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27 marzo 2012 La newsletter di liberainformazione n.87 verità e giustizia CONCORSO ESTERNO

Verità e giustizia

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27 marzo 2012

La newsletter di liberainformazione

n.87

veritàegiustizia

CONCORSO ESTERNO

2 verità e giustizia - 27 marzo 2012

Lastrategia

di Santo Della Volpe

Perché proprio ora? Non solo perché il processo Dell’Utri è arrivato adesso al giudizio della Cassazione, che l’ha ri-

spedito alla Corte d’Appello di Paler-mo in attesa di una prescrizione più che probabile. Il dibattito intorno al “Concorso esterno in associazione mafiosa” ha infatti gli anni del reato stesso, perché sin dall’inizio ha tro-vato fervidi antagonisti in coloro che hanno sempre negato l’esistenza di una zona grigia intorno alla mafia; ma anche in eminenti giuristi che dai tempi di Falcone e Borsellino hanno detto che non può esserci reato se una persona non commette diretta-mente il reato, cioè, a seconda dei casi, l’omicidio o il traffico di droga o l’appalto truccato ecc., lasciando quindi l’aiuto che il criminale può ricevere al solo reato di favoreggia-mento, da sempre nel codice penale. Una tesi che salta a piè pari quell’a-iuto che, soprattutto “Cosa nostra”, riceve dalla politica, dall’ammini-strazione, da forme deviate delle istituzioni, da quell’ambiente che fa sopravvivere ed è parte integrante della mafia.Il dibattito sull’uso e sul futuro di questa fattispecie di reato è aper-to: ma la domanda è più che lecita, quasi un sospetto. Perché la pole-mica è ripartita proprio ora? E la ri-sposta che cerchiamo di azzardare in questa Newsletter, articolata in più interventi pro e contro l’attua-le configurazione del “Concorso esterno”, sta anche nel percorso che questo dibattito segue, apparendo e scomparendo carsicamente e perio-dicamente, a seconda della tensione sociale e politica che si crea intorno al rapporto tra mafia e politica. Da qui il sospetto che ci sia una stra-tegia nel far emergere proprio ora questo ennesimo attacco al reato di Concorso esterno in associazione mafiosa: come già avvenne in occa-sione dell’assoluzione con formula dubitativa e poi solo parzialmente di Andreotti, nella condanna invece di Bruno Contrada, nella decisione delle sezioni unite della Cassazione in altre occasioni, sino alla sentenza Mannino, diventata un punto di rife-rimento della questione, almeno per chi oggi chiede che tale reato sia abo-lito o meglio configurato,nel senso di

restringerne l’uso e l’applicabilità. Ed il sospetto che vi sia una strategia in chi oggi chiede l’abolizione del reato, nasce perché la questione è ora rie-mersa dalla requisitoria del PG della Cassazione al processo Dell’Utri (che sembrava più a favore dell’imputato condannato in appello che una ri-chiesta di semplice rinvio a Palermo del processo), quasi a margine del discorso del PG Iacoviello: un inciso, quel “tanto non ci crede più nessu-no al reato di concorso esterno”, che sembrava quasi una battuta, ma che buttata lì non a caso, aveva tanto l’a-ria di un messaggio, di un impegno a riaprire il dibattito. E lanciato non solo ai giuristi ed ai colleghi magi-strati, ma al mondo della politica e, diciamo benevolmente, all’opinione pubblica in senso molto lato….Una strategia dunque: per depoten-ziare il reato stesso, per cercare di impegnare i PM italiani ad usarlo poco perché a rischio annullamento, per dire che quella zona grigia che vive e vegeta intorno alle mafie ed alle criminalità, può contare da oggi su una protezione in più. Proprio perché quel reato vuole invece fare terra bruciata intorno alla mafia.Strategia di impunità “politica”? For-se… troppi sono i retro pensieri che collegano le parole del PG all’impu-tato eccellente in questione, Marcel-lo Dell’Utri, uomo dei misteri e degli affari, cerniera politica verso il perio-do berlusconiano ed implicato, non a caso, anche nella famosa trattativa tra mafia e Stato durante la stagio-ne stragista e post stragista. Molti fili tendono a legarsi ed intrecciarsi, molti sospetti e legami; in attesa di prove dalle inchieste della magistra-tura e dalle voci dei protagonisti. Aspettiamo ancora per allungare questo discorso.Ma un fatto è certo: che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, voluto fortemente da Falco-ne e Borsellino per colpire le conni-venze tra mafia, politica ed affari, è oggi in discussione: di nuovo.E chi ha aperto il dibattito ci sembra non volesse far diventare questo rea-to più stringente ed applicabile, ma, al contrario, indebolirlo. Una strate-gia che non possiamo né condividere ,né favorire, neanche per errore o in buonafede da “giurista”.

>> editoriale

3verità e giustizia - 27 marzo 2012

La mafia non è un film di gangster

di Gian Carlo Caselli*

focus <<

Un classico. Finché i magistra-ti si occupano di Riina e soci (cioè de11’a1a militare, indi-fendibile della mafia) tutto

bene. Ma non appena ci si affaccia al livello delle possibili complicità con po-litici, imprenditori, medici e professio-nisti vari (le cosiddette “relazioni ester-ne”), la musica cambia. In un attimo ci si dimentica che la vera forza della mafia non è la sua struttura gangsteristica. Il suo autentico potere sta altrove, nel-le complicità, collusioni e coperture. Non indagare anche su questo versan-te significa fare antimafia solo a metà, rinunziando alla possibilità stessa di vincere davvero la guerra alla mafia. E 1’unico strumento investigativo-giudiziario che consente di intervenire anche su questo versante e il “concorso esterno”, che si concreta quando talu-no concorre - appunto - ad attivita del sodalizio criminale senza farne parte come affiliato.Senonchè, chi fa antimafia utilizzando anche questo decisivo strumento deve mettere in conto che si attirerà robuste antipatie. L’ex premier Berlusconi, al riguardo, e stato un precursore, quan-do nell’intervista al periodico inglese Spectator e alla Gazzetta di Rimini dell’1 1.9.05 ha sostenuto che “a Paler-mo la nostra magistratura comunista, di sinistra, ha creato un reato, un tipo di delitto che non è nel codice; e il con-corso esterno in associazione mafiosa”. Questo concetto e stato poi ripetuto da una schiera di epigoni del “leader” e ha finito per diventare un ritornello della canzone sui teoremi giudiziari. Per cui, sostenendo - nella requisito-ria sul caso Dell’Utri - che al “concorso esterno” (se sono precise le cronache giornalistiche) ormai non crede più nes-suno, il sostituto procuratore generale della Cassazione Iacoviello forse pen-sava di dire una cosa originale, mentre si e trattato della replica (magari incon-sapevole) di un film gia visto. Un film, in verità, piuttosto surreale, perche tutti gli studiosi concordano con le parole della sociologa palermitana Alessandra Dino, secondo cui la mafia costituisce “un network potente e articolato, che comprende esponenti del mondo della politica, dell’econornia e delle profes-sioni”. Un riscontro alla teoria dello sto-rico Salvatore Lupo, per il quale c’e una “richiesta di mafia” non solo in settori della società civile, ma anche dell’im-

