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1 Cooperazione di credito e sviluppo civile: come esaltare il potenziale identitario delle BCC Stefano Zamagni Università di Bologna Gennaio 2011 Info: AICCON - Tel. 0543.62327 - [email protected] - www.aiccon.it Facoltà di Economia di Forlì Laurea Magistrale in Economia e Management delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non profit Working Papers 81

Working Papers 81 - aiccon.it · scongiurare i rischi sia immunitario sia integralistico, ... i tratti caratteristici dell’impresa, ... gestione di quei beni che oggi sono denominati

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Cooperazione di credito e sviluppo civile: come esaltare il potenziale identitario delle BCC Stefano Zamagni Università di Bologna Gennaio 2011

Info: AICCON - Tel. 0543.62327 - [email protected] - www.aiccon.it

Facoltà di Economia di Forlì

Laurea Magistrale in Economia e Management

delle Imprese Cooperative e delle Organizzazioni Non profit

Working Papers

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Cooperazione di credito e sviluppo civile:

come esaltare il potenziale identitario delle BCC

Stefano Zamagni

1. Introduzione

Il termine identità è doppiamente ambiguo. La prima ambiguità è quella che fa riferimento alla

distinzione tra identità come corrispondenza di un ente ad un’unica realtà – come nelle espressioni

“x e y condividono la stessa identità religiosa”, oppure “x e y indossano un vestito identico” – ed

identità come insieme di caratteristiche che rendono un soggetto qualcosa di unico ed irrepetibile –

come in espressioni del tipo: “questa è la mia carta d’identità”, oppure “quella certa persona ha

perso la propria identità a causa della malattia mentale”. La seconda ambiguità, invece, concerne la

distinzione tra identità come condizione data, decisa da altri, o quale speciale destino storico; e

identità come frutto di libera scelta personale: secondo la prima caratterizzazione, l’identità è

qualcosa che si scopre o si eredita; per la seconda, è qualcosa che si costruisce.

In questo scritto, il termine identità verrà inteso nella seconda accezione in entrambi i casi e

dunque come insieme di caratteristiche che connotano di sé un soggetto e come attributo

disposizionale che discende da un preciso processo di scelta. Così definita, la costruzione

dell’identità comporta sempre che un confine venga tracciato. Ed ogni confine, per il fatto stesso di

separare interno ed esterno, chi è dentro e chi è fuori, apre sempre al rischio della difesa ad oltranza

e ad ogni costo della propria identità. Ciò che la rende precaria e pericolosa. Precaria, perché

un’identità che non riesce a “vedere” l’altro, il diverso da sé, non è sostenibile, dato che la deriva

immunitaria, illudendo chi la coltiva di proteggere “la vita”, finisce in realtà col negarla. Pericolosa,

perché un’identità che non si pone continuamente in discussione, che non accetta il confronto

dialogico con chi è portatore di altre visioni, degenera, presto o tardi, nell’integralismo o nel

settarismo.

E’ così che non pochi studiosi di questioni economiche e non pochi policy-makers, allo scopo di

scongiurare i rischi sia immunitario sia integralistico, vanno proponendo di sbarazzarsi del concetto

stesso di identità (“la banca – si dice – non deve avere identità; ha solamente funzioni da svolgere e

obiettivi da raggiungere”). Il che è come gettare con l’acqua sporca il bambino, dal momento che

l’esodo dall’identità distrugge l’impresa, come ogni vero imprenditore, di qualunque specie e

tempo, può confermare. Può essere d’interesse ricordare che il primo autore ad impiegare le parole

imprenditore e imprenditorialità fu l’economista irlandese Richard Cantillon. Nel suo saggio del

1730 (Saggio sulla natura del commercio in generale, Torino, Einaudi, 1955), Cantillon traccia, nel

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cap. XIII, i tratti caratteristici dell’impresa, soffermandosi in particolare su quello identitario.

Piuttosto, quello che occorre è adoperarsi per “negoziare” i propri confini, vale a dire imparare a

fornire le ragioni fondative che stanno alla base della scelta di una certa identità.

Se quanto detto sopra vale in generale, per tutti i tipi di impresa, esso è ancora più valido se

riferito a quell’impresa sui generis che è la banca di credito cooperativo (BCC). Non è forse vero

che al fondo di non pochi casi di insuccesso o di mancato successo di una BCC troviamo

l’incapacità di valorizzare opportunamente nel mercato la propria specificità identitaria oppure

l’incapacità di “negoziare” i propri confini? (Si vedano i contributi di Colombo e Cafaro in questo

volume). Si presti attenzione a quanto scriveva, già nel 1889, l’economista Ugo Rabbeno: “Noi

prevederemmo per la cooperazione dell’America del Nord un grande avvenire e ci

riprometteremmo da lei grandi cose, se non temperasse di molto il nostro entusiasmo la grave

tendenza a tralignare e a snaturarsi che, più ancora che altrove, manifestano in questo grande paese

le società di produzione”. E in verità la cooperazione negli USA mai ha avuto grande sviluppo

essendo confluita – come avevano anticipato i teorici dell’isomorfismo d’impresa –nell’unico

grande fiume del modello capitalistico di economia di mercato dove, come insegnava Chester

Barnard dell’Università di California, “cooperation means business and business is business” (“La

cooperazione significa affari e gli affari sono affari”). Quanto a dire che gli affari si possono e si

debbono fare in un unico modo – quello dell’impresa di capitali. (Per fortuna che nell’Europa

Continentale, e in Italia in special misura, le cose sono andate diversamente! Se ciò è accaduto, lo si

deve, in gran parte, alla forza di pensiero della Scuola aziendalistica italiana che sempre ha mal

sopportato l’imperialismo culturale anglosassone).

Nelle pagine che seguono tratterò di tre questioni principali. Dapprima, mi occuperò di portare

ragioni a sostegno della tesi secondo cui lo sviluppo locale necessita, nelle attuali condizioni

storiche, di banche del territorio, come appunto sono le BCC. Passerò poi a discutere quali difficoltà

specifiche una BCC deve superare e quali rischi essa deve saper scongiurare se vuole far marciare

alla medesima velocità i due cavalli di cui parla Platone nel Fedro: “Il solco sarà diritto [e il

raccolto sarà abbondante] se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla medesima velocità”.

Vedremo più avanti quali sono, nel caso delle BCC, i cavalli della eloquente metafora platonica. Da

ultimo, fisserò l’attenzione sulla seguente questione: perché i legislatori, sia in Europa sia in Italia,

non sono riusciti, almeno fino ad ora, a produrre expressive laws in materia bancaria? Il saggio si

chiude con un fugace cenno alla natura propria della crisi finanziaria tuttora in corso: una crisi di

senso, cioè di direzione.

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2. Sviluppo locale e ruolo del credito cooperativo

2.1 Una recente pubblicazione dell’European Banking Report (si tratta di un

Osservatorio permanente promosso dall'ABI per l'analisi strategica e congiunturale del mercato

bancario europeo. Cfr. www.ebrnet.it) ci informa che, rispetto al grado di concentrazione del settore

bancario, il nostro paese è in linea con paesi come la Francia e la Spagna. Infatti, considerando le

prime tre realtà (banche e gruppi bancari) in termini dimensionali, relativamente alla quota di

mercato da esse detenuta sul totale dell’attivo dell’intero settore bancario, in Italia si osserva che i

tre gruppi più grandi detengono il 47% del mercato. Si tratta di un dato in linea, con quello della

Francia, dove si registra una percentuale pari al 47,2%, e della Spagna dove esso è pari al 46%.

Diverso è il caso del Regno Unito che presenta un dato notevolmente inferiore, pari al 30%;

sebbene la percentuale più bassa in Europa sia quella registrata in Germania dove i primi tre gruppi

bancari occupano “soltanto” il 18% del mercato nazionale. Ad un’analisi attenta, ciò che risulta

caratterizzare in modo specifico il settore bancario del nostro paese è il fatto che le realtà leader a

livello locale non sono i grandi gruppi bancari ma le Banche di Credito Cooperativo (BCC), le

Banche Popolari, le Casse di Risparmio. Si tratta di una peculiarità tutta italiana: ci si aspetterebbe

infatti che se i nostri primi tre gruppi bancari detengono il 47% del mercato costoro fossero leader

anche a livello locale, come appunto accade in Francia e in Spagna.

A ben considerare, solo in apparenza si tratta di un’anomalia. Il fatto è che nel nostro paese

la Banca locale o -per meglio dire- la banca del territorio è ancora una realtà importante, e

continuerà ad esserlo per i prossimi decenni. Non basta però limitarsi a registrare il fatto; occorre

darne ragione. Infatti, affermare che nella storia della finanza italiana c’è sempre stato un connubio

molto stretto tra banca e territorio non è una risposta, ma una mera tautologia. Piuttosto dobbiamo

cercare di afferrare le ragioni profonde in forza delle quali la banca locale radicata su uno specifico

territorio, se ben amministrata, non ha ragione di temere – né oggi nè in futuro- la concorrenza delle

grandi banche commerciali (Caselli, qui).

La ragione principale che sostiene l’affermazione di cui sopra rimanda ad una peculiare

caratteristica di quel processo di portata veramente epocale che è la globalizzazione. Come noto,

fino a tempi recenti diffuso era il convincimento, anche tra gli addetti ai lavori, secondo cui il

processo di globalizzazione avrebbe condotto ad una progressiva scomparsa della dimensione del

locale: con l’abbattimento delle frontiere tra territori nazionali – si diceva – tutte le relazioni

economiche sarebbero divenute globali. Eppure questo non è accaduto, a dispetto di quanto avevano

congetturato molti studiosi e fra essi numerosi e celebri economisti. La globalizzazione ha invece

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generato un nuovo fenomeno osservabile a livello sia economico, sia sociale e politico, noto come

“glocalizzazione", (dall’inglese glocal, termine che indica l’unione di globale e locale). Invero, la

globalizzazione ha fatto “risorgere” l’importanza della dimensione locale. Nella stagione precedente

era piuttosto quello nazionale il livello ideal-tipico degli interventi di politica economica. Oggi

invece sono i territori i luoghi privilegiati in cui si sperimenta il nuovo e dai quali provengono i più

significativi impulsi allo sviluppo. La caduta di rilevanza del dibattito sulle cosiddette politiche

industriali nazionali - fino a venti anni fa, uno dei temi più importanti dell’agenda politica di

qualsiasi governo nazionale- testimonia questo spostamento dell’asse dell’attenzione nel dibattito

politico ed economico (Cusa, qui).

Il punto è che la globalizzazione non solo non ha fatto scomparire l’importanza del

territorio ma lo ha rilanciato, e ciò nel senso che la gara competitiva oggi si gioca a livello dei

territori. Mentre in passato la competizione riguardava le singole imprese o i singoli gruppi, che

potevano uscirne vincitori o perdenti, a seconda dei casi, ciò che sta succedendo oggi è che il

destino delle imprese è legato a quello del loro territorio. Se un territorio “fallisce”, falliscono

anche le imprese che in quel territorio operano e viceversa: il successo di un territorio è legato a

doppio filo al successo delle imprese che su di esso insistono. Si tratta di un cambiamento di

prospettiva che ha colto di sorpresa non pochi osservatori, costringendo ad un ripensamento radicale

delle politiche nazionali: in Italia è solo in questi ultimi anni che si è raggiunta piena

consapevolezza su queste dinamiche. Si pensi agli interventi programmati per il Mezzogiorno

d’Italia, che si sono rivelati fallimentari proprio perché espressione della convinzione che lo

sviluppo del Mezzogiorno dovesse essere pensato e governato dal centro senza tener conto delle

matrici culturali che definiscono l’identità di un territorio. Simili logiche se potevano avere un

qualche senso un tempo, certamente non ne hanno alcuno nell’epoca attuale. Non può più essere il

livello nazionale a decidere le grandi strategie di sviluppo, trasferendole poi alla periferia per la loro

implementazione: piuttosto è il locale che deve essere in grado di riacquistare la propria capacità di

innovazione rimasta così tanto a lungo assopita, durante la stagione della società industriale.

