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Variabilità Individuale nelle risposte farmacologiche
Abbiamo notato che, a causa della variazione individuale, bisogna tagliare su misura la terapia
farmacologica su ciascun paziente. Qui discutiamo i principali fattori che possono determinare una risposta
farmacologica diversa da un paziente ad un altro. Con queste informazioni, ci sarà una migliore
preparazione a ridurre la variazione individuale alle risposte farmacologiche, massimizzando, quindi, i
benefici del trattamento e riducendo i danni potenziali.
Peso corporeo e composizione
In assenza di aggiustamenti del dosaggio, le dimensioni del corpo possono essere un determinante
significativo degli effetti farmacologici. Ricorda che l’intensità della risposta ad un farmaco è determinata
in gran parte dalla concentrazione del farmaco nel sito d’azione – più alta è la concentrazione, più intensa è
la risposta. Il buon senso ci dice che, se la stessa quantità di farmaco viene data ad una persona piccola e
ad una persona grande, il farmaco raggiungerà una concentrazione maggiore in una persona piccola, e
quindi produrrà effetti più intensi. Per compensare questa potenziale sorgente di variazione individuale, le
dosi devono essere adattate alle dimensioni del paziente.
Quando si modifica la dose per tenere in conto il peso corporeo, il clinico deve basare la
modificazione sull’area della superficie corporea piuttosto che sul peso corporeo. Perché? Perché la
determinazione dell’area della superficie non rappresenta solo il peso corporeo del paziente ma anche la
sua grassezza o magrezza. Dal momento che la percentuale di grasso corporeo può cambiare la
distribuzione del farmaco nel sito d’azione, l’aggiustamento del dosaggio in base all’area della superficie
corporea fornisce un mezzo più preciso per controllare le risposte farmacologiche rispetto ad un
aggiustamento basato solo sul peso corporeo.
Età
La sensibilità ad un farmaco varia con l’età. I bambini piccoli sono molto sensibili ai farmaci, così come gli
anziani. In una persona molto giovane, l’aumento della sensibilità al farmaco è il risultato della immaturità
degli organi. Nella vecchiaia, l’aumento della sensibilità risulta largamente dalla degenerazione degli
organi. Altri fattori che influenzano la sensibilità nella vecchiaia sono l’aumentata severità delle malattie, la
presenza di molteplici patologie, ed il trattamento con molti farmaci.
Patofisiologia
Una fisiologia anormale può alterare le risposte ai farmaci. In questa sezione esaminiamo l’impatto sulle
risposte farmacologiche prodotto da quattro condizioni patologiche: (1) malattie del rene, (2) malattie del
fegato, (3) squilibrio acido-base, e (4) stato elettrolitico alterato.
Malattie di Rene
Le malattie del rene possono ridurre l’escrezione del farmaco, causando l’accumulo dei farmaci
nell’organismo. Se il dosaggio non viene abbassato, i farmaci si possono accumulare fino a livelli tossici.
Quindi, se un paziente sta assumendo un farmaco che viene eliminato dal rene, e se si sviluppa insufficienza
renale, il dosaggio deve essere abbassato.
L’impatto delle malattie renali sui livelli plasmatici dei farmaci è illustrato in figura 1. La figura mostra il
declino dei livelli plasmatici di kanamicina (un antibiotico) in seguito alla sua iniezione in due pazienti, uno
con reni sani ed uno con insufficienza renale. (L’eliminazione della kanamicina è esclusivamente renale).
Come è mostrato nella figura, i livelli di kanamicina si abbassano rapidamente nel paziente con una buona
funzione renale. In questo paziente, l’emivita del farmaco è breve – solo 1,5 ore. Al contrario, i livelli del
farmaco declinano molto lentamente nel paziente con insufficienza renale. A causa della malattia renale,
l’emivita della kanamicina è aumentata di circa 17 volte – da 1,5 ore a 25 ore. In queste condizioni, se la
dose non viene ridotta, la kanamicina si accumulerà rapidamente fino a livelli dannosi.
Malattie di Fegato
Come per le malattie renali, le malattie al fegato possono causare accumulo di farmaci. Bisogna ricordare
che il fegato è il principale sito del metabolismo dei farmaci. Quindi, se il fegato smette di funzionare,
cadrà il ritmo del metabolismo ed i livelli del farmaco saliranno. Per prevenire l’accumulo fino a livelli
tossici, i pazienti con epatopatie dovrebbero diminuire il dosaggio. Ovviamente, queste linee guida si
applicano soltanto solo a quei farmaci che vengono eliminati principalmente attraverso il fegato; la
disfunzione epatica non influenza i livelli plasmatici dei farmaci che sono eliminati principalmente da
meccanismi extra-epatici (per es. escrezione renale).
Squilibrio acido-base
Alterando la ripartizione da pH, le modificazioni dello stato acido-base possono alterare l’assorbimento, la
distribuzione, il metabolismo, e l’escrezione dei farmaci.
La figura 2 illustra l’impatto dell’alterato stato acido-base sulla distribuzione del fenobarbital (un
acido debole) in un cane. La curva in alto mostra i livelli plasmatici di fenobarbital. La curva in basso
mostra il pH plasmatico. Lo stato acido-base era alterato dall’inalazione da parte del cane di una miscela di
gas ricco in biossido di carbonio (CO2), causando quindi acidosi respiratoria. Nella figura, l’acidosi è indicata
dall’abbassamento del pH plasmatico. Nota che il declino del pH è associato con un contemporaneo
abbassamento nei livelli di fenobarbital. Con l’interruzione della CO2, il pH plasmatico ritornava alla
normalità ed i livelli di fenobarbital tornavano a salire.
