ETHICA MORE GEOMETRICO DEMONSTRATA
Caratteri generali L’Etica è l’opera principale di Spinoza, alla quale il filosofo inizia a lavorare a partire dal 1662 e alla quale lavorerà per tutta la vita. Informazioni relative all’opera possiamo trarle dall’Epistolario e, in particolare, nelle seguenti lettere:
-‐ Lettera 8 di Simon De Vries (pp. 1839-‐1843) -‐ Lettera 28 a Johannes Bouwmeester (pp. 1975-‐1977) -‐ Lettera 62 di Henry Oldenburg (pp. 2123-‐2125) -‐ Lettera 68 a Henry Oldenburg (p. 2165)
A. Lettera 8 di Simon De Vries del 24 febbraio 1663 (pp. 1839-‐1843) 1) A questa lettera si e già accennato in precedenza in riferimento a Caesarius. Essa offre un’importante testimonianza relativa alle modalità di elaborazione della propria filosofia da parte di Spinoza. Sappiamo, infatti, che mentre Spinoza era in vita si era formato ad Amsterdam un vero e proprio circolo spinozista nel quale venivano discusse le proposizioni e le definizioni dell’Etica: «Per quanto concerne il circolo, è organizzato in questo modo seguente: uno (ma a turno) legge, spiega secondo quanto ha capito, e poi dimostra tutto secondo la serie e l’ordine delle tue proposizioni. Quando accade che l’uno non possa soddisfare l’altro, abbiamo ritenuto importante annotare la questione e scriverti, affinché, se possibile, ci sia resa più chiara, e sotto la tua guida ci sia possibile difendere la verità contro chi è religioso o cristiano per superstizione, di modo che possiamo resistere all’assalto del mondo intero». Veniamo così a sapere quale era lo scopo che si proponeva la cerchia degli amici di Spinoza: combattere la superstizione. L’obiettivo, che di certo ci può sembrare riduttivo dopo un più accurato esame non solo della produzione filosofica di Spinoza, ma anche degli scritti dei suoi amici, corrisponde però certamente al nucleo centrale delle preoccupazioni di Spinoza stesso, se solo teniamo a mente due elementi. Da un lato, infatti, egli si è sempre difeso dalle accuse di ateismo; dall’altro la lotta contro la superstizione racchiude in potenza tutta la sua filosofia, sia sotto l’aspetto teoretico-‐morale (la conoscenza della vera essenza di Dio ci permette di liberarci dalle passioni e di condurre saggiamente la nostra vita), sia sotto quello politico (al potere statale sta il compito di far sì che anche chi non può avere una conoscenza vera di Dio, viva tuttavia in modo se non conforme, per lo meno non contrario a ragione). 2) Il prosieguo della lettera mostra come la discussione sulle prime proposizioni dell’Ethica comunicate ai suoi amici si incentra subito sul problema di che cosa sia una definizione. De Vries racconta a Spinoza che, per comprenderne meglio la natura, hanno consultato testi di Borelli, Taquet, e Clavius. Proprio Taquet affermava che era possibile dedurre una conclusione vera da una premessa falsa: questa posizione non viene presa nemmeno in considerazione da Spinoza nella sua risposta. Che una conoscenza certa possa derivare solo da un’altra conoscenza certa è dunque un’affermazione solo apparentemente ovvia. Spinoza tratta della definizione in due luoghi del suo Epistolario.
B. Lettera 28 a Johannes Bouwmeester del 1665 (pp. 1975-‐1977) Per quanto riguarda la terza parte della mia Filosofia, te ne manderò presto qualcosa, o a te, se vorrai tradurla, o all’amico De Vries. E benché avessi stabilito di non mandarla prima di averla completata, tuttavia, visto che va per le lunghe, non voglio che attendiate oltre: vi manderò fino all’ottantesima proposizione circa. Da notare qui che allo stato attuale la terza parte dell’Etica consta di 59 proposizioni. Spinoza dunque fa riferimento ad una prima redazione dell’opera, probabilmente tripartita. C. Lettera 62 di Henry Oldenburg (pp. 2123-‐2125) Grazie alla tua risposta del 5 luglio ho appreso che hai il fermo proposito di pubblicare quel tuo trattato in cinque parti. Permettimi, ti prego, per l’affetto sincero che mi porti, di darti un consiglio: non inserirvi niente che sembri sminuire, come che sia, l’esercizio della virtù religiosa, soprattutto perché questa età di decadenza e di infamie, di nulla va a caccia più avidamente che di dogmi, le cui conclusioni servono a difendere l’imperversare dei vizi. Per il resto non rinuncerò a ricevere alcuni esemplari di questo trattato. Commento La lettera del 5 luglio non ci è pervenuta. In essa evidentemente Spinoza annunciava la pubblicazione dell’Ethica. Da notare, inoltre, che rispetto alla versione tripartita cui si allude nella lettera 28, il testo dell’Ethica risulta essere ora diviso in 5 parti. Si noti, quindi, che se la lettera 28 risale al 1665, l’elaborazione dell’Ethica ha impegnato Spinoza almeno per un decennio. D. Lettera 68 a Henry Oldenburg del settembre-‐ottobre 1675 (p. 2165) […] nello stesso momento in cui ho ricevuto la tua lettera del 22 luglio, sono partito per Amsterdam, col proposito di mandare in stampa il libro di cui ti avevo scritto. Commento Il manoscritto dell’Etica rimase nel cassetto. Conclusivamente possiamo dire che la vicenda redazionale dell’Etica si è svolta in un periodo di circa tredici anni dal 1662 al 1675, inframmezzata dalla composizione dei Principi della Filosofia di Cartesio, del Trattato teologico-‐politico e del Compendio di grammatica della lingua ebraica. Si possono in particolare distinguere due periodi: 1662-‐1665 e 1670-‐1675. Il primo e caratterizzato dalla redazione dell’Etica tripartita fino a circa la proposizione 80 dell’originaria terza parte; il secondo dal completamento delle ultime tre parti e dalla revisione di tutta l’opera. L’Ethica è divisa in 5 parti (non libri).
I. Dio: non ha alcuna premessa né prefazione. In essa l’autore intende dimostrare che al tradizionale termine Dio corrisponde una sostanza assolutamente infinita e unica, costituita da una infinità di attributi o perfezioni essenziali, causa di se e, con il medesimo atto e con la medesima potenza con cui è causa di se, è causa di tutto ciò che è implicato nella sua natura, ossia di infinite modificazioni. Esistono dunque soltanto due generi di "cose": 1) La sostanza assolutamente infinita, natura naturante o Dio. 2) I modi che ad essa necessariamente e immanentemente
ineriscono. La prima parte è costituita da 8 definizioni, 7 assiomi, 36 proposizioni correlate da 15 corollari e 14 scoli; si conclude con una appendice riguardante la natura e l'origine dei pregiudizi, in particolare di quello finalistico.
II. Natura e origine della mente: intende dimostrare che l’uomo è un modo della sostanza, ossia una sola e medesima cosa che si esprime simultaneamente sotto gli attributi del pensiero e dell'estensione. La mente umana è idea di un corpo umano determinato, di cui ha consapevolezza percependo le affezioni da cui il corpo è modificato da parte di altri corpi. Ogni conoscenza che la mente ha del corpo e di se stessa mediante la percezione delle affezioni del corpo (ossia mediante l'immaginazione) è inadeguata. Ma poiché tutti i corpi hanno qualcosa in comune, essendo modi del medesimo attributo dell'estensione, la rappresentazione o idea di ciò che e comune a tutti i corpi e alle loro affezioni e conosciuta dalla mente in modo adeguato e costituisce il fondamento della ragione, secondo genere di conoscenza. Infine l'autore mostra che la mente ha anche la possibilità di rappresentare le cose singole (in quanto singole) in modo adeguato, conoscendo la loro essenza mediante l'essenza dell’attributo a cui ineriscono: è questo il terzo e supremo genere di conoscenza, denominato anche intelletto o scienza intuitiva. La seconda parte si apre con una breve introduzione ed è costituita da 7 definizioni, 5 assiomi, 49 proposizioni corredate da 18 corollari e 2 2 scoli; tra le P13 e 14 c’è un intermezzo concernente la fisica e la natura del corpo.
