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Dispensa di diritto penale
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Efficacia della legge nel tempo (seconda parte) e responsabilità enti
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Indice
EFFICACIA LEGGE NEL TEMPO ( parte seconda)
1. Successione mediata di norme penali
A) La punibilità della condotta di violazione dell’art. 14, co. 5-ter, d. lgs. n. 286/1998, posta in essere da
cittadini rumeni prima dell’adesione del Paese di appartenenza all’Unione Europea. Cass., Sez. un., 16
gennaio 2008, n. 2451
B) I problemi successori innescati dalla nuova disciplina della colpa medica.
Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237
Cass, pen., sez. IV, 6 giugno 2016, n. 23283
2. Tempus commissi delicti e reati di durata
A) Usura. Cass. Pen., Sez. II, 13 ottobre 2005, n. 41045
B) Corruzione in atti giudiziari. Cass. Sez. un., 21 aprile 2010, n. 15208
3. Efficacia nel tempo di norme dalla dubbia natura processuale
A) Custodia cautelare. Cass., Sez. Un., n. 8 del 1992
B) Sospensione del processo con messa alla prova. Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240
Cass., sez. IV, 31 luglio 2014, n. 35717
C1) Speciale tenuità del fatto ex art. 131 c.p.p.
Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449;
Cass., Sez. un., 6 aprile 2016, n. 13681
C2) Trib. Milano, Sez. XI, decreto 3 novembre 2015
RESPONSABILITA’ ENTI
A) I criteri dell’interesse “o” vantaggio: equivalenza o diversità ed alternatività? Cass. pen., Sez. V, 15
ottobre 2012, n. 40380
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B) Interesse o vantaggio dell’ente e natura colposa del reato-presupposto. Cass., S.U., 18 settembre
2014, n. 38343, in caso Thyssenkrupp.
C) Natura giuridica dei modelli organizzativi. Corte d’appello Milano, 21 marzo 2012, n. 1824
D1) La consistenza del “profitto” confiscabile. Cass. pen., Sez. un., 2 luglio 2008, n. 26654;
D2) Cass. pen., Sez. II, 29 marzo 2012, n. 11808
E) Reati tributari e confisca per equivalente in danno della società. Cass. pen., Sez. un., 30 gennaio
2014, n. 10561
F) Natura giuridica della responsabilità degli enti. Cass. pen., 9 maggio 2013, n. 20060
G1) Natura giuridica della responsabilità e costituzione di parte civile contro l’ente. Cass. pen., Sez. VI,
22 gennaio 2011, n. 2251
G2) Corte di giustizia 12 luglio 2012 C-79/11
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Selezione giurisprudenziale
1. Successione mediata di norme penali
A) La punibilità della condotta di violazione dell’art. 14, co. 5-ter, d. lgs. n. 286/1998, posta in essere da
cittadini rumeni prima dell’adesione del Paese di appartenenza all’Unione Europea. Cass., Sez. un., 16
gennaio 2008, n. 2451
OMISSIS
4. Sulla questione relativa agli effetti della successione di leggi extrapenali in giurisprudenza sono emerse
opinioni diverse e i vari casi che si sono presentati sono stati risolti ora muovendo dell'affermazione di principio
che l'art. 2, comma 2, c.p. si applica anche rispetto alla successione di leggi extrapenali, ora, invece,
dall'affermazione opposta. Se però si considerano attentamente i diversi casi passati al vaglio della giurisprudenza
ci si rende conto che per la loro soluzione non ci si può affidare all'affermazione di principio che tutte le
modificazioni di dati normativi esterni, implicati dalla fattispecie penale, sono da trattare come un fenomeno di
successione di leggi penali o all'affermazione opposta.
OMISSIS
E' vero che la modificazione di una norma extrapenale non potrebbe dar luogo a un'applicazione retroattiva, ma
non sembra che ciò dipenda dal concetto di "fatto" accolto dall'art. 2, comma 1. c.p.p., perchè è assai difficile
ipotizzare che un fatto divenuto reato per la successiva modificazione di una legge extrapenale possa essere
integrato da condotte precedenti, posto che in precedenza potevano esistere, e non sempre, gli elementi di fatto,
ma non anche le qualificazioni normative presupposte dalla norma penale.
OMISSIS
Perciò non può concludersi che il concetto di "fatto" accolto dal primo comma dell'art. 2 c.p. è
necessariamente comprensivo di tutti gli elementi normativi extrapenali e che questo concetto è
recepito anche dal secondo comma dello stesso articolo. E' vero che c'è una corrispondenza tra il primo e il
secondo comma dell'art. 2 c.p., ma questa corrispondenza si riscontra nei casi in cui, come si vedrà, la legge
extrapenale, per il ruolo che svolge nella fattispecie o per sua natura, è in grado di operare retroattivamente. E' in
questi casi infatti che l'innovazione, per lo sbarramento del primo comma, non può avere un effetto di
incriminazione retroattiva, mentre può avere l'effetto abolitivo previsto dal secondo comma. In realtà l'art. 2
c.p. non offre argomenti per sostenere che, benchè nella rubrica si riferisca letteralmente solo alla legge
penale, detti delle regole da valere anche per tutte le leggi extrapenali, richiamate in qualche modo
dalla disposizione incriminatrice; leggi che possono essere le più varie e possono venire in
considerazione anche indirettamente, attraverso una pluralità di rinvii, dalla legge penale a quella
extrapenale e da questa ad altre leggi.
OMISSIS
La fattispecie dell'art. 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 è rimasta immutata e la modificazione intervenuta nella
disciplina dei permessi può incidere sulla condizione dello straniero, consentendogli di ottenere un permesso che
prima gli era precluso, ma non può far venir meno la punibilità di un fatto già commesso. Diversa a quanto
pare dovrebbe essere la conclusione se a cambiare fosse proprio la definizione di straniero contenuta
nell'art. I d.lg. n. 286/98. Se dalla categoria venisse escluso il cittadino di uno Stato in attesa di adesione
all'Unione sarebbe la stessa thttispecie penale a risultare diversa e a vedersi sottrarre una parte della sua
sfera di applicazione, secondo lo schema tipico dell'abolizione parziale, riconducibile all'art. 2, comma
2, c.p. (Sez. un. 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano). In un caso del genere dall'ambito della precedente
fattispecie verrebbe esclusa una sottoclasse, quella relativa ai cittadini dei Paesi candidati all'ingresso nell'Unione
Europea, e rispetto a questa sottoclasse si potrebbe parlare di abolitio criminis, come avviene quando in una
vicenda di successione di leggi penali una fattispecie più ampia viene sostituita con una più limitata (si pensi alla
modificazione del reato di abuso di ufficio o di quello di false comunicazioni sociali, dei quali la giurisprudenza
ha avuto occasione di occuparsi ampiamente), facendo venire meno la punibilità dei fatti che, pur integrando
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precedentemente il reato, non rientrano nella nuova fattispecie. Lo stesso dovrebbe dirsi se dalla più ristretta
categoria degli stranieri che devono essere espulsi, individuata dall'art. 13, comma 2, d.lg. n. 286/98, venisse
escluso lo straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all'art. 27,
comma 1 bis, o senza aver richiesto il permesso di soggiorno nei termini prescritti, nei cui confronti, in ipotesi,
una legge successiva introducesse un regime meno rigoroso di quello stabilito nei confronti dello straniero
entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera. Anche in questo caso verrebbe ad essere
modificata la fattispecie dell'art. 14, comma 5 ter, cit. attraverso una ridefinizione della categoria delle persone alle
quali è applicabile la normativa sull'espulsione. Al contrario, la cittadinanza dell'uno o dell'altro Stato,
membro oppure no dell'Unione Europea, rispetto alla fattispecie 14, comma 5 ter, d.lg. n. 286/98 non
dà luogo a sottoclassi, non designa nell'ambito della categoria una parte con caratteristiche specifiche,
ma individua più semplicemente l'appartenenza all'una o all'altra categoria, cioè a quella dei cittadini
extracomunitari o dei cittadini comunitari. L'essere rumeno o albanese significa oggi essere o non essere
cittadino dell'Unione Europea, perciò, ai fini del reato in questione, l'ingresso di uno Stato nell'Unione, così come
in ipotesi la sua esclusione, non dà luogo a una successione di leggi riconducibile all'art. 2, comma 2, c.p., non
modifica, sia pure in modo mediato, la fattispecie penale, ma costituisce un mero dato di fatto, anche se frutto di
un'attività normativa.
B) I problemi successori innescati dalla nuova disciplina della colpa medica.
Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237
15. Occorre infine chiarire quale influenza abbia la nuova normativa sul caso in esame. Si pone un
problema di diritto intertemporale che trova piana regolamentazione alla luce della disciplina legale. Non pare
dubbio, infatti, che la riforma abbia determinato la parziale abrogazione delle fattispecie colpose commesse dagli
esercenti le professioni sanitarie ed, in particolare, per quel che qui interessa, di quella di cui all'art. 589 cod. pen..
Come si è visto, la restrizione della portata dell'incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi:
l'individuazione di un'area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l'attribuzione di
rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell'attuazione in
concreto delle direttive scientifiche. Insomma, nell'indicata sfera fattuale, la regola d'imputazione
soggettiva è ora quella della (sola) colpa grave; mentre la colpa lieve è penalmente irrilevante Tale
struttura della riforma da corpo ad un tipico caso di abolitio criminis parziale. Si è infatti in presenza di
norma incriminatrice speciale che sopravviene e che restringe l'area applicativa della norma anteriormente
vigente. Si avvicendano nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella
successiva restringe l'area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente due
sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale e quella che, Invece, diviene penalmente irrilevante. Tale
ultima sottofattispecie è propriamente oggetto di abrogazione. La valutazione non muta se, per
controprova, si guardano le cose sul piano dei valori: (omissis). Tale ordine di idee trova conforto nella
giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Suprema Corte: si è infatti condivisibilmente affermato che il
fenomeno dell'abrogazione parziale ricorre allorchè tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo
esiste una relazione di genere a specie (Sez un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003,
Giordano, Rv. 224607). Invero, quando ad una norma generale subentra una norma speciale "ci si trova in
presenza di un'abolizione parziale, perchè l'area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta,
rimanendone espunti tutti quei fatti che, pur rientrando nella norma generale venuta meno, sono privi degli
elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano
assoggettati alla regola dell'art. 2 c.p., comma 2, anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può
ravvisarsi una parziale continuità" (Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, cit.).
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Cass, pen., sez. IV, 6 giugno 2016, n. 23283
Omissis
Il ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono.
Giova soffermarsi sulle questioni affidate al secondo ed al terzo motivo di ricorso, evidenziando che il percorso
motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale appare effettivamente carente, in riferimento al tema della
ascrivibilità colposa della condotta omissiva, che si assume sia stata posta in essere dal sanitario. E, in
previsione della indagine rimessa al giudice di merito, che dovrà valutare se le linee guida che orientano il
professionista, rispetto al caso di giudizio, siano attinenti a profili di diligenza, oltre che di perizia, si
verranno pure a svolgere considerazioni di ordine generale, sulla natura e sul contenuto delle linee
guida.
Nelle more del presente giudizio, è stata inserita nell’ordinamento l’inedita fattispecie, in tema di responsabilità
sanitaria, dettata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, ove è stabilito: 'L’esercente la professione
sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla
comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve'.
Richiamando, in via di estrema sintesi, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel procedere
alla ermeneusi della norma ora citata, si osserva che la Corte regolatrice ha chiarito che la novella esclude la
rilevanza penale della colpa lieve, rispetto a quelle condotte lesive che abbiano osservato linee guida o pratiche
terapeutiche mediche virtuose, purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si è
evidenziato che la norma ha dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 cod. pen.,
avendo ristretto l’area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatrici, giacché
oggi vengono in rilievo unicamente le condotte qualificate da colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 11493 del
24/01/2013, dep. 11/03/2013, Rv. 254756; Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, Rv.
255105).
Le considerazioni sin qui svolte consentono, allora, di chiarire quale incidenza debba assegnarsi alla nuova
normativa, rispetto al presente procedimento. Occorre in questa sede ribadire che la parziale abrogazione,
determinata dall’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590, cod. pen.,
qualora il soggetto agente sia un esercente la professione sanitaria, determina un problema di diritto
intertemporale, che trova regolamentazione alla luce della disciplina legale. Come meglio si vedrà nel
prosieguo, la restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi:
l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di
rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in
concreto delle direttive scientifiche. Pertanto, nell’ambito delle richiamate fattispecie incriminatrici, la rilevanza
penale è da ritenersi circoscritta alla sola colpa grave (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep.
09/04/2013, cit.). E deve pure richiamarsi l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità
con la sentenza da ultimo citata, ove si è evidenziato che tale struttura della riforma in tema di
responsabilità sanitaria ha realizzato un caso di abolitio criminis parziale; che si è in presenza di norma
incriminatrice speciale, che sopravviene e che restringe l’area applicativa della norma anteriormente
vigente; che si sono succedute nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di
cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore,
ritagliando implicitamente due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale (in caso di colpa
grave) e quella che, invece, diviene penalmente irrilevante (qualora sia accertata la colpa lieve), oggetto
di abrogazione.
L’evidenziato parziale effetto abrogativo comporta, conseguentemente, l’applicazione della disciplina dettata
dall’art. 2, comma 2, cod. pen., e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui agli artt. 3, legge n.
189/2012 e 589 e 590 cod. pen. Del resto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno
chiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorché tra due norme incriminatrici che si
avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez. Un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197;
Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607).
