliare la pellicola e passare ad una scena che possiate
vivere, e far vivere, dal di dentro. Nel rivedere un racconto, andate spietatamente a caccia
di ogni verbo in terza persona plurale e mostrate, il più direttamente possibile, chi fa cosa
e come la fa.
Ciò detto, onde non ricominciare da capo con i concetti già espressi nei primi capitoli
di questo libro, passiamo a qualcosa di diverso. Come la poesia.
180
14.4 L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
(Dai Canti)
«Capolavoro della poesia giovanile del Leopardi, “L’infinito” è una meditazione lirica di
singolare purezza e abbandono» 35.
Eh, no! Questo commento “da antologia” va puntualizzato con le dovute precisazioni.
La “purezza” della poesia del Leopardi ha ben poco da spartire con l’“abbandono” della
stessa. L’abbandono, se proprio si vuole usare questo termine, può riferirsi allo stato
d’animo del poeta in un precedente momento di estatica riflessione, ma non certo alla
sua poesia. Al contrario, la “purezza” della versione poetica finale è dovuta ad un lungo,
preciso e razionale lavoro di editing, a partire da vari frammenti antecedenti, in parte
originali e in parte addirittura riecheggianti versi già esistenti.
Confrontiamo i primi tre versi de “L’infinito” con una loro “variante”, di cui riportiamo
una delle prime stesure:
Oh quanto a me gioconda quanto cara
fummi quest’erma plaga e questo roveto
35Antonia Tonucci Mazza, Scrittori, idee, civiltà, Torino, Petrini, 1978, p. 158.
181
che all’occhio apre l’ultimo orizzonte 36.
Il grido emotivo “Oh” è soppresso nella versione finale, come pure l’avverbio
esclamativo “quanto”, espresso e reiterato nella variante iniziale del primo verso.
Non mi stancherò mai di ribattere sulla necessità, per un autore, di assumere un
certo distacco dal tumulto iniziale delle proprie emozioni, per poterle poi più
propriamente sublimare in poesia o in narrativa. I sentimenti, sorgenti sempre fresche
d’ispirazione letteraria, non sono, tuttavia, di per sé, letteratura. Ricordate il consiglio di
Wordsworth per la migliore poesia: emotion recollected in tranquility (vedi cap. 9).
Tornando a “L’infinito”, notare anche, rispetto alla variante iniziale, l’eliminazione
dell’aggettivo “gioconda”. Troppi aggettivi diluiscono la forza di un’affermazione. Invece,
nella versione pubblicata, l’aggettivo “caro”, da solo, dà al colle (e alla siepe)
un’immediata aura di familiarità.
La quale è ulteriormente enfatizzata dal dimostrativo “questo” (che in seguito viene
contrapposto a “quello”, riferito all’infinito silenzio al di là della siepe), per indicare la
posizione del poeta rispetto al mondo di casa e a quello, sconosciuto, di fuori.
Un’altra considerazione sulle due varianti riguarda la sostituzione di termini abusati
dalla tradizione poetica (plaga, fummi) con espressioni più vicine al linguaggio comune
(colle, mi fu). I nuovi vocaboli scelti, oltre ad essere più “familiari”, evidenziano il rifiuto di
un classicismo latineggiante scolastico a favore di una maggiore spontaneità linguistica,
che a sua volta può conferire alla poesia un’impressione di “abbandono”, certo, ma solo
dopo queste precise revisioni del testo!
Anche la sintassi, nella versione finale, appare più “naturale” rispetto a quella,
piuttosto contorta, della variante antecedente. Notare, d’altro canto, che i versi, seppure
“liberi”, si permeano di un’esatta cadenza poetica che nella prima versione era del tutto
assente:
sempre caro / ermo colle
questa siepe / tanta parte...
Il ritmo sintattico della poesia non è solo una questione di “stile”, ma dà rilievo al suo
contenuto. In questi versi, la posizione fonicamente simmetrica del consueto “caro” e del
raro “ermo” (solitario, abbandonato) ravvicina i due stati d’animo, che sono contrastanti,
36Questo e simili abbozzi sono stati trovati in due passi di “scartafacci” del Leopardi (cit. da B. Basile e P.