III. Natura e origine degli affetti: intende dimostrare che l’essenza dell'uomo -‐ ma anche di tutte le altre cose -‐ è affectus, ossia una forza o tentativo (conatus) di autoconservazione. Se il conatus esprime la natura propria dell'uomo, esso si manifesta in un affetto attivo o azione; se esprime invece di più la forza e la determinazione delle cause esterne, si manifesta in un affetto passivo o passione. Dunque il primo e fondamentale affetto umano è la cupiditas, ossia il conatus di autoconservazione accompagnato dalla consapevolezza di se. Se la cupiditas consegue un perfezionamento della propria potenza, si manifesta come gioia. Se, invece, subisce una diminuzione della propria potenza, si manifesta come tristezza. E poiché la cupiditas non è altro che tentativo di autoconservazione mediante la relazione con oggetti esterni, se l’unione con questi è accompagnata da gioia, si prova amore per essi; se invece è accompagnata da tristezza, si prova odio. Tutti gli altri affetti non sono che determinazioni o composizioni particolari dei primi cinque affetti, riconducibili al movimento fondamentale della cupiditas. La terza parte si apre con una prefazione ed è costituita da 3 definizioni, 2 postulati (non vi sono assiomi), 59 proposizioni corredate da 14 corollari e 37 scoli; comprende inoltre una sezione finale dedicata a 49 definizioni degli affetti, 27 delle quali seguite da una spiegazione.
IV. La schiavitù umana, ossia la forza degli affetti: intende presentare una fenomenologia delle passioni umane, ossia della forza con cui esse si connettono e si organizzano, sotto la spinta delle cause esterne. Tale ricognizione delle cause delle passioni, necessaria per approntare i loro rimedi, fondata su di un solo assioma ed è orientata dalla P3, secondo la quale la potenza con cui l'uomo cerca di perseverare nell'essere a infinitamente superata dalla forza delle cause esterne. La quarta parte è aperta da una prefazione ed è costituita da 8 definizioni, da un assioma unico e da 73 proposizioni corredate da 17 corollari e 39 scoli; è conclusa da una breve appendice in cui sono riassunte, in 22 capitoli, le cose essenziali sul retto modo di vivere, insegnate nella stessa parte.
V. La potenza dell’intelletto, ossia la liberta umana (intende dimostrare quale sia la potenza che la ragione e l’intelletto possono esplicare nel moderare e vincere le
passioni. In essa si intende anche dimostrare che quel potere è fondato, in ultima istanza, sull’eternità della mente. Questa parte è introdotta da una prefazione ed è costituita da 2 assiomi e 42 proposizioni, corredate da 8 corollari e 17 scoli.
Sul metodo more geometrico Una prima osservazione: il titolo completo è Ethica more geometrico demonstrata (Etica dimostrata con metodo geometrico). Si tratta di un’Ethica, dunque, dimostrata con metodo geometrico. In cosa consiste questo metodo geometrico? Nel disporre i contenuti trattati secondo una struttura che riprende formalmente la struttura degli Elementi di Euclide: ogni libro (al quale Spinoza, ad eccezione del primo, premette una prefazione), si apre con una serie di definizioni e di assiomi (o postulati) dei quali Spinoza si serve per derivare proposizioni, dimostrazioni, scolii e corollari. La caratteristica più rilevante dell'Etica, sotto il profilo materiale e formale, è la sua redazione more geometrico. Descartes aveva composto una seconda redazione delle Seconde Risposte seguendo tale metodo; lo stesso Spinoza aveva composto una prima appendice al Breve trattato in forma geometrica e aveva esposto geometricamente i Principi della filosofia di Cartesio. Quali sono state le ragioni che hanno indotto Spinoza a impiegare tale metodo e quali ne sono gli elementi principali? Quando il filosofo detta geometricamente i Principi della filosofia di Cartesio, ha già iniziato la composizione dell’Ethica. Possiamo dunque assumere che le ragioni e le spiegazioni addotte da L. Meyer nella prefazione ai Principi, per incarico e a nome di Spinoza, possano valere anche per il metodo geometrico dell’Ethica. Meyer definisce matematico «quel metodo con il quale le conclusioni sono dimostrate a partite da definizioni, postulati e assiomi. Esso consiste nel dedurre senza pericolo di errore nozioni ancora ignote da nozioni conosciute con certezza e predisposte a fondamento dell'edificio della conoscenza. Le definizioni, infatti, non sono altro che spiegazioni molto chiare dei termini e dei nomi con cui vengono designati gli oggetti della trattazione; quanto ai postulati e agli assiomi, o nozioni comuni della mente, essi sono enunciati cosi chiari e perspicui, che nessuno può negare loro l’assenso, purché abbia compreso correttamente il senso delle parole. Meyer aggiunge che tale metodo «è la via migliore e più sicura nella ricerca e nell'insegnamento della verità». Descartes aveva sostenuto che il metodo sintetico era la via migliore soltanto nell'insegnamento della verità, mentre nella ricerca di questa era preferibile il metodo analitico. Meyer auspica infine che tutte le scienze possano essere formulate con metodo geometrico. Ricapitolando: il metodo utilizzato da Spinoza è il metodo della sintesi (o composizione) che si differenzia dal metodo dell’analisi (o scomposizione), prediletto da Descartes. È lo stesso Descartes a spiegare la differenza tra metodo sintetico e metodo analitico nell’ultima parte delle risposte alle II Obiezioni del Padre Mersenne. Scrive Descartes: La maniera di dimostrare, invece, è duplice: una è per analisi, l’altra per sintesi. L’analisi mostra la vera via attraverso la quale la cosa è stata scoperta metodicamente e per così dire a priori, di modo che, se il lettore vuole seguirla e prestare a tutto la dovuta attenzione, la intenderebbe e la farebbe propria non meno perfettamente che se l’avesse scoperta lui. Essa, però, non contiene nulla che | convinca un lettore meno attento o recalcitrante a credervi: infatti, se non si osserva anche la pur minima delle sue premesse, la necessità delle sue
conclusioni non emerge; e spesso, poi, essa tocca appena, in quanto sono perspicue a chi presti ad esse la dovuta attenzione, molte cose che occorrerebbe tuttavia rimarcare in modo particolare. La sintesi, al contrario, attraverso una via opposta, e indagata per così dire a posteriori (sebbene, spesso, nella sintesi, la prova come tale sia più a priori che nell’analisi), dimostra bensì chiaramente le sue conclusioni e si serve di una lunga serie di definizioni, petizioni, assiomi, teoremi e problemi in modo da mostrare subito, nel caso in cui venisse negata una delle sue conseguenze, che essa è contenuta negli antecedenti e, così, estorcere l’assenso del lettore, per quanto recalcitrante e pertinace; ma non è soddisfacente quanto l’altra, né appaga l’animo di coloro che hanno voglia di imparare, poiché non insegna il modo in cui la cosa è stata scoperta. Di questa soltanto erano soliti servirsi, nei propri scritti, gli antichi geometri, non perché ignorassero del tutto l’altra, ma, almeno a mio giudizio, perché ne avevano una considerazione tanto alta da riservarla sol-‐ tanto per sé, come qualcosa d’arcano. Io, invece, nelle mie Meditazioni, ho seguito la sola analisi, che per insegnare è la via vera e la migliore; ma, quanto alla sintesi, che senza dubbio è quella che voi qui mi chiedete, sebbene nelle cose geometriche sia assai opportuno porla dopo l’analisi, essa non può tuttavia venire applicata altrettanto facilmente alle cose metafisiche. Infatti, c’è questa differenza: le nozioni prime presupposte alle dimostrazioni delle cose geometriche sono ammesse facilmente da tutti, in quanto si accordano con l’uso dei sensi. E, perciò, lì non c’è alcuna difficoltà, se non nel dedurre per bene le conseguenze; cosa che possono fare tutti, anche i meno attenti, a patto soltanto che si ricordino di quel che precede; e a tale scopo è approntata una minuziosa distinzione fra le proposizioni, affinché queste possano essere facilmente richiamate e, in tal modo, riportate alla memoria anche in chi non vuole. Al contrario, invece, qui, nelle cose metafisiche, nulla richiede più impegno del percepire chiaramente e distintamente le prime nozioni» (R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, II Risposte, B Op I 885-‐887).
