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Speciale su david Grossman
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copertinaCARTOLINE DALL’INFERNO
VOI CI CREDETE FORTI E ARROGANTI. IN REALTÀ È SOLTANTO TERRORE dal nostro inviato PAOLA ZANUTTINI
LO SCRITTORE ISRAELIANO RACCONTA IL SUO NUOVO ROMANZO-POEMA, CADUTO FUORI DAL MONDO: DOVE NARRA IL DOLORE E LA FOLLIA DEI GENITORI CHE PERDONO I FIGLI. E SPIEGA CHE COSA C’È DIETRO L’IMMAGINE CHE IL SUO PAESE DÀ AL MONDO
GROSSMANMILITARI ISRAELIANI PIANGONO AL FUNERALE DI UN COMMILITONE UCCISO. A SINISTRA, DAVID GROSSMAN, 54 ANNI. SOPRA, IL SUO NUOVO ROMANZO, DA OGGI IN LIBRERIA, CADUTO FUORI DAL MONDO (MONDADORI, PP. 192, EURO 18,50, TRADUZIONEDI ALESSANDRA SHOMRONI). LO SCRITTORE LO PRESENTERÀ IL 28 OTTOBRE A GENOVA(TEATRO ARCHIVOLTO), IL 30 A MODENA (FORUM MONZANI), IL 15 NOVEMBRE A TORINO(CIRCOLO DEI LETTORI) E IL 17 NOVEMBRE A MILANO (RASSEGNA BOOKCITY)
DAVID
COR
BIS
copertinaCARTOLINE DALL’INFERNO
VOI CI CREDETE FORTI E ARROGANTI. IN REALTÀ È SOLTANTO TERRORE dal nostro inviato PAOLA ZANUTTINI
LO SCRITTORE ISRAELIANO RACCONTA IL SUO NUOVO ROMANZO-POEMA, CADUTO FUORI DAL MONDO: DOVE NARRA IL DOLORE E LA FOLLIA DEI GENITORI CHE PERDONO I FIGLI. E SPIEGA CHE COSA C’È DIETRO L’IMMAGINE CHE IL SUO PAESE DÀ AL MONDO
GROSSMANMILITARI ISRAELIANI PIANGONO AL FUNERALE DI UN COMMILITONE UCCISO. A SINISTRA, DAVID GROSSMAN, 54 ANNI. SOPRA, IL SUO NUOVO ROMANZO, DA OGGI IN LIBRERIA, CADUTO FUORI DAL MONDO (MONDADORI, PP. 192, EURO 18,50, TRADUZIONEDI ALESSANDRA SHOMRONI). LO SCRITTORE LO PRESENTERÀ IL 28 OTTOBRE A GENOVA(TEATRO ARCHIVOLTO), IL 30 A MODENA (FORUM MONZANI), IL 15 NOVEMBRE A TORINO(CIRCOLO DEI LETTORI) E IL 17 NOVEMBRE A MILANO (RASSEGNA BOOKCITY)
DAVID
COR
BIS
2 6 O T T O B R E 2 0 1 2 2524 I L V E N E R D I D I R E P U B B L I C A
copertinaCARTOLINE DALL’INFERNO
movimento, almeno per un attimo.
Lo ammette: «Fare una cosa insignifi-
cante e inutile come girare in tondo fino a
sfiancarsi oltrepassa ogni ragione logica.
Ma anche perdere un figlio è contro ogni
ragione logica e contro l’ordine naturale
della cose. Uno dei pensieri più difficili da
concepire è che la morte è ermetica, stati-
ca, definitiva: puoi fare tutto, ma non cam-
bia. Quindi per reagire ci vuole qualcosa di
altrettanto innaturale e inconcepibile».
Grossman non vuole che questa sia la
storia del suo dolore, ma del dolore di tanti
e non solo in Israele. Difende fieramente la
sua privacy, ma narra spericolate incursio-
ni nella follia e nell’intimità più segreta,
perché – dice – questa è la sua responsabi-
lità. Di padre e scrittore. «Scrivo dei fatti
della vita: se raggiungo certe sfumature
dei sentimenti e riesco ad esprimerle non
ho diritto di tenerle per me. Ci sono perso-
ne che, leggendo il libro, hanno trovato il
modo di dare parola a emozioni taciute fi-
no a quel momento». Però, trasferendo in
altre lingue quelle parole, si è manifestato
qualche problema: in sessione con i suoi
traduttori in un fantastico centro tedesco,
una specie di tempio delle traduzioni, ha
scoperto con stupore che molta parte del
mondo non sta a sottilizzare fra un lutto e
un altro: non esiste, come in Israele, un
termine specifico per il lutto di un figlio.
