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N° 16 - OTTOBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S. P. A.- SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA i n VERONA

Verona In 16/2007

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N° 16 - OTTOBRE 2007 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA

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Quelli che Verona In propone inquesto numero non sono solo fattinoiosamente messi in fila in un se-vero ordine cronologico. Sono so-prattutto volti, incontri. Ora com-moventi, ora duri, ora contraddi-tori o scioccanti, ora nostalgici osuggestivi. Le variabili sfumate diuna complessa umanità che haabitato o attraversato un territorioin distanze di tempo e spazio. Co-me in uno di quei film a episodiche andavano di moda qualchedecennio fa. È Verona che tiene in-sieme gli episodi.La più antica storia qui raccontataè quella dell’uomo che seppellì ilsuo meraviglioso tesoro di monetenella campagna di Sustinenza aCasaleone, prima di partire comesoldato nella sanguinosa guerracivile tra Giulio Cesare e Pompeo.Era il 50 a.C. Il tesoro fu ritrovatoa fine del XIX secolo, il che fa in-tuire che quell’uomo non tornòmai a casa.Siamo nel 1946, quando la guerraera da poco finita e si sperava unpo’ tutti di viver meglio. Tra loroanche l’ex colonnello ClementeDalmazzo che, smessa la divisa,decise di dedicarsi all’attività agri-cola. Invece in una calda notteestiva a Negrar, in località Maso, lasua vita e quella dei suoi familiarivengono interrotte in un modoche ancora oggi ci lascia increduli.Le carte, le cronache di allora resti-tuiscono il racconto dei testimoni,le indagini, la scoperta dei colpe-voli fino al processo.In quegli stessi anni, e in quelli aseguire, molte persone si ritrova-vano tutte assieme a condividereuna identica attesa alla stazionePorta Nuova, dopo aver passato laselezione nel vicino palazzo delCentro Emigrazione. Provenivanoda ogni parte d’Italia, cercavanoun lavoro per mandare i soldi a ca-sa. Prendevano i treni diretti aNord, andavano a lavorare nellefabbriche della rinascente Germa-nia Federale, che aveva bisogno di

manodopera. In quel progressivoe inarrestabile processo di indu-strializzazione, di spostamenti, dicambiamenti rapidi non divenne-ro più scontate certe pratiche cheavevano scandito ritualmente lavita del mondo contadino dallanascita alla morte. Gesti comuni-tari, come quelli che accompagna-vano l’ultimo viaggio di un carodefunto. Gesti che ci permettonodi ritrovare il senso simbolico dimolto agire umano, le reazioni e isignificati di fronte ad un accadi-mento forte e destabilizzante.In Lessinia qualcuno ricorda an-cora i riti legati alla festività deimorti tra ottobre e novembre cheavevano come oggetto privilegiatola zucca, la stessa zucca di Hallo-wen che, dopo essere emigrata in-sieme agli uomini oltreoceano, ètornata a casa forse un po’ tropposvuotata di polpa e semi.Dal Vermont erano tornati indie-tro anche gli scalpellini di San-t’Ambrogio di Valpolicella. Siamoora all’alba della prima guerramondiale. La comunità di San-t’Ambrogio è quasi un’isola, rac-colta dinamicamente attorno al-l’attività del marmo, attraversatada vivaci fermenti sociali. Le pa-gine di un diario parlano di Be-niamino Vittorio, uno dei tantidel popolo degli scalpellini. An-cora storie, scorci, angoli di cittànei quadri di Angelo Dall’OcaBianca di cui, nel 2008, ricorronoi 150 anni dalla nascita. Il suo fucerto un appassionato e straordi-nario sguardo sulla Verona tra ilfinire del 1800 e i primi anni del1900: volti, strade, vie, piazze,mercati, la vita quotidiana e poe-tica di una città.L’ultimo ricordo e saluto è per Lu-ciano Pavarotti. Il viaggio nel tem-po si ferma qui. Al suo debutto inArena nell’estate del 1972. In scenail “Ballo in Maschera” di Verdi.Buona lettura.

Elisabetta Zampini

Primo piano

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Tracce, segni, ricordi.Ogni pagina di questoviaggio autunnale delgiornale ritrovamemorie della città edei suoi dintorni.Non sono solo fatti,noiosamente messi infila in un severo ordinecronologico. Sonosoprattutto ciò che queifatti hanno voluto direper chi li ha vissuti.Sono volti. Incontri.Ora commoventi, oraduri, ora contradditorio scioccanti, oranostalgici o suggestivi

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Storia

Ottobre 20074

di Elisabetta Zampini

Al di là delle Alpi c’era la possibili-tà di un lavoro. Da poco terminatala seconda guerra mondiale, l’Ita-lia liberata si trovava economica-mente in ginocchio. Così la gentesi rimise in cammino, portò avantila tradizione migrante del popoloitaliano. Belgio, Francia, Svizzerale mete più frequentate, più tardila Germania. Terre delle miniere,delle materie prime, delle indu-strie, della ricostruzione dalle ma-cerie della guerra. La manodoperaserviva in abbondanza. L’Italia, co-me sempre, ne aveva. Alla fine del-l’Ottocento e agli inizi del Nove-cento si erano realizzate le migra-zioni transoceaniche verso gli StatiUniti e specialmente l’Argentina,la migrazione che la memoria col-lettiva più ricorda. Ma c’è poi sta-ta un’altra ondata migratoria, mi-nore non tanto per il numero dellepersone che coinvolse quanto perla distanza più contenuta deglispostamenti. Alle navi si sostitui-rono i viaggi in treno, le attese allestazioni, gli abbracci e gli ultimisaluti al fischio del capotreno. Lastazione di Verona divenne benpresto un gremito luogo di par-tenze verso il Brennero, la Germa-nia federale. Non solo perché no-do ferroviario importante. Neipressi della stazione infatti era sta-to istituito in accordo italo-tede-sco il Centro Emigrazione.Non molti a Verona lo ricordano.Eppure vi passavano ogni giorno

centinaia di persone provenientida tutta Italia, in alcuni giorni siarrivava quasi al migliaio. Qui ve-nivano sottoposte a una selezioneper verificare l’idoneità fisica maanche le abilità specifiche per lavo-rare nelle varie fabbriche tedesche.Doveva esserci davvero un via vaiattorno alla stazione di Porta Nuo-va. Per avere un’idea della portatadel fenomeno basta osservare ledimensioni dell’edificio che ospi-tava il Centro Emigrazione. Si tro-va in via delle Coste e oggi è la suc-cursale dell’Istituto Montanari esede dell’Istituto Nani. «La strut-tura è grande – spiega il dottor EliaMorandi, studioso del fenomenomigratorio italiano in Germania,con un’attenzione particolare ailavoratori emigrati ad Amburgo –

perché doveva anche dare ospitali-tà, un alloggio a chi veniva a Vero-na per passare la selezione».Dalla fine della seconda guerramondiale agli inizi degli anni Ses-santa ad oltrepassare il confine al-pino non erano solo uomini edonne del centro o sud Italia. Lasituazione economica del Paeseera disomogenea. Zone di povertàe di sviluppo erano distribuite amacchia di leopardo. Perciò emi-gravano tanto dalla Sicilia quantodal Veneto o dal Friuli VeneziaGiulia. Lo scrittore Giorgio Falcoin un estate di qualche anno fa sifermò alcuni giorni a Segni, unpaese del Lazio, sui monti Lepiniper raccogliere le storie e le me-morie della gente e poi riproporlefedelmente ma con una veste lette-

Dal CentroEmigrazione vicino

alla Stazione di PortaNuova passavano ogni

giorno centinaia di persone provenienti

da tutta Italia,in alcuni giorni

si arrivava quasi al migliaio. Qui

venivano sottoposte auna selezione per

verificare l’idoneitàfisica, ma anche le

abilità specifiche perlavorare nelle variefabbriche tedesche

EMIGRAZIONE

Partivano da Veronacon meta la Germania

Come spesso è accaduto nella storia degli italiani, nel dopoguerra si cercò fortunaall’estero, nell’ex Paese nazista, passando dal Centro Emigrazione di Verona,

frutto di un accordo italo-tedesco. L’edificio si trova in via delle Coste

L’intervista con Elia Morandi in Biblioteca Civica

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raria. Ne è nato un racconto, Ru-deri del tempo a testimone, dove ilprotagonista decide di emigrare inGermania e passa per Verona: “Al-l’ufficio collocamento di Roma cisono opuscoli, libretti che spaccia-no la propaganda tedesca... AlloraSegni e Roma e poi Verona per levisite, tutti ci arriviamo già prontiper partire, per l’estero che chia-ma, le valigie tirate giù dai trenivolano attraverso i finestrini...”.Viene quindi assegnata la destina-zione: “Col viaggio pagato e tuttoquanto, mi mandano a una fabbri-ca dalle parti di Berlino, facciamotegole e pavimenti in legno, par-quet... Il direttore di stabilimentosi chiama Frankestein, io manco cicredo quando me lo dicono, il dot-tor Frankestein parla pure un po-co l’italiano, solo noi là dentrosiamo cinquemila dell’Italia, ilLazio, la Campania, la Sicilia etanto Veneto che adesso uno nondirebbe”. Più tardi, dopo un nuo-vo passaggio al Centro Emigra-zione di Verona, inizia l’attivitàlavorativa a Wolfsburg, la cittàdella Wolkwagen: “Siamo 4000italiani, turni dalle 5.30 alle 14 odalle 14 alle 22.30, straordinariquasi obbligatori, facciamo ilMaggiolino e la berlina tipo Pas-sat. Mai visti tanti Maggiolini, daaverci gli incubi notturni, Mag-giolini a pezzi sconsolati, poi as-semblati e verniciati e collaudati einfine nei piazzali, pronti per itreni, per i camion, per le stradedel mondo ancora da vedere”.Questa testimonianza fa emergere

l’alto numero di italiani che lavo-ravano all’estero: «Si calcola –spiega ancora Morandi – che tra il1946 e il 1976 ci furono circa 7 mi-lioni di espatri e contemporanea-mente 4 milioni di rimpatri. Per-ché bisogna tener presente che leemigrazioni del secondo dopo-guerra erano state concepite e vis-sute come transitorie. Si partivaper un certo periodo di tempo epoi si tornava. Non c’era il distac-co definitivo dei viaggi di un tem-po, quando con il carretto, pocaroba e tutta una vita, ci si andavaad imbarcare al porto di Genova.Il lavoratore che emigrava pren-deva il treno raggiungeva i paesidel Nord Europa, ci stava per unperiodo a seconda del contrattodi lavoro e poi tornava a casa, ma-gari per ripartire ancora in segui-to. Il tutto favorito e regolamen-tato dal governo italiano che cer-cava degli sbocchi alla manodo-pera in eccesso.Nel dicembre del 1955 viene sti-pulato un accordo bilaterale sull’e-migrazione tra Italia e Germania.La Germania manda in Italia unacommissione tedesca con il com-pito di effettuare una selezionemedica e professionale di chi vole-va partire. Inizialmente è a Mila-no, già città ponte verso altri paesi,la Francia soprattutto, poi vienetrasferita a Verona e qui rimaneufficialmente fino alla fine deglianni ’80 anche se ormai la sua fun-zione si era esaurita molto prima».Il Centro Emigrazione di Veronaera dunque un canale statale di re-

clutamento di manodopera, anchese non l’unico: «Diciamo che chinon aveva nessun aggancio di pa-renti o amici in Germania avevatutto l’interesse a passare per il ca-nale statale perché comportava di-verse agevolazioni pratiche. Poipiano piano la situazione cambiain favore di altre possibilità alter-native. Specialmente tra il 1961 e il1968, quando una direttiva preve-de la libera circolazione della ma-nodopera all’interno della Comu-nità Europea, tanto più tra Italia eGermania considerati tra i padrifondatori della Comunità stessa».E dunque si può dire che questamassiccia mobilità di personecontribuì a creare il sentire e la ri-nascita della nuova Europa anchetra condizioni di lavoro spessoprecarie, lotte sindacali e acco-glienza non sempre calorosa deipaesi ospitanti per quanto biso-gnosi di quella manodopera. Ri-mane poi aperta tutta la contro-versa questione della scelta politi-ca italiana di risolvere (allora algoverno c’era De Gasperi), contutto quel capitale umano dirot-tato all’estero piuttosto che utiliz-zato per un piano di sviluppoeconomico mirato in loco.Scrive sempre Giorgio Falco: “L’I-talia fa un accordo con la Germa-nia Occidentale per fornire brac-cia e un po’ di testa all’ industriarinascente dal nazismo. Tutti queitedeschi in guerra vanno rim-piazzati, così come l’Italia nonpuò tenere senza fare niente mi-lioni di ragazzi, magari scatta nel-