Perché ho usato termini come ritorno, ripresa, riacquistare? Perché quanto sta oggi

accadendo richiama alla nostra memoria quel che si verificò diversi secoli fa in occasione di un

altro passaggio di portata epocale, quello dal feudalesimo alla modernità. Si tratta di questo. A

partire dalla fine del XII secolo e fino alla metà del XVI secolo, in Toscana e Umbria andò a

consolidarsi quel modello di ordine sociale per il quale il nostro paese è giustamente rimasto

famoso nel mondo: il modello della “civiltà cittadina”. Quali i suoi tratti caratteristici? In primo

luogo la democrazia che potremmo chiamare, con termine contemporaneo, partecipativa. Una

democrazia che a fasi alterne ha lasciato bensì spazio a governi autocratici, ma che ha comunque

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sancito la desiderabilità dell’autogoverno e l’affermazione della responsabilità collettiva nella

gestione di quei beni che oggi sono denominati commons (beni di uso comune). Poteva trattarsi

anche di piccoli agglomerati, ma a tutti gli effetti erano città in quanto esibivano la struttura tipica

della città: la piazza (intesa come agorà), la cattedrale, il palazzo del governo, il palazzo dei

mercanti e delle corporazioni, il mercato (come luogo in cui avvenivano le contrattazioni e gli

scambi), i palazzi dei ricchi borghesi e le chiese dove avevano sede le confraternite. Era attraverso

questi luoghi, tutt’altro che ideal-tipici, bensì concreti, che si coltivavano quelle “virtù civiche”, che

rendono – ieri come oggi - una società propriamente civile: la fiducia (dal latino fides, che significa

“corda” – qualcosa che ci tiene uniti: mi fido di te se c’è una corda che mi lega a te); la reciprocità

(di cui la mutualità è la forma più espressiva); la fraternità (che ricomprende al proprio interno la

solidarietà, mentre non è vero il contrario).

Ad una delle istituzioni che molto presto vennero create, va fatta risalire l’organizzazione del

lavoro manifatturiero, un’organizzazione che preservava, anzi aumentava la qualità dei prodotti. Il

riferimento è alle corporazioni di arti e mestieri, il cui fondamentale ruolo civilizzante si va ora

riscoprendo. Fu attraverso le corporazioni che venne messa in pratica una sistematica formazione

delle nuove leve attraverso l’apprendistato e l’incentivo al miglioramento con la richiesta del

“capolavoro”; e tutto ciò al fine di poter rendere autonome le nuove leve e di consentire loro di

“metter su bottega”. Ancora, fu per mezzo delle corporazioni che si svilupparono pratiche di

miglioramento della qualità, si procedette all’introduzione degli standard e al controllo delle misure,

provvedimenti questi che resero il mercato più affidabile e trasparente e che contribuirono ad

abbassare in misura ragguardevole i costi di transazione. Nei secoli successivi si esagerò, poi, con il

vincolismo e fu per queste ragioni che già nel Settecento le corporazioni vennero smantellate, ma

ciò avvenne dopo che esse avevano introdotto nell’Europa alcuni di quei principi di fondo che

sosterranno il moderno sistema produttivo. Come ha scritto Rimmel, la corporazione “racchiudeva

in sé l’uomo intero; l’arte dei lanaioli non era soltanto un’associazione di individui che curava gli

interessi della manifattura della lana, ma anche una comunità di vita, dal punto di vista tecnico,

sociale, religioso, politico e da molti altri punti di vista” (1984, p.491). Quanto a dire che valori

economici e valori sociali erano strettamente connessi tra loro. (Cfr. L. Bruni, S. Zamagni,

Economia civile, Bologna, Il Mulino, 2004).

L’economia delle città italiane era costituita di manifattori e di mercanti, oltre che di

navigatori nelle città costiere. Ai mercanti spettò il ruolo di aprire nuovi mercati, anche molto

distanti (si pensi a Marco Polo), verso i quali riversare i prodotti della manifattura italiana e dai

quali importare tutto quello che di interessante essi avevano da offrire. I mercanti furono non solo i

più attivi soggetti di apertura culturale, ma anche i più attivi produttori di innovazioni organizzative

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in campo aziendale, come la commenda, antesignana della moderna società per azioni;

l’assicurazione; la partita doppia (sistematizzata dal francescano Luca Pacioli nel 1494); il foro dei

mercanti; le lettere di cambio; i Monti di Pietà (il primo dei quali venne istituito a Perugia nel

1462); la borsa (la prima borsa venne inaugurata a Firenze alla fine del Quattrocento); tutte realtà

senza le quali non si sarebbe mai potuto avere uno sviluppo sostenibile e diffuso sul territorio.

2.2 Quali insegnamenti il mondo delle BCC deve trarre dalla presa d’atto che lo sviluppo

locale rappresenta, nelle condizioni odierne, la via privilegiata allo sviluppo tout court? In altro

modo, una banca del territorio come è la BCC è equipaggiata a raccogliere e vincere la sfida dello

sviluppo locale? Per rispondere, è necessario richiamare alla mente i punti di forza e di debolezza

della banca locale rispetto alla grande banca. Cominciamo dai primi.

Il forte legame con il territorio, misurato dal grado di integrazione con la comunità in cui

svolge la propria attività, è certamente uno dei fattori di vantaggio competitivo della banca locale.

La vasta letteratura sul relationship banking, ormai da tempo, ha messo in luce i vantaggi offerti

dalla prossimità alla clientela nelle relazioni di credito. (Rinvio a V. Boscia, A. Carretta, P.

Schwizer, Cooperative banking: innovations and developments, Londra, Palgrave Macmillan,

2009). Ciò accade sia perché per la banca locale è assai più agevole raccogliere informazioni di

natura qualitativa dal contatto diretto con il cliente, sia perché per le strutture a bassa complessità

organizzativa è più facile stabilire relazioni basate sullo scambio di informazioni non codificate e

non standardizzate. Le conseguenze pratiche di tali vantaggi si esprimono, per un verso, in una

maggiore stabilità della clientela come esito del maggiore senso di appartenenza, per l’altro verso,

in una riduzione dei costi di raccolta dell’informazione da parte della banca e in un maggior

controllo della rischiosità dei comportamenti post-contrattuali.

Tuttavia, va pure segnalato il risvolto della medaglia e cioè il rischio che il legame stretto

con la comunità di riferimento possa condurre a fenomeni di “cattura” nei confronti della banca

locale da parte della clientela di maggior peso economico e da parte dei centri di potere politico. A

tale rischio, vanno aggiunti due specifici elementi di svantaggio comparato della banca locale

rispetto alla grande banca nazionale o transnazionale. Il primo si riferisce ai maggiori costi della

raccolta; il secondo alla minore capacità di sfruttare le economie di scala (ciò che determina

inefficienza operativa) e soprattutto le economie di scopo (il portafoglio della banca di piccola

dimensione è poco diversificato geograficamente e settorialmente, ciò che determina una più alta

concentrazione del rischio. (Si veda Boscia e Di Salvo, in V. Boscia et al., cit).

Se ora ponessimo sui due piatti di una ipotetica bilancia vantaggi e svantaggi della banca

locale rispetto a quelli della banca di grandi dimensioni troveremmo che il piatto dei vantaggi è più

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pesante dell’altro. In altri termini, si può dire che, stanti le caratteristiche strutturali del mercato e

del territorio di riferimento, la curva del costo medio della banca locale è più lineare e più bassa di

quella della grande banca. Si può dunque affermare che la banca locale è più efficiente, coeteris

paribus, della grande banca nella misura in cui riesce a sfruttare appieno le sue specificità di banca

del territorio al fine di ridurre le asimmetrie informative e i fenomeni di opportunismo contrattuale.

E’ agevole darsene conto. Sappiamo infatti che esecutorietà legale ed esecutorietà reputazionale dei

pagamenti dei debiti concorrono entrambe a stabilizzare e rafforzare il mercato del credito. Ma con

una differenza: che mentre la prima è terribilmente costosa e dunque inefficiente, l’esecutorietà

fondata sui meccanismi della reputazione non solamente è più conveniente, ma è anche in grado di

generare esternalità pecuniarie (da non confondere con le esternalità tecnologiche) positive.

L’esecutorietà legale, invece, proprio perché spiazza gli incentivi relazionali tende ad aggravare i

problemi di azzardo morale, inducendo la banca a finanziare progetti ad alto rischio. La BCC, nella

misura in cui sa valorizzare le relazioni, evita tutto ciò.

Fino ad anni recenti, la letteratura in argomento riteneva che norme legali e autorità di

controllo fossero condizione necessaria e sufficiente per assicurare un buon funzionamento del

mercato del credito. Oggi, sappiamo che non è così: le relazioni pure sono necessarie e, in non

poche situazioni, il loro effetto disciplinante è superiore a quello delle norme legali. (Per una

dimostrazione empirica rinvio a E. Fehr, “Reputation and credit market formation: relational

incentives and legal contract enforcement interact”, IZA DP 4351, agosto 2009). Ma da cosa

ultimamente dipende la capacità delle BCC di sfruttare appieno i vantaggi del relationship banking?

Non esito a rispondere che ciò dipende dal tipo di governance che la BCC ha scelto di darsi e dal

modo in cui essa interpreta e rafforza nel tempo la propria identità. (Per un’accurata analisi empirica

si veda O. Falck et Al., “Identity and entrepreneurship” CESifo, WP 2661, maggio 2009).

L’osservazione generale da cui conviene partire per afferrare il punto è che la

globalizzazione dei mercati , da un lato, e la diffusione delle nuove tecnologie dall’altro, hanno reso

quello della corporate governance un tema di preminente centralità, un tema dal quale può

dipendere il successo di lungo periodo della BCC. In termini affatto generali, con corporate

governance si intende l’insieme di regole e di meccanismi che tutelano la relazione di agenzia che si

instaura tra l’impresa e i suoi stakeholders. Costoro delegano il perseguimento dei loro interessi

all’impresa e questa, in qualità di agente, è chiamata ad operare in modo tale da raggiungere

quell’obiettivo. A seconda di chi si ritiene debba appartenere alla categoria di stakeholder sono

distinguibili diversi modelli di corporate governance. Quello di matrice anglosassone attribuisce

priorità agli interessi dei portatori di capitale di rischio e dunque la governance deve essere tale da

consentire all’impresa di massimizzare il valore per l’azionista. Vi è però anche una interpretazione

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più estesa della shareholder theory che dilata il concetto di stakeholder a tutti i conferenti di

capitale, sia di rischio sia di debito e secondo la quale obiettivo dell’impresa è quello di

massimizzare il ritorno dell’investimento degli uni e degli altri. Infine, la tradizione di pensiero

europea (e giapponese) parte dal riconoscimento che stakeholder sono tutti quei soggetti potenziali

portatori di interessi nei confronti dell’impresa: senz’altro i soci, ma anche i clienti, i fornitori, i

dipendenti, il territorio. Secondo questa accezione, la corporate governance è il sistema di regole e

procedure che cerca di bilanciare le istanze che provengono dalle varie classi di stakeholder.

Nel nostro paese, la dialettica tra proprietà e controllo nelle imprese creditizie è giunta solo

di recente al centro dell’attenzione e ciò per l’ovvia ragione che fino agli inizi del decennio scorso

la presenza dello Stato proprietario nel settore bancario era sostanzialmente dominante. Negli ultimi

tempi, l’approccio prudenziale delle autorità di vigilanza ha fatto sì che l’attenzione venisse sempre

più spostata sull’efficienza del sistema bancario a garanzia della stabilità: qualità del management e

gestione del rischio sono così diventati i fattori critici di successo. Come si sa, l’efficienza bancaria

è di due tipi: operativa, l’una (e cioè il razionale impiego dei fattori produttivi all’interno

dell’azienda di credito allo scopo di minimizzare i costi di produzione e quindi i prezzi di offerta dei

servizi resi); allocativa, l’altra (ossia allocazione efficiente delle risorse finanziarie a disposizione

della banca in quanto intermediario).

