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E’ chiaro che Ulisse si presenta come l’eroe dell’astuzia e dell’intelligenza, doti però ambigue e diversamente leggibili e interpretabili come ci conferma un rapidissimo sguardo ai grandi auctores latini: 1) Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo desideroso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22): Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit ), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit ), mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna. E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), per elogiare la saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse: (…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum). Diversamente Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, nel riportare la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da Ulisse grazie all’abilità della parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.

 · Web viewsarà credo, proprio il modello virgiliano, amplificato dal commento serviano, come suggerisce l’immagine, che segnerà la lettura proposta da Benoit che arricchisce

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E’ chiaro che Ulisse si presenta come l’eroe dell’astuzia e dell’intelligenza, doti però ambigue e diversamente leggibili e interpretabili come ci conferma un rapidissimo sguardo ai grandi auctores latini:

 1) Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo desideroso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):

Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit), mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.

E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), per elogiare la saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:

(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum).

Diversamente Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, nel riportare la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da Ulisse grazie all’abilità della parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.

Per Virgilio il cui obiettivo ci dice Servio era “ Homerum imitari”, Ulisse è “scelerum inventus” “fandi fictor “ 9, 602

E sarà credo, proprio il modello virgiliano, amplificato dal commento serviano, come suggerisce l’immagine, che segnerà la lettura proposta da Benoit che arricchisce gli scarni elementi forniti da Ditti per costruire un vero e proprio racconto dell’ultimo segmento di vita dell’eroe:

Molti sono i luoghi che potremmo citare per mostrare le nefandezze di Ulisse

Vediamo che intanto l’attenzione su Ulisse si concentra nel momento del ritorno come l’Eneide e l’Odissea:

Intorno a questa figura di cui Ditti ci narra le gesta l’autore si inserisce per commentare e chiosare:

Ensi com jo vos ai conté

E com es Livre ai trové

Avint de cest destruiement,

Des ore orreiz com faitement

Ravindrent lor grant encombrier

E lor damage grant e fier,

des ore orreiz lor destinees:

quant jos voi avrai recontees,

ne direiz pas qu’a nule gent

avenist onc plus malement.

Tuit alerent puis, ço lison,

a duel e a perdicion. (Vv, 26590-26602)

La distruzione di Troia avvenne come vi ho descritto e come ho trovato scritto nei libri. D’ora in poi udirete quali altri grandi ostacoli e quali grandi e terribili lutti affronteranno i greci. D’ora in poi udirete quali furono i loro destini : dopo che ve li avrò raccontati , direte certamente che a nessuno mai sono capitate sofferenze più terribili

Per Benoit invece Ulisse è tramatore di inganni e in questo è il modello virgiliano ad agire con forza e a suggerire anche l’aggettivazione, è l’Ulisse FOTO

Per Virgilio il cui obiettivo ci dice Servio era “ Homerum imitari”. Ulisse era “scelerum inventus” è a lui la colpa di avere condotto troia alla rovina. E’ lui, e cito un episodio poi ripreso da Benoit a tramare contro Palamede, come ricorda Sinone En 2, 81-96 e adisputare con Aiace le armi di Achille in un modo che ricorda il Palladio e il famoso inganno del cavallo.

Ed ecco nel romanzo francese, dove la dialogia si fa occasione di ampliamento prospettico, l’astuzia di Ulisse farsi oggetto di dibattito

veda (vv. 26639 ss) la disputa sul Palladio, statuetta di Minerva, occasione per contrapporre al tramatore d’inganni un Aiace combattente. Alla laconica osservazione di Ditti

Ditti, libro V, cap. 14

Ma un’aspra quistione insorse tra i capitani a cagione del Palladio, domandato avendolo Ajace Telamonio in premio di quanto colle opere del braccio suo valoroso e della sua sagacità avea fatto (…) Rimasero contendenti Ulisse ed Ajace ognuno dei quali faceva somma forza per averlo, mettendo innanzi entrambi quanto aveano fatto.

Si trasforma in contrapposizione polifonia: Ulisse rivendica la sua capacità di astuzia come un valore positivo che urradia i suoi esiti su tutti i greci

Sos bosoignassent mes conseiz,

Si come il ont fait autre feiz,

Quant jo vos trovai si afliz

E si atainz e si guenchiz triade agg

« Que par force e par estoveir,

Ne fust mon sens e mon saveir,

Vos en covenist toz aler, —

Affrontereste la questione in modo diverso se aveste ancora bisogno dei miei consigli, che vi sono stati utili in tante occasioni, quando vi ho trovato così affranti e così mal ridotti e così scoraggiati che, senza il mio acume e la mia intelligenza, sareste stati costretti ad andarvene tutti quanti.

e invece Aiace ribalta la posizione richiamando il peso di una vittoria ottenuta a prezzo del tradimento:

«Dont vos ici faites vantance

Ne dont vos tant cuidez valeir

Que il vos deie remaneir.

Por ço, se vos estes trichiere

26710 E decevere e losengiere,

(E por ço que, par vostre fait,

Nos sera mais toz jorz retrait

Que parjures somes e faus

E mençongiers e desleiaus,

26715 «Bien nos avez apareilliez,

Bien en devez estre preisiez,

Que ço que faire deusson

Par proëce, senz traison,

Ço nos avez a ço torné

26720 Dont toz jorz mais serons blasmé,

Por c'est bien dreiz qu'il vos remaigne?

Cent dahez ait la vostre ovraigne ! (vv. 26706-26722)

E’ una cosa davvero ignobile e davvero vile quella di cui vi state vantando e per cui credete di essere così tanto valoroso perché il Palladio spetti a voi. Per cui sarebbe un valido motivo perché il Palladio spetti a voi? Il fatto che* siete un baro, un imbroglione e un lestofante, e che per colpa vostra ci verrà rinfacciato per sempre di essere spergiuri, falsi, bugiardi e sleali? Ma che bell’aiuto ci avete dato, bisogna proprio lodarvi per aver trasformato in un motivo di eterno biasimo un’impresa che avremmo dovuto compiere grazie al nostro valore, senza ingannare nessuno. Sia cento volte maledetto il vostro inganno!