Le immagini di italiani immigratiin Germania sono tratte da: Elia Morandi, Italianer inHamburg, tesi di dottoratopubblicata dall’Università diAmburgo nella collana Italien inGeschichte und Gegenwart

«Col viaggio pagato e tutto quanto,

mi mandano a unafabbrica dalle parti di

Berlino, facciamotegole e pavimenti in

legno, parquet...Il direttore di

stabilimento si chiamaFrankestein, io manco

ci credo quando me lo dicono»

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«Siamo 4000 italiani,turni dalle 5.30 alle 14

o dalle 14 alle 22.30,straordinari quasi

obbligatori, facciamoil Maggiolino e la

berlina tipo Passat.Mai visti tanti

Maggiolini, da avercigli incubi notturni»

la testa un accidente, il meccani-smo di averci più diritti, il lavoro,la casa, un avvenire...”.L’emigrato in Germania diventa-va il “Gastarbeiter” (lavoratoreospite): era il lavoratore tempora-neo, stagionale, quindi non mem-bro del nuovo paese, ed il legamecon la nuova terra e i suoi abitantiera transitorio, provvisorio.Quando gli emigrati arrivavano adestinazione trovavano alloggioin apposite strutture di prima ac-coglienza come baracche o villag-gi, fuori dai centri urbani e vicinoalle fabbriche: “Dormiamo den-tro le baracche del villaggio italia-no, il Berliner Brucke, detto cosìpare un teatro, cinquanta barac-che in legno a due piani, riscalda-

te, divise da un corridoio centraleche termina nei bagni senza fret-ta, nella stanza dell’hauswart, ilcapocasa, bè, capocasa: capoba-racca. Tutto intorno recintato... iguardiani all’entrata e in mezzodue case in muratura, distacca-mento dell’ufficio del personale,di uno spaccio, di una sala da ri-trovo, di una sala per la messa didomenica (Ruderi del tempo a te-stimone)”.L’andirivieni continuo di lavora-tori tra Italia e Germania fu undato di fatto, tuttavia molti deci-sero di fermarsi definitivamentenel nuovo Paese con la famiglia,per quanto la politica tedesca nonfavorisse questa decisione. Inogni caso era fortemente presentequella “pendolarità” emotiva percui un poco di radici in Germaniale si metteva e ci si sentiva un po-co tedeschi e un poco italiani op-pure alla fine nessuno dei due. Lavita lavorativa, ma anche emoti-va, del Gastarbeiter è conservatanel libro Arrivederci, Deutschland!del veronese Gianni Bertagnoli,pubblicato solamente in versionetedesca nel 1964 presso l’editriceFranckh di Stoccarda. Bertagnoliera emigrato nella RFT nel 1959 ela sua opera è un romanzo singo-lare, autobiografico con un indo-le al reportage sulla realtà socialee lavorativa dell’operaio emigra-to. Racconta le vicende di RinoSorresini che, dopo la selezioneattraverso la Commissione Tede-sca del Centro Emigrazione, parteda Verona con un numeroso

gruppo di operai, contadini e ar-tigiani meridionali alla volta diPoldorf, un paesino a sud dellaGermania. Lì viene assunto comeoperaio in una impresa edile, im-merso da lavoratore e osservatorecurioso nelle “particelle dell’eco-nomia tedesca”. Il pregio dell’ope-ra, secondo i critici, non sta tantonell’aspetto estetico quanto nelfatto che inaugura il filone dellaletteratura degli scrittori italianiin Germania, la cosiddetta “Ga-starbeiterliteratur”, oggi rappre-sentata da nomi interessanti inproduzioni letterarie bilingui osolo in italiano o in tedesco. In di-verse parti d’Italia, sulla spinta diun crescente interesse verso il re-cupero della memoria, del patri-monio storico caratterizzante l’i-dentità di determinate aree geo-grafiche, sono nati o stanno na-scendo, musei dedicati all’emi-grazione. Raccolgono documenti,diari, foto, oggetti. Un esempioper tutti è il Museo dell’Emigra-zione di Gualdo Tadino in Um-bria. Forse anche Verona avrebbebisogno di un piccolo museo del-la emigrazione del secondo dopo-guerra verso la Germania, magariproprio nel grande edificio di viadelle Coste oppure nella stazionedi Porta Nuova, luogo simbolicodi partenze e ritorni.

Le citazioni sono tratte da: AA.VV,I racconti del capanno a cura diLanfranco Caminiti, Roma, DeriveApprodi, 2006.

A destra e sopra: il CentroEmigrazione di Verona, in viadelle Coste. Oggi è la succursaledell’Istituto Montanari e sededell’Istituto Nani

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di Cinzia Inguanta

Giugno 1946, un momento im-portante nella storia recente, ilpopolo italiano è chiamato al vo-to per la prima volta dopo laguerra. Il referendum popolaredice no alla monarchia: l’Italia di-venta una repubblica. La tensionemorale e civile è al culmine eovunque il desiderio più grande èquello di costruire un nuovo fu-turo, lasciando alle spalle il perio-do del fascismo, della guerra, del-la violenza.Sicuramente era stato così ancheper l’ex colonnello Clemente Dal-mazzo, che nel 1943 lascia l’eser-cito e la nativa Dronero, in pro-vincia di Cuneo, per trasferirsi trale dolci colline della provincia ve-ronese. Così l’ex militare si stabi-lisce insieme alla moglie, EmmaBorro, e ai loro tre figli nella tenu-ta del commendator Luigi Ritta-tore, assumendo la direzione del-l’azienda agricola situata in loca-lità Maso, poco distante dal cen-tro di Negrar.28 giugno 1946, in una notte esti-

va senza luna, con il cielo trapun-tato di stelle, si compie il destinodi quella famiglia. «Verso le 24 uncontadino, che viveva in una casaaccanto alla villa in cui abitava lafamiglia Dalmazzo, udiva fragoridi scoppi attribuiti a bombe amano seguiti a breve distanza dagemiti e da invocazioni d’aiuto.Sceso con i familiari il contadinopoco dopo trovava disteso a terrasotto un portico il colonnelloDalmazzo gravemente ferito esanguinante al capo e col voltotumefatto da ripetuti colpi rice-vuti. Senza entrare in villa, unodei contadini correva a chiederesoccorso. Sul posto accorrevanoimmediatamente il medico con-dotto dott. Villani, il maresciallodei carabinieri e il parroco, i qualientrati nella villa si trovavano difronte ad una vera e propria stra-ge» (L’Arena, 30 giugno 1946).Nell’ufficio del colonnello giace-va a terra morta la moglie con lafronte spaccata da un colpo discure. In cucina, pure con la testafracassata, ma ancora vivi giace-vano i due figli maggiori del co-

lonnello; infine nella stanza daletto, rantolante si trovava il figliominore. Mario dodici anni, Gian-carlo otto anni, Guido sei anni,moriranno poco dopo il ricoveroin ospedale; il padre morirà lune-dì 1 luglio. Il delitto scuote pro-fondamente l’opinione pubblicacittadina «è difficile trovare ri-scontro, nelle cronache della no-stra provincia, di una strage cosìfreddamente meditata e attuatacon metodi tanto atroci» scriveL’Arena del primo luglio 1946.Le indagini fin dall’inizio seguo-no la pista della vendetta. I cara-binieri trattengono per accerta-menti una decina di persone tra idipendenti dell’azienda agricola.Emergono divergenze d’interessie disparità di vedute tra il colon-nello e i propri dipendenti.Anna Salgarolo, moglie di Augu-sto Tommasi, autore del delittoinsieme al fratello Guerrino, nonpuò sopportare il peso di quantosa, non riesce a cancellare dallamente le scene della tragedia allaquale ha assisto non vista dagliassassini. Così racconta quello

28 giugno 1946.Sulle colline tra

Quinzano eMontecchio, sopra

Negrar, nel casolaredella famiglia

Dalmazzo si compieuna strage che glianziani del luogo

ancora ricordano perla brutalità del

crimine. Furonotrucidati marito,moglie e i loro tre

giovani figli

DELITTI E MISTERI

La strage del «Maso»

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“È difficile trovareriscontro, nelle

cronache della nostraprovincia, di una

strage cosìfreddamente meditata

e attuata con metoditanto atroci” scriveL’Arena del primo

luglio 1946

mazzare a terra. Poiché la vittimasembrava ancora viva, il fratelloAugusto lo tenne fermo per per-mettere a Guerrino di colpire ri-petutamente con un grosso chia-vistello di ferro. Poi i due solleva-rono il corpo dell’ufficiale e lotrasportarono nel sottoporticodel fienile. Dopo questo si dires-sero dalla signora Dalmazzo ementre salivano le scale della villale chiesero le chiavi. Appena ladonna fu di fronte a loro, Guerri-no le sparò un colpo di rivoltella.I ragazzi si svegliano per il tram-busto: invocano il nome dellamadre, corrono verso la stanza dacui provengono i rumori, ed in-contrano il loro destino. Non c’èstata pietà nemmeno per loro.Sangue chiama sangue. È il mo-mento in cui bisogna pensarequalcosa che giustifichi quanto èaccaduto. I due nel tentativo di si-mulare una rapina mettono asoqquadro l’abitazione, portanovia sei bombe a mano ed unalampadina tascabile. Mentrestanno creando la messa in scenache dovrebbe giustificarli, so-praggiunge la loro madre chechiama ad alta voce la nuora, An-na Salgarolo. Guerrino per inti-morirla e poter uscire senza esse-re visto insieme al fratello, accen-de spegne più volte la lampadinaelettrica. La donna si allontana edi due escono dal retro dello stabi-le, lanciando dietro la casa lebombe a mano per simulare unassalto di malfattori armati allavilla. Augusto tornò a casa, sicambiò, gettò la tuta macchiata disangue nel letamaio dopodichésuo padre lo mandò a suonare lacampana dell’allarme. Guerrino,invece, si diresse attraverso i cam-pi alle case coloniche vicine perinvocare l’aiuto di alcune famiglie

di mezzadri, si spogliò della ca-micia e dei pantaloni insanguina-ti, li nascose sotto quattro cespu-gli, si lavò ad una fonte e sottoun’altra siepe occultò la lampadi-na elettrica e la rivoltella. Poi inmutande chiamò i contadini, fin-gendo di essersi alzato precipito-samente dal letto al suono dellacampana d’allarme. Tornò conloro alla villa e subito dopo rien-trò nella sua abitazione, si vestì ecorse ad avvertire il medico con-dotto e i carabinieri di Negrar.La crudeltà e la freddezza con laquale il crimine fu eseguito la-sciarono sconcertati per primigli stessi carabinieri. GuerrinoTommasi, mentre era trattenutodalle forze dell’ordine nella sta-zione del Teatro Romano per gliinterrogatori, ebbe a dire: «Lapena di morte non c’è più. Midaranno trentanni. Dieci vengo-no amnistiati e negli altri ventichissà quante amnistie verrannoancora».Al processo, il loro difensore, l’av-vocato Devoto, tenta la carta dellaperizia psichiatrica. Guerrinoaveva militato nella Guardia Na-zionale Repubblicana e dopo la li-berazione era stato rinchiuso al-cuni mesi in un campo per dete-nuti politici. Ma la corte non ac-cetta la sua richiesta, mentre simostra più sensibile alle richiestedegli accusatori. L’avvocato Ca-valla, che rappresenta i parentidelle vittime, li invita a compor-tarsi come un chirurgo «che af-fonda la lama e ridona la vita». Igiudici sono del suo parere, e lalama l’affondano: dopo quarantaminuti di camera di consiglio,condannano i due all’ergastolo«con isolamento diurno per quat-tro anni». Il pubblico applaude lasentenza. «Con lo sguardo fermo– annoterà il cronista de “L’Are-na” – le due belve lasciano pocodopo l’aula».