Ora mentre i fattori da cui dipende l’efficienza operativa di una banca sono sostanzialmente

gli stessi di quelli di qualsiasi altra azienda – economie di scala e di scopo; efficienza organizzativa;

piena utilizzazione del potere di mercato – l’efficienza allocativa è una dimensione tipica

dell’azienda bancaria, dato che essa ha a che vedere con la natura particolare dell’input (risparmio)

e dell’output (credito) che la interessano. Ne deriva che le relazioni che si creano a monte (con il

risparmiatore) e a valle (con il prenditore di fondi) del processo produttivo sono cruciali per

l’efficienza dell’impresa bancaria. Da qui l’interesse della banca per la selezione dei mutuatari di

migliore qualità: la qualità di costoro è di decisiva importanza ai fini della rischiosità della banca

stessa e dei costi di raccolta dei depositi. In tutte le altre imprese, invece, l’efficienza del processo

produttivo è indipendente dai comportamenti di chi utilizza l’output del processo stesso. La qualità

di un’automobile non dipende certo dalla qualità di chi poi la andrà a guidare.

Può essere d’interesse osservare, a tale riguardo, che il processo produttivo della banca è

simile, mutatis mutandis a quello di una Scuola o di una Università: sono gli studenti bravi a

“rendere” bravi i professori e, di conseguenza, ad alzare il capitale reputazionale della scuola. Ecco

perché le istituzioni scolastiche tendono a competere tra loro per riuscire ad accapararsi gli studenti

migliori. Quando il processo produttivo presenta tale caratteristica si dice che esso impiega una

customer-input technology. Non v’è chi non veda come, per sfruttare al meglio una tecnologia del

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genere, l’impresa debba rafforzare la propria identità – come ben sanno le Università di successo.

Nel nostro caso, questo significa che la BCC deve far marciare assieme alla stessa velocità

efficienza operativa e efficienza allocativa; non può cioè limitarsi a massimizzare l’una a spese

dell’altra. La ragione è presto detta. La BCC, per un verso, è un intermediario che opera come

agente dei risparmiatori e come principale dei mutuatari; per l’altro verso, l’efficienza allocativa,

incidendo sui costi delle imprese, è un presupposto per realizzare l’efficienza operativa. (Si veda

M. Coratelli et Al. , “Valore o valori: le prospettive della banca del territorio”, in G. Brocchi, D.

Masciandaro (a cura di), La metamorfosi del credito, Roma ABI, 2007).

Qual è il nesso tra efficienza operativa e bank governance? Per rispondere, conviene prestare

un attimo d’attenzione alle tre principali componenti dell’organizzazione bancaria: i) la tecnologia

usata, la quale, oltre a stimolare l’innovazione dei prodotti finanziari, accresce anche l’autonomia

dei canali distributivi rispetto a quelli produttivi e rende più liquide forme di debito

tradizionalmente fondate sui rapporti personali; ii) la gamma dei servizi offerti, la cui varietà e

ampiezza costituisce oggi un forte elemento di vantaggio competitivo; iii) il radicamento territoriale

con il mercato di sbocco: secondo il modello di intermediazione bancaria di relationship banking, il

radicamento territoriale permette alle banche di definire contratti impliciti esclusivi e duraturi con

mutuatari locali, con ovvi vantaggi in termini di costo. Ebbene, la possibilità per la BCC di

utilizzare al meglio queste tre componenti dell’organizzazione bancaria, e quindi di conseguire

significativi livelli di efficienza operativa, dipende dalla sua governance (Cfr. Bodega, qui).

Si pone la domanda: l’assetto di governance scelto per massimizzare l’efficienza operativa è

anche quello più adeguato per massimizzare l’efficienza allocativa che – ricordiamolo – agisce

direttamente sul benessere collettivo? Potrebbe accadere, infatti, che particolari assetti della banca

volti a massimizzare l’efficienza operativa risultino in conflitto con l’istanza di salvaguardia del

risparmio (la quale esige particolari garanzie di solvibilità della banca rispetto ai depositanti e agli

altri sottoscrittori di titoli di debito), oppure con l’istanza della protezione da conflitti di interesse a

danno dei risparmiatori (il che presuppone che si limitino le opportunità di mutua compensazione

all’interno della banca). Ad esempio, l’attività di collocamento di azioni e titoli di un’impresa

cliente comporta il rischio di quote invendute, per minimizzare il quale la banca può essere indotta a

forzare l’allocazione di tali titoli presso i risparmiatori clienti. Comprendiamo allora le ragioni per

le quali la governance di una banca pone problemi di maggiore delicatezza rispetto alla governance

di una qualsiasi altra impresa. E comprendiamo anche perché nel caso dell’azienda bancaria non si

possa stabilire una relazione univoca tra efficienza allocativa e dimensione aziendale. Vale a dire,

non è affatto detto che la grande banca riesca più e meglio della banca locale a massimizzare

l’efficienza allocativa (Becchetti, qui). Nella prossima sezione mi occuperò di indicare quei principi

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di metodo che reputo necessari ai fini del disegno di una governance per una BCC che voglia essere

all’altezza delle sfide odierne. Prima, però, desidero richiamare l’attenzione su un punto specifico

dell’attività produttiva di una banca che vale a differenziarla da qualsiasi impresa del settore

industriale. Si tratta di questo.

2.3 Poiché non ha il magazzino, il costo del personale della banca incide per oltre il 50% sul

margine di intermediazione. Ciò implica che il successo di una banca è dato in gran parte dal suo

capitale umano, il quale se è un fattore importante per ogni tipo di impresa, lo è a maggior ragione

per la banca, che è un soggetto imprenditoriale che vende basicamente servizi, i quali, come noto,

contengono una forte componente di immaterialità che difficilmente può essere esaltata ricorrendo a

metodi standardizzati di tipo tayloristico. Questo comporta che la banca di successo è quella che

continuamente aggiorna la propria organizzazione interna del lavoro e ciò allo scopo di valorizzare

appieno il proprio capitale umano. Vedo di spiegarmi.

Viviamo oggi nella cosiddetta knowledge society. Sempre più si parla ormai di knowledge

economy, ma quasi mai ci si preoccupa di distinguere due tipologie di conoscenza: la conoscenza

codificata e la conoscenza tacita (codified knowledge e tacit knowledge – distinzione questa per

primo introdotta dal filosofo americano Michael Polanyi). La prima è quella che può essere

veicolata a mezzo di codici o di protocolli; la conoscenza tacita invece, è quella che alberga nella

testa di ciascun lavoratore e la sua peculiarità è che può essere rivelata ad altri solo da chi la

possiede. Durante la passata stagione della società industriale, dei due tipi di conoscenza la più

importante ai fini della produzione di valore fu la conoscenza codificata: la catena di montaggio ne

è stata la più grande esemplificazione. Nei primi anni del secolo scorso, il pensiero dell’ingegner

Taylor, l’iniziatore del management scientifico (1911), si fondava tutto sull’idea della conoscenza

codificata, sulla convinzione cioè che non fosse necessario avere dei collaboratori simpatetici e

legati al sistema di valori dell’impresa. Ciò che era ritenuto importante –e che in effetti è stato

importante fino a tempi recenti - era la definizione di sistemi di controllo in grado di prevedere

punizioni o premi a secondo dei casi, e ciò a partire dalla codifica dei tempi di lavoro, utilizzata per

la valutazione delle singole prestazioni lavorative.

In epoca post-taylorista, quale è quella in cui viviamo, la tipologia di conoscenza più

rilevante per determinare il successo di un’impresa invece è la conoscenza tacita. A prescindere dal

posto che occupa nella gerarchia aziendale, ogni lavoratore può essere apportatore di conoscenza

preziosa per il progresso dell’impresa. Invero, all’origine della produzione del valore aggiunto

stanno oggi sempre più la dimensione delle conoscenze tacite e delle competenze specifiche. Ne

deriva che la qualità dei rapporti interpersonali e dei modelli di governance assume oggi una

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rilevanza che un tempo non aveva. Il problema oggi centrale per l’impresa è quello di essere in

grado di sapere, con qualche certezza, se i propri collaboratori danno o meno il meglio di sé, posto

che, in contesti in cui centrale è la conoscenza tacita, non è possibile misurare in modo oggettivo e

perciò incontrovertibile le performance individuali. Ecco perché l’organizzazione del lavoro deve

essere tale da indurre i portatori di conoscenza tacita a rivelarla, ponendola a disposizione degli

altri. Come si comprende, è qui che entra in gioco il fattore identitario della banca.

Per cogliere meglio il punto conviene porre mente al problema del coordinamento entro una

qualsiasi azienda. Ogniqualvolta persone diverse svolgono, a seguito della divisione del lavoro,

compiti tra loro interdipendenti, nasce un problema di coordinamento. Senza coordinamento, si

avrebbe anarchia. L’interdipendenza può avere duplice natura: tecnologica o relazional-strategica.

Nel primo caso, sono le caratteristiche tecniche del processo produttivo a dettare le modalità del

coordinamento. L’esempio tipico è la catena di montaggio e, più in generale, il sistema fordista.

Nella “fabbrica” o nell’ufficio fordista, il coordinamento è presto realizzato: la gerarchia e un

sistema di incentivi/punizioni bastano alla bisogna. La realtà di oggi, invece, è dominata dall’altro

tipo di interdipendenza. Strategica significa che il comportamento di ciascun componente

dell’organizzazione dipende, in buona parte, dalle sue anticipazioni circa le intenzioni e il

comportamento degli altri. In tali casi, il coordinamento è un meeting of minds, (un incontro di

menti e non di braccia) per usare l’efficace espressione del premio Nobel dell’economia Thomas

Schelling (1960).

Ebbene, per realizzare un incontro di menti, non è possibile prescindere dal tipo di

motivazione che spinge gli individui ad agire in un particolare modo. Come noto, tre sono i sistemi

motivazionali che troviamo alla base dell’azione delle persone. Vi sono le motivazioni estrinseche

(compio quell’azione per il vantaggio, monetario o non, che ne ricevo); intrinseche (compio

quell’azione perché ha per me un valore non strumentale ed esprime la mia vocazione); trascendenti

(compio quell’azione perché voglio che altri ne traggano vantaggio; voglio cioè generare esternalità

positive a favore di altri). Dalla prevalenza negli individui dell’uno o dell’altro tipo di motivazione

discendono i comportamenti che ci è dato di osservare nella realtà: antisociali (è tale, ad esempio, il

comportamento dell’arrampicatore sociale che gode del male o del danno altrui e che è perfino

disposto ad investire risorse proprie pur di conseguire un vantaggio posizionale); asociali (è quello

dell’ homo oeconomicus che, avendo preferenze individualistiche, è interessato solamente al proprio

io e quindi né si perita di arrecare danno o vantaggio ad altri); prosociali (sono i comportamenti

dell’homo reciprocans, del soggetto che pratica la reciprocità e che attua il dono come gratuità).

Come l’evidenza empirica suggerisce, i tre tratti comportamentali sono sempre presenti in ciascuna

persona, anche se in proporzioni diverse. Ciò dipende dall’educazione ricevuta, dalla costituzione

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morale dei singoli, dal tipo di organizzazione economica in cui accade di lavorare. A quest’ultimo

proposito, la componente decisamente più rilevante nel forgiare il carattere è il tipo di impresa in

cui il soggetto opera. Un’idea questa che già il grande economista inglese della fine dell’Ottocento,

Alfred Marshall, aveva bene espresso quando scriveva che l’impresa è il luogo ideal-tipico in cui si

forma il carattere umano, prima ancora che il luogo in cui gli input si trasformano in output che

verranno poi portati al mercato.

Alla luce di ciò, il primo (nel senso dell’importanza) problema che l’organizzazione

d’impresa deve affrontare è come realizzare il mix ottimale dei tipi umani. E’ noto, infatti, che se

nel medesimo luogo di lavoro, il manager pone un tipo antisociale accanto ad un tipo pro-sociale il

primo “vince” sul secondo, col risultato che l’impresa registrerà un abbassamento di produttività.

