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COMPETITIVITA’ E CRESCITA DEI SETTORI INDUSTRIALI 1

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COMPETITIVITA’ E CRESCITA DEI

SETTORI INDUSTRIALI

Corigliano Stefania 157807

Gualtieri Vanessa 157781

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INTRODUZIONE

Nel presente lavoro andremo a vedere se esiste una relazione tra competitività e crescita economica dei settori industriali italiani. Partiremo con dei cenni sulla competitività e individueremo l’internazionalizzazione come una delle strategie alla base della crescita; supporteremo questa relazione attraverso il modello di Melitz. Tra le varie forme di internazionalizzazione, ci soffermeremo sulle esportazioni. Infine analizzeremo il settore industriale italiano mettendo in evidenza i settori industriali più competitivi sul territorio nazionale e globale.

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1. COMPETITIVITA’: NOZIONI GENERALI

La redditività di un'impresa non dipende tanto dal campo di attività in cui opera, ma dalla posizione competitiva che occupa in quel campo. La competitività si configura come un insieme di strategie e politiche aziendali praticate dalle imprese volte a identificare un vantaggio competitivo, tenendo conto delle altre rivali sul mercato. Determinanti del vantaggio competitivo sono le competenze distintive, intese come le capacità e le conoscenze che l'impresa possiede a livello di eccellenza. Il punto focale di ogni strategia competitiva consiste nella identificazione, ricerca e difesa di una posizione di vantaggio competitivo. La competitività va giudicata sia con riferimento al grado di apprezzamento espresso dal mercato verso i prodotti (beni o servizi) che essa realizza sia in relazione alle risorse che essa impiega. Un'impresa è economicamente vitale se coniuga la soddisfazione dei clienti con la soddisfazione dei portatori delle risorse. Il vantaggio competitivo si può configurare come:

vantaggio competitivo di costo, si ha se un impresa in un determinato business fornisce prodotti (beni o servizi) di valore simile a quello della concorrenza, ma riuscendo a produrre tali prodotti a costi strutturalmente inferiori a quelli sostenuti dalla stessa concorrenza;

vantaggio competitivo di differenziazione, si ha se un impresa in un determinato business è in grado di realizzare a costi simili a quelli della concorrenza prodotti di valore sostanzialmente superiore.

Le principali determinanti del vantaggio competitivo sono: fattori istituzionali; localizzazione; esperienza; presenza sul mercato; scala dimensionale; flessibilità; collegamenti a monte; collegamenti a valle; sinergie di portafoglio; internazionalizzazione.

Vanessa Gualtieri

2. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE: UNA STRATEGIA PER CRESCERE

Il processo d’internazionalizzazione è passato dall’essere una opzione strategica ad una “esigenza di sopravvivenza” per le singole imprese. L’internazionalizzazione è un fenomeno multidimensionale, che ha luogo attraverso diverse forme: scambi commerciali, trasferimenti di attività all’estero, acquisizioni, fusioni e altre forme di attività complesse. L’internazionalizzazione è un fenomeno che interessa non solo le grandi imprese, ma anche le Pmi, le quali devono mantenere un certo grado di competitività dato il contesto globalizzato. L’internazionalizzazione ha costi, specifici per prodotto e mercato, che sono irrecuperabili (sunk cost) e quindi possono essere sostenuti dalle imprese più produttive. Si tratta di costi quali spese di trasporto, informazione, impianti per canali di distribuzione, spese per l’adeguamento ai gusti dei consumatori e per le normative del paese in cui si esporta. Vi è pertanto un’“auto-selezione” delle imprese che

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accedono ai mercati esteri e il favorire di “processi di apprendimento” che rendono le imprese che li attuano più efficienti. Tra i nuovi modelli del commercio internazionale, il modello di Melitz (2003) tratta l’effetto di autoselezione generato dalla presenza di costi fissi, determinandone lo status di aziende esportatrici per ciascun settore. Intraprendere un’attività imprenditoriale comporta il sostenimento di costi specifici che sono sicuri e anticipati mentre i risultati sono incerti e ritardati. L’imprenditore viene a scoprire interamente l’appetibilità del suo prodotto o la produttività della sua impresa solo dopo aver pagato tutti i costi necessari ad entrare nel mercato e nel momento in cui si confronta con la concorrenza. Nel confronto concorrenziale emergono vincitori e vinti. I primi riescono a praticare prezzi più bassi a parità di qualità o ad offrire qualità superiore a parità di prezzo. In breve, sono più produttivi e conquistano quote di mercato a scapito dei secondi. Si crea così il fenomeno di “distruzione creativa” in virtù del quale le imprese migliori generano ampi profitti, le mediocri fanno profitti inferiori, le peggiori scompaiono rapidamente perché incapaci di coprire i loro costi di produzione con i ricavi. Lo spartiacque tra successo e fallimento è rappresentato dalle cosiddette “imprese marginali”, cioè quelle che riescono a generare ricavi appena sufficienti a coprire i costi e che, quindi, non fanno alcun profitto. La loro produttività individua la soglia minima al di sotto della quale è impossibile per un’impresa sopravvivere sul mercato. È questa “soglia di sopravvivenza” a determinare la produttività media delle imprese attive: maggiore la soglia, più occorre essere produttivi per rimanere sul mercato. La soglia di sopravvivenza dipende:

differenziazione dei prodotti. Un minor grado di differenziazione dei prodotti aumenta la soglia di sopravvivenza. La ragione è una maggiore concorrenza, che genera minori margini di profitto per tutte le imprese indipendentemente dalla loro produttività e, quindi, spinge le imprese marginali fuori mercato. Ne risulta una maggiore produttività media nella misura in cui le imprese meno produttive cedono le loro quote di mercato a vantaggio di quelle più produttive.

minori costi del lavoro, del capitale o dei servizi, e migliori infrastrutture fisiche o burocratiche aumentano la soglia di sopravvivenza, perché stimolano la R&S e l’ingresso sul mercato di nuove imprese più produttive. Lo stesso effetto hanno minori spese di R&S e minori barriere all’entrata.

dimensione del mercato. In un mercato più grande, i clienti hanno maggiore scelta in termini di fornitori. Questo erode il potere di mercato delle imprese, comprimendone i margini di profitto e costringendo le imprese marginali ad abbandonare il mercato. In altre parole, in un mercato più grande la soglia di sopravvivenza è più alta. Da qui si capisce anche l’impatto dell’apertura del mercato locale verso l’esterno. Poiché un mercato aperto equivale a un mercato più grande, l’apertura aumenta la soglia di sopravvivenza mettendo in crisi, ancora una volta, le imprese marginali. Sotto tale soglia di produttività, produrre per i mercati esteri significherebbe conseguire profitti negativi e quindi l’uscita dal mercato.

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L’effetto appena descritto da Melitz di self-selection, è uno degli effetti di pre-ingresso nel mercato dell’export .Tra gli effetti di post-ingresso nel mercato dell’export vi è invece l’effetto di learning by exporting. Quest’ultimo, combinato all’utilizzo di economie di scala, determina un aumento di efficienza dell’impresa che compie attività di esportazione. I due effetti, spiegano la relazione tra internazionalizzazione e produttività: da un lato, l’effetto di “self-selection” spiega l’autoselezione delle imprese all’ingresso sui mercati internazionali in base al loro grado di produttività; dall’altro l’effetto di “learning by exporting” spiega la crescita di produttività come conseguenza dell’attività di esportazione o in generale di un qualsiasi altro processo di internazionalizzazione.L’internazionalizzazione ha inoltre effetti rilevanti sulla crescita economica, anche se attuata in modo non diretto, attraverso esternalità positive in termini di acquisizione di conoscenze e tecnologia da parte dell’impresa che si internazionalizza, con un impatto favorevole, quindi, su produttività e competitività.Il commercio internazionale può servire come canale per la diffusione della tecnologia attraverso due modi: (i) le imprese acquisiscono nuove conoscenze e incorporano nuove tecnologie, entrando in contatto con i loro competitori; (ii) gli acquirenti tecnologicamente sofisticati, a cui sono destinati i prodotti esportati, trasferiscono progettualità tecnica e know-how alle aziende che esportano. Un effetto indiretto riguarda la possibilità di technology sourcing delle imprese che investono all’estero, le quali possono accedere a competenze e tecnologie nei paesi ospiti, dando luogo a un processo di trasferimento tecnologico “a ritroso” (dalle filiali estere alla casa madre), di cui possono finire per beneficiare anche i concorrenti e i fornitori sul mercato nazionale, attraverso le esternalità tecnologiche. Questi trasferimenti di tecnologia, legati all’espansione internazionale delle imprese, non incrementano solo la produttività delle aziende, ma possono generare anche cambiamenti strutturali nel paese di origine, in termini di skill-intensity del capitale umano.La competitività internazionale delle imprese comporta che le imprese marginali escono dal mercato a vantaggio di quelle più produttive, che riescono a praticare prezzi più bassi a parità di qualità o ad offrire qualità superiore a parità di prezzo. L’aumento di produttività a livello micro di azienda, genera crescita del settore e crescita economica per il paese.La relazione tra internazionalizzazione e produttività la possiamo leggere anche attraverso le seguenti tabelle.

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Dalla lettura del grafico è confermata il fatto che le imprese esportatrici sono quelle di dimensioni più elevate e con un fatturato più consistente, mentre le imprese non esportatrici sono prevalentemente quelle di piccole dimensioni.Ciò è confermato anche a livello settoriale.

Imprese esportatrici: fatturato da esportazione nei comparti manifatturieri e composizione per classi dimensionali (anno 2009) e variazioni % 2008-2009

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Esiste una relazione tra internazionalizzazione e produttività: le imprese che esportano sono più produttive e più grandi di quelle che non esportano, hanno una performance migliore; in particolare generano un valore aggiunto più alto, hanno una più elevata intensità di capitale, hanno una più elevata produttività, e pagano stipendi maggiori.

Vanessa Gualtieri

3. ESPORTAZIONI

Nel corso degli anni Duemila gli sforzi di riposizionamento, geografico e qualitativo, delle nostre esportazioni sono stati notevoli. Le imprese italiane hanno intensificato la loro capacità di servire mercati “nuovi” ad alto potenziale, dall’Est Europa, al Medio Oriente e Nord Africa, all’Asia. Il ruolo più elevato dei “nuovi” mercati ma anche delle nuove relazioni commerciali evidenzia una maggiore capacità da parte degli esportatori italiani di intercettare ogni opportunità di domanda, per quanto piccola e spesso non duratura, anche in virtù di una più alta diversificazione di prodotto e di dimensioni medie più piccole, che consentono un’alta flessibilità operativa. Le nostre imprese si dimostrano in tal modo dinamiche anche se spesso, “aggredendo” i mercati individualmente e non a livello di sistema, creano poche esternalità per l’intero tessuto produttivo italiano. Il “modo italiano” di stare sui mercati non ha posto le nostre imprese al riparo dalla concorrenza della Cina, che nel corso degli anni Duemila è divenuta il nostro principale competitor, dopo la Germania. L’Italia ha mostrato rispetto a questi ultimi un percorso più difficoltoso, segnato da un ridimensionamento, seppur lento e contenuto delle quote di mercato. Le cause di questo relativo declino sono principalmente tre: una è senza dubbio la crisi economica e finanziaria che ancora sta facendo sentire i suoi effetti negativi sul sistema produttivo e sull’occupazione. In seconda battuta è da ricordare la costante crescita della produttività di Paesi come ad esempio India, Cina e nazioni dell’est europeo che, grazie a un basso costo della manodopera, risultano essere più competitive sul mercato per via prodotti messi in vendita a prezzi concorrenziali. Da ultimo, non bisogna trascurare i problemi causati dal passaggio dalla lira alla moneta unica europea. L’introduzione dell’euro ha generato un aumento dei prezzi superiore quasi di un punto alla media europea provocando una erosione di competitività per le nostre merci e conseguenti danni in termini di quote di mercato. Prezzi che provano la messa in atto di una speculazione all’epoca agevolata dai controlli inesistenti.

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QUOTE SUI MERCATI MONDIALI (DOLLARI CORRENTI)

In una situazione di crisi in cui si trova il mondo occidentale da oltre 6 anni e ancor più in una situazione di recessione per l’Italia, la domanda estera, in particolare da parte di alcuni Paesi emergenti, è al momento l’unica forza trainante, seppure con alcune incertezze in prospettiva. Le imprese italiane devono pertanto puntare di più e in modi nuovi sui mercati esteri. Questo è vero sia per quelle che già hanno intrapreso questa strada e devono ampliare i bacini di riferimento, sia per quelle orientate al mercato interno e che necessitano di nuoveleve per l’aumento del fatturato. L’export italiano risente della minore velocità degli scambi mondiali. La crescita in valore delle nostre esportazioni di beni è rallentata rispetto agli annipassati, crescendo solo del 5% nel 2012 e del 7,2% nel 2013. Questa dinamica risulta comunque migliore di quella in volume, a evidenziare l’importante ruolo della componente di prezzo. Ciò è reso possibile dal ridimensionamento delle produzioni di fascia bassa e dall’innalzamento qualitativo dei beni, che accresce il potere di mercato per le imprese esportatrici italiane. L’andamento dell’export di servizi sarà più lento rispetto a quello dei beni e il suo peso sul totale delle esportazioni italiane rimarrà invariato. Questo fenomeno è in controtendenza con quanto osservato in altri Paesi, dove il progresso tecnologico ha modificato la natura dei servizi, rendendoli sempre più tradable. Le esportazioni e l’impatto che hanno sulla crescita del Paese dipendono dai diversi settori e dagli andamenti degli stessi nei paesi in cui avvengono gli scambi commerciali; dalla domanda dei Paesi di destinazione; dalla competitività di prezzo; cambiamenti nelle economie dei Paesi di destinazione e da altri indicatori di competitività.

Vanessa Gualtieri

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3.1 COSA E DOVE ESPORTA L’ITALIA

Nonostante la crisi, l’Italia resta uno dei principali Paesi esportatori del mondo, classificandosi intorno alla settima/ottava posizione. Secondo i dati Istat elaborati dal ministero dello Sviluppo economico, l’interscambio commerciale complessivo del nostro Paese ha raggiunto nel 2011 i 775 miliardi di euro, con un incremento del 44% in dieci anni. Dal 2001 sono cresciute le esportazioni (da 273 a 376 miliardi, +38%), ma ancor più le importazioni (da 264 a 400 miliardi, +51%). Questa dinamica si traduce in un allargamento della forbice dei saldi, cioè la differenza tra quanto l’Italia esporta e importa in un anno: contrariamente al periodo 2001-2003, infatti, i saldi mostrano il segno meno, con circa 24 miliardi di disavanzo della bilancia commerciale. Nell’ultimo biennio le esportazioni e le importazioni hanno registrato rispettivamente un incremento del 15% e del 23% annuo circa. La crescita delle esportazioni ha contraddistinto i principali settori del sistema economico italiano. Esportiamo macchinari (53 miliardi), autoveicoli e accessori per auto e motori (22), abbigliamento e calzature (20), petrolio raffinato (15), prodotti chimici (12) e farmaceutici (12). L’export alimentare complessivo ammonta nel 2011 a circa 17 miliardi di euro, ma non tutti i dati sono così lusinghieri: nel 2009 l’Italia ha esportato 111 milioni di food & drink in Cina, mentre nello stesso periodo la Francia esportava 908 milioni. Il "made in Italy" piace molto all’estero, perché è sinonimo di eleganza, raffinatezza ed ha quel pregio che viene conferito dalla qualità "artigianale" dei prodotti esportati.Importiamo in misura significativa energia (39 miliardi di petrolio greggio e 19 di gas naturale).

Le “direzioni” seguite dalle esportazioni italiane hanno subìto qualche cambiamento negli anni, come si può osservare nei grafici seguenti.

Anno 2000

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Anno 2011

Dal confronto dei due grafici, notiamo come nel 2000 le esportazioni italiane erano fortemente concentrate verso i paesi dell’UE con una quota pari al 55% contro il 45% attuale. Infatti le esportazioni italiane stanno aggredendo sempre più i paesi emergenti quali Brasile, Canada, Messico, Thailandia, Turchia, India, Giappone, Medio-oriente. Il principale Paese destinatario delle esportazioni italiane è la Germania (46 miliardi nel 2011) dove l’Italia conquista nuovi spazi di mercato in settori quali meccanica, prodotti e materiali per le costruzioni, elettronica, farmaceutica, alimentare e bevande; seguita dalla Francia (40 miliardi), Spagna (18 miliardi), Belgio (9), e Polonia poco sotto. Una quota rilevante viene esportata anche in Svizzera pari a 19 miliardi. Gli scambi commerciali dell’Italia con il più grande fra i Paesi importatori del mondo, gli Stati Uniti, ammontano in tutto a 34 miliardi di dollari nel 2011: cifra incomparabile con i 399 miliardi cinesi, i 317 canadesi, i 263 messicani e i 129 giapponesi, ma anche decisamente inferiore ai 98 miliardi venduti dai tedeschi, dei 51 britannici e dei 40 francesi. Andamenti di mercato meno positivi ma con segnali incoraggianti per la competitività dell’industria italiana caratterizzano le esportazioni verso la Cina. Il gigante asiatico a partire dai primi mesi del 2012, ha ridotto le importazioni di manufatti, in particolare dei beni più legati all’attività industriale e di infrastrutturazione, come meccanica ed elettrotecnica, condizionando così l’export complessivo italiano specializzato in questi settori. Dati positivi si segnalano invece per mobili, componentistica auto, farmaceutica e, soprattutto, sistema moda.

Fra i limiti strutturali dell’export italiano, si registra comunque un Paese che viaggia a due velocità: nel 2010 il Nord ha scambiato con l’estero oltre 240 miliardi di euro, pari al 71% del totale nazionale. Tutte le prime cinque regioni esportatrici (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte e Toscana) e le prime quindici province si trovano nell’Italia centro-settentrionale. Dal Sud e dalla Sicilia, che contano per il 32% della popolazione, è arrivato appena il 10% del valore delle esportazioni. Emerge così un quadro molto frastagliato, in

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cui l’export procapite dell’Italia è pari a 5.600 euro, ma si tratta in realtà di una media aritmetica fra gli 8.700 del Nord (in Germania è a 9.800) e i 1.735 del Sud.

Vanessa Gualtieri

4. ALTERNATIVE PER FAVORIRE LA CRESCITA E LA COMPETITIVITA’ DELLE PMI

La crisi economica e finanziaria e l’alta globalizzazione hanno modificato il commercio internazionale e aumentato la competizione su scala mondiale. In un contesto così definito, le piccole imprese italiane faticano a restare sul mercato estero. Non è sufficiente la sola specializzazione settoriale che permette di conquistare opportunità di nicchia, sono necessarie altre strategie che consentano anche alle piccole imprese di internazionalizzare. Tra le soluzioni possibili per le Pmi italiane troviamo:

· Global value chain· Reti d’imprese

Attraverso tali soluzioni la singola impresa può focalizzarsi sul segmento di attività in cui creano maggior valore, portando fuori dal proprio perimetro produttivo le attività che considerano secondarie per affidarle ad altre imprese che possano portarle a termine in maniera più efficiente. Ne deriva un’organizzazione della produzione in forma sequenziale tutte le fasi intermedie di produzione possono coinvolgere reti di imprese che si disperdono in diversi paesi. Le Cgv facilitano il miglioramento non solo dei processi, dei prodotti e intersettoriale (upgrading qualitativo), ma anche funzionale (upgrading funzionale, es. acquisizione di nuove funzioni) e delle relazioni tra i soggetti (upgrading relazionale, es. la creazione di una rete di fornitori). In ultimo, consentono la riduzione dei costi. In Italia si stanno inoltre diffondendo le reti d’impresa, con l’obiettivo anche di superare determinati ostacoli all’export. Le reti permettono infatti alle imprese crescita dimensionale e finanziaria, aggregazione delle competenze, aumento della capacità produttiva, garantendo al tempo stesso di mantenere la propria individualità e superando il nanismo d’impresa. Tre quarti delle Pmi che hanno esperienze di internazionalizzazione sono in una rete da più di dieci anni.

Vanessa Gualtieri

5. PANORAMA INDUSTRIALE

In Italia esiste un forte dualismo territoriale che vede concentrarsi la maggior parte delle attività produttive nel nord Italia e soprattutto in Lombardia e Piemonte, seguono Veneto ed Emilia Romagna. In queste aree, di più antica industrializzazione sono numerose le imprese

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sia pubbliche che private che possono contare su grandi impianti, capitali e grandi specializzazioni. L’economia dell’Italia centrale si basa soprattutto su piccole e medie imprese mentre il meridione rimane nel complesso poco industrializzato. Inoltre, nel paese esistono storiche contrapposizioni tra poche, grandi aziende leader nel proprio settore e moltissime imprese medio-piccole.Stando agli ultimi dati dell’Istat, pubblicati a fine 2012 e relativi all’anno 2010, il panorama italiano conta 4.372.143 imprese del settore dei servizi e dell’industria. La dimensione media è 3,8 addetti per impresa, con un valore aggiunto di 708 miliardi. Si tratta per il 95% di microimprese (meno di 10 addetti), che realizzano un valore aggiunto pari al 31,1%. Le grandi imprese (almeno 250 addetti), sono 3.495 unità e contribuiscono al valore aggiunto per il 31,9%. Il restante contributo al valore aggiunto è dato dalle medie imprese. Il settore dei servizi conta il 76% delle imprese, l’industria in senso stretto (attività manifatturiere, attività estrattive, attività di fornitura di gas energia e acqua) rappresenta il 10,1% delle imprese, infine le costruzioni con il 13,9% delle imprese.Per misurare la variazione nel tempo del volume fisico della produzione effettuata nel settore dell’industria in senso stretto, si utilizza l’indice di produzione industriale. Esso si basa su una rilevazione statistica condotta mensilmente presso le imprese, che forniscono informazioni dettagliate riguardo alla produzione di specifici prodotti, appartenenti a un paniere di riferimento scelto in modo da essere rappresentativo dell’insieme delle attività produttive presenti nell’industria italiana. I dati provenienti dalle imprese, opportunamente aggregati, danno luogo ai numeri indice relativi alle singole voci di prodotto. Gli indici elementari sono poi sintetizzati per attività economica, utilizzando una struttura di pesi fissi che riflette la distribuzione settoriale del valore aggiunto industriale nell’anno base (il 2010 nell’attuale versione). Si focalizza l’attenzione sull’evoluzione della produzione lorda, la quale nel breve periodo può costituire un’approssimazione accettabile della dinamica del valore aggiunto. Le variabili utilizzate per cogliere l’evoluzione della produzione sono: le quantità fisiche dei singoli prodotti (con varie unità di misura adattate allo specifico processo produttivo), il valore della produzione opportunamente deflazionato e le ore lavorate (corrette con un indicatore di produttività del lavoro). I settori con maggiore incidenza nell’indice della produzione industriale sono quelli dell’industria della metallurgia e fabbricazione dei prodotti in metallo (con un peso del 14,0%) e quello della fabbricazione di macchinari e attrezzature non classificate altrove (12,1%).Andiamo in dettaglio ad analizzare il settore dell’industria.

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Nel 2011 la quota di valore aggiunto dell’industria è stata del 25,1%, di cui il 19% è rappresentato dall’industria in senso stretto e il 6,1% dalle costruzioni. Il valore aggiunto del settore industriale ha avuto un incremento dell’1,1% tra il 2000-2007, tra il 2008-2009 ha registrato una flessione di 8,4 punti percentuali, una ripresa del 4,4% nel 2010 e un lieve incremento dello 0,1% nel 2011. Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto è salito nel 2011 dell’1,2% rispetto al 2010, mentre il valore aggiunto delle costruzioni nel 2011 è sceso dello 0,4 rispetto al 2010. Nello stesso anno rispetto al precedente, la produttività è aumentata per l’industria in senso stretto dello 0,5%, mentre per le costruzioni è diminuita dello 0,4%.La produttività tra il 2000-2007 è aumentata dello 0,3%, tra il 2008-2009 è scesa di 4,4 punti percentuali, nel 2010 è salita di 7,5% e nel 2011 dello 0,5%.La performance di valore aggiunto e produttività è stata tuttavia molto differenziata tra settori e, al loro interno, tra imprese: all’andamento negativo di alcune produzioni più tradizionali si è contrapposto quello, più favorevole, dei settori a intensità tecnologica medio-alta; le imprese che già erano orientate all’innovazione e all’internazionalizzazione sono state quelle che meglio hanno fronteggiato l’indebolimento congiunturale.

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Tra le produzioni manifatturiere, i comparti della metallurgia, delle macchine e apparecchi meccanici e, in misura minore, dei prodotti farmaceutici e alimentari hanno confermato la tendenza espansiva avviata nel 2010. Una forte contrazione del valore aggiunto si è invece verificata nelle imprese che producono apparecchiature elettriche, mezzi di trasporto, prodotti tessili e petrolchimici. Nell’ultimo decennio la riduzione del peso dei settori tradizionali (in particolare del settore tessile, abbigliamento e pelle) è avvenuta a favore di altre produzioni con contenuto tecnologico medio-alto. Il peso dei settori manifatturieri a più alta tecnologia (prodotti farmaceutici, computer, prodotti di elettronica e ottica) è basso e sostanzialmente invariato negli ultimi vent’anni. Il crescente ruolo delle fonti rinnovabili all’interno del sistema energetico italiano contribuisce a ridurre la dipendenza energetica e l’impatto sull’ambiente e inoltre fornisce uno stimolo ai settori domestici che realizzano gli impianti o parte della componentistica.

L’indicatore sintetico di competitività dei settori manifatturieriPer misurare la competitività del settore manifatturiero italiano si utilizza un “Indicatore sintetico di competitività” (Isco). Esso tiene conto di quattro dimensioni della competitività: competitività di costo, redditività, performance sui mercati esteri e innovazione. . Per ognuna di queste quattro dimensioni, corrispondono quattro diversi indicatori: il rapporto tra valore aggiunto per addetto e costo unitario del lavoro; la redditività lorda; la quota di fatturato esportato; e la propensione all’innovazione. L’Isco ha confermato che, negli anni della crisi, i settori che meglio hanno affrontato questa fase congiunturale sono quelli ad alto contenuto tecnologico rispetto a quelli tradizionali. Infatti nel 2010 il gruppo della farmaceutica, chimica, meccanica e fabbricazione di apparecchiature elettriche e non, ha raggiunto oltre un quarto del valore aggiunto manifatturiero (27,4 per cento); mentre ha contribuito per il 13% del valore aggiunto il gruppo di settori quali riparazioni, stampa, legno, mobili e abbigliamento; peggiorano notevolmente la loro posizione i settori della raffineria e metallurgia. I rimanenti settori si collocano nella parte centrale della graduatoria, con performance relativamente più positive per le altre industrie manifatturiere e gli autoveicoli, e relativamente peggiori per i prodotti in metallo e i minerali non metalliferi. Confermano, dunque, il loro declino i settori più tradizionali, con la parziale eccezione del settore del tessile, dell’alimentare e delle bevande.

Stefania Corigliano

5.1 CARATTERISTICHE DEL SISTEMA INDUSTRIALE

Il vantaggio comparato rivelato dal nostro Paese si concentra nei settori definiti “tradizionali” (tessile, abbigliamento, pelli e calzature) e nella meccanica strumentale. Il modello di specializzazione dell’Italia, sostanzialmente stabile dagli ultimi 40 anni, mostra che il nostro Paese ha saputo rafforzare i suoi vantaggi comparati sfruttando economie di scala, meccanismi di apprendimento e riposizionamento verso l’alto di gamma. L’Italia ha

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pertanto una struttura industriale caratterizzata da un marcato dualismo: da un lato, la quota di industrie ad alta intensità di lavoro e tradizionalmente classificati come industrie a bassa intensità di tecnologia (tessile, abbigliamento e calzature) è maggiore rispetto agli altri Paesi industrializzati; dall’altro lato, alcune industrie ad alta intensità di tecnologia sono altrettanto forti (meccanica strumentale), nonostante il Paese sia sostanzialmente assente dagli altri settori al alto contenuto tecnologico. Tuttavia la tradizionale classificazione dei settori tessile, abbigliamento, pelli e calzature come industrie a bassa intensità di tecnologia non considera però il valore della conoscenza contenuta nelle funzioni immateriali all’interno di tali industrie (design) e il contenuto di tecnologia dei materiali innovativi utilizzati nelle produzioni cosiddette tradizionali.La specializzazione internazionale dell’Italia ha suscitato preoccupazioni circa l’anomalia italiana rispetto agli altri principali Paesi industrializzati e sollevato dubbi circa la sostenibilità di tale modello nei confronti dei Paesi emergenti. In primo luogo, è stato avanzato il timore che la persistente specializzazione merceologica delle esportazioni italiane nei settori tradizionali abbia escluso l’Italia dai prodotti che negli ultimi anni si sono dimostrati più dinamici, in particolare i prodotti legati al settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In secondo luogo, la specializzazione in settori ad alta intensità di lavoro espone l’Italia a forti pressioni competitive da parte dei Paesi emergenti, soprattutto asiatici, i quali possono ambire a competere direttamente con le produzione italiane.

Stefania Corigliano

5.2 ANALISI SETTORIALE

Analizziamo in dettaglio i settori in cui il Made in Italy è riconosciuto a livello mondiale, sottolineando il valore aggiunto non indifferente, che il consumatore gli riconosce.

SETTORE TESSILE-MODAIl settore tessile-moda comprende tessuti, filati, tessile casa, abbigliamento, maglieria e calzetteria. Tale settore rimane all’avanguardia a livello mondiale, soprattutto grazie ai fattori della creatività, dell’originalità, del design e delle tecnologie, confermandosi uno dei settori trainanti per quanto riguarda il Made in Italy. E’ un sistema tendenzialmente in crescita nonostante l’Italia non sia favorita né dalla ricchezza di materie prime né dal costo del lavoro.La moda Italiana si specializza sempre più su prodotti di qualità media-alta per via della crescente competizione dei paesi emergenti che si focalizzano invece su fasce di bassa qualità. Il modello competitivo globale si basa su un crescente investimento in Ricerca e Sviluppo (esigenze innovative continue, design, nuovi materiali), in marketing (branding, comunicazione, pubblicità e controllo della catena distributiva) e sullo sfruttamento dell’integrazione dalla filiera produttiva. Infatti, in un contesto di supply chain globali, l’importante sembra essere non tanto produrre tutto e solo in Italia, quanto piuttosto avere

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certezze e pieno controllo di dove e come le diverse attività produttive sono realizzate, essendo la tracciabilità la base su cui impostare, da un lato, una gestione efficace ed efficiente della filiera produttiva e, dall’altro una comunicazione trasparente e corretta ai consumatori finali.Gli aspetti principali caratterizzanti le strategie adottate dalle aziende del sistema moda Italia sono stile e design, qualità e reputazione. Seguono servizio al cliente, innovazione, prezzo e artigianalità. Risultano, invece, valori meno frequenti la flessibilità, il contenimento dei costi, shopping experience e reattività.Da un’analisi condotta dall’osservatorio moda, risulta che:

· Le aziende che mantengono un controllo elevato sia sul processo di sviluppo della collezione (intesa come progettazione dei prodotti) sia sulle attività produttive sono aziende di grandi dimensioni che realizzano in media il 60% del fatturato all’estero;

· Le aziende che delocalizzano l’attività di produzione e mantengono in Italia lo sviluppo della collezione sono aziende anch’esse di grandi dimensioni che realizzano all’estero circa il 33% del fatturato;

· Le aziende che attingono all’estero le competenze per lo sviluppo della collezione e si appoggiano massicciamente ad una rete di fornitura esterna sono aziende di media dimensione che hanno una bassa percentuale di esportazione all’estero, il 20% in media;

· Tra le piccole aziende prevale la scelta di mantenere in Italia la produzione invece, per quanto riguarda lo sviluppo della collezione solo poche aziende decidono di delocalizzare. Il fatturato estero realizzato da queste ultime si aggira intorno al 10%.

L’export del sistema moda si attesta nel 2012 a 51,2 miliardi di euro e i principali clienti sono Francia, Germania, Stati Uniti, Svizzera, Spagna e Regno Unito.

Esportazione del settore e media manifattura-Anni 2001-2012 (variazioni %)

Dal grafico notiamo che tra il 2001 e il 2004 l’andamento delle esportazioni ha subito variazioni positive e negative intorno al 10%, tra il 2004 e il 2008 c’è stato un andamento

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altalenante in un range di valori percentuali più alti e un scostamento rispetto alla media manifatturiera. Gli anni della crisi hanno provocato una caduta delle esportazioni e la successiva ripresa si è avuta a partire dal 2010.

SETTORE MECCANICA STRUMENTALEIl settore della meccanica strumentale italiana è giunto ad occupare stabilmente i posti di testa nelle graduatorie mondiali, in questo sopravanzando quasi tutti gli altri settori industriali del paese; si può tranquillamente affermare che da molti anni “è uno dei punti di forza del sistema economico nazionale” ed a pieno diritto rientra ora tra i settori prioritari d’intervento nazionali: il “made in Italy”. Nella produzione di macchinari l’Italia è seconda solo dopo la Germania.Il settore comprende la costruzione di beni strumentali, quali: macchine e attrezzature per ceramica, macchine per la lavorazione del legno, macchine per l’industria grafica e cartaria, macchine per l’industria tessile, macchine e materiali per fonderie, macchine e stampi per materie plastiche e gomma, macchine per calzature, pelletteria e conceria, macchine e attrezzature per la lavorazione delle pietre naturali, macchine e accessori per il vetro, macchine per confezionamento e imballaggio e macchine agricole. Il numero di imprese attive in questo settore sono 41.497 le quali producono un fatturato medio di 3 milioni di euro.Le competenze che hanno consentito di mantenere il vantaggio competitivo in questo settore sono: qualità e affidabilità dei prodotti e dei servizi ad essi collegati; innovazione tecnologica continua; capacità di offrire soluzioni integrate; personalizzazione dell’offerta sulle esigenze specifiche del singolo cliente. Alla base di queste competenze distintive che costituiscono i fattori critici di successo delle imprese italiane, emerge evidente il ruolo giocato dalle risorse umane, risorse in grado di “fare la differenza”, risorse dotate di elevatissime conoscenze e competenze professionali. Il settore della meccanica ha subito una profonda crisi nel 2009, anno in cui la produzione è scesa del 30% rispetto al 2008. Il 2010 è stato un anno di crescita grazie alla domanda trainante del mercato estero, molto più consistente rispetto al mercato domestico. Infatti in quest’anno l’export ha raggiunto il 67,3% del fatturato. Le vendite di macchinari all’estero coprono una quota del 5,5% del totale delle esportazioni italiane.Il primo mercato di sbocco si conferma quello nazionale, sul quale si realizza il 33% circa delle vendite complessive. Al secondo posto (poco meno del 28%) le vendite nell’UE.I principali clienti negli ultimi anni sono stati

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Emerge l’andamento tendenzialmente positivo del settore e superiore alla media manifatturiera, ad eccezione degli anni della crisi.

SETTORE AGROALIMENTARESul lungo periodo la produzione dell’industria alimentare italiana ha mostrato una dinamica positiva, con un tasso di crescita medio annuo dal 2001 al 2011 dello 0,7%, rispetto al -1,8% segnato in parallelo dell’intero settore manifatturiero. L’industria alimentare, bevande e tabacco comprende 67.808 imprese registrate nel 2012; mentre il settore agroalimentare è costituito da 905.432 imprese. Leader di mercato sono gli Stati Uniti con un export agroalimentare pari a oltre il 10% del totale. L’Italia risulta decima con una incidenza del 3,3%. Dal 2000 al 2010 la quota di mercato dell’Italia risulta in contrazione, così come quella di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Canada, Spagna e Belgio. Lo scenario internazionale è, in effetti, profondamente mutato per l’affacciarsi sui mercati internazionali non solo di nuovi consumatori (Cina fra tutti) ma anche di nuovi importanti paesi produttori il cui ruolo si è rafforzato, a scapito delle quote di mercato dei tradizionali paesi esportatori. Oltre alla Germania sono risultate in espansione le esportazioni e le quote di mercato di Brasile, Argentina e Cina. L’Italia ha aumentato il proprio livello di specializzazione anche se ha diminuito la quota di mercato a seguito dell’emergere di nuovi paesi, in particolare del Brasile in questo settore. Un’altra causa della perdita di competitività dell’Italia è dovuta all’aumento delle importazioni più consistente rispetto all’aumento delle esportazioni.Il comparto agroalimentare è diventato, negli ultimi anni, un vero punto di forza del Made in Italy, facendo leva su una qualità che non si limita solo alla bontà e alla genuinità, ma

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significa anche garanzie di sicurezza, salubrità e origine, diventando così un fattore centrale di competitività.I principali paesi verso cui l’Italia esporta sono Germania, Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera e Giappone. Nel 2011 il valore dei prodotti agroalimentari esportati ammontava a poco più di 30 milioni di euro. I prodotti più esportati sono bevande alcoliche e non alcoliche (vini in particolar modo), con un peso del 20,3%; pane, pasta, prodotti da pasticceria e biscotti con un peso dell’11,6% del totale. Seguono poi frutta fresca e secca (9,5%); preparazione di ortaggi, legumi e frutta (8,9%), latte e derivati, uova e miele (7,3%).Focalizzando l’attenzione sugli scambi internazionali di vino (inclusi i mosti), l’Italia è uno dei principali esportatori mondiali, se si considera che nel 2011 detiene una quota di mercato del 19,4% in valore, preceduta solo dalla Francia, ed è il primo esportatore in volume con il 23,5% delle esportazioni complessive.

Esportazione del settore e media manifattura- Anni 2001-2012 (variazioni %)

Dal 2001 al 2008 l’andamento delle esportazioni del settore alimentare si è mostrato stabile reggendo gli anni della crisi fino al 2010, anno in cui ha subito una lieve flessione.

SETTORE LEGNO-ARREDAMENTO

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Il settore del legno-arredamento riveste grande rilevanza nell’industria manifatturiera italiana. Il successo domestico e internazionale dell’industria del legno e del mobile-arredamento, è testimoniato dal fatto che l’Italia è il primo esportatore mondiale di mobili e che il contenuto qualitativo e di innovazione delle produzioni nazionali contribuisce in modo determinante alla notorietà del Made in Italy nel mondo. Dinamismo imprenditoriale, capacità creativa, flessibilità delle imprese e forti relazioni territoriali hanno caratterizzato l’evoluzione di questo settore in Italia.I punti di forza di questo settore sono radicati e solidi. Lo scenario competitivo per le imprese del settore, sta però progressivamente cambiando, ridistribuendo i rapporti di forza all’interno della filiera produttiva e proponendo esigenze di valorizzazione di attività e modalità organizzative fino a oggi scarsamente tenute sotto controllo dalle società produttrici, prevalentemente di piccole dimensioni e a gestione familiare. Anche se il settore mantiene indubbi punti di forza competitiva, appare importante riflettere sulle condizioni che frenano la capacità di mantenere e accrescere posizioni acquisite, tanto sul mercato domestico che a livello internazionale. Pertanto per mantenersi competitivi bisogna considerare che :

Il comportamento degli acquirenti di mobili si è evoluto nel tempo. Sono emersi nuovi concorrenti internazionali, grazie a produzioni realizzate a

condizioni di costo del lavoro estremamente vantaggiose e a buone capacità imitative, spesso favorite da una cultura di business non rispettosa della tutela della proprietà intellettuale.

Occorre che le imprese tutelino in modo maggiore la proprietà intellettuale che le contraddistingue e che rappresenta il valore aggiunto apportato alle produzioni dal design italiano.

Sono necessarie dunque maggiori capacità organizzative a fronte di un contesto competitivo via via più internazionalizzato e complesso. Maggiori dimensioni aziendali rafforzerebbero le società produttrici nel rapporto con la grande distribuzione internazionale e nella realizzazione di investimenti diretti all’estero.

Negli ultimi anni il settore del legno e del mobile-arredamento ha prodotto beni per un valore di 41 miliardi di euro, ovvero il 5,1% della produzione dell’industria in senso stretto; mentre il valore aggiunto al costo dei fattori si attesta su un livello di 14 miliardi di euro, il 5,5% del valore aggiunto dell’industria in senso stretto. Nel settore operano oltre 95.000 imprese (il 14,6% del totale delle imprese industriali) che occupano più di 420.000 lavoratori. In relazione agli scambi con l’estero, i livelli di importazioni ed esportazioni sono pari, rispettivamente, a 4,3 e 10,5 miliardi di euro, rispettivamente l’1,8% e il 4,1% del totale nazionale. Il settore del legno-arredamento considerato nel suo complesso è dunque un esportatore netto con un grado complessivo di apertura all’estero elevato e di poco inferiore al 40%.Il settore del legno-arredamento riveste dunque un ruolo di rilievo nell’industria italiana: è il secondo per numero di imprese attive sul territorio e il sesto in termini di numeri di occupati; è però solo il decimo come valore aggiunto prodotto. Il settore contribuisce in

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modo sostanziale alle produzioni tipiche del Made in Italy: nella sua componente di produzione di mobili si caratterizza infatti per essere il terzo settore in termini di bilancia commerciale, con un elevato grado di apertura con l’estero, tanto che il 40,3% della produzione di mobili viene esportato.Il sistema legno-arredamento distingue al suo interno due principali settori, complementari tra loro. Il primo di essi comprende le società attive nell’industria del legno e dei prodotti in legno e opera la prima trasformazione delle materie prime in prodotti intermedi e semilavorati. Il secondo comprende le imprese attive nell’industria del mobile-arredamento. Il settore del legno e dei prodotti in legno aggrega il 57,1% del totale delle imprese del settore, anche se ha un peso inferiore rispetto al mobile-arredamento in termini di numero di occupati (48%) e di produzione complessiva (42,9%). In termini di scambi con l’estero, il settore del legno e dei prodotti in legno presenta una posizione netta negativa che lo rende uno dei pochi settori importatori netti in Italia; il settore del mobile-arredamento si caratterizza, al contrario, per un’elevata apertura verso l’estero: la somma di importazioni ed esportazioni sulla produzione totale si attesta su valori di circa il 45% negli ultimi anni, grazie soprattutto al consistente livello di esportazioni. Inoltre, pur essendo composto da un numero di imprese inferiore rispetto al settore del legno (circa 41.000 imprese contro le 55.000), ha livelli di produzione (23,4 miliardi di euro) che contano per il 57,1% del totale.Il settore del legno-arredamento ha registrato negli anni, performance in genere superiori rispetto all’industria nel suo complesso, mostrando positivi tassi si crescita del valore aggiunto migliori rispetto a quelli dell’industria. Negli ultimi venti anni, in particolare, il settore del legno e quello del mobile-arredamento hanno mostrato dinamiche di crescita media annua del valore aggiunto rispettivamente del 2,9% e del 2%, contro l’1,2% dell’industria. La crescita del valore aggiunto può essere scomposta in tre principali fonti: il contributo della crescita del numero degli occupati, il contributo della crescita dello stock di capitale impiegato e infine, il contributo del progresso tecnologico e dell’internazionalizzazione avuta tramite le esportazioni. Il comparto italiano del legno-arredamento mostra che il maggiore potenziale di crescita sia offerto dalla Francia, ma anche dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Regno Unito e da alcuni “nuovi mercati” come la Russia, la Cina e il Medio Oriente.

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Per tutti i settori industriali, accanto alle strategie adottate dalle imprese per affrontare qualsiasi tipo di criticità, ma soprattutto per garantire il valore delle produzioni italiane serve il contributo delle istituzioni. Quest’ultime devono favorire collegamenti con centri di ricerca e di formazione, adottare misure nei confronti della concorrenza sleale e difendere il Made in Italy. Sarebbe, ad esempio, un risultato già positivo riuscire a introdurre un regolamento che impedisce di apporre la dicitura “Made in Italy” a chi realizza prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione non hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale.

Stefania CoriglianoCONCLUSIONI

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Dalla nostra analisi è emerso che c’è una relazione diretta tra competitività dei vari settori industriali e crescita economica. Il grado di competitività è misurato dalla crescita delle esportazioni.La scarsa produttività è un ostacolo alla presenza di un’impresa sui mercati internazionali; i problemi di produttività a livello di impresa sono legati a caratteristiche strutturali del territorio, quali l’efficienza delle infrastrutture e dei servizi, la facilità dell’entrata sul mercato, la dimensione e l’apertura del mercato locale verso l’esterno. È necessario pertanto promuovere il benessere economico del Paese, stimolando l’innovazione, la produttività e la competitività delle imprese italiane: maggiore concorrenza tra le imprese presenti sul mercato, maggiore contendibilità delle loro quote di mercato, maggiore integrazione dei mercati regionali attraverso il miglioramento delle infrastrutture logistiche, maggiore concorrenza nei servizi alle imprese, snellimento normativo e procedure burocratiche.

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