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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI REAZIONI INTERNAZIONALI ALL’APARTHEID IN SUDAFRICA. IL CASO DEL CANADA E DELLA SVEZIA Relatore: Tesi di laurea di: Prof.ssa Bianca Maria Carcangiu Cristiano Serci Anno Accademico 2006-2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI INTERNAZ IONALI

REAZIONI INTERNAZIONALI ALL’APARTHEID IN SUDAFRICA.

IL CASO DEL CANADA E DELLA SVEZIA

Relatore: Tesi di laurea di: Prof.ssa Bianca Maria Carcangiu Cristiano Serci

Anno Accademico 2006-2007

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a Silvia, Sergio e Maria Ausilia

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Ringraziamenti

Quando si scrivono i ringraziamenti il rischio maggiore è sempre quello di dimenticare qualcuno. Non posso però certo dimenticarmi di Federica, per il sostegno che mi ha sempre fornito e per avermi spronato continuamente nei momenti di stanchezza e anche per avermi sopportato: grazie! Quanto a pazienza, la persona che ne ha avuta sicuramente più di tutte è stata Tiziana Cauli, che mi ha seguito durante tutto il progetto addirittura da prima della mia partenza per il Sudafrica, e mi ha dedicato tutte le attenzioni necessarie per la correzione, puntu-ale e precisissima, delle mie bozze. Fondamentali sono stati inoltre i suoi consigli prima e durante il mio viaggio a Città del Capo, consigli grazie ai quali ho potuto portare avanti la mia ricerca…ma anche sco-prire molti aspetti, della città e del Sudafrica, che mi hanno entusiasmato. Non so se leggeranno questa pagina di ringraziamenti, ma un doveroso saluto va a Pa-trick Rezandt e Cally De Waal, gli amministratori della All Africa House di Città del Capo: non solamente mi hanno agevolato nel mio soggiorno in Sudafrica, ma si sono preoccupati sempre, nelle due settimane in cui sono stato lì, di fornirmi qualsiasi tipo di aiuto e informazione potesse essermi utile. Alla Prof.ssa Carcangiu va il merito, grandissimo (e decisivo per la scelta dell’argomento della tesi), di aver fatto nascere in me la passione per l’Africa ma so-prattutto per il Sudafrica.

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Indice

Introduzione ............................................................................................................... p. 7 Capitolo I L’apartheid e l’Occidente.......................................................................................... p. 9 1.Uno sguardo all’apartheid................................................................................ p. 9

2. Avvento al potere del National Party..............................................................p. 9 3. L’apartheid come minaccia per la pace ........................................................ p. 12 4. Il Sistema Atlantico ...................................................................................... p. 16 5. Le ONG ........................................................................................................ p. 19 6. Anti-Apartheid Movement............................................................................ p. 23 Capitolo II. La politica estera dell’apartheid............................................................................. p. 26 1. La politica nazionalistica sudafricana del dopo-guerra ................................ p. 26 2. Il Sudafrica in un mondo diviso ...................................................................p. 30 3. La ricerca delle alleanze ............................................................................... p. 37 4. Simon’s Town Agreement............................................................................p. 39 5. Oltre Simon’s Town ..................................................................................... p. 42 6. Il 1960........................................................................................................... p. 45 7. La Outward Policy........................................................................................ p. 49 8. Aspetti generali della politica estera sino al 1970 ........................................ p. 51 Capitolo III. Il Sudafrica e la comunità internazionale. ............................................................. p. 56 1. L’ONU.......................................................................................................... p. 56 2. L’ambivalenza dei rapporti con l’Occidente ................................................ p. 60 3. Origine delle sanzioni internazionali ............................................................ p. 66 4. Panoramica generale sulle sanzioni .............................................................. p. 68 5. Il disinvestment............................................................................................. p. 71