L’uomo come parte della natura e la sostanza (Ethica, I)
La condizione esistenziale dell’uomo, la sua specifica limitatezza, e quindi il suo essere soggetto alle passioni, per Spinoza è, in primo luogo una condizione ontologica, vale a dire una condizione che deriva dalla specifica natura dell’essere umano, il quale non è l’infinita sostanza o natura, ma solo un modo di questa, una parte finita tra un’infinità di altre parti finite. Questa sua condizione di finitudine è la chiave di tutta la ricerca etica spinoziana ed il motivo stesso per il quale egli è continuamente in cerca di una condizione di stabilità esistenziale ed il motivo per il quale la desidera. Le Proposizioni II e IV della IV parte dell’Etica dichiarano la finitezza dell’uomo ed il suo essere parte della natura in maniera inequivocabile: è nel primo libro che Spinoza definisce la struttura della sostanza e le sue articolazioni interne, tra le quali, l’uomo che è un modo finito perché è costituito da un corpo e da una mente singolari. Per comprendere tutto questo dobbiamo rifarci alle definizioni del I libro dell’Etica, laddove Spinoza definisce la sostanza (definizione III), gli attributi (definizione IV), e i modi (definizione V). La sostanza è l’assolutamente infinito e si esprime mediante infiniti attributi, ognuno dei quali è infinito nel suo genere: dagli attributi discendono i modi infiniti, dai quali poi dipendono i modi finiti. Questa articolazione fa in modo che Spinoza divida la natura in una natura naturans e in una natura naturata: alla prima appartengono sostanza e attributi, alla seconda modi infiniti e modi finiti. (Eth. I, pr. XXIX, Schol.). Quindi: l’essere è unico, infinito ed indivisibile ed è chiamato sostanza. La sostanza è causa di se stessa, quindi causa prima e non può essere generata da altro (Eth. I, def. 3). La sostanza si esprime in infiniti attributi ognuno dei quali è infinito: anche questi sono in sé, vale a dire non
dipendono da altro e non sono causati da altro che da se stessi. Sostanza e attributi fondano e sorreggono i modi infiniti e finiti che sono in alio; infatti essi hanno bisogno di sostanza e attributi nei quali si trova il loro fondamento. Alcune considerazioni: il Dio di Spinoza non è il Dio delle religioni rivelate, è piuttosto il Dio-‐Sostanza, la necessaria universalità costituita dalle leggi immutabili che regolano i rapporti eterni di causa-‐effetto. In questo si esprime la critica all’antropomorfismo e al finalismo che costituisce una delle maggiori radicalità del pensiero spinoziano e che ha anche una valenza fortemente etica. Tutto ciò è espresso nell’Appendice al primo Libro: «tutti gli uomini nascono ignari delle cause delle cose, mentre tutti appetiscono la ricerca del proprio utile, cosa della quale sono consapevoli. [...] gli uomini fanno tutto in vista di un fine, è cioè in vista dell’utile che appetiscono; per cui avviene che aspirano a conoscere soltanto le cause finali delle cose e che si acquietano appena le hanno apprese [...]; è accaduto che considerano tutte le cose naturali come mezzi per raggiungere il proprio utile; e poiché sanno di avere trovato quei mezzi, ma non di averli essi stessi predisposti, hanno avuto motivo di credere che sia stato un altro a predisporre quei mezzi per il loro uso. Infatti, poiché avevano considerato le cose come mezzi, non hanno potuto credere di averle fatte essi stessi; ma in analogia ai mezzi che essi sono soliti procurare a se stessi, hanno dovuto concludere che esistono uno o alcuni rettori della natura, forniti di libertà umana, che hanno curato ogni cosa per loro e che hanno fatto ogni cosa per il loto uso; [...] Per cui avvenne che ciascuno, a seconda della propria indole, ha escogitato diversi modi di onorare Dio, affinché Dio lo prediligesse al di sopra degli altri e dirigesse tutta la natura a vantaggio della sua cieca cupidità e della sua insaziabile avidità. [...] Per mostrare adesso d’altra parte che la natura non ha alcun fine prestabilito, e che tutte le cause finali non sono altro che umane finzioni, non occorre molto»
L’uomo: mente e corpo (Ethica, II) L’uomo è una parte della natura, della Sostanza, di Dio, di cui Spinoza ha trattato nel primo libro dell’Etica, dal quale si apprende che la Sostanza è unica, infinita, in essa essenza e esistenza coincidono, che quindi da essa seguono infinite cose in infinti modi, che agisce per le sole leggi della sua natura e non costretta da alcunché, che è causa immanente, che è eterna, che l’essenza delle cose prodotte da essa non implica l’esistenza, che le cose non avrebbero potuto essere prodotte in altro modo dalla Sostanza, quindi in Dio non si dà volontà libera, o, meglio, libero arbitrio. Cos’è l’uomo all’interno di quest’infinità? Si tratta di scoprire quale è l’origine della sua mente. Il problema dell’origine della mente è fondamentale per poter comprendere come si determinano le affezioni delle cose e le idee di queste affezioni dalle quali poi sorgono gli affetti e le passioni. Il problema dell’origine della mente è discusso da Spinoza nel II libro dell’Etica si apre con 7 definizioni e 5 assiomi; nelle definizioni vengono fissati i concetti di corpo, essenza, idea, l’idea adeguata, durata, realtà e cose singolari, mentre gli assiomi hanno ad oggetto l’uomo. Quindi le prime 9 proposizioni di Eth. II, passano a dimostrare come pensiero ed estensione siano attributi di Dio e sono gli unici due attributi che l’uomo può conoscere, ma perché? La risposta è semplice: l’uomo ha un corpo ed una mente e, dunque, ha il suo fondamento negli attributi infiniti del pensiero e dell’estensione. Dalla pr. 11 alla pr. 13 di Eth. II, Spinoza definisce la mente come idea del corpo: in questo modo non solo Spinoza spiega le affezioni degli oggetti sul corpo (l’azione che gli oggetti esercitano sui nostri sensi), ma anche le idee che l’uomo si fa di queste affezioni. Ancora una volta è palese l’anticartesianesimo di Spinoza, il quale critica aspramente la concezione della ghiandola pineale, con la quale Cartesio aveva tentato di spiegare l’unione dell’anima con il corpo (si veda la prefazione alla parte V dell’Etica).