Perché l’acidosi altera i livelli plasmatici di fenobarbital? Rammenta che, a causa della ripartizione
da pH, se c’è una differenza di pH ai due lati di una membrana, un farmaco si accumula dal lato in cui il pH
favorisce maggiormente la sua ionizzazione. Quindi, poiché i farmaci acidi si ionizzano in un mezzo alcalino,
i farmaci acidi si accumuleranno nel lato alcalino. Al contrario, i farmaci basici si accumuleranno nel lato
acido. Dal momento che il fenobarbital è un acido debole, tende ad accumularsi in un ambiente alcalino.
Di conseguenza, quando il canne inala CO2, determinando un declino del pH extracellulare, il fenobarbital
lascia il plasma ed entra nelle cellule, dove l’ambiente è meno acido (più alcalino) che nel plasma. Quando
cessa la somministrazione di CO2 ed il pH plasmatico ritorna nella norma, l’effetto di ripartizione da pH
porta il fenobarbital ad uscire dalle cellule per ritornare nel sangue, e ciò porta ad una risalita dei livelli
plasmatici.
Alterazione dell’equilibrio elettrolitico
Gli elettroliti (per es., potassio, sodio, calcio, magnesio) hanno ruoli importanti in fisiologia. Di
conseguenza, quando i livelli elettrolitici vengono alterati, diversi processi cellulari possono essere alterati.
Soprattutto i tessuti eccitabili (nervi e muscoli) sono sensibili alle alterazioni dell’equilibrio elettrolitico.
Dato che le alterazioni dell’equilibrio elettrolitico possono avere effetti diffusi sulla fisiologia cellulare,
potremmo aspettarci che lo squilibrio elettrolitico possa causare effetti profondi e diffusi nelle risposte ai
farmaci. Tuttavia, non sembra che questo avvenga; sono rari gli esempi in cui le modificazioni elettrolitiche
hanno un impatto significativo sulle risposte ai farmaci.
Forse l’esempio più importante di un effetto farmacologico alterato avvenuto in risposta ad uno
squilibrio elettrolitico coinvolge la digossina, un farmaco usato per trattare malattie cardiache. La più grave
tossicità da digossina è l’insorgenza di aritmie potenzialmente fatali. La tendenza della digossina a
disturbare il ritmo cardiaco è correlato ai livelli di potassio: quando i livelli di potassio sono depressi, la
capacità della digossina di indurre aritmie è aumentata di molto. Di conseguenza, tutti i pazienti che
ricevono digossina devono sottoporsi a misurazioni regolari del potassio serico per assicurarsi che i suoi
livelli rimangano all’interno di un intervallo di sicurezza.
TOLLERANZA
La tolleranza può essere definita come una sensibilità diminuita ad un farmaco come conseguenza di
somministrazioni ripetute del farmaco stesso. I pazienti che sono tolleranti ad un farmaco hanno bisogno di
dosi più elevate per ottenere effetti equivalenti a quelli che si ottengono con dosi più basse prima che si
sviluppi tolleranza. Ci sono tre categorie di tolleranza ai farmaci: (1) tolleranza farmacodinamica, (2)
tolleranza metabolica, e (3) tachifilassi.
Tolleranza farmacodinamica
Il termine tolleranza farmacodinamica si riferisce al tipo familiare di tolleranza associato con la
somministrazione a lungo termine di farmaci come morfina ed eroina. La persona che è
farmacodinamicamente tollerante necessita di livelli aumentati di farmaco per produrre effetti che
precedentemente si ottenevano con livelli inferiori dello stesso farmaco. Mettendola in un altro modo, in
presenza di tolleranza farmacodinamica, la concentrazione minima efficace (MEC) di un farmaco è
anormalmente elevata. Si pensa che la tolleranza farmacodinamica sia il risultato di processi adattativi che
intervengono in risposta ad occupazione cronica del recettore.
Tolleranza metabolica
La tolleranza metabolica è definita come una tolleranza che risulta da un metabolismo accelerato del
farmaco. Questa forma di tolleranza è dovuta alla capacità di alcuni farmaci (per es., i barbiturici) di indurre
la sintesi di enzimi epatici metabolizzanti i farmaci, causando quindi ritmi aumentati di metabolismo dei
farmaci. A causa dell’aumentato metabolismo, il dosaggio deve essere aumentato per mantenere livelli
terapeutici del farmaco. Differentemente dalla tolleranza farmacodinamica, che determina un aumento
della MEC, la tolleranza metabolica non influenza la MEC.
L’esperimento riassunto nella tabella 1 dimostra che lo sviluppo della tolleranza metabolica in risposta a somministrazioni
ripetute di pentobarbital, un depressore del sistema nervoso centrale. Lo studio ha impiegato due gruppi di conigli, un gruppo di
controllo ed un gruppo sperimentale. I conigli nel gruppo sperimentale sono stati pretrattati con pentobarbital per 3 giorni (60
mg/kg/giorno per via sub cutanea) e poi sono stati trattati con una dose di stimolo IV (30 mg/kg) dello stesso farmaco. Sono stati
quindi misurati sia l’effetto del farmaco (il tempo di sonno) che i suoi livelli plasmatici. I conigli di controllo ricevevano una dose di
stimolo di pentobarbital ma nessun pretrattamento. Come indicato nella tabella 1, la dose di stimolo di pentobarbital ha avuto un
effetto minore nei conigli pretrattati rispetto ai controlli. Specificamente, mentre i conigli di controllo dormivano una media di 67
minuti, il tempo medio di sonno degli animali pretrattati era di soli 30 minuti – meno della metà dell’effetto visto nei controlli.