Arrivano cose buonissime dai nomi dif-
ficili: in arabo e in ebraico. Due nazioni in
guerra che su questa tavola fanno pace. E
oltre il giardino? «La realtà è che è difficile
cambiare, e Israele oggi non sembra avere
l’energia per farlo. I coloni hanno creato
una situazione irreversibile che impedisce
una pace stabile e un confine solido con la
Palestina. Si crea uno Stato binazionale
che di fatto non lo è: gli israeliani non per-
metteranno ai palestinesi di essere uguali.
Sarà uno Stato di apartheid terribile per
tutti. E non credo che Netanyahu e Abu
Mazen abbiano serie intenzioni di negozia-
re la pace. Perché non hanno il coraggio di
imporre ai rispettivi elettori le rinunce che
il trattato di pace comporta».
Un po’ più a Est c’è l’Iran che, fino a po-
chi giorni fa, Netanyahu minacciava di
bombardare, mentre Ahmadinejad conti-
nua a ripetere che Israele va eliminato.
«Viviamo nella paura di non poter esistere
più. La terra ci trema sempre sotto i piedi.
Nei vostri media appariamo forti e arro-
ganti, ma in realtà siamo terrificati. Ades-
so siamo sei milioni, con un milione e mez-
zo di bambini iscritti a scuola: gli stessi
numeri della Shoah. Ogni dieci anni c’è
una nuova fonte di angoscia, oggi è l’Iran
che – chiamatela pure paranoia – potreb-
be dotarsi di armi atomiche. Io non voglio
un Iran con l’atomica, ma non voglio nem-
meno che Israele lo attacchi. Servirebbe
solo a crearci un nemico eterno».
GERUSALEMME. Bisognereb-
be fondare un club internazio-
nale di giornalisti che intervi-
stano David Grossman sul suo
ultimo libro, bellissimo e terri-
bile: Caduto fuori dal tempo.
Un racconto a più voci in prosa e in versi
che si immerge nel dolore più grande: il
lutto per un figlio. Non solo il lutto dello
scrittore, che nel 2006 ha perso Uri, ven-
t’anni, nella terza guerra israelo-libanese,
ma quello di tanti altri genitori che hanno
visto morire i loro bambini o i loro ragazzi
per le cause più diverse e crudeli. Questo
club sarebbe una specie di circolo di redu-
ci, perché parlare di Caduto fuori dal tempo
con Grossman è un’esperienza che non si
dimentica. Ho guardato su YouTube l’in-
tervista che ha rilasciato in una biblioteca
dell’Aia. L’opinionista che gli faceva le do-
mande era in evidente imbarazzo: cauto e
turbato dalla prospettiva di affrontare una
materia privatissima e tagliente senza in-
vadere la sua intimità o ferirlo. L’intervista
era bella anche per questo, ma che fatica.
E per Grossman dev’essere ancora più
faticoso. Infatti l’ha presa alla larga, questa
intervista qui. Molto alla larga. Program-
ma: appuntamento alle 16 in un bar con
belvedere dalle parti di Mevas-
seret Zion, il sobborgo residen-
ziale di Gerusalemme dove
abita. Un caffè, e via a cammi-
nare (con le scarpe da ginna-
stica, ha raccomandato) nel
bosco dove tutte le mattine
(sveglia alle 5.30) inizia la gior-
nata sgambando con la moglie
Michal, psicologa, e il cane. Ma
prima c’è un problema: non ho
lo zaino e non è dignitoso fare trekking
con la borsetta. Non ho neanche le tasche,
mentre lui ne ha tante, così s’infila i miei
soldi, il passaporto e il resto nelle sue. Un
amichevole gesto da camminatore.
Annuncia che potremmo avvistare le
gazzelle: all’alba le incontra quasi sempre.