Rapporto mente-‐corpo (Ethica, II, Proposizione 13, Corollario)
Spinoza sostiene che la mente è l’idea del corpo e nel Corollario della pr. XIII del II libro dell’Etica è scritto: “Ne segue che l’uomo consta di mente e di corpo e che il Corpo umano, in quanto lo sentiamo, esiste”. Per comprendere quanto affermato da Spinoza è necessario considerare la dottrina del parallelismo degli attributi (Etica II, pr. 7: “l’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose). Questa teoria è ben espressa dallo scolio della stessa pr. 7 in cui si legge che pensiero ed estensione sono la stessa sostanza che si esprime ora sotto questo, ora sotto quell’attributo. Grazie al parallelismo degli attributi si crea un’intima connessione tra le cose estese e le idee di queste cose. Se riferiamo la teoria del parallelismo degli attributi al rapporto mente corpo avremo che nulla accade nel corpo di cui nella mente umana non si dia la corrispondente modificazione. Spinoza affermando che in quanto sentiamo il corpo umano, esso esiste, intende sostenere che in quanto percepiamo il nostro corpo mediante impressioni e sensazioni (caldo, freddo, ma anche dolore, piacere, pressione che altri corpi esercitano sul nostro) abbiamo le idee di queste sensazioni ed impressioni. Solo la giusta conoscenza può trasformare in conoscenze adeguate le idee delle affezioni e delle impressioni che sorgono nella mente in quanto idea del corpo. Questo il motivo per il quale tra la pr. XIII e la XIV del II libro dell’Etica, Spinoza introduce un piccolo trattatello di fisica dei corpi che si conclude con 6 postulati che riguardano in maniera specifica le peculiarità del corpo umano: così come il corpo umano è composto da molti elementi e sta in rapporto, nella complessità che gli è specifica, con tutti gli altri corpi esterni, così anche la mente può avere idee di grande complessità che altro non sono se non il corrispettivo ideale, del pensiero, delle modificazioni del corpo. Il corpo umano, per Spinoza, esprime la sua complessità per la ricchezza di relazioni che può intrattenere con l’ambiente circostante. Proprio questa dinamica e complessa relazione del corpo umano con altri corpi e con l’ambiente, relazione di cui la mente conserva memoria, causa il problema del conoscere: la mente, infatti, non solo “percepisce” le affezioni del corpo, ma si forma anche le idee di queste affezioni (Eth. II, pr. XXII): questo significa che in relazione alle affezioni del corpo, la mente umana si forma anche delle conoscenze. Ecco il punto centrale dell’etica spinoziana: le affezioni corporee, e le idee di queste affezioni, se non vengono inserite in un quadro conoscitivo che le fonda razionalmente agiscono in maniera disordinata e frammentaria sulla mente dell’uomo, causando conoscenze inadeguate. Questo il motivo per il quale divengono fondamentali i diversi modi di conoscere dell’essere umano: essi devono essere passati in rassegna da Spinoza per poi poter scegliere quello capace di procurare, mediante la conoscenza più certa, la beatitudo che caratterizza la vita del saggio.
La teoria della conoscenza Spinoza in Eth. II, pr. 40, scolio II, elenca 3 generi di conoscenza: la conoscenza di primo genere, o immaginazione (opinio vel imaginatio), la conoscenza di secondo genere o ratio e la conoscenza di terzo genere o scientia intuitiva. Passiamo ora in rassegna questi modi del conoscere e cerchiamo di esplicitarne gli effetti. Immaginazione 1) Immaginazione: l’immaginazione è un genere di conoscenza che Spinoza specifica in due ulteriori modalità: la conoscenza per esperienza vaga, che sorge quando l’uomo si rappresenta singolarmente ciò che i sensi gli fanno conoscere in maniera mutila e confusa, e la conoscenza per segni o per sentito dire, la quale consiste nell’assolutizzare ed accettare per vere quelle nozioni che provengono da segni (scrittura o simboli) o da ciò che viene detto o tramandato
da altri. Va detto che per Spinoza la conoscenza immaginativa è l’unica causa d’errore (Eth. II, pr. 41) e che l’errore o la falsità consistono in una privazione di conoscenza causata da idee inadeguate, parziali, incomplete (Eth. II, pr. XXXV). Ma cosa accade all’uomo che si affida all’immaginazione? In primo luogo l’uomo immagina perché ha un corpo ed è mediante il corpo che la mente percepisce le affezioni delle cose (Eth. II, pr. 17, schol): il problema dell’errore non sta nell’affezione in quanto tale, o nella conoscenza sensibile e frammentaria, ma nell’assenso acritico che l’uomo dà a questo genere di conoscenza. Facciamo un esempio per l’esperienza vaga ed uno per la conoscenza per segni e sentito dire: a) esperienza vaga (quella che si fonda sulla conoscenza che deriva dai sensi e dalle impressioni corporee): esempio del legnetto nell’acqua acqua che appare spezzato. Non sono i sensi ad ingannarci, piuttosto l’inganno deriva dall’ignoranza delle vere cause che provocano quel fenomeno di ottica per cui il legnetto ci sembra spezzato. b) esperienza per segni e sentito dire: l’uomo che si affida al sentito dire conosce in modo simile a quello che si affida all’esperienza vaga, ma questa volta l’assolutizzazione concerne ciò che è tramandato o scritto, oppure ogni forma di segno. Esempio del modello astronomico aristotelico-‐tolemaico (geocentrico) tramandato come indiscutibile e adottato dalla Chiesa, fino a quando Copernico, Galileo, Keplero e Newton non scoprirono le leggi, gli strumenti ed i rapporti tra i pianeti e gli astri. Ma in che modo e perché l’immaginazione, è fonte delle cattive passioni? Per comprendere il motivo del legame tra l’immaginazione e le passioni è necessario far riferimento al III e al IV libro dell’Etica, quello sulla natura e l’origine degli affetti e quello sulla schiavitù umana. La pr. 7 del III libro afferma: “Le azioni della Mente hanno origine dalle sole idee adeguate, le passioni dalle sole idee inadeguate”. Il III libro dell’Etica fa derivare tutte la passioni da tre affetti fondamentali: la gioia, la tristezza e la cupidità (Eth. III, pr. 11, scho.): così, per fare un esempio, l’affetto della gioia unito simultaneamente all’idea della mente e del corpo origina l’eccitazione piacevole, quello della tristezza, invece, Dolore o Melanconia. Nello stesso modo sono definiti l’amore e l’odio (Eth.III, pr. 30, schol.): ’amore è Gioia concomitante con l’idea di una causa esterna, e l’odio è tristezza anch’essa concomitante con l’idea di una causa esterna). 2) Ratio. La ratio, tenendo sempre presente lo Scolio II di Eth. II, pr. 40, è quel genere di conoscenza che conosce mediante le notiones communes, ossia ciò che è comune a più cose. Per “nozioni comuni” Spinoza intende l’attributo dell’estensione con i suoi modi infiniti (la quiete ed il moto) e l’attributo del pensiero con il suo modo infinito, l’intelletto. Per nozioni comuni possono anche intendersi (è lo stesso Spinoza a farlo in Eth. I, pr. VIII, Schol. II) i postulati e gli assiomi della geometria: il comune sarebbe la validità universale dei postulati euclidei. I postulati e gli assiomi, infatti, non enunciano mai verità particolari, ma sempre universali, ed inoltre non sono derivati dall’esperienza, ma sono certi ed evidenti per sé. E’ questa la conoscenza che conduce alla beatitudine? Dalla pr. 41 alla pr. 44 di Eth. II, Spinoza sostiene che l’immaginazione è l’unica causa di falsità, mentre la ratio e la scienza intuitiva sono sempre vere. Inoltre egli sostiene che la ratio conosce le cose sotto una certe specie di eternità. 3) Scienza intuitiva La scienza intuitiva è immediata conoscenza delle cose in Dio, nella loro eterna e viva necessità. Quindi non si tratta di conoscere la validità universale e necessaria di postulati e assiomi, ma piuttosto di un guardare intellettuale dentro la sostanza per cogliere i legami causa-‐effetto che si fondano nella stessa struttura sostanziale (per la def. della Scienza
Intuitiva, si torni a Eth. II, pr. 40, Schol. II e si legga il V libro dell'Etica, dalla pr. 24 in poi). Nella scienza intuitiva permane l’idea del corpo. La pr. XXX di Eth. V lega scienza intuitiva e idea del corpo che è colto nel suo rapporto eterno con l’attributo dell’estensione. Il fatto che la scienza intuitiva si relazioni all’idea del corpo indica che Spinoza non rinuncia all’aspetto affettivo umano, ma anzi lo recupera nel genere sommo di conoscenza: per provare l’amore che unisce l’uomo a Dio, l’uomo ha bisogno della corporeità. Solo recuperando il corpo, quella corporeità che manca alla conoscenza di secondo genere (la ratio), “sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”. Scrive Spinoza in Eth. V, pr. 22, schol: “Tuttavia, però, sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Sebbene, dunque, non ci ricordiamo di essere esistiti prima del corpo, sentiamo, tuttavia, che la nostra mente, in quanto implica l’essenza del corpo sotto una certa specie di eternità, è eterna[...]”. Allora la scienza intuitiva libera dalle passioni perché genera l’amore intellettuale di Dio, del quale Spinoza comincia a parlare da Eth. V, pr. XXXII, schol. in poi, e che consiste in un affetto che Spinoza definisce come Gioia accompagnata dall’idea di Dio come causa. Proprio quando l’uomo con la scienza intuitiva si riconosce come parte della totalità, ritrova il fondamento, la causa che lo ha generato. Le passioni allora per Spinoza non possono essere represse, ma solo superate o canalizzate da affetti più potenti: l’affetto più grande, la somma virtù della mente, consiste nell’amare Dio ed è nel conoscerlo e nell’amarlo mediante la scienza intuitiva che l’uomo può arginare e comprendere le passioni. La conoscenza è allora veicolo della beatitudine: “La beatitudine non è premio alla virtù, ma la virtù stessa; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie” (Eth. V, pr.42).