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Omissis
2. Tempus commissi delicti e reati di durata
A) Usura. Cass. Pen., Sez. II, 13 ottobre 2005, n. 41045
Per risolvere tale problema è necessario partire dalla natura giuridica del delitto di usura, che i giudici del riesame
definiscono "reato istantaneo ad effetti permanenti", rifacendosi a quell'orientamento giurisprudenziale e
dottrinario risalente ai primi anni del codice Rocco, secondo cui i pagamenti successivi alla pattuizione di
interessi usurari costituivano post facta non punibili, in quanto semplici effetti di un reato istantaneo
consumatosi già con la pattuizione (cfr.: Cass. pen., sez. II, 27 febbraio 1935, Belfiore, in Ann. dir. proc. pen.,
1936, 805; Cass. pen., sez. II, 23 dicembre 1935, Asteriti, in Ann. dir. proc. pen., 1936, 732) Per il vero, tale
qualificazione è stata anche successivamente e per lungo tempo adottata dalla giurisprudenza prevalente (cfr. tra
le più recenti sentenze: Cass. pen., sez. II, 25 ottobre 1984, Perna, RV 167798, in Riv. pen. 1985, 1040; Cass.
pen., sez. II, 18 febbraio 1988, Mascioli, RV 178350, in Riv. pen. econ. 1991, 25; Cass. pen., sez. II, 24 aprile
1990, Di Rocco, RV 186750, in Riv. pen., 1991, 817); ma come tra breve si vedrà, essa non è più attuale ed è stata
superata da più recenti decisioni, oltre che ripudiata dalla quasi generalità della dottrina. L'occasione per il
mutamento di indirizzo è stata offerta dalla riforma del reato di usura del 1996, che ha introdotto una speciale
regola in tema di decorrenza della prescrizione, l'articolo 644 ter C.P., il quale stabilisce che "la prescrizione del
reato di usura decorre dal giorno dell'ultima riscossione sia degli interessi che del capitale". Tale statuizione,
infatti, non è allineata con l'orientamento che attribuiva all'usura la natura di reato istantaneo, sia pure con effetti
permanenti, e rappresenta - ad avviso di questo Collegio - un segnale forte di superamento di quella visione del
delitto tutta incentrata sul momento della pattuizione. Così che, anche questa Corte, in una recente decisione ha
affermato che "in tema di usura, qualora alla promessa segua - mediante la rateizzazione degli interessi convenuti
- la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a pieno
titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell'originaria
pattuizione usuraria, il momento consumativo "sostanziale" del reato, necessariamente realizzandosi, così, una
situazione non assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il
duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e
istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione
prolungata. (Principio enunciato con riferimento a una fattispecie relativa all'incasso degli interessi usurari da
parte di soggetti diversi da quelli partecipanti alla stipula del patto, dei quali la Suprema corte ha ritenuto la
responsabilità a titolo di concorso nel reato)" (Cass. pen., sez. I, 19 ottobre 1998, D'Agata e altri, RV 211610).
Aderendo allo schema giuridico dell'usura intesa appunto quale delitto a consumazione prolungata o -
come sostiene autorevole dottrina - a condotta frazionata, ne deriva che effettivamente colui il quale
riceve l'incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato
punito dall'articolo 644 C.P., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla
verificazione dell'elemento oggettivo di quel delitto.
Tuttavia, ad avviso di questo Collegio, ben diversa è la situazione nell'ipotesi che colui il quale ha
ricevuto l'incarico da parte dell'usuraio di recuperare il credito non riesca a ottenerne il pagamento. In
tal caso, infatti, il momento consumativo del reato di usura resta quello originario della pattuizione,
anteriore alla data dell'incarico: e dunque a tale delitto non può concorrere il "mero esattore" scelto in
epoca successiva. Né può parlarsi di tentata usura, con riferimento alla condotta volta a ottenere il pagamento
del credito, considerata la natura unitaria del reato punito dall'articolo 644 C.P, di cui si è fatto cenno, la quale
preclude in ogni caso che al suo autore possano essere contestati a titolo di episodi autonomi di usura i singoli
pagamenti del credito.
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B) Corruzione in atti giudiziari. Cass. Sez. un., 21 aprile 2010, n. 15208
Per un’evidente esigenza sistematica deve essere affrontata, in via prioritaria, la questione controversa sottoposta
all’esame di queste Sezioni Unite, consistente nello stabilire: “se il delitto di corruzione in atti giudiziari sia
configurabile nella forma della corruzione susseguente”.
OMISSIS
Premesso che è “susseguente” la corruzione allorquando la retribuzione concerna un atto già compiuto in
precedenza, va rilevato che – secondo un primo orientamento [OMISSIS] – non è ipotizzabile la corruzione
in atti giudiziari nella forma susseguente, benché il generico rinvio operato dalla disposizione incriminatrice
ai fatti di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen. possa far pensare che il legislatore non abbia inteso porre alcuna
distinzione o limitazione.
Il dato normativo che gioca un ruolo decisivo nella ricostruzione interpretativa di detta sentenza è racchiuso
nell’inciso “per favorire o danneggiare una parte…”: siccome la condotta incriminata, costituita dal ricevere
denaro o accettarne la promessa, assume rilievo nell’attesa di un atto funzionale ancora da compiersi, e per il cui
compimento il pubblico 14 ufficiale assume un impegno, la mera remunerazione di atti pregressi resta fuori
dell’area di tipicità.
La corruzione in atti giudiziari si qualifica per la tensione finalistica verso un risultato e non è quindi compatibile
con la proiezione verso il passato, con una situazione di interesse già soddisfatto, su cui è invece modulato lo
schema della corruzione susseguente.
Un diverso ragionamento, che punti alla valorizzazione dell’indistinto richiamo contenuto nell’art. 319 ter ai fatti
di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., per poi inferire la piena compatibilità della forma susseguente, si risolverebbe
in una forzatura interpretativa in malam partem con l’attribuzione di una valenza anche causale, oltre che finale,
all’espressione “per favorire o danneggiare”, come se ad essa fosse affiancata anche quella “per aver favorito o
danneggiato”. Se si procedesse su questa strada, peraltro, sarebbe evidente il contrasto con il principio di
tassatività.
OMISSIS
Un orientamento nettamente difforme OMISSIS è stato evidenziato che l’affermazione
dell’incompatibilità della forma susseguente si risolve in un’interpretazione abrogatrice del precetto
dell’art. 319 ter ove viene richiamato, senza distinzione alcuna, l’integrale contenuto degli artt. 318 e 319
cod. pen. Il richiamo all’intero contenuto di questi due ultimi articoli impone l’adattamento della
struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli, della corruzione antecedente e di
quella susseguente. Tali due modelli di corruzione in atti giudiziari hanno in comune il presupposto che
l’autore del fatto [necessariamente un pubblico ufficiale, perché l’art. 319 ter non è richiamato dall’art. 320 cod.
pen.] viene meno ai doveri di imparzialità e terzietà, e questo presupposto si realizza anche nella forma
susseguente, in quanto il peculiare elemento soggettivo del “favorire o danneggiare una parte”, che qualifica
testualmente la disposizione incriminatrice, finalizza la tipicità dei fatti. La finalità, in buona sostanza, si
riferisce al fatto ed il dato di rilievo nell’integrazione del fatto-reato è che la promessa o la ricezione
siano avvenute per un atto di giurisdizione o per un comportamento strumentale all’atto di
giurisdizione da compiere o già compiuto per favorire o danneggiare una parte. E’ l’atto giudiziario che
deve essere contrassegnato da una finalità non imparziale, sicché l’elemento del dolo specifico,
presente nell’ipotesi di corruzione antecedente, viene meno nel caso di corruzione susseguente per
essere l’atto già stato compiuto. Nella fattispecie di corruzione antecedente in atti giudiziari il dolo
specifico si articola nella doppia finalità, l’una – propria della corruzione generica – consistente
nell’adozione di un atto, conforme o contrario ai doveri d’ufficio, l’altra – specifica della corruzione in
atti giudiziari – consistente nella violazione, per mezzo del compimento dell’atto, del dovere rafforzato
di imparzialità che connota la funzione giudiziaria; nella corruzione in atti giudiziari susseguente,
invece, l’elemento soggettivo si compone del dolo generico della corruzione generica e del dolo
specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che però si atteggia ad elemento antecedente alla
condotta tipica. Il dolo specifico, nella corruzione in atti giudiziari susseguente, si incentra nel
compimento dell’atto, che di per sé non è condotta punibile, rispetto al quale la successiva condotta di
ricezione del denaro o di accettazione della promessa assume valenza esclusivamente causale, in
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presenza di un precedente comportamento orientato specificamente a favorire o danneggiare una parte
processuale. Da detto elemento soggettivo scompare l’ulteriore finalizzazione specifica costituita dallo
scopo tipico della corruzione antecedente. Si ha così che – mentre nella fattispecie di corruzione
antecedente l’atto, contrario o conforme ai doveri d’ufficio, costituisce l’oggetto finalistico della
condotta, il cui compimento non è necessario per la consumazione del reato – nella fattispecie di
corruzione susseguente il dolo, generico, deve investire, oltre che la condotta, anche l’atto, contrario o
conforme ai doveri d’ufficio, e l’elemento soggettivo che dell’atto è profilo indispensabile, il favorire o
danneggiare una parte processuale. Nella fattispecie di corruzione in atti giudiziari susseguente si ha,
dunque, una causalità invertita rispetto alla fattispecie di corruzione in atti giudiziari antecedente, nel
senso che l’atto (conforme o contrario ai doveri d’ufficio) costituisce il presupposto strutturale
indispensabile della condotta, che assume rilievo penale solo in forza del contributo causale dell’atto
stesso.
OMISSIS
Queste Sezioni Unite aderiscono all’orientamento prevalente, espresso nelle sentenze nn. 25418/2007 e
36323/2009, e ciò sulla base delle seguenti considerazioni: 3.1 Nel senso della configurabilità del delitto di
corruzione in atti giudiziari anche nella forma della corruzione susseguente è inequivoca – anzitutto – la
formulazione letterale dell’art. 319 ter cod. pen., che riconnette la sanzione in esso prevista ai “fatti indicati negli
artt. 318 e 319”.
OMISSIS
I “fatti indicati negli artt. 318 e 319” – testualmente richiamati dall’art. 319 ter cod. pen. – si identificano con le
condotte poste in essere dai pubblici ufficiali alle quali fanno esclusivamente riferimento le due disposizioni
anzidette [mentre la punibilità di colui che dà o promette il denaro o altra utilità è sancita dal successivo art. 321,
al pari di quanto avviene per la corruzione in atti giudiziari] e tali condotte vanno individuate nel
compimento dell’atto (conforme o contrario ai doveri) dell’ufficio, più che nella ricezione o
nell’accettazione della promessa di denaro o di altra utilità.
OMISSIS
Osserva al riguardo il Collegio – tenuto anche conto della formulazione del secondo comma dell’art. 319 ter cod.
pen., ove viene prevista un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui “dal fatto deriva l’ingiusta condanna di
taluno …” – che il fine di arrecare vantaggio o danno nei confronti di una parte processuale va riferito al
pubblico ufficiale, poiché è questi che, compiendo un atto del proprio ufficio, può incidere sull’esito del
processo: è l’atto o il comportamento processuale che deve, dunque, essere contrassegnato da una
finalità non imparziale (non la condotta di accettazione della promessa o di ricezione del denaro o di
altra utilità) e l’anzidetta peculiare direzione della volontà è un connotato soggettivo della condotta
materiale del pubblico ufficiale. Ciò che conta è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del
pubblico ufficiale: se essa [per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o
politica; prospettive di vantaggi economici o di benefici pubblici o privati; sollecitazioni della parte interessata o
di altri] è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia
antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto in concreto sia o
non sia contrario ai doveri di ufficio. La finalità si riferisce al fatto ed il valore del profilo soggettivo diviene così
preponderante ai fini della ipotizzabilità del fatto di corruzione giudiziaria da cancellare la distinzione tra atto
contrario ai doveri di ufficio e atto di ufficio, rimanendo esponenziale il presupposto che l’autore del fatto sia
venuto meno al dovere di imparzialità e terzietà (non solo soggettiva ma anche oggettiva) costituzionalmente
presidiato, così da alterare la dialettica processuale. L’elemento soggettivo peculiare [come rilevato nella sentenza
Giombini] “finalizza la stessa tipicità dei fatti previsti dagli artt. 318 e 319 cod. pen. entro un ambito
puntualmente delimitato dalla finalità del contegno”. Trattasi di un comportamento psicologicamente orientato,
riconducibile a quelli che, come viene rilevato in dottrina, “per la loro stessa natura o per i modi di
estrinsecazione nella realtà, parlano, per così dire, il linguaggio del dolo”.
OMISSIS
E’ vero che, nel caso della corruzione antecedente, la condotta del pubblico ufficiale, rivolta a favorire o
danneggiare una parte, trova la sua ragione in un accordo corruttivo già intervenuto, laddove invece,
11
nella corruzione susseguente, la condotta medesima non costituisce la controprestazione rispetto ad
una promessa o ad una dazione di denaro o di altra utilità: l’attività giudiziaria, però – in entrambi i casi –
resta comunque influenzata dall’atto o dal comportamento contrario ai doveri d’ufficio, mediante il quale si
realizza il fine perseguito dal pubblico ufficiale. In tutte le forme di corruzione antecedente (e quindi anche nella
corruzione antecedente in atti giudiziari) l’atto o il comportamento del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto
di una condotta del corrotto penalmente rilevante già in itinere. Nelle ipotesi di corruzione susseguente, invece,
l’atto del pubblico ufficiale si inserisce nel contesto di una condotta che non ha ancora assunto rilevanza penale
con riferimento al delitto di corruzione e che tale rilevanza assume se, successivamente all’atto o al
comportamento, il pubblico ufficiale accetta denaro o altra utilità (ovvero la loro promessa) per averlo realizzato.
Pure in 20 questo caso, comunque, si è in presenza di una strumentalizzazione della pubblica funzione, sotto
l’aspetto particolare, quanto alla corruzione in atti giudiziari, di uno sviamento della giurisdizione (anche solo
tentato), non essendo necessario, infatti, per il perfezionamento del reato, che la finalità avuta di mira sia
conseguita.
OMISSIS
Alla stregua delle argomentazioni dianzi svolte, va quindi affermato il principio di diritto secondo il
quale “il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319 ter cod. pen., è configurabile anche
nella forma della corruzione susseguente”.
3. Efficacia nel tempo di norme dalla dubbia natura processuale
A) Custodia cautelare. Cass., Sez. Un., n. 8 del 1992
La modificazione dell'art. 275 comma 3 c.p.p. - "Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza (in ordine ai
più gravi delitti elencati nel comma predetto) è applicata la custodia cautelare, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistano esigenze cautelari" - operata dall'art. 1 d.l. 9 settembre 1991, n.
292, si applica anche agli imputati nei confronti dei quali all'entrata in vigore del decreto erano in corso gli
arresti domiciliari sulla base del testo precedente dell'articolo. È pertanto legittima la revoca di tali arresti e la
loro sostituzione con la custodia cautelare.
B) Sospensione del processo con messa alla prova. Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240
Con ordinanza del 28 ottobre 2014 (r.o. n. 260 del 2014), il Tribunale ordinario di Torino, in composizione
monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n.
848 (d’ora in avanti «CEDU»), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-bis, comma 2, del codice di
procedura penale, «nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all’art. 15-bis,
co. 1 della legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l’ammissione all’istituto della sospensione del procedimento
con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del
dibattimento sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della legge 67/2014».
(omissis)
2.– Le questioni non sono fondate.
2.1.– L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli adulti è stato introdotto con la
legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del
sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili). La messa alla prova comporta, oltre alla tenuta da parte dell’imputato di condotte
volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, ove possibile, al risarcimento
del danno, l’affidamento al servizio sociale con un particolare programma. La concessione della messa alla prova
è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità (art. 168-bis del codice penale). L’esito positivo
della prova «estingue il reato per cui si procede» (art. 168-ter cod. pen.).