prenditoria, della politica, del sistema economico-finanziario e di certi poteri costituiti. “Richiesta” 0 meno, chiun-que studi l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse han-no bisogno di commercialisti, irnrno-biliaristi, operatori finanziari, bancari, amministratori, politici, notai, giuristi. Un intreccio perverso che costituisce la spina dorsale del potere mafioso e che si può contrastare - ripeto - soltanto con la figura del “concorso esterno”. Sul pia-no processuale, non occorrono chissa quali studi per sapere che questa figura risale addirittura al 1875, Come provano le sentenze della magistratura palermi-tana sul brigantaggio - e che essa fu poi impiegata nei processi per terrorismo (Brigate rosse e Prima linea) e in quel-li di mafia - finchè la sua legittimità è stata ripetutamente riconosciuta dalla Corte di cassazione, che ha anche stabi-lito rigorosi paletti garantisti. Ma a spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il pool di Falcone e Borsellino, vale a dire il massimo dei massimi in terna di contrasto della mafia, sostnen-do (pag. 429 dell’ordinanza/sentenza 17 luglio 1987 conclusiva del maxiter) che: “Manifestazioni di connivenza e di collusione da parte di persone inserite nelle pubbliche istituzioni possono - eventualmente - realizzare condotte di fiancheggiamento del potere mafioso, tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti, sussumibili - a titolo con-corsuale - nel delitto di associazione ma-fiosa. Ed e proprio questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso... che co-stituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, non-chè, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprirnerne le manifesta-zioni criminali”. A fronte di queste paro-le, ogni eventuale tentazione di ricono-scere solo in teoria la pericolosità della mafia nelle sue connessioni col potere politico ed economico, per poi - nel mo-mento di passare all’azione - limitarsi a colpirne l’ala militare, va contestata con fermezza. Anche a rischio di essere con-siderati come eretici o marziani. In un mondo in cui aliena - rispetto alla socie-tà - finirebbe così per diventare non la mafia, ma piuttosto l’antimafia.

*Tratto da “Il Fatto Quotidiano”, 13 mar-zo 2012

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1. Cominciamo col dire che la pur rapi-da lettura della sofisticata requisitoria del P.G. Iacoviello (scaricabile qui di seguito) fa sognare il giurista che, come chi scrive, non frequenta le aule di giu-stizia ma solo quelle universitarie. Fa sognare un luogo suggestivo e rarefatto, la Cassazione, dove le udienze spiccano il volo verso vette inusitate della cultura giuridica e filosofica. Non un’arida stan-za dove il ritmo è segnato dalle buro-cratiche, laconiche richieste degli attori del processo, ma una fucina di idee, di confronti dialettici, di curve semanti-che. Insomma, non un “vertice ambi-guo”, bensì una palestra dell’intelletto giuridico, una cunabula iuris. Il sogno si infrange bruscamente, però, quando ancora cullati dalla raffinata prosa della

requisitoria si passa a registrare l’impat-to mediatico prodotto da quelle stesse parole. Si sa, la comunicazione giornali-stica non va per il sottile, domina la sin-tesi, non l’analisi. E’ così campeggiano nei servizi televisivi e sulle prime pagine dei maggiori giornali italiani frasi “forti” del procuratore estrapolate dalla requi-sitoria che trasformano quel sogno in un incubo, una per tutte: “Al concorso esterno non crede più nessuno!” Ma perché, viene subito da dire, forse per molti il concorso esterno è stata una fede? Negli ultimi venti anni, allora, non si sono svolte indagini, non si sono ce-lebrati processi, non sono state emesse sentenze, bensì si è trattato di un lun-ghissimo rito religioso in cui la vera gara consisteva nell’avvicinarsi il più possi-

bile a una qualche rivelazione divina (magari sancita a sezioni unite) ? Fosse così, si capirebbe bene il disincanto del procuratore, quasi un grido di dolore nel denunciare, tra l’altro, che nella sen-tenza impugnata manca addirittura un riferimento alla celebre sentenza Man-nino del 2005, con la quale la Cassazio-ne riunita ha fissato per la quarta (e ul-tima) volta principi di diritto in materia di concorso esterno. A ben vedere, però, a quest’ultima esemplare pronuncia dei giudici di legittimità hanno iniziato a non credere le stesse sezioni semplici della suprema corte con (almeno) tre sentenze (Prinzivalli, 15 maggio 2006; Tursi Prato, 1 giugno 2007; Patriarca, 13 giugno 2007), nelle quali il dictum fon-damentale della Mannino del 2005 in tema di accertamento ex post del con-tributo causale del concorrente esterno è stato “riconvertito” in una più agevole valutazione di idoneità1. E’ vero, dun-

1 Sul punto, v. per tutti Maiello, Concorso di persone in associazione mafiosa: la parola passi alla legge, in AA.VV., Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, a cura di Fiandaca e Visconti, Torino, 2010, pp. 160 e ss.

La requisitoria del P.G. nel processo Dell’Utri

in Cassazione riapre il dibattito sul concorso

esterno in associazione mafiosa. «In questo

Paese non siamo ancora in grado di discuterne

in maniera approfondita e laica»

Un atto di fededi Costantino Visconti

>> focus

5verità e giustizia - 27 marzo 2012

que, che la motivazione della sentenza di appello Dell’Utri è imperdonabilmen-te blasfema nel momento in cui non tenta neanche di conformarsi all’illu-stre precedente delle sezioni unite; ma è altrettanto vero che quando la “fede” si smarrisce ai piani alti dell’ecclesia, gli effetti sul popolo dei credenti possono rivelarsi devastanti. Se poi rammentia-mo che in alcune sedi giudiziarie si sono perfino intentati processi per concorso esterno a carico di imputati già condan-nati per gli stessi fatti a titolo di favoreg-giamento aggravato dal fine di agevo-lare la mafia, il quadro diventa davvero fosco, e il j’accuse generalizzato del pro-curatore Iacoviello si spiega anzitutto alla stregua di un atto di pedagogia giu-risprudenziale. Dispiace, semmai, che il giusto rimprovero rivolto alle cattive prassi in materia di concorso esterno rischi di oscurare la non trascurabile giurisprudenza “normale” che pure si è formata: assoluzioni o condanne non importa, perché comunque pronunzia-te sulla scorta di contestazioni precise e ben motivate in punto di diritto (per citarne solo alcune tra le tante arrivate in Cassazione: 19 novembre 2010, Miceli e 13 novembre 2002 Gorgone, entrambe