E dopo aver ribadito che di fronte ad Achille tutti sono secondi, Aiace conclude:

«Plus amisseiz, n'en dot de rien,

27030 Le mal eslire que le bien ;

De vos n'eissi onques conseiz

Qui fust leiaus, dreiz ne feeiz.

Ne devez ja en lieu parler

O jo seie, ne demander

27035 Chose ou jo bé. Ne vos hauceiz,

Quar ço n'est pas reisons ne dreiz.

Non ho alcun dubbio che avreste preferito scegliere il male al posto del bene; da parte vostra non è mai giunto un consiglio leale, giusto e corretto. Quando ci sono io non dovete proprio parlare o rivendicare una cosa che desidero io. Non celebratevi da solo perché è una cosa ingiusta e insensata.

Il Palladio viene alla fine assegnato a Ulisse e Aiace, la notte, viene brutalmente assassinato e non si suicida come in altra parte della storia. Si sospetta della morte Ulisse che, sentendosi braccato, fugge.

ma nella linea proposta è interessante il caso dell’inganno perpetrato ai danni del prode Palamede.

L’episodio, di cui in Ditti si narra soltanto la tragica conclusione:

II, XV

Nello stesso tempo Diomede e Ulisse s’intesero insieme per togliere di mezzo Palamede (…) avendo finto di voler dividere con lui un tesoro, che dicevano trovarsi in un certo pozzo, allontanato ogni altro, proposero a lui che discendesse per primo; dove, siccome non temeva di fraude, si fece calare con una corda; ma appena fu al fondo, tolti a gran furia i sassi ch’erano sparsi all’intorno, là giù l’oppressero.

Si sviluppa in Benoit con la narrazione delle false lettere:

Ulisse che era un uomo malvagio fino a tal punto odiava davvero a morte Palamede perché era ben consapevole che l’esercito greco non avrebbe mai fatto nulla, nessuna grande impresa, né in positivo né in negativo se non glielo avesse ordinato, comandato e suggerito Palamede. Perciò Ulisse lo odiava e gli voleva male e tramava contro di lui. Ora udite che trappola gli tese a tradimento. Scrisse due lettere con due diverse calligrafie e nei messaggi vi era dunque la prova che Palamede si era messo d’accordo con i troiani per tradire l’esercito greco in cambio di una ricompensa: questo era scritto.

In filigrana ecco affiorare l’Ulisse virgiliano, che roso dall’invidia trama contro Palamede, come ricorda Sinone En 2, 81-96 che riporta con l’aiuto dell’esegesi serviana l’intero episodio, si vedano quanto scrive Servio che ritroviamo glossato nel vat lat 2761:

Servio non solo ricostruisce con cura le ragioni dell’odio fra Palamede e Ulisse ma sottolinea il tarlo dell’invidia 2, 80:

FANDO ALIQVOD SI FORTE TVAS PERVENIT AD AVRES ‘dum dicitur’. Et utitur bona arte mendacii, ut praemittat vera et sic falsa subiungat. Nam quod de Palamede dicit verum est, quod de se subiungit falsum. Et sciendum ex hac historia partem dici, partem supprimi, partem intellegentibus linqui. Nam Palamedes, septimo gradu a Belo originem ducens, ut Apollonius dicit, cum dilectum per Graeciam ageret, simulantem insaniam Vlixen duxit invitum. Cum enim ille iunctis dissimilis naturae animalibus salem sereret, filium ei Palamedes opposuit, quo viso Vlixes aratra suspendit, et ad bellum ductus habuit iustam causam doloris. Postea, cum Vlixes frumentatum missus ad Thraciam nihil advexisset, a Palamede est vehementer increpitus. Et cum diceret adeo non esse neglegentiam suam ut ne ipse quidem, si pergeret, quicquam posset advehere, profectus Palamedes infinita frumenta devexit. Qua invidia Vlixes auctis inimicitiis fictam epistolam Priami nomine ad Palamedem, per quam agebat gratias proditionis et commemorabat secretum auri pondus esse transmissum, dedit captivo, et eum in itinere fecit occidi. Haec inventa more militiae regi allata est et lecta principibus convocatis. Tunc Vlixes, cum se Palamedi adesse simularet, ait ‘si verum esse creditis, in tentorio eius aurum quaeratur’. Quo facto invento auro, quod ipse per noctem corruptis servis absconderat, Palamedes lapidibus interemptus est. Hunc autem constat fuisse prudentem[footnoteRef:1]. [1: E’ nei margini dell’Eneide che si deposita l’antica saggezza, Palamede tradito da una falsa lettera, o la disputa sul Palladio narrato in E, 7 189, cioè una statuetta di Atena rapita da Ulisse e Diomede ]

Intanto Ulisse continua la sua fuga finché giunge da Idomeneo re di Creta. Questi chiede ragione delle misere condizioni in cui versa Ulisse e questi allora « ... li a conté / Tot en ordre la vérité, / Com c'a esté ne ou ço fu / E com ço li est avenu » (28591-28594).

Ecco allora che, ancora una volta Ulisse, come già nell’Odissea, si fa cantore del suo viaggio, un viaggio le cui tappe sono rapidamente ricordate da Ditti

5

Percontantique Idomeneo, quibus ex causis in tantas miserias devenisset, erroris initium narrare occipit: quo pacto adpulsus Ismarum multa inde per bellum quaesita praeda navigaverit adpulsusque ad Lotophagos atque adversa usus fortuna devenerit in Siciliam, ubi per Cyclopa et Laestrygona fratres multa indigna expertus ad postremum ab eorum filiis Antiphate et Polyphemo plurimos sociorum amiserit. Dein per misericordiam Polyphemi in amicitiam receptus filiam regis Arenen, postquam Alphenoris socii eius amore deperibat, rapere conatus.