12
Il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da
un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale,
alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione
del procedimento con messa alla prova. La norma impugnata stabilisce i termini entro i quali, a pena di
decadenza, l’imputato può formulare la richiesta: sono termini diversi, articolati secondo le sequenze
procedimentali dei vari riti. Nel procedimento con citazione diretta, oggetto del giudizio a quo, la
richiesta può essere proposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
OMISSIS
In una prospettiva processuale però ben si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del
termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. È allo stato del
processo che il legislatore ha inteso fare riferimento e sotto questo aspetto ben può dirsi che ha trattato
in modo uguale situazioni processuali uguali. Il termine entro il quale l’imputato può richiedere la
sospensione del processo con messa alla prova è collegato alle caratteristiche e alla funzione
dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo.
Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel corso del dibattimento, anche dopo che il giudizio
si è protratto nel tempo, eventualmente con la partecipazione della parte civile (che avrebbe maturato
una legittima aspettativa alla decisione), significherebbe alterare in modo rilevante il procedimento, e il
non averlo fatto non giustifica alcuna censura riferibile all’art. 3 Cost. La preclusione lamentata dal
giudice rimettente dipende solo dal diverso stato dei processi che la subiscono e questa Corte ha già
avuto occasione di affermare che il legislatore gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina
temporale di nuovi istituti processuali o delle modificazioni introdotte in istituti già esistenti, sicché le
relative scelte, ove non siano manifestamente irragionevoli, si sottraggono a censure di illegittimità
costituzionale (ordinanze n. 455 del 2006 e n. 91 del 2005).
OMISSIS
2.3.– Secondo il giudice rimettente, la mancanza della norma transitoria di cui si vorrebbe l’introduzione,
impedendo l’applicazione retroattiva di una norma penale di favore, sarebbe pure in contrasto «con il principio di
rango costituzionale – attraverso il parametro interposto di cui all’art. 117 Cost., sancito dall’art. 7 C.E.D.U. (cfr.
sentenza della Corte EDU 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia resa dalla Grande Camera della Corte di
Strasburgo) – della retroattività della lex mitior». Il giudice rimettente però non considera che la preclusione di
cui lamenta gli effetti è conseguenza non della mancanza di retroattività della norma penale ma del normale
regime temporale della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento all’art. 7 della CEDU risulta fuori
luogo.
Il principio di retroattività si riferisce al rapporto tra un fatto e una norma sopravvenuta, di cui viene in questione
l’applicabilità, e nel caso in oggetto, a ben vedere, l’applicabilità e dunque la retroattività della sospensione del
procedimento con messa alla prova non è esclusa, dato che la nuova normativa si applica anche ai reati commessi
prima della sua entrata in vigore.
L’art. 464-bis cod. proc. pen., nella parte impugnata, riguarda esclusivamente il processo ed è espressione del
principio “tempus regit actum”. Il principio potrebbe essere derogato da una diversa disciplina transitoria, ma la
mancanza di questa non è certo censurabile in forza dell’art. 7 della CEDU. È da aggiungere che, come questa
Corte ha già avuto occasione di affermare, la Corte europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che il principio di
retroattività della legge penale più favorevole «sia un corollario di quello di legalità, consacrato dall’art. 7 della
CEDU, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il
principio di retroattività della lex mitior, come in generale “le norme in materia di retroattività contenute nell’art.
7 della Convenzione”, concerne secondo la Corte le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li
reprimono” (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia; nello stesso senso, sentenza 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia)». Perciò «è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla
Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee
all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole
al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità»
(sentenza n. 236 del 2011).
13
OMISSIS
Le ragioni precedentemente indicate a conferma della legittimità costituzionale della norma impugnata
fanno apparire prive di fondamento anche le questioni relative alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost.,
sollevate nell’erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell’entrata in vigore della
norma impugnata dovrebbe riconoscersi all’imputato, come espressione del diritto di difesa e del diritto
a un giusto processo, la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, come si è
visto, è stata legittimamente esclusa l’applicabilità. Deve quindi concludersi che le questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Torino sono prive di fondamento.
Cass., sez. IV, 31 luglio 2014, n. 35717
(omissis) 4. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non può essere accolta, per le
ragioni che seguono. 4.1 n capo II della legge 28.4.2014 n. 67 ha introdotto l'istituto della sospensione del
procedimento con messa alla prova anche per gli imputati maggiorenni. L'art. 3 della legge disciplina le modifiche
al codice penale, con l'inserimento dei nuovi art. 168-bis e 168-ter c.p., indicando i presupposti oggettivi e
soggettivi per l'applicazione del nuovo istituto e prevedendo che l'esito positivo della prova estingua il reato per
cui si procede. L'art. 4 modifica il codice di rito, disciplinando: tempi e modi della richiesta nella fase del giudizio
(art. 464-bis) e in quella delle indagini preliminari (464-ter c.p.p. e 141-bis disp. att. c.p.p.); contenuto del
provvedimento del giudice e suoi effetti (464-quater); contenuti, modalità e possibili vicende afferenti
l'esecuzione della messa alla prova (464- quinquies, 464-sexies, 464-octies, 464-novies, 141-ter disp. att.); esiti
della messa alla prova (464-septies, in particolare con l'alternativa della 25627/14 RG 4 sentenza che dichiara
l'estinzione del reato e dell'ordinanza che dispone la ripresa del corso del processo; 657-bis). 4.2 Per quanto
riguarda la fase del giudizio, che qui rileva, la nuova disciplina costruisce l'istituto della sospensione del
procedimento con messa alla prova quale alternativa alla celebrazione di alcun giudizio, caratterizzata
da peculiari e ripetuti apprezzamenti di merito del giudice che sarebbe competente al giudizio di primo
grado. (omissis) Conferma la natura di 'rito/procedura' radicalmente alternativa al giudizio il fatto che le
ordinanze che decidono sulla richiesta originaria o sulla revoca siano immediatamente ricorribili per cassazione:
artt. 464- quater.7 e 464-octies-3. (omissis) In definitiva, l'istituto della messa alla prova previa sospensione del
procedimento è stato costruito dal legislatore come opportunità possibile esclusivamente in radicale alternativa
alla celebrazione di ogni tipologia di giudizio di merito, già dal primo grado. Si tratta, quindi, di procedura e
opportunità assolutamente incompatibile con alcun giudizio di impugnazione. L'attuale disciplina positiva,
pertanto, esclude la possibilità che la sospensione del procedimento con messa alla prova possa trovare
applicazione nel giudizio di legittimità. 4.3 La legge n. 67 del 2014 non contiene disciplina transitoria. Il
Parlamento si è attivato in tempi successivi alla sua promulgazione e, ad oggi, risulta pendente al Senato della
Repubblica (S.1517) l'esame del testo approvato il 10.6.2014 dalla Camera dei deputati (C.2344), secondo cui "1.
Le disposizioni di cui al presente capo si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
presente legge, a condizione che nei medesimi procedimenti non sia stato pronunciato il dispositivo della
sentenza di primo grado. 2. In deroga a quanto previsto dal comma 1, le disposizioni vigenti prima della data di
entrata in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ai procedimenti in corso alla data di entrata in
vigore della presente legge quando l'imputato è stato dichiarato contumace e non è stato emesso il decreto di
irreperibilità". 4.3.1 Come si è evidenziato, si tratta pertanto di un intervento normativo complesso, nel quale il
beneficio della possibile estinzione del reato è strettamente connesso alla peculiare procedura che deve
essere seguita, l'uno risultando inscindibilmente legato ad una ratio deflattiva che impedisce ogni
efficacia del beneficio autonoma, quindi al di fuori del peculiare rito. Proprio tale inscindibile
connessione tra il beneficio estintivo ed il rito peculiare che, solo, ad esso può condurre comporta che
l'attuale assenza di una positiva e specifica disciplina transitoria (relativa ad un possibile rito 25627/14 RG
6 diverso per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disciplina) imponga, per sé,
l'applicazione del generale principio cd del tempus regit actum (secondo la previsione generale dell'art. 11
disp. sulla legge in generale), con la conseguente inammissibilità di ogni richiesta che intervenga in sede
14
di giudizio di legittimità. Deve infatti avere risposta negativa il quesito se, non essendo più possibile per
l'imputato, in ragione dello stato in cui si trova il processo al momento dell'entrata in vigore della legge n.
67/2014, proporre la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nei soli termini in cui essa
è, come ricordato, ammissibile, sia comunque configurabile, in ragione della natura di causa estintiva del reato
che il positivo esito della messa alla prova assume, l'obbligo, riconducibile a fonti normative ordinarie o
costituzionali nazionali ovvero normative o giurisprudenziali europee, di rendere comunque applicabile la nuova
disciplina anche al processo in corso, trattandosi di legge penale più favorevole. 4.3.2 Ancorchè formulata in
relazione a positiva disciplina transitoria, appare in proposito assorbente la condivisa analisi che ha condotto la
Corte costituzionale a dichiarare non fondata la questione relativa all'inapplicabilità dei più favorevoli termini di
prescrizione, introdotti dalla legge n. 251/2005, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di
cessazione. La motivazione della sentenza n. 236 del 22.6-22.7.2011 ha, con attento esame delle implicazioni del
contenuto dell'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo e quindi dell'art. 117.1 Cost.,
espresso alcuni principi che efficacemente si attagliano alle caratteristiche sistematiche e strutturali che la
questione qui esaminata pone. La Corte costituzionale ha prima ricordato che, secondo la propria giurisprudenza,
"il principio di eguaglianza costituisce non solo il fondamento, ma anche il limite dell'applicabilità retroattiva della
lex mitior. Mentre il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, infatti, costituisce un valore
assoluto e inderogabile, quello della retroattività in mitius è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul
piano 25627/14 RG 7 costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli e, in particolare,
dalla necessità di preservare interessi, ad esso contrapposti, di analogo rilievo" (omissis). E "a ben vedere il
principio di retroattività della lex mitior presuppone un'omogeneità tra i contesti fattuali o normativi in cui
operano le disposizioni che si succedono nel tempo, posto che ... il principio di eguaglianza, così come ne
costituisce un fondamento, può rappresentare anche il limite dell'applicabilità retroattiva della legge penale più
favorevole" (punto 13, quinto paragrafo). In altri termini, "a differenza di quello di irretroattività della legge
penale sfavorevole, il principio di retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni" e
l'eccezione può trovare ragionevole fondamento 'nella diversità dei contesti processuali'. 4.3.2.1 Queste
riflessioni sistematiche debbono guidare l'interprete quando si ponga la domanda se nel nostro caso la
lex mitior (costituita dalla previsione di una ulteriore causa di estinzione del reato tuttavia caratterizzata dalla
stretta connessione con un rito peculiare che ne impedisce ogni rilievo nei giudizi di impugnazione) possa
trovare applicazione retroattiva. Orbene, l'interprete deve prendere atto che, come avvertito, secondo il nuovo
intervento legislativo quando il processo è ormai giunto davanti al giudice dell'impugnazione (perché vi è stata
una decisione che ha definito il primo grado di giudizio) non vi è spazio sistematico alcuno per dare ingresso ad
una procedura che, come e nei termini in cui si è prima argomentato, è strutturalmente alternativa ad ogni tipo di
giudizio su una determinata imputazione. Questo ancor più quando il processo pende nel giudizio di legittimità.
In altri termini, solo una disciplina transitoria che prevedesse espressamente l'applicazione retroattiva
potrebbe, in questa fattispecie di procedimento, permettere l'apertura di una fase incidentale che dia
spazio alle peculiari vicende che possono condurre all'esito positivo di una messa alla prova, fatto che
costituisce il presupposto dell'effetto estintivo del reato. Tanto ciò è vero, che la soluzione diversa
condurrebbe a conclusioni sia del tutto creative che clamorosamente incompatibili con il sistema processuale
penale positivo. (omissis) In altri termini, proprio le considerazioni che precedono evidenziano come i contesti
processuali del processo che non sia giunto a sentenza in primo grado e di quelli che si trovano in fase di
impugnazione siano assolutamente, strutturalmente e dal punto di vista sistematico, del tutto differenti e non
permettano, pertanto, di dare applicazione retroattiva alla nuova disciplina, a ciò potendo giungersi solo con
esplicita, specifica ed articolata scelta sistematica del legislatore, con un'eventuale disciplina transitoria. 4.3.2.2 Né,
ricostruito il sistema con l'applicazione ordinaria del principio posto dall'art. 11 disp. sulla legge in generale (in
ragione della richiamata inscindibile connessione tra diritto sostanziale e rito, in questa fattispecie), potrebbe
prospettarsi alcuna questione di legittimità costituzionale in ordine a tale soluzione: per due ragioni concorrenti
ed autonome tra loro. La prima: proprio le alternative possibili, di alcune delle quali si è appena dato conto,
attestano che la questione attiene alla discrezionalità propria del legislatore che, consapevole del principio
generale vigente riconducibile all'art. 11 ricordato, avrebbe potuto e potrebbe scegliere tra soluzioni diverse,
assumendo la responsabilità delle eventuali complesse scelte di sistema necessarie; palese, quindi, l'assenza di una
15
soluzione costituzionalmente obbligata. La seconda: deve osservarsi che la conclusione cui la sentenza 236/2011
della Corte costituzionale è giunta atteneva ad una fattispecie in cui si trattava di una causa di estinzione del reato
(la prescrizione) immediatamente applicabile e di agevole individuazione. A maggior ragione tale conclusione non
può che valere per la nostra fattispecie, caratterizzata da plurimi elementi di incertezza quanto al definitivo
concretizzarsi della causa estintiva. 5. Deve conclusivamente affermarsi il principio di diritto che "La
sospensione del procedimento con messa alla prova, di cui agli artt. 3 e 4 della legge n. 67 del 28 aprile
2014, non può essere richiesta dall'imputato nel giudizio di cassazione, né invocandone l'applicazione
in detto giudizio, né sollecitando l'annullamento con rinvio al giudice di merito. Infatti il beneficio della
estinzione del reato, connesso all'esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un iter
procedurale, alternativo alla celebrazione del giudizio, introdotto da nuove disposizioni normative, per
le quali, in mancanza di una specifica disciplina transitoria, vige il principio 'tempus regit actum'. Né
alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 236 del 2011, è configurabile alcuna lesione del
principio di retroattività della lex mitior, che per sé imponga l'applicazione dell'istituto a prescindere
dalla assenza di una disciplina transitoria". (omissis)
C1) Speciale tenuità del fatto ex art. 131 c.p.p.
Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449;
9. Resta da esaminare la questione, sollevata in udienza, dell'applicabilità, nella fattispecie, della causa di
non punibilità ora prevista dall'art. 131-bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. 28 del 2015.