a carico di esponenti politici; 29 ottobre 2008, Bini e 11 giugno 2008, Lo Sicco, a carico di imprenditori)2.Come uscirne? Per il processo Dell’U-tri occorre aspettare la motivazione della decisione della Corte di Cassa-zione che ha accolto la richiesta di an-nullamento con rinvio, e poi il nuovo giudizio d’appello che dovrà celebrarsi (prescrizione permettendo) nel quale ai magistrati spetterà di sciogliere i dubbi sollevati in Cassazione in un senso o in un altro. E però non illudiamoci: quan-do si trasloca dal sogno alla realtà, non può non prendersi atto che le diversifi-cate aree della contiguità “qualificata” alle mafie non sono contesti in cui ci si imbatte facilmente in quei mitici “fatti” che nella loro materialità si prestano ad essere osservati a occhio nudo e “trat-tati” penalmente con le altrettanto mi-tiche procedure logiche di sussunzione di settecentesca memoria. Le indagini e poi il giudizio in questi processi non sono passeggiate amene in cui a un cer-to punto ci si imbatte, magari inciam-pandovi, in qualche contributo causale di un colletto bianco a una cosca mafio-sa che basta raccogliere in modo asetti-co e qualificare penalmente. Al contra-rio, le forme di collusione e complicità alle mafie sono popolate da compor-tamenti la cui carat-teristica peculiare è data dalla loro intrin-seca ambiguità. E si badi, non da adesso, da sempre! Pensate a quei giudici reggini che nei primi anni 30 del novecento hanno condanna-to (per complicità in associazione per delinquere, artt. 64 e 248 del codice Za-nardelli) due sindaci calabresi “per aver operato con il medesimo intento prati-co, un piede nella caserma e l’altro nella mafia, un po’ per la giustizia un po’ per gli associati e per l’associazione, per mantenersi al potere e comandare” (As-sise Reggio Calabria 4 febbraio 1932). Ma per andare ai giorni nostri, è bene ricordare che proprio sul versante della distinzione tra vittime e complici della mafia nel caldissimo settore delle con-dotte imprenditoriali, si può apprezzare un travagliato dibattito giurispruden-

ziale che ha visto la stessa Cassazione approdare a un piccolo capolavoro di sapienza ermeneutica con una senten-za che è riuscita a fornire parametri mi-sti oggettivo/soggettivi per distinguere l’area della contiguità “compiacente”, penalmente rilevante, da quella “soggia-cente” e pertanto non punibile (D’Orio, 11 ottobre 2005). Insomma, non è cer-to una passeggiata distinguere e giudi-care in questo campo, ma impiegando gli strumenti consueti di una sana giu-risdizione penale i problemi possono pure essere affrontati, verosimilmente con difficoltà non superiori a quelli che ormai la giurisprudenza è chiamata a risolvere nelle grandi questioni sottopo-ste oggi alla giustizia penale (dal proces-so Eternit alla scalata Unipol, tanto per fare qualche esempio).3. Per quanto riguarda le sorti, più in ge-nerale, del concorso esterno forse vale la pena affidarsi anche al buon senso della tradizione, dottrinale e giurispru-denziale. E comprendere meglio che se la Cassazione ha ritenuto per ben quat-tro volte (1994, 1995, 2003, 2005) di in-tervenire a sezioni unite per rispondere sempre in modo affermativo al quesito in punto di diritto “E’ configurabile il concorso esterno nel reato associati-vo ?”, vuol dire che non si tratta più di

dibattere in modo stucchevole il tema del “credere” o meno in questa figura cri-minosa (che la Cas-sazione ha ritenuto giuridicamente fon-data già nel 1875…), ma di non sovracca-ricarla di aspettative spropositate. In que-sto senso, può tor-nare utile richiamare un paio di sentenze poco conosciute pro-nunziate dalla Cassa-

zione prima che esplodesse il contrasto sulla configurabilità in diritto del con-corso esterno chiuso in prima battuta dalla sentenza Demitry del 5 ottobre 1994.La prima è pronunciata il 23 novembre 1992, imputato (Altomonte) un agente di polizia a cui si contestava di aver pre-stato fuori dall’orario di lavoro servizi di scorta a un boss della camorra. I giudici a quo censurano l’accusa formulata nei suoi confronti per partecipazione ad

Visconti sul concorso esterno:

«Non è facile distinguere e

giudicare ma serve impiegare strumenti di sana giurisdizione

penale»

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6 verità e giustizia - 27 marzo 2012

associazione mafiosa, ma la I sezione della Cassazione, presieduta allora da Corrado Carnevale, gli rimproverano di “aver commesso un grave errore giuridi-co (…) non potendo seriamente esclu-dersi sia la responsabilità, a titolo di partecipazione, di colui che presti la sua adesione e il suo contributo alla attività della associazione anche per una fase temporalmente limitata della vita del-la stessa, sia la responsabilità, pur se a titolo di concorso nel reato associativo, del soggetto che, estraneo alla struttura organica dell’associazione, si sia limita-to anche ad occasionali prestazioni di singoli comportamenti aventi idoneità causale per il conseguimento dello sco-po sociale o per il mantenimento della struttura associativa avendo la consa-pevolezza della esistenza della associa-zione e la coscienza del contributo che ad essa arreca”. Come si vede, niente di straordinario: motivazione asciutta e in-trisa di tradizione. Certo, si parla ancora di idoneità e non di causalità del contri-buto del concorrente da accertare ex post secondo quanto stabilito qualche lustro più in là dalla sentenza Mannino: ma valeva la pena scatenare una guerra di religione su un simile aspetto ? Non

era ragionevole aspettarsi un progres-sivo affinamento della giurisprudenza, anche a monte, cioè nel modo di con-durre le indagini e di formulare i capi di imputazione in forma precisa e chiara, e non in guisa di un cantiere permanente-mente aperto?L’altra sentenza è di poco successiva (24 gennaio 1994, Silveira), e stavolta riguarda l’applicazione del concorso di persone al reato associativo semplice (sbaglia, dunque, il P.G. Iacoviello a so-stenere che nessuno aveva mai parlato di ipotesi del genere). La Cassazione avalla l’impostazione in diritto seguita dalla Corte d’Appello di Milano, la quale aveva qualificato come concorso ester-no in una associazione per delinquere finalizzata all’organizzazione e lo sfrut-tamento della prostituzione, le condot-te di due sorelle proprietarie dell’albergo ove si praticava il meretricio con ragaz-ze provenienti dall’estero, e in questo quadro osservano che “non v’è dubbio che il concorrente esterno – a differen-za dell’associato, che deve agire con il dolo specifico di realizzare gli scopi per i quali l’associazione si è costituita – deb-ba invece operare per fini propri indivi-

duali, pur dovendosi egli rappresentare le finalità criminose dell’associazione, così come non v’è dubbio che, sul piano oggettivo, la di lui condotta, invece che inquadrabile in uno stabile inserimento nell’organizzazione, debba risolversi in un apporto, dall’esterno, ai fini dell’as-sociazione”.Per chiudere, un riferimento dottrinale, tra i più alti che si possono citare: il pen-siero, sul punto, di Giuliano Vassalli. Il Maestro dei penalisti italiani, infatti, ol-tre a riconoscere al concorso esterno un pieno “diritto di cittadinanza” e a critica-re la “da taluno ritenuta mostruosità”2, ebbe modo di osservare non solo che tale figura “ben può esistere, e come, senza essere relegata a casi eccezionali o marginali”, ma anche che la condot-ta punibile si identifica semplicemente in chi “aiuta il sodalizio una volta tan-to, in modo occasionale per un’attività bene determinata e precisa, senza al-cuna partecipazione ai fini o agli intenti dell’associazione, della quale può essere in linea di principio anche un nemico”3. Si dirà, saggezza antica. Appunto, quel che ci vorrebbe per discutere seriamen-te del problema del concorso esterno.Ma, forse, è proprio questo il problema: ancora oggi non siamo in grado di di-scutere di questa questione in modo ap-profondito e “laico”, magari prendendo in considerazione l’ipotesi di procedere finalmente a una tipizzazione legislati-va4. O peggio: “che ora in questo Paese non sappiamo se non se ne può più della mafia o dei processi di mafia”5