Ethica, III Dopo aver analizzato come la mente conosce, Spinoza analizza la sfera dell’emotività umana. Nella Prefazione Spinoza afferma che tutte le passioni possono essere ricondotte alla spinta, propria di ogni uomo, all’autoconservazione, dunque all’egoismo. La Prefazione serve dunque a prendere le distanze da tutti coloro che “piangono, deridono, disprezzano o detestano le passioni, che ritengono essere un vizio della natura umana”. Spinoza, invece, intende mostrare che l’affettività umana segue dalle leggi della natura come qualunque altro evento. Dunque il carattere irrazionale delle passioni non impedisce che possano essere fatte oggetto di studio scientifico. In questo senso, come vedremo, Spinoza si distaccherà notevolmente dalla lunga tradizione che lo ha preceduto che ha visto nelle passioni (o, almeno, in alcune di esse) il segno di una natura decaduta e corrotta dalla quale l’uomo deve rigenerarsi. Per Spinoza tutto segue necessariamente in natura, in natura non si dà male o bene (come del resto era già apparso chiaro dall’Appendice alla I parte). Da questo punto di vista Spinoza sembrerebbe allinearsi alla posizione di Descartes che nelle Passioni dell’Anima aveva inteso trattare le passioni non da oratore o da filosofo morale ma semplicemente da fisico e aveva liquidato come insufficienti le posizioni degli antichi relativamente alle passioni (I, art. I). Spinoza, tuttavia, riprendendo la critica cartesiana agli antichi, finisce per includere lo stesso Descartes nel suo giudizio negativo. Infatti, dopo un generico riconoscimento ad autori che hanno scritto cose molto giuste sul corretto modo di vivere pur non essendo riusciti a descrivere la natura e la forza degli affetti, Spinoza prosegue con un attacco a Descartes, colpevole di aver rovinato la propria analisi degli affetti con una ingegnosa ma implausibile ipotesi su come la mente possa ottenere un dominio pieno sull’emotività:
“So bensì che il celeberrimo Cartesio, benché abbia egli pure creduto che la mente ha un potere assoluto sulle azioni, ha cercato, tuttavia, di spiegare gli affetti umani mediante le loro cause prime, e, insieme, di mostrare la via per la quale la mente può avere un dominio assoluto sugli affetti; ma, almeno secondo la mia opinione, non ha mostrato altro se non l’acume del suo grande ingegno, come dimostrerò a suo luogo” (Ethica, III, Prefazione). In effetti la critica a Descartes non appare pertinente a questo livello dell’Ethica dal momento che scopo di questa III parte è solo analizzare gli affetti senza occuparsi ancora del dominio che su di essi è possibile raggiungere. La III parte dell’Ethica presenta anch’essa un’esposizione more geometrico e si conclude con un’Appendice in cui tutto quanto è stato dedotto nel corso delle dimostrazioni precedenti viene sistemato “con ordine”. L’Appendice ha per titolo Definizione degli affetti” e qui, infatti, gli affetti vengono definiti uno per uno (sono in tutto 48) e non dedotti dai loro fondamenti e Spinoza coglie l’occasione per aggiungere alcune osservazioni sulle caratteristiche di alcuni di essi. Ma prima di vedere questi affetti (di cui, per ovvie ragioni, ci limiteremo ad esaminarne solo i principali) è necessario procedere con ordine. L’analisi degli affetti si apre con 2 definizioni:
-‐ Nella prima Spinoza definisce la causa adeguata. Causa adeguata è quella causa per mezzo della quale l’effetto può essere concepito chiaramente e distintamente; causa inadeguata è il suo opposto: “Chiamo causa adeguata quella il cui effetto può essere percepito chiaramente e distintamente per mezzo di essa. Chiamo, invece, causa inadeguata, o parziale, quella il cui effetto non può essere inteso per mezzo di essa soltanto” .
-‐ Nella seconda Spinoza aggiunge che “agiamo quando accade in noi o fuori di noi qualche cosa della quale noi siamo la causa adeguata, cioè (per D1) quando dalla nostra natura segue in noi o fuori di noi qualche cosa che può essere intesa chiaramente e distintamente solo per mezzo di essa. Dico, invece, che siamo passivi quando in noi accade qualche cosa, o quando dalla nostra natura segue in noi o fuori di noi qualche cosa della quale noi non siamo se non una causa parziale” .