che non può più tacere, confessaquanto ha visto.In un primo momento i due fra-telli Tommasi si trincerano dietrorisposte evasive negando recisa-mente ogni partecipazione nellapreparazione e nell’esecuzionedel delitto. I due, messi davantialle prove schiaccianti della lorocolpevolezza, sono infine costrettia confessare il loro crimine. Co-me già avevano rilevato le primeindagini, tra il colonnello Dal-mazzo ed i suoi dipendenti noncorrevano buoni rapporti permotivi economici e perché, in va-rie e troppo frequenti occasioni,erano stati asportati dai fondi,amministrati dal defunto ufficia-le, prodotti e legna dai vasti bo-schi della tenuta. I due assassini,qualche tempo prima di compie-re il delitto, ebbero violenti alter-chi con il colonnello che volevaporre fine alle ruberie ed avevadeciso di tenere le chiavi del gra-naio comune finché i mezzadrinon avessero saldato la loro partedi perdita per il furto di due buoiavvenuto due mesi prima.Il 25 giugno i due fratelli si mise-ro d’accordo per togliere di mez-zo il colonnello la sera del 28. Inquella sera introdussero nella ser-ratura del cancello un pezzetto diferro per aver motivo di chiamarel’amministratore. Il colonnello sipresentò accompagnato dallamoglie ed allora i due non osaro-no agire. Poco dopo l’ufficiale ri-tornava, questa volta da solo, conuna catena ed un lucchetto ementre tentava di far funzionarela serratura, Guerrino Tommasigli vibrava un colpo sul capo chelo faceva immediatamente stra-

In basso e nella pagina accanto:il complesso rurale del Maso di Negrar

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In alto: Verona, Borgo Venezia.I funerali di don Luigi Zocca, ilfamoso “prete delle erbe” di Sprea,morto nel 1950

di Piero Piazzola

Nel passato, tre erano i momentipiù interessanti della vita di unapersona, che avevano più peso an-che nelle tradizioni popolari loca-li: la nascita, il matrimonio, lamorte. Dell’ultimo atto, quello chesi riferiva alla fine dell’esistenzaterrena di un individuo, ecco, quidi seguito, una veloce successionedei tempi che accompagnavano ildeceduto al cimitero.Quando in paese una persona siaggravava a tal punto che le con-dizioni di salute non lasciavanoproprio più sperare in una suapossibile permanenza in vita, sichiamava il prete per ammini-

strare all’infermo gli òi santi (l’o-lio degli infermi) e per le preghie-re della bona morte.Intanto, il campanaro del paese,con una campana sola e con deirintocchi specifici che stabilivanogià se il defunto era un uomo, unadonna, un bambino e se l’uomo(o la donna) era stato confratelloo consorella del SS. Sacramento,provvedeva a dar avviso, semprecon le campane, alla comunità delfatto e ad informarla per la veglia,soprattutto i familiari, i parenti ealtre persone della contrada. Inaltre parole: suonava la campanagrossa (la quinta) se era morto unuomo; la quarta se la deceduta erauna donna, la prima, la più picco-

la, se era morto un bambino o unragazzetto; facevano seguito poialtri tre brevi scampanii con tuttele campane insieme; l’avviso, ov-viamente, era indirizzato a tutti iconfratei e consorele, i quali, comevolevano le norme statutarie della“Confraternita del Santissimo”cui erano iscritti in vita, avrebbe-ro dovuto indossare l’abito (gliuomini portavano un camicionelungo fino al ginocchio, una cap-pa rossa, un cordone bianco checingeva i fianchi e un medaglionecon l’effigie del SS. Sacramento; ledonne, invece, non avevano alcu-na divisa) o portare speciali grossecandele con impugnatura rossa.La prima e la seconda sera, dopo il

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L’ultimo viaggioNovembre, mese dei morti. Dall’olio santo alla sepoltura. Usi e costumi della

nostra terra in un tempo passato, quando la morte era l’ultimo dei tremomenti più importanti della vita di una persona, dopo nascita e matrimonio

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Quando la gente,dopo le preghiere della

veglia, se ne tornava a casa, restavano

a “custodire” la salmadue o tre persone che

avevano il compito di ispezionare ogni

tanto la camera in cuigiaceva il deceduto,attizzare le candele

e tener acceso il fuoco in cucina

decesso, in casa del defunto, dopocena, si radunavano i contraenti,(la gente della contrada), i familia-ri, i conoscenti, i compaesani perla véja (la veglia funebre). Essaconsisteva nella recita di tre Rosariconsecutivi e delle sénto rèchie(cento “Requiem aeternam”), conuna coda interminabile di Pater,Ave, Gloria, delle Litanie dei santi,della Madonna, di Requiem speci-fiche per tutti i defunti di quellafamiglia, del parentado, per i be-nefattori della chiesa, per i parrocidefunti e per altre bone intension.Prima di dar seguito alla véja verae propria, i familiari con qualchealtra persona che di solito, in pae-se, si prestava a questa più attivi-tà, provvedevano a lavare la sal-ma, a rivestirla dei suoi abiti piùbelli (l’abito da festa o quello del-lo sposalizio, se ancora esisteva), atogliere ori, orecchini, catenine,anelli e altri preziosi che passava-no in tacita eredità alle figlie o aifigli, a seconda che si trattasse diuomo o donna; la salma poi veni-va adagiata su un letto, cui erastato tolto el stramàsso o el paión,sostituito da un paio di tavole diabete, nude e crude, ricoperte daun lenzuolo bianco. I stramassidovevano essere tolti, perché sicredeva che le péne (le piume) deimaterassi contribuissero a far sof-frire ulteriormente il morto e iscartòssi, col loro rumore, distur-bassero le prime ore del sonnoeterno.Si procurava di tenere costan-temente socchiusa o aperta, a se-

conda delle stagioni, una finestradella camera, non tanto per ri-cambiare l’aria, quanto, invece,perché l’anima potesse libera-mente entrare e uscire dal locale,finché il corpo era ancora su que-sta terra, perché era convinzioneche fino a funerali conclusi, l’ani-ma continuasse ad aggirarsi neisuoi ambienti e rivivere una spe-cie di vita di passaggio. Attorno alletto, quattro candelieri e, in unangolo del locale, soprattutto du-rante la stagione più calda, si si-stemava una fogàra o uno scalda-léto, con dentro braci vive, rico-perte da un velo di cenere, sullequali ogni tanto si cospargevauna presa d’incenso.Quando la gente, dopo le pre-ghiere della veglia, se ne tornava acasa, restavano a “custodire” lasalma due o tre persone che ave-vano il compito (non sempre ri-tenuto piacevole) di ispezionareogni tanto la camera in cui giace-va il deceduto, attizzare le candelee tener acceso il fuoco in cucina.Naturalmente, in non pochecircostanze, accadeva che queipoveri “vigilanti”, per ammazzareil tempo, per scongiurare ilnaturale turbamento determina-to dalla vicinanza di un “morto”, eper rilassare l’atmosfera di lutto edi dolore che regnava in quellacasa, si mettessero a mangiarqualcosa che la padrona di casaprovvedeva a lasciar sul tavolo incucina; accadeva che, per tagliarl’aria funerea, parlassero del più edel meno e, soprattutto, di tutto e

di tutti, scivolando talvolta nellamaldicenza e nel pettegolezzo efinissero per alzare il gomito unpo’ troppo. Con le conseguenzeche tutti possiamo immaginare.Dopo i riti delle quarantotto oreche precedevano il funerale, lamattina della sepoltura, arrivava-no a casa della persona defunta –soprattutto nelle zone di monta-gna, ma anche nelle corti e nelleborgate di campagna – i portato-ri del morto con la “portantina”;essa era una specie di barella di-pinta di nero con qualche arabe-sco funereo. D’inverno, quandole strade erano ingombre di neve(le gondiére), capitava che il mor-to fosse caricato, portantina e ba-ra, su una slitta. E se la neve eratroppo alta da non consentirel’uso della slitta, la bara venivaagganciata a un lungo palo e dueportatori, dandosi il cambio,compivano l’opera.I necrofori levavano la salma e,processionalmente, la recavano aspalle fino alla chiesa parroc-chiale, ogni tanto dandosi il cam-bio con altri volontari. Lungotutto il percorso, la “campana damorto” con la consueta distinzio-ne di cui s’è fatto cenno, accom-pagnava il corteo nel quale tutti ipartecipanti pregavano seguendoo ripetendo ciò che recitava ilprete subito dopo la bara.Giunti alla chiesa, la cassa e laportantina erano sollevate e de-poste su un alto palco nero (el ca-tafalco), ricoperto da un enormedrappo di velluto nero (il cosid-

Tradizioni

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Si procurava di tenerecostantemente socchiusao aperta, a seconda dellestagioni, una finestradella camera, non tantoper ricambiare l’aria,quanto, invece, perchél’anima potesse libera-mente entrare e usciredal locale

Una rara immagine che mostradonne biancovestite che precedonola bara portata a spalle dallestesse. Siamo a Campofontana el’anno è il 1946. Due ragazze intesta al corteo portano sul capouna “ghirlanda” fatta a mano

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detto stràto), anche quello arabe-scato con disegni mortuari colorargento. Se il “morto” era statosocio della confraternita del“Santissimo”, sopra la bara venivadisteso il suo abito da confratel(camice bianco, mantellina rossa,cingolo e medaglione); il confra-tèl e la consorèla , anche dopomorti, godevano di un ulteriorebeneficio per la loro lunga appar-tenenza alla congregazione, lagratuità, cioè, dell’obito, dellamessa di setimo e di quella del tri-gesimo.Il corteo funebre, tanto quelloche prima aveva accompagnatoin chiesa il morto, come quelloche, dopo la messa lo accom-pagnava al cimitero, era formatodalla croce astile in testa, accom-pagnata da due portatori di torce(confratelli, se si trattava di unsocio), seguita poi dai ragazzini,dalle donne, dal prete e dalla bara(anch’essa portata a spalle daiconfrateIli nel caso del socio de-funto). Seguiva un folto stuolo disoci della compagnia e, infine, gliuomini chiudevano il corteo.A seconda che il deceduto fosse

uomo o donna, i ragazzi o le ra-gazze portavano le girlande (co-rone), preparate dalle donne nel-le stalle o nelle case nelle serateprecedenti. Di forma rotonda,esse venivano confezionate mol-to alla buona, usufruendo di ma-teriali alÌa portata di mano e... diborsa; poggiavano su un’inte-laiatura di giovani rami di piantedel luogo (noselàro, in monta-gna; stropàro, in campagna o al-tro legno flessibile), abbelliti conrami di piante sempreverdi(rododendro, in montagna), efiori di carta colorata (la carta dafiori), che si fabbricavano a ma-no, di sera, durante il filò nellastalla, usando ferri da calze e filodi ferro sottile.AI funerale non partecipava, disolito, la moglie del defunto, se el-la era ancora viva; aiutata da altredonne della contrada e della corteo dai parenti più prossimi, ella“doveva” preparare il tradizionalee scontato pranzo del morto: mi-nestra in brodo con i figadini (fe-gatini) e paparèle fatte in casa,gallina lessata con crauti, verduracotta e gli immancabili crén e pea-

rà, seguiti da formaggio del luogoe fugassa dolce casalinga. Il tuttobagnato da abbondanti libagioniche, il più delle volte, verso sera,finivano per trasformare quellagiornata, di per sé triste e malin-conica, in un’occasione scan-dalosa, a causa di certi discorsiche andavano subito a finire sulsodo: sull’eredità.Si credeva moltissimo in una pre-senza ininterrotta dell’anima deldefunto nelle case dopo la mortenaturale, specialmente quando,per disgrazia, il defunto non sifosse potuto confessare prima dimorire, e si dice che spesso le ani-me si “facevano sentire”,“davano isegni”, facendo rumori di nottesui solai, nei granai, in stalla, incorte, per cui i familiari ricorre-vano immediatamente a benedi-zioni particolari e a celebrazionidi messe da morto in loro suffra-gio. La morte comunque, pressole popolazioni contadine dellaLessinia, veniva accettata comeuna “fatalità”, come dice il se-guente proverbio: «O che te stèben, / o che te stè male, / o che tevè soto el cavessàle...».