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6. Impatti sul Sudafrica e risposte..................................................................... p. 74 Capitolo IV Svezia, Europa e Canada........................................................................................ p. 82 1. L’Europa e il Sudafrica nel dopo-guerra ...................................................... p. 82 2. La politica della CE riguardo al Sudafrica ................................................... p. 85 3. L’assistenza CE alle vittime dell’apartheid .................................................. p. 89 4. Posizione di alcuni singoli Stati europei....................................................... p. 91 5. Il PAN e la Svezia......................................................................................... p. 94 6. Il caso Olof Palme ...................................................................................... p. 101 8. Il Canada..................................................................................................... p. 106 Conclusione............................................................................................................. p. 110 Bibliografia ............................................................................................................ p . 112

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Introduzione

Tra il 1948 e il 1991 in Sudafrica, il regime di apartheid imposto dal Partito Nazionali-sta al governo costituì un ostacolo insormontabile allo sviluppo della democrazia e della convivenza pacifica tra i diversi segmenti razziali del popolo sudafricano. Quello che i dirigenti di Pretoria sono riusciti a fare ci stupisce ancora oggi, nel senso che è apparentemente inspiegabile il fatto che un’assoluta minoranza abbia potuto im-porre la propria legge alla stragrande maggioranza del popolo. Per di più se consideriamo che oltre a dover subire la tirannia della minoranza bianca, gli altri sudafricani si sono visti negare la maggior parte dei diritti civili e politici, ap-pannaggio solo dei discendenti di inglesi e boeri.

La segregazione razziale fu contrastata dall'African National Congress (ANC), prin-cipale movimento di opposizione fondato nel 1912. Dopo gli scioperi, i boicottaggi e le proteste pacifiche contro l'apartheid che culminarono nel massacro di Sharpeville del marzo 1960, il governo mise al bando tutte le organizzazioni politiche nere, compreso l'ANC. Tuttavia le dimostrazioni, e le proteste che si susseguirono sempre più frequenti negli anni Sessanta e Settanta da parte degli oppositori dell'apartheid, il fallimento della politica dei bantustan e la condanna internazionale che aveva isolato il Sudafrica, co-strinsero il governo ad allentare le restrizioni, ad esempio quelle che riguardavano il contatto quotidiano tra membri delle diverse componenti etniche (petty apartheid).

L’indipendenza raggiunta nel 1975 dalle vicine colonie portoghesi dell’Angola e del Mozambico (uniche fino ad allora, insieme alla Rhodesia, a sostenere il regime razzista di Pretoria) fece aumentare le pressioni politiche della comunità internazionale per una normalizzazione della situazione sudafricana. Gravissimi incidenti scoppiarono nel 1976 in seguito al massacro di centinaia di persone da parte delle forze di polizia nel corso di una manifestazione di protesta di studenti del ghetto di Soweto contro l’uso ob-bligatorio dell’afrikaans. L’episodio ebbe un fortissimo impatto sull’opinione pubblica internazionale, rafforzando il fronte favorevole a imporre sanzioni economiche al Suda-frica. Sul fronte interno provocò un aumento di consenso dell’ANC, che organizzò im-ponenti manifestazioni di protesta in tutto il paese; la risposta del regime razzista fu bru-tale, culminando nel 1977 con l’assassinio del fondatore del Movimento di Coscienza Nera Stephen Biko, morto in cella per i maltrattamenti subiti dopo l’arresto.

Dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Ottanta il governo attuò una serie di riforme che permisero alle rappresentanze sindacali nere di organizzarsi e di svolgere una limitata attività politica. La Costituzione del 1984 estese la rappresentanza parlamentare agli asiatici e ai coloured, ma non ai neri, nonostante costituissero oltre il 75% della popolazione. Si accesero nuove rivolte nelle città, fu imposto diverse volte lo Stato di Emergenza ed essendo cresciuta la pressione internazionale contro il Sudafrica, le politiche governative dell'apartheid cominciarono ad allentarsi. Nel 1990 il nuovo presidente Frederik Willem de Klerk revocò ufficialmente la messa al bando trentennale dell'ANC e liberò il suo leader, Nelson Mandela. Nel 1993 fu rag-giunto e sottoscritto da Mandela e De Klerk un accordo sulle modalità della transizione del Sudafrica alla democrazia. Nelle prime libere elezioni del 1994 Mandela divenne il primo presidente nero nella storia del Sudafrica, a capo di una coalizione governativa che comprendeva anche il Partito Nazionalista.