Il menzionato decreto legislativo non prevede una disciplina transitoria, cosicché va preliminarmente verificata la
possibilità di applicare la nuova disposizione anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in
vigore.
La natura sostanziale dell'istituto di nuova introduzione induce ad una risposta positiva, con
conseguente retroattività della legge più favorevole, secondo quanto stabilito dall'art. 2, comma 4 cod.
pen.
Può anche ritenersi che la questione della particolare tenuità del fatto sia proponibile anche nel
giudizio di legittimità, tenendo conto di quanto disposto dall'art. 609, comma 2, cod. proc. pen.,
trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.
L'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. presuppone, tuttavia, valutazioni di merito, oltre che la necessaria
interlocuzione dei soggetti interessati.
Da ciò consegue che, nel giudizio di legittimità, dovrà preventivamente verificarsi la sussistenza, in astratto, delle
condizioni di applicabilità dei nuovo istituto, procedendo poi, in caso di valutazione positiva, all'annullamento
della sentenza impugnata con rinvio al giudice dei merito affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile.
10. Dovendosi quindi procedere a tale apprezzamento, rileva il Collegio che l'art. 131-bis, comma 1 cod. pen.
delinea preliminarmente il suo ambito di applicazione ai soli reati per i quali è prevista una pena detentiva non
superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena.
I criteri di determinazione della pena sono indicati dal comma 4, il quale precisa che non si tiene conto delle
circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del
reato e di quelle ad effetto speciale. In tale ultimo caso non si tiene conto dei giudizio di bilanciamento di cui
all'articolo 69. Il comma 5, inoltre, chiarisce che la non punibilità si applica anche quando la legge prevede la
particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.
La rispondenza ai limiti di pena rappresenta, tuttavia, soltanto la prima delle condizioni per l'esclusione della
punibilità, che infatti richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della
disposizione) la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento.
Il primo degli «indici-criteri» (così li definisce la relazione allegata allo schema di decreto legislativo) appena
indicati (particolare tenuità dell'offesa) si articola, a sua volta, in due «indìcirequisiti» (sempre secondo la
definizione della relazione), che sono la modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi
sulla base dei criteri indicati dall'articolo 133 cod. pen., (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra
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modalità dell'azione, gravità dei danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato intensità del dolo o
grado della colpa).
Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due «indici-requisiti» della modalità della condotta e
dell'esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui al primo comma dell'articolo 133
cod. pen., sussista l'«indice-criterio» della particolare tenuità dell'offesa e, con questo, coesista quello della non
abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed
escluderne, conseguentemente, la punibilità.
11. Date tali premesse, va rilevato, procedendo alla preliminare verifica della possibile sussistenza delle
condizioni di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. al caso in esame, che il reato contestato al ricorrente è quello
previsto e sanzionato dall'art. 11 d.lgs. 742000, commesso il 25/2/2009, data di costituzione del trust, cosicché,
avuto riguardo alla pena prevista dalla menzionata disposizione nella formulazione vigente all'epoca dei fatti
(prima dell'intervento modificativo ad opera dei d.l. 78/2010, convertito con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122 la sanzione era quella della reclusione da sei mesi a quattro anni) i limiti di pena indicati dall'art. 131-
bis, comma 1 cod. pen. non risultano superati.
Va quindi accertata la sussistenza delle ulteriori condizioni di legge per l'esclusione della punibilità.
Cass., Sez. un., 6 aprile 2016, n. 13681
(omissis). Al riguardo occorre considerare che l'art. 131-bis cod. pen. è stato introdotto con l'art. 1, comma 2,
d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e quindi in epoca successiva alla pronunzia d'appello, emessa il 10 febbraio 2015 e
relativa a fatto commesso il 15 marzo 2011. Questa Corte ha in numerose occasioni condivisibilmente ritenuto
che, se non è stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all'applicazione del nuovo
istituto può essere dedotto davanti alla Corte di cassazione e può essere altresì rilevato d'ufficio ai sensi
dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen. (…). Si è infatti in presenza, come sarà meglio esposto nel prosieguo,
di innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l'esclusione della punibilità e che reca senza
dubbio una disciplina più favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell'art. 2,
quarto comma, cod. pen. (omissis) 2. (omissis) 4. Chiarito il contenuto del giudizio di legittimità, occorre
intendere se l'art. 131-bis cod. pen, sia applicabile al reato oggetto del giudizio. Il quesito di diritto devoluto alle
Sezioni Unite è infatti "se la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto sia compatibile con il
reato di guida in stato di ebbrezza". La sentenza Longoni, evocata nell'ordinanza di rirnessione, ha dato
risposta positiva. Si è considerato che il nuovo istituto si giustifica alla luce della riconosciuta graduabilità del
reato in relazione al disvalore d'azione e d'evento nonché all'intensità della colpevolezza. Occorre,
dunque, compiere una valutazione relativa al fatto concreto; verificare se la irripetibile manifestazione
dell'illecito presenti un ridottissimo grado di offensività. Si è conseguentemente ritenuto che non vi sono
ostacoli ad applicare l'istituto anche ai reati di pericolo astratto o presunto. In particolare, la previsione di
un valore-soglia per la configurazione del reato svolge la sua funzione sul piano della selezione categoriale,
mentre la particolare tenuità del fatto richiede un "vaglio tra le epifanie nella dimensione effettuale". Il principio,
si è aggiunto, è applicabile anche il relazione alla più grave fattispecie di cui all'art. 186, comma 2, lettera c), cod.
strada, dovendosi considerare non solo l'entità dello stato di ebbrezza, ma anche le modalità della condotta e
l'entità del pericolo o dei danno cagionato. Tale esito interpretativo non è pregiudicato dalla previsione di un
minore grado di alterazione che configura un illecito amministrativo. Infatti, reato ed illecito amministrativo
presentano differenze evidenti e rilevanti, che definiscono autonomi statuti e discipline differenziate. Peraltro, si
è infine aggiunto, l'applicazione della causa di non punibilità presuppone l'accertamento del reato, dal quale
discende l'applicazione della sanzione amministrativa accessoria ad opera del giudice penale. 5. Questo
approccio non presenta aspetti critici per ciò che attiene all'applicabilità del nuovo istituto al caso in
esame; e le obiezioni esposte nell'ordinanza di rimessione non colgono nel segno. Il tema, peraltro, non
può essere esaminato in astratto, ma richiede di partire dal dato testuale. Occorre considerare che il legislatore
ha limitato il campo d'applicazione del nuovo istituto in relazione alla gravità del reato, desunta dalla
pena edittale massima; ed alla non abitualità del comportamento. In tale ambito, come sarà meglio
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esplicitato più avanti, il fatto particolarmente tenue va individuato alla stregua di caratteri riconducibili a
tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l'esiguità del danno o del pericolo, il grado della
colpevolezza. L'ordinanza di rirnessione, dunque, non coglie nel segno e pecca di astrattezza quando
lega il nuovo istituto ai principio di offensività. Le Sezioni Unite hanno già avuto occasione, recentemente, di
evocare le radici e le inespresse potenzialità ermeneutiche del principio di offensività (Sez. U, n. 40354 del
18/07/2013, Sciuscio, Rv. 255974). (omissis) In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che
consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità; e di dare contenuto tangibile alle espressioni vaghe
che spesso compaiono nelle formule legali. Da quanto precede emerge che il principio di offensività attiene
all'essere o non essere di un reato o di una sua circostanza; e non è invece implicato nell'ambito di cui
ci si occupa, che riguarda per definizione fatti senza incertezze pienamente riconducibili alla fattispecie
legale. (omissis) 6. In realtà il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato
come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue
finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo
scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di
pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo. Proporzione e
deflazione s'intrecciano coerentemente. Il dato normativo conduce senza dubbi di sorta a tale esito
interpretativo. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede, infatti, una valutazione complessa che ha ad oggetto le
modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo valutate ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod.
peri. Si richiede, in breve, una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta; e non
solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto. Per ciò che qui interessa,
non esiste un'offesa tenue o grave in chiave archetipica. E' la concreta manifestazione del reato che ne
segna il disvalore. Come è stato persuasivamente considerato, qualunque reato, anche l'omicidio, può essere
tenue, come quando la condotta illecita conduce ad abbreviare la vita solo di poco. 7. Di particolare ed
illuminante rilievo è il riferimento testuale alle modalità della condotta, al comportamento. La nuova
normativa non si interessa della condotta tipica, bensì ha riguardo alle forme di estrinsecazione del
comportamento, al fine di valutarne complessivamente la gravità, l'entità del contrasto rispetto alla legge e
conseguentemente il bisogno di pena. Insomma, si è qui entro la distinzione tra fatto legale, tipico, e fatto
storico, situazione reale ed irripetibile costituita da tutti gli elementi di fatto concretamente realizzati
dall'agente; secondo l'insegnamento espresso nella pagina fondativa del fatto nella teoria generale del
reato. Ed è chiaro che la novella intende per l'appunto riferirsi alla connotazione storica della condotta,
essendo in questione non la conformità al tipo, bensì l'entità del suo complessivo disvalore. Allora, essendo in
considerazione la caratterizzazione del fatto storica nella sua interezza, non si dà tipologia di reato per
la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta; ed in cui sia quindi inibita
ontologicamente l'applicazione del nuovo istituto. L'opinione contraria manifestata dall'ordinanza di
rimessione è deviata dalla impropria sovrapposizione tra il fatto tipico ed il fatto storico; tra l'offesa e la sua
entità. Dunque, pure nei reati senza offesa, di disobbedienza, o comunque poveri di tratti descrittivi,
contrassegnati magari da una mera omissione o da un rifiuto, la valutazione richiesta dalla legge è possibile e
doverosa, dovendosi considerare la concreta manifestazione del fatto illecito. Del resto, l'esperienza giuridica
mostra esempi eloquenti: non è certo indifferente, nella ponderazione del disvalore del fatto e del bisogno di
pena, se un comportamento che si estrinseca in un mero rifiuto sia accompagnato da manifestazioni di
irriguardosa e violenta opposizione o sia invece dovuto ad una non completa comprensione del contesto, ovvero
a concomitanti esigenze personali socialmente apprezzabili. Per di più, la tesi espressa dall'ordinanza di
rimessione condurrebbe a conseguenze paradossali: l'inapplicabilità dell'istituto ai reati bagatellari, caratterizzati di
solito dall'omissione di una prescrizione, con conseguente frustrazione delle finalità deflative sottese alla novella.
Pure per tali reati, invece, occorre considerare il contesto: l'entità, l'oggetto, gli effetti della condotta ed ogni altro
elemento significativo. 8. Tale ricostruzione dell'istituto trova ulteriore conferma nella necessità di compiere le
valutazioni di cui si discute alla luce dell'art. 133, primo comma, cod. pen. Il richiamo mette in campo, oltre alle
caratteristiche dell'azione e alla gravità del danno o del pericolo, anche l'intensità del dolo e il grado della colpa. A
tale riguardo sono state manifestate perplessità, alimentate dal timore che vengano richieste indagini complesse
sulla sfera interiore, incompatibili con la spedita applicazione del nuovo istituto, e possibili cause di derive
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incontrollabili nell'esercizio della discrezionalità Si tratta di dubbi che non sono fondati. La pertinenza del
richiamo emerge icasticamente dalla stessa intitolazione dell'art. 133, dedicato alla valutazione della gravità del
reato agli effetti della pena; atteso che il nuovo istituto è stato configurato proprio come una causa di esclusione
della punibilità. D'altra parte, occorre considerare che se è vero che lo sviluppo del progetto normativa ha in più
occasioni mostrato di preferire la considerazione dei tratti più obiettivabili rifuggendo dai profili interiori,
tuttavia, come ormai comunemente ritenuto, anche l'elemento soggettivo del reato penetra nella tipicità
oggettiva. Ciò è particolarmente chiaro nell'ambito della colpa, ove rileva il tratto obiettivo della violazione della
regola cautelare. Ma anche nell'ambito del dolo condotta e colpevolezza s'intrecciano. Soprattutto, infine, la
dottrina della colpevolezza è troppo profondamente legata al tema della pena e della sua commisurazione perché
se ne possa prescindere del tutto nell'ambito della valutazione sulla sua meritevolezza richiesta dalla novella. Si
vuol dire che razionalmente, nel disciplinare la graduazione dell'illecito, si è fatto riferimento non solo al disvalore
di azione e di evento ma anche al grado della colpevolezza. La rilevanza del profilo soggettivo emerge, del resto,
dal parere espresso dalla Camera sullo schema di decreto legislativo. Si è considerato che il parametro della
modalità della condotta consente valutazioni anche di natura soggettiva sul grado della colpa e sull'intensità del
dolo; e si è quindi proposto di introdurre il richiamo esplicito all'art. 133, primo comma, cod. pen. che compare
nell'atto normativa. Tali brevi considerazioni corroborano la prospettata ricostruzione della nuova figura
giuridica. Essendo richiesta la ponderazione della colpevolezza in termini di esiguità e quindi la sua graduazione,
è del tutto naturale che il giudice sia chiamato ad un apprezzamento di tutte le rilevanti contingenze che
caratterizzano ciascuna vicenda concreta ed in specie di quelle afferenti alla condotta; ed è quindi escluso che una
preclusione possa derivare dalla modesta caratterizzazione, sul piano descrittivo, della fattispecie tipica. 9.
L'approccio proposto può essere ripetuto in guisa non molto dissimile per ciò che riguarda la ponderazione
dell'entità del danno o del pericolo. Anche qui nessuna precostituita preclusione categoriale è consentita,
dovendosi invece compiere una valutazione mirata sulla manifestazione del reato, sulle sue conseguenze.
L'ordinanza di rimessione sembra dubitare che siffatta valutazione possa esser fatta con riguardo a
illeciti nei quali sia impossibile o difficile compiere un apprezzamento gradualistico rapportato
all'entità della lesione od esposizione a pericolo di un bene giuridico; o nei quali la misurazione sia
stata espressa 10 direttamente dal legislatore attraverso l'individuazione di soglie, fasce di rilevanza
penale o di graduazione dell'entità dell'illecito. Pure tale dubbio è ingiustificato. Esso è ancora una
volta determinato dall'idea che la valutazione afferente all'esiguità del fatto o dell'offesa debba essere
articolata nel rispetto della tradizione che lega il principio di offensività alla lesione od esposizione a
pericolo del bene giuridico. Si tratta di un approccio che non tiene conto della disciplina legale. Il legislatore,
come si è accennato, ha esplicato una complessa elaborazione per definire l'ambito dell'istituto. Da un lato ha
compiuto una graduazione qualitativa, astratta, basata sull'entità e sulla natura della pena; e vi ha aggiunto un
elemento d'impronta personale, pure esso tipizzato, tassativo, relativo alla abitualità o meno del comportamento.