Tradizioni

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Ai funerale nonpartecipava, di solito,la moglie del defunto;

aiutata da altre donneella “doveva”

preparare iltradizionale pranzo

del morto: minestra inbrodo con i figadini

(fegatini) e paparèlefatte in casa, gallina

lessata con crauti,verdura cotta e gli

immancabili crén epearà, seguiti da

formaggio del luogo efugassa dolce

casalinga

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di Alessandro Norsa

Tornano per dissetarsi e nutrirsi,per allontanare le malvagità o pergiocare a carte. Per assistere allaMessa o recitare il rosario lungole vie del paese. Tante sono le cre-denze legate al ritorno dei defun-ti nelle diverse zone d’Italia. Sitratta di tradizioni nate dall’ideache la vita e la morte siano co-munque, sempre, inevitabilmen-te associate. Ma non solo: rappre-

sentano anche il modo, per i vivi,per continuare a mantenere fortilegami con i propri defunti, persentirli più vicini.Queste tradizioni si trovavano fi-no a poco tempo fa anche a norddella provincia di Verona, nel ter-ritorio lessinico, un tempo abita-to dai cimbri. Anche se BrunoSchweizer, che condusse delle ri-cerche negli anni ’40 del secoloscorso, documenta che, in alcunipaesi cimbri, la ricorrenza delgiorno di Ognisanti veniva fe-steggiata cuocendo “la minestradei morti” (di suppa von di armelsel), erano le zucche in questocontesto le vere protagoniste di

Tradizioni

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TRACCE NELLA LESSINIA DEI CIMBRI

La festa di Halloween:cos’è, da dove viene

Dietro una ricorrenza fatta rivivere per scopi commerciali scopriamoche la zucca e i riti che l’accompagnano non sono estranei alla nostra cultura

quelle manifestazioni giocose deibambini che caratterizzavano ilperiodo dei morti nella monta-gna veronese.La zucca, il cui ciclo vegetativo siconclude proprio nel periodo de-dicato alla commemorazione deidefunti, era il simbolo che le anti-che popolazioni che abitavanoanche il nostro territorio attribui-vano all’anima degli estinti.A tal proposito un informatore diRoverè veronese racconta: “Lazucca era montata su di un basto-ne che il mascherato teneva inmano; un tabarro, infine, ne co-priva la testa e il resto del corpo;queste mascherate venivano chia-mate Lumiere”. La zucca era postasulla testa e la persona sembravacosì molto più alta del normale eil tutto le conferiva un aspettoparticolarmente spettrale.Le persone che componevano ilpiccolo corteo “terrifico” eranogeneralmente tre. Gli altri dueavevano dei tabarri scuri e uncappellaccio nero in testa. Nonportavano una vera e propriamaschera sul viso, ma potevanoavere il volto dipinto (ad esempiopotevano disegnarsi dei baffi)per rendersi meno riconoscibili.Si appostavano fuori dalle stalleed aspettavano che le personeuscissero dai filò. Le prime volteche le persone vedevano questomascheramento si spaventavanomoltissimo, poi ci facevano l’abi-tudine. Gli intervistati ricordano,però, che anche qualche anziano,

La zucca, il cui ciclovegetativo si conclude

proprio nel periododedicato alla

commemorazione deidefunti, era il simbolo

che le antichepopolazioni che

abitavano anche ilnostro territorio

attribuivanoall’anima degli estinti

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che nel tempo avrebbe dovuto es-sersi abituato, reagiva con unacerta emotività alla loro vista.Questi scherzi venivano organiz-zati nei 15 giorni compresi tra lafine di ottobre e gli inizi di no-vembre.Nel vicentino antiche tradizionilegate al periodo dei morti si so-no in parte conservate: in alcunipaesi, nelle campagne intorno aVicenza, la mattina del due no-vembre le donne si alzano piùpresto del solito e si allontananodalla casa dopo aver rifatto i lettiper bene, perché le povere animedel purgatorio possano trovarviriposo per l’intera giornata.Altre tradizioni si stanno per-dendo o sono definitivamenteestinte. A ricordarle sono ormai

solo gli anziani, preziosi custodidelle tradizioni popolari e dellecelebrazioni religiose di un tem-po; e sono loro a riportare la me-moria a quella usanza che, all’i-nizio del secolo scorso, portavanelle campagne dell’Alto vicenti-no a svuotare le zucche, dipin-gerle e farle assumere forma diteschi all’interno dei quali porreuna candela.Dalle testimonianze del professorTerenzio Sartore di Marano, vi-centino, coordinatore di ungruppo di ricerca sulla civiltà ru-rale, leggiamo: “Da giovane, hosempre visto questa zucca tra-sformata in morto. La morte conla “suca”, detta anche “suca deimorti”, o testa da morti, era unoscherzo un po’ macabro che si fa-

ceva ai bambini o alle ragazzequando si sapeva dovevano pas-sare di sera, soli, per qualche luo-go isolato”.Sarebbe riduttivo pensare chequeste espressioni popolari fos-sero circoscritte solo nel territo-rio limitrofo a Verona. Semprenel Veneto, a Cancia, frazione diBorca nella Val del Boite, in pro-vincia di Belluno, un altro infor-matore, che abbiamo intervistatosull’argomento, racconta: “Neglianni ’40, a fine ottobre i ragazzicostruivano un trepiede con so-pra una zucca scavata con dentroun lumino, che poi posizionava-no vicino alla strada. Si divertiva-no quindi ad osservare le espres-sioni spaventate degli automobi-listi di passaggio.Il valore che i ragazzi davano aquesti rituali era di “scherzo”. Lazucca scavata e illuminata al suointerno da una candela rappre-sentava la morte”. Lo stesso infor-matore racconta che anche qui,come a Roverè Veronese, “il ma-scheramento consisteva in unmantello che copriva anche il vi-so per non essere riconosciuti.Questo artifizio veniva usato an-che per spaventare i vecchiettiper le strade, che appunto pensa-vano che la morte li inseguisse; avolte questi, spaventati, reagiva-no proprio come se si trovasserodi fronte alla “Signora delle tene-bre”, scappando o, se eranosprovveduti, intavolando un dia-logo per chiedere perdono per ipropri peccati e la salvezza dellapropria anima. Anche le personeche non avevano gli scuri alle fi-nestre erano vittime prescelte delgruppo di ragazzi che si attarda-vano di sera per le strade a farescherzi”.Quindi quelle che a Verona eranole Lumiere, a Vicenza era la “sucadei morti”, in altre parti del Vene-to la “Suca Baruca”, ma non solo;tracce nei ricordi degli anziani dialtre regioni portano a riscoprirele Lumere a Milano e la Piligrénaa Lugo di Romagna. Altri esempidi zucche scavate, illuminate dal-l’interno ed esposte si trovanoanche in Romania e in Portogalloin luoghi anticamente a contattocon popolazioni celtiche (o nellezone limitrofe).La nostra idea è che questo gene-re di manifestazioni sia la rappre-

Tradizioni

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“La zucca eramontata su di un

bastone che ilmascherato teneva in

mano; un tabarro,infine, ne copriva la

testa e il resto delcorpo; queste

mascherate venivanochiamate Lumiere.La zucca era posta

sulla testa e la personasembrava così molto

più alta del normale eil tutto le conferiva un

aspetto spettrale”

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sentazione di un culto dei mortidi antichissime origini, riscon-trabile in ogni parte del mondo(anche nella Nuova Guinea adesempio si festeggia il ritorno deimorti) e che quella che stiamoosservando sia di derivazioneceltica.Gli antichi Celti iniziavano il loroanno il 1° novembre, celebrandola fine della “stagione calda” e l’i-nizio della “stagione di Tenebra eFreddo”. Questa ricorrenza se-gnava la fine dei raccolti e l’iniziodell’inverno.I Celti erano un popolo deditoall’agricoltura e alla pastorizia,quindi la fine dell’estate assume-va una rilevanza particolare per-ché la vita cambiava radicalmen-te: le greggi erano ricondotte avalle e le persone si chiudevanonelle loro case per trascorrere alcaldo le lunghe e fredde notti in-vernali. L’antica cultura celticaera permeata di leggende attornoalle quali ruotavano tradizioni eriti. I Celti credevano infatti chealla vigilia di ogni nuovo anno (il31 ottobre) Samhain, Signoredella Morte, Principe delle Tene-bre, chiamasse a sé tutti gli spiritidei defunti. Una leggenda riferi-sce che tutte le persone mortel’anno precedente sarebbero tor-nate sulla terra in cerca di nuovi

corpi da possedere per l’annosuccessivo.Era necessario per placare gli spi-riti erranti e per ossequiare la di-vinità fare dei sacrifici. Si offriva-no a tale scopo grano ed animaliper assicurarsi la prosperità futu-ra. La tradizione popolare riferi-sce che la notte di Samhain sipraticavano dei riti divinatoriche riguardavano le previsionimetereologiche, i matrimoni e lafortuna per l’anno venturo.Vi erano due riti: quello dell’im-mersione delle mele e quello del-lo sbucciare la mela. L’immersio-ne delle mele era una divinazioneper un matrimonio: la primapersona che avrebbe morso unamela sospesa nell’acqua si sareb-be sposata l’anno seguente. Sbuc-ciare la mela era invece una divi-nazione sulla durata della vita.Più lungo era il pezzo di melasbucciato senza romperlo, piùlunga sarebbe stata la vita di chila sbucciava.Dopo i sacrifici si festeggiava per3 giorni, dal 31 ottobre al 2 no-vembre. I Celti si mascheravanocon pelli di animali uccisi peresorcizzare e spaventare gli spiri-ti. Vestiti con queste mascheregrottesche tornavano al villaggioilluminando il loro cammino conlanterne costituite da zucche in-tagliate, al cui interno erano po-ste le braci del Fuoco Sacro.Il collegamento che stiamo osser-vando in diverse situazioni trafrutti della terra (mele, zucche) eanime è dovuto al fatto che nellereligioni primitive il culto deimorti era collegato ai culti agrariper la fertilità della terra. Secondoquesta convinzione i defunti era-no sotterrati in attesa di una lororinascita, come rinasce la piantadalle sementi inerti interrate.Nel 400 a.C. i Celti, partendo dalproprio territorio d’origine nellaregione della Oder (ex-Germaniaorientale), conquistarono l’Etru-ria Circumpadana (nord-est Ita-lia), arrivarono ad oriente nel-l’attuale Romania intorno al 300a.C. e quindi lasciarono traccedelle loro tradizioni nelle areeconquistate.Durante il primo secolo d.C. iRomani, condotti dall’Imperato-re Claudio, invasero la Bretagnanel frattempo celtizzata pure es-sa, e vennero a contatto con que-

ste celebrazioni. Anche i Romaniavevano una ricorrenza intornoal 1° novembre; infatti onorava-no in quel periodo Pomona, ladea dei frutti e dei giardini. Du-rante questa festività si offrivanofrutti (soprattutto mele) alla di-vinità per propiziare la fertilitàfutura.Con il passare dei secoli il cultodi Samhain e di Pomona si unifi-carono e l’usanza dei sacrifici fuabbandonata: al suo posto si bru-ciavano effigi. La pratica di ma-scherarsi da fantasmi e streghedivenne parte del cerimoniale.Successivamente il cristianesimotentò di incorporare le vecchiefestività pagane dando loro unaconnotazione compatibile con ilsuo messaggio; per questo moti-vo, nell’835 Papa Gregorio IVspostò la festa di Tutti i Santi dal13 maggio al 1° novembre, e l’an-tica festa celtica chiamata “Sam-hain” prese il nome di “Hallo-ween”, che è la forma contratta di“All Hallows Even” ovvero notteo “Eve” (vigilia) di Ognissanti.