Perché il pentobarbital era meno efficace negli animali pretrattati? I dati di emivita suggeriscono una risposta. Come
mostrato nella tabella, l’emivita del pentobarbital era molto più breve nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Dal
momento che il pentobarbital è eliminato principalmente dal metabolismo epatico, la ridotta emivita indica un metabolismo
accelerato. Questo aumento del metabolismo, che è stato determinato dal pretrattamento con pentobarbital, spiega perché i
conigli sperimentali erano più tolleranti dei controlli.
Ci si potrebbe chiedere, “come possiamo sapere se i conigli sperimentali non abbiano sviluppato una tolleranza
farmacodinamica?” La risposta sta nei livelli plasmatici di farmaco quando i conigli si sono svegliati. Nei conigli pretrattati, i livelli
del farmaco al risveglio erano leggermente al di sotto dei livelli del farmaco nei conigli di controllo al loro risveglio. Se gli animali
sperimentali avessero sviluppato tolleranza farmacodinamica, avrebbero avuto necessità di un aumento della concentrazione del
farmaco per mantenersi addormentati. Quindi, se fosse stata presente tolleranza farmacodinamica, i livelli del farmaco sarebbero
stati anormalmente alti nel momento del risveglio, piuttosto che ridotti.
Tachifilassi
La tachifilassi è una forma di tolleranza che può essere definita come una diminuzione della sensibilità al farmaco dovuta a dosi
ripetute in un breve periodo di tempo. Quindi, differentemente dalla tolleranza farmacodinamica e metabolica, che ha bisogno di
giorni ed anche di più tempo per svilupparsi, la tachifilassi si sviluppa rapidamente. La tachifilassi non è un meccanismo frequente
di tolleranza.
La nitroglicerina transdermica da un buon esempio di tachifilassi. Quando la nitroglicerina è somministrata tramite
cerotto transdermico, gli effetti scompaiono in meno di 24 ore (se il cerotto è mantenuto per il tempo giusto). La perdita di effetto
è dovuta alla deplezione di un cofattore richiesto per l’azione della nitroglicerina. Quando la nitroglicerina è somministrata
intermittentemente, invece che in modo continuo, il cofattore si riforma e non c’è nessuna perdita di effetto.
EFFETTO PLACEBO
Un placebo è una preparazione che non possiede attività farmacologica intrinseca. Quindi, qualsiasi
risposta che un paziente può avere verso un placebo si basa soltanto sulla propria reazione psicologica
all’idea di prendere un medicamento e non su azione fisiologica o biochimica diretta del placebo stesso.
L’uso principale del placebo è come preparazione di controllo durante gli studi clinici.
In farmacologia, l’effetto placebo è definito come quella componente di una risposta farmacologica
determinata da fattori psicologici e non dalle proprietà biochimiche o fisiologiche del farmaco. Nonostante
sia impossibile determinare con precisione il contributo che i fattori psicologici danno alla risposta finale a
qualsiasi specifico farmaco, si crede comunemente che, con praticamente tutti i medicamenti, una frazione
della risposta totale sia dovuta all’effetto placebo. Nonostante l’effetto placebo sia determinato da fattori
psicologici e non fisiologici, la presenza di una risposta placebo non implica che la patologia originaria del
paziente sia “solo nella sua testa”.
Non tutte le risposte placebo sono positive; le risposte placebo possono anche essere negative. Se
un paziente crede che un medicamento possa essere efficace, è probabile che le risposte placebo aiutino a
promuovere la guarigione. Al contrario, se un paziente fosse convinto che uno specifico medicamento sia
inefficace o addirittura perfino dannoso, allora è probabile che gli effetti placebo rallentino i progressi nella
guarigione.
Poiché l’effetto placebo dipende dall’atteggiamento del paziente verso la medicina, stimolare un
atteggiamento positivo può aiutare a promuovere effetti positivi. A questo proposito, è desiderabile che
tutti i membri della squadra sanitaria si presentino al paziente con una valutazione ottimistica (anche se
realistica) sugli effetti che la terapia è probabile possa produrre. Inoltre è importante che i membri della
squadra siano in accordo tra di loro; l’effetto benefico delle risposte placebo può essere diminuito di molto
se, per esempio, l’infermiere di giorno rassicura ripetutamente un paziente sulla probabilità di trarre
benefici dal regime terapeutico, mentre l’infermiere di notte esprime pessimismo sugli stessi farmaci.
Fino a qualche tempo fa, il potere dell’effetto placebo era considerato indiscutibile da molti clinici e
ricercatori. Tuttavia, nuove evidenze suggeriscono che le risposte ai placebo possano essere molto minori
di quello che si pensava in passato (vedi il box 1).
VARIABILITA’ NELL’ASSORBIMENTO
Sia il ritmo che l’entità dell’assorbimento dei farmaci può variare tra pazienti diversi. Di conseguenza, sia il
tempo che l’intensità delle risposte possono essere modificate. Le differenze nella produzione sono la
causa principale di variabilità nell’assorbimento dei farmaci. Altre cause includono la presenza o l’assenza
di cibo, diarrea o costipazione, e differenze nello svuotamento gastrico.
Biodisponibilità
Il termine biodisponibilità si riferisce alla capacità di un farmaco di raggiungere la circolazione sistemica dal
proprio sito di somministrazione. Preparazioni diverse dello stesso farmaco possono modificare la
biodisponibilità. Questi fattori come il tempo di disintegrazione delle compresse, i rivestimenti enterici, e le
formulazioni a rilascio protratto possono alterare la biodisponibilità, e quindi possono rendere le risposte ai
farmaci variabili.