L’aveva ben compreso Mark Twain quando nel celebre romanzo L’uomo che corruppe Hadleyburg

racconta la vita di un paese dove non esiste la cattiveria. Un giorno arriva in paese una persona

cattiva; in poco tempo, questa riesce a trasformare la comunità locale in un inferno. E ciò perché i

reggitori di quella società non erano riusciti – per un errore di sottovalutazione – a contrastare la

forza distruttiva dei tipi antisociali. Se invece un tipo antisociale viene posto a collaborare con un

tipo pro-sociale e con un tipo asociale, si dimostra che, sotto certe condizioni, il primo “soccombe”.

In uno studio recente, M. Gladwell (The tipping point, New York, Little Brown Co., 2002) mostra,

per via empirica, che bastano pochi soggetti con caratteristiche particolari per cambiare situazioni

su larga scala, a patto che siano numerosi i tipi asociali: la minoranza profetica riesce cioè a

spostare dalla propria parte gli asociali per sconfiggere gli antisociali.

La domanda che ora sorge spontanea è: perché non tutti i dirigenti aziendali sono egualmente

bravi in questa ars combinatoria, nella scelta cioè della combinazione giusta tra tipi umani diversi?

Per rispondere, consideriamo un semplicissimo modello – dovuto ad Hayes, 2005 - il cui scopo è

quello di farci intendere perché sia così difficile, nella pratica, valorizzare le motivazioni intrinseche

e soprattutto quelle trascendenti dei collaboratori. Per fissare le idee pensiamo al caso di un’azienda

ospedaliera che deve assumere, poniamo, medici (o infermerieri, non importa). Cosa significa avere

la vocazione a fare il medico (opp. l’infermiere)? Significa due cose, basicamente: a) che una

persona è propensa a lavorare bene a prescindere dai doveri sanciti dal contratto di lavoro; b) che

una persona svolge i compiti che le vengono assegnati perché ne trae una soddisfazione diretta. (La

soddisfazione indiretta invece è quella associata alla remunerazione ottenuta dallo svolgimento del

compito).

Si consideri ora la situazione del direttore generale di un ospedale che deve assumere per la

sua struttura personale medico (o infermieristico). Vi sono due tipi di medici di pari capacità sotto il

profilo della conoscenza codificata: quelli con vocazione e quelli senza. I primi assicurano una

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qualità tacita alta: i pazienti saranno soddisfatti del loro comportamento, ne parleranno bene e la

reputazione dell’ospedale aumenterà in conseguenza. A sua volta, l’aumento del capitale

reputazionale porta con sé un aumento di ricavi e di entrate provenienti da donazioni. I medici

senza vocazione invece hanno una bassa qualità tacita: non si preoccupano di produrre beni

relazionali con le conseguenze che è agevole immaginare a proposito di soddisfazione dei pazienti e

di reputazione generale.

Si indichi con w la remunerazione monetaria, cioè lo stipendio del medico; con r>o, il

cosiddetto salario di riserva, cioè quanto un medico potrebbe ottenere andando a lavorare altrove;

con v la remunerazione non pecuniaria che esprime la soddisfazione che chi ha vocazione ottiene

svolgendo il proprio lavoro. La scelta occupazionale del medico senza vocazione è dettata dalla

seguente ineguaglianza: w>r . Quanto a dire che il medico senza vocazione accetterà l’offerta che

gli viene dal direttore generale solamente se w>r. La scelta del medico con vocazione, invece, è

dettata dalla seguente ineguaglianza: w + v>r. Cioè, il medico con vocazione confronta il salario di

riserva con il vantaggio complessivo, pari alla somma dello stipendio e della remunerazione

intrinseca che trae da quella data occupazione.

A causa dei ben noti fenomeni di asimmetrie informative, il direttore generale non è in grado

di sapere se un certo medico ha o meno la vocazione. Né può pensare di chiederglielo, dal momento

che tutti risponderebbero affermativamente. Eppure, il direttore generale sa che a lui converrebbe

assumere medici con vocazione perché sa che ciò aumenterebbe il capitale reputazionale della sua

struttura. (Si tenga presente che vale qui l’assunto di eguale competenza e abilità professionale tra

tutti i medici). Come fare, allora? Due le strategie che nella pratica è possibile osservare:

a. il direttore miope aumenta w nella speranza (vana) di attrarre i medici migliori. Ma in

tal modo, egli emette un segnale che sarà raccolto principalmente dai medici senza vocazione

scoraggiando quelli con vocazione. La conseguenza ultima sarà una diminuzione della performance

della struttura, fino al punto in cui sarà costretto a diminuire w. (Perché aumentano i costi senza che

i ricavi aumentino corrispondentemente).

b. il direttore saggio, invece, offre un aumento di v, mantenendo invariato w. In tal

modo, i medici che non hanno vocazione non saranno interessati ad accettare l’offerta che viene

loro rivolta, mentre lo saranno quelli con vocazione. E’ facile immaginare la sequenza degli effetti.

In particolare, l’aumento dei ricavi e delle entrate potrà consentire al direttore di accrescere, ma alla

fine, anche w.

Perché nella realtà prevalgono i direttori miopi e poco saggi – direttori cioè che pur

bravissimi nella conoscenza delle tecniche gestionali e dei modelli organizzativi, non riescono a

mettere all’opera l’ars combinatoria? Perché è molto più facile aumentare w che v . Non ci vuole,

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infatti, grande ingegno a dare più soldi. Si veda quel che è successo con l’attribuzione di stock

options ai dirigenti dei grandi gruppi bancari nella recente crisi finanziaria. Per aumentare v, invece,

bisogna non solamente conoscere la cultura d’impresa (corporate culture) bisogna saperla

alimentare in modo continuo; bisogna non solamente ripetere, più o meno pedissequamente, i valori

fondativi dell’identità dell’organizzazione; bisogna anche credere a quei valori. Chiaramente, non

esiste un qualche manuale che insegni come fare per aumentare v. Ciascun manager deve inventarsi

il proprio modo, tenendo conto della specificità della propria realtà. Vi sono però alcuni principi

guida che servono alla bisogna. Ad essi volgerò ora l’attenzione.

3. Sul disegno organizzativo di una BCC: i rischi da scongiurare

3.1 E’ noto che il proprium di una BCC è quello di saper creare valore sia strumentale

sia espressivo. Il primo valore è l’utile che serve alla BCC per assicurarne la sostenibilità nel tempo

e la resilienza rispetto alle avversità del ciclo economico; il secondo, invece, è misurato dal grado in

cui una BCC riesce a testimoniare nella pratica la propria specifica identità. Questa duplicità di

valori rinvia alle due diverse concezioni del fare finanza: come relazione tra prestatore e prenditore

di fondi; e come transazione tra gli stessi soggetti a scopi speculativi. Sono ben note le differenze

tra approccio relazionale e approccio transazionale e del pari note sono le matrici culturali ad esse

sottese. Ebbene, la novità introdotta nell’attività finanziaria dell’ultimo secolo e mezzo dalle BCC è

stata la dimostrazione della possibilità concreta di tenere convenientemente assieme – alla maniera

della metafora platonica – relazioni e transazioni, contro l’opinione di chi riteneva impossibile far

marciare, in modo congiunto, relational banking e speculative banking.

Ciò precisato, come ha da essere l’assetto organizzativo di una BCC se si vuole che valore

strumentale e valore espressivo possano coesistere in maniera armonica, che relazioni e transazioni

possano non contraddirsi a vicenda? L’interrogativo non è affatto banale solo che si pensi che

l’assetto organizzativo di un ente non è mai neutrale rispetto alla sua identità, non è mai

indifferente rispetto ai fini che esso persegue. E’ profondamente errato il convincimento di chi

pensa che la scienza del management si fonda su principi oggettivi, incontrovertibili, validi per

ogni tempo e luogo, e dunque che le raccomandazioni pratiche che da essa si traggono sarebbero

applicabili a qualsiasi tipologia di impresa. Per convincersene, basterebbe ricordare che l’ingegner

F. Taylor, quando nel 1911 pubblicò il suo celebre Principles of Scientific Management - da cui

trasse origine la scienza della moderna organizzazione scientifica del lavoro - aveva in mente una

specifica forma di impresa: quella capitalistica, in cui il capitale controlla il lavoro ed il cui fine

ultimo è la massimizzazione del profitto, di lungo periodo (ieri) oppure di breve periodo (oggi).

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Un modo semplice e intuitivo di comprendere l’origine dell’errore di cui ho appena detto è

quello di rifarsi all’apologo, opportunamente adattato, di Whight (2009). In un ospedale sperduto

nella campagna un medico ha a disposizione dieci dosi di un siero salvavita. Una notte arrivano due

autobus in ciascuno dei quali vi sono dieci persone, tutte bisognose del siero. Nell’autobus A le

persone sono tali che, ricevendo il siero, avranno senz’altro la vita salvata. Coloro che occupano

l’autobus B hanno invece la probabilità del 50% di restare in vita pur dopo aver ricevuto il siero. Il

medico, deve decidere a chi somministrare l siero salvavita. In termini economici, deve impiegare

una risorsa scarsa (le dieci dosi di siero) in modo efficiente. A chi le somministrerà?

Chiaramente, agli occupanti dell’autobus A, perché in questo modo salverà dieci vite umane

anziché cinque, come sarebbe se decidesse di allocare il siero alle persone dell’autobus B.

Cambiamo la situazione e assumiamo che al medico giunga la seguente informazione: i passeggeri

dell’autobus A la cui età media è di ottant’anni hanno una speranza residua di vita di cinque anni,

mentre quelli dell’autobus B sono bambini di cinque anni e hanno una speranza residua di vita di

ottant’anni. Sulla base di questa nuova informazione, il medico, se vuole massimizzare l’efficienza,

a chi darà le dosi del siero salvavita? Ovviamente ai pazienti dell’autobus B, perché in tal modo

massimizza il numero degli anni di vita: 5 x 80 = 400. Se le desse agli occupanti di A gli anni di

vita aggiunti sarebbero 50: 5 x 10 = 50. Quindi, se il criterio di scelta è “massimizzare il numero

delle vite umane”, saranno favoriti i soggetti di A; se il criterio è invece “massimizzare gli anni di

vita” la scelta cadrà sulle persone in B. Per completare l’apologo, supponiamo ora che le dieci dosi

non siano di proprietà dell’ospedale, ma di una qualche farmacia privata che le vende a chi offre il

prezzo più alto; in questo caso la scelta sarebbe certamente a favore degli ottantenni, perché essi

possono pagare, mentre non altrettanto possono fare i bambini di cinque anni. Quindi, se l’obiettivo

è quello di massimizzare il ricavo, il medico si comporterà in modo efficiente se assegnerà le dieci

dosi ai passeggeri dell’autobus A.

Cosa ci dice, in buona sostanza, questa parabola? Che il criterio di efficienza, nonostante

quel che si tende a pensare, non è un criterio di scelta oggettivo. Si può parlare di efficienza, e sulla

base di ciò procedere a stilare ranking tra tipi diversi di impresa, solo dopo che si è fissato il fine

che si intende raggiungere. L’efficienza è dunque strumento per un certo fine e non fine in sé. E’

chiaro quindi che il concetto di efficienza, quando viene utilizzato per istituire un confronto di

performance economica tra imprese, di tipo diverso – ad esempio un’impresa capitalistica,

un’impresa sociale – conduce ad un vizio logico, perché esso fa implicito riferimento ad un

obiettivo che è quello proprio dell’impresa capitalistica, (la massimizzazione del profitto). Ma

l’impresa cooperativa, per sua natura, non persegue quell’obiettivo. Ecco perché, nel confronto,

essa risulterà meno efficiente.