Con questo lavoro cerchiamo di far luce sulle dinamiche e le problematiche dei rap-porti tra Pretoria, gli esponenti del movimento anti-apartheid e le nazioni occidentali. Vedremo perché le potenze occidentali, o almeno alcune di loro non siano intervenute con gli strumenti diplomatici già agli albori dell’apartheid. Analizzeremo gli aspetti salienti della politica estera sudafricana per capire come veniva gestita la situazione dal “di dentro”, nonostante le pressioni internazionali.

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Riassumeremo i principali fatti che hanno segnato la storia dei rapporti tra il governo di Pretoria, gli altri governi del mondo occidentale e i principali gruppi di pressione anti-apartheid. Faremo anche luce sulle connessioni che effettivamente ci furono tra la lotta internazio-nale contro il “pericolo comunista” e la volontà da parte di governi occidentali, di legare a loro i governanti razzisti sudafricani sottraendoli così all’influenza sovietica.

Nell’ultimo capitolo analizzeremo come l’Europa si è posta di fronte al problema su-dafricano, in particolare come Comunità Europea, ma anche come rapporti bilaterali tra singoli Stati e Sudafrica. Sempre nell’ultimo capitolo vedremo due esempi di Stati occidentali che si sono dovuti confrontare con la questione sudafricana: la Svezia in particolare, e il Canada.

In molti casi ci si è resi conto di come la questione morale non fosse messa in primo piano, anche quando la situazione sudafricana avrebbe davvero potuto costituire essa stessa una minaccia alla pace di tutta l’Africa del sud. Gli interessi economici e politici delle nazioni industrializzate che avevano con il Sudafrica rapporti commerciali rile-vanti furono l’ostacolo principale che si frapponeva - lo vedremo - al raggiungimento degli obiettivi dei gruppi di sostegno alla lotta dei non-bianchi sudafricani contro il re-gime di apartheid.

Nella realizzazione di questo lavoro ho avuto la fortuna di accedere all’African Stu-

dies Library dell’Università di Città del Capo, all’interno della quale ho trovato diversi documenti quali testi, pamphlet, dichiarazioni pubbliche e interviste che affrontano la questione dell’apartheid sia come tematica prettamente sudafricana, sia all’interno delle relazioni tra Pretoria e mondo occidentale.

Anche il Robben Island Museum Mayibuye Archive dell’Università del Capo Occi-dentale (University of the Western Cape), è stato per me utile fonte di informazioni sto-riche sull’argomento; si tratta infatti di un centro in cui sono catalogati una quantità in-numerevole di documenti di ogni genere riguardanti la storia dell’apartheid, compresi materiali audio e video, stampe, scritti privati e rappresentazioni artistiche.

Inoltre, nuovamente in Italia, a Roma, ho fatto visita all’Is.I.A.O., istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, sito a Roma in via Aldrovandi.

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Capitolo I. L’apartheid e l’Occidente

1. Uno sguardo all’apartheid

Apartheid è un concetto coniato dagli Afrikaner all’inizio degli anni ’40 per invocare l’inevitabilità del dominio bianco nella regione dell’Africa del Sud, regione che identifi-chiamo come quella delimitata dal fiume Cunene a Nord e ad Ovest, e dallo Zambesi a Sud. Il termine fu utilizzato per la prima volta dal leader del Partito Nazionalista, ancora all’opposizione nel 1944, all’interno del parlamento sudafricano. Malan voleva con ciò indicare una politica pubblica tesa a « rafforzare la sicurezza della razza Bianca e della civiltà cristiana tramite un onesto mantenimento dei principi di apartheid e di protezione »1. In realtà 3 anni dopo una commissione interna allo stesso partito equiparò una tale poli-tica al concetto di sviluppo separato. Entrambi i significati in ogni caso hanno sempre voluto indicare supremazia di una componente razziale sull’altra.

E’ da notare che con il passare degli anni, e in particolar modo a partire dagli anni ’70, i portavoce del National Party, al potere dal 1948, hanno sempre preferito utilizzare, di fronte ad interlocutori internazionali, il termine separate development anziché quello di apartheid, dal momento che quest’ultimo era ormai divenuto sinonimo di razzismo. Non tutti i bianchi in Sudafrica sostenevano l’apartheid.