Le differenze di biodisponibilità avvengono principalmente con le preparazioni orali e non con le
preparazioni parenterali. Fortunatamente, anche con gli agenti orali, quando esistono differenze di
biodisponibilità tra diverse preparazioni, queste differenze sono così piccole che non hanno alcun
significato clinico.
Le differenze di biodisponibilità determinano delle forti preoccupazioni per farmaci con un
intervallo terapeutico stretto. Perché? Perché con questi agenti, una modificazione relativamente piccola
del livello plasmatico può produrre una significativa modificazione della risposta: un piccolo declino del
livello del farmaco può causare il fallimento terapeutico, mentre un piccolo aumento del livello del farmaco
può causare tossicità. In queste condizioni, le differenze di biodisponibilità possono avere un impatto
significativo.
Altre cause di assorbimento variabile
Molti altri fattori oltre alla biodisponibilità possono alterare l’assorbimento dei farmaci, e quindi portare a
variazioni delle risposte farmacologiche. Le alterazioni del pH gastrico possono influenzare l’assorbimento
attraverso l’effetto di ripartizione da pH. Per farmaci il cui assorbimento avviene nell’intestino,
l’assorbimento sarà ritardato quando lo svuotamento gastrico è prolungato. La diarrea può ridurre
l’assorbimento accelerando il trasporto dei farmaci attraverso l’intestino. Al contrario, la costipazione può
aumentare l’assorbimento prolungando il tempo disponibile per l’assorbimento. La presenza di cibo nello
stomaco tende a rallentare l’assorbimento di molti farmaci, senza ridurre la quantità totale assorbita.
Tuttavia, in alcuni casi, il cibo può diminuire anche l’entità dell’assorbimento. Per esempio, l’assorbimento
delle tetracicline sarà sostanzialmente ridotto se il farmaco è ingerito insieme al latte o ai latticini che
contengono calcio. Infine, ci sono molteplici meccanismi attraverso cui le interazioni farmacologiche
possono diminuire o aumentare l’assorbimento.
GENETICA
La composizione genetica unica dei pazienti può portare a risposte farmacologiche che sono
quantitativamente o qualitativamente differenti da quelle della popolazione in toto. Gli effetti avversi e
quelli terapeutici possono essere modificati. Le principali cause responsabili di risposte alterate sono
alterazioni di geni che codificano per enzimi del metabolismo farmacologico e per bersagli farmacologici
(per es. i recettori).
La farmacogenetica – lo studio di come l’ereditarietà influenza le risposte individuali ai farmaci – è
un’area attiva di ricerca. In futuro, l’analisi farmacogenetica dovrebbe consentirci di scegliere un farmaco e
una dose che sono i migliori per il genotipo di un determinato paziente, riducendo quindi il rischio di
reazioni avverse, aumentando la probabilità di una forte risposta terapeutica, e diminuendo il costo, la non
convenienza, ed il rischio associati con la prescrizione di un farmaco a cui è improbabile che il paziente
risponda.
Alterato metabolismo farmacologico
Il meccanismo più frequente attraverso cui le differenze genetiche modificano le risposte farmacologiche è
attraverso la produzione di enzimi alterati del metabolismo farmacologico. Queste modificazioni dovute ai
geni possono sia accelerare che ritardare il metabolismo di molti farmaci, come è illustrato dai seguenti
esempi:
• Circa 1 Europeo in 3500 metabolizza la succinilcolina (un rilassante muscolare) molto lentamente, a
causa della produzione di una forma alterata di butirrilcolinesterasi, l’enzima che, nella
maggioranza delle persone, metabolizza il farmaco molto velocemente. Se viene data la
succinilcolina, le persone con l’enzima anormale possono andare incontro ad una paralisi che si può
prolungare pericolosamente.
• Tra i bianchi Americani, il 52% circa metabolizzano l’isoniazide (un farmaco per la tubercolosi)
lentamente ed il 48% lo metabolizzano rapidamente. Perché? Perché, a causa di differenze
genetiche, queste persone producono due forme diverse di N-acetiltransferasi2, l’enzima che
metabolizza l’isoniazide. Se il dosaggio non viene modificato per obbedire a queste differenze, i
metabolizzatori rapidi potranno andare incontro ad un fallimento terapeutico ed il metabolizzatori
lenti possono andare incontro a tossicità.
• Negli Stati Uniti, l’1% circa della popolazione produce una forma di diidropirimidina deidrogenasi
che metabolizza poco il fluorouracile, un farmaco usato per trattare il cancro. Molte persone con
questa diversità ereditaria, quando hanno ricevuto dosi standard del farmaco, sono morte per
danno al sistema nervoso centrale a causa dell’accumulo del farmaco fino a livelli tossici.
Per farmaci che hanno un elevato indice terapeutico (IT), un ritmo alterato del metabolismo può
influenzare il risultato clinico. Tuttavia, se l’IT è basso, allora aumenti dei livelli farmacologici relativamente
piccoli possono portare a tossicità, e diminuzioni relativamente piccole possono portare a fallimento
terapeutico. Chiaramente, in questi casi, ritmi alterati del metabolismo possono avere un grande
significato clinico.