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La seconda ragione di cui sopra si diceva è che nel calcolo dell’efficienza le esternalità

sociali (positive o negative a seconda dei casi) dell’attività economica mai vengono prese in

considerazione. Si considerino le situazioni, tutt’altro che infrequenti, in cui l’obiettivo

dell’efficienza fosse in contrasto con quello dell’equità. Se per ottenere un risultato di maggiore

efficienza si sacrificasse in modo considerevole l’equità cosa garantirebbe la sostenibilità nel tempo

dell’istituzione mercato? E’ bensì vero che nell’orizzonte del breve periodo il tecnico dell’economia

può prescindere da tali esternalità negative. Ma questo veramente significherebbe essere malati di

corto-termismo, dal momento che lo sviluppo economico è l’esito di fattori che non appartengono

alla sola sfera economica. Già Emile Durkheim aveva avvertito che i valori della società non sono

semplici mezzi a disposizione del calcolo economico, dato che la società è sempre in grado di

“costringere” o piegare i suoi membri ad agire in modo da neutralizzare le raccomandazioni che

scaturiscono da quel calcolo.

Tornando all’interrogativo posto all’inizio del paragrafo, quali caratteristiche la governance

di una BCC deve allora esibire? Nella famosa schematizzazione di Mintzberg le organizzazioni

della società civile – quelle che comunemente vengono indicate con la vaga espressione non profit -

apparterrebbero alla categoria delle “ideological organizations”, vale a dire a organizzazioni a forte

movente ideale. La vita di tali soggetti conoscerebbe tre fasi: quella della nascita e della prima

infanzia, in cui sono l’entusiasmo e la forte spinta iniziale dei leaders i fattori di traino; quella del

consolidamento, in cui la razionalizzazione degli schemi organizzativi prende il sopravvento; ed

infine la fase che vede due esiti possibili: quella del contagio diffusivo nella società di riferimento

oppure quella involutiva in cui la “ideological organization” si subordina all’ambiente circostante.

Come si sa, è quest’ultimo l’esito finale congetturato da Di Maggio e Powell nel loro celebre

saggio quando parlano di isomorfismo organizzativo: a lungo andare, l’organizzazione a forte

movente ideale tende a convergere – o per via di coercizione legislativa oppure per effetto mimetico

– alla forma capitalistica di impresa (Cfr. Solari, qui).

Quali sfide il mondo del credito cooperativo deve raccogliere e cercare di vincere se vuole

scongiurare il rischio di cadere nella trappola dell’isomorfismo organizzativo? Ne indico tre, quelle

che ritengo le più urgenti. Primo, la BCC deve mirare a realizzare il democratic stakeholding.

Secondo, deve trovare i modi per risolvere il conflitto interno. Terzo, deve proteggersi dalla

tentazione ricorrente del group-think. Comincio dalla prima sfida.

3.2 Perché il democratic stakeholding? Per rispondere conviene partire dalla

considerazione che l’agire d’impresa, quale che essa sia, è sempre un’azione comune, un’azione,

cioè, che per essere compiuta ha bisogno del concorso intenzionale di due o più soggetti. A ben

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considerare, è il fatto della diversità dei talenti e delle preferenze individuali a conferire alle azioni

svolte in una associazione lo status di azioni comuni. E’ un fatto che le nostre società odierne

costituiscono un mondo densamente popolato di azioni comuni. Tre sono gli elementi identificativi

dell’azione comune. Il primo è che essa non può essere condotta a termine senza che tutti coloro che

vi prendono parte siano consapevoli di ciò che fanno. Il mero convenire o ritrovarsi di più individui

non basta alla bisogna. Il secondo elemento è che ciascun partecipante all’azione comune conserva

la titolarità e dunque la responsabilità di ciò che compie. E’ proprio questo elemento a differenziare

quella comune dall’azione collettiva. In quest’ultima, infatti, l’individuo con la sua identità

scompare e con lui scompare anche la responsabilità personale di ciò che fa. Il terzo elemento,

infine, è l’unificazione degli sforzi da parte dei partecipanti all’azione comune per il conseguimento

di uno stesso obiettivo. L’interazione di più soggetti all’interno di un determinato contesto non è

ancora azione comune se costoro perseguono obiettivi diversi o confliggenti.

Diversi sono i tipi di azione comune e ciò in relazione all’oggetto della comunanza.

Questa, infatti, può realizzarsi intorno ai mezzi oppure intorno ai fini dell’azione stessa. Nel primo

caso, si ha l’impresa (di tipo capitalistico) e la forma che l’intersoggettività assume è, tipicamente,

quella del contratto. Come si sa, nel contratto le parti devono bensì concorrere assieme alla sua

realizzazione, ma ciascuna persegue fini diversi, spesso contrapposti. Si pensi al contratto di

compravendita tra un venditore e un compratore o allo stesso contratto di lavoro. Invece, quando la

comunanza è declinata intorno ai fini, si ha l’impresa cooperativa. Si badi che c’è differenza tra la

situazione in cui si condivide che ognuno persegua il proprio fine (come accade nella impresa

capitalistica) e la situazione in cui si ha un fine comune da condividere. Si tratta della medesima

differenza che passa tra un bene comune e un bene pubblico (locale). Nel primo caso, il vantaggio

che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure da esso traggono.

Come a dire, che l’interesse di ciascuno si realizza assieme a quello degli altri, e non già contro

come avviene col bene privato, né a prescindere, come accade con il bene pubblico. In buona

sostanza, mentre pubblico si oppone a privato, comune si oppone a proprio. E’ comune ciò che non

è solo proprio, né ciò che è di tutti indistintamente.

Quale la conseguenza, economicamente rilevante, che discende dalla distinzione

tracciata? Che quando il “comune” dell’azione si ferma ai soli mezzi, il problema da risolvere,

basicamente, è quello della coordinazione degli atti di tanti soggetti. D’altro canto, quando il

“comune” dell’azione si estende ai fini, il problema che va risolto è come realizzare la

cooperazione.

L’implicazione importante che si trae da quanto precede è che, per una BCC, quella della

“coerenza psicologica” (come la chiama H. Schlicht) tra ciò che si dichiara di volere e ciò che si fa

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nella realtà, è condizione necessaria della loro stessa sopravvivenza. Non così invece per l’impresa

capitalistica, il cui manager non ha bisogno di conoscere le motivazioni o le disposizioni d’animo di

coloro che operano in essa. Gli basta che i comportamenti effettivi di costoro siano in linea con

quanto contemplato nel piano di coordinamento. Ecco dunque la prima sfida di cui dicevo: come

disegnare il modello organizzativo di una BCC in modo tale che essa sappia, da un lato, far

emergere le disposizioni di tutti i partecipanti, e dall’altro valorizzare (nel senso di attribuire valore)

le loro motivazioni intrinseche e trascendenti. Ebbene, la via da battere a tale scopo è il democratic

stakeholding. Si tratta cioè di offrire a tutti coloro che intrattengono rapporti con la banca la

possibilità reale (non virtuale) di partecipare, in qualche modo e in qualche misura, al processo

deliberativo nelle forme che devono essere inventate. Giova ribadire che non basta la

comunicazione trasparente (dare informazioni corrette e veritiere); né basta la consultazione di tipo

concertativo. Occorre arrivare alla inclusione nel processo decisionale dell’organizzazione di tutti

coloro che in essa operano. Solo in tal modo una BCC si protegge dalla autoreferenzialità cui

sempre va soggetta. Infatti, mentre il management di una impresa for profit deve sempre rispondere

ai propri shareholder, il management di una BCC gode di più ampi spazi di discrezionalità. Di qui il

rischio della autoreferenzialità, che può essere scongiurato, appunto, dalla governance

multistakeholding. E’ agevole darsene conto.

La procedura democratica basata sul principio “una testa, un voto”, adottata dalla BCC fa

vincere l’opzione favorita dal socio mediano, mentre il costo per la realizzazione dell’opzione viene

“sopportato” da tutti i soci in parti uguali. Ne deriva che quanto più la media della distribuzione

delle preferenze dei soci diverge dalla mediana della stessa, tanto più elevato è il rischio di

inefficienza della BCC. In altri termini, tutte le volte in cui l’assemblea dei soci risulta segmentata

in gruppi caratterizzati da una forte diversità di punti di vista o di interessi, è chiaro che, a

differenza di quanto accade nella impresa capitalistica dove invece si vota col criterio “un’azione,

un voto”, la BCC va inevitabilmente incontro al rischio della paralisi decisionale oppure a quello

del trasferimento de facto del potere di controllo ai dirigenti. Il rischio della tirannia della

maggioranza è reale in quelle BCC dove la carenza di una forte identificazione con la missione

della banca tende a favorire la formazione di gruppi di interesse fra loro in conflitto. (Nella impresa

capitalistica, invece, il socio di minoranza che si ritiene vessato può sempre, almeno in linea

teorica, lasciare la società).

In buona sostanza, si tratta di passare dallo stakeholder management – in cui è il CEO o,

quando va bene, il consiglio di amministrazione a cercare, in modo più o meno paternalistico, di

comporre gli interessi delle diverse classi di stakeholder – alla stakeholder democracy, in cui sono

gli stessi portatori di interesse che, in quanto soci o partners delle BCC, condividono diritti e doveri.

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Rinvio a D. Kruse (“Research evidence on prevalence and effects of employee ownership”, Feb.

2002, Washington, D.C.) per un’accurata indagine empirica circa la diffusione del democratic

stakeholding nei paesi a più avanzato grado di sviluppo.

Quale il messaggio che ci viene di quanto sopra? Quello di ricordarci che la struttura

motivazionale di un soggetto che decide di entrare a far parte di una associazione è di fondamentale

importanza per congetturare la performance della stessa. Ad Amartya Sen va il merito di aver per

primo dimostrato come e quanto ciò che lui chiama “simpatia” – cioè il peso che un socio

attribuisce all’utilità degli altri soci nella propria funzione obiettivo – influenzi la performance della

BCC. Ciò in quanto alla base della decisione di diventare socio di una BCC non c’è solamente la

motivazione di convenienza economica, ma anche l’esigenza di affermare la propria libertà (in

senso positivo) e una accentuata preferenza per il principio di equità. Se ne trae che, se un soggetto

con preferenze del genere sceglie di entrare a far parte di una BCC, costui non potrà che reagire

negativamente di fronte a reiterate violazioni del democratic stakeholding.

3.3 Passo alla seconda sfida, quella riguardante la ricerca dei modi più efficaci per la

gestione del conflitto. Una precisazione è opportuna. Non v’è da credere che all’interno di una BCC

non possano nascere conflitti solo perché tutti i soci condividono il fine dell’azione comune, come

sopra si è scritto. Perché tale circostanza, se vale a scongiurare il conflitto di valori, non garantisce

affatto che non possano sorgere conflitti sui modi di interpretazione degli stessi e soprattutto sui

modi di incarnarli nella gestione dell’organizzazione. Si tenga presente, infatti, che l’interpretazione

dei valori, cioè la determinazione dei criteri di giudizio sulla base dei quali si stabilisce se in una

certa situazione i valori sono stati applicati o meno, è operazione che dipende dal contesto storico,

che dipende cioè dagli occhiali ( cioè dalle teorie) che usiamo per guardare la realtà. E gli occhiali

hanno a che fare con le nostre sensibilità, con i nostri stati emotivi, con la nostra cultura specifica e

così via. Guai dunque a sottovalutare tali aspetti anche perché situazioni di conflitto nella vita di

un’impresa sono assai più frequenti di quanto si pensi. Anche perché il conflitto, di per sé, è segno

di vitalità, come ci ricorda il poeta latino Terenzio: “Il seme e la terra sono in conflitto, ma da esso

nasce la pianta”.