Lo United Party, il partito ufficiale di opposizione, definiva anch’esso come necessa-ria la leadership bianca nella politica sudafricana, e persino il Partito Progressista Ri-formista, se da una parte denunciava l’apartheid, dall’altra era costituito per intero da persone di pelle chiara, come d’altronde gli altri partiti, in quanto la legge non dava spa-zio ai non-bianchi all’interno della politica, proibendone sia la rappresentanza sia la par-tecipazione politica. E la musica non era diversa se ci si spostava in Rhodesia del Sud: laggiù, i bianchi, sebbene avessero criticato ufficialmente la teoria dell’apartheid, ave-vano insistito sul fatto che solo loro potessero governare, e proclamato la necessità di questo loro dominio per il futuro della nazione.

Perciò possiamo già vedere come per diversi decenni l’apartheid rappresentò non solo una teoria che definire razziale non è azzardato, ma anche un vero e proprio modo di vi-vere che ha perpetuato il dominio dei coloni venuti in Sudafrica dall’Europa secoli pri-ma e che ha collegamenti vitali oltreoceano e all’interno del cosiddetto mondo occi-dentale.

I movimenti che rappresentavano gli africani ( ANC e PAC tra tutti) avevano sempre denunciato questo sistema ovviamente, e vi si erano opposti. Inoltre i movimenti di liberazione dell’Africa meridionale hanno sempre condotto un’opera di resistenza alla prosecuzione del sistema di segregazione razziale a suprema-zia bianca nei territori degli attuali Zimbabwe, Namibia e Sudafrica (chiamata anche Azania dai movimenti africani espressivi dei nazionalisti neri quali il PAC). Quei movimenti di liberazione sono stati sostenuti moralmente e supportati material-mente non solo dai movimenti panafricanisti, ma anche dai movimenti anti-apartheid sorti altrove in tutto il mondo.

Quello che diverrà presto evidente sarà un conflitto maggiore tra gli interessi dei bianchi al potere nell’Africa del Sud, la cui supremazia era sostenuta da larga parte delle

1 G. W. Shepherd, Jr. , Anti-apartheid, transnational conflict and Western policy in the liberation of South Africa, Greenwood Press,Westport,Connecticut,1977, p.3.

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potenze occidentali, e gli interessi e le istanze dei movimenti espressione dei neri afri-cani, supportati dai movimenti anti-apartheid e dal blocco degli Stati socialisti. Si può a ragione parlare non solo quindi di battaglia nazionale, bensì per usare le parole di Shepherd, di « conflitto internazionale di classe e razziale »2.

Ma diamo un quadro generale della situazione sudafricana successiva al 1948. Se per i Bianchi si poteva certamente parlare di democrazia, non tutti i Neri godevano della cit-tadinanza, e tra i Neri, gli Africani erano totalmente sprovvisti del diritto di voto. Pote-vano esercitare qualche diritto politico semplicemente all’interno delle aree chiamate-si è già detto- bantustans.Si trattava di entità geografiche, artificialmente create a tavolino, disegnate sulla carta geografica, che nel corso degli anni hanno avuto anche il nome di homelands e “Stati neri”, a seconda dell’importanza che quel territorio aveva all’interno della struttura geografica dello Stato dell’apartheid.

Non si trattava che di entità amministrative, dotate di assemblee e di governi-fantoc-cio, e i loro poteri erano ristretti all’amministrazione degli affari locali, in quanto i prin-cipali dipartimenti ministeriali erano sotto il controllo di Pretoria. Barbier e Désouches affermavano che «gli Africani, legati a quei territori dalla legge di suddivisione per “razze”, non dispongono quindi che di finti diritti politici»3.

Invece per quanto riguarda le organizzazioni nere, che raccoglievano tra l’altro il so-stegno dell’ampia maggioranza della popolazione, (ANC e Pan-Africanist Congress of Azania, i due movimenti di liberazione), esse erano vietate dal 1960, mentre organizza-zioni come l’UDF, vicina all’ANC, e il National Forum erano perseguite per legge o sottomesse a restrizioni relative alle loro attività. Quindi, scrivevano Barbier e Dé-souches ancora nel 1987, « il primo dei diritti negati era quello politico»4.