Bersagli farmacologici alterati
Le variazioni genetiche possono alterare la struttura dei recettori farmacologici e di altre molecole
bersaglio, e possono quindi influenzare le risposte farmacologiche. Per esempio, gli effetti positivi della
pravastatina (usata per abbassare il colesterolo) sono fortemente ridotti in pazienti con una forma variata
del gene che codifica per l’HMG-CoA reduttasi, l’enzima che la pravastatina inibisce per produrre i propri
effetti. Altri esempi includono le risposte farmacologiche alterate a causa di variazioni nei geni che
codificano per i recettori β2-adrenergici (importanti per la terapia delle cardiopatie e dell’asma). I recettori
per la dopamina (importanti nel trattamento della schizofrenia), ed i recettori degli estrogeni (importanti
per il trattamento dell’osteoporosi).
Altri modi in cui la genetica può influenzare le risposte farmacologiche
Alcune risposte farmacologiche geneticamente determinate sono basate su fattori diversi dal metabolismo
farmacologico o dai bersagli farmacologici. Per esempio, alcuni individui hanno globuli rossi che sono
deficienti di un enzima chiamato glucoso-6-fosfato deidrogenasi. Questa deficienza li espone al rischio di
emolisi (distruzione dei globuli rossi) se viene data aspirina, sulfanilamide (un antibiotico), primachina (un
agente antimalarico), e alcuni altri farmaci. Il 10% circa di Afroamericani di sesso maschile e molti maschi
mediorientali e mediterranei sono soggetti a questa reazione su base genetica. Di seguito altri cinque
esempi:
•Approssimativamente 1 Caucasico su 14 ha una forma di citocromo P450 che è incapace di convertire la
codeina in morfina, la forma attiva della codeina. Di conseguenza, in queste persone la codeina non ha
effetto anti-dolorifico.
•Il Trastuzumab [Herceptin], un farmaco per il tumore del seno, funziona solo contro i tumori che
esprimono la proteina HER2 in eccesso.
•Il tamoxifene [Nolvadex] può prevenire lo sviluppo del cancro del seno in donne ad alto rischio – ma solo
in donne con mutazioni nel gene BRCA2, e non del gene BRCA1.
• Differenze ereditarie dei fattori della coagulazione aumentano il rischio di trombosi venosa profonda in
donne che usano contraccettivi orali.
•Pazienti con variazioni genetiche dei trasportatori di ioni sodio e potassio presentano un rischio
aumentato di sindrome della QT lunga indotta da farmaci.
GENERE
Uomini e donne possono rispondere diversamente allo stesso farmaco. Un farmaco può essere più efficace
negli uomini rispetto alle donne, o viceversa. Allo stesso modo, gli effetti avversi possono essere più intensi
negli uomini rispetto alle donne. Perché? Perché, fino a poco tempo fa, essenzialmente tutta la ricerca
farmacologica era compiuta sull’uomo. Nonostante ciò, è stata fatta abbastanza ricerca per indicare che le
differenze di genere esistono realmente. Di seguito tre esempi:
• L’alcol è metabolizzato più lentamente dalle donne rispetto agli uomini. Di conseguenza, una
donna che beve la stessa quantità di un uomo (normalizzata per il peso) si intossicherà di più.
• Alcuni analgesici oppioidi (per es. pentazocina, nalbufina) sono molto più efficaci nelle donne che
negli uomini. Di conseguenza, l’effetto antidolorifico si ottiene con dosi più basse nelle donne.
• La Quinidina causa un prolungamento dell’intervallo QT maggiore nelle donne rispetto agli uomini.
Di conseguenza, le donne che prendono questo farmaco hanno una maggiore probabilità di
sviluppare torsione di punta, un’aritmia cardiaca potenzialmente fatale.
Ne 1977, la Food and Drug Administration (FDA) ha messo sotto pressione le aziende farmaceutiche per
includere anche le donne negli studi clinici sui nuovi farmaci, specialmente i farmaci verso malattie gravi o
potenzialmente fatali. Le informazioni generate da questi studi consentiranno che la terapia farmacologica
nelle donne sia la più razionale possibile. Nel frattempo, i clinici dovrebbero considerare che le
informazioni disponibili al momento potrebbero non predire accuratamente le risposte nelle pazienti di
sesso femminile. Quindi, i clinici dovrebbe essere attenti sui fallimenti terapeutici e su effetti avversi
inaspettati.
E’ importante apprezzare che le differenze nelle risposte farmacologiche correlate al genere o alla
razza sono, in ultima analisi, su base genetica. Quindi, questi fattori devono essere considerati
un’estensione della discussione sui fattori genetici.
RAZZA
Le risposte farmacologiche correlate alla razza hanno due determinanti principali: variazioni genetiche e
fattori psicosociali. Quindi, in un certo grado, questa discussione è un’estensione sui fattori genetici.
Tuttavia, bisogna tenere presente che, oltre alla genetica, i fattori psicosociali sono importanti determinanti
di come gli individui in uno specifico gruppo etnico rispondono ai farmaci.
In generale, la “razza” non aiuta molto come base per predire variazioni individuali nelle risposte
farmacologiche. Perché? Per cominciare, la razza è quasi impossibile da definire. La definiamo per il colore
della pelle ed altre caratteristiche superficiali? O la definiamo attraverso gruppi genetici? Se definiamo la
razza attraverso il colore della pelle, quanto scura deve essere la pelle, per esempio, per definire un
paziente come “nero”? D’altro canto, se definiamo la razza attraverso il gruppo genetico, quanti antenati
neri deve avere un Afro-Americano per essere considerato geneticamente “nero”? E cosa dire della
maggioranza delle persone i cui antenati sono geneticamente eterogenei? I Latino-Americani, per esempio,
rappresentano un miscuglio di molteplici retroterra etnici che provengono da tre continenti. Penso che il
quadro sia sufficientemente chiaro adesso. Quindi, se un prescrittore non può neanche decidere a quale
“razza” appartiene un paziente, sembrerebbe molto difficile usare la razza come base per prendere
decisioni terapeutiche.