Col sole del pomeriggio stanno più nasco-
ste, ma dietro un cespuglio balena una co-
da e poi un sedere, di gazzella. Son soddi-
sfazioni. Cominciamo la salita, niente di
che, però sarebbe interessante sapere co-
me Grossman sceglie le attività di riscal-
damento pre-intervista: e se gli capitava
un giornalista zoppo? Si informa prima
con l’ufficio stampa? O applica una drasti-
ca selezione naturale tipo no trekking, no
interview? Sul pianoro, ripreso il fiato, po-
trei attaccare con qualche domanda pre-
paratoria, che lui previene subito chiaren-
do che in passeggiata non parla né del li-
bro né di sé. «Piuttosto, mi dica qualcosa
di lei». Eccola, la selezione naturale. A uno
che racconta il dolore del mondo ed entra
nei suoi personaggi come Zelig e Flaubert
non puoi spiattellare un curriculum vitae
da concorso. Però c’è il rischio di slittare
nell’intimismo. E il sospetto di stargli a
raccontare un po’ troppi fatti miei.
Dopo il trekking, la merenda, che in re-
altà è una cena. Nel villaggio arabo di Ein
Rafa c’è un piccolo ristorante con il giardi-
no, che si chiama Majda ed è tenuto da
una coppia mista; lei israeliana e lui pale-
stinese. All’ingresso, un cartello intima:
sorridete. Grossman si siede, guarda il pa-
norama bello e pacifico e sospira: «Israele
potrebbe essere così, un paradiso».
Ma conviene prepararsi alla discesa ne-
gli inferi perché questo è, Caduto fuori dal
tempo. C’è l’Uomo che cammina, padre di
un giovane soldato morto da tempo, che
una sera lascia la casa, la moglie, il brodo
caldo sulla tavola, per andare
laggiù a cercare suo figlio. Co-
mincia a camminare in una cit-
tà mitologica e senza tempo e,
di lì a poco, dietro a lui si forma
una processione dolente di ma-
dri e padri che hanno perso i
loro figli. Ognuno racconta la
sua storia. Un compendio della
cultura occidentale: la Bibbia,
Erodoto, Antigone, Orfeo e Eu-
ridice, Amleto, il pifferaio magico. Dalla
tragedia greca a La terra desolata.
Grossman fa l’ordinazione e poi abbas-
sa la voce. Si comincia: «Mia moglie so-
stiene che la poesia è più vicina al silenzio.
Davanti a una tragedia non ci sono parole,
non sappiamo dire altro che: non ho paro-
le. Di solito quando scrivo non pianifico co-
me sarà la forma, perché so che viene dal
contenuto, ma stavolta è stato subito chia-
ro che la poesia è la lingua del mio dolore».
Ci ha messo due anni a scriverlo e mo-
glie, figli e amici erano preoccupati. Gli
chiedevano perché non si consentiva di
guarire. C’era già stato A un cerbiatto somi-
glia il mio amore, la storia di una donna che
fugge da casa per non ricevere l’eventuale
notizia della morte della figlio nell’ultima e
rischiosa operazione militare: aveva inizia-
to a lavorarci quando Uri era andato sotto
le armi, quasi per proteggerlo. E l’aveva
terminato quando il destino si era compiu-
to. Lui dice che guarire significa distaccar-
si, che non crede alle guarigioni troppo ra-
pide. «Questa è la mia vita, stare nella vita
non significa evitare il dolore che mi è toc-
cato in sorte, anche se non è piacevole».
Ma l’Uomo che cammina e il suo segui-
to vogliono imparare a separare la memo-
ria dal dolore. E percorrono visioni che so-
no deliri, come se per uscire dal lutto o al-
meno per venirci a patti si debba passare
per la follia. O inoltrarsi nel pensiero magi-
co, nel desiderio irrazionale e consolatorio
di far succedere cose che non possono
succedere. Per esempio, rivedere i propri
cari che non ci sono più, donare loro il pro-
prio corpo e il proprio sangue, come nel-
l’eucarestia (di cui l’ebreo Grossman sa
poco o niente) perché ritrovino la vita, e il
Davantialla tragedianon ci sonoparole. Nonsappiamo dire altro che: non ho parole
A SINISTRA, IL PRIMO
MINISTRO ISRAELIANO
BENJAMIN NETANYAHU.
SOPRA, DONNE ARABE
PIANGONO AL FUNERALE
DI UN MILITANTE
DI HAMAS UCCISO
CO
RB
IS (
2)
2 6 O T T O B R E 2 0 1 2 2524 I L V E N E R D I D I R E P U B B L I C A
copertinaCARTOLINE DALL’INFERNO
movimento, almeno per un attimo.