Tradizioni

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I Celti credevanoinfatti che, alla vigiliadi ogni nuovo anno (il31 ottobre), Samhain,

Signore della Morte,Principe delle Tenebre,chiamasse a sé tutti gli

spiriti dei defunti.Una leggenda riferisce

che tutte le personemorte l’anno

precedente sarebberotornate sulla terra incerca di nuovi corpi

da possedere perl’anno successivo

Durante la seconda metà del‘900, mentre in Italia con il tra-monto della “civiltà contadina”stavano scomparendo, queste an-tichissime tradizioni rifiorivanoin America, portate dagli immi-grati europei, soprattutto irlan-desi, legati alla propria cultura edalla fede religiosa.La festività di Halloween, spo-gliata, completamente del valorepropiziatorio agrario che i druidicelti conferivano al rituale (mor-te e rinascita della vita sulla ter-ra), e spogliata del suo valore re-ligioso (visita dei propri cariestinti), rientra in Europa qua-rant’anni dopo la sua scomparsa,prevalentemente per motivicommerciali.

Si ringraziano per la cotese collabo-razione i seguenti informatori: Al-do Ridolfi, Alfeo Guerra e famiglia(area Verona e Lessinia), Madalinae Julian Ciuraru, Michela Vasiliu(Romania), Mariano Sala, SistoDe Lotto, Ambra Talamini (areadel Val del Boite-Cadore).

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Personaggi

inVERONA

Il debutto areniano di Luciano Pavarotti ri-sale al 22 luglio 1972 con il “Ballo in masche-ra” di Verdi. Si presentò anche nella stagionesuccessiva con “La Bohème” di Puccini, di-retta da Peter Maag e nella “Lucia di Lamer-moor”di Donizetti accanto al soprano Cri-stina Deutekom. Nel 1978 tornò ne “Il Tro-vatore” di Verdi con Katia Ricciarelli, PietroCappuccilli e Fiorenza Cossotto diretta daGianandrea Gavazzeni. In questa occasioneMuti stava facendo la stessa opera a Firenze edecise di venire a sentire il tenore a Verona.Al termine della “Pira”, Pavarotti “sparò” l’a-cuto finale, che Muti aveva eliminato perchénon indicato sulla partitura da Verdi.Il pubblico dell’Arena esplose in uno scro-scante e lunghissimo applauso e dopo lospettacolo, a cena, Muti e Gavazzeni conti-nuarono a stuzzicarsi su quell’acuto del te-nore.

Nel 1980 ultima opera in Arena fu “La Gio-conda” diretta da Anton Guadagno dove tut-ti ricordano che l’ultima recita fu sospesaper un nubifragio. Luciano Pavarotti volleregalare al pubblico un assolo accompagna-to dal pianoforte. Fu un trionfo, che lo ripa-gò con una bronchite, costringendolo ad an-nullare diversi impegni artistici. Il 25 agosto1985 ci fu un gran Gala in suo onore direttoda Emerson Buckley con la partecipazionedel soprano Rosalind Plowright. La stagioneareniana del 1990 fu l’ultima occasione incui Luciano Pavarotti cantò in Arena. La so-vrintendenza di Francesco Ernani e la dire-zione artistica di Carlo Peducci avevano or-ganizzato la realizazione di una “colossale”“Messa da Requiem” di G.Verdi alla quale

partecipò il World Festival Choir, compostoda circa 2500 coristi provenienti da tutto ilmondo, prepatati dal M°J.Jensen. Con il so-stegno dell’Alto Commissariato delle Nazio-ni Unite per i Rifugiati (Acnur), il coro fu in-signito del titolo onorario di Ambasciatorespeciale e le esecuzioni del 4 e 5 agosto furo-no dedicate ai quindici milioni di uominiperseguitati o cacciati dalla propria patria acausa della guerra. Alla serata del 5 agosto fupresente anche Lady D con la quale il tenoreinstaurò una profondissima amicizia. Il suc-cesso dello spettacolo era firmato da altrinomi di caratura internazionale: il direttoreamericano Lorin Maazel diresse coro e or-chestra e oltre a Pavarotti cantarono il so-prano americano Sharon Sweet, il mezzoso-prano slavo Dolora Zajick (spesso accanto aPavarotti in esibizioni americane) e il bassoPaul Plinshka.

Ricordi in Arena

«Il tenorissimo»Rossini” di Modena, proietta lapropria passione sul figlio, che giàdall’infanzia si mostra coinvolto,utilizzando il patrimonio disco-grafico del padre.In principio i suoi studi non sonoesclusivamente musicali. Per diver-so tempo, infatti, il canto rimaneuna passione coltivata privata-mente, mentre Pavarotti è iscrittoalle magistrali con lo scopo di di-ventare insegnante: egli, infatti, in-segnerà alle elementari per due an-

ni. Nel frattempo, però, proseguegli studi di canto con il MaestroArrigo Pola e, quando dopo tre an-ni più tardi Pola andrà a lavorare inGiappone, seguirà gli studi con ilMaestro Ettore Campogalliani,con il quale perfezionerà il fraseg-gio e la concentrazione.Nel 1961 Luciano Pavarotti vince ilConcorso internazionale “AchillePeri” che segna il suo vero esordio.Lo stesso anno Pavarotti debutta alTeatro Municipale di Reggio Emi-lia, con la direzione di FrancescoMolinari Pradelli, con “Bohéme”di G.Puccini, opera divenuta signi-

ficativa, più volte ripresa anche intarda età, sempre nei panni di Ro-dolfo. Sempre nel 1961, dopo ottoanni di fidanzamento Pavarottisposa Adua Veroni.“La Boheme” gira diverse città ita-liane, ottenendo, per il successo,qualche scrittura all’estero. Intantoil giovane promettente tenore si ci-menta nel ruolo del duca di Man-tova in un’altra opera particolar-mente adatta alla sua voce e checon il tempo gli permetterà di mo-

di Nicola Guerini

Luciano Pavarotti nasce a Modenanel 1935. Il padre, di professionefornaio nell’esercito, ma cantantedilettante nella “Corale Gioachino

Gran Gala in Arena (1985)

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strare una notevole sicurezza euna tecnica solidissima. Va in sce-na a Carpi e a Brescia ma è sotto ladirezione del Maestro Tulio Sera-fin, al Teatro Massimo di Palermo,che ottiene un successo grandissi-mo e imprime una nuova signifi-cativa svolta alla sua carriera. Siaprono infatti le porte dei granditeatri italiani, anche se all’estero,nonostante qualche scrittura pre-stigiosa, non viene quasi mai no-minato dai critici. È sempre con“La Bohéme”, al Coven GardenTheatre di Londra, a dare risonan-za al nome di Pavarotti, incrocian-do il suo nome con un mito diquegli anni, Giuseppe Di Stefano.Pavarotti viene chiamato infattiper alcune repliche dell’opera pri-ma dell’acclamato tenore, ma poiDi Stefano si ammalò e Pavarottilo sostituì. Lo sostituisce anche inteatro e anche per “Sunday Nightat the Palladium”, uno spettacoloseguito da 15 milioni di inglesi. Daquesto momento nasce il fenome-no Pavarotti facendolo appariresull’intera scena mondiale.Le prime incisioni sono targateDecca Records, mentre il giovane

Personaggi

Ottobre 200716

Nel 1965 LucianoPavarotti, ormai

conosciuto per la suavoce straordinaria,

debutta alla Scala diMilano con “La

Bohéme”, dove il ruolodel tenore viene

richiestoespressamente da

Herbert von Karajan

direttore d’orchestra RichardBonynge gli chiederà di cantare alfianco della moglie, la straordina-ria Joan Sutherland. Con lei, nel1965, Pavarotti sbarca per la primavolta negli Stati Uniti, a Miami, do-ve interpreta Edgardo nella “Luciadi Lammermor” di Gaetano Do-nizzetti diretta da Bonynge. Anche“La Sonnambula” di Vincenzo Bel-lini, che debutta con successo alCoven Garden di Londra, lo vedeal fianco di Sutherland. Pavarottiaffronterà presto anche il ruolo diNemorino nell’“Elisir d’amore”diG. Donizetti, in Australia, mentrela Sutherland lo affiancherà in“Traviata”di Giuseppe Verdi.Nel 1965 Luciano Pavarotti, ormaiconosciuto per la sua voce straor-dinaria, debutta alla Scala di Mila-no con “La Bohéme”. É espressa-mente Herbert von Karajan a vo-lerlo per quel ruolo e a richiederlol’anno successivo per la Messa daRequiem di Verdi in Memoria diArturo Toscanini. Del 1065-68 so-no memorabili le intepretazionidei “Capuleti e Montecchi” di Bel-lini con la direzione di Claudio Ab-bado e di uno storico “Rigoletto”

La Bohème al Filarmonico (1987)

La Bohème in Arena (1973)

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Personaggi

inVERONA 17

diretto da Gianandrea Gavazzeni.Nel 1966 Pavarotti e Sutherlandtornano al Coven Garden per il de-butto de “La figlia del Reggimento”di Donizetti,un’opera divenutaleggendaria sei anni dopo, quando,al Metropolitan Opera di NewYork, Pavarotti esegue a piena vocei nove “do di petto”, originaria-mente scritti per falsetto (“Pourmon ame, quel destin!), ricevendouna standing ovation che lo chia-mo per 17 volte al sipario, un re-cord storico.Intanto nel 1962 nasce la prima fi-glia, Lorenza, seguita nel 1964 daCristina e infine nel 1967 da Giu-liana. Nonostante il merito del suosuccesso vada interamente ricon-dotto al palcoscenico e alla musica“colta”, la continuazione della suasplendida carriera verrà segnatanelle sale d’incisione dove regi-strerà circa 100 album. Pavarotti èal vertice della sua scalata profes-sionale e diviene anche un perso-naggio molto seguito anche daglitelespettatori, che gli assicurano,con la diretta dell’“Elisir d’amore”del 1977, l’indice d’ascolto più altodella storia delle opere trasmesse

in televisione. Nel 1980, il recital alCentral Park di New York, un “Ri-goletto”in forma di concerto sisvolge alla presenza di oltre200.000 persone. Dopo tutti questisuccessi il “tenorissimo”, nel 1981,organizzerà il triennale a Philader-phia. Continuando la sua freneticacarriera tra opera e recitals, nel1990, insieme a Placido Domingoe Josè Carreras, Pavarotti crea ilprogetto “I tre Tenori”che si rive-lerà vincente, sotto il profilo arti-stico ma indubbiamente ancheeconomico. Vincitori di diversiGrammys e dischi d’oro e platino.L’anno seguente Pavarotti canta inun grandioso concerto nel verdedel Hyde Park, a Londra, di frontea oltre 250 mila persone: lo spetta-colo viene trasmesso dal vivo intelevisione in tutta Europa e negliStati Uniti. La stessa iniziativa si ri-peterà nel 1993 al Central Park,dove il pubblico supera le 500 milapersone. Il concerto seguito in te-levisione in tre continenti con mi-lioni di ascoltatori, è sicuramenteun momento artistici della carrie-ra del tenore, che lo porterà ad esi-birsi, nel settembre dello stesso an-

no, all’ombra della Torre Eiffel aParigi.Pavarotti va ricordato anche per lasperimentazione del “Pavarotti &Friends”(1992-2003) dove la con-taminazione di generi musicali di-versi e la partecipazione di artistipop e rock di fama internazionalene hanno garantito il successo,tutto a scopo benefico verso azioniumanitarie.Nel 1993 e 1994 Pavarotti torna acantare al Metropolitan di NewYork con “I Lombardi alla primacrociata”, debutta in “Pagliacci” diLeoncavallo e organizzerà un Ga-la per festeggiare i primi 25 annidi carriera. Nell’agosto 1994 co-nosce la sua futura compagna emoglie Nicoletta Mantovani. Il1995 vede Pavarotti impegnato inuna lunga tournée in Cile, Perù,Uruguay e Messico, mentre nel1996 debutta con “Andrea Ché-nier” sempre al Metropolital diNew York e canta in coppia conMirella Freni alle celebrazioni to-rinesi per il centenario dell’opera“La Bohéme”. Nel 1997 riprende“Turandot” al Metropolitan, nel2000 canta all’Opera di Roma peril centenario di “Tosca” e nel2001, ancora al Metropolitan, ri-porta in scena “Aida”. Viene invi-tato a cantare in occasione del fu-nerale di una sua carissima ami-ca: la principessa Diana, mortanell’incidente del 31 agosto 1997.Egli però commosso declina l’in-vito. Nel 2004 organizzerà un ad-dio ufficiale alle scene e, solo ecce-zionalmente canterà per la ceri-monia di apertura dei giochi olim-pici invernali 2006. Nel luglio 2006viene operato urgentemente in unospedale di New York per l’aspor-tazione di un tumore maligno alpancreas. Per la convalescenza sitrasferisce presso la sua villa diModena lottando con tenacia con-tro il cancro che lo spene all’età di71 anni, il 6 settembre 2007. Nelsettembre 2007 Pavarotti riceve ilPremio per L’Eccellenza nella Cul-tura, assegnato dal Ministero deiBeni e delle Attività Culturali.“Una voce tra le più grandi, sim-bolo di una cultura artistica allaquale guarda tutto il mondo”, cosìlo ricorda Francesco Ernani, oggisovrintendente dell’Opera di Ro-ma ed ex sovrintendente dell’En-te Lirico veronese.