E dal punto di vista delle condizioni di vita la situazione non era certo migliore: la popolazione nera in Sudafrica era costretta a vivere ghettizzata o alle porte delle città ri-servate ai bianchi (questo era il caso delle township), oppure nei bantustans, che com-prendevano sia zone rurali, sia grandi bidonvilles simili alle township, ma più povere. Si pensi che l’87% del territorio nazionale era “classificato” come spettante ai bianchi, che però costituivano solo il 15% della popolazione totale. I non-bianchi nel loro insieme, e al loro interno gli africani in particolare, si vedevano perciò rifiutare la libertà di circola-zione, la libertà di sistemarsi dove sembrava loro meglio, nonché quella di acquistare una casa e un terreno, salvo si trattasse di neri con residenza permanente.

Dal punto di vista della vita lavorativa, le condizioni erano estremamente difficili. Si consideri che l’educazione, definita bantu, era stata volontariamente concepita per dare ai bambini neri un insegnamento “al ribasso”- Barbier e Désouches hanno calcolato che lo Stato sudafricano spendeva «otto volte di più per i bambini bianchi» (huit fois plus pour les enfants blancs)5. I lavoratori non-bianchi rientravano in una delle seguenti ca-tegorie: 1) Legalmente autorizzati a risiedere in una zona “bianca”e ad avere un lavoro regolare in città; 2) Autorizzati ad abitare in una bidonville all’interno di un bantustan ed costretti ad essere pendolari (“commuter”), dovendo sobbarcarsi anche 4 ore di tra-gitto al giorno; 3) oppure ancora essere lavoratori migranti, come era il caso dei do-mestici, dei lavoratori agricoli e minatori, e in quel caso l’alloggio si trovava all’interno di “compound” 6, praticamente un dormitorio per celibi, dall’organizzazione disciplinare rigida: i lavoratori rientranti in questa categoria riuscivano a tornare a casa dalla loro fa-

2 Ivi, p. 4 3 J.-C. Barbier, O. Désouches, Sanctionner l’apartheid. Quatorze questions sur l’isolement de l’Afrique du Sud, Éditions La Découverte, Parigi, 1987, p. 14 4 Ivi, p. 16. 5 Ivi, p. 17 6 Ibidem.

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miglia al massimo una volta all’anno. Entro le 22 tutti i non-bianchi dovevano aver las-ciato la città bianca, salvo che ovviamente non fossero guardiani o custodi.

Altro elemento di disuguaglianza era il fatto che ai non-bianchi era preclusa la possi-bilità di accedere alla formazione professionale e ad alcuni tipi di impiego nelle miniere, che restavano appannaggio dei bianchi. Avere avuto l’equivalente di un lavoro specia-lizzato di un bianco, non avrebbe in ogni caso dato a nessun nero la possibilità di perce-pire lo stesso salario. Le stesse condizioni di sicurezza lasciavano molto a desiderare, tanto che il Sudafrica deteneva il record di incidenti mortali nelle miniere.

Si era di fronte quindi ad una società davvero a doppia velocità, nel senso che i bian-chi godevano di un livello generale di vita, secondo Barbier e Dèsouches, «spesso anche più elevato di quello dei paesi occidentali»7 e disponeva di istituzioni politiche demo-cratiche, mentre la stragrande maggioranza della popolazione, suddivisa tra Africani, Coloured (meticci) e Asiatici (“Indians”) non aveva in pratica alcun diritto politico e doveva far fronte a condizioni di esistenza e di lavoro davvero precarie. Il Sudafrica aveva quindi istituzionalizzato un regime economico e politico razzista, l’ apartheid appunto. Questo sistema si costituì tramite l’intrecciarsi e il sovrapporsi di trecento leggi ordinate attorno a 3 pilastri fondamentali, elaborati alla fine dell’epoca degli imperi coloniali, negli anni ’50:

1)Innanzitutto il Land Act (già apparso però nel 1913) che concedeva ai bianchi-si è det-to prima- l’87% del territorio, mentre il restante 13%, ripartito in territori più piccoli, costituiva la base geografica dei bantustans.