Ci viene in aiuto, a tale proposito, un teorema assai celebre di A. Sen del 1970,

(“L’impossibilità del liberale paretiano”), col quale si dimostra che, in parecchie situazioni,

principio democratico (nelle decisioni di gruppo, vince la maggioranza) e principio liberale (ciascun

individuo deve poter far valere il proprio punto di vista almeno in qualche area, non importa quanto

ristretta, del processo decisionale) non riescono ad essere rispettati simultaneamente. Con quale

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conseguenza? Che poiché nella pratica si finisce sempre per dare la precedenza al principio

democratico, se non per altro per elementari ragioni di governabilità dell’impresa, il socio che

trovasse sistematicamente inascoltato il proprio punto di vista, finirebbe per allontanarsi, in senso

fisico oppure spirituale, dalla compagine stessa. Situazioni del genere non si possono affrontare né

con il ricorso al “giudice”, né per via contrattuale. Quel che si richiede è una leadership capace di

suscitare “obbedienza” – che letteralmente significa “dare ascolto”.

Come noto, due sono le forme dell’obbedienza: quella che si dà alla norma (giuridica o

sociale) e quella che si dà all’autorità, a chi riteniamo sia degno di autorità (e quindi se la merita!).

La prima è un’obbedienza solo formale che non risolve al fondo il problema del conflitto; la

seconda è l’obbedienza che diventa virtù, precisamente la virtù che modera l’autosufficienza.

Ebbene, la BCC deve trovare il modo di declinare nella pratica questa seconda nozione di

obbedienza e quindi deve individuare, al proprio interno, la persona (o il gruppo) capace di

esercitare la funzione di autorità. Solo l’autorità, infatti, è in grado di risolvere i conflitti basati

sulla interpretazione dei valori che definiscono la mission dell’organizzazione (Per una trattazione

organica si veda L. Bruni e A. Smerilli, La leggerezza del ferro.Una teoria economica delle

organizzazioni a movente ideale, Milano, Vita e Pensiero, 2011) .

Si badi, però, a non confondere il principio di autorità con il principio gerarchico.

Quest’ultimo, infatti, può risultare un meccanismo efficiente quando si tratta di conseguire obiettivi

di routine. Incontra però difficoltà insormontabili nel realizzare obiettivi di innovazione. Il punto è

che l’autorità entro la BCC è il soggetto capace di creare relazioni di fiducia, che è la risorsa di cui

nessuna organizzazione può fare assolutamente a meno. Quale ha da essere, allora, la forma della

catena di comando affinché la domanda di fiducia possa essere soddisfatta? Uno spunto interessante

di risposta ci viene dal lavoro recente del fisico ungherese Albert Laszlo Barabasi che, con

riferimento alle problematiche dei nuovi media, ha mostrato come sia necessario tener conto anche

delle dinamiche immanenti allo stesso processo evolutivo di Internet e, in special modo, alle sue

proprietà emergenti. Una delle più significative di queste ultime è quella che Barabasi chiama

tendenza alla “clusterizzazione”: la rete è fatta, ad un tempo, di legami forti (i cluster, cioè gruppi di

amici tra cui c’è fiducia perché c’è piena conoscenza reciproca) e di legami deboli che connettono i

cluster fra loro funzionando da veri e propri ponti. Senza questi legami deboli la rete non potrebbe

funzionare. (C. Formenti, “Internet Community”, Communitas, 1, 2005).

Possiamo trasferire questa immagine (per via di analogia e non già di similitudine)

all’esperienza della BCC: il ruolo strategico dell’autorità – qui intesa come leadership – è quello di

fungere da “connettore” sia all’interno della singola BCC sia tra di esse. E’ così che si genera la

fiducia generalizzata che, contrariamente a quanto accade con la fiducia particolaristica, produce

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capitale sociale di tipo bridging. In definitiva, compito specifico dell’autorità entro una BCC è

quello di far toccare con mano che la vita virtuosa è la vita migliore non solo per gli altri, ma anche

per se stessi. E’ in ciò il significato della nozione di bene comune, che - come sopra ricordato - è il

bene dello stesso essere in comune. Cioè il bene di essere inseriti in un struttura di azione comune

quale è, appunto, l’impresa. L’autorità nella BCC non si perde in vuote retoriche; né fa prediche,

ma sa mostrare – proprio come insegnava Aristotele – che il bene è qualcosa che avviene, che si

realizza mediante le opere. Quando questo accade, i risultati sono travolgenti, come tante storie di

successo di BCC indicano assai chiaramente. (Cfr. Cafaro, qui).

Prima di lasciare l’argomento del conflitto interno, di una questione particolare desidero

dire, sia pur in breve. Come risaputo, a differenza di quanto accade in tutte le altre imprese, nella

banca due sono le fonti di asimmetria informativa: quella tra proprietari e management e quella tra

prestatori e prenditori di fondi. La banca è dunque un’impresa che deve affrontare un duplice

azzardo morale e conseguentemente il manager bancario viene a rivestire il ruolo di double agent,

di un soggetto cioè che vive due rapporti di agenzia: il primo nei confronti dei proprietari; il

secondo nei confronti dei prestatori di fondi. Questo è vero in generale, per tutte le banche. Nel caso

di una BCC, tuttavia, accade che prestatori, prenditori e proprietari in buona parte coincidano,

ovvero hanno interessi convergenti, il che rende il manager della stessa, di fatto, un single agent.

Ora, come la teoria dell’organizzazione ha dimostrato, fin dai contributi pionieristici di Herbert

Simon dei primi anni Cinquanta del secolo scorso un rapporto di agenzia in cui vi e’ un agente che

opera per conto di due diversi principali comporta dei costi di governance decisamente superiori a

quelli di un normale rapporto di agenzia. (Michael Jensen, l’inventore della teoria dell’agenzia agli

inizi degli anni Settatanta, non aveva tenuto conto del caso dell’impresa bancaria!). Ecco perché il

modello di governance della BCC risulta capace, coeteris paribus, di maggiore efficienza operativa

rispetto a quello della banca commerciale. (Si veda G. Coco, G. Ferri, “From shareholder to

stakeholder finance: a more sustainable lending model”, International Journal of Sustainable

Economy, 4, 2009 e soprattutto R. Morck, B. Yeung, “Agency problems and the fate of capitalism”,

NBER WP 16490, ottobre 2010).

3.4 La terza sfida che va raccolta è quella di trovare i modi di difesa nei confronti del rischio del

group-think. A I. Janis (Victims of groupthink, Boston, Houghton Mifflin, 1972) si deve il termine

in questione e la sua caratterizzazione nei termini dei seguenti sintomi: illusione di invulnerabilità;

razionalizzazione collettiva; illusione di unanimità; autocensura; pressione psicologica sui

dissenzienti. Il group think è una struttura di pensiero che tende a prevalere all’interno di gruppi

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coesi e culturalmente omogenei. I membri di un tale gruppo cercano l’unanimità di pensiero, fino al

punto di non permettersi di prendere in considerazione opinioni alternative. Si badi a non

confondere il group-think con il consenso di facciata. Nel primo caso il consenso dei membri è

veramente reale ed il pensiero di costoro converge su norme di comportamento che tutti, all’interno

del gruppo, ritengono corrette. Chiaramente, un atteggiamento del genere si dimostra bensì

conveniente nel breve termine, perché favorisce la presa rapida delle decisioni, ma nella misura in

cui esso riduce l’esercizio del pensiero critico porta al conformismo e dunque riduce, a lungo

andare, la creatività dell’intero gruppo.

Come si sa, per conservare la vitalità di una banca ci vuole creatività, vale a dire una forte

abilità di leggere la res novae e una altrettanto forte capacità di individuare il campo giusto su cui

intervenire. Durante la lunga stagione della modernità, l’idea di fondo era che la creatività fosse

una faccenda individuale: era sufficiente che una organizzazione avesse “un” creativo al proprio

interno per riuscire ad affermarsi nella società. Se ne comprende la ragione solo che si pensi che

quella industriale è stata una società basata, per quanto concerne le organizzazioni, sui tre principi

seguenti . Primo, la struttura gerarchica del potere (per cui è “sufficiente” che pensino coloro che

occupano le posizioni di vertice); secondo, la razionalizzazione delle procedure (per cui i

comportamenti nell’organizzazione vanno depurati dalla dimensione emotiva e soprattutto

relazionale); terzo, la standardizzazione non solamente dei servizi, ma anche dei linguaggi

comunicativi.

La novità dell’attuale fase storica è il superamento, ormai completo , di questo modo di

concepire il funzionamento di una organizzazione, quale essa sia. Ne deriva che la creatività

individuale non basta più; occorre passare alla creatività di gruppo. Cosa comporta ciò? Che

l’organizzazione stessa deve diventare creativa. Ebbene, l’organizzazione creativa non è

compatibile con il group think, perché esso genera interdipendenza nelle credenze individuali. In tal

senso, l’opposto del pensiero di gruppo è il “morale di gruppo” (group morale). Sono segni

eloquenti che qualcosa come il group-think prende possesso dell’organizzazione quando tra i suoi

membri emerge un senso illusorio di invulnerabilità; quando il responsabile (o il capo) viene tenuto

all’oscuro o al riparo dell’esistenza di prove contradditorie; quando coloro che non la pensano come

la maggioranza vengono allontanati dai loro incarichi, oppure sminuiti nella considerazione che di

essi ha la BCC, e così via. Quando questo accadesse occorre intervenire prontamente, nei modi che

la situazione specifica esige. Uno di questi è quello di attribuire a persone autorevoli il ruolo di

“avvocato del diavolo”, e ciò allo scopo di aiutare i membri del gruppo a rafforzare la propria

capacità critica. (Una curiosità storica: la figura dell’”avvocato del diavolo” è stata introdotta dalla

Chiesa Cattolica nei processi di beatificazione dei potenziali santi proprio per contrastare il pensiero

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di gruppo!). Un altro modo è quello di favorire l’immissione nella compagine societaria di giovani

soci in grado di portare punti di vista inediti. Ecco perché è importante che la composizione per età

dell’assemblea sia bilanciata. Altri modi di intervento sono quelli suggeriti da R. Benabou,

(“Groupthink: collective delusions in organizations and markets”, NBER, 14764, marzo 2009).

Pur riconoscendo che anche una BCC non può dirsi esente dal rischio del group-think,

bisogna del pari ammettere che essa gode di un vantaggio comparato nei confronti di altre forme

d’impresa per ciò che concerne la lotta ad esso. La ragione è presto detta. Uno degli elementi

qualificanti l’organizzazione di una BCC è quello di tener ben distinti i concetti di diseguale e di

diverso. Mentre disuguaglianza si oppone a eguaglianza, diversità si oppone a uniformità. Gli esseri

umani sono, ad un tempo, eguali e diversi: eguali, in quanto partecipano tutti dei medesimi diritti

fondamentali; diversi, perché ciascuno è un unico, un ente irripetibile. E’ per questo che il diverso

ha “diritto” a non subire l’uniformità. Ed è proprio in ciò che il principio di solidarietà si distanzia

dal principio di fraternità: il primo si accontenta della uniformità; il secondo tende all’unità. Come,

ha magistralmente scritto Blaise Pascal: “L’eguaglianza senza diversità è inutile agli altri; la

diversità senza eguaglianza è rovinosa per noi. L’una è nociva all’esterno, l’altra all’interno. Il

principio di uguaglianza può essere utile a definire una generica equivalenza di diritti essenziali

nell’ambito delle norme giuridiche, ma mal si presta a connotare il fondamentale diritto umano che

dovrebbe dirsi piuttosto il diritto… alla diversità”. Dove si pratica la fraternità non v’è posto per il

group-think: ecco perché la fraternità non è un vago sentimento morale, ma un formidabile

principio d’organizzazione economica, come la scuola di pensiero francescana ha da tempo ben

compreso.