Come è possibile tutto questo? L’uomo può essere causa adeguata di qualche cosa? Se cosi fosse, l’uomo nelle sue azioni potrebbe essere libero come lo è Dio, che non è determinato da altro ad agire. Ma nella I parte abbiamo visto che l’uomo, modo finito dell’estensione e del pensiero, è sempre determinato da altri modi finiti ad agire e che solo Dio è causa libera (Ethica, I, prop. 17, coroll. 2). Segue poi la definizione di affetto: “Intendo per affetto le affezioni del corpo, dalle quali la potenza d’agire del corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni”. Aggiunge poi Spinoza: “Se noi dunque possiamo essere causa adeguata di queste affezioni, allora per affetto intendo un’azione; altrimenti intendo una passione” . Spinoza si chiede appunto “se possiamo essere”, ma possiamo esserlo? Per dare una risposta esaustiva a questa domanda, Spinoza avrà bisogno di tutta la parte IV e V dell’Ethica. Per il momento rivolgiamo la nostra attenzione alla scelta terminologica fatta da Spinoza: di passioni si parlerà solo nel caso in cui la nostra mente non sia causa adeguata e si parlerà genericamente di affetti, comprendendo in questa categoria più ampia sia le emozioni di cui siamo causa adeguata sia quelle di cui siamo causa inadeguata. In ogni caso il motivo per cui Spinoza decide di parlare di affetti e non di passioni è dato dalla possibilità di essere attivi nella vita emotiva. Quindi, poiché la passione indica passività, questo nome sarà riservato agli affetti la cui causa è esterna alla nostra mente e che la mente subisce. Del resto lo stesso
Descartes aveva commentato nello stesso modo il termine passione all’inizio del trattato (Passioni, I, art. I: “E, per cominciare, considero che tutto quello che di nuovo si produce o accade è in genere chiamato dai filosofi una passione rispetto al soggetto al quale accade, e un’azione rispetto a colui che fa in modo che accada. In tal modo, benché l’agente e il paziente siano spesso molto differenti, l’azione e la passione non cessano di essere sempre una medesima cosa, che ha questi due nomi, in ragione dei due diversi soggetti ai quali è possibile riferirla). Se Spinoza è riuscito a dimostrare che la mente può raggiungere idee adeguate, la possibilità di produrre azioni di cui la mente stessa è causa adeguata, ne deriva necessariamente. Il collegamento fra causalità adeguata e possesso di idee adeguate è esplicito sin dalla prima proposizione secondo la quale la mente è attiva quando ha idee adeguate e passiva quando ha idee inadeguate: “La nostra mente è attiva in certe cose, e passiva in altre; cioè in quanto ha idee adeguate è necessariamente attiva in certe cose, e in quanto ha idee inadeguate è necessariamente passiva in certe cose” . La dimostrazione si fonda su quel che già sapevamo a proposito delle idee adeguate: quando la mente ha un’idea adeguata, ha la stessa idea che è adeguata in Dio e che dunque non dipende da altre idee per essere adeguata; la causa della sua adeguatezza è nell’idea stessa e non in altro. Da ogni idea adeguata, poi, seguono delle conseguenze (come, per esempio, dalla definizione adeguata di cerchio seguono le sue proprietà). La mente, dunque, può essere causa adeguata in quanto ha idee adeguate (e, di fatto, come visto, può averne). La mente sarà passiva in quanto avrà idee inadeguate, ossia in quanto le sue idee sono adeguate in Dio solo perché nella mente infinita si trovano idee che la mente finita non possiede. Come viene ribadito nello scolio alla proposizione 3 (che afferma: “Le azioni della mente nascono solo da idee adeguate; le passioni invece dipendono soltanto da idee inadeguate”) la mente prova passioni solo in quanto si considera come parte della natura che per se, senza le altre parti, non può essere percepita chiaramente e distintamente. Quindi quel che si era visto nella II parte a proposito del rapporto tra la mente umana e la mente divina per individuare la presenza o meno di idee adeguate nella mente finita, è interamente trasposto sul piano dell’azione: la mente agisce quando essa è sufficiente a spiegare ciò che segue dalle sue idee, mentre subisce l’azione della cause esterne quando, per avere conoscenza adeguata dei suoi pensieri, e necessario conoscere le altre parti della natura. I postulati e l’ampio scolio della II proposizione di cui abbiamo già parlato quando abbiamo fatto riferimento al parallelismo hanno una estrema importanza per ricordare che gli affetti sono nella mente quel che nel corpo sono le modificazioni fisiche e cerebrali. Anzi, come detto, la trattazione più ampia del parallelismo avviene proprio in questo scolio. È la conoscenza, la sua frammentarietà o la sua completezza, a determinare il potere delle passioni sulla vita dell’uomo e l’immaginazione, in quando produce conoscenza parcellare, non è mai foriera di stabilità esistenziale perché le conoscenze che da essa derivano, mutano di continuo e senza regola, in maniera del tutto occasionale, a seconda delle affezioni del corpo, delle immagini e delle idee di queste affezioni. La III parte dell’Etica fa derivare tutte la passioni da tre affetti fondamentali: la gioia, la tristezza e la cupidità. Ma procediamo con ordine e vediamo adesso le proposizioni dalla 4 alla 13 (che trattano del conatus e degli affetti primitivi che, come accennato, Spinoza riduce a 3: gioia, tristezza, cupidità). Spinoza afferma che ciascun ente tende alla propria autoconservazione dunque la sua distruzione può provenire soltanto da una causa esterna. Si tratta, come è evidente, del
principio di inerzia, secondo il quale ogni ente permane nel proprio stato finche questa condizione non viene modificata da un agente esterno. Negli individui, dunque, questa tendenza all’autoconservazione (dunque alla conservazione del proprio stato) si esprime attraverso la resistenza che essi oppongono alle modificazioni che vengono imposte dall’esterno. Questa tendenza all’autoconservazione viene chiamata da Spinoza conatus ed è qualcosa di intrinseco alle cose stesse o, meglio, coincide con la loro stessa natura: infatti non esiste alcuna cosa che, per sua natura, non opponga resistenza alla propria dissoluzione, cosi come leggiamo nella proposizione 4 e nella proposizione 8: Proposizione 4: “Nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna”. Proposizione 8: “Lo sforzo, col quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere, non implica alcun tempo finito, ma un tempo indefinito”. Il conatus dunque è l’impulso che spinge alle azioni nelle quali si esprime la natura di ogni individuo. Esso è presente anche nella mente e questo perché anche la mente è una cosa singolare e quindi tende a conservarsi sia che abbia idee adeguate, sia che abbia idee inadeguate. Lo sforzo di autoconservarsi, nella mente considerata in se sola, è ciò che si chiama volontà; se riferito alla mente e al corpo è ciò che si chiama appetito e poiché l’uomo è sia mente che corpo, l’appetito “non è altro che la stessa essenza dell’uomo, dalla cui natura seguono necessariamente le cose che servono alla sua conservazione; e perciò l’uomo è determinato a fare tali cose”; infine la consapevolezza di questo appetito è ciò che si chiama cupidità, come Spinoza afferma nello scolio alla Proposizione 9 [“ La mente, sia in quanto ha idee chiare e distinte, sia in quanto ha idee confuse, si sforza di perseverare nel suo essere per una durata indefinita, ed è consapevole di questo suo sforzo”]: “Questo sforzo, quando è riferito soltanto alla mente, si chiama volontà; ma quando è riferito insieme alla mente e al corpo, si chiama appetito, il quale, quindi, non è altro se non la stessa essenza dell’uomo, dalla cui natura segue necessariamente ciò che serve alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a farlo; non c’ è poi nessuna differenza tra l’appetito e la cupidità, tranne che la cupidità si riferisce per lo più agli uomini in quanto sono consapevoli del loro appetito, e perciò si può definire cosi: la cupidità è l’appetito con coscienza di se stesso […]”. Ora poiché l’appetito, secondo quanto appena detto, è tutt’uno con l’individuo, non dipende né può dipendere da altro che non sia l’individuo stesso. Per questo motivo il giudizio sulla bontà delle cose che appetiamo non può precederlo ma necessariamente lo segue. Leggiamo infatti ancora nello scolio alla Proposizione 9: “Risulta dunque