Ovviamente, ciò di cui ci dobbiamo curare davvero non è la razza di per sé, ma piuttosto gli specifici
fattori genetici e psicosociali – condivisi da molti membri di un determinato gruppo etnico - che influenzano
le risposte farmacologiche. Con questo tipo di conoscenze, possiamo identificare i membri del gruppo che
condividono questi fattori genetici e/o psicosociali ed, in conseguenza, tagliare su misura una terapia
farmacologica. Forse ancora più importante, è che l’applicazione di queste conoscenze non è limitata a
membri del gruppo etnico da cui derivano queste conoscenze: possiamo usarle per la gestione di tutti i
pazienti, indipendentemente dal retroterra etnico. Come può essere? A causa della eterogeneità etnica,
questi fattori non sono limitati ai membri di una determinata razza. Quindi, una volta che conosciamo un
determinato fattore (per es. una specifica variazione genetica), possiamo valutare tutti i pazienti per quel
fattore, e, se è presente, modificare la terapia farmacologica secondo le dovute indicazioni.
La discussione sulla terapia basata sulla razza sarebbe incompleta senza menzionare BiDil, una
combinazione a dosi fisse di due vadodilatatori: isosorbide dinitrato (ISDN) ed idralazina, entrambi
disponibili separatamente da molti anni. Nel 2005, BiDil è divenuto il primo prodotto approvato dall’FDA
per trattare solo membri di una determinata razza, specificamente, Afro-Americana. L’approvazione si è
basata sui risultati dell’African-American Heart Failure Trial (A-HeFT), in cui si dimostrava che, in pazienti
neri auto-analizzati, aggiungendo ISDN più idralazina alla terapia standard dell’insufficienza cardiaca si
riduceva la mortalità ad 1 anno del 43% - un risultato molto positivamente impressionante. Il BiDil
beneficia gli Afro-Americani di più che i bianchi? Non lo sappiamo: poiché non sono stati arruolati pazienti
bianchi nel A-HeFT, il paragone non può essere fatto. Anche se BiDil è stato approvato per trattare uno
specifico gruppo razziale, non ci sono prove che non potrebbe funzionare allo stesso modo (o anche
meglio) in qualche altro gruppo. Allora perché è stato compiuto lo studio A-HeFT? In parte perché dati più
vecchi suggerivano un possibile aumentato beneficio nei pazienti neri. Tuttavia, la ragione principale
sembra essere una combinazione di incentivi regolatori e di mercato, che ha reso vantaggioso per
NitroMed, l’azienda produttrice di BiDil, limitare la ricerca ai neri. La storia è stata questa. NitroMed
possiede due brevetti su BiDil, una per la combinazione a dosi fisse in sé, ed una per usare questa
combinazione in pazienti di colore. Ottenendo l’approvazione FDA per i soli pazienti neri, la NitroMed ha
acquisito l’esclusività del brevetto fino al 2020 – 13 anni in più rispetto a quanto avrebbe ottenuto senza
un’indicazione specifica di razza. Ovviamente, ora che BiDil è approvato, i medici lo possono prescrivere a
chiunque. Quindi la tattica di ottenere un’approvazione specifica per la razza non limita effettivamente il
numero dei pazienti di cui NitroMed può approfittare. E’ un gran Paese o no?
NON PRENDERE LE MEDICINE PRESCRITTE
I medicamenti non sono sempre somministrati come prescritto: l’entità del dosaggio e la tempistica
possono essere alterati, le dosi possono non essere assunte, e possono essere prese dosi in eccesso. Il non
somministrare i medicamenti secondo le prescrizioni è una spiegazione frequente della variabilità nella
risposta di una dose prescritta. Di regola, questa mancanza è la conseguenza o di una scarsa aderenza
(compliance) del paziente o di errori terapeutici compiuti dall’equipe sanitaria.
Può essere difficile ottenere l’aderenza. I fattori che possono influenzare l’aderenza sono la
destrezza manuale, acuità visiva, la capacità intellettuale, lo stato psicologico, l’attitudine verso i farmaci, e
la possibilità di pagare i medicamenti. Può essere d’aiuto per migliorare l’aderenza che l’educazione del
paziente sia chiara e convincente, e questo può quindi aiutare a ridurre la variabilità.
Gli errori farmacologici sono una ovvia sorgente di variazione individuale. Gli errori terapeutici
possono avere origine dai medici, infermieri, tecnici, e farmacisti. Tuttavia, dal momento che di solito
l’infermiere è l’ultimo membro della squadra sanitaria a controllare i medicamenti prima della
somministrazione, in ultima analisi è responsabilità dell’infermiere assicurarsi che gli errori terapeutici
vengano evitati.
INTERAZIONI FARMACOLOGICHE
Un’interazione farmacologica è un processo in cui un farmaco altera gli effetti di un altro. Le interazioni
farmacologiche possono essere una sorgente importante di variabilità.
DIETA
La dieta può influenzare le risposte ai farmaci, principalmente influenzando lo stato di salute generale del
paziente. Una dieta che promuove una buona salute può consentire ai farmaci di esplicare le risposte
terapeutiche ed aumentare la capacità del paziente a tollerare gli effetti avversi. Una nutrizione scarsa può
avere effetto opposto.
La fame può ridurre il legame dei farmaci alle proteine (diminuendo il livello delle albumine
plasmatiche). A causa del ridotto legame, si innalza il livello dei farmaci liberi, e ciò rende la risposta
farmacologica più intensa. Per alcuni farmaci (per es., il warfarin, un anticoagulante), il risultante aumento
degli effetti potrebbe rivelarsi disastroso.