Lo ammette: «Fare una cosa insignifi-
cante e inutile come girare in tondo fino a
sfiancarsi oltrepassa ogni ragione logica.
Ma anche perdere un figlio è contro ogni
ragione logica e contro l’ordine naturale
della cose. Uno dei pensieri più difficili da
concepire è che la morte è ermetica, stati-
ca, definitiva: puoi fare tutto, ma non cam-
bia. Quindi per reagire ci vuole qualcosa di
altrettanto innaturale e inconcepibile».
Grossman non vuole che questa sia la
storia del suo dolore, ma del dolore di tanti
e non solo in Israele. Difende fieramente la
sua privacy, ma narra spericolate incursio-
ni nella follia e nell’intimità più segreta,
perché – dice – questa è la sua responsabi-
lità. Di padre e scrittore. «Scrivo dei fatti
della vita: se raggiungo certe sfumature
dei sentimenti e riesco ad esprimerle non
ho diritto di tenerle per me. Ci sono perso-
ne che, leggendo il libro, hanno trovato il
modo di dare parola a emozioni taciute fi-
no a quel momento». Però, trasferendo in
altre lingue quelle parole, si è manifestato
qualche problema: in sessione con i suoi
traduttori in un fantastico centro tedesco,
una specie di tempio delle traduzioni, ha
scoperto con stupore che molta parte del
mondo non sta a sottilizzare fra un lutto e
un altro: non esiste, come in Israele, un
termine specifico per il lutto di un figlio.
Arrivano cose buonissime dai nomi dif-
ficili: in arabo e in ebraico. Due nazioni in
guerra che su questa tavola fanno pace. E
oltre il giardino? «La realtà è che è difficile
cambiare, e Israele oggi non sembra avere
l’energia per farlo. I coloni hanno creato
una situazione irreversibile che impedisce
una pace stabile e un confine solido con la
Palestina. Si crea uno Stato binazionale
che di fatto non lo è: gli israeliani non per-
metteranno ai palestinesi di essere uguali.
Sarà uno Stato di apartheid terribile per
tutti. E non credo che Netanyahu e Abu
Mazen abbiano serie intenzioni di negozia-
re la pace. Perché non hanno il coraggio di
imporre ai rispettivi elettori le rinunce che
il trattato di pace comporta».
Un po’ più a Est c’è l’Iran che, fino a po-
chi giorni fa, Netanyahu minacciava di
bombardare, mentre Ahmadinejad conti-
nua a ripetere che Israele va eliminato.
«Viviamo nella paura di non poter esistere
più. La terra ci trema sempre sotto i piedi.
Nei vostri media appariamo forti e arro-
ganti, ma in realtà siamo terrificati. Ades-
so siamo sei milioni, con un milione e mez-
zo di bambini iscritti a scuola: gli stessi
numeri della Shoah. Ogni dieci anni c’è
una nuova fonte di angoscia, oggi è l’Iran
che – chiamatela pure paranoia – potreb-
be dotarsi di armi atomiche. Io non voglio
un Iran con l’atomica, ma non voglio nem-
meno che Israele lo attacchi. Servirebbe
solo a crearci un nemico eterno».
GERUSALEMME. Bisognereb-
be fondare un club internazio-
nale di giornalisti che intervi-
stano David Grossman sul suo
ultimo libro, bellissimo e terri-
bile: Caduto fuori dal tempo.
Un racconto a più voci in prosa e in versi
che si immerge nel dolore più grande: il
lutto per un figlio. Non solo il lutto dello
scrittore, che nel 2006 ha perso Uri, ven-
t’anni, nella terza guerra israelo-libanese,
ma quello di tanti altri genitori che hanno
visto morire i loro bambini o i loro ragazzi
per le cause più diverse e crudeli. Questo
club sarebbe una specie di circolo di redu-
ci, perché parlare di Caduto fuori dal tempo
con Grossman è un’esperienza che non si
dimentica. Ho guardato su YouTube l’in-
tervista che ha rilasciato in una biblioteca
dell’Aia. L’opinionista che gli faceva le do-
mande era in evidente imbarazzo: cauto e
turbato dalla prospettiva di affrontare una
materia privatissima e tagliente senza in-
vadere la sua intimità o ferirlo. L’intervista
era bella anche per questo, ma che fatica.