“Una voce tra le piùgrandi, simbolo di

una cultura artisticaalla quale guarda

tutto il mondo”, così loricorda Francesco

Ernani, oggisovrintendente

dell’Opera di Roma edex sovrintendente

dell’Ente Liricoveronese

PAVAROTTI IN ARENA:1972 Ballo in Maschera1973 La Boheme1976 Lucia di Lammermoor1978 Il Trovatore1980 La Gioconda1985 Concerto vocale strumentale1990 Messa da Requiem

PAVAROTTI AL FILARMONICO:1979 Concerto Sinfonico1987 La Bohème

La Bohème al Filarmonico (1987)

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«Istituisco mio erede universale il Comune di Verona. Ciò faccio per

attestare alla mia città l’infinito amoreche ho sempre nutrito per essa»

di Marzia Sgarbi

“Nomino ed istituisco mio eredeuniversale il Comune di Verona.Ciò faccio per attestare alla miacittà l ’ infinito amore che hosempre nutrito per essa e qualericonoscente omaggio alla dolceispirazione che la sua incompa-rabile bellezza e la bontà del suopopolo hanno dato alla mia Ar-te...”. Sono parole di Angelo Dal-l’Oca Bianca, un testamento dalvalore sia giuridico che spiritualeche racchiude l’intero senso diuna vita umana e artistica vissu-ta a Verona e per Verona.Indiscusso personaggio del pa-norama culturale della città tra isecoli XIX e XX, il Dall’OcaBianca nasce nel 1858; dopo unaprima giovinezza piuttosto tur-bolenta si dedica interamente al-l’arte, seguendo i corsi dell’Acca-

demia Cignaroli e ottenendo ap-prezzamenti e riconoscimentisin dalle prime esposizioni;espone con successo nelle piùgrandi città italiane e all’estero,trattato dai critici come il piùbrillante rappresentante dellacultura artistica veronese daitempi di Paolo Caliari; mietetrent’anni di consensi destinatiad interrompersi nel 1912, annodi una contestata mostra perso-nale a Venezia che vede la sua ar-te accusata di aver ormai segnatoil tempo. Il pittore, che con i suoiquadri ha portato fama e imma-gini di Verona fuori dai confiniitaliani ed europei, si ritira ora inuna sorta di sdegnoso isolamen-to, rifiutando di partecipare adaltre mostre pur continuando adipingere nell’intimità impene-trabile del suo studio, battaglian-do per difendere la “vecchia Ve-

Personaggi

Ottobre 200718

Nel 2008 i 150 anni dalla nascita dell’artista veronese

Angelo Dall’OcaBianca

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rona minacciata dal progressocivile”.I contemporanei, che mai smise-ro di amarlo, lo ricordano pas-seggiare per l’amata Verona, cap-pello bianco d’estate e mantellascura d’inverno, figura legata an-che esteriormente a quell’Otto-cento in cui ne risulta fondamen-talmente radicata l’anima artisti-ca, pittore che sembra fondersicon il proprio quadro, divenendopotenzialmente anch’egli parte diquella città che è il centro di tuttele sue opere; il Dall’Oca Biancaama il mondo che rappresentanei suoi dipinti, lo conosce, lo vi-ve: è il pittore di Verona e dellasua gente, delle sue strade, deisuoi mercati, degli amici illustriquali Simeoni e Barbarani e degliumili, delle lavandaie, della spen-sierata giovinezza e dell’amarasolitudine della vecchiaia, dei co-

lori e degli umori di un secolo altramonto. È il pittore di Piazzadelle Erbe, soggetto di tanti suoiquadri e in un certo senso simbo-lo del suo legame con la città: perla sua salvaguardia intraprendeuna vittoriosa battaglia iniziatanel 1902 e durata ben diciassetteanni contro la pubblica ammini-strazione cittadina, accusata divolerne un rinnovamento archi-tettonico che ne avrebbe com-promesso per sempre la monu-mentale storicità; l’isolamentoartistico del pittore non assumemai, quindi, la connotazione diisolamento culturale, il Dall’Ocarimane ben calato nella realtàdella sua Verona, sia questa da in-tendersi come la città dei monu-menti o come la città della gente.Il Villaggio che porta il suo nomelo testimonia: Angelo Dall’OcaBianca, che da sempre culla il so-

gno di poter dare una casa ancheai più poveri, nel 1937 dona il ri-cavato della vendita di un dipintointitolato Ave Maria agli abitantidi quelle Casematte che nell’arcodi due anni saranno sostituiteproprio dal Villaggio, costruitodal Comune di Verona grazie aisuoi fondi e ampliato in seguitoal suo lascito testamentario, di-mostrazione che, anche negli an-ni successivi alle grandi esposi-zioni, egli non dipinge mai vera-mente “per sé solo”, come affer-ma in un moto d’orgoglio, ma di-pinge ancora per Verona. Si spe-gne nel 1942 nella sua abitazione,dopo aver richiesto all’erede Co-mune di Verona di raccogliere lesue più importanti opere in unaluminosa galleria cittadina e diessere tumulato nel centro diquel Villaggio che egli ama alpunto da chiamare “mio”.

Sopra: Angelo Dall’Oca Bianca,Primavera in Piazza delle Erbe. 1890-1891, olio su tela. Collezione privata

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Il ritrovamento delprimo ripostiglio

risale esattamente al24 febbraio 1888,

quando alcunicontadini, che

lavoravano nei terrenidella nobile famiglia

Romanin Jacur inlocalità Borghesana,trovarono, nel punto

detto l’argine del Cavriolo, un’olla di terracotta a poca

profondità, contenenteantiche e sconosciute

monete

di Stefano Vicentini

Un abitante del contado di Ba-stione San Michele saluta la suaterra, non sapendo che si trattadi un addio, donandole un segre-to da custodire gelosamente.Corre l’anno 50 avanti Cristo edavviene la chiamata alle armi perpartecipare alla guerra civile traGiulio Cesare e Pompeo, unoscontro fratricida che cominciaal limes del Rubicone, al confinenord con la Gallia Cisalpina.Quel possidente terriero, ches’appresta a diventare soldato,non tornerà più, ma sa che la ter-ra è una mater che saprà custodi-re a lungo le sue sostanze. Sotter-ra, infatti, in due diversi riposti-gli, col piglio di chi vuole sottrar-lo ad ogni trafugamento dimez-zandone il pericolo, un quantita-tivo ingente di monete del perio-do repubblicano di Roma. Il po-sto è strategico, sufficientementelontano dalle direttrici del traffi-co d’allora, la via tra Mantua eAteste (Mantova/Este) e quellaper Hostilia (Ostiglia). Un picco-lo Eldorado di oltre 2000 anni fa,dunque, localizzato tra le stradedella pianura basso-veronese,l’antica terra di Carpanea che og-gi le carte geografiche identifica-no con la tenuta di Borghesana,sulla riva sinistra del fiume Tar-taro, nella frazione Sustinenza diCasaleone: la proprietà è privatama lasciata ancora all’apertacampagna, così da rappresentare

un sito ottimo per lo studio co-me ager ben conservato, rico-struendo i segni della centuria-zione romana. Tra questi appez-zamenti sono state ritrovate indue bottini ben 2051 monete, de-nari e quinari che coprono un ar-co cronologico che va tra il 206,periodo della seconda guerra pu-nica, e l’età cesariana. Il “tesoret-

to” – così chiamato perché divisoin due – è stato scoperto a di-stanza di diversi secoli, ed è unagrande fortuna averlo oggi a dis-posizione per capire meglio il Ve-neto in età romana approfon-dendo gli studi di storia, archeo-logia, economia, numismatica,società, cultura e religione. Il ri-trovamento del primo ripostiglio

Territorio

inVERONA 21

SUSTINENZA-CASALEONE

Seppellisce il suo tesoroe se ne va in guerra

Duemila anni dopo ritrovano le sue monete

Alcune monete del “Tesoretto” ora conservate al Museo di Castelvecchio

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Un’altra anfora con1028 monete fu

rinvenuta il 20 aprile1901 in un punto

vicino al precedente.Recentemente, nel

marzo 2003, questesono state a loro volta

donate dagli erediRomanin Jacur di

Padova al Museo diCastelvecchio, che ora

possiede tutti i 2051denari e quinari

repubblicani

risale esattamente al 24 febbraio1888, quando alcuni contadini,che lavoravano nei terreni dellanobile famiglia Romanin Jacurin località Borghesana, trovaro-no, nel punto detto l’argine delCavriolo, un’olla di terracotta apoca profondità, contenente an-tiche e sconosciute monete. Netrattò allora, in un articolo sulla“Provincia di Mantova”, l’ar-cheologo mantovano Attilio Por-tioli che mosse un vivo interessetra gli studiosi. Il sindaco di Ca-saleone, Giovanni Battista Berto-li (1811-1895), medico oculista epossidente terriero, concordò coiproprietari Emanuele, Leone eMichelangelo Romanin Jacur –personalità collegate ai rami in-fluenti della finanza ebraica e ri-levanti nel ceto agrario scaligero– la donazione del ritrovato mo-netale al Museo Civico di Verona.Un’altra anfora con 1028 monetefu rinvenuta il 20 aprile 1901, an-cora nel corso di attività in cam-pagna, in un punto vicino al pre-cedente. Recentemente, nel mar-zo 2003, queste sono state a lorovolta donate dagli eredi Roma-nin Jacur di Padova al Museo diCastelvecchio, che ora possiedetutti i 2051 denari e quinari re-pubblicani. Completata l’acqui-sizione del tesoretto delle duegiare di Sustinenza-Casaleone daparte del museo scaligero, è subi-to iniziata una profonda opera diesame, che va ben oltre gli accer-tamenti d’inventario, della dr.ssaDenise Modonesi, curatrice dellasezione Numismatica, sulla sciadelle ricerche del professor Gio-vanni Gorini dell’Università diPadova, responsabile per la Re-gione della catalogazione e pub-blicazione del patrimonio mone-tale veneto. Lo studio per catalo-gare il tesoretto ha avuto comefonte il Roman Republican Co-inage (1974) di M.H. Crawford.Dalle monete d’argento si viene aricomporre il tessuto di unosplendido periodo della potenzaromana, nel confronto con lacultura greca. Ne è testimonian-za la raffigurazione sui tondi didivinità pre-olimpiche e olimpi-

che, l’assimilazione dei culti la-ziali, l’excursus dalle mitiche ori-gini di Roma alla formazione diun robusto Stato sulle fonda-menta delle virtù morali (adesempio virtus, concordia, pie-tas). Una sfida per lo studioso èl’identificazione della figura sulsoldo, in una ricca varietà di pos-sibilità: così emergono tra i pre-olimpici Saturno/Crono, Cibele“madre degli dei” e il dio sabinoSole, tra gli dei olimpici Giove, iDioscuri e Giunone sospita (sal-vatrice), Apollo, Nettuno, Diana,Venere, Minerva. Emblema del-l’età aurea di Roma è senz’altrola cornucopia, il corno colmo difrutti che è metafora dell’abbon-danza di sostanze e dell’ottimi-smo all’indomani delle guerrepuniche. Nel periodo del secon-do conflitto contro Cartagine, lostato romano emette il primo de-nario, ovvero un nominale d’ar-gento raffigurante davanti la per-sonificazione di Roma e dietro iDioscuri, i due figli di Giove: dal-le due facce evidentemente sievince che Roma intende intra-prendere un cammino d’autono-mia nella propria identità ma ri-conosce nel contempo l’innestonelle radici della spiritualità gre-ca. Vi sono dunque varie solleci-tazioni da questo patrimonio pergli studi. La collezione numisma-tica di Castelvecchio si è vera-mente arricchita nel 2003, oltre aprodurre un’interessante esposi-zione del ritrovato denaro re-pubblicano nell’aprile 2004, nel-la sala civica del Comune di Ca-saleone per interessamento delsindaco Gabriele Ambrosi. Tra lepromesse fatte dall’allora ammi-nistrazione comunale di Veronac’è stata quella di dedicare unaparte dei piani superiori dell’Ar-senale, conclusi i restauri, a que-ste monete, che verrebbero cosìilluminate in maniera perma-nente. Inoltre, si sta attualmentesvolgendo uno studio rigoroso edettagliato per pervenire ad unapiù completa definizione dell’in-tero tesoretto, come caratteristi-che tecniche ed effettivo valorestorico.