4. Expressive laws” e responsabilità del legislatore-regolatore

4.1 Tre sono i tipi di norme di cui le società, in ogni tempo e luogo, abbisognano per la loro

sostenibilità: le norme legali, espressione del potere coercitivo dello stato, la cui esecutorietà è

legata a ben definiti sistemi di punizioni; le norme sociali, che sono il precipitato di convenzioni e

tradizioni più o meno antiche, e la cui esecutorietà dipende dalla vergogna che sempre accompagna

la stigmatizzazione di comportamenti devianti (perdita di status e discriminazione sociale); le norme

morali, associate alla prevalenza di ben definiti matrici culturali (di tipo religioso e non), la cui

violazione fa scattare negli individui il senso di colpa. E’ all’antropologa americana Ruth Benedict

(R. Benedict, Il crisantemo e la spada, Milano, Bompiani, 1946) che si deve la distinzione tra

civiltà della vergogna e civiltà della colpa e l’affermazione del pensiero per cui il passaggio dalla

prima alla seconda ha rappresentato un autentico progresso morale. Ce ne dà ragione il noto filosofo

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americano Bernard Williams, quando scrive che mentre “le esperienze primitive della vergogna

hanno a che fare con la vista e con l’essere visto”, la colpa pone “le sue radici nell’ascolto”, nel

sentir “risuonare in se stessi la voce del giudizio” (B. Williams, Vergogna e necessità, Bologna, Il

Mulino, 2007).

Quale il nesso fra le tre tipologie di norme? Che se le leggi che vengono promulgate

“marciano contro” le norme sociali e, ancor più, contro le norme morali prevalenti nella società, non

solamente le prime non produrranno i risultati desiderati, in quanto non saranno rispettate per la

semplice ragione che non è certo possibile sanzionare tutti i loro violatori, ma quel che è peggio è

che tali leggi andranno a minare le credibilità e/o l’accettabilità delle altre due categorie di norme,

minacciando così la stabilità dell’ordine sociale stesso. E’ quel che succede con quelle che oggi si

chiamano “inexpressive laws”, cioè leggi che non riescono ad esprimere quei valori che sorreggono

l’architettura di una determinata società. Salvo rarissime occasioni, la divisione del lavoro

intellettuale è tale che economisti e giuristi si occupano solo di leggi; i sociologi soltanto di norme

sociali e gli eticisti di norme morali. Non è allora difficile darsi conto del perché gran parte delle

norme giuridiche siano così “inexpressive” e così poco prese sul serio dai cittadini. Un solo

esempio: le leggi approvate in Italia sul falso in bilancio oppure sul condono fiscale sono bensì

norme legali, ma esse cozzano contro le nostre norme sia sociali sia morali. In casi del genere,

principio di legalità e principio etico entrano in stridente contrasto, con le conseguenze che a tutti è

dato osservare. Alla luce di ciò, si riesce a comprendere perché il tanto celebrato “teorema di

Ronald Coase” del 1960 – quello che ha consentito, giustificandola sotto il profilo dell’efficienza

economica, la nascita dei mercati dei permessi di inquinare – tende a produrre, una volta entrato a

far parte del senso comune, effetti perversi: se basta pagare per ottenere il permesso di generare

esternalità (tecnologiche) negative, è chiaro che alla lunga un tale mindset non può non determinare

una istintiva avversione al principio di legalità. Mai dimenticare, infatti, che è la legge a

condizionare la legalità e non viceversa, come un certo positivismo giuridico lascia intendere –

secondo il quale auctoritas non veritas facit legem. E’ veramente sconcertante che economisti

autorevoli, preoccupati di assicurare risultati di efficienza ad ogni costo, non abbiano colto il lato

oscuro del teorema di Coase, che solo ora, dopo oltre un trentennio, inizia ad essere percepito in

tutta la sua pericolosità.

Ebbene, è quando si giunge a porsi problemi del genere che si riesce ad apprezzare il grande

merito dell’intuizione di Giacinto Dragonetti, illuminista napoletano, autore nel 1766 del celebre

Delle virtù e dei premi: il fattore decisivo, anche se non unico, è il modo in cui si arriva alla

costruzione dell’apparato legislativo. Se il legislatore, facendo propria una antropologia di tipo

hobbesiano, secondo cui l’uomo è un ente malvagio fin nello stato di natura e quindi è un soggetto

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tendenzialmente antisociale, confeziona norme che caricano sulle spalle di tutti i cittadini pesanti

sanzioni e punizioni allo scopo di assicurarne la esecutorietà, è evidente che i cittadini prosociali (e

anche quelli asociali), che non avrebbero certo bisogno di quei deterrenti, non riusciranno a

sopportare a lungo il peso conseguente e quindi, sia pure obtorto collo, tenderanno a modificare per

via endogena il proprio sistema motivazionale.

E’ questo il cosiddetto meccanismo del crowding out (spiazzamento): leggi di marca

hobbesiana tendono a far aumentare nella popolazione la percentuale delle motivazioni estrinseche

e quindi ad accrescere la diffusione dei comportamenti di tipo antisociale. Proprio perchè i tipi

antisociali non sono poi così tanto disturbati dal costo dell’enforcement delle norme legali, dal

momento che cercheranno in tutti i modi di eluderle. Nella celebre opera Memorie di Adriano di

Marguerite Yourcenar si legge: “Credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono e con

ragione. Se troppo complicate, l’ingegnosità umana riesce facilmente ad insinuarsi entro le maglie

di questa massa fragile … La maggior parte delle nostre leggi penali – e forse è un bene – non

raggiungono che un’esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da

adattarsi all’immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi;

pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli”.

Possiamo ora apprezzare appieno la posizione di Dragonetti quando scrive: “Un altro mezzo

di prevenire i delitti è quello di ricompensare le virtù. Su di questo proposito osservo un silenzio

universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dalle Accademie ai

discopritori di utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché i premi distribuiti

dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbero altresì le azioni virtuose? La moneta

dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore”. E’ difficile trovare, nel

XVIII secolo, pensatori più chiari e lungimiranti del Nostro sul tema in discussione. Si confronti

tale brano con quello corrispondente di Beccaria in Dei delitti e delle pene del 1765: “Le leggi sono

condizioni colle quali uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un

continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne

sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità”. E’ agevole constatare

l’applicazione, in tale brano,della linea di pensiero hobbesiana quale emerge sia dal De Cive (1642)

sia dal Leviatano (1651), le due grandi opere del filosofo inglese. In definitiva, il punto importante

da sottolineare è che una società che offre opportunità per il comportamento virtuoso è una società

che rende possibile la proliferazione di soggetti virtuosi.

4.2 L’argomentazione di cui sopra abbisogna tuttavia di una qualificazione importante, che

concerne la distinzione tra premio e incentivo. Nonostante la confusione di pensiero che, complice

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la manualistica corrente di economia, continua a circolare, notevoli sono le differenze tra questi due

concetti che vengono presi come sinonimi. (Si tenga presente che una sanzione o una punizione

sono un incentivo col segno meno, cioè un disincentivo). Ne indico alcune, quelle più significative

ai fini del presente discorso. Primo, con l’incentivo il principale di una qualsivoglia relazione di

agenzia induce il suo agente – si pensi al rapporto tra impresa e dirigenti; tra il responsabile di una

organizzazione e i suoi stretti collaboratori; tra un genitore e il figlio – ad operare nell’interesse

privato del principale. In altro modo, fine ultimo dello schema di incentivo è quello di allineare

l’interesse dell’agente con quello del principale. Nel caso dell’impresa, questo significa assumere

che l’interesse personale dell’amministratore coincide con quello di coloro per conto dei quali

agisce (gli azionisti). Non così con il premio, che, invece, mira al bene comune. “Il premio – scrive

Dragonetti – è il vincolo necessario per legare l’interesse particolare col generale, e per tenere gli

uomini sempre intenti al bene”.

In secondo luogo, la struttura formale dell’incentivo è quella di un contratto che, una volta

sottoscritto dalle due parti di una relazione di agenzia, diviene vincolante per entrambe anche se è

empiricamente accertata la manipolabilità degli incentivi da parte dell’agente. Esso è dunque ex-

ante rispetto allo svolgimento dell’azione, e ciò nel senso che i termini contrattuali devono essere

noti all’agente prima ancora che questi si ponga all’opera. Al contrario, il premio è ex-post, essendo

un atto volontario del principale che, in quanto tale, non istituisce un’obbligazione in capo alle parti.

L’essenza del premio è dunque quella del dono come gratuità, mentre l’essenza dell’incentivo è

l’attribuzione all’agente di parte del valore aggiunto creato da questi a favore del principale. Ne

deriva che la pratica, su larga scala, degli schemi di incentivo, nei più svariati ambiti della vita

sociale, tende a lungo andare ad affievolire nella comunità lo spirito del dono, in seguito appunto

all’operare di un meccanismo come quello dello spiazzamento.

Terzo, uno degli effetti maggiormente indesiderati dell’impiego degli incentivi è l’erosione

del rapporto di fiducia tra principale e agente. Pensiamo ad un qualsiasi esempio di contratto

incentivante. E’ inevitabile che, prima o poi, l’agente si chieda perché mai il suo principale gli offre

l’incentivo. Infatti, delle due l’una: se quel che viene chiesto all’agente rientra nei compiti

specificati nel contratto di lavoro (o nel contratto d’opera), l’offerta dell’incentivo costituisce il

prezzo che il principale paga per la mancata fiducia nell’integrità morale del suo agente; se invece

all’agente si chiede di fare di più rispetto a quanto previsto dal contratto oppure di fare qualcosa che

viola il codice di moralità mercantile, allora l’incentivo si configura o come forma di parziale

sfruttamento dello sforzo extra compiuto dall’agente – nel primo caso – oppure come il pagamento

versato per indurre l’agente a vincere le sue resistenze morali – nel secondo caso, che è quello oggi

più frequente. (Si pensi all’incentivo rappresentato dalla concessione di stock options al top

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manager delle grandi imprese finanziarie per indurre quest’ultimo a fare ciò che diversamente mai

farebbe, come la recente crisi ha dimostrato ad abundantiam). In entrambi i casi, quel che si va a

produrre è una perdita dell’autostima (la self-esteem di cui parlava Adam Smith nella sua Teoria dei

sentimenti morali del 1759) da parte dell’agente – il manager di una banca che per incassare

l’incentivo inganna il cliente che gli chiede consiglio circa l’acquisto di prodotti finanziari, perde la

stima in sé e alla fine il proprio benessere spirituale – e soprattutto l’erosione del capitale fiduciario.

E come si sa, senza fiducia non può esserci sopravvivenza dell’economia di mercato. Nulla di tutto

ciò accade col premio che, invece, accrescendo l’autostima, rafforza il legame sociale. (Il figlio che,

impegnandosi molto nello studio, riceve, alla fine del percorso scolastico, il premio del genitore

rafforza la fiducia in sé e quindi sarà pronto per ulteriori sfide. Non così, invece, il giovane che

“negozia” col genitore l’incentivo in una forma del tipo “se sarai promosso con una certa media,

otterrai X; con un’altra media, otterrai Y”. Il giovane attribuirà verosimilmente l’offerta

dell’incentivo al fatto che il proprio genitore conosce la sua indole pigra oppure la sua modesta

capacità di apprendimento. In situazioni del genere, l’effetto indiretto negativo dell’incentivo, che

opera sul sistema motivazionale del giovane oppure sulla sua costituzione morale, dominerà

l’effetto diretto positivo che invece opera sullo sforzo profuso nello studio: il giovane studia di più,

ma impara di meno, perché come ricordava Goëthe “si apprende solo ciò che si ama”).

Di un’ultima differenza tra incentivi e premi mette conto di dire. E’ vero che nel breve

periodo l’uso di incentivi può aumentare la produttività e può comportare un abbassamento dei costi

di gestione. Un esempio proposto da Dari-Mattiacci e De Greet in un recente raffinato studio (Citato

in E. Carbonara, “Incentivi e premi”, in L. Bruni e S. Zamagni, Dizionario di Economia Civile, cit.)

fa al caso in questione. Un dittatore tiene sotto scacco la popolazione del suo paese con la minaccia

(incentivo negativo) assicurata da un solo proiettile: il primo che oserà ribellarsi verrà ucciso. Con il

costo di un solo proiettile, il dittatore riesce pertanto a conservare il proprio potere. Cosa

succederebbe, invece, se, anziché l’incentivo (negativo), il dittatore volesse adottare un sistema di

premi a favore di tutti coloro che, non ribellandosi, accettano la perdita della democrazia? Che il

costo di implementazione di un tale sistema diverrebbe proibitivo. Di qui la conclusione sopra

riferita: i premi sono troppo costosi da gestire. Il che è quanto la teoria economica mainstream

insegna ancora oggi.