Dall'altro lato ha demandato al giudice una ponderazione quantitativa rapportata al disvalore di azione, a quello
di evento, nonché al grado della colpevolezza. Ha infine limitato la discrezionalità del giudizio escludendo alcune
contingenze ritenute incompatibili con l'idea di speciale tenuità: motivi abietti o futili, crudeltà, minorata difesa
della vittima ecc.. Da tale connotazione dell'istituto emerge un dato di cruciale rilievo, che deve essere con forza
rimarcato: l'esiguità del disvalore è frutto di una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al
danno ed alla colpevolezza. E potrà ben accadere che si sia in presenza di elementi di giudizio di segno opposto
da soppesare e bilanciare prudentemente. Da quanto precede discende che la valutazione inerente all'entità
del danno o del pericolo non è da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del
fatto. Tale conclusione è desunta non solo dalla complessiva articolazione della disciplina cui si è sopra fatto
cenno, ma anche da due argomenti specifici. In primo luogo, il legislatore ha espressamente previsto che la
nuova disciplina trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o
del pericolo come circostanza attenuante. Dunque, anche in presenza di un danno di speciale tenuità
l'applicazione dell'art. 131-bis è pur sempre legata anche alla considerazione dei già evocati indicatori
afferenti alla condotta ed alla colpevolezza. D'altra parte, quando si è voluto evitare che la graduazione
del reato espressa in una circostanza aggravante ragguagliata all'entità della lesione sia travolta da
elementi di giudizio di segno opposto afferenti agli altri indicatori previsti dalla legge lo si è ha fatto
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esplicitamente: l'offesa non può essere ritenuta tenue quando la condotta ha cagionato, quale
conseguenza non voluta, lesioni gravissime. In breve, è stata accolta in tutto e per tutto la concezione
gradualistica del reato già nitidamente scolpita nell'insegnamento Carrariano: «nella ricerca sul grado si esamina
un fatto nelle eccezionali accidentalità del suo concreto modo di essere nella individualità criminosa nella quale si
estrinseca»; e, nel rispetto della legge, tale giudizio non può che essere rimesso al magistrato «perché l'uomo deve
essere condannato secondo la verità e non secondo le presunzioni». Si tratta, d'altra parte, di approccio non solo
tradizionale ma anche moderno, ripreso dagli studiosi che hanno analizzato i mutevoli pesi dell'esperienza
giuridica proprio per cogliervi criteri di selezione di comportamenti per l'appunto minori, meritevoli di
trattamento differenziato. 10. Alla luce di tali considerazioni è possibile rispondere agli interrogativi che
riguardano la fattispecie in esame. Essa si inscrive nella categoria degli illeciti che presentano una soglia
quantitativa che segna l'ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravità dell'offesa. Qui il
dato oggetto di misurazione è il tasso alcoolemico. Orbene, è chiaro che il superamento della soglia di rilevanza
penale coglie il minimo disvalore della situazione dannosa o pericolosa. Il giudice che ritiene tenue una condotta
collocata attorno all'entità minima del fatto conforme al tipo, contrariamente a quanto ritenuto dall'ordinanza di
rimessione, non si sostituisce al legislatore, ma anzi ne recepisce fedelmente la valutazione. Naturalmente, pure in
tale caso la valutazione riguarda la fattispecie concreta nel suo complesso e quindi tutti gli aspetti già più volte
evocati, che afferiscono alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza. Chiaramente, quanto
più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non
specialmente esiguo. Tuttavia, nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare cioè
le peculiarità del caso concreto. (omissis) E' illuminante l'esempio, già evocato dalla sentenza Longoni,
dell'agente che, in stato di grave alterazione alcoolica integrante la fattispecie di cui all'art. 186, comma
2, lettera c), si pone alla guida di un'auto in un parcheggio isolato, spostandola di qualche metro e
senza determinare alcuna situazione pregiudizievole. 11. Resta da esaminare l'obiezione per cui la
valutazione sulla tenuità del fatto è preclusa nell'ambito delle fattispecie in cui non è richiesto l'accertamento della
concreta pericolosità della condotta tipica. A tale riguardo occorre considerare che la contravvenzione di cui si
discute si inscrive effettivamente nella categoria di illeciti in cui la pericolosità della condotta tipica è tratteggiata
in guisa categoriale: è ritenuta una volta per tutte dal legislatore, che individua comportamenti contrassegnati, alla
stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza, dall'attitudine ad aggredire il bene oggetto di
protezione. Si tratta, in breve, dei reati di pericolo presunto: nessuna indagine è richiesta sulla fattispecie concreta
e sulla concreta pericolosità in relazione al bene giuridico oggetto di tutela. Si tratta, è bene rammentarlo, di una
categoria di illeciti che trova frequente espressione in reati contravvenzionali connotati proprio dal superamento
di valori soglia ritenuti per l'appunto tipicamente pericolosi. Orbene, non è da credere che tale conformazione
della fattispecie faccia perdere il suo ancoraggio all'idea di pericolo ed ai beni giuridici che si trovano sullo
sfondo. Al contrario, come ormai diffusamente ritenuto, si tratta di illeciti che presentano un forte legame con
l'archetipo della pericolosità e garantiscono, anzi, il rispetto del principio di tassatività, assicurando la definita
conformazione della fattispecie alla stregua di accreditate informazioni scientifiche e di razionale ponderazione
degli interessi in gioco; ed eliminando gli spazi di vaghezza e discrezionalità connessi alla necessità di accertare in
concreto l'offensività del fatto. Da tale ricostruzione della categoria discende che, accertata la situazione
pericolosa tipica e dunque l'offesa, resta pur sempre spazio per apprezzare in concreto, alla stregua
della manifestazione del reato, ed al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell'illecito,
quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive e quale sia, in conseguenza, il concreto
possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato. Per esemplificare, non è per nulla indifferente
nella ottica gradualistica che qui interessa, che l'irregolare scarico di acque reflue avvenga in un
territorio riccamente urbanizzato, magari con fonti di approvvigionamento idrico; o che avvenga,
invece, in un luogo assai remoto privo di significative connessioni, dirette o indirette, con oggetti
pertinenti alla tutela ambientale. E' agevole, a questo punto, tradurre le indicate enunciazioni di principio
nell'ambito di cui ci si occupa, non prima, però, di aver posto un'ultima preliminare precisazione. (omissis) 12.
Tale conclusione non è ostacolata neppure dalla considerazione che al di sotto della soglia di rilevanza penale
esiste una fattispecie minore che integra un illecito amministrativo. Invero, come già evidenziato dalla sentenza
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Longoni, l'illecito penale e quello amministrativo, pur essendo parti del più ampio diritto punitivo,
presentano differenze tanto evidenti quanto rilevanti, che delineano autonomi statuti.
C2) Trib. Milano, Sez. XI, decreto 3 novembre 2015
Sulla richiesta ex art. 673 c.p.p avanzata dal difensore di A. V. ad oggetto la revoca della sentenza emessa dal
tribunale di Milano in data 17.12.2008, irr. il 9.7.2014, acquisito il parere del p.m., osserva:
1. Si tratta di un’argomentazione che non ha pregio, non potendo trovare applicazione l’istituto ex art.
131 bis c.p. con riguardo ai fatti già giudicati con sentenza irrevocabile, stante lo sbarramento posto
dall’art. 2, comma 4, c.p.
2 Invero, affinché vi sia abolitio criminis, che può essere dedotta anche in executivis ai sensi dell’art. 673 c.p.p., è
necessario che il fatto, già previsto dalla legge come reato, non rivesta più, per effetto di una nuova legge, alcun
carattere di illiceità penale, non essendo più astrattamente sussumibile né in nuove fattispecie incriminatrici, né in
altre preesistenti. Si tratta di una situazione affatto diversa da quella in esame, per l’assorbente ragione
che l’istituto previsto dall’art. 131 bis c.p. non solo non ha inciso sul carattere di illiceità di qualsivoglia
reato, ma, per la sua applicazione, presuppone l’esistenza di un fatto di reato, che, per ragioni di
opportunità, il Legislatore, attese le peculiari connotazioni del fatto concreto come di particolare
tenuità, ritiene di non doverlo perseguire. In altri termini: per l’operatività dell’art. 131 bis c.p. il fatto
concreto deve rivestire rilevanza penale: deve cioè - sia pure marginalmente - ledere o porre in pericolo il bene
protetto dalla singola norma incriminatrice; nel caso di abolitio criminis, invece, per effetto di una diversa
opzione del Legislatore, il fatto (astratto) non riveste più carattere di illecito penale. Pertanto, la più favorevole
disciplina introdotta dall’art. 131 bis c.p. – che, si ripete, incide non sul disvalore astratto del fatto, ma
semplicemente sulla punibilità in concreto di un fatto che mantiene carattere di illiceità penale –
soggiace al disposto del comma 4 dell’art. 2 c.p., e, quindi, non trova applicazione per i fatti giudicati
con sentenza irrevocabile. Poiché, dunque, l’istanza non è riconducibile nella previsione dell’art. 673
c.p.p., l’istanza deve essere dichiarata inammissibile per difetto delle condizioni di legge.
21
RESPONSABILITA’ ENTI
A) I criteri dell’interesse “o” vantaggio: equivalenza o diversità ed alternatività? Cass. pen., Sez. V, 15
ottobre 2012, n. 40380
L’art. 5 co. 1 del d. lgs. 231/01 prevede che il fatto, in grado di consentire il trasferimento di responsabilità dalla
persona fisica all’ente, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Precisando al co. 2 d. lgs. 231/01 che
la responsabilità cessa ove il fatto sia commesso nell’”esclusivo interesse proprio o di terzi”. In sostanza per un
fine che non avvantaggia in alcun modo l’ente stesso.
Dalla relazione governativa si apprende che la nozione di “interesse” (l’art. 25 ter non contempla il
“vantaggio”) esprime la proiezione soggettiva dell’autore (non coincidente, peraltro, con quella di
“dolo specifico”, profilo psicologico logicamente non imputabile all’ente), e rappresenta una
connotazione accettabile con analisi ex ante.
Si tratta di una tensione che deve esperirsi in un piano di oggettività, concretezza ed attualità, sì da
potersi apprezzare in capo all’ente, pur attenendo alla condotta dell’autore del fatto, persona fisica.
L’accertamento in merito a queste due condizioni risulta essenziale poiché l’art. 5 co. 2 d. lgs cit. -
come dianzi osservato - specifica che può affermarsi l’assenza di responsabilità dell’ente soltanto
quando si accerti l’”interesse esclusivo” di terzi o di persone fisiche.
L’assenza dell’interesse rappresenta, dunque, un limite negativo della fattispecie. Poiché il rapporto che lega il
fatto al suo autore è momento fondante della responsabilità dell’ente, al pari di qualsivoglia profilo dell’”illecito
presupposto”, è indefettibile onere del giudice corredare il proprio convincimento con una qualche precisa
motivazione al riguardo.
B) Interesse o vantaggio dell’ente e natura colposa del reato-presupposto. Cass., S.U., 18 settembre
2014, n. 38343, in caso Thyssenkrupp.
63. Il criterio d'imputazione oggettiva. Il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 detta la regola d'imputazione
oggettiva dei reati all'ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio. La L. 3
agosto 2007, n. 123, art. 9, ha introdotto nella normativa l'art. 25-septies che ha esteso l'ambito applicativo della
disciplina ai reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle
norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. L'art. in questione è stato successivamente riscritto dal
D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 300 senza differenze rilevanti nella presente sede. Secondo l'impostazione
prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al D.Lgs., i due criteri d'imputazione
dell'interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione
disgiuntiva "o" presente nel testo della disposizione. Si ritiene che il criterio dell'interesse esprima una valutazione
teleologia del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di
giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente
oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione
dell'illecito. Non è mancata, tuttavia, qualche voce dissenziente che ha ritenuto che i due criteri abbiano
natura unitaria. Il criterio d'imputazione sarebbe costituito dall'interesse, mentre il vantaggio potrebbe al più
rivestire un ruolo strumentale, probatorio, volto alla dimostrazione dell'esistenza dell'interesse. La tesi dualistica
trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D'Azzo, Rv. 232957; Sez. 5, n.
10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; Sez. 6, n. 24559 del 22/05/2013, House
Building s.p.a., Rv. 255442). Il tema, peraltro, non presenta significativo interesse nel giudizio in esame, sia
perchè la questione non è stata oggetto di specifica deduzione, sia perchè le pronunzie di merito argomentano
ampiamente sia sull'interesse che sul vantaggio pertinenti alla vicenda in esame. Di ben maggiore interesse è
invece il fatto che l'art. 25-septies ha segnato l'ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti
presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d'imputazione oggettiva di cui si è
detto, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti. E' allora insorto il problema della
compatibilità logica tra la non volontà dell'evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che
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è sotteso all'idea di interesse. D'altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente
ipotizzabile un caso in cui l'evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell'ente. Tale
singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento
normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile. E' la tesi sostenuta dal ricorrente.
Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati. Essi condurrebbero alla radicale
caducazione di un'innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal D.Lgs. 7 luglio 2011,
n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l'art. 25undecies che ha esteso la responsabilità dell'ente
a diversi reati ambientali. Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella
interpretativa. I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe
l'interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l'unica alternativa, possibile lettura: i concetti di
interesse e vantaggio, nei reati colposi d'evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all'esito
antigiuridico. Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che
una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in
essere nell'interesse dell'ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio. Il processo in
esame ne costituisce una conferma. D'altra parte, tale soluzione interpretativa, oltre a essere logicamente
obbligata e priva di risvolti intollerabili dal sistema, non ha nulla di realmente creativo, ma si limita ad adattare
l'originario criterio d'imputazione al mutato quadro di riferimento, senza che i criteri d'ascrizione ne siano alterati.
L'adeguamento riguarda solo l'oggetto della valutazione che, coglie non più l'evento bensì solo la condotta, in
conformità alla diversa conformazione dell'illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali
dell'ordinamento penale. Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l'agente violi
consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per
corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra
inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente. Dunque, neppure sotto tale riguardo, le
censure difensive hanno pregio.
C) Natura giuridica dei modelli organizzativi. Corte d’appello Milano, 21 marzo 2012, n. 1824
A fondamento giuridico di tale responsabilità amministrativa v'è la finalità , perseguita dall'agente responsabile
con la commissione del reato e consistente nel favorire anche solo parzialmente la società. Peraltro, il legislatore,
tenuto conto del fatto che le società come soggetti giuridici sono prive di strumenti di autodifesa estranei alla
sfera dei loro organi ai quali possono imputarsi i reati la cui commissione comporta la responsabilità
amministrativa delle medesime società, ha dato loro la possibilità di elaborare un modello di
organizzazione dell'attività dell'impresa idoneo alla prevenzione de reati dalla cui commissione nasce
la loro responsabilità.