2 Vassalli, Riforma del codice penale: se, come, quando, in Riv. it. dir. E proc. pen., 2002, p. 34.3 Vassalli, Sul concorso di persone nel reato, in La riforma della parte generale del codice penale, a cura di Stile, Napoli, 2003, p. 349.4 Sia consentito rinviare a Visconti, Sui modelli di incriminazione della contiguità alle organizzazioni criminali nel panorama europeo: appunti per un’auspicabile (ma improbabile?) riforma “possibile, AA.VV., Scenari di mafia, cit., 189 e ss.5 Così Iacoviello, Il concorso esterno in associazione mafiosa, in Criminalia, 2008, p. 281.

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7verità e giustizia - 27 marzo 2012

Ora scopriremo che in Italia esi-ste il tritolo mafioso e garanti-sta. Perché lo dico? Perché mi sarei aspettato che la Cassa-

zione avesse definitivamente assolto con tante scuse per il fastidio procurato, o avesse mandato in galera, una volta per tutte, e con codazzo di carabinieri, il se-natore Marcello Dell’ Utri, il gran commis di Silvio Berlusconi degli ultimi vent’an-ni. Sì, voglio dire: mi sarebbe piaciuta, da cronista che per sedici anni si è occupa-to di questo cosiddetto «processo poli-tico», una sentenza totalmente evange-lica. Una sentenza ispirata alla parola di Gesù: «Il vostro parlare sia “ sì, sì;no, no”. Il sovrappiù viene dal Maligno» (Matteo, capitolo quinto, versetti 37-38) . Ma forse, come mi ebbe a dire un vecchio cronista tanti anni fa, io credo ancora alla Befa-na. L’ argomento adoperato dal sostituto procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, per annullare la sentenza di condanna di secondo grado a sette anni a carico di Dell’ Utri , lungi dall’ essere improntato alla chiarezza evangelica, appare piuttosto di brutalità luciferina: “un reato indefinito, quello del concorso esterno, al quale ormai non cre-de più nessuno”.Così si è infatti sfogato e ha arringato Iacoviello; accoratamente rivolgendo-si al presidente della quinta sezione di Cassazione. A quel punto, è come se la posizione processuale di Dell’ Utri fosse evaporata per incanto, e lui, il diretto in-teressato, fosse uscito di scena, trovando-si declassato dall’ingombrante ruolo del protagonista a quello più disinvolto del comprimario di un gioco ben più grande di lui. Chiederete: qual è questo gioco? E’ un gioco antico, quello tentato dal procu-ratore Iacoviello. Un gioco al quale una parte della magistratura italiana non si è mai sottratta. Il gioco di ritenere che la mafia si riassuma nella somma aritmeti-ca di un certo numero, più o meno consi-stente a seconda delle stagioni, di mafiosi; nient’affatto organizzazione centralistica e omertosa, verticale e ramificata sul territorio, con le sue belle complicità isti-tuzionali, politiche e finanziarie e econo-miche, come si è venuta configurando in-vece, sin dalle sue origini, Cosa Nostra. E, proprio per questa sua particolare natura criminale, favorita da un’ ampia raggiera di fiancheggiatori, simpatizzanti, colletti bianchi, vedette lombarde di deamicisia-na memoria, o, per dirla con una vecchia canzone di Iannacci, quelli che di mestie-

re hanno sempre fatto il palo nella banda dell’ Ortica. Il concorso esterno in asso-ciazione mafiosa, che a Iacoviello pare risulti di digestione assai sofferta, non è un optional accusatorio, uno scorretto asso nella manica da calare quando per l’accusa il processo si mette male. Prova ne sia che a sentirne la necessità, proprio per mettere i pali della banda dell’ Ortica nella condizione di non nuocere, siano stati, prima di essere fatti a pezzi dal tri-tolo mafioso e garantista, Giovanni Fal-cone e Paolo Borsellino. Prova ne sia che a pensarla come Iacoviello, fosse anche il capostipite della «scuola di pensiero», quel Corrado Carnevale - processato e assolto, ci mancherebbe, dalla Cassazio-ne. Prova ne sia che sulle sentenze as-solutorie di Carnevale che piovevano sui mafiosi come manna dal cielo, Falcone in persona, appena giunto alla direzione degli affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, ordinò un monitoraggio. Si potrebbe addirittura tornare alla notte dei tempi. Agli anni cinquanta e sessan-ta, quando i processi alla mafia si conclu-devano già in primo grado con raffiche di assoluzioni. Soprattutto quando, in più di un’occasione, il pubblico ministero si spogliava del suo ruolo accusatorio er-

gendosi a difensore degli imputati in ca-tene. I quali, infatti, venivano rimandati a casa con tante scuse.E in giornata. I mafiosi, in quegli anni, in Cassazione neanche ci arrivavano. Il procuratore di Torino, Gian Carlo Casel-li, ha definito gli argomenti di Iacoviello: “alquanto imbarazzanti”. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, riferendosi al reato di concorso esterno, ha parlato di “innovative idee giurispru-denziali”, fondate da Falcone e Borsel-lino. Né si sono riferiti alla motivazione della sentenza della Cassazione che non si conosce. E nell’attesa di leggerla, quando diventerà pubblica. Parole assai evangeliche, le loro. Quasi garbate, pur nell’ esemplare chiarezza. Ma noi, che non siamo magistrati fra i magistrati, ma semplicissimi cittadini fra i cittadini, vor-remmo formulare questo interrogativo: che ci sta a fare in Cassazione un sosti-tuto procuratore generale che impugna il tritacarne per ridurre in poltiglia – motu proprio, e a suo insindacabile giudizio - quelle parti del codice penale che non gli risultano commestibili e che invece a Fal-cone e Borsellino andavano benissimo? Sì, sì : è solo a Iacoviello che intendiamo riferirci.