Pullega, La cultura letteraria in Italia ed Europa, Bologna, Zanichelli, 1980).
182
se non quasi opposti, in stile e in significato, ma che sono ugualmente e
fondamentalmente presenti nell’animo del poeta come i due lati di una stessa medaglia: il
senso di familiarità (“caro”) nella solitudine (“ermo”) di casa. Ricordiamo che il Leopardi
amava riflettere sui “paradossi” coesistenti nella sua” vita, e che così voleva intitolare,
raggruppandoli, i suoi pensieri nello Zibaldone.
La distanza apparentemente incolmabile del poeta dall’agognato “ultimo orizzonte”
oltre la siepe è assai più marcata nella versione finale, dove la siepe “esclude” lo sguardo,
che non nella precedente, dove all’occhio si “apre” la visione del mondo esterno. La poesia
non deve essere comunicazione esplicita, ma nella comunicazione “implicita” col lettore,
essa deve lasciar trasparire, attraverso l’occhio dell’immaginazione, quello che c’è “al di
là”, al di là della siepe, al di là delle stesse parole... Così, lo sguardo “escluso” dalla siepe
apre nuovi e più ampi orizzonti alla mente immaginativa.
È necessario precisare che sia il soggetto, sia la forma de “L’infinito” sono tutt’altro
che originali, anche se non neghiamo che il Leopardi possa essere stato ispirato
“autenticamente” da un impulso creativo originale, personale, nelle sue meditazioni. Un
simile motivo e lo stesso schema retorico dell’idillio, si riscontrano già nella poesia
pastorale alessandrina, che il Leopardi conosceva come il suo pane quotidiano, tanto che
inizialmente aveva pensato di pubblicare il suo componimento come un idillio tradotto
dal greco, rinunciando così a presentare se stesso quale autore, nonché soggetto
protagonista, della poesia.
Un’altra fonte filologica, più vicina al Leopardi, è stata la poesia del Foscolo. In
particolare il sonetto “Alla sera”, che inizia con una meditazione del poeta sulla “quiete”
della sera, che “soavemente” tiene “le secrete vie del [suo] cor” e che lo sospinge a varcare
la soglia dell’infinito: «Vagar mi fai co’ miei pensier sull’orme / che vanno al nulla eterno» 37. Questo tema romantico del perdersi nello sconfinato è ripreso, sia pure con immagini
diverse, da Leopardi nei versi conclusivi de “L’infinito”: «tra questa / immensità s’annega
il pensier mio: / e il naufragar m’è dolce in questo mare». Notare, infine, le assonanze di
quest’ultimo verso con un altro, dalla canzone dello stesso Leopardi “Ad Angelo Mai”: «In
mille vane avversità si perde la mente mia» (dai Canti).
Che questi temi e queste forme riecheggino da una poesia all’altra (dello stesso autore
o di autori diversi) nulla toglie al valore intrinseco de “L’infinito”, né di qualsiasi altra
opera letteraria degna di essere letta. Trovo futili i commenti di certi critici che vanno a
spulciare tra le fonti più varie per poi accusare un autore di plagio o i versi del Leopardi
37Ugo Foscolo, “Alla sera”, dai Sonetti.
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di apparire come «palinsesti mal raschiati» 38 da altre poesie. Se è vero che i
componimenti del Leopardi sono tratti anche da altre fonti, essi non sono apparsi affatto
“mal raschiati” ai miei occhi di lettore ignaro, la prima volta che li ho letti. Alla percezione
di un lettore non consapevole dei suddetti palinsesti, queste poesie risultano come
veramente e purissimamente scaturite dall’animo del poeta. Ma è naturale che, per
arrivare a tale purezza espressiva, il poeta abbia dovuto lavorarci sopra, e che la sua
ispirazione sia scaturita non solo dai moti del proprio animo, ma anche dalle letture da
lui fatte, inclusa la ri-lettura e revisione della sua stessa opera.