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Ottobre 200722

Giovanni Battista Bertoli (1811-1895), sindaco di Casaleone,concordò coi proprietari del terrenodove furono ritrovate le primemonete la donazione al Museo Civicodi Verona

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di Marco Comencini

Il territorio compreso tra lo sboc-co della Val dell’Adige e gli anfitea-tri morenici di Rivoli e del lago diGarda ha avuto fin dai tempi anti-chi un ruolo importante dal puntodi vista strategico, perché attraver-sato dalla via di transito tra il norde la pianura Padana e perché risul-tava fortificato naturalmente dallamorfologia geologica.Anche nel medioevo e fino alXVIII secolo, questa via di transitoassunse una grande importanzaper gli eserciti che scendevano dal-la Val dell’Adige attraversando ilterritorio di Rivoli, fino a Campo-rengo e poi per Cavaion, Pastren-go e Castelnuovo per dirigersi ver-so la Lombardia.

Questa via fu utilizzata in sensoinverso anche da Napoleone nel-la campagna d’Italia del 1796 edurante la battaglia di Rivoli del14 e 15 gennaio 1797 che vide lasconfitta austriaca.Nel 1798-99 gli austriaci costrui-rono due campi trincerati adovest di Rivoli e sui colli tra Pa-strengo e Bussolengo con trinceee terrapieni per difendersi da at-tacchi francesi verso Verona everso la Val d’Adige, che furonooccupati per breve tempo anchedai francesi nel marzo del 1799.Le vicende della Prima Guerrad’Indipendenza con i piemontesiche occuparono in parte questiterritori, costrinsero gli Austriacia fortificare con opere fisse la zo-na di Rivoli-Ceraino-Pastrengo,

partendo dal 1849 e fino al 1852con il Forte di Rivoli, e dal 1860al 1862 con Pastrengo, utilizzan-do l’opera degli abili scalpellini elapicidi della zona.Tra il 1849 e il 1852 per protegge-re la strada per il Brennero e losbocco della Val d’Adige gli Au-striaci crearono la Piazza di sbar-ramento di Rivoli-Ceraino con lacostruzione di quattro forti, laChiusa Veneta, il Forte Ceraino eil Mollinary a Monte di S. Am-brogio vennero collocati a destradell’Adige e il Forte Rivoli a sini-stra Adige sul Monte Castello.Il progetto delle opere venne svol-to dall’Ufficio delle Fortificazionidi Verona, che tenne conto siadella posizione geografica, dellamorfologia del territorio e delle

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inVERONA 25

VAL D’ADIGE

I nostri fortiDal territorio di Rivoli fino a Camporengo. Ma anche Cavaion, Pastrengo,

Castelnuovo, fino alla Lombardia. Sono i luoghi di aspre battaglie, dove gli eserciti si organizzarono per resistere al nemico

Le vicende dellaPrima Guerra

d’Indipendenzacostrinsero gli

Austriaci a fortificarecon opere fisse la zona

di Rivoli, Ceraino,Pastrengo, partendo

dal 1849 e fino al1852 con il Forte diRivoli, utilizzandol’opera degli abili

scalpellini e lapicididella zona

Forte San Marco, sulla dorsale Ovestdella Valdadige

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esperienze maturate nelle prece-denti campagne militari.I forti erano volumetrie assaicomplesse nella distribuzione edorganizzazione interna degli spa-zi imposta da precisi criteri di al-loggiamento, protezione dei sol-dati, di dislocamento dei depositidi vario genere e delle possibilitàoperative nel momento del com-battimento.Nei forti si riscontra una lavora-zione precisa ed accurata dellepietre delle quali erano costituitele murature interne ed esterne; icriteri progettuali militari l’accu-rata direzione dei lavori e forseanche il desiderio di raggiungereun perfezionismo che andava ol-tre le pure necessità belliche haportato a ritrovare ancora oggiesempi costruttivi mai rilevati inaltre costruzioni.Anche nelle opere fortificate mi-nori, l’uso della pietra è quantomai esteso per il contenimentodel terreno nelle trincee e nei po-sti di vedetta, nelle feritoie e per ilposizionamento di armi, fucili emitragliatrici; per la costruzionedei depositi di vario genere, per ilricovero dei soldati a ridosso del-la prima linea.Tutti i quattro forti furono co-struiti su terreno roccioso appar-tenente ai calcari oolitici del

Dogger e del Lias superiore (Ce-raino e Rivoli) e Rosso Ammoni-tico del Malm (Monte).Le quattro fortificazioni eranomolto vicine tra loro a circa800/900 metri di distanza, e talevicinanza permetteva l’incrociodi tiro di artiglieria tra forte eforte con il risultato di una mi-gliore difesa dello sbocco dellaValdadige.

Il Forte Chiusa Veneta venne co-struito tra il 1849 ed il 1851 allaquota di 115m. s.l.m., come sbar-ramento della strada del Brenne-ro in riva all’Adige, collocato sulposto di un fortilizio esistente giàin epoca veneziana.Si trattava di un parallelepipedoa due piani con pianta rettango-lare, costituito da casamatte conbatterie sui due piani rivolte sia anord come a sud ed una caponie-ra semicilindrica verso il fiume,mentre una muratura appositaera destinata alla fucileria.

Il Forte Monte, chiamato ForteMollinary in onore del generaleaustriaco Anton Von Mollinary, èstato edificato tra il 1849 ed il1852 su un ripiano ad ovest delpaese di Monte nel Comune di S.Ambrogio, ad una quota di 410mt. s.l.m., interamente realizzato

con conci di pietra in Rosso Am-monitico, con pianta irregolareadattata alla conformazione delterreno costituito da due livellidistinti.L’accesso al forte avviene attra-verso un portale bugnato, oraparzialmente demolito, che eraprotetto sul lato ad est contro ilmonte, da un fossato intagliatonella viva roccia, con un ponte le-vatoio che permetteva l’accessoal forte stesso.Dopo l’ingresso troviamo il corti-le al livello inferiore dal quale erapossibile vedere tutta la valle ver-so Sud, invece il lato ad ovest pre-sentava il ridotto con le canno-niere in casamatte su due piani.Al piano superiore troviamo unampio piazzale che poteva acco-gliere alcuni pezzi di artiglieriaallo scoperto, protetti però dalparapetto in pietra. Diversi localierano destinati alla guarnigioneche arrivava ad un centinaio diuomini.Il Forte Mollinary (Forte Monte)aveva il compito di battere il fon-dovalle della Chiusa, parte del-l’anfiteatro di Rivoli e la zona asud, incrociando il proprio tirocon il Forte di Rivoli e con quellodella Chiusa, ed è collegato conl’abitato di Ceraino tramite unastrada militare di circa 2 Km di

Il Forte Monte,chiamato Forte

Mollinary in onore del generale austriacoAnton Von Mollinary,è stato edificato tra il1849 ed il 1852 su un

ripiano ad ovest delpaese di Monte nel

Comune di S.Ambrogio

Territorio

Ottobre 200726

Il forte di Monte

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Anche nelle operefortificate minori l’uso

della pietra è quantomai esteso per il

contenimento delterreno nelle trincee e

nei posti di vedetta,nelle feritoie e per il

posizionamento diarmi, fucili e

mitragliatrici...

lunghezza, realizzata scavando sulfianco roccioso del monte Pastel-lo e costituita da sedici tornantisostenuti da pregevoli muri di so-stegno in pietra, dai quali è possi-bile vedere oltre il sottostante abi-tato di Ceraino, anche il FiumeAdige, l’anfiteatro morenico ed iForti S. Marco e Rivoli.

Il Forte Ceraino fu intitolato alluogotenente feldmaresciallo Jo-hann von Hlavaty (1788-1870)come riconoscimento per la suaattività di architetto militare (di-resse anche la costruzione di nu-merosi forti di Verona e della cin-ta muraria) ed è stato costruitosempre tra il 1850 ed il 1851, suun piccolo ripiano del Monte Pa-stello a quota 326m. s.l.m., realiz-zato anch’esso con conci in pietradi Rosso Ammonitico.Il forte è dotato di una recinzioneesterna, che racchiude a nord lecannoniere in casamatta protetteda uno strato di terra battuta dispessore oltre due metri, mentre asud di trova il ridotto a forma diparallelepipedo.All’interno vi sono grandi cister-ne per l’acqua piovana raccoltacon un ingegnoso sistema di ca-nalizzazioni e pozzetti dalla co-perture e dai piazzali interni.Pregevoli e ben studiati sono al-cuni particolari architettonici,come ad esempio le cannoniere,le scale interne, i corridoi, i ma-gazzini ecc.Il forte era armato con una quin-dicina di bocche da fuoco e dove-va battere la Val Lagarina verso

Dolcè, il monte S. Marco ed unaparte dell’anfiteatro di Rivoli, in-crociando il suo tiro con i forti diRivoli e di Monte.Dopo l’annessione del Veneto alRegno d’Italia del 1866, il confinecon l’Austria era stato portato aimargini settentrionali della Lessi-nia, pressappoco lungo il cigliodove l’altopiano precipita nellaVal d’Adige e nella Val di Ronchi.Tuttavia appena 20/25 Km in li-nea d’aria separavano gli austriacida Verona; pur trattandosi di ter-reno montuoso e quindi adattoalla difesa, era ben poca cosa nelcaso di un efficace attacco del ne-mico, per proteggere le città pe-demontane di Verona e Vicenza,raggiunte le quali le forze impe-

riali avrebbero avuto la pianurapadana a portata di mano.Lo Stato Maggiore Italiano predi-spose ed attuò una serie di inter-venti per la difesa dei nuovi confi-ni. I forti costruiti dagli austriacia cavallo dell’Adige, a Rivoli e Ce-raino, furono rimodernati edadattati con l’inversione di tiroverso nord, mentre il forte diMonte e quello della Chiusa nonsubirono modifiche; quest’ulti-mo in verità per la sua particolareposizione era stato progettato peruna difesa sia verso nord che ver-so sud.Tra il 1884 e il 1913 venne com-pletata e ulteriormente potenzia-ta la difesa dello sbocco della Vald’Adige con la costruzione di altri5 forti: la Tagliata di Incanale diRivoli sulla strada a destra del fiu-me, nei pressi di Canale, Forte S.Marco sulla dorsale ad ovest dellaVal d’Adige, Cima Grande a Nao-le nel territorio di Caprino e For-te Masua a nord del Monte Pa-stello sull’altopiano lessinico nelterritorio di Fumane, che com-pletavano così il sistema difensivodella “Linea delle Alpi”.Le vicende politiche nell’ambitodelle relazioni tra gli stati euro-pei, relazioni che progressiva-mente si deteriorarono in misuraallarmante, convinsero lo StatoMaggiore a potenziare la difesadella Lessinia, così furono realiz-zati altri due forti; uno sul MonteTesoro presso Fane e l’altro sulMonte S. Viola vicino ad Azzago.