Il concorso esterno indigestodi Saverio Lodato

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8 verità e giustizia - 27 marzo 2012

«La forza della mafia è fuo-ri dalle mafie». Questo il grido di denuncia che negli ultimi anni accom-

pagna gli interventi pubblici di Don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Una frase che esprime un concetto tanto chiaro quanto complesso che dopo 150 di mafie e qualcuno in meno di an-timafia, in questo Paese, non è ancora scontato: le organizzazioni criminali sarebbero poca cosa se non fossero alimentate da tutto quel contesto che scende a patti con loro sperando di trarne benefici, che è colluso, che ad essa attribuisce una funzione di “pote-re” nella società civile. Che su quella forza fanno leva in vista delle elezioni politiche e degli affari. E allora il dibat-tito stimolato dalla sentenza della Cas-sazione sul senatore Marcello Dell’Utri (annullare con rinvio la condanna del-la Corte d’Appello di Palermo) riporta a galla le origini di un provvedimento creato attraverso giurisprudenza, a cavallo fra due articoli del codice pe-nale. Il concorso “esterno” in associa-zione mafiosa, infatti, è la partecipa-zione (concorso) al reato dell’articolo 416 bis l’associazione a delinquere di stampo mafioso ed è regolata dall’ar-ticolo 110, la norma sul concorso nel reato, un’incriminazione può esse-re estesa anche a tutti i soggetti che aiutano a commettere il reato, con condotte di fatto anche non corrispon-denti al reato stesso. Il punto, sembra essere a distanza di anni da quando il magistrato Giovanni Falcone ipotizzò questo reato, dopo una attenta anali-si del fenomeno mafioso, quali siano le prove di questo concorso e non tanto l’esistenza del concorso in sé: la contropartita, la partecipazione al rafforzamento dell’attività mafiosa sul territorio? Tutti dettagli che in questi anni hanno reso possibile la condanna di politici, professionisti e uomini del-le forze dell’ordine ma anche l’esatto contrario, cioè sono stati limite e pro-blema. La decisione del procuratore generale della Corte di Cassazione Francesco Iacoviello è solo l’ultima in ordine di tempo. «Vogliono cancella-re il concorso esterno in associazione mafiosa, ma questo reato esiste ed è stato utile alla magistratura per incide-re nella zona grigia. Ho il dubbio che tutto questo faccia parte di una strate-gia – ha denunciato a Genova il presi-

dente di Libera, Luigi Ciotti, durante la XVII Giornata della Memoria e dell’Im-pegno». Il concorso esterno in asso-ciazione mafiosa in questi anni è stato oggetto di polemiche ma anche storia dei rapporti mafia, politica e economia in questo Paese. Ad esempio la delica-ta inchiesta sul dirigente della mobile di Palermo, Bruno Contrada, condan-nato per concorso esterno in associa-zione mafiosa, anche sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marche-se, Salvatore Cancemi) e confermata il 27 maggio del 2007 dal sigillo della Cassazione. Una scelta che la Corte ha fatto anche per un altro dirigente della polizia di Palermo, Ignazio D’Antone, confermando 10 anni di carcere perché avrebbe favorito la latitanza di alcuni boss di primo piano. Molti gli indagati, anche in questi ultimi anni. Sarebbero infatti accusati di concorso esterno, ad oggi, l’editore – imprenditore Ma-rio Ciancio San Filippo, vero e proprio dominus della vita politico – economi-ca catanese, l’ex ministro, Saverio Ro-mano. Diversa la posizione di politici come Pino Giammarinaro (trapanese)

Giulio Andreotti, o professionisti come Michele Aiello, di fronte e destini diversi i tre sono stati accusati non di concorso esterno ma di associazione mafiosa, il reato previsto dal 416 bis. « E’ triste as-sistere, proprio in questo anno, al mon-tare di un nuovo revisionismo politico-giudiziario sulla stagione di Falcone e Borsellino - ha dichiarato al Fatto il pro-curatore Antonio Ingroia - perché non dimentichiamo che il concorso esterno è una creazione che nasce da una loro idea, messa a punto durante l’istruttoria del maxiprocesso, per scoprire le collu-sioni dei colletti bianchi». E proprio nel suo ultimo libro “Assedio alla Toga” ill collega Antonino Di Matteo a proposito del concorso esterno per mafia, scrive: «Il concorso esterno in associazione mafiosa costituisce l’estrinsecazione concreta dei principi generali del co-dice penale in materia di concorso di persone nel reato, e non, come dice qualcuno, un reato inventato dai pm politicizzati». Uno strumento, dunque ”Utile, ma complicato”, come afferma il procuratore nazionale antimafia, Pie-tro Grasso, che si trova ad un bivio fra il suo definitivo indebolimento o la sua definitiva legittimazione.

Le mani sul concorso esterno in associazione mafiosa

>> focusLA SCHEDA (a cura di Norma Ferrara)

9verità e giustizia - 27 marzo 2012

di Norma Ferrara

Un senatore in contatto con i boss di Cosa nostra pri-ma del 1992, anzi no. Solo dopo. Così è se vi pare, ver-

rebbe da dire, leggendo le conclusioni cui arrivano, i giudici chiamati a fare luce sulle stragi di Firenze, Roma e Milano e sulla trattativa Stato – ma-fia da una parte, e quelli che hanno valutato l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per il sena-tore Marcello Dell’Utri dall’altra. Si perché nell’ultima parte che riguar-da la sentenza di condanna per uno degli autori delle stragi terroristico - mafiose del 1993, Francesco Taglia-via, si parla proprio dell’uomo chiave dell’impero politico imprenditoriale di Silvio Berlusconi. Ideatore e fonda-tore di Forza Italia, amico di Vittorio Mangano (definito da Paolo Borsel-lino una delle "teste di ponte dell'or-ganizzazione mafiosa nel Nord Italia e condannato per omicidi”) tanto da dire alla sua morte che “era un eroe”, Marcello Dell’Utri esce e entra dalle carte giudiziarie di ben tre procure, ma la Cassazione rimette tutto in di-scussione e in parte a rischio, poiché sul processo pende la spada di Damo-cle della prescrizione. Nonostante “il silenzio” di Vittorio Mangano il sena-tore Marcello Dell’Utri a processo per mafia, infatti, c’è andato e le senten-ze hanno sancito i suoi contatti con esponenti di spicco della mafia sici-liana sino al 1992. Fra questi anche il medico Antonino Cinà, uomo d'onore della famiglia di Malaspina, deceduto nel 2006. A metà degli anni Ottanta, la voce di Cinà era stata intercettata al telefono con Dell'Utri, sotto control-lo per ordine dei magistrati di Milano che indagavano sul fallimento dei una sua azienda, parlavano dei processi in corso, di fallimento di una sua azien-da, e Dell'Utri lo tranquillizzava. Il senatore dopo avrebbe interrotto di colpo i contatti con le famiglie paler-mitane proprio nell’annus horribilis della nostra democrazia il 1992: la strage di Capaci, via D’Amelio e l’at-tacco al cuore dello Stato, proseguito sino al 1993. Mentre quel processo viene stralciato e dovrà ripartire ex novo sempre nel capoluogo siciliano, da Firenze, negli stessi giorni arriva un corposo documento, circa 500 pa-gine che racconta delle responsabilità di un boss, Francesco Tagliavia, uomo