Torneremo su queste considerazioni nel capitolo seguente a proposito dell’ispirazione
letteraria, poiché essa non è un ossimoro, bensì indica la necessità di apprendere a ben
scrivere leggendo, così come si cresce nutrendosi del cibo che si mangia. (La metafora
non è mia. Chi ne conoscesse la fonte ricorderà anche che l’autore, un nobiluomo
d’oltralpe che “divorava” classici latini e li rigurgitava in un ottimo francese, si era a sua
volta difeso da accuse di plagio ribattendo che i latini erano ormai “suoi” come il cibo da
lui metabolizzato.)
38Niccolò Tommaseo, Pagine di critica estetica e di storia letteraria, a cura di G. Battelli, Firenze, Sansoni,
1937, pp. 92-93.
184
14.5 AL LAVORO!
Vi sarà certamente capitato di leggere della narrativa altrui (pubblicata o no) che vi è
piaciuta ma che non vi ha lasciato convinti al cento per cento. Questo è il tipo di
materiale migliore su cui mettersi al lavoro, poiché l’editing più proficuo è quello che
arricchisce pezzi già “quasi” perfetti. Non vale la pena stare a correggere un completo
fiasco, né è il caso di cimentarsi con un classico della letteratura; ma se il sapore del
racconto c’è e vi piace tanto che vorreste averlo scritto voi, anche se non proprio
esattamente così... ebbene, metabolizzatelo!
Non temete di invadere il terreno di un altro. A meno che non pubblichiate poi il
nuovo manoscritto a vostro nome, non avete rubato niente a nessuno. Anzi: la letteratura
esistente è un terreno di esercitazione aperto a tutti, da cui voi potete imparare
moltissimo e, forse, capire perché un racconto è stato scritto in un modo e non in un
altro. Oppure scoprire che avrebbe potuto essere scritto in maniera diversa, e che
differenza fa. E finché tenete il vostro editing per voi stessi, nessuno potrà mai accusarvi
di furto o di plagio.
Ma non tenetelo solo per voi stessi. Questo “gioco” è doppiamente fruttuoso se lo si fa
insieme ad un gruppo di scrittura creativa, o ad amici ugualmente “impegnati”, partendo
da un racconto dato e costruendovi attorno quante possibili varianti possono scaturirne.
Con la sorpresa di rendersi conto che, in verità, non tutte le strade portano a Roma.
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15 ISPIRAZIONE LETTERARIA E SCRITTURA CREATIVA
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15.1 CREARSI LA PROPRIA NICCHIA
Tutto quanto appreso finora rischia di rimanere nel retroterra della vostra mente, se
non vi concedete il tempo e lo spazio necessari per realizzare il vostro talento. Sul tempo
dirò il minimo indispensabile per non rubarvene altro: dedicatene tanto,
quotidianamente, all’atto dello scrivere. Scrivete ogni giorno tutto quello che vi viene,
come se fosse la cosa più importante che fate oggi, domani, sempre! Questo è un ordine
imprescindibile per chi voglia intraprendere seriamente il mestiere dello scrittore, ed è un
valido consiglio per chiunque intenda affinare le proprie capacità letterarie. Per imparare
davvero a scrivere non c’è niente di meglio dell’esercizio quotidiano.
Ciò detto, consideriamo l’ambiente in cui esercitare la scrittura creativa. Il luogo
migliore in cui convogliare l’ispirazione letteraria non è, generalmente, lo stesso da cui
essa nasce. L’ispirazione può benissimo scaturire dal “vissuto”, per strada o al ristorante
o in alta montagna; ma l’azione dello scrivere raramente può compiersi in simultanea con
la scintilla del suo primo impulso: non solo per motivi pratici come la difficoltà di sedersi
a scrivere all’aperto o nel mezzo di una conversazione, ma anche per la necessità di
sedimentazione dell’esperienza, che la mente dovrà “filtrare” attraverso le diverse fasi
dello scrivere. Conviene crearsi, allora, una nicchia personale dove si possano raccogliere
i propri pensieri per tradurli in parole scritte.
Questa nicchia, in quanto vostra, è un luogo che non posso certo scegliere io per voi.