Nonostante che la nutrizione possa influenzare le risposte farmacologiche attraverso il meccanismo
generale esposto, ci sono solo pochi esempi di uno specifico nutriente che influenzi la risposta ad un
farmaco specifico. Forse il miglior esempio coinvolge gli inibitori della monoaminossidasi (MAO), farmaci
usati per trattare la depressione. L’evento avverso più grave di questi farmaci è l’ipertensione maligna, che
può essere precipitata da cibi che contengono tiramina, un prodotto della degradazione dell’amminoacido
tirosina. Di conseguenza, i pazienti che prendono gli inibitori della MAO devono evitare rigidamente tutti i
cibi ricchi di tiramina (per es., il fegato di manzo, formaggi stagionati, prodotti dei lieviti, vino Chianti).
Punti Chiave
▪ Per massimizzare il beneficio delle risposte farmacologiche e minimizzarne i danni, bisogna
modificare la terapia tenendo conto delle sorgenti di variabilità individuale.
▪ Di regola, pazienti piccoli hanno bisogno di dosi inferiori rispetto a pazienti di grandi dimensioni.
▪ Modificazioni del dosaggio fatti tenendo conto delle dimensioni si basano spesso sull’area della
superficie corporea, piuttosto che semplicemente sul peso corporeo.
▪ I bambini piccoli e gli anziani sono più sensibili ai farmaci rispetto ai bambini più grandi ed ai giovani
adulti.
▪ Le malattie del rene possono diminuire l’escrezione dei farmaci, elevando quindi i livelli del
farmaco. Per prevenire la tossicità, i farmaci che sono eliminati attraverso il rene dovrebbero essere
somministrati ad un dosaggio più basso.
▪ Le malattie del fegato possono diminuire il metabolismo dei farmaci, elevando quindi i livelli del
farmaco. Per prevenire la tossicità, i farmaci che sono eliminati attraverso il fegato dovrebbero essere
somministrati ad un dosaggio più basso.
▪ Quando un paziente diventa tollerante ad un farmaco, il dosaggio deve essere aumentato per
mantenere gli effetti desiderati.
▪ La tolleranza farmacodinamica risulta da modificazioni adattative che avvengono in risposta ad una
prolungata esposizione al farmaco. La tolleranza farmacodinamica aumenta la MEC di un farmaco.
▪ La tolleranza farmacocinetica risulta da un metabolismo accelerato del farmaco. La tolleranza
farmacocinetica non aumenta la MEC.
▪ Un effetto placebo è definito come la componente della risposta farmacologica che può essere
attribuita a fattori psicologici, piuttosto che a dirette azioni fisiologiche o biochimiche del farmaco. Non ci
sono prove solide che gli effetti placebo siano reali.
▪ La biodisponibilità si riferisce alla capacità del farmaco di raggiungere la circolazione sistemica dal
proprio sito di somministrazione.
▪ Le differenze di biodisponibilità preoccupano principalmente con farmaci che posseggono un
intervallo terapeutico ristretto.
▪ Alterazioni dei geni che codificano gli enzimi del metabolismo farmacologico possono risultare in
aumento o diminuzione del metabolismo di molti farmaci.
▪ Variazioni genetiche possono alterare la struttura dei recettori farmacologici e di altre molecole
bersaglio, e possono quindi influenzare le risposte farmacologiche.
▪ Gli effetti terapeutici ed avversi dei farmaci possono variare tra maschi e femmine.
Sfortunatamente, per la maggior parte dei farmaci, non ci sono dati sufficienti per stabilire quali differenze
ci possono essere.
▪ La razza non è un buon fattore di predizione delle risposte farmacologiche. Quello che davvero
conta non è la razza, ma piuttosto delle variazioni genetiche specifiche e fattori psicosociali, condivise dal
alcuni membri del gruppo, e che possono influenzare le risposte farmacologiche.
▪ Una scarsa aderenza del paziente è una sorgente importante di variabilità individuale.
Argomento di interesse speciale
Box 1: Il placebo ha perso il proprio effetto?
Nel 1955, H.K. Beecher ha scritto il suo famoso articolo –“il potente placebo”- che è stato annunciato come
una solida prova della credenza datata da lungo tempo (ma largamente non provata) che il placebo possa
efficacemente alleviare i sintomi in molti pazienti. Questo articolo ampiamente citato non è stato mai
discusso fino al 2001, quando due scienziati Danesi – Hròbjartsson e Gotzsche – hanno scritto il loro articolo
su questo argomento, intitolato “Il placebo è senza potere?” Dalla loro ricerca, i Danesi hanno concluso
che, almeno nel contesto di studi clinici, il trattamento con placebo ha ben poco o addirittura nessun
effetto misurabile. Chi ha ragione? Prendiamo in considerazione entrambi gli articoli per poter decidere.
Beecher ha analizzato i dati di 15 studi clinici controllati con placebo. In tutti questi studi, i pazienti
nei gruppi placebo erano valutati all’inizio, trattati con placebo per il tempo dovuto, e quindi ri-valutati.
Quindi Beecher ha controllato se c’era stato un miglioramento tra l’inizio e la fine del trattamento. In base
alle proprie analisi, ha concluso “è evidente che i placebo hanno un elevato grado di efficacia, un deciso
miglioramento…è stato prodotto nel 35,2% dei casi”. Molto impressionante. Sfortunatamente c’è una
crepa in queste conclusioni: come sappiamo in che modo i placebo hanno prodotto un miglioramento?