dei Graviano nelle stragi di Firenze, Roma e Milano. C’è una parte, poco raccontata di quell’indagine contenu-ta nel testo finale, che parla del sena-tore Marcello Dell’Utri. I magistrati di Firenze precisano di aver raccolto per completezza quelle dichiarazioni e di non potersi esprimere in meri-to a fatti che non sono oggetto della sentenza. Letto da Firenze questo dialogo a colpi di bombe fra Stato e mafia parla anche attraverso le testi-monianza di Giovanni Brusca e Tullio Cannella che se da una parte esclude che Dell'Utri o Berlusconi abbiano preso parte alla trattativa o abbiano responsabilità in merito alle stragi del '93, subito dopo forniscono un quadro di racconti interessanti. Datano fra il 1993 e il 1994, ad esempio, contatti con Vittorio Mangano per raggiun-gere Marcello Dell'Utri. “L'iniziativa si impose – racconta Brusca – perchè dopo l'arresto di Riina, Bagarella oltre ad imporre gli attentati al Nord, aveva anche impiantato un soggetto politico, Sicilia Libera”. “Quella la trattativa, no la trattativa... la nuova richiesta di aiu-to, come era nella natura di Cosa no-stra trovare i referenti politici, perchè

prima era l'onorevole Lima, eliminato Lima si cominciano a cercare nuovi re-ferenti politici per ottenere benefici. E in quel momento comincia ad emerge-re Dell'Utri, Berlusconi, quello che poi sono gli eventi”. Le sentenze, se lette in parallelo, dicono due cose: si dovran-no provare in maniera più consistente i contatti fra Dell’Utri e la mafia pri-ma del 1992 come chiede la Cassa-zione, ma attendibili (sino da oggi) collaboratori di giustizia raccontano che dopo la stagione delle bombe, del fallito attentato ai carabinieri allo stadio olimpico e quello al pentito To-tuccio Contorno, Cosa nostra depose le armi. L’avrebbe fatto, si racconta in un passaggio della sentenza, per due motivi: perchè venne arrestato Rii-na che di quel progetto stragista era l'interprete più violento ma anche perchè Cosa nostra trovò un nuovo tavolo di dialogo con la politica/i poli-tici. Un’area grigia gestita da segmen-ti dello Stato ha tenuto aperto, dopo l'omicidio Lima, un canale di dialogo con i vertici della mafia. Qui prodest? Verrebbe da chiedere. Forse un po’ a tutti, poiché eccetto i pentiti di mafia nessun altro lo racconta.

Dell’Utri e le convergenze parallele

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10 verità e giustizia - 27 marzo 2012

11verità e giustizia - 27 marzo 2012

Tra i palazzi costruiti in se-guito alla speculazione edilizia, la violenza rappre-senta l’unica via di socializ-

zazione. Il sopruso e la sopraffazione sono gli strumenti che accompagna-no l’adolescenza di quei tanti ragazzi che costituiscono il bacino privilegia-to dal quale attingono i cartelli della droga messicani. La rottura di questo circolo vizioso è legata necessaria-mente all’offerta di opportunità di socializzazione alternative. Questo è l’impegno che Cauce Ciudadanos porta avanti quotidianamente a Città del Messico lavorando non solo con le vittime della violenza, ma soprat-tutto con chi non esita ad esercitare quella violenza. Ed è proprio il lavoro con i carnefici che rappresenta il trat-

to distintivo del lavoro di Carlos Al-berto Cruz. Un’intuizione che sembra essersi sviluppata a partire dalla sua esperienza personale. Carlos è nato a Città del Messico da una famiglia di migranti dello stato del Chiapas. Fin dall’adolescenza, ha dovuto soppor-tare violenze e abusi commessi dalla propria famiglia. Così, come accade a tanti giovani nella sua condizione, non ha esitato a utilizzare lo stru-mento della violenza poiché pareva l’unica arma per risolvere i suoi disa-gi. Questa spirale violenta si alimen-ta negli anni della scuola superiore, dove fin dall’inizio si trova a dover subire rapine e altri atti di violen-za. L’unico rimedio per uscire dalla condizione di vittima risulta entrare a far parte di quello stesso universo

violento che fino a poco tempo prima lo aveva colpito. Carlos diventa per-tanto un membro di una delle gang più importanti del distretto. Da quel momento Carlos gode della prote-zione del clan in cui ha militato per molti anni e con il quale è stato pro-tagonista di diversi atti violenti. Ha conosciuto diverse volte l’esperienza del carcere, dove è stato picchiato: situazione che ha aumentato la sua rabbia e il suo desiderio di vendetta. La vita di Carlos è cambiata drastica-mente quando ha è stato colpito da un proiettile nell’anca. Durante il pe-riodo di degenza a casa di un amico a Veracruz ebbe tempo di riflettere sulla sua esperienza di vita, breve, ma intensa, arrivando a constatare l’inutilità della violenza come mezzo di risoluzione dei conflitti. Dopo la guarigione, Carlos ha messo in pra-tica gli impegni assunti con se stes-so terminando gli studi e tornando a Città del Messico. Qui ha iniziato ad impegnarsi per favorire un lungo processo di mediazione e di alleanza pacifica tra i leader delle gang delle diverse scuole della città per prova-re a fermare la spirale di violenza. Un processo difficile e tortuoso poiché i diversi leader non hanno esitato a usare il denaro per reprimere il mo-vimento. L’esperienza personale di Carlos come membro di una gang ha giocato un ruolo fondamentale nel suo lavoro di prevenzione della vio-lenza. La sua capacità di empatia e di immedesimazione nella figura del carnefice, e non solo della vittima, gli ha permesso di riuscire a identificare i nodi che possono ispirare il cambia-mento nella mentalità del pandillero. Inoltre la storia personale di Carlos rappresenta un vero e proprio esem-pio di cambiamento e trasformazio-ne concreto per le migliaia di giovani pandilleros che si imbattono nelle at-tività di Cauce Ciudadanos.

Cauce Ciudadanos

Carlos Alberto Cruz ha 35 anni e dal 2005 presiede un’organizzazione nata undici anni fa per il reinserimento sociale, lavorativo ed educativo dei tanti giovani pandilleros che popolano le strade delle periferie di Città del Messico

di Simone Bauducco

>> internazionale

Carlos è nato a Città del messico da una famiglia di migranti dello Stato

del Chapas

12 verità e giustizia - 27 marzo 2012

Chissà…..forse bastava risen-tire la voce di Lilli Gruber al Tg1 di quel fine settembre del 1988 per rendersi conto

che il delitto di Mauro Rostagno, fon-datore di Lotta Continua, sociologo, ammazzato il 26 settembre 1988 da-vanti ai cancelli della comunità di recupero Saman di Lenzi (Valderice, provincia di Trapani, Sicilia), di ri-torno dalla tv dove lavorava, Rtc di contrada Nubia (Paceco), per ren-dersi conto che il suo omicidio non era stato “un delitto tra amici”, non era frutto di vendette per questioni di corna, non era un delitto di balor-di. L’annuncio della Gruber era chia-ro, in Sicilia ci sono stati 13 morti in 4 giorni, uno dei morti ammazzati Mauro Rostagno. Una vera e propria guerra. Lotta per la supremazia. La mafia contro quella parte di Stato che appariva irremovibile come se fosse stato quello Stato a intestardir-si a controllare un territorio che suo non era, e la mafia poneva ostacoli all’”intromissione”. Il volto e la voce di Lilli Gruber, la voce e il volto di Maddalena, la figlia di Mauro che è stata ospite di Daria Bignardi su “La