Approdò circa quel tempo stesso in Creta Ulisse con due navi fenicie prese da lui a nolo(…) E domandandogli Idomeneo per quali cagioni foss’egli venuto in anta miseria , incominciò a narrargli i suoi errori; come approdato ad Ismaro, molta preda guerreggiando avesse ivi fatta, e portata seco; e capitato poi nel paese de Lotofagi e per contraria fortuna di là balzato in Sicilia molti pericoli avesse incontrati per parte de’fratelli Ciclopo e Lestrigone e de loro figlioli Antifate e Polifemo, perdendovi la maggior parte de’ suoi compagni. Indi per commiserazione di Polifemo, prese da questi in amicizia, avea tentato di rapire Arene figliuola del re innamorata di Elpenore di lui compagno…

Riprendendo la scansione degli eventi Benoit li arricchisce di “movimenti del cuore” indugiando sull’amore fra Elpenore e il compagno di Ulisse e Arene sorella di Polifemo. Ma soprattutto, si veda come questo semplice accenno all’amore si faccia occasione per narrare la dinamica dell’innamoramento, per altro capovolto perché è l’amico ad amare, come in altri luoghi in Benoit che rapidamente vedremo da cui è impossibile separarsi:

Por Arenain le vit morir:

Ne s’en poüst ja mais partir

Que morz ne fust senz nul retor,

Tant par est espris de s’amor. (vv. 28655-58)

Ulisse vide che Elpenore stava morendo d’amore per Arene: non sarebbe mai stato capace di separarsi da lei, al punto che sarebbe senz’altro morto, tanto ardeva d’amore per lei(…)

Indugiare sulle emozioni e sull’amore è un tratto certo caratteristico del romanzo, ma anche in questo caso questi personaggi arrivano carichi delle lecturae che nel tempo li hanno trasformate in icone e tra queste un posto speciale spetta all’inquietante figlia del sole, Circe (Aen 7, 10-24)

Il viaggio, racconta Ulisse, continua con l’incontro con Circe e Calipso, regina delle isole abitanti di terre periferiche che nella mitologia rcaica le relega in quella zona di marginalità dove abita il caos, il disordine che è anche disordine dei sensi:

Vbi res cognita est, interventu parentis puella ablata per vim, exactus per Aeoli insulas devenerit ad Circen atque inde ad Calypso utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris animos hospitum ad amorem sui inlicientes. Inde liberatus pervenerit ad eum locum, in quo exhibitis quibusdam sacris futura defunctorum animis dinoscerentur. Post quae adpulsus Sirenarum scopulis, ubi per industriam liberatus sit. Ad postremum inter Scyllam et Charybdim mare saevissimum et inlata sorbere solitum plurimas navium cum sociis amiserit. Ita se cum residuis in manus Phoenicum per maria praedantium incurrisse atque ab his per misericordiam reservatum. Igitur, uti voluerat, acceptis ab rege nostro duabus navibus donatusque multa praeda ad Alcinoum regem Phaeacum remittitur. (Ditti, VI, XV)

Di là spinto alle isole Eolie era capitato da Circe indi da Calipso, entrambe regine delle isole che abitavano e donne che con vezzi e carezze loro proprie potentemente innamoravano i loro ospiti.

Ancora una volta il rapido cenno di Ditti alle due regine seduttrici si sviluppa e distende in un’occasione di riflessione intorno alla potenza di amore e la magia simbolo della potenza distruttrice di eros capace di condurre gli uomini alla follia:

Après redit com faitement

Le démena oré e vent

Par mi les isles d'Eoli:

La furent il bien recoilli,

Quar dous reines i aveit,

Que nus si beles ne saveit.

Dames esteient del pais,

De grant richece e de grant pris:

Ço ert Circès e Calipsa.

Ja mais nus hom parler n'orra

De dous femmes de lor porchaz;

Nule mençonge nos en faz.

Ço dit e conte li Autors,

Qu'eles n'aveient pas seignors,

Mais li repaire des erranz

Qui par mer erent trespassanz —

Jo di reis, princes e demeines —

Erent por eles en teus peines

Que mieuz vousissent estre morz.

*Des arz saveient e des sorz:

Al herbergier les convioënt,

Après si les enebareoënt

Que sempres erent si sorpris

E si de lor amor espris espris de s’amor

Qu'en eus n'aveit reison ne sen. (vv. -28701-28725)

Nessuno sentirà mai parlare di due donne altrettanto abili nella seduzione; non sto inventando nessuna bugia a riguardo. L’autore afferma e narra che non avevano dei mariti e dei signori, ma a causa loro la sosta dei naviganti di passaggio-parlo di re, comandanti e vassalli-era talmente pericolosa che questi ultimi avrebbero preferito essere morti. Le due donne conoscevano bene le arti magiche e le divinazioni: invitavano i naviganti a fermarsi, poi li ammaliavano prendendoli alla sprovvista e facendoli ardere d’amore al punto che questi uomini non avevano più un briciolo di senno o di razionalità.

Se li trésors Oteviën

Fust lor, si lor donassent il

Ensi en ont servi a mil.

De partir d'eles ert neienz.

Trop par ert griés li lor tormenz.

Cil qui entre lor mains chaeit

Estoit sovent a mort destreit,

Quar tant ert d'eles embeüz

E tant par esteit deceûz

Qu'il ne pensast ja mais aillors.

Griefment vendeient lor amors.

Legiers esteit periz de mer

Avers le lor a trespasser.

Tot devoroënt, tot preneient;

De rien vivant merci n'aveient,

Que maint riche home e maint manant

Faiseient povre e pain querant. (vv. 28726-42)

Era impossibile separarsi da loro. Chi cadeva nelle loro mani si trovava spesso stretto in una morsa mortale, perché era talmente infatuato di loro e talmente abbindolato da non pensare più a nient’altro.

Gli ingredienti dell’amore passione ci sono tutti: un amore pericoloso perché come mettono in guardia i Padri della chiesa l’amore travolge e sconvolge la ragione e incatena l’uomo in una morsa mortale. Ed ecco allora Benoit segnare il confine fra questo vendere il proprio corpo e la fin amor:

O eles cochoënt plusor,

Mais n'i esteit pas fine amor,

Que traïson e decevance :

Grief esteit mout la desevrance.