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inVERONA 27

Forte Monte. Particolare muratura con conci in rosso ammonitico

Il forte di Ceraino

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Quella di Marcella è una storia familiare

emblematica di un’epoca

e di una regione

di Massimo Rimpici

C’è un “popolo” – uno dei tanti –che ha abitato le contrade dellaprovincia veronese. È “gente” cheha vissuto in una piccola regione,una porzione del territorio vero-nese, un angolo della Valpolicella,nel Comune di Sant’Ambrogio: ilpopolo degli scalpellini. Lo spun-to a trattare, ad indagare questo“ceppo”, viene da un non-libro,una pubblicazione non ufficiale,un testo “mai scritto” ma che c’è,

esiste ed è leggibile: quasi un dia-rio. È stato redatto di recente dallamano tremolante e leggera di unaottantanovenne, protagonista diquei territori e di quelle epoche. Siperché qui si va a ritroso nel tem-po, fino al primo Novecento. Il te-sto è soprattutto il frutto di un la-voro amorevolmente sollecitato eaccompagnato da una nipote ver-so la propria zia. Un affetto inten-so e profondo, suggellato, oltre dalfatto di portare lo stesso cogno-me, dal destino (e dalle usanze

dell’epoca) di chiamarsi con lostesso nome: Marcella.Per comodità e per scelta iniziere-mo ad esplorare il periodo più re-cente, ma la storia dei tagliapietredi Sant’Ambrogio si perde nellanotte dei tempi: è noto a tutti cheil monumento più celebre di Ve-rona, l’Arena, fu costruito con ilmateriale di escavazione (marmo“rosso scuro intenso”) prove-niente dai bacini lapidei di quellazona della Valpolicella.Prenderemo a prestito la storia

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Ottobre 200728

SANT’AMBROGIO DI VALPOLICELLA

L’uomo e la pietra.Storie di scalpellini

Grazie al diario di un’anziana testimone e con l’aiuto degli storici eccoriemergere dal passato le vicende dei tagliapietre della Valpolicella

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della famiglia di Marcella per ri-evocare un periodo, un territorio,una stirpe. È una storia familiareemblematica di un’epoca e di unaregione.Il papà di Marcella, BeniaminoVittorio, è figlio d’arte: il padreera anch’egli uno scalpellino. Lui,Beniamino, rimasto orfano moltopresto, come parecchi suoi coeta-nei inizia a lavorare già all’età didieci anni (1893). Ha la fortunaperò – rara in quel periodo – difrequentare contemporaneamen-te la scuola d’arte. Il ragazzo èsveglio, intelligente, impara pre-sto e diventa a breve l’allievo pre-diletto del suo insegnante: il pro-fessor Romeo Cristiani dell’Acca-demia Cignaroli di Verona, dis-taccato alla Scuola d’Arte di San-t’Ambrogio due volte la settima-na. Quando però anche il padremuore, Beniamino è costretto alasciare il laboratorio veronese e atornare in Valpolicella.Siamo agli inizi del nuovo secoloe non è uno dei periodi miglioriper il comparto marmifero. Lacrisi del settore mette in ginoc-chio Sant’Ambrogio. Molti “spez-zamonte” sono costretti a emigra-re. A differenza dei comuni limi-trofi (Marano, San Pietro in Ca-riano, Pescantina, Fumane, Ne-grar) che vivono essenzialmentedi agricoltura, gli ambrogiani so-no fra i pochi in quegli anni cheriescono a sbarcare il lunario la-vorando in un settore a cavallo fral’artigianato e l’industria.La fatica è notevole (i primi telaiidraulici verranno introdotti soloalla fine del 1800), la silicosiun’insidia sempre presente (biso-gnerà aspettare la seconda metàdegli anni Trenta per vedere all’o-pera gli impianti di ventilazione),le condizioni di lavoro sono mol-to difficili (il martello pneumati-co vedrà la luce parecchi anni do-po, in America) e la divisione frala classe che ottiene le concessionidi sfruttamento delle cave e quel-la che lavora a segare il marmo siaccentua. I lavoratori sono spintiad organizzarsi per aiutarsi fra lo-ro e per cercare di ottenere mi-gliori condizioni di lavoro. Que-sto sarà uno dei motivi (l’altro lovedremo fra poco) per cui risulte-rà, quella di Sant’Ambrogio, unasocietà molto più “politicizzata”di altre. È qui che si svilupperan-

no le prime lotte di inizio secolofra classe imprenditoriale e lavo-ratori ma anche fra fazioni “rosse”,di ispirazione socialista e “bian-che”, di ispirazione cattolica, nateall’ombra del campanile e che incontrapposizione alle prime rifiu-tano lo scontro fra “padronato eproletariato” ponendosi come ob-biettivo la promozione di una co-munità “di amici e fratelli e non disfruttati e sfruttatori”.La crisi – si diceva prima – co-stringerà diversi scalpellini a emi-grare e Beniamino parte, insiemead almeno un’altra ventina diambrogiani: è il 1904. La meta –neanche a dirlo – è l’America, maanche il Brasile e l’Argentina sa-ranno “terre di conquista” deimarmisti italiani. Prima Quincy,nel Massachussetts, quindi Barre,nel Vermont, capitale del granitogrigio (la cui polvere mieterà cen-tinaia di vite umane). La lonta-nanza dai propri luoghi d’origi-ne, le incomprensioni a causa del-la diversa cultura e della diversalingua, le frustrazioni di emigran-te, spingono ancor di più gli scal-pellini a fare gruppo, a sostenersil’un l’altro: è il seme della mutua-lità che qui trova terreno fertile ecresce, ma che offrirà i suoi fruttimigliori in seguito, una volta ri-entrati in patria.Quella regione, il Vermont – rac-conta nel suo “Diario” EnricoDeaglio (“Formidabili quegli an-ni. In Vermont” – settembre 2005)diventa la capitale mondiale delgranito ad opera soprattutto di“un politico rapace e lungimiran-te”, un tale Redfield Proctor. Giàministro della Guerra a Washing-ton, Proctor “...fa arrivare la fer-rovia nell’allora lontanissimoVermont per trasportare i suoiblocchi di marmo che altrimentinon avrebbero avuto mercatoviaggiando trainati dai carri allavelocità di poche miglia al gior-no”. Successivamente vide bene diprocurarsi la migliore mano d’o-pera in quei luoghi dove già esi-steva una tradizione estrattiva.Sbarcò in Europa: Saragozza eSantander in Spagna, Aberdeen inScozia, Carrara e varesotto in Ita-lia e convinse – con salari inim-maginabili per quella epoca nelleterre natie – centinaia di lavorato-ri ad emigrare. “Da Verona, daViggiù, da Carrara – scrive Dea-

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Le preare (cave) ai piedi dell'abitato di San Giorgio (1900)

Il laboratorio Bozzini in contrada Piazza, a Sant'Ambrogio

Monumento di Boston (USA) realizzato dal veronese Noè Fiorato

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glio – nei primi dieci anni del No-vecento circa quattromila italianiemigrarono a Barre”. E aggiunge:“...se di Carrara si conosce la per-durante tradizione e il mito anar-chico, più curioso è scoprire cheanche gli scalpellini lombardi eveneti che emigrarono avevanosocialismo e anarchia nel san-gue...”: protagonisti dei primiscioperi e fondatori delle primeleghe dopo l’unità d’Italia.A farla da padrone, a Barre, furo-no proprio gli anarchici italiani,che scacciarono dalla città preti epoliziotti. In virtù di questa tradi-zione, ancora oggi Barre è sottocontrollo dell’FBI. Per diversi os-servatori e commentatori, talunimoderni “black bloc” provengo-no proprio da lì.Da Paterson, nel New Jersey, arri-verà invece Gaetano Bresci, quan-do il 29 luglio 1900 ucciderà il reUmberto I a Monza, su decisionedella cellula anarchica del famosoLuigi Galleani, ricercato dalle po-lizie di mezzo mondo (sempre alui verrà attribuita la responsabi-lità dell’attentato al presidenteamericano John MacKinley, feri-to mortalmente dal polacco LeonCzolgosz) e quindi in fuga verso ilCanada, poi rientrato negli StatiUniti e stabilitosi a Barre, nonlontano dal confine.

Comune e del Centro di Docu-mentazione per la Storia della Val-policella – ebbe l’idea di creare aSant’Ambrogio una cooperativa dimarmisti”. Successivamente(1911) da una costola del sindaca-to cattolico sorgerà anche l’Unio-ne dei lavoratori marmisti. Il pri-mato in termini di previdenza eassistenza deve però essere ricono-sciuto a don Lorenzo Bernardi, ar-ciprete di Sant’Ambrogio, che al-l’inizio del secolo (1900) si inventala Società di Mutuo Soccorso traoperai: un piccolo contributomensile sarà sufficiente a garantireun sussidio giornaliero in caso dimalattia.Allo scoppio del primo conflittomondiale Beniamino partirà per laguerra arruolato nel corpo degliAlpini e ci resterà per quattro lun-ghi anni: svolgerà il servizio neiteatri operativi del Monte Grappa,del Cadore, dell’Adamello. Termi-nato il conflitto ritornerà a casa etroverà diversi compagni ed amicirientrati definitivamente dal Ver-mont. Con loro riuscirà a dare unimpronta particolare all’impresadel marmo a Sant’Ambrogio:“...non solo all’avanguardia dalpunto di vista tecnico-artistico mafondato sul lavoro comune e suquei principi di solidarietà e diuguaglianza conosciuti attraverso icontatti con il socialismo dell’emi-grazione internazionale”.Nel 1920 Vittorio Beniamino Cec-chini – papà dell’architetto verone-

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Giornale di attualità e cultura

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RedazioneGiorgia Cozzolino

Cinzia InguantaElisabetta Zampini

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N° 16/ottobre 2007

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Il nostro Beniamino Vittorio nonresisterà molto a Barre. Farà intempo a conoscere – e a sposare inAmerica – Gisella Conchieri, daBrescia, dalla quale – per il mo-mento – avrà la primogenita, Mar-cella appunto e Libera, di nove me-si più piccola.All’età di ventitré an-ni, sposato e con due figlie, Benia-mino tornerà nella sua Valpolicel-la. Resosi conto delle precarie con-dizioni di vita e di lavoro nel suopaese “...insieme a Giovanni Piatti,insegnante presso la Scuola d’Arte– riporta il libro di Pierpaolo Bru-gnoli, Massimo Donasi & alii“Sant’Ambrogio in Valpolicella e isuoi marmi”, scritto per conto del

Scalpellini dell'Unione Marmisti

Beniamino Vittorio, la moglieGisella, Marcella, Gioconda eLibero Cecchini

se Libero – verrà eletto sindaco delComune di Sant’Ambrogio. Daprimo cittadino farà costruire lescuole elementari nelle cinque fra-zioni “e una strada d’accesso allecave di Monte...”. Per le sue idee, neldicembre del 1922 sarà costrettodai fascisti – dopo continue mi-nacce – a rassegnare le dimissionida sindaco. Nello stesso giorno –data alle fiamme dagli squadristi –vedrà la sua casa bruciare. Anche ilcircolo ricreativo La Fratellanzasubirà la stessa sorte. I sicari rispar-mieranno solo la CooperativaPiatti, motore dell’economia localee consegnata alla direzione dell’exsindaco nel 1925.Beniamino Vittorio Cecchini re-sterà alla guida della Piatti fino allafine della sua esistenza:26 gennaio 1960.

Tratto dal libro Sant’Ambrogio inValpolicella e i suoi marmi di Pier-paolo Brugnoli, Massimo Donasi& alii – Comune di Sant’Ambrogio– anno 2003.Altre fonti: Formidabili quegli an-ni. In Vermont di Enrico Deaglio –dal Diario, settembre 2005.Diario, 20 luglio 2000 – 21 agosto2002 di Marcella Cecchini.

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