In base agli artt.6 e 7 del predetto Decreto Legislativo 8.6.2001, n.231, l'organo dirigente, ossia quello
amministrativo, ha la competenza per l'adozione e l'attuazione del modello di organizzazione in
questione; tuttavia , se i soci, che hanno costituito la società volessero premunirla rispetto ad una
condotta negligente o imprudente dell'amministratore riguardo alla facoltà di elaborare il modello
organizzativo, potrebbero prevederne l'obbligatoria adozione ed elaborazione da parte dell'organo
amministrativo, riservandone all'assemblea la preventiva approvazione prima della sua attuazione.
OMISSIS
Tali regole debbono essere nel loro insieme idonee a prevenire la commissione dei reati rilevante ai fini
della responsabilità amministrativa della società; quindi spetta all'organo dirigente, di propria iniziativa
o in osservanza di una regola statutaria elaborare un insieme di prescrizioni, divieti e coordinamenti
che consentano, nello stesso tempo, il proficuo funzionamento dell'azienda e la prevenzione specifica
dei reati nella cui commissione potrebbe essere coinvolta la società.
In base al comma terzo dell'art. 6 del predetto Decreto Legislativo le società possono adottare i modelli di
organizzazione sulla base dei codici di comportamento redatti dalle loro associazioni rappresentative e
comunicati al Ministero della Giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può approvarli o formulare,
entro trenta giorni, osservazioni sull'idoneità dei modelli alla prevenzione dei reati rilevanti ai fini della
responsabilità amministrativa. Il fatto che sia stato elaborato un modello idoneo di organizzazione esclude
23
che in concreto, in relazione alla commissione di reati rilevanti ad opera di personale dipendente da
soggetti apicali dell'organizzazione , possa configurarsi un difetto di direzione e vigilanza come causa
di agevolazione dei reati. Peraltro, essa non basta ed esimere una società da responsabilità
amministrativa essendo anche necessaria l'istituzione di una funzione di vigilanza sul funzionamento e
sull'osservanza di modelli attribuita ad un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e di
controllo.((art.6 lett. c) Decreto Legislativo n.231/01).
Il compito dell'organismo di vigilanza consiste nell'osservazione del funzionamento del modello, al fine
di verificarne l'idoneità, rilevarne eventuali deficienze che dovranno essere segnalate all'organo
dirigente perché provveda alla loro eliminazione. Detto organismo di vigilanza, .in quésta attività di
osservazione utilizzerà ogni possibile e legittimo potere, avvalendosi dell'ampia autonomia
riconosciutagli dalla legge e di tutte le comunicazioni s relative alle attività aziendali che, a norma del
modello, gli vengono trasmesse.
Va rilevato poi che l'art. 6 comma 1 lett. c) prevede la violazione del modello organizzativo ma dispone
che, se l'elusione è stata fraudolenta, la prevenzione del reato con essa attuata dovrà essere considerata
efficace e la società non dovrà rispondere del reato.
OMISSIS
Occorre ora evidenziare che la valutazione di idoneità del Modello non deve e non può essere
rapportata semplicemente al fatto che, se esso fosse stato osservato, allora il reato non si sarebbe
verificato; indubbiamente il fatto che venga commesso un reato rilevante, come l'aggiotaggio ,
nonostante l'esistenza di una specifica misura di prevenzione può avere un alto valore semantico
rispetto all'efficacia del modello; peraltro, l'art.6 comma 1 lett. c) prevede la violazione del modello
organizzativo, ma dispone che, se l'elusione sia stata fraudolenta, la prevenzione del reato con esso
attuata dovrà essere considerata efficace e la società non dovrà rispondere amministrativamente del
reato.
Quindi in presenza della commissione di un reato rilevante non può automaticamente essere giudicato
inefficace il modello di organizzazione della società, ma occorre verificare la causa della elusione che
ha agevolato la consumazione dei reati. Quanto alla validità de modello adottato e alla sua idoneità non
può dubitarsi al riguardo, in quanto esso risulta elaborato secondo le linee guida della Confindustria a
loro volta elaborate in base ai principi espressi dal codice di autodisciplina di Borsa Italiana;
OMISSIS
Né un modello potrebbe ritenersi inefficace per il solo fatto che da parte dei responsabili della persona
giuridica siano stati commessi degli illeciti, eludendo fraudolentemente le procedure previste dal
modello, perché altrimenti l'esimente non avrebbe mai pratica applicazione.
In conclusione il modello organizzativo era corretto valido e in sé efficace, dato il contenuto dello stesso che è
stato sopradescritto e che contiene i requisiti di cui all'art.6 Decreto legislativo 231/01; esso risulta violato ed
eluso dai vertici della società; si tratta di elusione fraudolenta in quanto responsabili della società, come si è visto
anziché approvare i dati e la bozza di comunicato elaborati dagli uffici manipolavano i dati medesimi per poi
inserirli nel comunicato stampa in modo da renderli soddisfacenti al mercato cui erano destinati.
D1) La consistenza del “profitto” confiscabile. Cass. pen., Sez. un., 2 luglio 2008, n. 26654;
3- La questione centrale portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: come
debba configurarsi il “profitto del reato” nel sequestro preventivo funzionale alla confisca disposto, ai
sensi degli art. 19 e 53 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, nei confronti di una società indagata per un illecito
amministrativo dipendente da reato.
6- Quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che non è rinvenibile in alcuna disposizione
legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del tipo di “profitto lordo” o
“profitto netto”, concetti questi sui quali s’incentra la principale doglianza delle società ricorrenti, ma il termine è
utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo quindi un’ampia
“latitudine semantica” da colmare in via interpretativa. Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un
significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso
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come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra
componenti positive e negative del reddito.
6a- La validità di tale approdo interpretativo, maturato nell’ambito della previsione di cui all’art. 240 c.p.
e riferito al profitto tratto da condotte totalmente illecite, va verificata anche in relazione alle previsioni
di cui al d. lgs. n. 231/’01. Il termine “profitto” è menzionato in diverse disposizioni del decreto, che
disciplinano situazioni eterogenee.
OMISSIS
Per quanto qui interessa, deve, invece, farsi riferimento al profitto collegato alle ipotesi di confisca di
cui agli art. 6, 15, 17 e 19, che si preoccupano di assicurare allo Stato quanto conseguito in concreto
dall’ente, sia pure in situazioni diverse, per effetto della commissione dei reati-presupposto.
La ratio sottesa a queste ultime norme, ad eccezione -come si dirà- dell’art. 15, e alcuni passaggi della Relazione
allo schema del decreto legislativo additano all’interprete, per l’individuazione dell’oggetto della confisca e della
cautela reale ad essa funzionale (ove prevista), sempre la pertinenzialità del profitto al reato quale unico
criterio selettivo, essendo il primo definito “come una conseguenza economica immediata ricavata dal
fatto di reato”. Interessante è il passaggio della Relazione che chiarisce il disegno sotteso alle condotte
riparatorie di cui all’art. 17 e il ruolo svolto in tale contesto dalla messa a disposizione del profitto da parte
dell’ente. Si legge testualmente: “come terzo concorrente requisito, si prevede che l’ente metta a disposizione il
profitto conseguito. La ratio della disposizione è trasparente: visto che il profitto costituisce, di regola, il movente
che ispira la consumazione dei reati, l’inapplicabilità della sanzione interdittiva postula inevitabilmente che si
rinunci ad esso e lo si metta a disposizione dell’autorità procedente…In definitiva le contro-azioni di natura
reintegrativa, riparatoria e riorganizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall’illecito e, pertanto, la
rielaborazione del conflitto sociale sotteso all’illecito e al reato avviene non solo attraverso una logica di stampo
repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi dell’offesa”. L’esplicito
riferimento alla natura “compensativa” delle condotte riparatorie accredita, al di là di ogni ambiguità, una
funzione della confisca del profitto come strumento di riequilibrio dello status quo economico antecedente alla
consumazione del reato, il che contrasta con la tesi del profitto quale “utile netto”.
Nella parte della Relazione dedicata alla confisca di valore si legge: “la confisca , già conosciuta nel nostro
ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al
profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile l’apprensione del prezzo o del profitto con le
forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l’ente riesca comunque a godere illegittimamente
dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”. L’esplicito
riferimento alla necessità di evitare l’illegittimo godimento da parte dell’ente dei “proventi del reato” induce a
ritenere che con tale espressione si sia inteso evocare quanto complessivamente percepito dall’ente in seguito alla
consumazione del reato, prescindendo da qualunque raffronto tra profitto lordo e profitto netto.
OMISSIS
Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a
questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale
nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico. La confisca del profitto di cui
all’art. 19 d. lgs. n. 231/01, concepita come misura afflittiva che assolve anche una funzione di
deterrenza, risponde sicuramente ad esigenze di giustizia e, al contempo, di prevenzione generale e
speciale, generalmente condivise. Il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo
di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati
per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del “profitto netto” finirebbe per riversare sullo Stato,
come incisivamente è stato osservato, il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di
riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica.
Soltanto nell’ipotesi di confisca del profitto della gestione commissariale di cui all’art. 15 d. lgs. n. 231/’01,
misura concepita come sanzione sostitutiva, il profitto s’identifica con l’utile netto, conclusione -questa-
legittimata dalla lettura combinata della citata norma e di quella di cui al successivo art. 79/2°. In questo caso la
confisca, come si è sopra precisato, ha una funzione diversa, essendo collegata ad un’attività lecita che viene
proseguita -sotto il controllo del giudice- da un commissario giudiziale nell’interesse della collettività (garantire un
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servizio pubblico o di pubblica necessità ovvero i livelli occupazionali) e non può che avere ad oggetto, proprio
per il venire meno di ogni nesso causale con l’illecito, la grandezza contabile residuale, da assicurare comunque
alla sfera statuale, non potendo l’ente beneficiare degli esiti di un’attività dalla quale, in luogo dell’applicazione
della corrispondente sanzione interdittiva, è stato estromesso.
Né può farsi leva su quest’ultima disposizione, per accreditare la tesi -sostenuta nei ricorsi- che il
profitto del reato tratto dall’ente collettivo debba sempre essere inteso come “utile netto”, e ciò sulla
base del rilievo della sostanziale coincidenza tra l’attività proseguita sotto la gestione commissariale e
quella oggetto di incriminazione. Si omette, invero, di considerare che l’intervento del commissario
giudiziale determina una netta cesura della pregressa attività illecita e non si pone in continuità con
questa. Significativamente, peraltro, il quarto comma dell’art. 15 citato si riferisce al “profitto derivante
dalla prosecuzione dell’attività” e non al “profitto derivante dal reato”.
Le stesse ragioni inducono a ritenere priva di consistenza l’ulteriore argomentazione dei ricorrenti, con
riferimento specifico al caso in esame, circa la prosecuzione del servizio di smaltimento dei rifiuti nella regione
Campania sotto la direzione e il coordinamento esclusivi del Commissario delegato, dopo la risoluzione dei
contratti d’appalto disposta con d.l. n. 245/05 convertito nella legge n. 21/06, per inferirne che proprio la
prosecuzione dell’attività in tutto omogenea a quella oggetto dei contratti di appalto stipulati con l’ATI
confermerebbe che i corrispondenti profitti non possono che essere calcolati, nell’uno e nell’altro caso, sulla base
del principio economico contabile.
6b- La delineata nozione di profitto del reato s’inserisce -certo- validamente, senza alcuna possibilità di letture
più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita. Può anche accadere, però, di dovere
distinguere da quest’ultima, specialmente nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un
rapporto di natura sinallagmatica, l’attività lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e
strumentalmente viene consumato il reato. E’ di agevole intuizione, infatti, la diversità strutturale tra
l’impresa criminale - la cui attività economica si polarizza esclusivamente sul crimine (si pensi ad una
società che opera nel solo traffico di droga) - e quella che opera lecitamente e soltanto in via episodica
deborda nella commissione di un delitto.
Deve, inoltre, considerarsi che un comportamento sanzionato penalmente, dal quale derivi
l’instaurazione di un rapporto contrattuale, può avere riflessi diversi sul medesimo. Più nel dettaglio,
nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla
sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d.
“reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il
relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a
confisca.
Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé,
ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di
esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del
relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo
annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente
ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.
E’ il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un “reato contratto”, considerato
che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il
comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra.
Trattasi, quindi, di un “reato in contratto” e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla
disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di
carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile,
che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi
dall’ente di riferimento.
Sussistono, perciò, ipotesi in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto del reato, così
come illustrato al punto che precede, può subire, per così dire, una deroga o un ridimensionamento, nel senso
che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione.
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Ciò è evidente, in particolare, come si è detto, nell’attività d’impresa impegnata nella dinamica di un rapporto
contrattuale a prestazioni corrispettive, in cui può essere difficile individuare e distinguere gli investimenti leciti
da quelli illeciti.
V’è, quindi, l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico
derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita
eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non
confiscabile).
S’impone, pertanto, la scelta di sottrarre alla confisca quest’ultimo corrispettivo che, essendo estraneo all’attività
criminosa a monte, è distonico rispetto ad essa.
In sostanza, non può sottacersi che la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi
sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva
del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa
nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento.
Più concretamente, in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur acquisito a seguito di
aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l’appaltatore che, nel dare esecuzione agli
obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo,
che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe
qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente
eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non
può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica
dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure.
D’altra parte, non va sottaciuto che, in base alla previsione di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01, la confisca del
profitto del reato non va disposta per quella “parte che può essere restituita al danneggiato”. Costui quindi ha
diritto di riottenere, fatte salve le ulteriori pretese risarcitorie, ciò di cui è stato privato per effetto dell’illecito
penale subito. Nella peculiarità che caratterizza il rapporto sinallagmatico, si verifica una situazione speculare alla
citata previsione normativa, nel senso che la parte di utilità eventualmente conseguita ed accettata dalla vittima va
inevitabilmente ad incidere, per l’equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo
corrispettivo versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell’ambito di
un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatio, con la conseguenza
che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale) la controprestazione
ricevuta, perché non costituente profitto illecito.
Diversamente opinando, vi sarebbe un’irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto al soggetto
coinvolto nell’illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione legittimamente eseguita e comunque
accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la
controparte fosse l’Amministrazione statale, un ingiustificato arricchimento di questa.
7- Alla luce di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve essere enunciato, ai sensi dell’art. 173/3° disp. att.
c.p.p., il seguente principio di diritto: “il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca,
disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/’01- nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal
vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al
netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con
l’ente”.