Iço retrait danz Ulixès,

Que il chaï es mains Circès,

Mais ne li pot pas eschaper. (vv. 28743-49)

Molti andarono a letto con loro, ma la loro non era fin amor, era solo inganno e tradimento, era molto difficile separarsi da loro. Ser Ulisse raccontò di essere caduto nelle mani di Circe, ma di essere stato incapace di sfuggirle.

Ancora una volta Servio, commentatore di Virgilio, approfondisce e sottolinea la potenza della libido esercitata da questa donna che non esita a definire meretrix:

Servius, Aen 7, 10.24 DEA SAEVA aut per se, aut herbis potentibus saeva. Circe autem ideo Solis fingitur filia, quia clarissima meretrix fuit et nihil est sole clarius. Haec libidine sua et blandimentis homines in ferinam vitam ab humana deducebat ut libidini et voluptatibus operam darent, unde datus est locus fabulae. Aperte Horatius «sub domina meretrice fuisset turpis et excors».

Ma, l’amore, la letteratura ce lo insegna, spesso distribuisce male i suoi pesi, così se grazie alle sue magie Circe può ottenere dall’eroe i piaceri della carne, tuttavia s’innamora e non vorrebbe separarsi mai da lui, si noti come sempre Benoit insista su questa impossibilità di separarsi:

Bien en aveit oï parler,

E el de lui, maint jor aveit:

Quant de si grant beauté le veit,

Pense qu'o sei le retendra,

Ja mais de li ne partira.

Ses sorceries, ses essaies

A fait por lui e sescharaies;

Fort sont li art a li conjure,

Auques le torne a sa mesure.

O sei le couche: mout li plaist

Qu'illa joïsse e qu'il la baist;

E si fait il, c'est la verté. (vv. 28750-59)

Aveva già sentito molte volte parlare di lei e lei di lui, quando Circe vide che Ulisse era così bello, decise di tenerlo lì con sé, non si sarebbe mai separato da lei. Gli fece le sue stregonerie i suoi incantesimi e le sue fatture; le arti magiche dei sortilegi furono efficaci; per qualche tempo gli fece fare quello che voleva. Se lo portò a letto le piaceva molto quando lui la carezzava e la baciava e lui dunque lo faceva, è la verità.

Ainz que li meis fust trespassé,

Fu ele de lui grosse e preinz:

Fors sol adonc, ne puis ne ainz,

N'ot ele de nului enfant,

Que l’om sache ne truist lisant.

Cist fu en fiere hore engendrez

E en plus fiere refu nez :

Bien dirons al definement

En quel sen ne com faitement

Mais ici vos dirons après. (vv. 28760- 70)

Ancora una volta la secca affermazione di Ditti “« per Aeoli Ínsulas devenerit ad Circem atque inde ad Calypso utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris ánimos hospitum ad amorem sui inficientes” [footnoteRef:2] [2: Hatzantonis Emmanuel. Circe, redenta d'amore, nel Roman de Troie, in Romania, t. 94 n°373, 1973. pp. 91-102.]

Diventa semplice traccia a partire dalla quale raccontare lo strazio e paura della separazione che patisce Circe, per altro in attesa di un figlio, Circe che come Medea, ma come Merlino è là a raccontare che nulla può la magia contro la forza d’amore. E per raccontare il dolore di Circe soccorrono ancora altri libri, depositati sul tavolo del nostro Benoit, una storia di libri sedimentati intorno a lei, personaggio complesso che occupa un’estesa sezione dei racconti di Ulisse alla reggia dei Feaci e tre interi canti dell’Odissea, fino alla profezia della dea nel libro 12 (vv. 33-141)[footnoteRef:3] [3: Ambiguità e mistero velano l’affascinante statura di questa donna, multiforme come gli antidoti (φάρμακα72) che prepara con perizia; impossibile è descrivere con esattezza la natura della sua indole. Si tratta, infatti, di). Paradigmatico il suo modus operandi per trasformare in maiali i compagni di Ulisse (10, 233-236): Nel contesto del primo sbarco di Ulisse sull’isola, Circe è descritta come una perfida dea, a cui sono associati però gli epiteti αὐδήεσσα, che delinea la capacità canora umana come strumento di seduzione ed ἐυπλόκαμος, «dai riccioli belli»; dotata di un’aura potente, ella comunica coi mortali senza il bisogno di intermediari. La sua fisionomia la fa assomigliare ad un’altra eroina abbandonata, cioè la ninfa di Ogigia (cfr M. Bettini- C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, 2010; p]

Così Circe riaffiora in tanti autori latini come l’archetipo stereotipo della maga di nobile lignaggio, in quanto figlia del dio Helios e di Perse (o Persa), figlia di Oceano: Virgilio sceglierà di imitare il carmen nell’ottava egloga (vv.68-71)

e nell’Ars Amatoria (2, 99-104) Circe sarà menzionata insieme ad un’altra celebre strega Medea, simbolo, sin dalla tradizione tragica greca, di femminilità ferita e frustrata.

Ma ancora più nteressante il caso dei Remedia amoris (vv.261-288) dove il monologo di Circe, dominato dal pathos, si muove sulla scorta dei monologhi dell’Arianna catulliana e della Didone virgiliana

E’ da Circe , lo ricorda Babbi, che si genera la causa della sua fine, lei infatti attende un figlio da Ulisse, e con dolore vede partire l’amato

Donc conut bien e vit Circès

Que poi sot envers Ulixès,

Maistre a trové a sa mesure

Tel qui ne crient sort ne conjure (vv. 28789-93)

Così Circe vide e capì chiaramente di saperne poco di magia rispetto a Ulisse, aveva trovato qualcuno alla sua altezza, che non temeva incantesimi o sortilegi.

Al departir fust li dueus grant

Que fist Circès, nel pot müer,

Quant Ulixès en vit aler.

Al momento di separarsi Circe fece una scenata disperata, quando vide che Ulisse se ne andava, non poté farci nulla.