Maddalena Rostagno, figlia del leader del '68

ucciso in Sicilia dalla mafia nel settembre del

1988 ospite di La7 racconta la sua storia e

quella della sua famiglia attraverso le parole

del suo libro "Il suono di una sola mano"

>> i media ne parlano

7” per le “Invasioni Barbariche”. Sul tavolo un libro, “ Il suono di una sola mano”, la storia di Maddalena e di Mauro, che è anche la storia di tanti altri, anche un po’ nostra, anche at-tuale, c’è un processo in corso e un giornalismo che non riesce a spiega-re, non riesce a raccontare, a diffe-renza di quello che faceva Mauro, e in uno spezzone del 1988 ci sono dei ragazzi giovanissimi che ricordano cosa facesse Mauro ogni giorno dagli schermi di Rtc. E così per anni sul de-litto Rostagno non si è capito ciò che era accaduto e andava ancora acca-deva in questa parte di Sicilia. Eppu-re tutto era lì davanti, il delitto con lo scenario di mafia, un’auto rubata sei mesi prima, le cartucce sovracca-ricate, il fucile scoppiato, i segnali e le intimidazioni, la memoria svanita, i gialli inesistenti come la storia dei dollari trovati nella borsa di Mauro, tutto questo parlava di mafia, ci fa-ceva respirare la mafia, la mafia che in quelle indagini però non c’entrava mai. Ci aveva provato il capo della Squadra Mobile dell’epoca, l’odierno questore Rino Germanà, ma il suo rapporto venne preso e buttato via

da chi indagava, come se fosse stato carta straccia. I carabinieri si misero a inseguire altro, poi arrivò anche la Polizia, immaginate una struttura di intelligence “politico” come la Digos che si metteva ad indagare su di un omicidio. Madddalena, ha 15 anni quando le uccidono il padre, Mauro, ha 23 anni quando un giorno i po-liziotti bussano a casa sua per dir-le che le hanno arrestato la madre, Chicca Roveri, perché sospettata di avere favorito gli assassini del padre e che Mauro Rostagno con quei 13 morti in 4 giorni in Sicilia, tutti de-litti di mafia, non c’entra nulla e che quel giorno ad armare la mano dei killer era stata una questione di “cor-na”. Sesso e soldi. Sulla seconda cosa quella indagine, va detto, aveva visto bene. Tanti soldi, troppi soldi si sono messi a girare dentro Saman dopo il delitto, e forse nemmeno è corret-to dire che questa è un’altra storia, perché se oggi Chicca e Maddalena vivono le fasi del processo con l’aiu-to di tanti amici, una ragione ci sarà che quel denaro non è finito nelle loro tasche. Inaffidabili le due don-ne, inaffidabili perché non disponi-

Rostagno a “Invasioni Barbariche”

di Rino Giacalone

13verità e giustizia - 27 marzo 2012

bili ad abbassarsi come fa il giungo dinanzi alla piena del fiume. In tv Maddalena Rostagno ha raccontato la storia di Mauro Rostagno che è la storia di un uomo e di tanti impegni, di un uomo libero che praticava la li-bertà, che diceva agli altri di restare liberi ma responsabili, come quan-do a Maddalena permetteva tutto tranne di sottrarsi alla scuola. Quel 26 settembre 1988, l’ha ricordato Maddalena, litigarono proprio per la scuola, si lasciarono per sempre così, con gli sguardi che si incrocia-rono quel primo pomeriggio del 26 settembre del 1988, sguardi di reci-proco disappunto, nessuna parola, ma Mauro ha vinto anche in questo, tanto che oggi sua figlia dice che non ha nulla da rimproveragli, “non più”. In quel 1988 Mauro Rostagno aveva le idee precise, non era anco-ra arrivato il tempo dell’antipolitica, quello delle ideologie calpestate dai personalismi, e però raccontando di quella giornata aveva subito svelato che non sapeva più come chiamare chi gli stava incontro, cari compa-gni, no; cari amici, no; “cari cosa?”. Aveva percepito che le cose stavano

cambiando e che probabilmente per colpa di quel ’68 che era stato male interpretato, mal tradotto Mauro aveva visto giusto che attorno c’era una società assopita, addomesticata con i poteri forti, una società ane-stetizzata, e che chi era dentro Sa-man lo usava come specchio per le allodole e faceva incetta di soldi, che uno dei bracci operativi della comu-nità era il nipote di un mafioso che avrebbe frequentato i servizi segreti, aveva vinto restando in solitudine e come spiegò Falcone in vita restan-do soli spesso si muore. Rostagno era “il giornalista”, da giornalista è morto. Non era “un giornalista” qual-siasi. A differenza di chi ogni giorno, anche in quel 1988, ma anche oggi, si butta a capofitto a raccontare le retate, era il giornalista che portava le telecamere nelle aule dei proces-si, che raccontava l’atteggiamento si sfida degli imputati, aveva capito che più che dalle veline degli arresti era dai dibattimenti che uscivano fuori tante di quelle cose da rende-re più chiara la realtà, per arrivare alla verità. Come quando raccon-tava dei catanesi venuti un giorno a Castelvetrano a comprare meloni da un imprenditore che vendeva ce-mento. Quei catanesi erano del clan del mafioso Nitto Santapaola, l’im-prenditore che vendeva cemento ma che a loro avrebbe venduto meloni, era il capo mafia di Mazara Maria-no Agate, il giorno era il 13 agosto 1980, il giorno in cui a Castelvetrano veniva ucciso il sindaco Dc del pae-se, Vito Lipari. Oggi il processo per il delitto di Mauro Rostagno, lo ha ancora ricordato Maddalena, non è sfuggito alla regola dell’indifferenza giornalistica perché Mauro ha vinto perché era scomodo e tale è rimasto, e c’è chi dice “per fortuna”. Non c’è udienza in cui non emergano scena-ri particolari, incredibilmente attua-li, ma a parte un paio di cronisti, e tra questi c’è chi sa essere attento e disattento a secondo dell’interesse della difesa degli imputati, il proces-so non è sui giornali. Perché Mauro Rostagno sui giornali non doveva più esserci. Ma invece ogni tanto c’è e stupisce come era solito fare, oggi stupisce con il sorriso di Maddalena che le cose non le manda a dire ma le dice. Come sapeva fare Mauro.

Rostagno era il giornalista

che portava le telecamere nelle aule dei processi,

che raccontava l'atteggiamento di

sfida dei mafiosi e li derideva in tv

14 verità e giustizia - 27 marzo 2012

>> territori

CampaniaNell’anniversario dell’omici-dio di Don Peppino Diana la Chiesa rilancia il documen-to “Nel nome del mio popo-lo non tacerò” per rinnova-re memoria e impegno nel nome del parroco anticamor-ra ucciso a Casal di Principe il 19 marzo del 1994

PugliaDuro colpo al clan Pacilli-Li-bergolis, molto attivo nel Gar-gano. Gli agenti delle squadre mobili di Foggia e Bari e dello Sco della Polizia hanno arre-stato 18 esponenti di primo piano accusati, a vario titolo, di favoreggiamento persona-le, estorsione e detenzione di armi aggravati dalle fina-lità mafiose. Tra i destinata-ri delle misure cautelari c’ è perfino un maresciallo dell’ Esercito in servizio presso il X reggimento Artiglieria di Foggia.