da tutto ciò che verso nessuna cosa noi ci sforziamo, nessuna cosa vogliamo, appetiamo o desideriamo perché la giudichiamo buona; ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualche cosa perché ci sforziamo verso di essa, la vogliamo, l’appetiamo e la desideriamo”. L’impulso ad autoconservarsi è dunque intrinseco all’individuo che può avere successo nel suo sforzo di autoconservarsi (e in questo caso la sua potenza di agire aumenterà) oppure può subire l’azione di cause esterne (e in questo caso la sua potenza diminuirà). Il primo postulato avverte che alcune affezioni del corpo aumentano o diminuiscono la potenza di agire del corpo, mentre altre non hanno alcuna influenza in questo senso. Solo le prime modificazioni hanno nella mente un corrispettivo emotivo, essendo le altre del tutto indifferenti. Il mondo delle emozioni è dunque più ristretto rispetto al mondo delle percezioni. Un aumento della potenza del corpo si riflette sulla mente nell’affetto della gioia, mentre il riflesso psichico della diminuzione di potenza nel corpo è l’affetto della tristezza. Assieme alla cupidità, gioia e tristezza costituiscono i tre affetti primitivi, dai quali tutti gli altri derivano, come afferma Spinoza nello scolio alla proposizione 11. Quindi, a differenza di Descartes che aveva elencato 6 passioni primitive, Spinoza riduce gli affetti primitivi a 3 e, soprattutto, a differenza di Descartes che aveva considerato la meraviglia come la prima tra le passioni primitive, Spinoza non la considera neppure un affetto perché essa indica solo la concentrazione della mente su una sola idea, in mancanza di
altre idee ad essa associate, ed è quindi solo un fenomeno cognitivo, privo di per se di ricadute emotive, che si verifica quando un’immagine si presenta isolatamente e per la prima volta. È quello che Spinoza afferma nell’Appendice ricordata in precedenza (Definizione degli affetti, IV spiegazione): “Considerata dunque in se stessa l’immaginazione di una cosa nuova è della medesima natura che le altre immaginazioni; e per questa ragione io non annovero l’ammirazione tra gli affetti, ne vedo alcun motivo per farlo, giacche questa distrazione della mente non nasce da alcuna causa positiva che distragga la mente dalle altre immaginazioni, ma solo dal fatto che manca la causa dalla quale la mente è determinata, attraverso la considerazione di una cosa, a pensare ad altre cose”. Nelle proposizioni 12 e 13 Spinoza spiega come tristezza e gioia generino amore e odio: lo sforzo di autoconservarsi fa si che la mente si sforzi di pensare alle cose che aumentano la sua potenza di agire e di scacciare il pensiero di ciò che la diminuisce. Quando la mente immagina qualcosa il corpo viene modificato come se quel qualcosa fosse presente (Ethica, II, proposizione 17) e questo spiega perché la mente cerchi di perpetuare gli effetti benefici dell’incontro con ciò che ha provocato un aumento di potenza sforzandosi di pensarlo e perché al contrario cerchi di allontanare il pensiero di ciò che ha diminuito la sua potenza di agire, ovvero che ha provocato tristezza. A questo duplice sforzo della mente (positivo e negativo) corrispondono gli affetti dell’amore, con il quale la mente si sforza di prolungare la gioia che una causa esterna ha provocato e dell’odio, con il quale la mente si sforza di allontanare il pensiero della causa esterna che ha provocato tristezza. L’amore e l’odio si ottengono dunque aggiungendo alla gioia e alla tristezza il pensiero di una causa esterna che ha provocato quegli affetti e prolungando nel tempo lo sforzo di pensare a ciò che ha provocato gioia e di allontanare il pensiero di ciò che ha provocato tristezza. Deduciamo dunque che si può anche dare una gioia senza amore quando l’aumento del benessere del nostro corpo non è determinato da una causa esterna individuabile, quando ci sentiamo bene e di buonumore senza che siamo consapevoli che qualcosa abbia determinato questo buonumore o tristi senza che qualcosa di esterno a noi noto giustifichi la nostra malinconia. Amore e odio, invece, hanno sempre un oggetto. L’associazione degli affetti (proposizioni 14-‐17) Il fenomeno dell’associazione degli affetti è all’origine della simpatia e dell’antipatia che si producono quando un’affezione della mente che di per se non causerebbe né gioia né tristezza è associata a un’affezione che invece ha prodotto in passato gioia o tristezza, anche quando di quest’ultima affezione non serbiamo un ricordo consapevole, come leggiamo nella proposizione 15: “Una cosa qualunque può essere per accidente causa di letizia, di tristezza, o di cupidità”. Lo scolio alla proposizione 15 sembrerebbe chiamare in causa Descartes che già a suo tempo si era accorto del fenomeno dell’associazione degli affetti: egli aveva infatti avuto un amore infantile per una bambina strabica e in seguito aveva sempre provato simpatia per le persone strabiche (A Chanut, 6 giugno 1647, B 624, p. 2473: “Per esempio, quando ero bambino, amavo una ragazza della mia età che era un po’ strabica; così, l’impressione che si riceveva attraverso la vista nel mio cervello quando guardavo i suoi occhi storti si congiungeva a quella che vi si produceva per muovere in me la passione dell’amore al punto che, molto tempo dopo, guardando le persone strabiche, mi sentivo incline ad amarle più di altre, per il solo fatto che avevano questo difetto; e non sapevo tuttavia che ciò avvenisse per questo. Al contrario, da quando vi ho riflettuto e ho riconosciuto che ciò era un difetto, non ne sono più stato emozionato. Così, quando siamo portati ad amare qualcuno senza conoscerne la causa, possiamo credere che questo derivi dal fatto che in lui ci sia qualche cosa di simile a ciò che era in un altro oggetto che abbiamo amato in precedenza, ancorché non sappiamo cosa sia. E benché di solito sia più una perfezione che un difetto ad attirarci così verso l’amore; tuttavia,
poiché talvolta può essere un difetto, come nell’esempio che ho riportato, un uomo saggio non deve lasciarsi andare interamente a questa passione, prima di aver considerato il merito della persona per la quale ci emozioniamo). Stessa origine ha l’incertezza emotiva (l’oscillazione tra simpatia e antipatia) che proviamo quando un evento che solitamente ci provoca tristezza ha qualche somiglianza con un evento che normalmente ci procura gioia. Spinoza chiama questo fenomeno fluttuazione dell’animo, fenomeno che avviene tanto a livello cognitivo (dubbio, scolio alla proposizione 17) quanto a livello emotivo. Sempre dall’associazione degli affetti nascono i pregiudizi che ci fanno amare o provare avversione per una categoria di persone solo perché hanno qualcosa in comune con qualcuno che in passato ci ha fatto del male o del bene, anche se quel che queste persone hanno in comune con la persona amata o odiata non è ciò che in passato ci ha provocato gioia o tristezza (proposizione 16). Anche la superstizione e la credenza nei buoni e nei cattivi presagi hanno la stessa origine, ossia l’associazione di eventi privi di per se di efficacia emotiva con eventi che in passato hanno provocato gioia o dolore (proposizione 50). Gli affetti riflessi (proposizioni 19-‐26) Ci sono poi dice Spinoza una serie di affetti che hanno origine in conseguenza di eventi che non ci toccano direttamente ma coinvolgono persone verso le quali siamo legati da vincoli affettivi provocando in queste sentimenti di odio o di amore. Anche in questo caso, sebbene gli affetti siano mediati da affetti altrui, la dinamica è la stessa: si tratta di un aumento o di una diminuzione della nostra potenza causati, nel caso specifico, da un aumento o da una diminuzione della potenza di persone che aumentano o diminuiscono direttamente la nostra potenza e alle quali siamo legati quindi da amore o da odio. Quindi:
-‐ la diminuzione della potenza di colui che amiamo e la cui esistenza provoca un aumento della nostra potenza, provocherà una diminuzione della nostra potenza e quindi ci farà provare tristezza; la diminuzione o distruzione della potenza di colui che odiamo e la cui esistenza provoca una diminuzione della nostra potenza, provocherà in noi un aumento di potenza e quindi gioia (proposizioni 19 e 20).
-‐ L’aumento di potenza, cioè la gioia, della persona amata provocherà gioia nell’amante poiché anche la potenza dell’amante sarà aumentata (proposizione 21).