Posso però suggerire, riguardo al luogo di vostra scelta, alcuni accorgimenti che vi aiutino
a tenerlo sempre “pronto” a ricevere la vostra ispirazione. Che sia innanzitutto il più
possibile vostro, dove possiate sentirvi liberi di essere voi stessi (tossire, grattarvi la
pancia, piangere o ridere a crepapelle, ruggire!) senza interferenze di cose o persone
“estranee”. Isolatevi dal rumore del traffico, aggiustate il rubinetto che sgocciola, staccate
il telefono se necessario, e chiedete ai vostri famigliari di non disturbarvi quando siete in
“quella” stanza. Poiché scrivere è un atto mentale, la vostra mente ha bisogno di essere
libera da altre preoccupazioni per poter spaziare nella pagina.
Oltre al requisito di tranquillità, un ambiente di scrittura può favorire l’ispirazione
letteraria se lo dotate di alcuni “addobbi”, anch’essi eminentemente personali, ma sempre
associati al comune denominatore dello scrivere. La maggior parte degli scrittori trova
utile circondarsi di buoni libri. Dal dizionario all’enciclopedia come opere di consultazione
immediata, ai classici della letteratura che più vi ispirano, è bene tenere a portata di
mano tutti quei libri che possono fare da humus per la fertilità della vostra mente. Una
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scrittrice che ho conosciuto ad un workshop negli Stati Uniti sostiene che per superare il
blocco dello scrittore sia utile tenere lì sul tavolo un libro prediletto, e rileggerne alcune
pagine di quando in quando per tenere lubrificati gli ingranaggi mentali dell’ispirazione.
Il tavolo su cui scrivete e gli strumenti che usate — dalla matita al computer —
dovrebbero essere il più possibile in armonia con la vostra forma mentis. È piuttosto
stressante, ed è spesso un vano dispendio di energie mentali, cercare di adattarsi a
strumenti o a colori che vi sono “antipatici”. Val la pena spendere qualcosina in più, ma
acquistare oggetti con cui possiate sentirvi a vostro agio. Se non avete mai provato a
scrivere su un tavolo arancione, con una penna verde, su un quaderno a quadretti,
provateci adesso e vediamo se vi esce un capolavoro di narrativa. Io ne dubito...
La vostra nicchia dovrebbe essere un ambiente in cui, entrando, vi sentite subito
avvolti da un alone caldo e rassicurante di invito alla creatività mentale.
188
15.2 FONTI “INTERNE” DI ISPIRAZIONE LETTERARIA
Ribadiamo ancora la necessità di leggere molto per scrivere meglio. Ma leggere come?
Non è certo con le tecniche moderne di speed reading (lettura veloce) che si può
assimilare l’arte del ben scrivere. La mia prima consapevolezza dell’arte del ben leggere
mi si è insinuata dentro da ragazzo, quando mi sono accorto che la macchina da scrivere
di papà mi dava modo di “rivedere” i miei manoscritti con molta più attenzione di quanto
non potessi fare con una lettura normale. Perché? Perché rileggendo un mio racconto
scritto “in brutta”, l’occhio correva troppo veloce sulla pagina per poterne cogliere i
minimi difetti, quali ad esempio parole ripetute a poche righe di distanza, errori di
punteggiatura, ecc. Mentre, grazie alla mia modestissima abilità di dattilografo, ero
costretto, nella mia danza a due dita sulla tastiera, a soffermarmi molto più a lungo su
ogni singola parola. La lettura, così rallentata, diventava un’implacabile analisi del testo
da cui nulla, o quasi nulla, poteva sfuggirmi. Non solo. Scrutando ogni frase prima di
trasferirla in bella copia mi avvedevo della valenza, spesso multipla, di ogni sua parola.
Mi accorgevo così, a poco a poco, della ricchezza del linguaggio, delle diverse sfumature
di significato in una parola o in un suo sinonimo, delle ramificazioni possibili all’interno
di un testo, e anche al di fuori! Infatti, era proprio battendo a macchina un racconto che,
spesso, mi venivano idee per scriverne un altro. Il testo sembrava contenere in sé
innumerevoli idee per altri testi, e così via, in una progressione limitata solo dal tempo
che potevo dedicare alla scrittura.