E per Grossman dev’essere ancora più
faticoso. Infatti l’ha presa alla larga, questa
intervista qui. Molto alla larga. Program-
ma: appuntamento alle 16 in un bar con
belvedere dalle parti di Mevas-
seret Zion, il sobborgo residen-
ziale di Gerusalemme dove
abita. Un caffè, e via a cammi-
nare (con le scarpe da ginna-
stica, ha raccomandato) nel
bosco dove tutte le mattine
(sveglia alle 5.30) inizia la gior-
nata sgambando con la moglie
Michal, psicologa, e il cane. Ma
prima c’è un problema: non ho
lo zaino e non è dignitoso fare trekking
con la borsetta. Non ho neanche le tasche,
mentre lui ne ha tante, così s’infila i miei
soldi, il passaporto e il resto nelle sue. Un
amichevole gesto da camminatore.
Annuncia che potremmo avvistare le
gazzelle: all’alba le incontra quasi sempre.
Col sole del pomeriggio stanno più nasco-
ste, ma dietro un cespuglio balena una co-
da e poi un sedere, di gazzella. Son soddi-
sfazioni. Cominciamo la salita, niente di
che, però sarebbe interessante sapere co-
me Grossman sceglie le attività di riscal-
damento pre-intervista: e se gli capitava
un giornalista zoppo? Si informa prima
con l’ufficio stampa? O applica una drasti-
ca selezione naturale tipo no trekking, no
interview? Sul pianoro, ripreso il fiato, po-
trei attaccare con qualche domanda pre-
paratoria, che lui previene subito chiaren-
do che in passeggiata non parla né del li-
bro né di sé. «Piuttosto, mi dica qualcosa
di lei». Eccola, la selezione naturale. A uno
che racconta il dolore del mondo ed entra
nei suoi personaggi come Zelig e Flaubert
non puoi spiattellare un curriculum vitae
da concorso. Però c’è il rischio di slittare
nell’intimismo. E il sospetto di stargli a
raccontare un po’ troppi fatti miei.
Dopo il trekking, la merenda, che in re-
altà è una cena. Nel villaggio arabo di Ein
Rafa c’è un piccolo ristorante con il giardi-
no, che si chiama Majda ed è tenuto da
una coppia mista; lei israeliana e lui pale-
stinese. All’ingresso, un cartello intima:
sorridete. Grossman si siede, guarda il pa-
norama bello e pacifico e sospira: «Israele
potrebbe essere così, un paradiso».
Ma conviene prepararsi alla discesa ne-
gli inferi perché questo è, Caduto fuori dal
tempo. C’è l’Uomo che cammina, padre di
un giovane soldato morto da tempo, che
una sera lascia la casa, la moglie, il brodo
caldo sulla tavola, per andare
laggiù a cercare suo figlio. Co-
mincia a camminare in una cit-
tà mitologica e senza tempo e,
di lì a poco, dietro a lui si forma
una processione dolente di ma-
dri e padri che hanno perso i
loro figli. Ognuno racconta la
sua storia. Un compendio della
cultura occidentale: la Bibbia,
Erodoto, Antigone, Orfeo e Eu-
ridice, Amleto, il pifferaio magico. Dalla
tragedia greca a La terra desolata.
Grossman fa l’ordinazione e poi abbas-
sa la voce. Si comincia: «Mia moglie so-
stiene che la poesia è più vicina al silenzio.
Davanti a una tragedia non ci sono parole,
non sappiamo dire altro che: non ho paro-
le. Di solito quando scrivo non pianifico co-
me sarà la forma, perché so che viene dal
contenuto, ma stavolta è stato subito chia-
ro che la poesia è la lingua del mio dolore».
Ci ha messo due anni a scriverlo e mo-
glie, figli e amici erano preoccupati. Gli
chiedevano perché non si consentiva di
guarire. C’era già stato A un cerbiatto somi-
glia il mio amore, la storia di una donna che
fugge da casa per non ricevere l’eventuale
notizia della morte della figlio nell’ultima e
rischiosa operazione militare: aveva inizia-
to a lavorarci quando Uri era andato sotto
le armi, quasi per proteggerlo. E l’aveva
terminato quando il destino si era compiu-
to. Lui dice che guarire significa distaccar-
si, che non crede alle guarigioni troppo ra-
pide. «Questa è la mia vita, stare nella vita
non significa evitare il dolore che mi è toc-
cato in sorte, anche se non è piacevole».