E se Ulisse presto dimentica la seducente maga , Ulisse invece attraversa altre esperienze erotiche con Calipso dove la battaglia investe amore e sapienza:

Lei giocò con lui una partita a scacchi in cui non era lui a condurre il gioco; con lui fece quello che voleva perché era di grande sapienza (…) ma a lui le cose andavano bene perché Calipso era più bella di qualsiasi altra donna : la sua compagnia sarebbe stata davvero gradevole ei l suo corpo davvero dilettevole se non li avesse venduti a così caro prezzo. Non avrebbe potuto fare nient’altro perché quella era la sua natura.

E poi con le sirene

28843

Tra i pericoli del mare , le sirene sono il peggiore: sono molto malvagie e infide: hanno voci limpide e angeliche il loro canto è più bello di qualsiasi altro. Chi le ode non riesce a fare più nient’altro e non è in grado di difendersi da loro. Nel punto dove le si sente cantare sono presenti tutti i pericoli del mare. Non si prova alcuna paura e non si desidera udire nient’altro che la loro voce….

il cui potere seduttivo era divenuto proverbiale. Così Cicerone, in un passo del De finibus bonorum et malorum (V, 18)::

Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzoni; è la conoscenza che (le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido sapientiae).

Ma proprio Cicerone ci serve ancora per raccontare l’ultimo capitolo di questa storia. In Oratore 5 Cicerone esalta tra i tragediografi latini Pacuvio il cui merito sarebbe quello di fare propria la lezione di Sofocle il più grande tragediografo greco. Non è facile comprendere l’equità del giudizio su Pacuvio dai pochi frammenti rimasti e dagli scarsi frammenti trasmessici dai grammatici. Qui ci interessa solo che ciò che Cicerone esalta nella tragedia Niptra di Pacuvio è proprio la capacità di mostrare rispetto al modello di Sofocle un Ulisse che, colpito a morte da Telegono, il figlio avuto da Circe, non lamenta il suo destino, ma uomo dignitoso nel dolore.

Ecco allora che il riferimento Ciceroniano ci conduce a quella morte di Ulisse che i nostri testi raccontano, caricandoli di quel pathos volto ad attivare la memoria. In tutta l’ultima parte della storia la morte allunga le sue ombre, una morte preparata da una catena di morti tutte familliari: Clitennestra uccide Agamennone, Oreste la madre Clitennestra gettandola in pasto ai lupi. Ma qui Benoit sembra voler riscattare lo scaltro Ulisse raccontando un altro personaggio, un uomo che, pur ormai tornato a casa, è chiamato ancora a fare i conti con il suo destino

Per preparare la chiusa prende la parola, denuncia la fatica del narratore

D'eus vos porrions mout retraire,

Mais dès or voudrai a chief traire

De ceste uevre: nos merveilliez,

Qu'auques sui las e travailliez.

Ore entendez ici après

Com faitement danz Ulixès

Fu morz e trespassez de vie:

Tel merveille n’iert mais oie. (vv. 29811 -18)

Potremmo riferirvi molte altre cose su di loro, ma ora desidererei portare a termine ques’opera: non stupitevi se sono un po’ stanco e affaticato.Ora state per ascoltare in che modo venne ucciso e perse la vita ser Ulisse: nessuno udirà mai una storia altrettanto straordinaria

Ditti in poche e scarne parole ci racconta un Ulisse, che ormai tornato a Itaca, viene spaventato da una voce che tormenta il suo sonno, voce che a un tempo spaventa e seduce crea orrore e respinge:

Per idem tempus Ulixes territus crebris auguriis somniisque adversis omnes undique regionis eius interpretandi somnia peritissimos conducit. Hisque refert inter cetera visum sibi saepius simulacrum quoddam inter humanum divinumque vultum formae perlaudabilis ex eodem loco repente edi. Quod complecti summo desiderio cupienti sibi porrigentique manus responsum ab eo humana voce sceleratum huiusmodi coniunctionem quippe eiusdem sanguinis atque originis , namque ex eo alterum alterius opera interiturum. VI. XIV

Nel medesimo tempo Ulisse atterrito dai frequenti pronostici e sogni sinistri che lo tormentavano, da ogni parte chiamò a sé chi sapesse interpretarli; ed a codesti indovini si mise a riferire come fra le altre cose più volte gli era parso di vedere un simulacro di volto fra l’umano e il divino, stupendamente bello venirgli innanzi da uno stesso luogo, il quale avendo egli sommo desiderio di abbracciarlo e porgendogli le braccia gli aveva risposto con voce umana, essere sacrilego tale abbraccio poiché erano wbtrambi dello stesso sangue e della stessa origine e che uno dei due doveva morire per opera dell’altro. E pensando egli sempre più vivamente e desiderando di sapere la cagione di tale cosa …

Ma si osservi come l’“Ulixes territus crebris auguriis” si distenda in un nuovo testo che da un lato amplifica e enfatizza la paura che coglie Ulisse che diviene in un crescendo: angosciato pauroso sospettoso

Entrepris fu e angoisssos,

Paoros, pensis e dotos

De songes e d'auguremenz.

Assembler fist les sages genz

E les devins de totes parz,

E ceus qui saveient les arz;

29825 Dist lor qu'en un lit ert couchiez

Trestoz joios e toz haitiez :

A vis li ert qu'une semblance

De tel beauté, de tel poissance

Que forme, ymage ne peinture

Ne chose d'umaine nature (vv. 29819-31)

Era preoccupato e angosciato, impaurito pensieroso e dubbioso a causa di sogni e presagi. Fece radunare da ogni dove saggi e indovini e esperti di arti magiche. Disse loro che un giorno se ne stava a letto tutto felice e contento: gli era apparsa una figura così bella, così magnifica che mai nessuna opera di fattura umana poteva essere così bella;

E dall’altro si osservi l’immagine umana e divina che come un demone incubo rompe il suo sonno si presenti nuovamente come seducente sirena che alletta i sensi e sembra invitare a un abbraccio

Ne pot estre de sa beauté, —

Bien poeit estre entre home e dé;

Nature humaine trespassot

Mais as deus ne s'apareiliot;

Meins beaus esteit, mais, ço sai bien,

Forme d'ome n'i montot rien;

Entre la nature devine

E l'umaine ert la soë fine,

Resplendissant plus a merveilles

Que li soleiz ne les esteiles ; —

«Itel esteit, itel la vi :

Merveillai m'en e esfreï

Dont ço veneit si sodement

En une hore e en un moment.