Cosa contesterebbe un Dragonetti agli autori dell’esempio? Per un verso, che il modello da

loro elaborato si regge sull’assunto antropologico secondo cui tutti i soggetti sono individualisti ed

edonisti. Il che non è, perché, come sopra indicato, non è empiricamente vero che tutti i soggetti che

operano nel mercato sono mossi all’azione da motivazioni estrinseche; ci sono infatti anche i

prosociali che, avendo motivazioni trascendenti, sono pronti a sacrificarsi per gli altri o per

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un’ideale. Solo chi non conosce la storia degli uomini potrebbe negare questo. Per l’altro verso, che

è proprio l’impiego a lungo andare di incentivi a modificare, in una certa direzione, la struttura

motivazionale delle persone, cambiandone il sistema di valori. L’uomo, ci confermano le neuro-

scienze, è l’animale più capace di adattamento all’ambiente in cui vive: se questo è “tenuto su” con

gli incentivi è ovvio che, a lungo andare, anche la sua mente comincerà a funzionare secondo un

meccanismo omeostatico di adattamento. Un punto questo che il grande economista Alfred

Marshall aveva già compreso alla fine dell’Ottocento, quando osservava che l’impresa, prima

ancora di essere luogo di produzione di beni e servizi, è luogo di formazione del carattere di chi in

essa lavora: a seconda di come l’impresa viene organizzata, si formeranno uomini di un tipo o

dell’altro.

Gli incentivi creano sempre, tanto o poco, dipendenza – ed è per questo che sono

inflazionistici: basti guardare alle remunerazioni del top management di oggi e confrontarle con

quelle del top management di alcuni decenni fa – e abbassano i costi personali della tentazione – ed

è per questo che generano effetti perversi. Non è così con i premi. Ecco perché Dragonetti può

scrivere: “Essendo le virtù un prodotto non del comando della legge [né del contratto], ma della

libera nostra volontà, non ha su di esse la società diritto veruno. La virtù per verun conto non entra

nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella

di chi defrauda l’altrui sudore” (corsivo aggiunto).

Un esempio concreto del “male” che il regolatore pubblico può fare quando cerca di fissare

regole di comportamento in materia bancaria senza preoccuparsi di tener conto delle specificità che

caratterizzano i vari tipi di banca è quello che ci viene dal cosiddetto Comitato di Basilea. Al fine di

rafforzare la stabilità del sistema bancario, intervenendo sia sulla resilienza del settore sia sul

rischio di liquidità, nell’aprile 2010 il Comitato ha avanzato un nuovo pacchetto di regole – che

dovrebbero entrare in vigore alla fine del 2012 – ed ha provveduto a definire una calibrazione dei

nuovi parametri regolamentari tali che, di fatto, essi penalizzano le BCC. Tali regole e parametri,

infatti, mentre hanno senso se riferiti alle banche commerciali, il loro senso scompare se si pensa di

applicarli ad una BCC. Si consideri, ad esempio, l’ammontare dei profitti distribuiti oppure il ROE

(Return on Equity): una BCC per statuto pone un limite superiore alla distribuzione degli utili ai

propri soci; il che è prorprio quel che non avviene in una banca commerciale. D’altro canto, però

nessuna considerazione viene data dal Comitato al valore aggiunto sociale che una BCC sempre

produce. Prova ne è che, in generale, la BCC presenta un cost-income ratio più basso della banca

commerciale gemella ed un più basso tasso di redditività: quanto a dire, una più elevata efficienza

di costo si accompagna ad una più bassa efficienza di profitto. E’ evidente che operando in tal modo

si viene a violare il principio della neutralità regolamentare (levelling playing field), quel principio

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cui una economia civile di mercato dovrebbe sempre cercare di attenersi. (Si veda sul punto il

numero monografico di Credito Cooperativo, 5, 2010 e, in particolare, i saggi di A. Azzi e di F.

Cornelli).

5. Al posto di una conclusione

Quale conferma dell’importanza della propria identità la cooperazione di credito trae dalla

crisi economico-finanziaria scoppiata negli USA nel 2007 e tuttora in atto? (Circa l’impatto della

crisi finanziaria sulla performance delle BCC, si veda Mazzoli, qui). Per rispondere, conviene

volgere l’attenzione a quella che considero una delle più pesanti cause strutturali di questa crisi di

natura entropica. Si tratta di questo. Da sempre la teoria economica – specialmente quella della

scuola di pensiero neo-austriaca – sostiene che il successo e il progresso di una società dipendono

crucialmente dalla sua capacità di mobilizzare e gestire la conoscenza che esiste, dispersa, tra tutti

coloro che ne fanno parte. Infatti, il merito principale del mercato, inteso come istituzione socio-

economica, è proprio quello di fornire una soluzione ottimale al problema della conoscenza. Come

già F. von Hayek ebbe a chiarire nel suo celebre (e celebrato) saggio del 1937, al fine di incanalare

in modo efficace la conoscenza locale, quella cioè di cui sono portatori i cittadini di una società, è

necessario un meccanismo decentralizzato di coordinamento, e il sistema dei prezzi di cui il

mercato basicamente consta è esattamente quel che serve alla bisogna. Questo modo di vedere le

cose, assai comune tra gli economisti, e politologi, tende tuttavia ad oscurare un elemento di

centrale rilevanza.

Invero, il funzionamento del meccanismo dei prezzi come strumento di coordinamento

presuppone che i soggetti economici condividano e perciò comprendano la “lingua” del mercato.

Valga un’analogia. Pedoni e automobilisti si fermano di fronte al semaforo che segna il rosso

perché condividono il medesimo significato della luce rossa. Se quest’ultima evocasse, per alcuni,

l’adesione ad una particolare posizione politica e, per altri, un segnale di pericolo è evidente che

nessun coordinamento sarebbe possibile, con le conseguenze che è facile immaginare. L’esempio

suggerisce che non uno, ma due, sono i tipi di conoscenza di cui il mercato ha bisogno per assolvere

al compito principale di cui sopra si è detto. Il primo tipo è depositato in ciascun individuo ed è

quello che – come bene chiarito dallo stesso F. von Hayek – può essere gestito dai normali

meccanismi del mercato. Il secondo tipo di conoscenza, invece, è quella che circola tra i vari gruppi

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di cui consta la società ed ha a che vedere con la lingua comune che consente ad una pluralità di

individui di condividere i significati delle categorie di discorso che vengono utilizzate e di

intendersi reciprocamente quando vengono in contatto.

E’ un fatto che in qualsiasi società coesistono molti linguaggi diversi, e il linguaggio del

mercato è solamente uno di questi. Se questo fosse l’unico, non ci sarebbero problemi: per

mobilizzare in modo efficiente la conoscenza locale di tipo individuale basterebbero gli usuali

strumenti di mercato. Ma così non è, per la semplice ragione che le società contemporanee sono

contesti multi-culturali nei quali la conoscenza di tipo individuale deve viaggiare attraverso confini

linguistici ed è questo che pone difficoltà formidabili. Il pensiero economico contemporaneo ha

potuto prescindere da tale difficoltà assumendo, implicitamente, che il problema della conoscenza

di tipo comunitario di fatto non esistesse, ad esempio perché tutti i membri della società

condividono il medesimo sistema di valori e accettano gli stessi principi di organizzazione sociale.

Ma quando così non è, come la realtà ci obbliga a prendere atto, si ha che per governare una società

“multi-linguistica” è necessaria un’altra istituzione, diversa dal mercato, che faccia emergere quella

lingua di contatto capace di far dialogare i membri appartenenti a diverse comunità linguistiche.

Ebbene, questa istituzione è la democrazia. Questo ci aiuta a comprendere perchè il problema della

gestione della conoscenza nelle nostre società di oggi, e quindi in definitiva il problema dello

sviluppo, postula che due istituzioni – la democrazia e il mercato – siano poste nella condizione di

operare congiuntamente, fianco a fianco. Invece, la separazione tra mercato e democrazia che si è

andata consumando nel corso dell’ultimo quarto di secolo sull’onda dell’esaltazione di un certo

relativismo culturale e di una esasperata mentalità individualistica ha fatto credere – anche a

studiosi avvertiti – che fosse possibile espandere l’area del mercato senza preoccuparsi di fare i

conti con l’intensificazione della democrazia.

Due le principali implicazioni che ne sono derivate. Primo, l’idea perniciosa secondo cui il

mercato sarebbe una zona moralmente neutra che non avrebbe bisogno di sottoporsi ad alcun

giudizio etico perché già conterrebbe nel proprio nucleo duro (hard core) quei principi morali che

sono sufficienti alla sua legittimazione sociale. Al contrario, non essendo in grado di autofondarsi, il

mercato per venire in esistenza presuppone che già sia stata elaborata la “lingua di contatto”. E tale

considerazione basterebbe a sconfiggere da sola ogni pretesa di autoreferenzialità. Secondo, se la

democrazia, che è un bene fragile, va soggetta a lento degrado, può accadere che il mercato sia

impedito di raccogliere e gestire in modo efficiente la conoscenza, e quindi può accadere che la

società cessi di progredire, senza che ciò avvenga per un qualche difetto dei meccanismi del

mercato, bensì per un deficit di democrazia. Ebbene, la crisi economico-finanziaria in corso – è la

migliore e più cocente conferma empirica di tale proposizione. Si pensi, per fare un solo esempio,

32

alla prevalenza, nelle sfere sia economica sia politica, del corto termismo (short termism), dell’idea

cioè secondo cui l’orizzonte temporale delle decisioni ha da essere il breve periodo. La democrazia,

invece, ha necessariamente di mira il lungo periodo. Se le preposizioni del mercato sono senza –

contro – sopra (senza gli altri; contro gli altri; sopra gli altri), quelle della democrazia sono con-per-

in (con gli altri; per gli altri; negli altri). In definitiva, abbiamo bisogno di ricongiungere mercato e

democrazia per scongiurare il duplice pericolo dell’individualismo e dello statalismo centralistico.

Si ha individualismo quando ogni membro della società vuol essere il tutto; si ha centralismo

quando a voler essere il tutto è un singolo componente. Nell’un caso si esalta a tal punto la diversità

da far morire l’unità del consorzio umano; nell’altro caso, per affermare l’uniformità si sacrifica la

diversità. Quanto tutto ciò c’entri con il modo di operare della cooperazione di credito è fin troppo

evidente perché valga la pena di esplicitarlo in questa sede.

Mi piace concludere con le parole di un grande imprenditore fiorentino, Coluccio Salutati.

Scriveva nel 1437 il celebre umanista civile: “Consacrarsi onestamente all’attività economica può

essere una cosa santa, più santa che vivere in ozio nella solitudine; perché la santità della vita

operosa innalza l’esistenza di molti”. Cosa c’è di notevole in questo brano? L’idea che la vita

economica, in quanto generatrice di valore, è di per sé volta al bene comune. Ma sotto quale

condizione questa vocazione, per così dire, naturale dell’attività economica si realizza? Che la

ricerca del profitto (o anche dell’utile) non diventi totalista, una ricerca cioè che spiazza, fino a

spegnerle, le motivazioni intrinseche e trascendenti che albergano in ciascun uomo, sia pure, come

si è detto nella sezione 2, in proporzioni diverse da persona a persona. L’imprenditore che mira alla

sola massimizzazione del profitto è un soggetto veramente modesto, sia intellettualmente sia

caratterialmente. Ma soprattutto è un soggetto tristemente infelice.

Ha scritto Gilbert Chesterton: “Tutta la differenza tra costruzione e creazione è esattamente

questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita; una cosa creata si ama prima

ancora di farla esistere”. La BCC, che è una tipica impresa civile, è un soggetto creatore, a

differenza dell’imprenditore non civile che è un mero costruttore.