Questo valeva per i miei raccontini inediti giovanili. A contatto con testi “adulti”, poi,
l’espansione geometrica della mia ispirazione si è “solidificata” nella consapevolezza che
non tutte le idee sono buone per farne dei racconti, e che molte di quelle buone sono già
state sfruttate. Ma qui si è aperto un altro campo: quello del dialogo mentale con scrittori
già affermati, tramite una lettura sempre più “mirata” dei loro scritti. Personalmente
posso dire che, per quanto riguarda la mia educazione alla scrittura, ho tratto tanto
giovamento da corsi e seminari di letteratura, quanto dai workshops di scrittura creativa,
sempre che questi ultimi comprendessero anche letture mirate ed analizzate a fondo.
Tutti gli autori che ho citato in questo libro, ed altri ancora, sono o sono stati i miei veri
“maestri” di scrittura. Se a dodici anni scrivevo “romanzi” che sembravano delle
imitazioni infantili di Salgari, devo a Salgari il merito di avere acceso la miccia, non dei
cannoni di Sandokan, ma della mia creatività letteraria. E agli autori che ho letto dopo
Salgari devo questo manuale di scrittura creativa.
189
Ogni aspirante scrittore può forgiarsi un modello letterario dalla lettura attenta del
suo autore preferito. In un momento seguente il bagaglio retorico-letterario così acquisito
potrà, anzi dovrà variare, adattandosi al modo di esprimersi proprio dello scrittore e alle
sue diverse esperienze di lettura. Sia per quanto riguarda lo stile, sia per quanto riguarda
il contenuto, ogni libro esistente non è stato scritto da un solo autore, ma anche da tutti
gli autori che l’autore ha letto. Questa affermazione, solo apparentemente paradossale,
equivale a dire che se è vero che scrittori si nasce, è ancor più vero che scrittori si
diventa, leggendo.
Da adulto ho scoperto un altro metodo di lettura, ancor più lento e più intenso di
quello indotto dalla macchina da scrivere di mio padre. È la traduzione letteraria.
Tradurre un romanzo comporta una tale attenzione al dettaglio da costringere il
traduttore a moltiplicare ogni parola, ogni frase, ogni periodo, per almeno tre o quattro
sue versioni possibili. Tradurre un buon testo è forse in assoluto la migliore “scuola per
scrittori” che esista al mondo. Questa affermazione, di cui rispondo personalmente, è ben
ponderata... purché anche la traduzione lo sia. È da ignoranti pensare che basti
conoscere una lingua straniera per poterla tradurre. Ci vuole molto di più. Tradurre
significa capire. Significa interpretare. Significa traslare. Trasformare senza cambiare. In
una parola, significa riscrivere.
Ho letto traduzioni talmente mortificanti che l’originale ne è uscito del tutto storpiato,
ed altre che hanno tonificato l’originale facendolo vibrare di una nuova lingua propria.
Per dimostrare che il dizionario non è la chiave di una buona traduzione, come il
registratore non lo è di un buon dialogo letterario, io porto un dizionario come strumento
tecnico di consultazione ai miei corsi di scrittura creativa, e poi assegno ai partecipanti
una traduzione — di solito un passo di letteratura dall’inglese — su cui (e qui viene il
bello) si può cimentare ugualmente una persona che non spiccica una parola d’inglese e
una persona perfettamente bilingue. Il risultato dipende infatti non dalla conoscenza
della lingua iniziale (a cui sopperisce? io, con l’ausilio del dizionario), ma dalla capacità di
esprimersi bene in italiano, dopo aver capito cosa vuole dire e come si esprime l’autore.
Per un esempio di questo tipo di esercizio, vedi la sezione “lavorativa” a conclusione del
capitolo.
190
15.3 SPUNTI “ESTERNI” DI ISPIRAZIONE
Molti libri sulla creatività sono stati scritti, soprattutto in America, con l’idea di offrire
al lettore una lista delle più strambe attività da svolgere, per far scattare qualcosa nel
cervello che si traduca poi in ispirazione letteraria. Io sono abbastanza d’accordo che
l’ispirazione possa nascere da spunti esterni, anzi ritengo indispensabile vivere per poi
scrivere. Uno scrittore che si chiudesse in camera sua dalla mattina alla sera, senza mai
vedere nessuno, potrà anche comporre capolavori, ma gli mancherà sempre quel soffio
vitale che può venire solo dalle singolarità dell’esperienza. Quello su cui mi sento di
insistere, però, non è tanto la “singolarità” dell’esperienza, quanto il modo in cui la si
vive. Tutto si può infondere di creatività, a partire dalle cose più banali.