D2) Cass. pen., Sez. II, 29 marzo 2012, n. 11808
(omissis)
Com'è noto, le Sezioni unite di questa Corte hanno affrontato espressamente il problema di come debba
configurarsi il "profitto del reato" nel sequestro preventivo funzionale alla confisca c.d. per equivalente,
seppure con riferimento alla previsione contenuta dal D.Lgs. n. 231 del 2001, per il caso di
responsabilità degli enti collettivi (Sez. U., 27/03/2008 n. 26654 Rv. 239924). E' stato osservato al riguardo
che secondo l'impostazione del diritto penale classico (art. 240 c.p.) la confisca andava ascritta tra le misure di
sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a
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commettere il reato; la misura era quindi finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati. Successivamente
sono state però introdotte nell'ordinamento, in maniera sempre più marcata, ipotesi di confisca obbligatoria del
profitto ricavato dal reato (si pensi ad esempio, per restare alla sola disciplina codicistica, alla confisca di cui agli
artt. 322 ter, 600 septies, 640 quater, 644 e 648 quater c.p.); in tal modo sotto un nomen iuris unitario hanno
finito per trovare spazio istituti di diversa natura. Tale diversa natura emerge a chiare note nella
confisca c.d. per equivalente, cui è certamente estranea la finalità special- preventiva e che persegue
l'unico obiettivo di privare l'autore del reato del profitto che gliene è derivato. Con particolare riguardo a
quest'ultima ipotesi, si pone il problema ermeneutico della determinazione dell'oggetto dell'ablazione. Pur in
assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è indubbio che queste
assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui sono inserite. Si ritiene, in
particolare, che nel contesto di un'attività totalmente illecita, la nozione di profitto del reato finisce col
comprendere "qualsiasi cosa" riveniente dal fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il
criterio selettivo della "pertinenzialità" del profitto al reato medesimo, ossia della circostanza che l'uno
costituisca una conseguenza economica immediata dell'altro. In tal caso, non può farsi spazio all'uso di
parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare, non è possibile distinguere fra il profitto e l'utile
"netto", cioè l'effettivo guadagno percepito dal reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente
marchiata di illiceità e deve essere confiscata. Altra valutazione deve essere compiuta, invece, nel caso in
cui il fatto-reato si inserisce nel contesto di una attività che in sè sarebbe lecita, tanto più se
caratterizzata da un rapporto di scambio di natura sinallagmatica. Assume rilievo, quindi, la distinzione fra
il "reato contratto", cioè il caso in cui vi è una vera a propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico,
ed il "reato in contratto", che si ha allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la
stipulazione del contratto in sè, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o
su quella di esecuzione del programma negoziale. In questa seconda ipotesi, il contratto "a valle" è lecito ed
eventualmente annullabile ex art. 1439 c.c.. E' di tutta evidenza che nel caso di "reato in contratto" il
profitto tratto dall'agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata, giacchè
la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tout court, ma esclusivamente il
comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell'altra.
Ed allora, il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in
esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante dal fatto illecito. Per
cui, se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione
dell'aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l'appaltatore ha regolarmente adempiuto alle
prestazioni nascenti dal contratto (in sè lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale
all'intero prezzo dell'appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso
aggiudicatario della gara pubblica. Tale vantaggio corrisponde, quindi, all'utile netto dell'attività
d'impresa. 9. Allo stesso modo si è pronunziata, più di recente, altra sezione di questa Corte, osservando che ai
fini del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui all'art. 322 ter c.p., in presenza di un
contratto di appalto ottenuto con la corruzione di pubblici funzionari, la nozione di profitto confiscabile al
corruttore non va identificata con l'intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., dovendosi in
proposito distinguere il profitto direttamente derivato dall'illecito penale dal corrispettivo conseguito per
l'effettiva e corretta erogazione delle prestazioni svolte in favore della stessa amministrazione, le quali non
possono considerarsi automaticamente illecite in ragione dell'illiceità della causa remota (Sez. 6, 26/03/2009 n.
17897 Rv. 243319; Sez. 6, 17/03/2009 n. 26176 Rv. 244522).
E) Reati tributari e confisca per equivalente in danno della società. Cass. pen., Sez. un., 30 gennaio
2014, n. 10561
(omissis)
2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, ma nell'esaminarlo per dar conto di tale manifesta
infondatezza è necessario chiarire la questione rimessa all'esame delle Sezioni Unite che può così riassumersi:
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“Se sia possibile o meno disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per
equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal
legale rappresentante o da altro organo della stessa”.
OMISSIS
2.8. Si deve invece ritenere che non sia possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica
per reati tributari commessi da suoi organi, salva l'ipotesi in cui la persona giuridica stessa sia in
concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l'amministratore agisca
come effettivo titolare, come affermato in numerose pronunzie (omissis). In una simile ipotesi, infatti, la
trasmigrazione del profitto del reato in capo all'ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di
valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia; con la conseguenza
che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del
soggetto che ha commesso il reato, in 'apparente' vantaggio dell'ente ma, nella sostanza, a favore proprio.
Le Sezioni Unite non ritengono fondato il diverso orientamento espresso in talune pronunzie.
La tesi della possibilità di procedere alla confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per reati tributari
attribuiti al legale rappresentante è stata sostenuta sull'assunto che tale possibilità “deriva proprio dal rapporto
organico esistente tra il soggetto indagato [...] e detta società” (così Sez. 3, n. 26389 del 09/06/2011, Occhipinti,
Rv. 250679), ovvero sull'assunto che “nei rapporti tra... la persona fisica, alla quale è addebitato il reato, e la
persona giuridica, chiamata a risponderne, non può che valere lo stesso principio applicabile a più concorrenti nel
reato stesso, secondo il quale a ciascun concorrente devono imputarsi le conseguenze di esso” (così Sez. 3, n.
17485 del 11/04/2012, Maione, n.m.).
Inoltre è stato affermato che è possibile la confisca per equivalente dei beni della società, allorché l'autore del
reato ne abbia la disponibilità (Sez. 3, n. 28731 del 07/06/2011, Società cooperativa Burlando, n.m.).
Il primo argomento trascura che il rapporto fra ente ed un suo organo, di per sé, non è suscettibile di fondare
l'estensione della confisca per equivalente, che si basa su specifiche disposizioni di legge, tanto più che è persino
possibile che la persona giuridica, attraverso altri organi, promuova azione di responsabilità verso il suo
amministratore che l'ha esposta a responsabilità (civile) conseguente a reato.
Il secondo argomento da per presupposto quello che dovrebbe essere dimostrato e cioè che la società sia
concorrente nel reato.
Nel vigente ordinamento, è prevista solo una responsabilità amministrativa e non una responsabilità
penale degli enti (ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231), sicché comunque la società non è mai autore
del reato e concorrente nello stesso.
In ogni caso il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti
conseguente a reato, non contempla i reati tributari fra quelli per cui è prevista tale responsabilità
amministrativa della persona giuridica.
La confisca per equivalente sui beni della società non può fondarsi neppure sull'assunto che l'autore
del reato ne abbia la disponibilità in quanto amministratore (salva sempre l'ipotesi in cui la società sia un
mero schermo fittizio), essendo tale disponibilità nell'interesse dell'ente e non dell'amministratore.
Sul punto è sufficiente rilevare che l'eventuale appropriazione indebita di beni della persona giuridica da parte di
un amministratore può integrare il reato di cui all'art. 646 cod. pen. aggravato ai sensi dell'art. 61, n. 11, cod. pen.
e quindi perseguibile d'ufficio, stante la distinzione fra il patrimonio della persona giuridica e quello dei suoi
amministratori.
Una volta esclusa la fondatezza di tali argomenti, è necessario verificare se vi sia una base normativa per la
confisca per equivalente in capo alla persona giuridica per i reati tributari commessi dai suoi organi.
Anzitutto, come già notato, tale confisca (ed il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai sensi dell’art.
19 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale
rappresentante della società, atteso che gli artt. 24 e ss. del citato d.lgs. non prevedono i reati fiscali tra le
fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento, con esclusione dell'ipotesi in cui la struttura
aziendale costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti. (Sez. 3, n. 1256 del
19/09/2012, dep. 2013, Unicredit, Rv. 254796).
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L'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244, non contiene una previsione autonoma di confisca per
equivalente, ma si limita a richiamare l'art. 322-ter cod. pen..
La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può fondarsi neppure sull'art. 322-ter cod.
pen., dal momento che la citata disposizione si applica all'autore del reato e, come si è detto, la persona giuridica
non può essere considerata tale.
L'art. 11 della legge 16 marzo 2006, n.146, che prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, per i reati
di cui all'art. 3 della stessa legge, cioè i reati transnazionali, non riguarda l'ipotesi della quale ci si occupa nel
presente procedimento.
Si deve altresì escludere che sia possibile una interpretazione analogica delle citate disposizioni.
L'analogia sarebbe in malam partem e come tale non consentita in sede penale.
Infatti le Sezioni Unite hanno già chiarito che la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari
dall'art. 1, comma 143, legge 27 dicembre 2007, n. 244, ha natura eminentemente sanzionatoria (Sez. U,
n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037).
2.9. Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di
irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell'ordinanza di rimessione, anche perché il mancato
inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di
tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto l'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007.
Infatti è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto
di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di
recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia
disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha
mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare
non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n.
231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale
riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo.
Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità
costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il secondo comma dell'art.
25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o
peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del
legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189).
Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore,
volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi
del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
2.10. Devono pertanto essere affermati i seguenti principi di diritto:
“È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di
denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario
commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente
riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una
persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della
persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli
organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro
finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto
di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona
(compresa quella giuridica) non estranea al reato”.
“La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia
necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.
(omissis)
30
F) Natura giuridica della responsabilità degli enti. Cass. pen., 9 maggio 2013, n. 20060
Conclusivamente, ritiene questa corte che la violazione di legge sussista e sia configurabile nell'avere il tribunale
ritenuto automaticamente esclusa la responsabilità amministrativa dell'ente in conseguenza dell'assoluzione del
suo funzionario. Il giudice di rinvio potrà procedere ad una nuova assoluzione, corredata però di adeguata
giustificazione ed eliminando le contraddizioni che affliggono il provvedimento impugnato, ovvero -
considerato che l'illecito amministrativo dell'ente ha carattere autonomo e può quindi sussistere anche
in mancanza di una concreta condanna del sottoposto o della figura apicale societaria (come accade
appunto nel caso di mancata individuazione del responsabile) - procedere in concreto all'esame degli elementi
costitutivi dell'illecito contestato alla Citibank e poi concludere di conseguenza, restando libero nelle proprie
valutazioni di merito.
G1) Natura giuridica della responsabilità e costituzione di parte civile contro l’ente. Cass. pen., Sez. VI,
22 gennaio 2011, n. 2251
(omissis) 11.2.1. - Il problema dell'ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a
carico degli enti ha dato luogo a interpretazioni contrastanti sia nella dottrina, che nella giurisprudenza di
merito. In alcuni casi l'esclusione della parte civile è stata giustificata con riferimento alla natura formalmente
amministrativa della responsabilità prevista nel d.lgs. n. 231/2001, mentre quanti propendono per la natura
sostanzialmente penale di questo tipo di responsabilità da reato sono favorevoli a riconoscere tale possibilità in
capo alla parte civile. In altri termini, il dibattito sulla questione in oggetto ha finito per investire il tema
della natura della responsabilità degli enti, tema quanto mai incerto, su cui la giurisprudenza, almeno
quella di legittimità, non si è ancora pronunciata in termini definitivi, mentre la dottrina si è divisa,
proponendo una molteplicità di interpretazioni, che vanno dal riconoscimento della natura di vera e
propria responsabilità penale, alla negazione di essa, per affermare che si tratti di una responsabilità
amministrativa, fino a ritenere che ci si trovi dinanzi ad una sorta di tertium genus di responsabilità,
diversa dalle tradizionali categorie della responsabilità penale e amministrativa, ma comunque
riconducibile ad un modello latu sensu criminale, in cui vengono coniugati elementi del sistema penale
e amministrativo, nel tentativo di 'contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor
più ineludibili, della massima garanzia'. Sebbene questa Corte si sia pronunciata, per incidens, sulla
natura della responsabilità, ritenendo che si tratti di un tertium genus (Sez. VI, 18 febbraio 2010, n.
27735, Brill Rover s.r.l. ed altro), tuttavia deve ritenersi, condividendo quanto sostenuto da autorevole
dottrina, che lo specifico problema relativo alla ammissibilità della costituzione di parte civile nel
procedimento a carico degli enti non dipenda, in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura della
responsabilità prevista nel d.lgs. 231/2001. La soluzione, infatti, può essere svincolata dal tema relativo
alla definizione della tipologia della responsabilità da reato, che rischia di diventare una questione
meramente nominalistica, per essere affrontata attraverso l'esame positivo dei contenuti della speciale
normativa che disciplina il processo nei confronti degli enti, vagliandone la compatibilità con l'istituto
codicistico della costituzione di parte civile. In questo approccio ermeneutico il punto di partenza non
può che essere la constatazione che nel d.lgs. 231/2001 manca ogni riferimento espresso alla parte
civile. La sistematica rimozione, nel d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla
persona offesa) porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta
consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla
regolamentazione codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del decreto
dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell'ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle
indagini preliminari, all'udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni
sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono
importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa. Peraltro, accanto alla materiale 'assenza' di
riferimenti riguardanti la parte civile, il d.lgs. 231/2001 contiene alcuni dati specifici ed espressi che
confermano la volontà di escludere questo soggetto dal processo. Da un lato, vi è l'art. 27 che nel
31
disciplinare la responsabilità patrimoniale dell'ente la limita all'obbligazione per il pagamento della sanzione
pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili; dall'altro lato, appare particolarmente significativa
la regolamentazione del sequestro conservativo, di cui all'art. 54. L'omologo istituto codicistico di cui all'art. 316
c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della 'pena pecuniaria, delle spese del
procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario', sia delle 'obbligazioni civili derivanti dal reato', in
quest'ultimo caso attribuendo alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro; invece, il citato art. 54 d.lgs.