PiemonteSciolto per mafia il Comune di Leinì ma anche di altri sei comuni: Pagani, in provincia di Salerno, Racalmuto, in Si-cilia, Gragnano, nel napole-tano, Bova Marina e Platì, in Calabria. Il Comune torinese di Leinì, invece, è finito più volte nel mirino delle indagi-ni per ‘ndrangheta”

a cura di Norma Ferrara

15verità e giustizia - 27 marzo 2012

La monnezza? A Roma non è un problema, forse. Da anni, infatti, la Capitale, si trova a dover fronteggiare crisi e emergenze, incapa-ce di realizzare un modello per lo smaltimento che raggiunga i livelli fissati per legge di rac-colta differenziata. Incapacità o scarsa volontà che rischiano di mettere in ginocchio la Città Eterna. A cercare di far luce sulla gestione dei rifiuti a Roma e nel Lazio un libro, uscito da poco ma che farà molto discutere, edito dal-la Castelvecchi. “Roma come Napoli”, scritto dai giornalisti Nello Trocchia, Manuele Bo-naccorsi e Ylenia Sina. Una descrizione ben documentata sul malfunzionamento della rac-colta e del conferimento dei rifiuti, ma anche sugli affari privati nel settore dei rifiuti. Sullo sfondo il paragone con Napoli, la città colpita da oltre 18 anni di gestione emergenziale, tra commissariamenti e crisi igienico-sanitarie. Anche Roma, come Napoli, ha conosciuto le emergenze, per far fronte alle quali sono stati nominati dei commissari ad hoc. La prima ge-stione commissariale è durata quasi un decen-nio, dal 1999 al 2008, la seconda è iniziata nel 2011, con la nomina a commissario del prefet-to di Roma Giuseppe Pecoraro. I problemi, tut-tavia, restano tutti sul tavolo. Ad iniziare dalla discarica di Malagrotta, la più grande d’Euro-pa, gestita dalle società dell’avvocato Manlio Cerroni, il dominus dei rifiuti a Roma, e non solo. Malagrotta ormai da anni ha raggiunto il limite massimo, consentito dalla legge, di rifiuti conferiti. Esaurito lo spazio, tuttavia, si continuano a scaricare rifiuti. C’è emergenza e si va in deroga alle leggi. Il problema di Mala-grotta, come denunciato gli autori del libro, è che i rifiuti sono conferiti in discarica, in buo-na parte, senza il necessario trattamento. Una situazione che ha portato l’Unione europea ad aprire una procedura d’infrazione nei confron-ti dell’Italia. Rifiuti non trattati, e poca sicu-rezza, come denunciano gli autori riportando studi statistici e relazioni della Commissione d’inchiesta sulle ecomafie, che causano gravi

problemi per l’ambiente e per la salute della popolazione. In un recente studio l’Eurispes parla di Malagrotta e della zona prospicien-te di Valle Galeria come: «una delle aree più a rischio d’Italia per la complessa situazione ambientale». L’Ispra, nella relazione conse-gnata nel 2010 e resa nota nel settembre del 2011, denuncia che nella zona di Malagrotta c’è: «uno stato di contaminazione diffuso delle acque sotterranee, sia interne che soprattutto esterne al sito». In attesa di individuare un nuovo sito per la realizzazione di una nuova discarica, tuttavia, i rifiuti continuano ad esse-re conferiti a Malagrotta. L’individuazione del-la nuova zona, inoltre, sta causando resistenze tra le comunità locali. Si va da realtà agricole floride, dove una discarica comprometterebbe la produzione – chi comprerebbe frutta e ver-dura prodotte a ridosso di una discarica? - a luoghi protetti per il pregio naturalistico e arti-stico. Follie italiane. Oltre alle discariche, la Re-gione, punta alla realizzazione di inceneritori o gassificatori, infrastrutture particolarmente costose e molto inquinanti. La differenziata, lo strumento che consentirebbe di diminuire i rifiuti da conferire nelle discariche, e negli inceneritori – su quello di Colleferro indaga la Procura di Velletri dopo aver scoperto un pre-sunto traffico di rifiuti pericolosi e nocivi che venivano inceneriti – è al palo. La municipaliz-zata romana, l’Ama, si limita alla raccolta dei rifiuti, ma non al trattamento, riciclaggio, un business lasciato nelle mani dei privati. L’Ama, inoltre, negli ultimi anni si è trovata nel ciclone della parentopoli romana, assunzioni pilotate a famigli di politici romani del centro-destra. Soldi, centinaia di milioni di euro, volatilizza-ti. Mancanza di progettualità nell’ambito della raccolta, anche quella “spinta” fatta casa per casa, che consentirebbe di risparmiare, facen-do diminuire le tonnellate di rifiuti da portare nelle discariche, rendendo inutili inceneritori o gassificatori. Sullo sfondo la paura di una cri-si molto simile a quella di Napoli.

Manuele Bonaccorsi, Ylenia Sina, Nello Trocchia

ROMA COME NAPOLI. Il malaffare di politica e signori della mon-nezza che mette in ginocchio il Lazio e la Capitale

Castelvecchi Rx, Roma 2012; pp. 125, 12,00 euro

LIBR

I

Roma, questione di rifiutidi Gaetano Liardo

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16 verità e giustizia - 27 marzo 2012

Verità e giustizia newsletter a cura della Fondazione Libera InformazioneOsservatorio nazionale sull’informazione per la legalità e contro le mafie

Sede legalevia IV Novembre, 98 - 00187 Romatel. 06.67.66.48.97www.liberainformazione.org

Direttore responsabile:Santo Della Volpe

Coordinatore:Lorenzo Frigerio

Redazione:Peppe Ruggiero, Antonio Turri,Gaetano Liardo, Norma Ferrara

Hanno collaborato a questo numero:Saverio Lodato, Rino Giacalone, Costantino Visconti, Gian Carlo Caselli, Ufficio stampa di Libera

IPSE DIXIT“Nel nostro paese si vive sotto una cappa di paura e io denuncio per costruire un cambiamento,una vita migliore non tanto per me ma per i miei figli.” Questo un passaggio della lettera inviata da Vincenzo Grasso, commerciante titolare di una concessionaria di auto, al gior-nalista Enzo Biagi prima di essere ucciso dalla ‘ndrangheta a Locri il 20 marzo del 1989. All’imprenditore nel 1997 è stata conferita la medaglia d’oro al merito civile. La motivazio-

ne recita: Commerciante impegna-to nella lotta contro la criminalità organizzata, benché consapevole del rischio cui si esponeva, si op-poneva tenacemente a una lunga serie di intimidazioni e di pressanti richieste estorsive. Per tale corag-gioso atteggiamento e inflessibile rigore morale rimaneva vittima di un vile attentato. Nobile esempio di ribellione alla violenza criminale, nonché di elette virtù civiche, spinte sino all’estremo sacrificio.

Vincenzo Grasso Locri 20 marzo 1989 - Imprenditore Vittima della 'ndrangheta

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La Marcia della memoria