Ma l’Uomo che cammina e il suo segui-
to vogliono imparare a separare la memo-
ria dal dolore. E percorrono visioni che so-
no deliri, come se per uscire dal lutto o al-
meno per venirci a patti si debba passare
per la follia. O inoltrarsi nel pensiero magi-
co, nel desiderio irrazionale e consolatorio
di far succedere cose che non possono
succedere. Per esempio, rivedere i propri
cari che non ci sono più, donare loro il pro-
prio corpo e il proprio sangue, come nel-
l’eucarestia (di cui l’ebreo Grossman sa
poco o niente) perché ritrovino la vita, e il
Davantialla tragedianon ci sonoparole. Nonsappiamo dire altro che: non ho parole
A SINISTRA, IL PRIMO
MINISTRO ISRAELIANO
BENJAMIN NETANYAHU.
SOPRA, DONNE ARABE
PIANGONO AL FUNERALE
DI UN MILITANTE
DI HAMAS UCCISO
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copertinaCARTOLINE DALL’INFERNO
Si sentono degli scoppi, sono fuochid’artificio. Quanto si può diventare para-noici in un Paese così esplosivo, dove tutti igiovani, maschi e femmine, esclusi gliebrei ortodossi (che non credono nella na-zione degli uomini, ma solo in quella diDio) si fanno tre anni di servizio militare?Grossman risponde che il modo in cui i ra-gazzi affrontano e superano la leva dipen-de dalla personalità, dalle famiglie. «Ma holetto le testimonianze di alcuni giovani sol-dati: dicono che quando traversi la Lineaverde diventi Dio. Dai ordini a gente cheha il doppio della tua età, puoi umiliarla,deriderla. È difficile rimanere umani inuna situazione tanto disumana. Qui c’è ilterrore, ma anche l’orgoglio, ferito o iper-trofico: mai più umiliazione, mai più dipen-dere dagli altri. Netanyahu considera Oba-ma un’anima bella che crede nella raziona-
lità del nemico,mentre noi, da4000 anni, siamoin contatto con ipiù crudeli e bruta-li aspetti della na-tura e dell’uomo.Nella Bibbia cichiamiamo il popo-lo dell’eternità, tut-to il resto è tempo-
raneo. Noi abbiamo visto l’ascesa e il decli-no degli Assiri, i Babilonesi, i Greci, i Ro-mani, i Turchi. Questo è un pensiero chefa molta presa sulle menti più deboli».
Mantenere salde le menti dev’essereun bel problema da queste parti. Manon è insidiosa anche tutta l’empatia diGrossman, che si accampa per anni nel-l’anima dei suoi personaggi e si sforza diguardare la realtà perfino Con gli occhi
del nemico, come nel titolo di un suo sag-gio? «No, per niente. È una forma di op-posizione, quando vivi in un clima che tinega il diritto all’empatia».
Mentre mi riporta in centro, l’empatiadeve avere un cedimento. A Gerusalemmegli ebrei ortodossi sono sempre più nume-rosi, si vedono anche tantissimi ragazzi coicapelli attorcigliati nei cernecchi: DavidGrossman fa una smorfia amara. «Sono ipiù guerrafondai di tutti, ma loro in guerranon ci vanno».
PAOLA ZANUTTINI
NetanyahuconsideraObama un’anima bellache credenella razionalitàdel nemico
LA GUERRA E PACEDEGLI SCRITTORIPALESTINESI
QUASI SCONOSCIUTI (MA EDITI) DA NOI, GLI AUTORI ARABI CHE VIVONO DALL’ALTRA PARTE DEL MURO RACCONTANO LA STESSE STORIE DEI PIÙFAMOSI ISRAELIANI. STESSO DOLORE, MA UN’ALTRA PROSPETTIVAdi ANTONIO STEFFENONI
RAMALLAH. Spazio, tempoe memoria. Se fossi costret-to a sintetizzare, con tre so-le parole, il significato delmio viaggio in Palestina edegli incontri che, qui, ho
avuto con importanti scrittori del posto,userei proprio queste: spazio, tempo ememoria. Perché ognuna di esse, qui,
appare diversa da come la si era imma-ginata, venendo dall’Italia. Tutti, credo,sappiamo che quello della Palestina edei suoi controversi rapporti con lo Sta-to di Israele è un problema che ha alproprio centro lo spazio (la terra) e lamemoria di episodi lontani nel tempo(l’Olocausto, la proclamazione dello Sta-to di Israele nel ‘48, ecc). Bene, appena
arrivati, si capisce che non si era capito.Che non si erano valutati nella giusta di-mensione né lo spazio né il tempo né lamemoria, che qui sono tutto.
Basta entrare in Gerusalemme pernotare il nostro (mio) primo errore. Hosempre creduto che gli insediamentiisraeliani sul territorio palestinese,quelli creati e abitati dai coloni (secondoil dizionario etimologico «abitatore diuna colonia») sorgessero ai margini deldeserto, in terre desolate e abbandona-te da tutti e riportate a nuova vita, ap-punto, dai coloni israeliani. Non è così.Gli insediamenti sono veri e propriquartieri che sorgono all’interno stessodella città, o che la bordeggiano, ben vi-sibili a tutti. Sono molti e si può direche, giorno dopo giorno, abbiano finitoper circondare Gerusalemme. Non solo:all’interno di Gerusalemme Est svento-lano bandiere di Israele sui tetti di sin-goli edifici spesso sovrastati da una ga-
ritta in cui siede un uomo, di guardia.La convivenza fra i due gruppi è,
dunque, molto stretta, si sviluppa inpochi metri quadrati e tocca da vicinola vita quotidiana degli uni e degli al-tri. Ed è proprio la vita quotidiana deipalestinesi ad essere al centro dei ro-manzi di una delle più note scrittricidi qui, Suad Amiry, che mi riceve nel-la palazzina che abita a Ramallah,venti chilometri da Gerusalemme, con
il marito Salim, notissimo intellettua-le, sociologo, perennemente in giroper il mondo a tenere lezioni sulla so-cietà mediorientale a Berkeley, a Ca’Foscari, ovunque serva un espertodell’argomento. Per le sue frequentiassenze, Suad Amiry lo definisce, neisuoi libri, il mio marito part time. Suadè una bella donna, solare e mediterra-nea, molto lontana dallo stereotipodella palestinese che abbiamo spessoin mente. La sua straordinaria vitalitàè la migliore smentita a quanto mi di-ce. «Purtroppo noi palestinesi siamodiventati, nell’immaginario collettivodell’Occidente, simboli e testimoni dimorte. Rimaniamo legati a poche pa-role, come esilio, terra, rifugiati, Ge-rusalemme, campi profughi. Parole
che esprimono con-cetti collettivi e cheimpediscono diparlare al cuore deilettori. Io ho volutomettere al centrodei miei romanzi lamia personale vitaquotidiana perchéè qui , nel la miaquotidianità, chevivo sulla pelle la
nostra difficile situazione politica». Questa sarà una costante dei miei
incontri: il discorso sulla letteratura di-venta inevitabilmente un discorso sullasituazione politica che, al di là dei gran-di temi che suscita, ha riflessi pesantis-simi sulla vita di ogni giorno. SuadAmiry, che ha dovuto aspettare quat-tordici anni per ottenere dalle autoritàla carta d’identità, abita a pochi isolatidi distanza dalla sede dell’Autorità pa-lestinese e nel suo Sharon e mia suocera
(Feltrinelli, 2007) ha raccontato i giornidell’assedio ad Arafat e lo ha fatto, na-turalmente, a modo suo, narrando ledifficoltà di ogni giorno, i posti di bloc-co, i coprifuoco, l’impossibilità di fare laspesa e le tragicomiche traversie af-frontate per convincere la suocera atrasferirsi a casa sua, mentre la donna,di fronte all’avanzare dei carri armati,si preoccupava di scegliere i vestiti piùadatti in vista del trasferimento
UN COLONO
ISRAELIANOCON IL FIGLIOALL’INAUGURAZIONEDI UNA NUOVA CASA IN UN’ENCLAVEISRAELIANA DI GERUSALEMME EST,LA ZONA PALESTINESE
Noi palestinesisiamopurtroppodiventatinell’immaginariocollettivodell’Occidente,simboli e testimoni di morte SUAD AMIRY
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