«A une part de la maison

Estot, Ço m’ert en avison ;

Ne s'aproismot pas près de mei :

Por tant en ere en tel esfrei

Que co m’en a vis maintenant,

De desirer e de talant

De lui embracier e tenir,

Que me deust li cuers partir. ( 29831-52)

La sua natura pura si collocava tra quella divina e quella umana, era straordinariamente più lucente del sole e delle stelle. “Era fatta così, io proprio così l’ho vista: mi sono spaventata e mi sono chiesto con stupore da dove fosse giunta così all’improvviso, tutto ad un tratto e in un attimo. Avevo l’impressione che si trovasse in un angolo della casa, non mi si è affatto avvicinata: per quanto fossi sbigottito a causa sua , ho avvertito subito il desiderio e la voglia di abbracciarla e di stringerla, tanto che per poco non mi si è scoppiato il cuore

Lo slancio sessuale, sottolineato dalla potenza del desiderio, si tinge di ombre a un tempo perverse e luttuose dove aleggia il tabù dell’incesto

Mout doucement li depreioë

Qu'il m'embraçast: ço desiroë.

De mei se traeit auques

E si me diseit: «Ulixès,

Saches ceste conjoncion,

Cist voleirs, ceste assembleison,

Que de mei e de tei desires,

Ço sont duel mortel, plor e ires. 29865

C'est chose de bien esloigniee,

Maudite e escomenüee.

One plus dolorose asemblee

Ne fu retraite ne contée.

Des paroles ere destreiz;

L’ho pregata molto dolcemente di abbracciarmi era questo ciò che desideravo. Mi è venuta un po’ più vicino e mi ha detto: “Ulisse, sappi che questo incontro, questo desiderio, questa unione che desideri tra me e te significa dolore mortale, pianto e rabbia. E’ una cosa lontana dal bene, maledetta e scomunicata. Non è mai stato raccontato , né descritto un legame più doloroso”

«Preioë li par maintes feiz

Que ço m'enseignast a saveir

E m'en feïst aparceveïr:

A ço covint moût grant preiere.

Puis me mostrot une manière

D'un signe itel com vos dirai:

Bien m'en membre, bien l'avisai.

Dedesus le fer d'une lance —

Bien l'ai ancore en remembrance —

Portot une torete ovree

D'os de peisson de mer salée :

Ço me mostrot, mais ne saveie,

Ne autrement ne l'enquerreie,

Que c'ert ne que senefiot

Ne que tel chose demostrot.

Puis me disei tal départir,

O duel, o lermes, o sospir,

Que c'ert d'empire conoissance

E si aperte demostrance

Que par ço serions devis

E si très morteus anemis

Que l’uns par l'autre perireit

E l'uns par l’autre fenireit.

Tant me diseit, ne plus ne meins.

Angoissos fui e d'ire pleins,

Que jo ne soi que ço voust dire. (vv. 29870-95)

Poi andandosene mi ha detto in maniera sofferta con lacrime e sospiri che quello era il simbolo del potere e mi ha spiegato chiaramente che per colpa di quel simbolo sulla lancia saremmo diventati mortali nemici tanto che uno sarebbe perito a causa dell’altro e uno sarebbe stato ridotto in fin di vita a causa dell’altro. Così mi ha detto, né più né meno. Sono rimansto angosciato e pieno di rabbia perché non sapevo che cosa volesse dire.

Ulisse riunisce gli indovini per scoprire l’arcana profezia, e comprende come molti eroi che il suo destino è morire per mano del figlio, l’ombra di Edipo affiora e dunque chiude il figlio amatissimo in una prigione inaccessibile:

Cil sera mis druz e mis sire,

Qu’il me savra entrepreter

Senz deceveir e senz fauser.»

A ço n'ot nul delaiement :

29900 Tuit li distrent comunaument

Que ço senefiot dolor,

Eissil, damage e deshonor.

Ensorquetot, sor tote rien,

Crensist son cors e guardast bien

29905 Des aguaiz son fil, çoli diënt;

Moût l'en manacent e desfiënt.

Ulixès fu sospeçonos,

Paoros, pensis e dotos

De l'augure des visions:

29910 Son fil prist, si com nos lisons,

Teleniacus, sil fist mener

En Cephalania sor mer.

La fu si fort emprisonez

E en si forz buies rivez,

29915 E si guardez par tel maistric

De cens en cui il plus se fie,

Si faitement, ja mais n'en isse

Ne a lui adeser ne puisse

En nés un sen ne en nul art.

29920 Rien ne crient mais de celé part :

En si granz buies fu roilliez

E a teus guardes fu bailliez

Que ja mar en criembra nul Jor.

Si ne fu onques graindre amor

29925 De père a fil, ne n'iert ja mais,

Que aveit o lui Ulixès,

Mais guarder vueut que ço n'avienge,

Que i'om li dit qu'il guart e crienge .

Ecco ancora una volta che il romanzo è chiamato ad amplificare l’assertivo Ditti e dare voce al dolore, allo strazio del figlio di cui nulla ci dice Ditti

Duel fait Telemacus li beaus,

Quant en buies e en aneaus

Veit qu'ensi est mis e fermez.

De son père se plaint assez;

Dit que trop grant honte li fait,

Senz ço qu'il ait vers lui mesfait

Ne en penser ne en voleir :

Mal li mostre qu'il seit son heir. (vv. 29929-36)

Il bel Telemaco si disperò quando vide che veniva imprigionato e messo ai ferri e catene. Si lamentò molto di suo padre , disse che gli stava infliggendo un disonore enorme senza che lui gli avesse mai fatto nulla di male, né col pensieri né con l’intenzione: non era quello il modo di mostrargli che era lui il suo erede.