L’imitazione degli affetti (proposizioni 27-‐36) Gli affetti attivi (proposizioni 58 e 59) Finora la III parte si è occupata degli affetti passivi. Queste due ultime proposizioni sono invece dedicate agli affetti attivi, cioè quegli affetti che sono manifestazioni delle attività della mente. Gli affetti attivi possono essere solo la cupidità e la gioia e i loro derivati, come si legge nella proposizione 59 (p. 1403): “Tra tutti gli affetti che si riferiscono alla mente in quanto è attiva, non c’ è alcuno che non si riduca alla letizia o alla cupidità”. Ma se solo la cupidità e la gioia sono affetti attivi, non ogni cupidità ed ogni gioia sono tali: gli affetti attivi, infatti, derivano dalle idee adeguate della ragione e portano a desiderare quel che veramente incrementa la potenza del corpo. Particolarmente importante è la proposizione 58 che collega esplicitamente l’attivita della mente al possesso di idee adeguate. Abbiamo visto che la mente, quando ha un’idea adeguata, sa di averla, dal momento che l’idea adeguata non richiede alto, per essere percepita, se non la
mente che la possiede (Ethica II, proposizione 43). Quindi la mente che ha idee adeguate è consapevole di se, ovvero “contempla se stessa”. La contemplazione di se è sempre un indizio di aumento di potenza, in quanto è resa possibile da un dominio sugli agenti esterni. (proposizione 53), quindi il possesso delle idee adeguate che come abbiamo visto sulla base della proposizione I equivale ad un’azione, produce sempre gioia. Importante quindi non è solo che la mente è detta agire quando è in possesso di idee adeguate, ma che il possesso di idee adeguate è sempre accompagnato da un affetto, la gioia e i suoi derivati. La ragione, quindi, non è mai solo speculativa ma è sempre fonte anche di emozioni, cosa questa che, come vedremo nella parte IV, ha delle profonde ricadute nell’azione morale. Nello scolio alla proposizione 59 Spinoza fornisce poi il ritratto dell’uomo che ha idee adeguate: egli non prova tristezza e sperimenta quindi solo gli affetti attivi che seguono dalle idee adeguate. Essi si dividono in 2 categorie: la cura del proprio interesse sotto la guida della ragione, cioe la cupidita ragionevole (che Spinoza chiama coraggio) e la cupoidita di aiutare gli altri uomini e di unirsi a loro sotto la guida della ragione, ed è questo il sentimento che Spinoza chiama generosita. Concludendo: lo studio scientifico sulle passioni cosi come annunciato nella Prefazione è stato portato a termine e Spinoza ha infatti mostrato come tutti gli affetti (sia quelli che ci sono favorevoli, sia quelli che ci sono sfavorevoli) derivano dallo sforzo di autoconservarsi e sono quindi tutti ugualmente necessari. La vera differenza tra gli affetti sta tra quelli innescati da idee inadeguate e quelli prodotti da idee adeguate.
La schiavitu umana, ossia le forze degli affetti (Ethica, IV)
Nella parte IV Spinoza espone gli elementi fondamentali della sua morale. E’ una parte molto densa, dall’andamento complicato di cui lo stesso Spinoza si rese conto se decise di aggiungere un’Appendice nella quale cercò di esporre sinteticamente, per brevissimi capitoli, i punti principali della sua teoria. La morale spinoziana, come visto, si fonda sul principio di autoconservazione ed è quindi una morale egoistica. Al contrario dell’immaginazione, la ragione è in grado di individuare ciò che è veramente utile alla conservazione dell’individuo, tuttavia solo gli affetti e i desideri riescono a trasformare le informazioni della ragione in valori morali, in beni da perseguire. Perché si parla di schiavitù umana? Perché i desideri che trasformano le indicazioni della ragione in valori che l’individuo si prefigge nel suo operare sono deboli al confronto dei desideri eccitati dalla conoscenza immaginativa e da questi sono facilmente vinti. Il titolo preannuncia l’analisi delle ragioni per le quali gli uomini, pur conoscendo cosa sia il vero bene, cedono alle passioni e ne diventano, appunto, schiavi. Nella Prefazione Spinoza annuncia di voler mostrare cosa hanno di buono e di cattivo gli affetti. Se nella parte III gli affetti erano stati studiati come eventi naturali, come figure e linee geometriche e, in quanto tali, sfuggivano ad ogni valutazione morale, ora Spinoza intende stabilire una differenza di valori tra gli affetti, dividendoli in buoni e cattivi, vale a dire in affetti che aumentano e in affetti che diminuiscono la potenza di agire dell’individuo. Le definizioni che aprono la parte IV ci portano nel cuore della morale e ne definiscono i concetti fondamentali: bene, male, virtu. La proposizioni dalla 1 alla 18 sono dedicata ad indagare le cause dell’impotenza della ragione nei confronti della potenza degli affetti. Spinoza ritiene che la ragione in quanto produce conoscenze puramente speculative non abbia alcun potere sulle azioni e sugli affetti. Se la ragione, cioe, si limitasse a conoscere che una certa azione o un certo comportamento sono
veramente utili, questa sua conoscenza non inciderebbe in alcun modo sugli affetti ne potrebbe combatterli (proposizione 14). L’Etica di Spinoza, benché si fondi sulla conoscenza e sull’ontologia, è un’etica che intende incentrarsi sulla possibilità di determinarsi ad agire, vale dire, sulla possibilità di essere “causa adeguata” delle proprie azioni, quindi, sulla possibilità di avere idee adeguate di cui l’uomo è causa e sulle quali fondare la sicurezza esistenziale della vita stessa. (Eth. III, Def. I, II, III e pr. 1). Appare subito chiaro che l’uomo che conosce con l’immaginazione non è causa adeguata di quelle conoscenze: esse derivano, come detto, dalle affezioni occasionali corporee ed il subirle equivale ad essere passivi nei loro confronti, quindi, equivale a non relazionarle e a non completarle nell’eterna e stabile trama delle relazioni che costituiscono il perfetto ed unitario tessuto delle leggi della sostanza, ove non si dà né frammentarietà (il frammento isolato contraddice l'unità), né la contingenza (la contingenza prevede la possibilità di essere diversamente, e questa possibilità non si dà nella eterna necessità dei rapporti sostanziali). Prendiamo come esempio Eth. IV, pr. 47: “Gli affetti della Speranza e della Paura non possono essere di per sé buoni”: speranza e paura sono passioni nocive perché, sostiene lo scolio di questa stessa proposizione, esse “indicano un difetto di conoscenza e un’impotenza della Mente, e per questa ragione anche la Sicurezza, la Disperazione, il Gaudio, e il Rimorso sono segni di animo impotente. Infatti sebbene la Sicurezza ed il Gaudio, siano sentimenti di Gioia, suppongono tuttavia che li abbia preceduti la Tristezza, e cioè, la Speranza e la Paura.[...]”. Le affezioni corporee, da cui si formano idee e immagini delle cose, proprio per la loro frammentarietà sono incomplete e l’incompletezza, la non adeguatezza conoscitiva, mette in tensione esistenziale l’uomo verso ciò che potrebbe verificarsi con esisto positivo (speranza) oppure con l’idea di ciò che potrebbe verificarsi con esisto negativo (timore): in entrambi i casi, tutto deriva da un difetto di conoscenza, da una mancanza che genera nell’animo attesa e preoccupazione. Quante volte ci accade di essere in balia di eventi o di notizie esterne che ci lasciano indecisi perché ne attendiamo l’esito. E quante volte in queste situazioni l’immaginazione costruisce gli scenari più impensati che creano insicurezza e indecisione?