Forse il 35,2% dei pazienti sarebbero migliorati comunque anche senza trattamento, a causa
semplicemente del corso naturale della malattia o per altri fattori. Dopo tutto, molte persone stanno
meglio per proprio conto – senza medici, farmaci, placebo, o altro. Inoltre, nonostante Beecher dica di aver
selezionato i 15 articoli in modo casuale, ciò sembra improbabile in quanto ben 7 di questi articoli erano
suoi.
Per rispondere ai dubbi suscitati da Beecher, Hrobjartsson e Gotzsche hanno seguito un approccio
diverso. Per prima cosa, hanno analizzato i dati di 114 studi pubblicati – non solamente 15. Erano coinvolti
più di 8500 pazienti. Era ancora più importante che in tutti questi studi, il trattamento con placebo era
paragonato ad un’assenza di trattamento.
Cioè, in ciascuno studio, alcuni soggetti ricevevano il placebo ed alcuni non ricevevano nessun trattamento.
(ovviamente, nella maggioranza [112] degli studi, c’era un altro gruppo che riceveva un trattamento attivo).
Gli studi coinvolgevano 40 condizioni cliniche, tra cui anemia, asma, ipertensione, iperglicemia, epilessia,
malattia di Parkinson, schizofrenia, depressione, fumo e dolore. In 38 studi, il risultato misurato era
oggettivo (per es., riduzione della pressione arteriosa, aumento del numero dei globuli rossi), ed in 76 il
risultato era soggettivo (per es., miglioramento dell’umore, riduzione del dolore). Di 114 studi, 45
valutavano interventi farmacologici, 26 valutavano interventi fisici, e 43 valutavano interventi psicologici. Il
tipo di placebo impiegato dipendeva dal trattamento attivo: per gli studi farmacologici, il placebo tipico
consisteva nel dare una pillola di lattosio; per gli studi fisici, (per es., valutare l’effetto della stimolazione
elettrica transcutanea dei nervi sul dolore), il trattamento placebo tipico era attuare la procedura a
strumenti elettrici spenti; e per gli studi psicologici (per es., valutare l’effetto della psicoterapia sulla
depressione), il trattamento placebo tipico consisteva in una discussione non indirizzata, neutra tra il
paziente e lo psicoterapeuta.
Che cosa ha rivelato l’analisi ? negli studi con risultati oggettivi, il trattamento con placebo
virtualmente non ha avuto effetti misurabili: i risultati in pazienti che avevano ricevuto il trattamento con
placebo erano identici a quelli di pazienti che non avevano ricevuto nessun trattamento. Tuttavia, in alcuni
studi con risultati soggettivi, il trattamento placebo ha avuto un effetto convincente – ma era piccolo e
limitato principalmente agli studi sul dolore. Nelle loro conclusioni, gli autori hanno affermato, “Abbiamo
trovato scarse evidenze che i placebo in generale abbiano effetti clinici potenti,” anche se continuano
dicendo che hanno trovato “effetti significativi del placebo … nel trattamento del dolore.” Inoltre,
concedono che la loro analisi “lascia aperto il problema se gli effetti placebo nella pratica clinica
differiscono dagli effetti placebo nei soggetti delle ricerche.”
La storia è quindi alla fine? L’effetto placebo è davvero soltanto un mito? Bene, non si può davvero
dire. Si, lo studio Danese, che era nettamente migliore rispetto a quello di Beecher, non è riuscito a trovare
un effetto potente con il trattamento placebo. Tuttavia, ciò non prova che l’effetto placebo non esista.
Piuttosto, indica semplicemente che non si può misurare facilmente un effetto placebo negli studi clinici. Ci
sono buoni argomenti a sostegno di questa possibilità:
• Se la risposta placebo si basa principalmente sulla relazione medico-paziente, allora, anche se una
risposta placebo esiste, non sarebbe visibile negli studi clinici – in quanto i soggetti che ricevono il
trattamento placebo e quelli che non ricevono alcun trattamento condividono comunque la stessa
relazione con il medico.
• Le risposte placebo (assumendo che esistano) si basano sulla fiducia incondizionata del paziente
che egli stia assumendo un trattamento efficace. Tuttavia, negli studi clinici, c’è sempre il dubbio –
in quanto tutti i partecipanti sono consapevoli che possono aver assunto un placebo, piuttosto che
il farmaco attivo. In presenza di un dubbio significativo, l’effetto placebo potrebbe essere
notevolmente diminuito. Se ciò è vero, non ci si potrebbe aspettare l’effetto placebo negli studi
clinici.
• Se l’effetto placebo esiste solo nella pratica reale – e non negli studi clinici – provare la sua
esistenza potrebbe rivelarsi impossibile. Perché? Perché dobbiamo compiere degli studi clinici per
provare la sua esistenza – e sappiamo già che negli studi clinici non possiamo vederlo.
Qual è quindi il punto? Primo, a causa di una forte debolezza del disegno sperimentale, lo studio di
Beecher non costituisce una prova che il placebo abbia effetti benefici. Secondo, usando un disegno più
appropriato, Hrobjartsson e Gotzsche hanno dimostrato che, nel contesto di studi clinici, gli interventi
placebo sono per lo più privi di effetti misurabili – con l’eccezione che producono una modesta riduzione
del dolore. Terzo, nonostante che Hrobjartsson e Gotzsche non abbiano documentato un effetto placebo, il
loro studio non ha esplorato la possibilità che, nel mondo reale, i trattamenti placebo possano
effettivamente essere di beneficio. Tuttavia, ciò deve ancora essere provato, e forse non lo sarà mai.