231/2001 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre
che delle spese del procedimento e delle somme dovute all'erario), sequestro che può essere richiesto unicamente
dal pubblico ministero. Anche qui il legislatore ha compiuto una scelta consapevole, escludendo la funzione di
garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della
parte civile. 11.2.2. - Già queste osservazioni, che fanno leva sull'interpretazione letterale delle norme che
disciplinano il processo a carico degli enti, evidenziano la scelta, compiuta dal legislatore del 2001, favorevole ad
escludere la parte civile e dimostrano come il tentativo di proporre un'interpretazione che porti ad applicare, in
via estensiva o analogica, le disposizioni codicistiche sulla costituzione della parte civile si presenti di difficile
attuazione, soprattutto perché manca una vera e propria 'lacuna normativa' da colmare. L'ampliamento della
competenza del giudice penale ad occuparsi anche dell'azione civile avrebbe dovuto avvenire attraverso una
esplicita previsione di legge (omissis) Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito e della dottrina ritiene che sia
possibile applicare direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di cui all'art. 34
d.lgs. 231/2001, sul presupposto della piena compatibilità dell'istituto della costituzione di parte civile nel
processo a carico degli enti. Invero, il tentativo di applicare direttamente nel d.lgs. 231/2001 le due
disposizioni menzionate non tiene conto del particolare meccanismo attraverso cui l'ente viene
chiamato a rispondere per i reati posti in essere nel suo interesse o vantaggio. (omissis) In altri termini,
all'accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di
inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell'interesse ovvero del vantaggio derivato
all'ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, in presenza
cioè di criteri di collegamento teleologico dell'azione del primo all'interesse o al vantaggio dell'altro, che risponde
autonomamente dell'illecito 'amministrativo'. Ne deriva che tale illecito non si identifica con il reato
commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone. Di conseguenza, se l'illecito
amministrativo ascrivibile all'ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che
addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un'applicazione degli artt. 185 c.p. e 74
c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al 'reato' in senso tecnico. L'ostacolo
maggiore all'applicazione diretta dell'art. 185 c.p. nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/2001 - non importa se
attraverso una interpretazione estensiva o analogica - è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi della
norma citata, che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dal reato, nozione quest'ultima che non può
coprire anche l'illecito dell'ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo, anche l'art. 74
c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell'art. 34 d.lgs. 231/2001, in
quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti dall'art. 185 c.p.,
espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato. In sostanza, l'impossibilità di procedere
all'applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per la
costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell'illecito
amministrativo. 11.2.3. - Queste stesse obiezioni valgono anche nei confronti della tesi sostenuta nella articolata
e approfondita memoria presentata nell'interesse di (U) s.p.a. ed (V) s.p.a. che, riprendendo argomentazioni
proposte da un'autorevole dottrina, ritiene ammissibile la costituzione di parte civile nel processo a carico degli
enti, assumendo che la nuova ipotesi di illecito delineata dal d.lgs. 231/2001 è, comunque, fonte di responsabilità
civile ai sensi dell'art. 2043 c.c., sicuramente azionabile in sede civile e poiché costituisce principio generale che
anche in sede penale vi sia la possibilità di azionare tali pretese in base agli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., una volta che
la competenza del giudice penale è stata estesa all'illecito dell'ente non vi sarebbero ragioni per introdurre una
diversa disciplina in materia, soprattutto considerando che l'ente risponde per fatto proprio e in misura del tutto
autonoma rispetto alla condotta della persona fisica. Il ricorso all'art. 185 c.p. viene giustificato sia per la
sostanziale natura civilistica della norma, che ne consente l'applicazione anche analogica, sia per l'inscindibile
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collegamento della responsabilità dell'ente con l'illecito penale, situazione questa che legittima l'ingresso nel
processo a carico dell'ente delle disposizioni in materia di costituzione della parte civile. Invero, tanto
l'inquadramento dell'illecito dell'ente come fatto produttivo di danni risarcibili ex art. 2043 c.c., quanto
il riconoscimento che quella dell'ente sia una responsabilità per fatto proprio, non paiono argomenti
idonei a dimostrare che in questo processo debba trovare spazio la disciplina sulla costituzione di parte
civile, in mancanza di dati normativi positivi che autorizzino una tale conclusione. Sotto un primo
profilo, si osserva come la gestione dell'azione civile nel processo penale, lungi dall'essere un principio generale
dell'ordinamento, si presenti in realtà sotto specie di una deroga al principio della completa autonomia e
separazione del giudizio civile da quello penale, affermato nel codice del 1988 (in particolare dall'art. 75 c.p.p.,
espressione del c.d. favor separationis), tanto che le disposizioni processuali che consentono la decisione nel
giudizio penale dell'azione civile sono da considerare di natura quasi eccezionale. Sicché deve convenirsi con chi,
in assenza di ogni esplicito riferimento ad azioni diverse da quella penale e in mancanza di una qualunque base
normativa al riguardo, esclude che nel processo ex d.lgs. 231/2001 possa avere ingresso un'azione civile nei
confronti dell'ente: per ritenere che il giudice competente a conoscere l'illecito dell'ente sia anche competente a
conoscere i danni derivanti da esso sarebbe stata necessaria una previsione espressa. Inoltre, la scelta del
legislatore di non prevedere la costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti può trovare una
ulteriore e ragionevole spiegazione sotto il profilo sostanziale, nel senso che non pare individuabile un danno
derivante dall'illecito amministrativo, diverso da quello prodotto dal reato. Non convince la tesi, sostenuta nella
memoria depositata dal difensore dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a., secondo cui 'il danno prodotto dall'illecito
amministrativo è pur sempre cagionato dal medesimo fatto che è reato per la persona fisica e illecito per l'ente',
sicché si tratterebbe di un 'fatto di entrambi' i soggetti con la conseguenza che anche l'ente 'risponde dei danni
causati dal suo contributo concorsuale al reato'. In questo modo si finisce per sostenere che l'esercizio
dell'azione civile nel processo disciplinato dal d.lgs. 231/2001 riguardi il danno derivante dal reato,
attribuendolo indifferentemente alla persona fisica e all'ente e negando, contraddittoriamente, che
quella dell'ente sia una responsabilità per fatto proprio, che trova la sua ragione nella commissione di
un illecito complesso, in cui il reato è solo uno degli elementi. Invece, va ribadita l'autonomia
dell'illecito addebitato all'ente, dovendo distinguersi la sua responsabilità da quella della persona fisica
e riconoscendo che l'eventuale danno cagionato dal reato non coincide con quello derivante dall'illecito
amministrativo di cui risponde l'ente. (omissis) Se non è ipotizzabile l'esistenza di un danno che possa
presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell'illecito amministrativo allora 'l'ostinato silenzio' del
legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitone assume
un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l'esclusione della parte civile dalla cerchia dei
protagonisti del processo a carico dell'ente. In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che un danno
possa derivare direttamente dall'illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già
illustrate, ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex d.lgs. 231/2001.
11.2.4. - Un altro argomento utilizzato nella memoria difensiva dell'(U) s.p.a. e dell'(V) s.p.a. a sostegno
dell'ammissibilità della costituzione della parte civile nel processo degli enti fa leva sulle disposizioni del d.lgs.
231/2001, che pongono le premesse per il soddisfacimento delle pretese risarcitone e restitutorie della persona
offesa, sottolineando come la ratio del decreto sia quella di tutelare l'interesse dei danneggiati dal fatto illecito, al
pari dell'interesse alla punizione dell'ente. Il riferimento è, in particolare, agli artt. 12 e 17, che consentono all'ente
di ottenere l'esclusione ovvero la riduzione delle sanzioni pecuniarie e interdittive in caso di avvenuto
risarcimento dei danni patiti dalla vittima, nonché all'art. 19, che prevede la riduzione della confisca per la parte di
profitto che può essere restituita al danneggiato. A questo proposto si osserva, preliminarmente, che dalla
formulazione inequivocabile delle disposizioni menzionate si ricava che il danno cui si riferiscono è quello
derivante dal reato e non quello determinato dall'illecito amministrativo commesso dall'ente, sicché le
argomentazioni possono essere rovesciate e sostenere che il legislatore, ancora una volta, ha escluso la
configurabilità di conseguenze dannose derivante dall'illecito amministrativo, limitandosi a prevedere 'sconti' di
sanzioni collegate esclusivamente a forme di 'reintegrazione' di danni da reato. In ogni caso, è stato notato come
il fatto che in materia di responsabilità degli enti si sia costruito un sistema di riduzione sanzionatoria collegato a
condotte di c.d. 'ravvedimento operoso' è circostanza del tutto neutra rispetto al problema dell'ammissibilità della
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costituzione di parte civile, come è dimostrato dalla disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni,
in cui è prevista la possibilità di adottare prescrizioni volte a riparare le conseguenze del reato (art. 28) e nello
stesso tempo è esclusa l'ammissibilità dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale (art. 10). 11.2.5. - In
conclusione deve ritenersi che nel processo a carico dell'ente, così come disciplinato nel d.lgs.
231/2001, non sia ammissibile la costituzione della parte civile. Questa deroga rispetto a quanto previsto
nel modello di processo penale ordinario non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., così come ritiene il
difensore delle società (U) s.p.a. e (V) s.p.a. nella richiesta subordinata della sua memoria. La 'disparità' di
trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da adeguata giustificazione in
considerazione dell'illecito oggetto dell'accertamento nel processo a carico dell'ente che, prescindendo dalla
definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di
una fattispecie complessa, in cui, come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali
dell'illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la
costituzione della parte civile. Anche il dedotto contrasto con l'art. 24 Cost. appare manifestamente infondato.
Innanzitutto deve escludersi che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus processus;
inoltre, nel processo ex d.lgs. 231/2001 la posizione del danneggiato è comunque garantita, in quanto oltre a
poter tutelare immediatamente i propri interessi davanti al giudice civile, può citare l'ente come responsabile
civile ai sensi dell'art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale dell'autore del reato,
commesso nell'interesse nella persona giuridica, e lo può fare - normalmente - nello stesso processo in cui si
accerti la responsabilità dell'ente. (omissis) Nel caso in esame, invece, la situazione è profondamente diversa, in
quanto la deroga in ordine alla posizione della parte civile nel processo a carico degli enti trova ampia
giustificazione con riferimento alla diversa regiudicanda oggetto di accertamento, cioè l'illecito amministrativo,
rispetto all'oggetto del procedimento ordinario; inoltre, nella specie trova piena applicazione l'art. 75 c.p.p., che
consente l'esercizio immediato dell'azione civile nella sede propria, senza alcuna sospensione sino all'esito del
giudizio penale.
G2) Corte di giustizia 12 luglio 2012 C-79/11
Con la questione proposta il giudice del rinvio chiede se le disposizioni del decreto legislativo n. 231/2001
relative alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, laddove non prevedono la
possibilità che esse siano chiamate a rispondere, nell’ambito del processo penale, dei danni da esse
cagionati alle vittime di un reato, siano compatibili con la direttiva 2004/80 e con l’articolo 9 della
decisione quadro.
36 (omissis)
37 Innanzitutto occorre porre in evidenza l’irrilevanza della direttiva 2004/80. Difatti, come risulta
segnatamente dal suo articolo 1, essa è diretta a rendere più agevole per le vittime della criminalità intenzionale
violenta l’accesso al risarcimento nelle situazioni transfrontaliere, mentre è pacifico che, nel procedimento
principale, le imputazioni riguardano reati commessi colposamente, e, per di più, in un contesto puramente
nazionale.
38 Per quanto riguarda la decisione quadro, l’articolo 9, paragrafo 1, della stessa dispone che ciascuno Stato
membro garantisce alla vittima di un reato il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una
decisione relativa al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale, eccetto i casi
in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento.
39 Conformemente all’articolo 1, lettera a), della decisione quadro, ai fini della stessa si considera come
«vittima» la persona fisica che ha subito un pregiudizio «causat[o]
direttamente da atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro».
40 Non è in discussione che il diritto italiano consente alle vittime di cui al procedimento principale di far
valere le loro pretese risarcitorie nei confronti delle persone fisiche, autrici dei reati cui rinvia il decreto legislativo
34
n. 231/2001, rispetto ai danni cagionati direttamente con siffatti reati costituendosi, a tal fine, parti civili
nell’ambito del processo penale.
41 Una situazione del genere si concilia con lo scopo perseguito dall’articolo 9, paragrafo 1, della decisione
quadro, consistente nel garantire alla vittima il diritto di ottenere una decisione relativa al risarcimento, da parte
dell’autore del reato, nell’ambito del procedimento penale ed entro un ragionevole lasso di tempo.
42 Il giudice del rinvio si domanda se detto articolo non debba essere interpretato nel senso che la
vittima deve inoltre avere la possibilità di chiedere, nell’ambito del medesimo procedimento penale, il
risarcimento dei danni in parola alle persone giuridiche imputate in base all’articolo 25 septies del
decreto legislativo n. 231/2001.
43 Tale interpretazione non può essere accolta.
44 Innanzitutto, se, come dichiarato al quarto considerando della decisione quadro, occorre offrire alle vittime
della criminalità un livello elevato di protezione (v., in particolare, sentenza del 9 ottobre 2008, Katz, C-404/07,
Racc. pag. I-7607, punti 42 e 46), la decisione quadro è unicamente volta all’elaborazione, nell’ambito del
procedimento penale quale definito all’articolo 1, lettera c), di norme minime sulla tutela delle vittime
della criminalità (sentenza del 15 settembre 2011, Gueye e Salmerón Sánchez, C-483/09 e C-1/10, Racc. pag. I-
8263, punto 52).
45 Si consideri poi che la decisione quadro, il cui unico oggetto è la posizione delle vittime
nell’ambito dei procedimenti penali, non contiene alcuna indicazione in base alla quale il legislatore
dell’Unione avrebbe inteso obbligare gli Stati membri a prevedere la responsabilità penale delle persone
giuridiche.
46 Infine, dalla formulazione letterale stessa dell’articolo 1, lettera a), della decisione quadro risulta che
quest’ultima, in linea di principio, garantisce alla vittima il diritto al risarcimento nell’ambito del procedimento
penale per «atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro» e che sono
«direttamente» all’origine dei pregiudizi (v. sentenza del 28 giugno 2007, Dell’Orto, C-467/05, Racc. pag. I-5557,
punti 53 e 57).
47 Orbene, dall’ordinanza di rinvio emerge che un illecito «amministrativo» da reato come quello
all’origine delle imputazioni sulla base del decreto legislativo n. 231/2001 è un reato distinto che non
presenta un nesso causale diretto con i pregiudizi cagionati dal reato commesso da una persona fisica e
di cui si chiede il risarcimento. Secondo il giudice del rinvio, in un regime come quello istituito da tale
decreto legislativo, la responsabilità della persona giuridica è qualificata come «amministrativa»,
«indiretta» e «sussidiaria», e si distingue dalla responsabilità penale della persona fisica, autrice del
reato che ha causato direttamente i danni e a cui, come osservato al punto 40 della presente sentenza,
può essere chiesto il risarcimento nell’ambito del processo penale.
48 Pertanto, le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso da una
persona giuridica, come quella imputata in base al regime instaurato dal decreto legislativo n. 231/2001, non
possono essere considerate, ai fini dell’applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro, come le
vittime di un reato che hanno il diritto di ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento
da parte di tale persona giuridica.
49 Dalle suesposte considerazioni risulta che occorre rispondere alla questione posta dichiarando che
l’articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro deve essere interpretato nel senso che non osta a che, nel
contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento
principale, la vittima di un reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati da tale reato,
nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato.