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Vincenzo Bertolone

Ubi caritas et amor, ibi Deus est(Dove c’è carità e amore lì c’è Dio)

«Conosco le tue opere: la carità… il servizio»(Ap 2,19)

… l’amor che move il sole e l’altre stelle, cardine della vita cristiana.

Lettera pastorale 2013-2014

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Saluto

Gratia Domini nostri Iesu Christi, et caritas Dei, et communicatio Sancti Spíritus sit cum omnibus vobis.

1ª formula iniziale di saluto dal Messale romano di Paolo VI

Ai carissimi presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, consacrati e laici della Santa Chiesa di Dio che è in Catanzaro-Squillace e a tutti gli uomini e donne amati da Dio Padre in Cristo e nello Spirito, salute e benedizione nel Signore!

 Tra le visioni del veggente di Patmos, riferite dall’ultimo libro del-

la Bibbia, l’Apocalisse, vi è l’oracolo rivolto dal Figlio di Dio all’an-gelo della Chiesa che è a Tiàtira: «So le tue opere: e il tuo amore, la tua fede, il tuo ministero, la tua costanza» (Ap 2,19). Si tratta di un vero e proprio giudizio “ultimativo” su quell’antica Chiesa che, pur avendo messo in atto delle opere sante, quali amore, fede, ministero, costanza, si stava per traviare, mettendosi nelle mani di una falsa profetessa, la quale seduceva i servi di Dio e li avviava all’idolatria, anziché alla vera fede operosa. Ricorderete che due anni fa, sempre sulla scia delle visioni di Giovanni, ho sollecitato anche la nostra Chiesa di Catanzaro-Squillace a riflettere sulla spe-ranza e confrontarsi con le “cose ultime”, che sono anche le prime, e fare così un bilancio sereno della nostra esistenza dal punto di vista delle “urgenze” del Regno. L’anno dopo, ho voluto riflettere insieme con voi – presbiteri, laici e persone di vita consacrata –

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sulle necessità che, dalla meditazione circa le cose ultime, derivano per l’esistenza: 1) la propria scelta definitiva per Cristo; 2) accoglie-re la sua esigente proposta di fede riconoscendo la potenza della sua risurrezione. Aderire alla fede cristiana, infatti, prim’ancora che professare con le labbra delle verità credute con la mente ed abbandonarsi fiduciosamente a Dio che si rivela, significa immet-tersi liberamente ed esistenzialmente in un vero e proprio circuito d’amore: il Padre ama a tal punto il mondo e ciascuno di noi da mandarci il suo Figlio unigenito, in modo da donare a tutti la pos-sibilità della fede; a nostra volta, noi, aderendo consapevolmente a questa proposta d’amore del Padre, annunciata nel Figlio nato da Maria, ci abbandoniamo a Dio che si rivela e, quindi, siamo ripie-ni dell’amore divino, che è lo Spirito, il quale rimodella la nostra immagine originaria, deturpata a motivo del peccato, rendendoci nuovamente degli esseri fatti a immagine somigliantissima di Dio, che è amore.

Dei primi frutti gioiosi della fede – il servizio (il ministero) e l’a-more – voglio ora riflettere insieme con voi nel corso di quest’anno pastorale, il cui inizio coincide con la fase conclusiva dello speciale Anno della fede, indetto da papa Benedetto XVI e proseguito da papa Francesco. Servizio, carità, amore, solidarietà, prossimità… sono, difatti, altrettanti modi di manifestare operativamente la no-stra fede cristiana, anzi ne costituiscono la struttura nel mondo contemporaneo (struttura di bene, alternativa alle strutture di pec-cato), il quale crederà e sarà salvo soltanto se donne ed uomini “profetizzano” la verità del Dio-amore. Dobbiamo essere profeti del Dio Altissimo, non come lo fu la Gezabele del libro dell’Apocalisse, che pervertiva la chiesa di Tiàtira, mostrando dei falsi idoli.

Tutto, sorelle e fratelli carissimi, viene messo in moto, retto e go-vernato perché approdi al fine, che è Dio, tutto si regge e vive per

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l’amor che move il sole e l’altre stelle1. La bellissima preghiera che, nell’ultimo canto del Paradiso, san Bernardo rivolge alla Vergine Madre, figlia del tuo figlio2, non è altro che una supplica, con il con-forto amoroso di Beatrice e di tutti gli altri beati, a vantaggio di un essere vivente peregrinante, affinché ottenga da Dio, dopo aver at-traversato tutti e tre i regni dell’“altra” vita, la grazia specifica della visione beatifica. Essa potenzierà i poveri occhi umani dell’uomo in viaggio, fino a farlo guardare più in alto, là dove c’è l’ultima salute3 ed ottenere, così, il dispiegamento del sommo piacer4.

In questa nostra diocesi, così innamorata della Vergine, ben sap-piamo quanto sia importante la preghiera d’intercessione elevata alla Madre di Dio, tant’è vero che noi la eleviamo incessantemente alla nostra Madonna delle Grazie, la cui statua (del 1595, prove-niente dall’antico convento delle Clarisse), veneriamo nella catte-drale di Catanzaro, anche oggi, grazie all’intervento di Tommaso Montani. Lo sguardo della Madre di Dio (theotókos), già abilitato dalla grazia divina a contemplare, qui in terra, il mistero nascosto in Dio, può ottenere, anche per il poeta pellegrino, la grazia invo-cata nella supplica da san Bernardo. Così come Dante poté com-piere un’esperienza sovrumana, svolta non più facendo esperienza di Dio nell’enigma e come in uno specchio (1Cor 13,12), anche noi possiamo oggi ottenere, per intercessione della Vergine Madre, la grazia di cogliere, attraverso i segni escatologici del servizio e dell’a-more, una scintilla di paradiso.

Ma qual è l’essenza di Dio, contemplata da Dante, ovvero chi è Dio, cui tutti ieri, oggi e sempre aneliamo e invochiamo ancora nella preghiera d’intercessione rivolta alla Madre di Dio? Medi-tando il medesimo canto del Paradiso dantesco qualche anno fa,

1 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, p. 145.2 Ivi, p. 1.3 Ivi, p. 27.4 Ivi, p. 33.

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papa Benedetto XVI sintetizzò così questo nostro anelito e il suo possibile approdo: «L’escursione cosmica, in cui Dante nella sua “Divina Commedia” vuole coinvolgere il lettore, finisce davanti alla Luce perenne che è Dio stesso, davanti a quella Luce che al con-tempo è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Luce e amore sono una sola cosa, sono la primordiale potenza creatrice che muove l’u-niverso. Se queste parole del Paradiso di Dante lasciano trasparire il pensiero di Aristotele, che vedeva nell’eros la potenza che muove il mondo, lo sguardo di Dante tuttavia scorge una cosa totalmen-te nuova ed inimmaginabile per il filosofo greco»5. Bello questo collegamento, in continuità e discontinuità, tra visione amorosa di Dio e antiche concezioni classiche dell’amore! Ci ritorneremo nel corso di questa riflessione.

A volte, a questo legittimo anelito umano a contemplare l’essenza di Dio, rispondiamo con le nostre riduttive, anche se precise, “defi-nizioni”. Per esempio alla domanda: chi è Dio?, rispondiamo: Dio è l’Altissimo, l’Onnipotente, Creatore e Signore del cielo e della ter-ra... La risposta è catechisticamente esatta; ma, a ben vedere, Dio è davvero tutto questo perché, in ultima istanza, egli è amore, essen-zialmente amore di padre e di madre, di sposo e di sposa, di figlio/a verso chi l’ha generato; amore totale e radicale, amore personale, amore di dedizione gratuita, amore senza tornaconti, amore smi-surato, grazia misericordiosa abbondantissima. Uno dei più grandi cantori di Maria Immacolata, il teologo e filosofo beato Giovanni Duns Scoto (ca. 1265-1308), insiste molto sulla configurazione del Dio cristiano come essenzialmente amore6. Deus caritas est.

E il nostro santo “taumaturgo” – u santu nuostu -, patrono ausilia-rio della nostra diocesi di Catanzaro-Squillace, Francesco di Paola

5 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor unum (23.1.2006): AAS 98(2006), pp.130-132.6 Cf. E. Gilson, Giovanni Duns Scoto, con un saggio introduttivo di Costante Marabelli, Jaka Book, Milano 2008, p. 605.

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(1416-1507), fondatore dell’Ordine dei Minimi, non è forse l’uomo della smisurata charitas?7 Così lo percepiscono e lo descrivono i tanti testi e in particolar modo il suo biografo contemporaneo: «In tutte le sue azioni aveva sempre sulle labbra la parola carità, dicen-do: facciamolo per carità, andiamo per carità. E questo non deve affatto stupire: la bocca parla secondo il cuore, cioè chi è pieno di carità non può parlare se non di carità»8. Tutto ciò è mirabilmen-te sintetizzato nella iconografia del Santo, sempre raffigurato con un sole lucentissimo al cui centro spicca la scritta charitas, con la lettera “h” subito dopo la c iniziale, quasi a voler ricordare la radice della parola greca “cháris”, cioè grazia. Carità, intesa nel senso di amore totale, che ci viene concesso non per sforzo umano, ma per grazia divina: questa sarebbe stata, per il paolano, la bella impresa del nuovo Ordine dei minimi, a cui egli diede inizio.

Questa stessa definizione, che fu già dell’evangelista Giovanni, di Duns Scoto, di san Francesco, san Vincenzo De Paoli, Giacomo Cusmano “nostro”, è stata mirabilmente rilanciata, all’inizio del ter-zo millennio, da papa Benedetto XVI9, che ha di nuovo proclamato ai quattro punti cardinali che Deus caritas est. Così ci ha ripetuto, infatti, la sua grande enciclica del 2005: Dio è carità, Dio è amore, Dio è agápe, sulla base della prima Lettera di Giovanni. Sì, sorelle e fratelli, «Dio è amore e chi dimora nell’amore, in Dio dimora e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,16). Ecco il bellissimo programma di amore proveniente dall’Amore che è Dio: «… mettendovi tutto l’impegno, aggiungere alla fede la virtù, […], alla pietà l’amor fra-terno, all’amor fraterno la carità» (2Pt 1,5-7). Sarà mai possibile, a noi, che abbiamo già aderito al dono della fede cristiana, ottenere,

7 Cf. G. Roberti, San Francesco di Paola, fondatore dell’ordine dei Minimi (1416-1507). Sto-ria della sua vita, Curia generalizia dell’Ordine dei Minimi, Roma 1963.8 Anonimo, Vita di San Francesco di Paola scritta da un discepolo anonimo suo con-temporaneo, ed. N. Lusito, Paola 1967, VII, p. 79.9 Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est (25.12.2005):AAS 98 (2006), pp. 217-252.

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nel nostro “amore desiderante” e con l’intercessione della Madre di Dio, anche questa visione del Dio-carità, che è amore traboccante dalle sue viscere materne, oltre che paterne? Chi ci farà da inter-cessore ed avvocato per essere, finalmente, anche noi ammessi a questa esperienza sovrumana?

Carissimi, non abbiamo noi, insieme con Gesù Cristo (cf. 1Gv 2,1) e la sua Vergine Madre, un altro grande Avvocato per noi pres-so il Padre? Non abbiamo noi il Paraclito (Gv 14,26; 15,26; 16,7), cioè lo Spirito Santo Consolatore? Lo Spirito, terza Persona della Trinità santissima, è l’Amore in Persona il quale, come avvocato dalla nostra parte ed in nostra difesa, ci predispone adeguatamente all’incontro con il Padre. Egli - che è stato da noi copiosamente ri-cevuto nel Battesimo, nella Confermazione e negli altri sacramenti – lo fa convincendo noi e «il mondo quanto al peccato, alla giusti-zia e al giudizio» (Gv 16,7). Detto altrimenti, con la forza prorom-pente dell’amore personale, lo Spirito ci mette di fronte all’inutilità malefica del peccato, che insidia da sempre il nostro cuore fragile, e ci porta così sulla via della giustizia, insinuandoci il senso del giudizio finale, allorché tutti noi saremo giudicati soltanto sull’a-more10. Sì, fratelli e sorelle, verrà il giudizio di Dio! e non ci sarà chiesto nient’altro che l’amore: ecco il “fatto” su cui verteranno il giudizio individuale ed il giudizio finale, quando, a seguito della morte biologica (cf. Eb 9,27), ci troveremo davanti al Signore Gesù: «E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,40).

Con simili splendide intuizioni mi piace, dunque, introdurvi alla lettura ed alla catechesi di questa mia Lettera, che vi consegno per le vostre meditazioni ed azioni nel corso dell’Anno pastorale 2013-2014, durante il quale desidero che la predicazione, la catechesi per

10 San Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, in opere, Edizioni, OCD, l, p. 57.

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tutte le stagioni della vita, l’attività di formazione ad ogni livel-lo, le celebrazioni, soprattutto le scelte personali, familiari, sociali, cittadine, economiche, finanziarie e politiche… siano attuate alla luce che proviene da questo riscoperto comandamento dell’amore di Dio. Non è un comandamento nel senso di imposto da fuori, ma un’esigenza connaturata al cuore e all’animo di ciascuno di noi. All’amore si cede con l’amore, all’amore si cede amando, non accol-landosi un peso: «In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’os-servare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (1Gv 5,3). Il peso dell’amore è sempre leggero, anzi, come ben sa chi è innamorato e chi ama, tutto vorrebbe fare, ora e subito, per la persona amata. Tu devi amare: è un impegno personale, da svolgere in prima persona; tu devi amare: è un dovere morale, la cui alternativa sarebbe terribile, cioè la lontananza definitiva da Dio; tu devi amare: nella relazione con Dio significa che dobbiamo abbandonarci a lui e cedere al suo amore sfrenato. Perciò vi auguro con tutto il cuore, sorelle e fratelli: la carità di Dio e la comunica-zione dello Spirito Santo sia con tutti voi! La carità vera infiammi i vostri cuori e informi tutte le vostre opere, perché Dio sia glori-ficato. Diceva il beato Cusmano: «la nostra carità dev’essere senza limite come senza limite fu la carità di Gesù che, da vero buon Pastore, diede tutto il sangue e tutta la sua vita per tutte le anime, non esclusa l’anima del Povero. La carità senza limite, abbraccian-do tutto l’uomo dalla culla alla tomba, non deve limitarsi alle sole opere spirituali, non deve escludere le opere corporali»11.

11 F. P. Filippello, Le mie Testimonianze al Tribunale della Chiesa. Notizie sulla vita e le virtù del P. Giacomo Cusmano, Volume II, Parte II, Scuola Tp. “Boccone del Povero”, Palermo 1936, p. 235.

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Capitolo primoDio: amore misericordioso per eccellenza

Qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum(Parole consacratorie per il vino, dal Messale romano).

Partendo dall’enciclica di Benedetto XVI, Dio è carità, voglio ri-percorrerne ora, sorelle e fratelli, le linee guida sotto il profilo bi-blico, teologico e pastorale per essere aiutati a intravedere, in ogni realtà ed in ogni attimo della nostra esistenza quotidiana, il miste-ro stesso dell’amore: un amore che, per noi e per tutti, si è effuso in remissione dei peccati! Ci ricordava il Papa che all’inizio del nostro essere cristiani non c’è una decisione etica o un’idea: non dobbia-mo né “decidere di amare”, né approfondire speculativamente il senso della frase “Dio è amore”. L’amore, primo “frutto dello Spiri-to” (cf. Gal 5,22) che opera anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa (cf. Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 28-29), è davve-ro universale, è alla portata di tutti, è trasversale a tutte le culture e le religioni: ecco perché la salvezza eterna, che dipende dall’amore, è aperta a tutti. All’inizio, siamo stati amati dal generoso cuore di Dio e, come dice la saggezza popolare, “al cuor non si comanda”. Quando comincia una relazione d’amore non c’è una decisione morale o una riflessione speculativa, ma “solo” un incontro, un atteggiamento di corresponsione tra i due. Non un’idea, non un concetto filosofico, non una teoria e un libero atto di adesione ad un bene, non l’adempimento di un dovere: solo un avvenimento, un irrompere imprevedibile e gratuito di Dio nel nostro orizzonte, che sollecita una risposta affine attuando la nostra prassi e volontà liberamente. Perché, allora, non affidarsi totalmente ad una Perso-na, anzi all’Amore in Persona. in grado di dare alla nostra vita un

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nuovo orizzonte e, con ciò, imprimerle una nuova direzione, che potrà essere davvero decisiva per la nostra felicità? Perché, in pri-ma istanza, non lasciarsi andare a quest’amore senza troppi calcoli e ragionamenti coerenti; perché non abbandonarsi fiduciosamente all’amato, rinviando ad un momento successivo ogni valutazione, ogni esame dei vari pro e contro, ogni argomentazione razionale, ogni decisione?

Il primo passo dell’amore è voler entrare docilmente, senza ri-fiuti, nel mondo dell’altro; entrare in un mondo “altro” per la via del tu, vincendo cioè la quasi istintiva tendenza alla chiusura, alla solitudine, all’autosufficienza, all’egoismo, al dis-amore. Se la fede proviene dall’ascolto di una proposta, che ci appare vincente e for-midabile sul piano sia emotivo, sia intellettuale e spirituale, il pri-mo passo è quello di consentire all’amato di pronunciare questa prima parola, ovvero di lasciarsi amare da una “presenza colma d’amore”. Questo, peraltro, suggeriscono i grandi mistici cristiani che hanno davvero creduto all’Amore: «Questa presenza, colma d’amore… implica una scoperta capitale: l’esperienza della perso-na, vale a dire la scoperta del tu… l’altro, però, non è il tu; l’altro è scoperto dall’intelletto, il tu dall’amore. L’amore è sia estatico che unitivo: ci catapulta fuori da noi stessi e ci unisce all’amato»12.

L’amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi dovrebbe esse-re comunicato agli altri, è effettivamente un altro mondo rispetto al nostro piccolo mondo. Questo altro mondo, tuttavia, è possibile, anzi è da annunciare, realizzare, amare, però allo stesso modo di come lo ama il Padre nostro che è nei cieli: «Non amate il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui» (1Gv 2,15). Nell’ottica pastorale, tutto questo diviene un problema di comunicazione e di linguaggio: di quello che utilizzia-mo comunemente tra noi per parlare dell’amore, ed anche nella

12 R. Panikkar, Mistica pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008, p. 217.

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nostra predicazione e nella catechesi, quando ce ne serviamo per tratteggiare la verità profonda della nostra fede cristiana, la quale è da intendere soprattutto (come ci ricorda particolarmente la “let-teratura” giovannea) come amore: «Questo è il mio comandamen-to: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). La misura dell’amore, però, non sta in noi stessi, ma nel Figlio di Dio incarnato per opera dello Spirito Santo-Amore. Egli supera l’antica sapienza, giunta a concepire addirittura la legge regale, cioè ad amare il prossimo come se stessi (cf. Gc 2,8).

C’è, però, un’esperienza emblematica tra noi che, in qualche modo, è in grado d’ispirare, chiarire e purificare le infinite modalità e pos-sibili esperienze dell’amore. Si tratta dell’amore tra un uomo e una donna, amore in cui le persone, nella loro reciproca integralità di corpo, di mente, di intenti e di cuore, concorrono inscindibilmente in un processo dinamico, che chiamiamo sempre amore, attraver-so l’intensità e la sublimità del quale all’essere umano si schiude una promessa di felicità, che sembra irresistibile. A quest’amore che non nasce dal pensare e dal volere, ovvero da una riflessione speculativa, oppure da una decisione, ma che in certo qual modo s’impone a ognuno dei due, come se venisse irresistibilmente da fuori, l’antica Grecia diede il nome di eros.

Nel Simposio il medico Erissimaco (al quale Platone affida il compito di fornire una cura appropriata sia al corpo, sia all’ani-ma) distingue tra un eros buono (fondato sull’ordine, l’armonia e la temperanza) ed un eros cattivo (fondato sul disordine e l’eccesso): «Eros ha dunque una potenza così vasta e grande, e, anzi, una po-tenza universale. Ma l’amore che tende alle cose buone e si accom-pagna a temperanza e a giustizia, sia presso di noi sia presso gli dèi, questo ha la potenza più grande e ci procura ogni felicità, renden-doci capaci di stare insieme gli uni con gli altri, facendoci essere

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amici con gli esseri che sono al di sopra di noi»13. A ben vedere, il cristianesimo non si limiterà a riprendere quanto la grecità filo-sofica, prima, la latinità poi, avevano già teorizzato sull’amore nei suoi vari aspetti, anche erotici, giungendo talvolta a vere e propri vette poetiche, per esempio con Sofocle e Virgilio. Nei testi biblici cristiani, infatti, la terminologia antica dell’amore viene superata perché giudicata sorpassata. Infatti, «è qualcosa di nuovo, frutto della libertà trinitaria del Figlio. Non è fatto elitario, ma principio universale di socialità liberata e liberante»14.

In conclusione, mentre i filosofi (e alcuni commentatori cristiani sulla loro scia) avevano teorizzato la gerarchia dell’eros (dalla sua “negatività” alla “positività”) e continuavano a teorizzarla ancora, perfino parallelamente al formarsi del canone biblico e del primo pensiero cristiano, i libri biblici, a partire dal Cantico dei cantici, se letti correttamente, cioè nello spirito del santo amore che li ispirò, presentano tutta la vasta tastiera dell’amore (sia carnale che spiri-tuale e divino) come un’unica realtà, sia pure articolata, in quanto voluta da Dio stesso. L’amore, insomma, non è una scala, come nel-la teorizzazione degl’intellettuali antichi, dall’impuro al puro, bensì è una vasta tastiera, voluta dal Creatore e redenta dal Salvatore, in cui perfino l’amore sessuale tra uomo e donna, ma anche l’amore di pura amicizia, nonché la carità ed il servizio o la dedizione ge-nerosa e senza tornaconti, sono, come in uno strumento musicale a percussione, altrettante «forme qualitativamente differenti, desti-nate, però […] a compenetrarsi, anche se non si scambiano né si confondono mai»15.

La morale orientata in senso cristiano, non è, dunque, contro la

13 Platone, Simposio, 188 D 4-9; versione di G. Reale, Per una nuova interpretazione di Pla-tone, Vita e Pensiero Università, Milano 2003, p. 462.14 G. Cicchese-P. Coda-L. Žák (edd.), Dio e il suo avvento. Luoghi, momenti, figure, Città Nuova Editrice, Roma 2003, p. 459.15 A. Milano, Donna e amore nella Bibbia, eros, agape, persona, EDB, Bologna 2008, p. 104.

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vasta e complessa tavolozza dell’amore umano, a partire da quello emblematico, coniugale, tra un uomo e una donna, bensì soltanto contro lo stravolgimento distruttore delle diverse forme genuine dell’amore. Un rischio, questo dello stravolgimento, sempre latente e sempre possibile a motivo della nostra fragilità umana. Se Dio è amore, infatti, soltanto quest’amore può essere divinizzato ed al-lora bisogna contestare ogni altra falsa divinizzazione di eros, di philía e di qualunque altra espressione di amore umano quando essi dovessero comportare una nuova idolatria. Divinizzare ciò che deve restare soltanto umano e dev’essere subordinato a colui che è amore in sé, significherebbe cadere nella falsa fede; e così facen-do, non soltanto misconoscere il vero amore che è Dio, ma anche deformare le tante belle espressioni dell’amore umano, privandole della loro dignità, votandosi alla disperazione ed alla condanna, invece che alla sperata beatitudine. Dio non condanna, ma salva ed ama. Siamo noi che, prendendo le decisioni errate e le false strade dell’amore, imbocchiamo la via della disapprovazione.

Teodoro di Mopsuestia, perciò, non temeva di segnalare, per par-lare addirittura dell’Altissimo, il linguaggio ispirato dell’eros, cioè il linguaggio degli innamorati “pazzi”. Del resto, i testi del Nuovo Testamento ci propongono soprattutto Gesù come uno che ama i suoi, che mostra di benedire qualunque forma di amore nuziale (cominciando da Cana), qualunque forma di amore e di amici-zia fraterna (a Betania e nel gruppo dei discepoli e degli apostoli), qualunque modalità di amore tra le generazioni (particolarmente verso i bambini, che diventano il modello del regno dei cieli), per-fino di amore sociale e politico, rivolto gratuitamente nei confronti di chi tradisce l’amicizia (terribile il caso di Pietro, che poi si pente, e di Giuda), e perfino di chi ci è avversario o nemico.

Le nostre comunità parrocchiali debbono riflettere su queste re-altà e sulle delicate dimensioni che caratterizzano la vita attuale, soprattutto nei cammini pastorali con i giovani ed i fidanzati, che

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cominciano a fare le prime esperienze della vasta tastiera dell’amo-re. Bisogna lasciarsi guidare dalla Parola di Dio (sacro Testo e sacra Tradizione della Chiesa), cui discende il criterio principale che sto enunciando.

Quando l’amicizia umana perde i caratteri di libertà, gratuità e dedizione, degenera in “uso” dell’altro a propri scopi, magari per ottenerne favori e utili. Quando l’amore caritatevole perde i carat-teri di gesto gratuito cristiano a vantaggio del prossimo, è tutt’al più una filantropia o, peggio ancora, una scelta subìta e non voluta, un giogo e non un peso soave. Il cristianesimo merita la defini-zione di “religione dell’amore”, che è più esatta di altre pur logiche definizioni. In essa, percependosi come fratelli e sorelle, tutti invo-cano il Padre comune per le necessità materiali e spirituali. Nella preghiera del Padre nostro, insegnataci da Gesù stesso (Mt 6,9-13), non a caso si domanda a Dio il pane quotidiano e, insieme, gli si chiede la remissione di quanto è da noi dovuto; il che, nella logica cristiana dell’amore, esige un uguale atteggiamento remissorio nei confronti di chi ci dovesse ancora qualcosa. Chi condivide il pane, chi è pronto a perdonare16, chi rimette volentieri il debito, chi in-somma ama profondamente gli altri, veramente manifesta Dio; e Dio, che ama teneramente come un padre o una madre, che non condanna, ma salva, rimette volentieri i debiti. Il monaco bene-dettino e teologo francese Guglielmo di Saint-Thierry (1202-1272) scrisse: «Dubitare del perdono di Dio significa offenderlo».

Nel cristianesimo, insomma, è centrale un piano di salvezza, che si rivela anche e soprattutto come un piano di tenerezza e di amore predisposto per noi dal Padre fin dall’eternità. Tale piano «in Cri-sto precede la creazione del mondo (cf. Ef 1,3-10) e si realizza con l’invio di Gesù al mondo, prova dell’amore infinito e della tenerez-za che il Padre ha per l’umanità (cf. Gv 3,16-17; 1Gv 4,9-10, ecc.).

16 Ha scritto Marcelle Auclair: «Il perdono è più di un sentimento, è una forza che produce atti straordinari».

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Questo amore di Dio arriva fino alla “consegna” di Cristo alla mor-te per la salvezza degli uomini e per la riconciliazione del mon-do (cf. Rm 5,8-11; 8,3.32; 2Cor 5,18-19, ecc.)»17. Lo stesso nostro aprirci all’amore verso il prossimo – che è un soccorrere un altro se stesso, anche nemico o avversario – viene identificato da Gesù con l’amore di Dio, quindi non ridotto ad una semplice relazione di affetto verso il prossimo. Chi pratica il vero divino amore (verso Dio e verso il prossimo), entra nella comunione dei chiamati al regno di Dio e qualifica, alla luce del Padre, la propria persona ed ogni manifestazione di amore di un soggetto umano, che è sem-pre un tutt’uno corporeo e spirituale. «La fede nell’amore di Dio abbraccia l’appello e l’obbligo di rispondere alla carità divina con un amore sincero. Il primo comandamento ci ordina di amare Dio al di sopra di tutto (cf. Dt 6, 4-5), e tutte le creature per lui e a causa di lui» (CCC 2093).

Domandiamoci: è veramente possibile amare Dio in questo modo, pur non vedendolo giacché è invisibile? Non si può non restare perplessi. È vero, miei figliuoli diletti, «nessuno ha mai vi-sto Dio» e, tuttavia, «se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi» (1Gv 4,12). Quindi, l’amore vero si fa vedere, usando noi come obiettivi amanti; si fa osservare ed apprezzare come comunione tra la sua e la nostra volontà, che dobbiamo aiutare a crescere in comunione di pensiero e di sentimento, fino a raggiungere le di-mensioni compatibili con la santità, cui siamo tutti chiamati. In tal modo la volontà di Dio non mi è più estranea, i suoi coman-damenti non mi vengono imposti dall’esterno; piuttosto è la mia stessa volontà, in base all’esperienza di un Dio che è diventato più intimo e che chiede di essere amato, io amo Dio ed amo, in Dio e con Dio, la persona che mi sta di fronte, anche se non la gradisco o neanche conosco; cioè apro gli occhi sull’unico modo con cui

17 Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni (1997), n. 28.

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Gesù continua a manifestarsi nelle cose del mondo, proprio nel volto assetato di amore di chi non ci aspetteremmo: il bambino, lo straniero, l’ospite inatteso, il migrante, il diseredato, l’emarginato, l’avversario, il nemico.

Oggi, purtroppo, prevale tra noi la frenesia del profitto e dell’ac-cumulazione, resa ancora più angustiante dalla carenza di lavoro e dalla caduta dei consumi a causa della gravissima crisi economica. Tutto questo fa esasperare la voglia di gratificazione individuale a danno del vero amore. Ma basterebbero delle leggi a instaurare e conservare la società ordinata, solidale e giusta, se si escludesse l’amore? «Animare una giustizia sociale e giungere così più lon-tano della giustizia, la quale da sola non arriverà a colmare tutte le lacune e a sciogliere tutti i problemi che travagliano l’uomo e la società»18. Nella formula di saluto iniziale della liturgia eucaristi-ca secondo il Messale romano, viene augurata a tutti i presenti, in nome di Cristo-Sposo (il vero Presidente dell’assemblea liturgica, rappresentato dal sacro ministro), l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo, che è Signore e dà la vita19, co-municato all’assemblea della Chiesa, è, infatti, la carità di Dio, l’«a-more personale come Spirito del Padre e del Figlio”20, cioè unione essenziale del Padre e del Figlio. Egli, lo Spirito, «non solo è il testi-mone diretto del loro reciproco amore, dal quale deriva la creazio-ne, ma è egli stesso questo amore»21. Noi tutti siamo stati creati per amore e dall’amore ad immagine e somiglianza della santissima Trinità, nella quale vive, tesse e dona amore la Persona-amore, che è lo Spirito. Venite, adoriamo questo mistero dell’amore persona-le, adoriamo lo Spirito dell’amore, del quale Dio spartisce prodigi,

18 R. Pizzorni, Giustizia e Carità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, p. 6.19 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Dominum et vivificantem sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo (18.5.1986). 20 Ivi, n. 10.21 Ivi, n. 34.

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miracoli e doni d’amore d’ogni genere, “distribuiti secondo la sua volontà” (Eb 2,4).

Ritorniamo all’amore vero, sorelle e fratelli! Soltanto Lui – lo Spi-rito Santo-Amore – ci convincerà circa il peccato, facendoci ve-dere che alcune scelte, dissonanti con la retta via scritta nei nostri cuori da Dio e ribadita dalla morale cristiana, tenendoci lontano da Dio, potrebbero renderci infelici per sempre, se non ci lascias-simo vincere dall’amore. Sì, talvolta l’abitudine al peccato tende ad installarsi in noi come una seconda natura, un’abitudine difficile cui rinunciare, anche a motivo delle tante reti del male in cui ci siamo lasciati avvolgere, spesso per lunghi periodi: è difficile non cedere a certe tentazioni, assai difficile abbandonare certe cattive compagnie, terribile sottrarsi al giogo di alcune prassi illegali, così diffuse e accettate, come se fossero addirittura un bene o inevitabili nell’attuale assetto sociale. Invertiamo la rotta, sorelle e fratelli: la-sciamoci raggiungere e plasmare dall’amore-dono, il quale riscalda i cuori, irrora le esistenze inaridite, cominciamo a detestare il pec-cato, non soltanto perché esso comporta il tradimento dell’amore divino, ma perché è anche generatore di sofferenza, sia in noi che negli altri e perfino nel pianeta!

Invito, perciò, i presbiteri ed i catechisti a dedicare molto tempo e molta attenzione a questa presenza trasformatrice dello Spirito nell’anima di ognuno. Bisogna insegnare ad ascoltare lo Spirito in noi nella contemplazione orante; educare a pregare lo Spirito in noi, perché faccia riemergere in noi le energie generatrici di bene; perché ci insegni a riconoscere le sue manifestazioni dovunque esse siano, anche dove non penseremmo mai di trovarle. Bisogna imparare a educarci ad ascoltare insieme lo Spirito. Se vivremo davvero in quest’ottica, anche le nostre strutture di corresponsabi-lità pastorale, anche i nostri uffici, i nostri consigli, le nostre aggre-gazioni ed associazioni vivranno una vita trasformata dall’amore che rigenera e purifica.

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Ma che cosa possiamo, dobbiamo fare per consentire allo Spiri-to di compiere tutto questo lavoro in, attraverso e per noi? Basta con gli odî e le faide! Mettiamo fine alla “pedagogia della vendetta”, che miete ancora tanti morti e feriti nelle nostre terre. Basta con le stragi e le rivalse il cui sangue macchia tanta parte delle nostre fa-miglie! Non violenza ed oppressione, ma pace, convivenza, spirito di conciliazione: soltanto così potremo sperare di ottenere la gioia. Frastornati e amareggiati dai tanti episodi di violenza e di morte che affliggono ancora le nostre comunità, preoccupatissimi per la cronica mancanza di lavoro e per l’incertezza del futuro, corriamo il rischio di far prevalere la disperazione sulla calma, la paura sulla speranza, la vendetta sul perdono. Invece bisogna resistere, perse-verare, costruendo ponti di pace tra singoli e famiglie, lanciando sempre segnali di bene. Disperare, inoltre, significa, non fidarsi più dell’Onnipotente che, invece, è fedele alle sue promesse anche nei momenti estremi e bui, come ci ricorda, pur nel suo terribile signi-ficato di tradimento dell’amico, “quel” bacio accettato da Gesù da Giuda (cf. Mt 26,25; Gv 18,2.25), e, soprattutto, come ci confortano le parole assolutorie pronunciate dal Crocifisso al buon ladrone. Nulla è impossibile a Dio, anche quando sembra che la zizzania stia prendendo il sopravvento sul buon grano (cf. Mt 13,18-29).

La potenza dello Spirito Santo viene per questo invocata nel corso della liturgia eucaristica da ogni presidente dell’assemblea, affinché sia concesso alla Chiesa, pellegrina nel tempo, di poter di-sporre della compagnia di Gesù, la presenza reale di Cristo nel sa-cramento dell’altare, che giustamente chiamiamo sacramentum ca-ritatis22. In esso si realizza l’amore più grande di Dio: offrire, come fa il Verbo incarnato sotto le specie del pane e del vino, la propria vita per gli amici (cf. Gv 15,13), affinché essi siano rinnovati pro-fondamente. Adoriamo insieme, sorelle e fratelli, il grande mistero

22 Benedetto XVI, Esortazione apostolica post-sinodale, Sacramentum caritatis AAS 99(2007) pp. 105-180.

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dell’amore eucaristico, che è amore spinto fino all’estremo («li amò fino alla fine», Gv 13,1). Pange lingua gloriosi/corporis mysterium sanguinisque pretiosi, cantava san Tommaso d’Aquino23.

Amare solo Dio, amare tutto in Dio: questa è la regola aurea che ripristina gradualmente in noi la somiglianza con quel Dio-Amo-re, a immagine del quale fummo creati; questo il baluardo divino contro la tentazione di Satana che, avvelenando nel cuore dell’uo-mo la capacità di amare, vorrebbe deturpare l’originaria innocenza, l’intrinseca bellezza che lo rende somigliante a Dio. Per mettere in fuga Satana e le sue malie basta il richiamo all’amore assoluto per il Signore, che viene prima di ogni altra forma di amore. Ognuno di noi ama secondo un ordine, ovvero una scala di preferenze. Se al vertice metto me stesso o un’altra creatura a me cara o un bene materiale, cado nell’idolatria e in quel sentimento esecrabile che è l’egoismo. Facciamo subentrare all’egoismo il vero amore cristiano, che i testi biblici chiamano agápe.

Come ci ricorda san Paolo, l’agápe, concetto sintetico e plurifor-me (cf. il celebre “Inno” di 1Cor 13), è pienezza della Legge (Rm 13,10), è dono dello Spirito (Gal 5,22), è dinamica di kènosi (Fil 2,7), è lo stesso amore di Dio che è in Cristo Gesù (Rm 8,39). Senza quest’amore, tutto è nulla. Il nucleo della “vita nuova”, che sgorga con forza inarrestabile dal cuore di Paolo convertito, è l’agápe di Cristo. La nuova creazione, contemplata e accolta nella fede, sca-turisce dalla croce la quale è a sua volta l’icona agapica di Dio. La sua caratterizzazione radicale è quella divina e trinitaria (in perfetta assonanza con la prospettiva giovannea). Si tratta di un solo amore che, sgorgando dal Padre attraverso la croce del Figlio nella comunione dello Spirito, si estende sopra l’umanità e la gui-da verso la perfezione. L’amore di Cristo è un amore unitario che

23 Tommaso d’Aquino, Officium de festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae, brani scelti in Fede e Opere. Testi ascetici e mistici, a cura di E.M. Sonzini, Città Nuova Editrice, Roma 1981.

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costituisce l’anello di congiunzione in forza del quale noi – come lui – amiamo insieme e inseparabilmente gli uomini e Dio. La “via” indicataci da Paolo, è la via amoris, che essendo «la migliore», la «più alta», «l’eccellente», «l’unica» è “anche” transfigurationis et sal-vationis, la via della vera civiltà, la civiltà dell’amore che trova il suo incipit nella ricerca del DioAmore.

Paolo comincia con una serie di paradossi a chiedere (e a chie-dersi) che cosa sarebbe la sua vita senza l’amore: dietro il luccichio di apparenze, anche abbaglianti, si nasconde un vuoto pauroso. Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli ma non ho amore, sono come un pezzo di bronzo risuonante o un tamburo che fa frastuo-no… Siccome i Corinzi all’epoca apprezzavano di certo i carismi, quali il dono delle lingue e della profezia, oltre a quello della fede, è proprio su questi che l’Apostolo batte e ribatte, sapendo di fare colpo. Colpo che subito dopo assesta, svalutando inesorabilmente tutti i carismi, perché senza il dono più grande in assoluto: l’amore di Dio, che è Cristo24, essi sono nulla. E subito dopo precisa che l’amore non deve girare a vuoto: non può essere un “accessorio” l’amore di chi ha dato la vita per noi, per redimerci! Paolo prose-gue ad elencare gli altri attributi di questo amore: “l’amore sostiene tutto, crede tutto, spera tutto, attende tutto” (1Cor 13,7). In pratica: l’amore è onnipotente. Preso da questo amore, il cristiano sarà an-che in condizione di sopportare e di attendere. Più il suo amore si consoliderà nella docilità e nell’attesa, più la sua fede e la sua spe-ranza acquisteranno vigore25.

24 L’amore che sa esprimersi e va espresso in tanti modi semplici e mirabili, umili e vincenti. Il suo primo attributo è l’essere “longanime”, frutto di una “grandezza di cuore”, che è un tratto tipico dell’amore di Dio. Non a caso per esprimerla Paolo usa la voce verbale “makrothymia”, che nella traduzione greca dell’Antico Testamento esprime l’atteggiamento di bontà, di com-prensione, di attesa e di pazienza usato da Dio nei riguardi di Israele, oltre che di “longanimità”.25 Dell’amore agapico, simbolizzato nel Volto di Cristo, e del suo configurarsi nell’epistolario paolino, ed in particolar modo nell’Inno alla carità, l’Autore si è già occupato in altra pubblica-zione: V. Bertolone, Il Volto di Cristo nell’Inno alla carità di san Paolo, in AA.VV., Il Volto dei Volti: Cristo, Velar, Gorle 2007, p. 33 e ss.

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L’essere umano, avendo imparato ad amare Dio, è in grado di guardare gli altri uomini con un amore forgiato su Dio. Paolo sta pensando al congedo: vedendo Dio «faccia a faccia» (1Cor13,12) potremo finalmente comprenderlo appieno ed amarlo come meri-ta. Da questo requisito ne derivano altri: alla luce del volto di Dio e del volto trasfigurato di Cristo Gesù Suo Figlio saremo in grado anche noi di vedere “faccia a faccia” il nostro prossimo, raggiun-gendo la vetta dell’amore reciproco. Vivendo dell’amore di Cristo, anzi vivendo di Cristo, sin da quaggiù, potremo intravederne il vol-to in quello di tutti gli uomini e, soprattutto, in quello dei poveri cristi di cui abbonda la terra. Non fa meraviglia che Paolo, dopo questa dimostrazione della via dell’amore, riprenda nella Lettera il discorso diretto: «Inseguite l’amore» (14,1). La “via amoris” non è facilmente percorribile: richiede impegno protratto e rinnovato. Occorre “inseguire” l’amore inseguendo Cristo che ci ama e ci dona l’amore del Padre. Il medesimo argomento Paolo lo scriverà anche ai Filippesi: « Mi sforzo di inseguire, nella speranza di conquistare ciò per cui anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (3,12).

È stato affermato che dopo il poeta greco Pindaro26 ed il filosofo Platone (Simposio), non ci sia mai stata un’altra espressione lirica superiore all’Inno, nel quale Paolo canta la realtà dell’amore divi-no, di cui l’essere umano è già ricolmo (anche se l’ignora, o finge di ignorarlo o se lo dimentica) e da cui nello stesso tempo viene incoraggiato a donare e a donarsi senza egoismo. Questo amore è l’agápe divina che l’Apostolo canta e definisce in maniera scultorea «gratuita e oblativa». Il carisma dei carismi è la stessa carità divina, che si è riversata sulla terra, quando Dio ha mandato il dilettissi-mo Figlio e l’ha dato per la salvezza e la redenzione dell’umanità dal peccato originale. Ecco perché si può affermare che per ispira-

26 Pindaro, poeta lirico greco (518438), coltivò tutti i generi della lirica corale (inni, peani, ecc.) con un vocabolario di estrema ricchezza e raffinatezza. Ci sono giunti di lui solo quattro libri di Epinici, capolavoro del lirismo greco e non solo.

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zione, per contenuto e per forma, l’Inno alla carità è il capolavoro dell’era cristiana. Da questo amore - dono, procedono tutti gli altri doni. In lui, Dio ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale nei cieli e in lui ci ha scelto prima della creazione del mondo per renderci santi e immacolati alla sua presenza, partecipi della sua gloria (cf. Ef 1,314).

È così che il kerygma gesuano del regno sboccia, per noi, nel keryg-ma cristologico del crocifissorisorto come culmine, sintesi e chiave ermeneutica dell’evento dell’agápe di Dio in Gesù Cristo. È questo, in particolare, il nerbo del kerygma, per comprendere il significa-to cristologico ed ecclesiale dell’agápe: la realtà della crocifissione e della risurrezione 27. Il nuovo stile del cristiano va modellato in linea con questo bell’annunzio. Per questo non si può essere ipocriti, anzi bisogna attaccarsi al bene e detestare il male (cf. Rm 12,9). Speranze, tribolazioni, preghiere, ospitalità, bisogni della vita, comportamenti di pace e di giustizia: tutto, tutto è sfrenatamente amore, sfrenata-mente agápe, per vincere ogni male col bene (cf. Rm 12,9-21). Tutto il decalogo della prima Alleanza trova la sua pienezza nella carità (cf. Rm 13,8-10). «Ciò che fai, ammonisce Cesario d’Arles (470 ca - 542), lo fai per Cristo, e l’intenzione o lo scopo di ogni tua azione sono rivolti a lui; non fai nulla per la lode degli uomini, ma tutto per l’amore di Dio e il desiderio della vita eterna: e allora vedrai la fine di ogni perfezione e quando vi sarai giunto, non desidererai di più»28.

Ecco perché, scorrendo il ricchissimo calendario cattolico, trovia-mo innumerevoli cristiani pervasi, contagiati da una carità “sfre-nata”. Li chiamiamo “santi” e “beati”, cioè perfettamente modellati nell’agápe dallo Spirito Santo a immagine somigliantissima del Pa-dre, come il Figlio unigenito. Mi piace qui ricordarne almeno un altro (dopo il cenno a Francesco di Paola): il beato don Pino Puglisi, martire della fede cristiana, che mi sembra un ottimo ed attualissi-

27 Cf. P. Coda, op. cit, pp. 114-115.28 Cesario d’Arles, Discorsi al popolo 38,5, in Id., Sermons au peuple, a cura di M.- J. Delage, SC 243, Cerf, Paris 1978, vol. II, p. 252.

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mo esempio di “carità sfrenata” per i presbiteri ed i consacrati. Pre-messo che il martirio è stato considerato, e sempre lo sarà, la forma più alta di santità ed il modello più sublime di carità cristiana, con il quale “il discepolo è reso simile al Maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo ed a lui viene conformato nell’effu-sione del sangue” (LG 42), fu Gesù stesso ad affidare ai suoi discepoli (tutti: presenti e futuri) l’incarico di portare il suo nome ed il suo messaggio ad ogni angolo della terra con la propria vita e la propria testimonianza, anche fino al sacrificio supremo di sé. L’odio alla fede da parte dei mandanti e del sicario di Puglisi (il “persecutore”) viene camuffato con dei volgari mezzucci al fine di non mostrare il loro odio contro la fede e di non fare, della vittima, un martire. Non si può ridurre il martirio di don Puglisi ad un semplice fatto di una vita condotta in nome della giustizia, escludendo la motivazione formale dell’odio alla fede nei persecutori; sarebbe come cadere nella rete tesa dai persecutori stessi, nascondere cioè con l’etichetta di un crimine umano un atto che è, invece, contro la fede, soprattutto contro la ca-rità fedele esercitata in modo eroico da quell’uomo di fede che era il parroco di Brancaccio. Lo stesso sicario Grigoli ha confessato di non aver mai dimenticato il sorriso di don Pino Puglisi – il sorriso di chi ama anche il nemico – e di non averci dormito la notte.

Non c’è santità, non c’è perfetta carità, che non scaturisca dalla fon-te dell’amore: è il cuore di Cristo, quel cuore trafitto sulla croce e dato per noi nel Sacramento dell’Eucaristia. In quel cuore vive l’a-more eterno di Dio Padre, perché Gesù ha sempre vissuto di lui e per lui. In quel cuore vive l’amore divino del Figlio, che al Padre ha dato il suo sì e si è fatto uomo. In quel cuore vive l’amore umano del Figlio che si è fatto carne, che ha speso ogni goccia del suo sangue, ogni fibra del suo corpo, ogni pensiero della sua mente, ogni attimo del suo tempo per compiere la volontà del Padre e manifestare le insondabili profondità del suo amore per noi. Quel cuore ci ha amati sino alla fine. Anzi, oltre la fine, oltre la morte. Che cosa poteva darci il Signore Gesù oltre la sua stessa vita, oltre la perfetta consumazione

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di sé? Proprio l’Eucaristia29. Solo lui poteva pensare e realizzare un tale dono: l’Eucaristia è il dono della carità di Cristo che ci raggiunge oltre la sua croce, che si fa cibo per noi e per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo, per il ricco e per il povero, per l’anziano e il bambino, per il figlio e per il servo, per il sano e per il malato…

Cibandosi dell’Eucaristia, il cristiano è reso capace di abitare nel cuore di Cristo, e di fare vivere il cuore di Cristo nel proprio petto. Con la grazia dell’Eucaristia, amando con il cuore di Cristo, il cristia-no si fa dono per il prossimo, si fa nutrimento di vita per il mondo intero, si fa “boccone per il povero”30.

29 Mi piace riportare una bella pagina di Chiara Lubich.«Ma l’effetto dell’Eucaristia nell’uomo va oltre. Dice Paolo: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di Colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).Ciò vuol dire che anche il creato è chiamato in qualche modo alla gloria. Gesù che muore e risorge è certamente la causa vera della trasformazione del cosmo. Ma, dato che Paolo ci ha rivelato che noi uomini completiamo la passione di Cristo (cf. Col 1, 24) e che la creazione attende la rivelazione dei figli di Dio (cf. Rm 8, 19), Dio aspetta anche il concorso degli uomini, cristificati dall’Eucaristia, per operare il rinnovamento del cosmo. Si potrebbe quindi dire che in forza del pane eucaristico l’uomo diventa “eucaristia” per l’universo, nel senso che è, con Cristo, germe di trasfigurazione dell’universo. In-fatti, se l’Eucaristia è causa della risurrezione dell’uomo, non può essere che il corpo dell’uomo, divinizzato dall’Eucaristia, sia destinato a corrompersi sottoterra per concorrere al rinnovamento del cosmo? Non possiamo dunque dire di esser noi dopo la morte, con Gesù, l’eucaristia della terra? La terra ci mangia come noi mangiamo l’Eucaristia: non quindi per trasformare noi in terra, ma perché essa si trasformi in “cieli nuovi e terre nuove”. È affascinante pensare che i corpi dei nostri morti cristiani hanno il compito di collaborare con Dio alla trasformazione del cosmo. E nasce nel cuore grande affetto e venerazione per coloro che ci hanno preceduto. Così si compren-derebbe ancor meglio il culto secolare per coloro che chiamiamo morti - e soprattutto per i corpi dei santi -, ma che stanno già nascendo, nel cosmo, ad una nuova vita.L’Eucaristia redime e fa Dio noi. Noi, morendo, concorriamo con Cristo alla trasformazione del cosmo; la natura, infatti, risulta quasi proseguimento del corpo di Gesù poiché egli, incarnandosi, ha assunto la natura umana, nella quale confluisce tutta la creazione». G. Lentini, “L’Eucaristia e la trasformazione del cosmo”, pp. 40-41 in Scritti spirituali, vol. 4, Città Nuova Editrice, Roma 1995.30 «Il “Boccone del Povero”, nella mente del Padre Cusmano, è l’opera della grazia, destinata a salvare i Poveri col beneficarli; a salvare i ricchi coll’esercizio della carità cristiana: a santificare le anime più elette coll’umile esercizio verso Gesù Povero (F. P. Filippello, op. cit., p. 20.). Il “boccone” è l’obolo dell’amore dato a Gesù Cristo e viene pagato con l’amore di un Dio: è Gesù Cristo che chiede l’elemosina dell’amore e fa un cambio col ricco, cambio del tutto vantaggioso a colui che fa questa elemosina» (Ivi, p. 60).

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Capitolo secondoSaremo giudicati sulla “carità sfrenata”

Misereàtur nostri omnìpotens Deuset, dimìssis peccàtis nostris,perdùcat nos ad vitam ætèrnam.

1ª formula dell’atto penitenziale, Messale romano di Paolo VI

L’anima cristiana dev’essere turbata non tanto dalla miseria, che purtroppo continua ad affliggere tragicamente l’umanità (partico-larmente in questo nostro Meridione), quanto dai molteplici ritar-di dei cristiani nell’esercitare la misericordia, che con prorompente vitalità sgorga dal cuore di Dio, contagia il cuore dei tanti testimoni che praticano, come ho già detto, una carità “sfrenata”, con la quale possono alleviare l’infelicità del prossimo. La nostra vita di cristiani è delineata nei suoi indirizzi etici e morali dalle opere di misericor-dia, le quali si realizzano per mezzo di un unico, fondamentale pre-cetto: l’amore incarnato di Dio. Lo sappiamo dall’etimologia: il ter-mine “misericordia”31 mette insieme il verbo misereor (avere pietà)

31 Il termine deriva dal verbo latino misereor (ho, sento compassione, ho pietà) unito all’altra parola, sempre latina cor (cuore) che biblicamente è il centro della persona, della capacità di aprir-si all’altro, diventando solidale con i suoi dolori e problemi. Misericordia, perciò, è logicamente connessa a compassione, anch’essa di origine latina cioè dal verbo non classico compatior (soffrire insieme).Tutta la nostra tradizione teologica si esprime facendo riferimento proprio alla miseri-cordia, il cui significato e valore trovano in ambito evangelico l’estrinsecazione della parabola del Samaritano (Lc 10,33), la quale davvero riassume l’intero Vangelo e, ciò che più conta, ci sprona a comportarci in modo identico. Il termine latino compassio non è classico ed esprime il medesimo si-gnificato del greco sympátheia (comunità di dolore, sentimento di pena, dunque di pietà per il male altrui. Non è in potere dell’uomo non sentire più e dimenticare le offese, ma il cuore che si offre allo Spirito Santo cambia la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in inter-cessione. Però l’iniziativa è di Dio. Quando, ad esempio, chiama dal roveto ardente Mosè è perché vuole salvare gli uomini, perché vuole inviarlo ad essi, per associarlo alla sua opera di salvezza, alla sua compassione. La stessa compassione che prova Gesù per tutti gli uomini quando con la luce del suo sguardo illumina gli occhi del nostro cuore e ci insegna a vedere nella luce della sua verità.

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e cor (cuore): quindi “cuore che sente pietà” e può orientare l’amore verso l’altro, specialmente se indigente e bisognoso. Se, come in-vochiamo nella preghiera, Dio avrà misericordia di noi, rimetterà i nostri peccati e ci instraderà sulla retta via dell’eternità. Grazie a questa divina misericordia ci viene offerta la chance di testimoniare davvero la fede nella storia, facendoci carico dell’altro, risanando ogni sua mancanza in una corrente affettuosa che ce lo farà sentire amico, caro, fratello o sorella che sia: mi stai a cuore, perché mi sento tuo fratello. L’umanità ha conosciuto tanti destini paralleli: siamo molto simili gli uni agli altri e questo ci aiuta a vincere gli inevitabili laghi di solitudine. La fede creduta, celebrata, vissuta ci invoglia a desiderare per l’altro ciò che vorremmo per noi stessi, cioè la carità, specialmente se le faremo largo perché trovi sempre accoglienza nelle vicende umane.

I dati del “XV Censimento della popolazione italiana (2011)”, messi a disposizione dall’Istat il 19.12.201232, presentano alcune linee di tendenza demografica e sociale assai preoccupanti (in compenso, in prospettiva agapica, pieni di auspici) per la nostra Calabria: al calo demografico del 2,6% (per Catanzaro è addirittu-ra 6,2%) rispetto a dieci anni prima (nella Regione risiedono più femmine che maschi), si aggiunge, infatti, il progressivo invecchia-mento della popolazione (la media nazionale dice di tre anziani “contro” due giovani), il sensibile incremento degli stranieri (più che triplicati), e lo stesso dato circa la popolazione residente nei Comuni di media dimensione. Come esercitare la misericordia di fronte a queste nuove situazioni? Avere carità significa praticare quella misericordia verso gli altri che Dio stesso ci ha insegnato: amare il fratello immaginando di avere il suo stesso cuore, amarlo non in astratto ma in concreto, cioè sempre, anche in riferimento ai numeri, a questi dati statistici, alla costante ricognizione pasto-

32 Cf. “Il censimento in pillole-Calabria”. Fonte: http://www.istat.it/it/files/2013/01/comunica-to-stampaCALABRIA.pdf.

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rale del territorio, che raccomando particolarmente agli uffici di Curia ed ai consigli pastorali parrocchiali.

In sostanza, è il “Principio-amore” a dar compimento alle opere buone, che sono il frutto di un cuore rinnovato perché abitato dalla grazia filiale. La carità ci avvicina a Dio nell’affetto, e la miseri-cordia, come la più grande virtù di legame col prossimo, ci rende simili a lui nell’operare33, nel pensare, nel desiderare. Perciò la mi-sericordia non si limita ai soli sentimenti, ma invita a soccorrere concretamente i nostri fratelli. Per definizione, sono quattordici le opere di misericordia: sette corporali e sette spirituali (sette è cifra simbolica, che rinvia alla totalità). Tuttavia, le opere di misericor-dia sono molte di più, sono infatti tante quante le miserie umane, presenti e future, da alleviare sempre, e la misericordia, provenien-te dallo Spirito Santo-Amore, trascende i gesti sempre nuovi e fan-tasiosi in cui essa si manifesta, quindi non è riducibile alle opere di 33 Avendo già accertata l’etimologia della parola “misericordia”, resta ora da esaminarne l’a-spetto “operativo”, o, come è stato definito, il “nuovo decalogo”, specialmente per la mentalità “religiosa” di tante persone che, al di fuori del culto prestato nel tempio, dinanzi alle necessità del prossimo, “passano dall’altra parte”, come il sacerdote della parabola del buon Samaritano ovvero “oltre”, come quel levita (cf. Lc 10,31-32).Una religione che non si ferma davanti all’uomo è inutile: potremo avere città e borghi pie-ni di templi ma sarebbe sempre un mondo senza carità, senza amore, senza misericordia. Ci vogliono – allora – delle azioni, dei comportamenti, delle “opere”, appunto. Il cristiano deve imitare Gesù – buon Samaritano, la sua virtù morale, il suo senso di giustizia: tanto maggiore è l’indigenza (il bisogno), tanto più aumenta l’obbligo di aiutare chi è in questo stato. I mali in cui giace il fratello indigente sono rispettivamente la fame, la sete, la nudità, l’essere senza dimora, l’infermità, la prigionia e la morte insepolta. Storicamente, sono le sette opere di mise-ricordia corporale, cui fanno compagnia quelle “spirituali”. La misericordia si configura come «espressione dell’essenza divina» e viene indissolubilmente collegata agli altri attributi di Dio quali la santità, la giustizia, la fedeltà, ecc. Il Dio biblico e a maggior ragione nella sua epifania in Cristo, non è semplicemente l’ipsum esse subsistens, ma – come ha intuito Blaise Pascal nel suo Mémorial – è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio dei poveri, degli orfani e delle vedove, il Dio che si commuove, che penetra la vita umana e si lascia toccare da essa. la mi-sericordia è specchio della Trinità e della sua intima essenza. La misericordia, attributo divino è una chiamata ad essere conformi a Dio, a vivere la beatitudine della misericordia, ossia ad essere misericordiosi come il Padre celeste. Questa somiglianza è – secondo Tommaso d’Aqui-no - «summa religionis christianae» (STh II-II, q. 30, a. 4 ad 2). La concretezza di questa prassi e imitatio Dei e passa per il perdono reciproco, le opere di misericordia corporale e spirituale e l’amore dei nemici.

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cui, pure, ha bisogno per esprimersi. Sebbene in seno agli organismi di corresponsabilità pastorale si

tenti di impostare la programmazione delle opere di misericordia, tale attività non è del tutto possibile in quanto momenti di vita imprevisti, epifanie della carità divina nel tessuto della nostra esi-stenza attuale, scie della fragranza di un amore, non solo intimo e affettivo, ma effettivo, concreto, pratico, operativo, travolgono ogni previsione. La lista delle opere di misericordia è, dunque, aperta al discernimento delle sempre emergenti nuove situazioni di bisogno e ad una continua revisione della mentalità, soprattutto in conso-nanza con i mutamenti sociali ed esistenziali a cui assistiamo in questi ultimi anni e che dobbiamo continuamente monitorare, con l’aiuto degli strumenti sociostatistici e degli uffici di Curia preposti al settore della solidarietà e del servizio.

La misericordia, che è carità messa in pratica, in verità neppure distingue tra corpo e spirito della persona, poiché lo stesso con-tatto con il corpo ferito e sofferente ha a che vedere con un atteg-giamento spirituale, che restituisce al prossimo la dignità umana negata e, soccorrendo qualcuna delle dimensioni corporee, mira al benessere integrale della persona. Non si risponde, infatti, alla do-manda dell’altro senza compassione; non si ospita lo straniero sen-za affetto; non si trattano i bisognosi senza premurosa attenzione. Ogni azione dello spirito umano, del resto, non può prescindere dal corpo: il corpo di chi si fa prossimo e accetta che un altro si fac-cia prossimo. In una rilettura allegorica dei gesti di carità elencati nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, Origene, che segue un criterio di lettura allegorica e spirituale dei testi sacri, aveva indi-viduato anche una valenza “spirituale”. Per cui, vestire chi è nudo diviene un ricoprirlo di virtù e, dunque, di indumenti spirituali, quali la misericordia, la castità, la mansuetudine, l’umiltà, stando anche a Paolo, che non a caso ha scritto: «Rivestitevi di Gesù Cri-sto» (Rm 13,14).

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In un mirabile testo di Tobia (Tb 4,1-20) compaiono delle auten-tiche regole d’oro che si dovrebbero portare legate al cuore come gemme preziose. Sembra che la successiva dottrina cristiana delle opere (mai la fede senza le opere!) sia derivata proprio da questo insegnamento, oltre che dalla pagina del giudizio finale di Matteo (Mt 25,31-46), in cui si trovano elencati almeno sei gesti di carità. «Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio», è scritto in Tb 4,7, e ancora «Fa’ l’elemosina in proporzione di ciò che possiedi; se hai poco, non esitare a dare secondo quel poco» (v. 8). Il gesto dell’elemosina è presentato, per-ciò, come «un dono prezioso davanti all’Altissimo» (v. 11). In ogni circostanza è il Signore che elargisce il bene e ci guida lungo i sen-tieri della carità.

Tutte le opere buone, indipendentemente dal loro possibile nu-mero, sono volute da Dio Padre il quale, per tramite di Gesù, le ha insegnate ai discepoli, con la potenza dello Spirito Santo, perché gli esseri umani potessero riconoscere in esse la gloria del Padre. È importante che vengano compiute nella più pura gratuità e nello spirito del dono, un dono creato che fa eco al dono increato che è lo Spirito Santo: Dio sa infatti vedere nel segreto di ciascuno di noi e ricompensarci coi «tesori nel cielo». Non possiamo contare sul solo potere del denaro e dell’impresa! Per questo ripeto a ciascuno di voi, anche in questa attuale situazione di crisi, (che alcuni ridu-cono ai soli aspetti finanziari ed economici): «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21).

La pratica delle opere buone è segno di una fede che opera per mezzo della carità. Secondo san Paolo, tuttavia, l’uomo non si salva in virtù delle opere compiute, ma per la misericordia di Dio che lo

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rigenera e rinnova nello Spirito Santo. Sempre secondo l’Apostolo, è la grazia dello Spirito, concessa mediante la fede, a permettere all’uomo di compiere le opere. Siamo, dunque, opera di Cristo e creati in lui per praticare le opere buone (Ef 2, 8-10). Un’impre-scindibile fedeltà alla sua grazia dovrebbe, pertanto, indurci a una vita feconda di opere di misericordia. Giacomo, in una prospettiva almeno apparentemente inconciliabile con la paolina, ammonisce: «Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa [...]» (Gc 2,14-26).

Per conciliare Paolo e Giacomo, con una terminologia agostinia-na possiamo affermare che se la nostra prima salvezza viene dalla fede in Dio (gratia praeveniens), la seconda deriva da una fede ope-rante mediante la carità (gratia cooperans). Il primato resta quello della grazia, che previene i nostri desideri e coopera al nostro fare, ma la libera progettazione e scelta sono tutte nelle nostre mani. Come una lucerna è fatta per illuminare, così la fede è fatta per operare. Per questo nel numero ternario delle virtù teologali noi correliamo sempre la fede, oltre che con la speranza, con la carità. Non può restare inappagato il desiderio di Gesù Cristo, morto e risorto per noi uomini e per la nostra salvezza, di vedere l’essere umano che, riscoprendo la propria “natura”, fatta per essere aperta a tutti, si dona generosamente al proprio fratello e diventa una cosa sola con gli altri e col mondo, riconoscendosi già inserito come in una “rete d’amore”, ben più estesa e complessa di qualunque rete informatica. Non può restare incompiuto il nostro dovere interiore di dar seguito all’eco di bontà cosciente e voluta da Dio: quanto ci è stato insegnato da lui in termini di carità è fatto per essere donato.

«Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro»

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(Lc 6,36): questo non è un vago e occasionale suggerimento dato al cuore o all’istinto; è piuttosto un imperativo, che se realmen-te incarnato nella nostra vita di fedeli, realizzerà una beatitudine: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). Le opere di misericordia non sono una doverosa responsabilità di amore e una vocazione universale. Lo ricordava il beato Gia-como Cusmano: «L’esercizio delle opere di misericordia non è un consiglio per le anime che vogliono camminare per la via della perfezione, ma un dovere comune di tutti i credenti, per avere la sorte di essere benedetti ed ammessi al gaudio eterno del paradiso, perché l’omissione di queste opere costituisce il motivo di attirarsi la maledizione dell’eterno giudice nel fuoco eterno»34. Riecheggia l’insegnamento di san Giovanni Crisostomo: «Credi che l’amore del prossimo non sia per te obbligatorio, ma libero? Che non sia una legge, ma un consiglio? Se mi volete ascoltare, o servi di Cristo, o fratelli e coeredi miei, fino a quando abbiamo tempo, visitiamo Cristo, curiamo Cristo, nutriamo Cristo, vestiamo Cristo, ospitia-mo Cristo, onoriamo Cristo: […] poiché il Signore di tutti vuole misericordia e non sacrificio e la vera bontà è superiore a mille agnelli grassi, questa mostriamo a lui nei bisognosi che oggi giac-ciono a terra prostrati; e questo affinché, quando ce ne andremo di qui, egli ci accolga nei tabernacoli eterni»35.

La misericordia, che dall’Antico al Nuovo Testamento illumina tutta la Bibbia, parte da Dio e attraverso Cristo giunge a ispirare i cristiani mediante lo Spirito di sapienza e d’intelletto, di consiglio e di fortezza, di scienza e di devozione, di santo timore di Dio. Dopo

34 G. Cusmano, Lettere del Servo di Dio P. Giacomo Cusmano Fondatore del Boccone del Povero, Nuova Raccolta a cura di P. Fazio, Volume II (1883-1888), Scuola Tip. “Boccone del Povero”, Palermo 1972, p. 549. cf. Ivi, pp. 22-23, 140.35 S. Gregorio di Nazianzo, L`amore per i poveri, 36,39-40, (cf. La teologia dei padri. Testi dei padri latini greci orientali scelti e ordinati per temi, a cura di G. Mura, Città Nuova Editrice, Roma 1975, vol. 3, p. 272).

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aver visto l’etimologia dal latino, ora vediamola nella lingua ebrai-ca. La prima delle due parole ebraiche contenute nel concetto di misericordia, rahamim, vuol dire “viscere” ed è il plurale di rechem, che designa la profondità del seno materno che custodisce la vita nascente. Gli ebrei, infatti, non esitavano a riconoscere a Dio un volto materno (Is 49,15), figurandoselo come una madre che nutre un legame unico di affetto, tenerezza, pazienza e comprensione, attesa e perdono per la sua creatura. La seconda parola è hesed e in-dica la fedeltà che unisce due esseri, un modo tipico di espressione dell’amore più elevato, reso visibile in opere et veritate prim’ancora che nelle parole.

Non c’è luogo migliore della nostra presente situazione storica per una fede autentica che voglia declinarsi soprattutto come ca-rità, dunque come concretezza, visibilità e quotidianità dell’amore del fratello e della sorella. D’altronde, così ha scritto Giovanni nella Prima lettera: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). Partiamo dunque dall’oggi, da uno spazio e da un tempo precisi, in cui spesso la giustizia o più semplicemente il buon senso sgomitano con la carità e con la compassione del buon Samaritano, non dimenticandoci, però, che la carità è necessaria in ogni spazio e in ogni tempo e che il servizio dell’amore non si rivela mai superfluo, dato che troveremo sempre qualcuno bisognoso di aiuto e consolazione: «I poveri, infatti, li avete sempre con voi» (Mt 26,11), ci ha avvertito Gesù. I tempi più difficili, come i nostri, tempi di crisi economica, di scarse prospet-tive per i giovani alla ricerca di un lavoro e per chi lo aveva ed ora lo ha perso, tempi di progressivo processo d’impoverimento del cosiddetto ceto medio, una volta benestante, di incremento delle persone anziane bisognose di cure particolari e di assistenza so-ciale e sanitaria, questi tempi – dicevo – sono quelli che reclamano una maggiore presenza da parte dei credenti e l’urgenza di un at-teggiamento che chiamerò, come altri prima di me hanno già pro-

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posto36, “carità della ragione”, a cominciare da quella politica, alla quale dobbiamo educare secondo la dottrina sociale, i nostri gio-vani ed i futuri amministratori e politici ed alla quale chiediamo di innestarsi sulla carità e sulla giustizia, che è poi riconoscimento dell’irripetibilità di ogni uomo indipendentemente dall’essere egli immigrato, rom, mendicante, sfruttato sessualmente, snaturato dal gioco d’azzardo, abbrutito dalla tossicodipendenza, e così via.

Se la carità è amore del fratello, la giustizia è l’amore dei diritti del fratello: questa almeno è il concetto guida presente in Deus caritas est. Gli occhi della coscienza non possono non vedere che spesso il povero di oggi è anche un povero di diritti (inalienabili e di “ultima generazione”), per i quali appaiono improbabili, se non addirittura impossibili, protezione, accoglienza, un futuro accettabile. Persi-no i bisogni fisici primari (cibo, acqua, vestito, tetto) sono negati e la povertà più vergognosa (preda talvolta, di paura e di ostilità da parte di chi osserva) è, dice Lévinas, la «nudità di un’esistenza incapace di nascondersi»37. La prima cosa da fare, direi la più uma-na, sarà quella di risparmiare la vergogna al fratello, pronunciando parole sconvenienti e/o compiendo gesti “non negoziabili”, ma ri-farsi al vangelo, che esalta il valore fondamentale della dignità dei poveri, mettendo in campo quel basilare senso dell’umano contro la disumanità. Ho detto “carità della ragione” dando per scontata la “ragione della carità”, che, in un tutt’uno con la giustizia, risiede nella volontà di Dio e nel cuore di ogni uomo che affermi di cre-dergli.

La ragione della carità, ascoltata nella Scrittura e continuamente ricordata dalla persona di Gesù Cristo, consiste nell’incontro, che è poi il vero senso della vita, di ogni umano con altri umani, dentro la catena della biosfera. Su questa terra noi siamo salvati, grazie

36 Cf. L. Manicardi, La fatica della carità. Le opere di misericordia, Edizioni Qiqajon, Comu-nità di Bose, Magnano (BI) 2010. 37 E. Lévinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, p. 32.

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agli altri che ci permettono una relazione (fin dal nostro venire alla luce) e allenano la nostra coscienza alle situazioni di bisogno. Fare del bene e “il bene fatto” ci liberano, infatti, dall’autoreferenzialità e dalla supponenza. La situazione attuale, che non di rado risente di analfabetismo di fede e ancor peggio di analfabetismo di vita di re-lazione, impone di riconoscere in ogni dettaglio dell’esistente e in ogni anfratto del disagio, un possibile luogo cui manifestare tutte le possibili qualità umane uscite dall’esperienza del Vangelo, dalla prassi d’amore vissuta da Gesù e racchiusa in quel comandamento che dice: «[…] come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Non è sufficiente amare come crediamo di sapere: no, bisogna amare come Cristo.

La carità è farsi dono e pensare che si esiste per gli altri, e inoltre più che dare qualcosa, è dare se stessi. Il possesso della carità au-menta quanto più viene donata e nessuno potrà crederci quando ci diremo incapaci di averla. Realizza l’arte della misericordia, che poi è traduzione pratica dell’amore, chi non lascia mancare innan-zitutto a se stesso almeno l’elemosina del cuore e l’attenzione alle condizioni spirituali dell’altro: «[...] A volte tu vorresti dare qual-cosa a un povero, ma non hai niente; invece potresti sempre “per-donare al peccatore”, solo se tu lo volessi! Potrebbe avvenire che tu non abbia da dare ai poveri nè oro nè argento nè vesti nè grano nè vino e neppure olio; ma quanto ad amare tutti gli uomini, a volere per gli altri ciò che vuoi per te e perdonare i tuoi nemici, non po-tresti trovare mai giustificazioni per non farlo. Se, infatti, nella tua cantina o nel tuo granaio non hai nulla da poter dare, puoi sempre trarre fuori dal buon tesoro del tuo cuore qualcosa da offrire»38. Cari amici convinciamoci che la vera povertà è quella spirituale. Si è poveri davvero quando non si nutre l’anima d’amore, di perdono e di gioia.

38 Cesario d’Arles, op.cit., p. 253.

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Capitolo terzoIl pane nutre gli affamati e la pietà sazia il tuo cuore

Dar da mangiare e da bere, vestire gli ignudi, accogliere i pellegrini, visitare i carcerati e gli ammalati, seppellire i morti.

«Le opere di misericordia sono delle azioni concrete di bontà nei confronti degli altri. La tradizione della Chiesa ne suddivide le principali in due gruppi di sette: opere di misericordia corporale e opere di misericordia spirituale» (Catechismo diocesano, n. 168).

Le opere di misericordia, compiute per amore del Signore, ci condu-cono a una vita di perfezione poiché ci rendono più simili a Lui. La misericordia, intesa come disponibilità a entrare nel cuore dell’altro, consiste soprattutto nella nostra esperienza di Dio e del Princi-pio-amore, che è lo Spirito Santo. Ora passeremo in rassegna le quat-tordici opere, associando ad ognuna un’immagine della nostra memo-ria di cristiani, o un versetto biblico: ci aiuteranno ad accogliere meglio la misericordia del Dio, che è amore, già presente nei nostri cuori e che chiede di essere portato ai massimi livelli della agápe. Sarà una conso-lante occasione di dialogare con voi, dialogo che, nella mediazione salvi-fica di una comunità di cristiani, non dovrebbe mancare mai...

Dar da mangiare agli affamati. Basta andare, per esempio, a un versetto prezioso (Gv 6,26ss), per comprendere meglio come il pane che spegne ogni fame, la vera manna dal cielo, insomma la sazietà ultima, potrà venirci unicamente dal Signore: «In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il

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suo sigillo». Ogni uomo è nel cuore dell’eucaristia: destinatario del dono di Dio, (ottenuto con l’epiclesi, cioè nell’invocazione eucari-stica dello Spirito Santo) e, insieme, responsabile in qualche modo della mancanza di cibo e servizi essenziali per tanti nostri fratelli in Cristo. Nella carenza di cibo o, al contrario, nel suo spreco, si gioca l’umanità e la dignità delle persone. Quest’opera di misericordia si misura oggi con cifre a sei zeri. Diceva Simon Weil che “dare un pez-zo di pane è più che fare un discorso, come la croce di Gesù è più che una parabola”.

In una società che, nonostante la crisi, resta ricca di risorse, alme-no umane, ci sono centinaia di migliaia di persone che patiscono letteralmente la fame. Smisuratamente peggiore è la situazione di intere popolazioni nelle aree depresse o desertificate. Ogni volta che daremo da mangiare a uno solo di questi nostri fratelli più piccoli, daremo in realtà da mangiare al Signore. “Più il fratello è piccolo, più il Cristo è presente in lui” – diceva san Giovanni Crisostomo39. Il fratello “più piccolo” può essere per noi oggi il più lontano, il più nascosto, colui che è invisibile, perché disperso in una folla ster-minata di altri poveri, che non sono appariscenti solo perché non fanno notizia e vivono in aree troppo lontane da noi. Chiedendo a Dio di darci «oggi il nostro pane quotidiano» preghiamo non per noi stessi soltanto, ma per tutti i fratelli. Un sesto della popolazione mondiale soffre la fame: sono ancora tanti i “Lazzaro” ai quali non è consentito di sedersi alla mensa dei tanti ricchi “Epuloni”. La Chiesa ha la responsabilità etica di rispondere ai richiami alla solidarietà e alla condivisione che ci vengono da Gesù. Il punto è che la fame del mondo dipende soprattutto dalla «scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di natura istituzionale» (CV 27). Anziché rassegnarsi a politiche ed economie miopi e colpevoli, diamo invece ascolto al cuore del “buon Samaritano” che ci batte nel petto, alla

39 S. Giovanni Crisostomo, Omelia 45 sugli Atti degli Apostoli: PG 60, pp. 318-320.

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liturgia d’amore vissuta in primo luogo da Cristo. Dare da mangiare, come “fare da mangiare”, è la più concreta manifestazione di amore che assieme al cibo dona presenza, giustizia, relazione. Diritto al nu-trimento è diritto alla vita di ciascun figlio di Dio, ospite come noi di questa terra. Forse non arriveremo agli affamati del Bangladesh, ma almeno, in presenza delle situazioni di casa nostra sapremo pre-parare una tavola con il concorso di tutta una Chiesa che deve poter contare su ognuno noi per essere a servizio dell’uomo. Ciascuno si dia da fare per costruire la sua personale opera di bene, ovvero ope-ra-segno. La misura della fede è anche nella premura che dimostre-remo verso chi è più distante da noi.

Dar da bere agli assetati. Quando si rivolge alla Samaritana accanto al pozzo. Gesù è molto chiaro: la invita a dissetarsi non tanto alla fonte sorgiva ma all’acqua di vita che chi le sta davanti le of-fre: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 13-14). La vera acqua che disseta è il dialogo e la vera sete da colmare è la reticenza ad aprirsi all’altro. Questo, però, non deve farci dimenticare che esiste per davvero chi ancora muore di sete (decine e decine di milioni di persone) e che, come Cristo sul-la croce, dice: «Ho sete» (Gv 19,28). «Il Cristo che va incontro alla morte “per dare a noi la vita” è per il Cusmano “il primo e il più interessante povero e nel momento più solenne della sua vita mor-tale, quando pendeva dalla croce”. La morte in croce è il massimo dell’annientamento del Cristo obbediente al Padre: sulla croce Gesù si mostra a noi nella sua totale povertà, nella pienezza della condi-zione umana. Ed è sulla Croce, nel vertice della Redenzione, se così possiamo dire, che Gesù Cristo adempie e realizza in modo perfetto e sublime “due grandi precetti d’amare Dio sopra tutte le cose e il prossimo nostro come noi stessi, per amore di Dio”, “dandoci così

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l’esempio di questa importantissima e necessaria osservanza”40. La carità richiesta da quest’opera di misericordia nel tempo della glo-balizzazione deve sapersi rendere giustizia, riconoscendo la dispo-nibilità e l’accesso all’acqua a tutti gli esseri viventi (non solo essere umani, quindi) facendo un uso sobrio delle riserve idriche come dei diritti e non come dei privilegi. Questo è un tema che pone interro-gativi morali, sociali e politici e non si può risolvere in qualche gesto isolato, anche se chiama imprenditori e amministratori, progettisti e architetti a rivedere i progetti adeguandoli alle ultime esigenze. Cer-to è che l’atto misericordioso di “dar da bere”, con tutto il suo signifi-cato simbolico, interpella in profondità il nostro senso di sobrietà e di solidarietà ed è condanna dell’egoismo di chi ha troppo.

Offrire l’acqua, o non eccedere nei consumi, è un concreto, effi-cace riflesso dello spirito di amore per il prossimo. Questo perché in sorella acqua si cela il mistero della vita e “perfetta letizia” risiede nel soccorrere chi è in stato di bisogno, realizzando un’umanità giu-sta. La dimensione sociale del soffrire la sete esige una risposta degli Stati e delle comunità sovranazionali, ma presuppone anche nostre iniziative generose e costanti e sollecita il nostro senso di vigilanza sociale attiva. In diverse zone del mondo l’imprenditoria (pubblica o privata) si accaparra tutte le risorse idriche e vieta agli autoctoni di attingere acqua. In altre parti si scavano febbrilmente i pozzi nella ricerca dell’acqua e a volte si entra in conflitto, anche armato, con le nazioni di confine che dispongono delle falde. Penuria, siccità, non potabilità sono cause di migrazioni: le persone per evitare malattie e morte, affrontano l’ignoto. “Dar da bere agli assetati” è un’opera di misericordia disperatamente attuale che ci invita tutti a rifiutare il consumismo in ogni sua manifestazione, compresa una certa dime-stichezza con l’alcol che riguarda tanti nostri ragazzi e rappresenta

40 G. Civiletto, Il Povero negli scritti del P. Giacomo Cusmano in “Il Padre Giacomo Cusmano e la Sua Opera”, Atti del I Convegno di Studi Cusmaniani (Baida, 19-21 novembre 1980), Ufficio Stampa Cusmano, Palermo 1983, p. 113.

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uno sgradevole disprezzo per chi, mancando dell’acqua, vede molto aleatoria la propria sopravvivenza.

Vestire gli ignudi. “Vestire gli ignudi” è un modo per restituire dignità a ciascun essere umano. Oltre al famoso episodio di Martino di Tours, che dona il proprio mantello al povero, vorrei richiamar-vi alla mente due immagini: il divino bambino, amorevolmente av-volto in fasce nella grotta di Betlemme, e Noè che, addormentatosi nudo e ubriaco nella tenda, viene ricoperto da Sem e Iafet con un mantello, ricevendo così da questi il rispetto dovuto ad un padre (Gen 9,20-28; cf. Sir 3,12-16).

Tuonava Giovanni Crisostomo che l’ignudo è Cristo e con Lui ogni creatura a immagine di Dio che viene spogliata di tutto ciò che le è dovuto: dignità, rispetto, lavoro, parola, diritti, autonomia. Sì, perché nel corso della propria vita una persona può conoscere situazioni di povertà e di miseria capaci di ridurla alla nudità. Questa condizione non va intesa oggi solo in senso letterale, ma deve comprendere altri stati di carenza, ad esempio l’umiliazione, l’assenza di difese, l’im-potenza, la privazione della dignità, l’impossibilità di dire le proprie ragioni. La sacra Scrittura insegna la compassione per le nudità umi-liate dei poveri, delle vittime, degli emarginati e sul gesto originario di Dio (il quale, secondo il racconto della Genesi, rivestì Adamo ed Eva di tuniche di pelle dopo la loro trasgressione originaria) fonda il delicato, discreto e tenero atto di vestire chi è nudo, in ogni sen-so. Privarsi dei propri abiti per condividerli con il povero è un atto concreto di carità, una celebrazione di un gesto gratuito che arric-chisce tanto chi dona quanto chi riceve. È importante, tuttavia, che il donatore non faccia sentire, oltreché nudo, anche umiliato colui che riceve il dono. “È cosa buona e giusta”, inoltre, che un gesto di così intima carità avvenga lontano da occhi indiscreti.

Nati tutti “nudi”, siamo stati rivestiti nel Battesimo dalla miseri-cordia divina. Comprare, potendolo, due capi o un paio di scarpe

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per destinarli ad un povero; donare abiti, sono in linea con il pri-mo sacramento ricevuto, giacché questo comando d’amore richiede sensibilità e attenzione, non compatibile, quindi, con la necessità di svuotare l’armadio. Si pensi a san Francesco d’Assisi (di cui il santo Padre ha scelto il nome, auspicando una “chiesa povera per i poveri”) il quale, con la sua storia consegna almeno tre nudità simboliche: la prima, nel cuore al mondo; la seconda, quando in presenza di tutta la comunità fa capire che il suo vero padre non è quello che sta da-vanti a lui; la terza, infine, al momento del trapasso: posto nudo sulla terra, aveva espresso il desiderio di tornare al Padre dei cieli con l’u-nica ricchezza possibile: quella interiore. Vestire chi è nudo vuol dire, dunque, anche far luce su verità più profonde: sul senso del pudore e della purezza, sulla virtù della sobrietà, che ciascuno può coltivare nel proprio intimo, e sulla possibilità di essere ricchi agli occhi di Dio anche se sprovvisti di abiti costosi.

Alloggiare i pellegrini. Vorrei associare tale opera misericor-diosa ad un’immagine precisa: il sorriso. L’ospitalità, infatti, inizia con un sorriso. Il sorriso è il primo segno che un volto dichiara, invi-tando l’“altro” a guardarlo. Le parole, in fondo, possono contare poco e dire anche di meno, ma il sorriso, epifania dello spirito, esprime la simpatia, l’accettazione e sancisce la categoria di appartenenza ospi-te o ospitante. Gesù stesso ha restaurato il cuore di noi uomini come tenda-tempio dell’ospitalità di Dio41. Nella pratica della sua fede il credente “alloggia il pellegrino” così come Dio lo ospita nel mondo creandolo. “Non dimenticate l’ospitalità”, scrive l’autore della Lette-ra agli Ebrei, “alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli sen-za saperlo” (13,2). Cristo va alla ricerca di anime dove entrare. «Se, dunque, commenta Origene (185 ca - 253), disponiamo il nostro

41 Diceva il beato Cusmano che il Cristo, Verbo umanato, è il Povero per eccellenza che si identifica con i Poveri, i quali perciò vanno amati, accolti, difesi, nutriti nel corpo e nello spirito, cf. G. Cusmano, Lettere del Servo di Dio P. Giacomo Cusmano Fondatore del Boccone del Povero, Raccolta a cura di G. Ajello, voll. 4, Scuola Tip. “Boccone del Povero”, Palermo 1952-1959; Nuova Raccolta a cura di P. Fazio, voll. 2, Scuola Tip. “Boccone del Povero”, Palermo 1970-1972; passim.

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cuore per mezzo di varie virtù all’accoglienza di lui e di quelli che sono suoi, è lui stesso che accogliamo nella dimora del nostro petto, facendone un cenacolo grande, pulito, ordinato per l’accoglienza di Cristo forestiero nel mondo [...]» (Commento a Matteo 72).

Oggi tale pratica di carità e misericordia riceve un’importante sfi-da in quanto messaci di fronte soprattutto dal fenomeno migratorio che pone continuamente a contatto chi fugge da paesi poveri con chi, in un’altra terra è più fortunato. La prima cosa che dobbiamo fare è uscire da una logica di contrapposizione (noi- essi) per arriva-re insieme al giorno decisivo della civiltà, cioè quando lo straniero, prima nemico (hostis), sarà poi considerato ospite (hospes). L’ospi-talità è un dovere sacro, che aiuta a divenire ancora più uomini se e quando onora l’umanità umiliata dell’altro (immigrato, barbone, girovago, rom, senza fissa dimora). Anzi, più che un dovere, è un di-ritto di tutti costoro. Non solo è un esempio di carità, ma un evento della grazia di Dio, dato che in ogni povero non possiamo non vede-re Lui. Accogliere vuol dire “farci casa” noi stessi, aprire uno spazio interiore al prossimo, dare il nostro tempo e il nostro ascolto. Tra l’altro, per l’ambivalenza del termine, ospite è sia chi offre ospitalità sia chi la riceve, questo per dire dello straordinario scambio di doni e di ruoli che, indifferentemente, si realizza all’interno di un’opera misericordiosa. Stranieri siamo anche noi e annullare la distanza che ci separa dagli altri stranieri corrisponde ad abbattere la distanza dai nostri proponimenti migliori. L’ascolto e il dialogo, di cui ci rendere-mo capaci, sarà la soglia che vedrà il più inedito incontro: l’altro ci si rivelerà come un “tu”, con una storia personale e sincera, un presente di paura e un desiderio di futuro.

Ospitalità non è solo dare vitto e alloggio o, addirittura, una que-stione sociale o politica, ma uno stile di esistenza, una qualità dell’a-nimo, una forma di vita ispirata da Dio e dalla sua comunione pro-fonda con l’uomo, se non addirittura una possibilità di conversione alla fede. Per entrare in contatto con le solitudini esistenziali ci viene

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in soccorso la pedagogia del cuore, volta non soltanto alla fede, ma alla cultura e, lato sensu, alla politica. Prendersi cura di creature con-sapevoli di non interessare più a nessuno, ci aiuta a ritrovare una coscienza e una coerenza evangelica. Quando un immigrato sbarca nelle nostre terre in cerca di lavoro, in realtà cerca la dignità, ma quasi sempre trova degli sfruttatori. È allora che la nuova e certo non immaginata condizione, anziché cancellare il passato, lo ripropone con tutto il suo dolore di uomo, o di donna, spesso anche di bambino in fuga dalla fame, dalla sete, dalla guerra, dalle persecuzioni. Ogni naufrago partito dalle coste africane è un essere umano, una persona con diritti e doveri da rispettare. Come in un rapporto di lavoro così deve avvenire anche in altre condizioni di vita. Per questa nuova po-vertà sarà duplice la lezione misericordiosa da apprendere: la sorve-glianza e l’accoglienza. La prima individuerà l’immigrato che rischia (anche a motivo della delinquenza) di diventare un pericolo per la società e la seconda lo curerà in un processo umano di integrazione che gradatamente gli conferirà il dovuto status di creatura umana.

Visitare gli infermi. Nella tradizione ebraica c’è un’indicazione per la visita agli infermi ed è proprio da qui che vorrei cominciare: «Quando si fa visita a un malato, non ci si sieda sul suo letto. Per-ché? Perché lì dimora la presenza di Dio, come dice la Scrittura: “Il Signore lo sostiene sul suo letto di malattia”». Questo per dire che nel malato noi non incontriamo soltanto un amico o un parente che suscita la nostra compassione, ma un fratello che ha qualcosa da do-narci. Lo guarderemo con gli occhi della fede e, come la parabola del buon Samaritano insegna, egli per noi non sarà il “prossimo”, ma noi saremo “il prossimo” a lui. Quando si pratica questa delicata arte di misericordia, ripensata oggi come segno di civiltà e rispetto della vita, occorre convincersi che non si è più forti del malato, né ci si deve sentire gratificati dall’atto di vicinanza che si sta compiendo. Andare a far visita agli infermi, soprattutto agli infermi in condizio-

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ne gravi o terminali, senza mostrare in alcun modo di avere fretta, ci fa conseguire lo scopo di farci percepire “accanto”, capaci di ascoltarli e, perciò, farli parlare più di quanto facciamo noi. Insomma, farci “piccoli” senza fare più di quanto essi ci consentano. Diceva il beato Puglisi: «Quando ti incontri con qualcuno, evita di guardare spesso l’orologio se non vuoi dare l’impressione di avere premura, ma com-portati come se stessi facendo la cosa più importante, anzi l’unica». Questa è la delicatezza ed a maggior ragione va mostrata se la perso-na incontrata è degente in un ospedale. La malattia è una cattedra da cui ogni persona sana deve saper apprendere insegnamenti di vita. Il malato o l’anziano più o meno abile, nella cerchia dei nostri pa-renti e amici, deve percepire di godere grande considerazione in chi è venuto a fargli visita e nella cura riservatagli deve poter cogliere la sollecitudine del Signore: generosità e comprensione dovranno av-volgerlo a tal punto da fargli dimenticare – sia pure per breve tempo – un po’ dei suoi affanni.

«Non indugiare a visitare un malato» – afferma il passo di Sira-cide 7,35 – «perché per questo sarai amato». Cristo (Mt 25,36) si identifica con il malato [...]: “ero malato e mi avete visitato”, elevando così la malattia a sacramentalità. Il malato è “sacramento di Cristo”, e la sua dignità merita di essere riconosciuta. La malattia appartiene all’esperienza di ognuno e interpella chi è sano a dare sollievo a chi è colpito dalla prova, infondendo fiducia nel suo cuore e aprendo alla speranza nei mezzi di cura e di terapia. La preghiera – anche quella sacramentale dell’Unzione degli infermi, quando occorre - fatta con fede viva salva il malato, lo rende abile ad entrare nel regno dei cieli, e la santità dello Spirito Creatore riversata su di noi come rugiada dà vigore e sostegno per farci carico dei nostri doveri di creature umane e di tutte le incombenze pratiche che afferiscono al malato. Prendersi cura degli infermi è importante almeno quanto “il curare”, che pure richiede la massima attenzione. Ricordino sempre medici e operatori sanitari di rispettare la psicologia dei pazienti, monitoran-

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do, come prevedono le leggi, la percezione del dolore ed attutendolo il più possibile e compatibilmente con le condizioni psicofisiche del malato, privilegiando la comunicazione all’informazione e la con-fidenza al confidenzialismo, soprattutto informando correttamente sulle terapie e sui farmaci proposti, affinché il malato accordi il pro-prio consenso (non a caso questa delicata fase del rapporto curan-te-paziente è stata definita dal legislatore “consenso informato”). È in gioco il ruolo dei sanitari: non tecnici, ma persone. Chi presta la cura deve essere capace di personalizzarla, trasmettendo nel ma-lato la speranza di guarire, almeno di migliorare, resistere, o anche di palliare quando la diagnosi è infausta, quindi di coinvolgere cor-dialmente paziente e gruppo familiare di riferimento nei momenti più gravi del processo di decisione, di guarigione e di cura. Il più grande infermiere, il più grande medico del mondo è stato proprio Gesù il quale, con misericordia e tenerezza, riuscì a sanare gli storpi, restituì la vista ai ciechi, mondò i lebbrosi, tutte le volte che avvertì una grande fede nei loro cuori. Il malato deve “percepire”, senza che gli venga detto esplicitamente, che noi preghiamo per lui durante la “sua” notte, nelle lunghissime ore insonni. Anzi, deve riuscire a senti-re che non siamo noi a fargli visita, ma è la tenerezza di Dio che con le nostre preghiere si manifesta in lui.

Visitare i carcerati. In questo caso imbastirò la mia riflessione, prendendo spunto da un avvenimento memorabile. Nel suo primo Natale da Papa, Giovanni XXIII andò a far visita ai carcerati di Re-gina Cœli e, appena arrivato, spiegò: «Voi non potevate venire a tro-varmi, così sono venuto io a trovare voi». Anche papa Francesco ha voluto celebrare la sua prima Messa in cœna Domini lavando i piedi a dodici giovani carcerati (di cui due ragazze) in un istituto di pena minorile. Visitare i carcerati vuol dire mettere in pratica quell’accor-tezza di prossimità e di volontariato capace di far filtrare l’amore di Dio in un mondo condannato all’esclusione perché formato da

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delinquenti. Un mondo spesso spietato come nei casi di condannati al carcere di massima sicurezza e ad una “pena senza fine”. E con altrettanta premura occorre sostenere i congiunti che, sono sì liberi, ma vivono sulla loro pelle la colpa di un fallimento umano, che dal carcerato passa sull’intero nucleo familiare.

Gesù non ha esitato a portare su di sé lo stigma del peccatore, del colpevole che, condotto a forza davanti ai tribunali del potere reli-gioso e politico, suscitava ripugnanza e disgusto solo a vederlo. Di-cendo «ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,36), ci obbliga a considerare chi è in prigione come uno che è molto bisognoso di cure e relazione e ad affidarlo al buon cuore della comunità cristiana. «Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere», si legge nella Lettera agli Ebrei (13,3). La popolazione carceraria è in gran parte formata da poveri, emarginati, piccoli spacciatori, im-migrati, tossicodipendenti, malati di Aids che spesso non hanno neppure un “tu” che li vada a visitare. Entrare in contatto con un detenuto significa prestargli un volto disposto al dialogo e all’ascolto, e una presenza accogliente che saprà persino convincerlo di essere più importante degli atti commessi: anche i più riprovevoli possono anelare al riscatto. Aiutarlo a guardare in faccia il male può far sì che il tempo di reclusione corrisponda ad un fermo proponimento di rigenerazione, a una riconciliazione con se stesso e con Dio, e con un nuovo senso dell’esistenza, prima compromesso o distrutto del tutto.

Per tutto questo occorre dilatare gli spazi della carità per non giu-dicare chi è dietro le sbarre, anzi per vedere in lui un fratello (o una sorella); sentire come nostre la sua tragedia e vergogna e discerne-re le prigionie interiori a cui noi stessi tante volte ci condanniamo. Nell’assistenza ai carcerati, svolta primariamente dagli operatori e dai cappellani, è necessario seguire la logica evangelica del ripartire dagli ultimi, da quanti hanno scelto volontariamente di vivere un calvario al limite della disperazione. Si può anche pensare di inse-rirsi in gruppi o associazioni autorizzate ad accedere alle carceri per

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«promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità cristiana e la società libera» (art. 17 legge 353/75). All’opera di misericordia “Vi-sitare i carcerati”, bisognerebbe, tuttavia, aggiungerne un’altra: “Aiu-tare i carcerati a reinserirsi nella società”. Il lavoro di educazione alla libertà di ogni credente, inoltre, non deve essere scisso da un deciso lavoro politico ed amministrativo, che non può limitarsi a cercare di risolvere il problema delle associazioni illegali con gli sconti di pena ai collaboratori di giustizia, e da una riflessione più ampia, che abbia veramente a cuore dignità e diritti umani. La cronaca registra impie-tosa il numero dei suicidi in cella, le storie di pestaggio, il dramma del sovraffollamento... Come il dolore è la pena in più del malato, così l’indifferenza è la pena in più di chi sconta la giusta punizione. E all’indifferenza, che è proprio il vuoto della misericordia, occorre reagire con forza, o meglio con un messaggio sempre dettato dallo Spirito, che va persino oltre la cella o le catene, o l’isolamento. La “liberazione” annunciata da Gesù è, infatti, ben altra cosa: riguarda la conversione, l’appello a ritornare a Dio e al bene.

Seppellire i morti. Tobia aveva scelto di seppellire i corpi dei compagni di fede, “disinvoltamente” buttati dietro le mura di Ninive (Tb 1,17b-21) e, a ragione di questo suo comportamento, gli aveva-no confiscato i beni ed era stato costretto a fuggire. Il gesto di pietà del “seppellire i morti” autentica e testimonia lo spirito del nostro essere cristiani e il rispetto per i fratelli che compiono il loro ultimo viaggio. Era questa l’opera di misericordia compiuta da Tobia duran-te l’esilio degli ebrei in Babilonia e reiterata da Giuseppe d’Arimatea in omaggio a Gesù, portando “una mistura di mirra e àloe di circa cento libbre” (Gv 19,39). Riflettere sulla sepoltura (tradizionale, per inumazione o per cremazione, che la Chiesa concede a patto che non sia decisa “in odio alla fede”) invita a riflettere su ciò che la mor-te costituisce per l’uomo e a discernere ciò che è davvero essenzia-le nella vita. La morte è uno specchio della società e, con il tempo, mutano anche i comportamenti e i trattamenti, sia per accertarla

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clinicamente, sia per accomiatarsi decorosamente dai corpi senza vita dei propri cari. La Chiesa “vive” gli incessanti mutamenti sociali preservando la fedeltà al messaggio di Gesù. Accompagnare alla de-cisione di donazione degli organi, vegliare una salma, partecipare ai suoi funerali, stringersi ai superstiti sono modi per illuminare i con-giunti con la nostra fede rinverdita dalla speranza della risurrezione. È certamente segno di gentilezza coprire con ghirlande di fiori le bare dei nostri defunti, ma i fiori più belli sono le opere di bene e anche un’ intima e commossa partecipazione al dolore dei parenti pregando con essi. La cura cristiana per i morti fonda la sua giusti-ficazione innanzitutto su ragioni teologiche: «Sia venerato il corpo dei santi perché fu certamente tempio dello Spirito Santo e risorgerà glorioso alla vita eterna» (Catechismo diocesano, n. 68). Il corpo ora senza vita è stato fin dal Battesimo lo spazio in cui Dio ha preso di-mora: tabernacolo vivente, inabitato dallo Spirito Santo. Anche nella morte, Dio vi compie il grande mistero nell’attesa della risurrezione dei corpi e della vita del mondo che verrà. Ragioni semplicemente umane, inoltre, ci portano a guardare a quanti si sono addormenta-ti nel Signore come ai compagni della nostra vita, compagni di un peregrinare che erediteremo almeno come ricordo, e talvolta anche come idee, pensieri, valori, stili di vita. Seppellire i morti vuol dire far loro dono di cristiana pietà, assisterli mentre ci precedono nel cam-mino verso il Padre, verso l’amore che riscatta i corpi da ogni ferita e li trasfigurerà ad immagine del risorto. Se la morte mette in evidenza l’indigente debolezza e la nudità del corpo, ora esanime resta legato per sempre a ciò che è stato in questa vita: unto e santificato, spesso ha fatto parte attiva della comunità cristiana ed è entrato comunque nella nostra comunità di affetti.

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Capitolo quartoIl pane della misericordia nutre il corpo di tuo fratello e sazia la tua l’anima Consigliare chi è in dubbio, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare chi è nell’afflizione, perdonare le offese, soppor-tare con pazienza chi arreca molestie, pregare Dio per i vivi ed i morti (Catechismo diocesano, n. 170).

«Perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione» (Gc 5,11).

Se è vero che ogni opera di bene indirizzata al corpo investe anche la componente psicologica, è anche vero che le opere destinate alla componente psicologica si riverberano sulla sensazione di benes-sere e di salute in ogni accezione. La Lettera agli Ebrei ci ricorda di essere «solleciti gli uni verso gli altri, per stimolarci alla carità e alle opere buone» (Eb 10,24). La frase è inserita in un brano nel quale il lettore viene esortato a confidare in Gesù Cristo sommo sacerdote, il quale ci ha ottenuto il perdono e l’accesso a Dio. Da ciò l’autore trae le conseguenze morali pratiche. Il frutto dell’accoglienza piena di Cristo è una vita svolta secondo le tre virtù teologali, con l’atten-zione costante alla carità, realizzata con le opere buone.

Consigliare i dubbiosi. Radice del consiglio da offrire a chi è in dubbio è il cuore. Balsamo al dubbio dell’altro, all’incertezza dell’altro, al buio sulle prospettive da scegliere, è sempre il cuore. Davanti alla rivelazione misteriosa di Dio ci apriamo alla dimen-sione del cuore e con esso alla misericordia, dunque alla carità più cordiale e gradita. Dice il Siracide: «Radice dei cambiamenti è il cuore, queste quattro parti ne derivano: bene e male, vita e morte, ma su tutto domina sempre la lingua» (Sir 37,17-18). Insomma

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occorre essere sempre pronti a discernere la via del Signore e a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza, della grazia e della salvezza che sono in noi.

Per la cosiddetta “cultura del dubbio”, così diffusa nella nostra so-cietà relativista, niente è certo, dal momento che tutto è opinabile, e perciò perpetuamente in discussione, non esistendo punti fermi. Oltre ad insinuare il senso di provvisorietà e quasi di “liquidità” so-ciale, questa mentalità può portare a logorare cuore e spirito. Allo-ra è quanto mai provvidenziale l’intervento del fratello misericor-dioso, sostegno a chi non sappia che cosa pensare, dire, scegliere, fare. L’esercizio della carità non è mai delegabile, neppure in que-sto gesto così nobile di vicinanza ai dubbiosi, soprattutto quando il dubbio rientra nell’ambito della coscienza morale. Se vogliamo essere veramente d’aiuto, cerchiamo di non sentirci depositari di certezze assolute, perché prima finiremmo per impedire alla verità di manifestarsi e, poi, lasciarsi amare. I consiglieri nel senso evan-gelico sono soprattutto testimoni di una fede che aiuta i fratelli a compiere scelte consapevoli, li rinfranca nel momento dell’incer-tezza e li riconduce sul retto cammino per il Signore. Quand’è integra e vera, la fede, dispone di argomenti, di esperienza ed è capace di insegnare il bene e di distogliere dal male, dalle illusioni e dalle menzogne. I dubbi si dissipano soprattutto nel dialogo che unisce i cuori e nasce dalla misericordia, ed è l’amore evangelico il consiglio che funziona meglio degli altri. Un genitore impiega tempo e pone attenzione ai propri figli; un insegnante si rapporta con sollecitudine con dei ragazzi che stanno crescendo; un amico accetta di essere il porto dove l’altro possa fermarsi per riposare un po’ e quindi riprendere la rotta; un catechista “allena” i catecumeni durante tutte le tappe di maturazione della fede. Neppure la fede creduta, infatti, è esente dal dubbio, ma il dubbio non necessaria-mente è negativo. Un’inquietudine fisiologica tante volte aiuta ad uscire dall’ovvietà dei luoghi comuni. La fede di per sé è mite: non

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si impone come certezza ma si offre alla libera scelta dell’uomo, al-meno come prospettiva plausibile e liberante. Ogni credente resta un cercatore di verità, sebbene già conosca e professi tale verità nei Simboli della fede. Talora potrebbe accadere di trovarsi nel vero, ma sicuramente la verità non è un monopolio personale. Verità è solo Gesù Cristo, eppure anch’Egli chiede al Padre: «Perché mi hai ab-bandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46). Questo è un mistero che come credenti ci angoscia, fino a quando non arriviamo a comprende-re che alla sofferenza e al silenzio devastante del dubbio si deve rispondere con uno sguardo amante, con gesti rassicuranti, con coraggiose scelte attinte dal Vangelo, con l’incontro dei cuori. Ai dubbiosi della fede, inoltre conviene avvicinarsi con umiltà, qualità indispensabile sia per chi dà consigli, sia per chi li cerca. Un buon consigliere – anche un padre spirituale e confessore – deve com-prendere la situazione e la sofferenza dell’altro e aderirvi con tatto e senso di realismo, così da indicargli delle vie percorribili, non nebulosi miraggi. Se è molto difficile indicare la soluzione del pro-blema, è almeno possibile donare speranza al dubbioso, accompa-gnarlo verso il futuro, operare “maieuticamente” per farsi confidare le idee che già abitano in lui, se è un battezzato e perciò inabitato dallo Spirito Santo.

Insegnare agli ignoranti. Socrate usava nell’insegnamento l’arte della maieutica, cioè dell’ostetricia, giacché aiutava l’allievo a “far uscire” da sé il concetto, proprio come faceva sua madre, le-vatrice. Possiamo paragonare questo metodo all’esercizio della mi-sericordia, che ci permette di attivare tante energie ed aiutare gli operatori delle Agenzie di formazione, ovvero gli operatori sco-lastici dell’educazione nei vari ruoli e livelli, inclusi gli insegnanti di religione; i genitori, i primi e i principali educatori dei loro fi-gli, perché siano capaci di trasmettere scintille d’infinito ai figli; i catechisti nelle parrocchie. L’insegnamento, che, è una missione,

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diventa anche opera di carità quando riesce ad esprimersi come uno strumento di trasmissione di esperienze di vita oltre che di principi: un percorso di libertà che lascia nelle persone solchi per sempre. Si tratta di offrire con coraggio e generosità il servizio della verità davanti alle necessità della vita: destinatari dell’educazione, infatti, sono anche i meno dotati o gli indifesi nel dinamismo dei rapporti sociali. L’analfabetismo, in senso lato, culturale e religioso, ha raggiunto livelli preoccupanti a causa dello scarso valore dei maestri-testimoni. L’ignoranza attecchisce dove scarseggiano me-morie e maestri. Gesù si è proclamato Maestro ed ha raccomanda-to di non chiamare altri con questo nome. Ciò non ci esime, tutta-via, dal dovere della testimonianza, anzi ci ricorda che si è maestri solo rimanendo nel Maestro. Gesù ha insegnato con la Parola, le parole, i gesti. Ha insegnato con la sua stessa persona, “sacramento di Dio”. Insegnare a chi non sa “la grammatica della vita”, diventa partecipazione all’atto creativo stesso del Signore. Tutta la vita di fede necessita di un insegnamento in cui il più esperto guida il meno esperto, secondo una modalità dialogica che coinvolge do-cente e discente. Non soltanto i parroci sono depositari di tale re-sponsabilità, testimoniata attraverso una coerente credibilità e un perenne aggiornamento capace di discernere i segni dei tempi, ma ogni credente può dedicarsi a trasmettere con amore le cose sante. Occorre porre al cuore dell’azione pastorale e comunitaria il pro-blema dell’ignoranza dei credenti, della mancanza di conoscenza da parte dei più giovani, inserendo un contro-movimento di “nuo-va evangelizzazione” della fede per le “generazioni incredule”. Una conoscenza approfondita, desumibile anche dalle nuove tecniche elettroniche e digitali della “rete”, rivela la maturità della coscienza cristiana sempre pronta a dare ragione della speranza che alberga in ogni credente (cf. 1Pt 3,15). Il problema, naturalmente, è anche politico, dato che in tanti paesi riguarda l’alfabetizzazione, che è la base del riscatto sociale. Sulla capacità di educare le creature sem-

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plici del mondo si misura l’amore per le generazioni future e la civiltà stessa.

Ammonire i peccatori. Il metodo per un’adeguata correzione fraterna è indicato da Gesù stesso per bocca di Matteo: «Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costo-ro, dillo all’assemblea, e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano» (Mt 18,15-17). Prendia-mo coscienza del fatto che non ci sono “giusti” che ammoniscono i “peccatori”, ma fratelli che aiutano altri fratelli a non cadere nel peccato o a uscire dal guscio delle miserie morali. Ammonire un fratello è salvare un pezzetto di Dio, recuperare sul suo volto la bel-lezza e la luce che Dio gli ha messo dentro sin da quando l’ ha pen-sato dall’eternità. Correggere l’altro con dolcezza (come san Paolo ci esorta a fare in Gal 6,1) e vigilare su noi stessi per non cadere a nostra volta in tentazione è un compito senza fine perché ogni cre-atura, pensata come primo sacramento della presenza di Dio nel-la storia, è fragile e quindi soggetta a continue cadute, tentazioni e provocazioni. La persona condotta dallo Spirito, commenta san Girolamo, «dovrebbe correggere gentilmente e umilmente il pec-catore. Non deve essere rigido, nervoso o addolorato dal desiderio di correggerlo. Egli dovrebbe incitarlo con la promessa di salvez-za, promettendo la remissione dei peccati e portando la testimo-nianza di Cristo» (Commento all’Epistola ai Galati 3,6,1). Tuttavia, mette in guardia Girolamo, colui che corregge deve fare attenzione a non cadere, a sua volta, in tentazione: «anche se l’uomo giusto ha vinto le tentazioni, sapendo con quanta difficoltà le ha vinte, dovrebbe essere pronto a estendere il perdono al peccatore [...]» (Commento all’Epistola ai Galati 3,6,1). Eppure il cuore umano,

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dove si annidano anche i mali del mondo, si può guarire in tempo. È la sollecitudine della paternità di Dio che cerca la pecora perduta a chiederci di correggere gli errori dei fratelli davanti al pericolo di non riconoscere più il Vangelo. La verità della correzione non dovrà essere mai disgiunta da una certa amabilità nel tempo che precede il passaggio all’altra vita. Se tardiamo a correggere il fra-tello in errore, o ci mostriamo indifferenti, rischiamo di far saltare i ponti dell’amicizia e di alimentare nel nostro animo delusione, freddezza, chiusura, se non addirittura odio. Tante volte si ha paura di ammonire, anche se si è genitori o educatori; si ha timore delle reazioni o della possibilità di “perdere” per sempre un amico, un figlio, un fratello, un padre. Tuttavia, chi ama davvero non ha paura e il profumo dell’amore, quand’è vero, non incute paura, al contra-rio attira a sé e benedice un’appartenenza.

Le correzioni fondate sull’amore, praticate da Gesù, sono all’inter-no della sua obbedienza al Padre, eseguita di volta in volta con vee-menza, oppure fatte a malincuore o dolcemente sussurrate o affida-te a semplici e silenziosi sguardi. Prendendolo ad esempio, la nostra correzione dovrà essere ad un tempo autorevole e misericordiosa e dovrà esprimere all’occorrenza, compassione e virtù, libertà e co-raggio, equilibrio e fede, fermezza e umiltà, e sempre discretamente. Essere custodi dei fratelli è una responsabilità connessa all’essere tutti membra dello stesso corpo. La parola “ammonire” deriva dal latino ad-monère, ed uno dei significati di monère è “ricordare”, “far ricordare”. L’ammonizione, appunto, è un far ricordare ciò che si è dimenticato e il peccato è dimenticanza di Dio e allontanamento della sua volontà. Chi ammonisce deve ricordarsi di essere un pec-catore perdonato, pronto a farsi carico del peccato del fratello.

Consolare gli afflitti. «Beati quelli che sono nel pianto per-ché saranno consolati» (Mt 5,4): dunque la consolazione più im-portante, quella che l’uomo cerca continuamente, è già stata pro-

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messa da Gesù. “Godere con chi è lieto e piangere con chi soffre” sarà per noi la traduzione pratica di quest’opera di misericordia, se vorremo imitare nostro Signore. Consolare chi è solo, o meglio chi soffre da solo; dare una mano a chi porta la croce, come fece il Cireneo per Gesù, sono espressione della solidarietà umana più fraterna. Nella vita si incontrano tante situazioni di dolore di sof-ferenza, a livello spirituale, morale, mentale, psichico, corporale ed è nostro diritto “farci presenza” a chi è nella desolazione. Dovremo indossare i panni dei sentimenti consolatori, propri di Gesù Cristo, e portare luce avvicinandoci con discrezione, manifestando una fede ed un’umanità empatiche. Gesù ha conosciuto tanto l’afflizio-ne del lutto, piangendo l’amico Lazzaro, quanto la consolazione di alleviare il dolore. Un fratello misericordioso apre il cuore alla tribolazione altrui, cercando di infondere fiducia e di trasmettere speranza, concorrendo quando possibile alla soluzione delle cause che provocano l’afflizione. L’incontro tra chi soffre e chi si fa far-dello della tristezza altrui, è salvifico non per uno solo, ma per am-bedue. Chi consola, infatti, lascia che tutto il cuore sia coinvolto e comprende di non vivere invano. Le sofferenze sono molteplici ed eterogenee: perdita di persone care, sofferenza fisica, varie forme di depressione, schizofrenia e patologie della psiche, instabilità emo-tiva, emarginazione, disoccupazione, solitudine di ragazze madri, divorziati, figli di genitori separati in lotta tra loro per l’affido, bul-lismo, dipendenza da droga, gioco, alcol, vecchiaia, abbandono de-gli anziani e tantissime altre.

Consolare è una vocazione che s’impara dai vangeli e facendo affidamento sullo Spirito Paraclito, Consolatore, Incoraggiatore, mandatoci come aiuto alla fede e alla nostra fragilità. Consolare, prima di dire o fare qualcosa, è condividere cioè, farsi carico del dolore altrui e lenirlo con la forza spirituale del proprio cuore. Consolare è anche avvicinarsi con confidenza e intelligenza a ciò che dell’altro non si vede. Non è facile, certamente, mettere in pra-

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tica l’opera di misericordia spirituale, soprattutto se si crede che essa consista nelle parole. La consolazione passa anche attraverso il non detto, si esprime con i gesti, o gli sguardi pieni di affetto, o stando accanto, in silenzio ed in attesa che l’altro trovi l’animus di aprirsi. Pronunciare parole affrettate è sintomo di inadeguatezza di fronte ad una condizione di afflizione. Meglio “mettersi in ascol-to” della sofferenza in silenzio. Vero è che la consolazione defini-tiva spetta a Dio, il quale promette comunque la beatitudine a chi conosce afflizione e la cancellazione del dolore nel suo regno. È infatti scritto nell’Apocalisse: «E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,17; 21,4).

Perdonare le offese. Nella parabola del fariseo e del pubbli-cano (che è solo in Lc 18,9-14), il Signore, padre degli umili, non volge lo sguardo al fariseo, che esalta se stesso con un esagerato senso dell’io (e non certo di Dio!), ma a quel pubblicano in fondo al tempio, che «non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore». Se Dio è pietà, noi altro non siamo che povertà. Sii per me quello che tu sei, dice a Dio il pubblicano, che sarà reso giusto dalla sua misericordia. Parto da un misero uomo che, con le sue parole così vere, si affida alla pietà divina per dirvi della gioia del perdono. Dio per primo rimette a noi i nostri debiti e ci lascia sperare contro ogni speranza nella conversione del fratello. La pratica del perdono fraterno, ine-quivocabile insegnamento del Vangelo, è forse l’opera più difficile di tutte, non solo perché i nostri sentimenti cercano di opporsi, ma perché bisogna essere in due per riconciliarsi, come due sono gli scenari possibili: o una famiglia di fratelli o una competizione tra nemici. Certa criminalità e certe faide familiari sono l’espressione di una logica di vendetta che ha preso il sopravvento sulla giustizia e non lascia alcuno spazio a pentimenti, a ritorni sui propri passi. Eppure, per dirla con san Francesco di Sales, «il cristiano preferirà sempre essere incudine piuttosto che martello, derubato che ladro,

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ucciso che uccisore, martire che tiranno». Perdonare, dunque, si-gnifica cercare chiarezza e verità e non lasciare che il sole tramonti sui nostri rancori. L’umana debolezza può trovare forza soltanto in Dio, e così trasformare il perdono – via irrinunciabile per un cristiano, che lo sperimenta spesso quando ricorre al sacramento della Confessione-Riconciliazione – in un’inedita possibilità di fra-tellanza e reciprocità di sentimenti. Perdonare senza rinunciare alla necessità di espiazione per i mali commessi è far prevalere la grazia sulla ritorsione; fare del male, anche il più efferato, diventa l’occa-sione di un dono, senza attenuare chiaramente le responsabilità di chi ha peccato e senza togliere l’irreversibilità dell’offesa subita, con la conseguente necessità della dovuta riparazione. Non riconosce-re che lo Spirito è in grado di suscitare comunque la conversione dei cuori, sarebbe un errore imperdonabile. Se manca la capacità di perdono, il male compiuto si radica nella memoria diventando seme di altro male. Il perdono non è legato soltanto ai grandi fatti di cronaca nera che avvelenano tutto il mondo, ma bussa alla porta della nostra vita e delle nostre famiglie quotidianamente per riac-quistare forza vitale e farsi largo tra musi lunghi, incomprensioni, critiche, aggressività e intolleranze, tradimenti e infedeltà. Il perdo-no ha in sé la forza di fondare il pentimento, quando il peccatore si scopre amato anche nell’odio. Campeggia la scena del Signore risorto, il quale mostrando le mani trapassate dai chiodi fa dono dello Spirito Santo agli apostoli perché rimettano i peccati in suo nome. È indispensabile fare ricorso alla grazia nel sacramento della Riconciliazione, quando si voglia perdonare o chiedere perdono, per consentire un travaso di spirito nel cuore e nell’intelligenza. Raccontare la sofferenza a chi sa ascoltare con amore e partecipa-zione è un modo per liberarsi dalla penosa sensazione di solitudine che affligge chi ha subito il male.

Come stile di misericordia spirituale il perdono dovrebbe esten-dersi anche alla società e divenire principio-guida politico, “atto eti-

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co” in grado di trovare una possibile via di conciliazione nei con-flitti etnici e nelle contrapposizioni sociali. L’eccessivo aumento di contenzioso giudiziario indica l’incapacità o la non volontà di tro-vare forme di accordo, di conciliazione, di perdono. Dando ad ogni uomo il perdono, Dio gli ha dato anche la possibilità di viverlo. Il perdono cristiano si comprende veramente alla luce della croce di Gesù, il quale ha offerto amore a chi non lo chiedeva, aprendo a tutti il varco della salvezza e la porta della fede.

Sopportare pazientemente le persone moleste. È san Pa-olo che in un passo della Lettera ai Romani ci parla di un colle-gamento, che dovremmo tenere a mente, tra costanza e speranza: «La tribolazione produce costanza, la costanza una virtù provata, la virtù provata speranza; la speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che fu dato a noi» (Rm 5,3-5). È più facile riuscire a soppor-tare l’altro se in noi portiamo la speranza di vederlo trasformato in una persona ricolma dello Spirito di Gesù. Un’opera a tal punto concreta si può ritenere persino corporale, oltre che spirituale, poi-ché molte volte presuppone ingombranti pesi da portare, da inten-dere come scomode presenze, pretese, egoismi e stranezze. Accet-tarci con amore, come dice l’Apostolo, è una prova che ci interpella tutti i giorni nella vita familiare, negli ambienti di lavoro, nei luo-ghi dove incontriamo il “pubblico”, ovunque andiamo, soprattutto quando non siamo noi a scegliere le persone con cui ci intratterre-mo e condividerne un po’ del nostro cammino come “amici”. Anche se gli altri non sono come li vorremmo, vanno sempre presi come sono, con animo sereno, per amor di Dio. Non solo sopportare, ma accettare con amore è cosa che appare improbabile in certi ambien-ti, eppure ciò ci fornisce un’occasione di miglioramento. Si pensi alla pazienza di Dio, alla sua passione d’amore, avendo accettato di soffrire in attesa dei tempi infiniti della conversione dell’uomo. La makrothymía (magnanimità) di Dio è uno sguardo grande e mise-

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ricordioso sull’essere umano, sguardo che offre sempre un’altra pos-sibilità. Per il cristiano la pazienza è frutto dello Spirito, è arte di vi-vere l’inadeguatezza che riscontriamo negli altri prima di verificarla in noi stessi e, magari, scoprirci persone “moleste” per gli altri. Dun-que non si può pazientare con i fratelli se prima non si è autocritici per le nostre incongruità e impazienze. Chi perde troppo presto la pazienza per i difetti del prossimo, dà prova d’essere imperfetto. La pazienza, intesa come capacità di non agire istintivamente ma di aspettare i tempi dell’altro, non è mai sinonimo di debolezza, al contrario ha a che fare con le virtù cristiane. Occorre, però, ricor-dare il diritto alla collera di chi osa gridare “basta”, come fece Gesù quando scacciò dal tempio i venditori che lo avevano ridotto ad una bottega di commercianti ladri. I veri pazienti sanno indicare la strada del retto comportamento attraverso uno stile di vita perfetto. Si lasciano ammirare e, di conseguenza, imitare.

Pregare Dio per i vivi e per i morti. Questo invito di mise-ricordia si basa su quella splendida verità di fede che è la comu-nione dei santi. La Chiesa in tutta la liturgia educa all’esercizio di tale opera: nella preghiera eucaristica preghiamo per i vivi e per i defunti. Siamo, infatti, tutti bisognosi della misericordia di Dio. Il Vangelo di Luca (Lc 11,1) ci mostra uno dei dolcissimi frutti della preghiera, che è il desiderio dell’imitazione del Maestro. Un gior-no i discepoli, vedendo Gesù in atteggiamento orante, gli chiesero: «Signore, insegnaci a pregare». Gesù insegnò loro il Padre nostro, affinché anch’essi condividessero con lui la fiducia che Dio Padre esaudirà le nostre preghiere di figli grati e se tante volte il Signore ci fa attendere è perché vuole darci un bene più grande di quello per il quale lo abbiamo pregato. È quanto è capitato a santa Mo-nica, la quale per tanti anni aveva pregato perché il figlio Agosti-no diventasse cristiano: il Signore la esaudì facendo del figlio un grande santo. Pregare è dare “respiro” al mondo, è farsi carico di un progetto che ha come obiettivo il bene integrale di ogni creatura

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che è venuta o vive nel mondo e che, partendo dalla considerazione del dono della vita, non interrompe mai la comunione con Dio. La morale cristiana avvolge l’intero mistero della vita che ha la propria conclusione naturale nella morte. Il morire, tuttavia, non rompe la solidarietà tra gli uomini, non compromette la vita “vera”, ma ha il significato di accettare una volontà più grande della nostra: quella del Padre, finalizzata a fare del mondo un’unica grande famiglia. La fede nella risurrezione ci parla di un amore divino che vale più della vita e si spinge oltre la vita. Pregare per i defunti ed onorarne la memoria è riversare ricordi, intelligenza e affetto nel “giardino” che Dio ha preparato per essi ed è anche presentarli ai suoi occhi con una spiritualità arricchita della nostra tenerezza. Pregare poi «per i defunti che si trovano nella situazione di purgatorio», significa aiu-tarli «offrendo preghiere in loro suffragio, in particolare il sacrificio della Messa, ma anche elemosine, opere di penitenza e lucrando a loro vantaggio delle indulgenze» (Catechismo diocesano, n. 101). Si prega perché si ama e si ama davvero solo se si è imparato a pregare per gli altri. Intercedere significa “fare un passo tra”; situarsi tra due parti; collocare, come l’immagine del libro di Giobbe insegna (Gb 9,33), una mano sulla spalla di Dio e l’altra sulla spalla dell’uomo, divenendo così ponti fra l’uno e l’altro. L’intercessore per eccellenza è Gesù, che nel suo stare tra cielo e terra su di una croce, ha steso le braccia per portare Dio agli uomini e gli uomini a Dio. La preghiera sussurrata a fior di labbra per un nostro fratello è una domanda, una supplica, un’invocazione in cui facciamo memoria davanti a Dio. Ricordarci di qualcuno davanti a lui, fare il suo nome, vuol dire vedere illuminata dalla sua parola la nostra relazione con altre per-sone e la concreta dedizione nei loro confronti. La preghiera, quan-do nasce dall’amore, all’amore conduce ed è una scoperta veramen-te meravigliosa per il cristiano. E Dio non può che rallegrarsi nel vedere come i suoi figlioli s’affrettino ad aiutarsi vicendevolmente durante ed anche oltre la vita.

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ConclusioniPace, misericordia e carità, in abbondanza su voi tutti!

La pagina matteana delle beatitudini (Mt 5,3-12) è tra le più note e belle dei Vangeli. In essa traspaiono quella gioia e quella luce pro-prie degli inizi della predicazione di Gesù, quando sembrava anco-ra facile e bello ascoltare dal giovane Maestro di Galilea l’annuncio del regno di Dio, fattosi per amore, uomo tra gli uomini. C’è una dolcezza straordinaria nelle parole di Gesù. C’è una consolazione che raggiunge ogni cuore e ne fa vibrare le corde più profonde. C’è una visione di Dio che gli uomini, con le loro immagini distorte del divino, non avrebbero mai potuto elaborare. Tutti questi significati hanno fatto sì che quelle parole fossero giudicate, allora e lungo i secoli, come la punta di diamante, la magna charta del messaggio cristiano, nato sui pendii di una collina nei pressi di Cafarnao, una di quelle che degradano verso il lago di Tiberiade, dove l’antica tradizione cristiana ha localizzato il posto nel quale Gesù Cristo ha pronunziato il discorso della montagna (o “del monte”). Per altro verso, è pure nota l’ammirazione di pensatori non cristiani, e tra questi Gandhi, per il messaggio delle beatitudini predicate da Gesù, intese, prima d’ogni cosa, come invito, alla conversione interiore degli evangelizzatori, senza la quale non sarebbero stati possibili né la missione ad gentes, né l’attività pastorale, né il vero ecumenismo.

Il significato dei termini beato42 e beatitudine è da ricercarsi nell’e-timo, sia ebraico, sia greco, sia latino. Con beatus, sebbene i latini abbiano usato indistintamente anche felix e fortunatus, si rende, da un lato, la parola ebraica ‘ašrê, dall’altro la parola greca makários (il traduttore della versione, detta Settanta, usa anche makáristos e il verbo makarízō, nel senso di “proclamare beato”), quest’ulti-

42 Il termine “beato”ricorre 57 volte nell’A.T. (di cui 26 nei Salmi) e 30 nel N.T.

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ma intesa propriamente con il significato di gioia, felicità. Secondo alcuni, invece, e tra costoro André Chouraqui, «il termine evoca la rettitudine dell’uomo in cammino su una strada che va diritta verso Javhè». Infatti egli attribuisce all’espressione in questione il significato di “in cammino!”43. È evidente, comunque, il lega-me che unisce il termine beato al concetto di carità realizzata e alla nozione di felicità raggiunta. È ancora Platone a parlare, per la prima volta nel pensiero occidentale, di anima, definendola come la parte spirituale di cui è costituito l’uomo. Nel Simposio si legge che le persone felici sono tali perché posseggono il bene. Nella pa-tristica, Agostino, come altri prima di lui, sembra ripercorrere la strada aperta da Platone, ma con una differenza profonda e vitale: il sommo bene non è più un’idea, ma una verità incarnata: Cri-sto, che egli, purtroppo, ha riconosciuto ed amato tardi. «Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l’anima mia viva. Il corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te» (Confessioni 10, 20, 29).

La carità conduce alle beatitudini. Non perché oltre la carità ci sia ancora una meta più alta da raggiungere. La carità è in se stes-sa beatitudine, “perfetta letizia” – come amava dire san Francesco – realizzazione piena dell’uomo. Oltre la carità ci può essere solo una carità più alta, più piena, più elevata nell’immagine della carità divina. Possiamo affermare che l’uomo è autenticamente se stesso solo se vive la carità. Che vogliamo dire con questo? L’uomo è ad immagine e somiglianza di Dio, che è Amore; è fatto per amare! In Cristo Dio crea l’umanità nuova, è lui l’uomo vero, che ama il Padre e l’umanità nella perfezione del dono di sé. È lui che dona lo Spi-rito Santo, per creare nell’uomo un cuore nuovo, capace di amare. Per questo siamo fatti per amare. Come l’amore è l’essenza di Dio, così a sua immagine, per redenzione e per santificazione, l’amo-

43 “En marche!”, nell’originale francese. cf. nota a Mt 5,3 nella sua traduzione della Bibbia :La Bible traduite et présentée par André Chouraqui, Desclée de Brouwer, Paris 1985.

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re è la vera essenza dell’uomo. Chi rinnega l’amore rinnega Dio e distrugge se stesso; chi più ama, più realizza se stesso, più è pieno della presenza di Dio. Chi più ama, più aiuta l’umanità ad essere se stessa. Chi più ama, più è felice! E l’amore non passerà mai, sarà la pienezza dell’uomo in eterno, sarà la sua beatitudine senza fine.

Nel pronunciare il “discorso della montagna”, Gesù annuncia che la felicità è possibile ed indica la strada per raggiungerla piena-mente: se il mondo proclama beati i ricchi perché possono per-mettersi quello che vogliono; se proclama beati i gaudenti, i po-tenti, i forti perché incarnano il successo nel mondo, il Vangelo proclama invece beati coloro che si collocano davanti a Dio nella condizione di mendicanti e, come tutti coloro che si sentono privi di qualcosa o di qualcuno, sentono l’esigenza di affidarsi agli altri. «Le beatitudini dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità; esse esprimono la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua passione e della sua risurrezione; illuminano le azioni e le disposizioni caratteristiche di vita cristiana; sono le promes-se paradossali che, nelle tribolazioni, sorreggono la speranza» [...] (CCC 1717). Le beatitudini hanno un forte contenuto escatologi-co; ci ripropongono la priorità dell’annuncio del Dio vivente, l’in-vito essenziale a fidarsi di Dio. Perché «solo Dio basta», ricordava santa Teresa d’Avila.

Ma a questo punto sorge la domanda: è possibile all’uomo di oggi coscientizzarne la proposta evangelica? Onestamente, non può farcela da solo. Se la felicità si trovasse nel paese più lontano ed il viaggio per raggiungerlo comportasse i più grandi rischi e potesse essere intrapreso solo a prezzo dei peggiori sacrifici, parti-remmo subito. Ma, purtroppo, tale paese non lo troveremmo mai, né vicino né lontano, perché esso si trova dentro, non fuori di noi. Ecco perché, come Chiesa diocesana, dobbiamo non solo far risco-prire il fascino delle beatitudini, ma dobbiamo anche, quale comu-nità di discepoli, annunciarle con la testimonianza della vita, nella

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sofferenza e nella misteriosa gioia di chi ha scelto di seguire il Cri-sto fino all’estremo dono di sé, senza esiti e senza tergiversazioni: la carità non ha ore.

Il compito al quale siamo chiamati è riafferrare la realtà umana di Cristo, tenerla ferma e reggerci ad essa. Afferrarla nella prassi della vita. Ma come afferrare quell’umanità di Cristo per tenerci attaccati ad essa? L’unico modo è vivere le beatitudini, ma ciò non è possibile senza uno scarto decisivo e una radicale conversione nella nostra vita. Chi non arde d’amore non s’incendia: solo quan-do ne saremo consapevoli e ne prenderemo coscienza, vivremo e moriremo in pace, perché ciò che dà un senso a questa vita, darà senso anche al transito verso la vita beata.

Sorelle e fratelli carissimi, la lettera del vostro Pastore è giunta ormai al termine. I parroci, gli altri sacerdoti, i catechisti, gli edu-catori la centellìnino lungo tutto quest’anno pastorale di grazia e di operosità. Come abbiamo visto insieme, la carità regge e comanda la nostra fede trinitaria, cristologica ed ecclesiologica e ci sostiene lungo la vita quotidiana, fatta di realizzazione operosa delle bea-titudini evangeliche, che abbiamo tradotto nelle azioni di miseri-cordia a vantaggio del corpo e dello spirito nostro e degli altri. La carità, ancora, è la struttura profonda del nostro essere cristiano e, trasformandoci dall’interno, incide sul nostro modo di pensare, di progettare, di fare. Tutto ciò è proprio quello che ci vuole in questa nostra società distratta, superficiale e relativista che pare non vo-lere neanche porsi certi problemi perché troppo impegnativi. Per fortuna, in questa navigazione dell’esistenza, c’è la nave di Pietro: la Chiesa (che siamo tutti noi insieme) che è presente, che è assistita dallo Spirito che ci ama e ci assiste, essendo amore per definizione. È scritto nella Sapienza: «In principio, quando perivano i superbi giganti, la speranza del mondo, rifugiatasi in una zattera e guidata dalla tua mano, lasciò al mondo un seme di nuove generazioni» (Sap 14,6). Prima di salutarvi, desiderò però confidarvi che mi

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urge nel cuore l’iniziativa di un segno di carità, che, se con il mio ed il vostro impegno potesse divenire una realtà stabile, uno stile, mi renderebbe veramente lieto.

La povertà cresce in modo esponenziale anche tra noi. La Caritas diocesana, pur prodigandosi davvero ogni oltre immaginazione, è impari a fronteggiare la grande massa di richieste: mamme con fi-gli drogati, umiliati dagli usurai, carcerati, giovani che non hanno i mezzi per intraprendere un lavoro per il quale hanno studiato tan-ti anni, e tanto altro. Insomma, troppe sono le mani che chiedono ed a volte non si riesce a riempirle neppure di un piccolo, tangibile, segno di solidarietà. Allora, mi permetto di chiedere l’offerta di un euro a chi può ed anche a chi sa che cosa voglia dire vivere preca-riamente: un’offerta simbolica, che viene dal mio humus spirituale, e cioè dall’intuizione del beato Giacomo Cusmano: ciascuno lasci un “boccone” della propria porzione al povero che sta per venire a bussare. Così l’Ospite inaspettato, che è sempre segno di Cristo, po-trà sedersi e mangiare un pranzo come gli altri commensali44. Ciò lo si potrà fare sempre, ma in particolare l’8 dicembre, solennità dell’Immacolata Concezione in cui in tutte le parrocchie si farà una colletta. Auspicando possa esservi il coinvolgimento appassionato e convinto di tutti i fedeli e in particolare dei giovani e delle famiglie, della Pastorale Giovanile e Vocazionale, delle Confraternite, dei Mo-vimenti, delle Aggregazioni laicali, e di ogni cittadino della diocesi, ho pensato di chiamare l’iniziativa: “1 Euro per un boccone” (all’an-no, al mese, al giorno, alla settimana), a seconda delle possibilità, da versare sul c/c postale 12179883 indicando la causale. Serviranno a creare un fondo da utilizzare per aiutare qualche giovane che voglia intraprendere una qualche attività, per aiutare il nostro organismo

44 «La nostra missione è doppia: aiutare i poveri per rendere più mite la loro sofferenza e guadagnarli a Dio, avvicinare i ricchi ai poveri per renderli capaci di guadagnarsi la grazia del Signore, onde procurare la loro eterna salute», in G. Cusmano, Lettere del Servo di Dio P. Giacomo Cusmano Fondatore del Boccone del Povero, Raccolta a cura di G. Ajello, Volume II (1881-1888), Scuola Tip. “Boccone del Povero”, Palermo 1952, pp. 197-198.

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dell’antiusura, per venire incontro a casi pietosi. Desidero soprattutto affidare ogni nostro pensiero e ogni nostra

opera al cuore di Maria Immacolata Madre della Misericordia, di-mora e fonte della carità di Dio. Ella è la Creatura in cui Dio ha posto tutti i tesori delle sue Grazie, la Madre dal cui grembo Dio riversa sui propri figli la sovrabbondanza della sua carità. Dio può vivere in Maria, con tutta l’onnipotenza del suo Amore, perché Ella gli ha dato totalmente se stessa. Ella ha permesso che il Cuore di Dio battesse in lei, e con quel Cuore ella ha pensato, ascoltato, ope-rato, offerto il sacrificio di sé. Con il cuore di Dio, ella ha amato e per sempre ama. Ella ci aiuti a far abitare il cuore di Cristo nel nostro cuore, perché, purtroppo, la carità non è il bene che noi scegliamo di compiere. Se, come figli, noi ci rendiamo disponibili al Padre, allora la carità sarà il dono di noi stessi che Dio vorrà offrire al mondo, per completare ciò che manca alla passione di Cristo. Perché Egli possa continuare ad amare ogni creatura anche attraverso il nostro cuore.

Ed ora vi saluto con affetto, invocando su tutti, per l’intercessione dei nostri santi Patroni, la X benedizione di Dio onnipotente, Pa-dre e Figlio e Spirito Santo. A tutti voi «siano date in abbondanza misericordia, pace e carità!» (Gd 2).

Catanzaro, 8 luglio 2013

X Vincenzo Bertolone

Preghiera Il VERBO SPLENDORE DEL PADRE

Pianse l’uomo per secoli e millenniperché era infranto il piano di salvezza:“Tu sei lontano Dio”, pensava l’uomo,

“né ti posso chiamare Padre mio”.Ascoltò il Padre il gemito dell’uomomosso il suo amore da misericordia.

Ed ecco il Verbo, splendore del Padre,venne tra noi a ridarci la salvezza,

pienezza di vita, ricchezza d’amore.O Signore, dilata i nostri cuori

al fuoco ardente della tua misericordia;fa’ che amiamo i fratelli nel tuo nome,

facci odiare il peccato ed essere strumenti del tuo amore.

Amen!

Catanzaro, 16 luglio 2013Madonna del Carmine

X Vincenzo Bertolone

Finito di stamparenel mese di Settembre 2013 presso

GRAFICHE SIMONE sas - CatanzaroTel. 0961.760689 - grafiche47grafichesimone.191.it