Una candela accesa in una camera buia. Vi siete mai soffermati a guardarla?
Soffermati, dico. Per almeno mezz’ora, o finché non è arrivata a consumarsi tutta,
disfatta dalla sua stessa anima di fuoco, strati di cera liquefatta attorno a un mozzicone
di stoppino annerito. Non ho mai letto una poesia su una candela che brucia, eppure
deve esistere, perché quella poesia c’è! L’ho vista io, una sera, in una candela.
Ecco: l’importante, secondo il parere del narratore in me, è saper guardare le cose, le
persone, tutto, con un’attenzione particolare. Guardare il mondo come se fosse una
metafora (e forse lo è) di qualcos’altro. L’onda che avanza sulla spiaggia per poi essere
inesorabilmente inghiottita; un formicaio; un vermino carbonizzato in una caldarrosta;
un geranio quasi appassito nello smog di Milano... sono tutte cose vere, cose ovvie, cose
sotto gli occhi di tutti; eppure cosa sono, veramente? Sta allo scrittore deciderlo, se la sua
mente vi vede dentro qualcos’altro.
Per non parlare delle persone. Quante persone “banali” avete incontrato nella vita, e
lasciato andare senza l’ombra di un rimpianto? E non sapete chi vi siete persi! È capitato
anche a me di essere una persona insignificante per qualcun altro, finché costui ha
scoperto per caso che io ero “prima categoria nazionale” di scacchi e, pure lui scacchista,
mi ha improvvisamente degnato di un’attenzione che prima non mi sarei neanche
sognato di ricevere. Scacchi a parte, oso credere che ogni persona sia degna di essere
conosciuta. Anche, e forse soprattutto, quelle che all’inizio sembravano le più “indegne”.
Le persone da cui ci teniamo alla larga sono spesso quelle che potrebbero insegnarci di
più. Bisogna superare una certa inerzia, lo so, per tirarsi fuori dal proprio habitat umano
e trapiantarsi in un altro. Ma l’arricchimento è immenso.
191
Tradurre la propria fertilità umana in composizioni letterarie è un modo per affermare
la propria esistenza e la propria partecipazione al mondo. Non è questo l’unico modo, e io
naturalmente non invito tutti a scrivere. Oltre a sovraffollare il mercato editoriale, ci sono
cento arti e mille altre attività con cui ci si può rendere partecipi di questo immenso gioco
che è la vita. Ma per chi volesse fare della scrittura un proprio mezzo espressivo e
“viverla” insieme ad altri, esiste la possibilità di realizzare il desiderio.
192
15.4 IL WORKSHOP LETTERARIO
Partecipare a un workshop di scrittura creativa è probabilmente il modo migliore per
esporsi in prima persona ai soffi e alle correnti della letteratura d’oggi. E forse di domani.
Un workshop infatti è l’“officina” in cui convergono, e da cui emergono, gli addetti ai
lavori. E a cui possono aderire aspiranti scrittori e anche quei “curiosi” che hanno sentito
un impulso creativo e che vogliono in qualche modo esprimerlo.
“In qualche modo”, veramente, non è la locuzione più adatta, anche se per una prima
stesura può andare... Proprio così: all’inizio di un corso di scrittura, ognuno può sentirsi
libero di scrivere quello che gli viene, come gli viene. I primi dieci minuti di un incontro
sono solitamente dedicati alla “scrittura libera”, una specie di flusso di pensiero su carta,
che non deve essere né mediato, né letto, né commentato e men che meno corretto da
nessuno, ma che serve semplicemente a sbloccare i circuiti della mente, troppo spesso
“legati” all’attività più o meno frenetica che ognuno si porta appresso dalla giornata
lavorativa. Effettuato il tuffo nella scrittura, il workshop è poi tutto volto ad evidenziare
quell’impulso naturale di creatività che esiste in ogni persona, quando la mente si lascia
andare, tramite la lettura e poi la creazione di storie inventate.