Rinnegando il suo essere un figlio si prepara lui il saggio ad essere ingannato da un altro figlio avuto da una donna che solo in lui ha riconosciuto il suo dru, il suo amato. Ulisse è ormai assediato inseguito dagli incubi di quella visione,

E se Ditti ci dice solo

”Ulisse medesimo per evitare il pronostico di sì cattivi sogniandò a rimpiattarsi in luoghi solinghi e assai remoti”

Ecco allora la prigionia in cui si relega il nostro Ulisse, murato vivo separato dai suoi affetti più cari, lui l’eroe non può proteggersi dal destino che lo attende. Nulla sa del giovane Telegono avuto da Circe, quella strega seduttiva trasformata in una donna fedele e innamorata e in madre amorevole:

29740 Fiere parole en ont tenue

Par le règne la gent menue.

Ulixès crienst mout e dota,

29940 Que pas ne s'en aseura.

Eschiver voust cez visions

E cez interpretacions;

En un lieu sol, soutil de gent,

Ou rien n'aveit conversement,

29945 S'en ala tôt por ceste ovraigne

O mout escharie compaigne :

N'i ot home d'autre contrée,

Fors solement sa gent privée.

El plus fort lieu qu'il pot choisir,

29950 N'ou faiseit plus mal a venir,

Fist ses maisons faire e fermer

E de bons murs avironer

Sor granz fossez, sor granz terriers,

Gloses de murs e de viviers,

29955 O heriçons, o plaisseïz

E o riches ponz torneïz,

O bretesches, o chaafauz

Armez e batailliez e hauz.

En tôt le mont, mien escient,

29960 N'ot tel repaire ne si gent.

Les portes a si comandees,

Les eissues e les entrées,

Que closes seient nuit e jor :

Por parenté ne por amor

29965 Qu'il ait o rien de char vivant,

Ne l'en laissent venir avant.

La scarna narrazione di Ditti racconta del figlio Telegono che cerca di penetrare in casa:

Per idem tempus Telegonus, quem Circe editum ex Vlixe apud Aeaeam insulam educaverat, ubi adolevit, ad inquisitionem patris profectus Ithacam venit gerens manibus quoddam hastile, cui summitas marinae turturis osse armabatur, scilicet insigne insulae eius in qua genitus erat. Dein edoctus, ubi Vlixes ageret, ad eum venit. Ibi per custodes agri patrio aditu prohibitus, ubi vehementius perstat et e diverso repellitur, clamare occipit indignum facinus prohiberi se a parentis complexu. Ita credito Telemachum ad inferendam vim regi adventare acrius resistitur, nulli quippe compertum esse alterum etiam Vlixi filium. Dein iuvenis ubi se vehementius et per vim repelli videt, dolore elatus multos custodum interficit aut graviter vulneratos debilitat. Quae postquam Vlixi cognita sunt, existimans iuvenem a Telemacho inmissum egressus lanceam, quam ob tutelam sui gerere consueverat, adversum Telegonum iaculatur. Sed postquam huiusmodi ictum iuvenis casu quodam intercipit, ipse in parentem insigne iaculum emittit infelicissimum casum vulneri contemplatus. At ubi ictu eo Vlixes concidit, gratulari cum fortuna confiterique optime secum actum, quod per vim externi hominis interemptus parricidii scelere Telemachum carissimum sibi liberavisset. Dein reliquum adhuc retentans spiritum iuvenem percontari quisnam et ex quo ortus loco se domi belloque inclitum Vlixem Laertae filium interficere ausus esset. Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi ostendit. Ita Vlixes ubi vim ingruentium somniorum praedictumque ab interpretibus vitae exitum animo recordatus est, vulneratus ab eo, quem minime crediderat, triduo post mortem obiit senior iam provectae aetatis neque tamen invalidus virium.

Por ço qu'il l'a fait embuier

Emprisoner e ferleier;

30125 Quide de veir, e sin est fis,

Que il celui i aittramis

Lui ocire de maintenant.

Prent une lance mout trenchant,

Reide, forbie e aceree,

30130 Que il aveit maint jor guardee ;

A la meslee vint les sauz,

D'ire desvez, vermeiz e chauz.

Le dameisel de loinz choisist,

— Ne sot qu'il li apartenist;

30135 Veit ses homes qu'il li a morz,

De que li est granz desconforz;

Quide qu'il ait cuer e talant

De faire de lui autretant;

— D'ansdous les mains li a lanciee

30140 La lance reide e aguisiee

De tel aïr que les costez

Ot sempres toz ensanglentez.

Se il ne fust un poi guenchiz,

En petit d'ore fust feniz.

E’ l’incontro non di un padre de figlio ma di due uomini spaventati che si sentono minacciati e aggrediti:

Telegonus ot grant esfrei,

Grant crieme e grant paor de sei:

En son cler sanc sovent se mueille,

Ne trueve qui en pais l’acueille.

La lance a saisie a dous mains :

Toz forsenez e d'ire pleins,

Son père fiert par mi le cors,

Qui de maint péril ert estors

E de mainte bataille dure;

Mais itel esteit s'aventure.

A la terre jut toz envers,

Ensanglentez, pales e pers. (vv. 30145-56)

.

Ulisse ingannatore e fraudolento sembra così gioire per avere ancora una volta di avere vinto l’oracolo, l’uomo che lo ha ucciso non è l’amato figlio. Ma non è così. Prima di spirare chiede chi sia colui che ha ucciso Ulisse:

Veit qu'il est morz: mout est haitiez

E mout se fait joios e liez

De ço que les devinemenz,

Les songes, les auguremenz

A engeigniez e sormontez

E qu'il ne sont pas avérez

Sor son chier fil Telemacus

Nule rien ne quereit il plus,

Ne mais que en lui n'enchaïst

Ne parrecide n'i feïst.

Joie a qu'il en est quite e sain

E qu'autre hom a mis en lui main,

Dès qu'ensi ert a avenir.