Un workshop si può condurre in diversi modi, ma l’impronta essenziale è lo scambio
di “energia creativa” fra il conduttore e i partecipanti, affinché la teoria letteraria diventi
movimento dialettico. Va detto che l’insegnante assume un ruolo sostanzialmente diverso
da quello svolto in corsi più convenzionali.
Da una parte o dall’altra della cattedra, ho avuto modo di partecipare a diversi
workshops e la mia esperienza nel corso degli anni non ha che confermato questa
dialettica di apprendimento attivo: per perfezionarsi nel campo della creatività letteraria,
è necessario partecipare. L’insegnante, come gli studenti, deve essere sempre pronto a
seguire la creatività di più menti al lavoro, calandosi continuamente nei “processi
creativi” che si attivano nel gruppo.
Potremmo distinguere due fasi preliminari, nell’esperienza di un workshop, cui ne
segue una terza, più tecnica, di “mestiere”. Le due fasi iniziali sono l’assimilazione di
brani forniti dal conduttore, e la conseguente espressione della creatività individuale.
Segue la fase del perfezionamento stilistico, che è in pratica la più curata e seguita in
questo tipo di workshop.
Nella prima e nella seconda fase si elaborano princìpi di composizione letteraria sulla
base di brevi esercizi “in classe” a complemento delle spiegazioni di “teoria”. Inspiration
193
by imitation, ripeto ai partecipanti: ispiratevi imitando lo stile di un autore, finché esso
non diventa una seconda natura del vostro scrivere. Non per imitarlo passivamente, ma
per assimilarne le tecniche di composizione e saperle riprodurre in uno scritto originale.
L’idea non è nuova: anche Boccaccio, pur glorificando l’impulso poetico-narrativo del
genio letterario, ammetteva che la vis mentis dell’immaginazione non è sufficiente quando
mancano gli “strumenti del mestiere”, i quali si possono acquisire per assimilazione
familiarizzando con la storia e la letteratura di chi è venuto prima di noi.
Un racconto può costituire materia viva, in grado di acuire la sensibilità letteraria del
lettore e di guidarlo alla scoperta di tecniche di composizione. Perché reinventare la
ruota, quando qualcuno lo ha già fatto? Le ore ed ore che Flaubert passava su ogni
pagina dei suoi manoscritti potranno ben servire anche a noi. Nessuno pretende di ri-
creare un’opera flaubertiana; ma come la ruota, uguale in principio, è stata usata nel
tempo per diverse applicazioni — dalla carriola all’aeroplano — così pure l’arte stilistica
di un Flaubert può essere riutilizzata per definire un’estetica nuova. Una volta affinato il
proprio gusto estetico-letterario, ognuno potrà esternare la propria vena di scrittore con
maggior cognizione di causa.
A questo punto si entra nella terza fase del workshop, dove la partecipazione attiva
diventa cruciale. Durante questa fase si realizzano i risultati più tangibili. Ogni
partecipante è invitato a consegnare una propria composizione, in fotocopie, a tutti i
compagni, i quali la leggono e la commentano come avevano fatto in precedenza con altri
brani di letteratura. Il rapporto interscambiabile scrittore-lettore genera un feedback
multiplo che permette ai partecipanti di osservare da diversi punti di vista i pregi e i
difetti del proprio lavoro in corso. Questo è per molti un ottimo “esercizio” anche per
vincere la timidezza, e per rendersi conto che scrivere ed esporsi in pubblico non è poi la
fine del mondo. Anzi, è solo l’inizio...
Il leggere e lo scrivere diventano così un unico processo di assimilazione e scambio di
idee. Il ruolo del conduttore, in questa fase finale, è principalmente di coordinare (a volte
moderando, a volte stimolando) tutti i partecipanti, e non è detto che egli debba avere
l’ultima parola sul giudizio di una composizione. Esistono certamente criteri “oggettivi”
per misurare la bontà di un brano letterario, ma nel giudizio complessivo si tiene conto
anche della reazione “epidermica” dei lettori chiamati in causa.