El n'i aveit mais del morir,

Quant il retint son esperit;

A grant peine parole e dit:

«Qui iés,» fait il, «e dont es nez

N'en quel terre est tis parentez

Ne quel non as ne dont venis,

Qu'ensi as Ulixès ocis,

Le très sage, le coneu,

Celui qui tanz biens a eu,

Tantes honors e tantes gloires, (vv. 30157-79)

Capì che stava morendo ne fu fu risollevato e si mostrò assai felice e contento per aver eluso e smentito le premonizioni, i sogni e gli oracoli dato che non si erano avverati quelli riguardanti il suo amato figlio Telemaco. Non c’era cosa che desiderasse di più del fatto di non esserrsi imbattuto in Telemaco e che questi non avrebbe commesso un parricidio.

Disperata è la scoperta del figlio quando comprende che invece di riunirsi a suo padre è lui involtario assassino:

Così Ditti:

Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi ostendit.

Telegonus veit e entent

Qu'il a espleitié malement,

Son père a ocis par pechié:

Del lot se tient a engeignié,

Plore des ieuz e brait e crie,

Requiert e vueut que l'om l'ocie.

Ses cheveus blonz ront e detrait,

Tote la chiere se desfait;

En mi la place chiet pasmez:

Onques nus hom de mère nez

Si doloros duel mais ne fist. (30189-99)

30200 A Ulixès parla e dist :

«Sire dous, sire chiers, aaiis,

En si male hore vos ai quis

E en si estrange vos vei!

Por quel ne part li cuers de mei,

Quant morir vos vei par mon fait?

Trop par a ci doloros plait.

« Père, » fait il a Ulixès,

Vos m'engendrastes en Circès,

En la reine, en la vaillant,

En celi que vos ama tant.

Vostre fîz sui Telegonus,

Mais jo ne quier or vivre plus,

Quar ja mais joie nen avrai,

Dès que ensi ocis vos ai.

De l'isle dont il esteit nez

Li a les entreseinz mostrez,

Puis se repasme e chiet a denz,

Si que n'en ist espiremenz.

Ulixès sot qu'ensi esteit

30220 E que veir ert ço qu'il diseit. (vv. 30200-20)

Telegono udì e comprese di avere fatto un errore aveva ucciso suo padre per sbaglio: capì di essersi totalmente ingannato, pianse calde lacrime e e gemette e gridò chiedeva e voleva che lo uccidessero. Si strappò e si tirò i capelli biondi, si sfigurò tutto il viso, cadde a terra svenuto (...)

Si rivolse a Ulisse e disse: “Mio amato signore, mio caro signore, amico mio, vi ho cercato proprio in un momento sfavorevole, vi vedo in circostanze terribili! Perché non si spezza il cuore vedendovi morire a causa mia? Questa è una situazione davvero tragica. Padre- disse ad Ulisse- Voi mi avete generato con la valorosa regina Circe, colei che vi ha tanto amato. Sono vostro figlio Telegono, ma ora non voglio più vivere, perché dopo avervi ucciso in questo modo non proverò più alcuna gioia.”

L’Ulisse crudele artefice d’inganni sembra ora cedere il posto ad un uomo diverso pronto ad accogliere il destino e pur sofferente ad abbracciare e perdonare il figlio nato da Circe:

Ainz que l’ame s’en fust alee,

ot mout joï Telegonus;

e acolé cent feiz e plus

e conforté mout bonement. (vv. 30230-33)

Prima che l’anima di Ulisse volasse via, questi salutò con gioia Telegono; e lo abbracciò più di cento volte e lo consolò con grande affetto

Ne puet l’om dire ne retraire

L'estrange duel desmesuré

Que font la gent de son régné

E sis chiers fiz Telegonus.

3o25o Treis jorz vesqui e neient plus:

Ensi morut com vos oëz.

Mout par esteit granz sis aez,

Maint jor e maint an ot vescu:

Por quant si ert de grant vertu

E de grant force ancore al jor.

Seveliz fu a grant honor.

En Achaie l'en ont porté:

La fu enoint e embasmé,

La li firent un tel tombel

Qu'en tot le siegle n'ot si bel.

A merveilles jut hautement ;

Plainz e plorez fu longement. (30246-62)

Al parricidio il Roman de Troie oppone e amplifica la pace fraterna fra i figli di Ulisse come già fra i figli di Ettore, e Telemaco e telegono sembrano ereditare la saggezza ma non l’arte dell’inganno:

Telemacus reçut l'empire,

Après sa mort fu del tot sire ;

Coronez fu a grant hautece.

Grant valor ot e grant proëce ;

Sages fu mout e dreituriers ;

Quatre vinz anz régna entiers.

Son frère tint Telegonus

Ensemble o lui un an e plus;

De ses plaies le fist guarir:

Mires ot buens a son plaisir.

Puis en fist chevalier novel:

Meillor, plus sage ne plus bel

N'ot en nul lieu, ço sai de veir.

Puis eissirent de lui tel heir,

Qui furent haut home e preisié

E el siegle mout essaucié. (vv. 30263-78)

(…)

Circe però riesce a ritagliarsi uno spazio fra le eroine redente, l’amore per Ulisse unico amore della sua vita

Circès, sa mère o le cler vis,

30285 Ot longement plaint e ploré:

Bien li esteit dit e conté

Com faitement l'uevre ert alee;

Tote saveit la destinée.

Cremeit Teiegonus fust mort:

30290 Ne bien ne joie ne confort

N'aveit eu, puis qu'elel sot.

Quant el le vit, tel joie en ot,

Tote entroblia la dolor.

Por quant onc puis ne vesqui jor

30295 Que d'Ulixès ne li pesast

E qu'a ses dous ieuz nel plorast.

Assez vesqui Teiegonus ;

Seisante anz tint l'empire e plus.

Mout ot, mout conquist, mout valut,

Mout s'essauca e mout s'escrut.

Così Benoit chiude la vicenda del multiforme Ulisse πολύτροπος, capace di affrontare i πολλὰ ἄλγεα “molti dolori” e se un’altra sarà la fine di Ulisse che un grande poeta come Dante riuscirà a imporre, può valer la pena osservare che questa storia viene da lontano, ha camminato attraversando tempi luoghi testi per arrivare con il suo fardello di scorie.