Con i workshops di scrittura creativa si è finalmente riconosciuto il bisogno latente di
reinserire la letteratura nel quadro di un’espressione dell’umanità. Mentre si “fa”
narrativa, si incontrano persone e si confrontano pensieri. Il genio creativo si ergerà
sempre al di sopra di qualsiasi “laboratorio”, ma dall’officina di scrittura creativa nessuno
194
viene escluso a priori. Tanto l’autore provetto quanto il timido studente alle prime armi
con la scrittura possono tirar fuori da sé la propria “Musa” ispiratrice. Con questa
convinzione si sono affermati, con successo, i workshops letterari in America, e adesso
anche in Italia.
195
15.5 AL LAVORO!
Fate conto di essere seduti alla “tavola rotonda” di un mio workshop. Avete appena
letto la storia dell’indiano Navajo alle prese con gli elementi della natura scatenati nel
deserto, in “La visita promessa” di Grey Cohoe (vedi cap. 12). Questo racconto, ve lo dico
io adesso, non esiste ancora in veste ufficiale in Italia, ma l’ho tradotto io dall’inglese
appositamente per voi: per darvi un bel po’ di filo da torcere, non soltanto con l’analisi
della struttura di foreshadowing e dei due piani di lettura discernibili attraverso tutta la
narrazione, ma anche con un “compito”, che ha già dato del filo da torcere a me...
Nel tradurre il racconto, non sono stato capace di rendere appieno, in italiano, alcune
sfumature di significato tanto evidenti nella lingua inglese. C’è un passo, fra tutti, che mi
sembra troppo fecondo per lasciarlo cadere così. Lo metto nelle vostre inani, miei
aspiranti scrittori, sperando che possiate aiutarmi a ricreare la magia di questo racconto
anche in lingua italiana.
Questa è la sfida: vi do la mia versione del brano, con l’omissione di alcuni termini
chiave, corrispondenti a quelli sottolineati in inglese: tutti verbi di azione. E vediamo cosa
riuscite a fare voi.
L’improvviso colpo scosse la macchina con forza e la ... ... ... come una carrozza
barcollante. Il vento che urlava cominciava a ... ... ...ai finestrini. Strinsi forte il volante per
contrastare il vento ... ... ... .
Rallentai fin quasi a fermarmi e scrutai fuori, attraverso il polverone ... ... ... sul cofano,
cercando di tenere la strada. La sabbia e i cespugli secchi volanti ... ... ... contro la
macchina. Non avrei saputo dire se accanto alla strada ... ... ... un canyon o, forse, il letto
di un fiume in secca. Il vento furioso ... ... ... e soffiava così forte che la macchina si girò su
se stessa. Non riuscivo a sfuggire al Mostro del Vento. Rimasi seduto immobile, con una
sensazione di morte nell’anima.
The sudden forceful blow jolted the car and waved it like a rolling wagon. The
screaming wind began to knock at my windows. I clung hard on the steering wheel to fight
the rushing wind. I slowed almost to a stop and peered out through the blowing dust at the
hood, trying to keep on the road. Flying soil and tumbleweeds crashed against the car. I
could not tell what ran beside the highway — a canyon or maybe a wash. The angry wind
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roared and blew so strong that the car slanted. I didn’t know how to escape the Wind
Monster. I sat motionless, feeling death inside my soul 39.
La mia traduzione è “quasi” letterale. Il problema è che i termini sottolineati
contengono due o più significati che danno al brano la possibilità di essere letto
simultaneamente a due livelli: come descrizione “oggettiva” di un temporale nel deserto, o
come un assalto di forze “viventi” contro il nostro povero indiano.
A voi il compito innanzitutto di scavare nella polisemia delle parole chiave (e per
questo potete servirvi del dizionario), poi di cercare di renderne il senso in modo che il
passo risulti pienamente leggibile “a due livelli” anche in italiano. Se lo ritenete
opportuno, modificate pure la struttura sintattica attorno alle parole da me omesse.
L’importante è non “tradire” l’autore, nel tradurre il suo testo, anche se la vostra versione
può benissimo, anzi deve, essere creativa.
39Grey Cohoe, “La visita promessa”.
197
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