2)Il Land Act era stato in seguito articolato con il Group Areas Act del 1950, che defi-niva in quali zone era permesso legalmente vivere ai diversi gruppi, nonché le loro con-dizioni di “soggiorno”: secondo questa legge, più volte modificata, i neri non potevano essere che residenti temporanei nelle zone bianche, e solo quelli che vi avevano lavorato ininterrottamente per 10 anni potevano beneficiare del diritto di residenza permanente, e in questo caso si parlava dei cosiddetti sectiontenners.

3)Terzo pilastro dell’architettura dell’apartheid era il Population Registration Act del 1950, che classificava i sudafricani in Bianchi, Africani, Meticci e Indiani (o Asiatici in generale). Teniamo conto del fatto che i criteri con i quali veniva operato tale suddivi-sione comprendevano al tempo stesso tratti fisici, la razza di appartenenza degli ante-nati, e in più, ciò che con termine francese potremmo indicare con «reputazione» (re-nommée)8,e con questo si indicava il fatto che si poteva essere “reputato” Bianco, o Ne-ro o Meticcio “onorario”. A ciò si deve aggiungere che agli Africani, in generale, veniva attribuita arbitrariamente un’origine etnica corrispondente a uno dei 10 bantustans di cui quindi essi divenivano automaticamente “cittadini”. Sottolineiamo che i dirigenti sudafricani non concepirono questa organizzazione come transitoria: si trattava, nella filosofia dell’apartheid, «di una soluzione ottimale e perma-nente, per la coesistenza economica e politica di gruppi di popolazione aventi origini et-niche differenti»9. La classificazione in razze “presunte” era giustificata con considera-zioni classiche relative alla superiorità razziale del gruppo bianco, e questo chiaramente era pari al mettere in discussione, alla radice, i valori etici universali.

7 Ivi, p. 18. 8 Ivi, p. 19 9 Ibidem.

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2.Avvento al potere del National Party

Considerando i rapporti che il governo di Pretoria aveva con le potenze occidentali non possiamo prescindere da un‘analisi delle politiche interne adottate dal National Party al potere dal 1948 in Sudafrica, partendo però dalla sua ascesa al potere.

Alla fine della seconda Guerra Mondiale il Governo Sudafricano non aveva alcun so-spetto del fatto che negli anni a venire avrebbe dovuto far fronte a una persistente e cre-scente ostilità internazionale. Nel maggio del 1945, alla prima sessione assembleare delle Nazioni Unite a San Franci-sco, Jan Hofmeyer, delegato del Primo Ministro, disse che tra le cose buone che erano venute fuori dal conflitto, di per sé tremendo, c’era stato « l’accresciuto prestigio e l’onore del nostro Paese tra le nazioni del mondo... »10. L’ottimismo del governo sudafricano si basava sull’esperienza maturata durante la guer-ra. L’Unione era rimasta saldamente dalla parte degli Alleati anche durante i giorni delle vittorie tedesche e giapponesi, e lo rimase sino all’avvenuta vittoria. Come gli altri alleati, il Sudafrica entrò nel dopo-guerra prevedendo i frutti della vittoria appena ottenuta. All’interno del territorio sudafricano stesso, la guerra aveva prodotto pochi disagi, se si considera che il campo di battaglia era rimasto molto lontano dall’Africa meridionale, cosicché i sudafricani che non erano dovuti partire a combattere a fianco degli eserciti Alleati avevano dovuto far fronte a ben poche privazioni. Addirittura si può a ragion veduta affermare che la guerra aveva portato i vantaggi di un’accresciuta attività economica e quindi di un aumento della ricchezza nazionale. Questo perché, come disse, tra gli altri, il Professor Houghton in un’analisi dell’economia sudafricana, «la Guerra aveva dato uno stimolo a molte attività industriali sudafricane dal momento che molti beni precedentemente importati non erano più di-sponibili, e così aumentarono sia il volume sia la varietà dei beni fabbricati in Suda-frica»11. Alla fine del conflitto l’industria manifatturiera nazionale sudafricana era più grande, maggiormente diversificata, con competenze tecniche migliorate e anche fiducia. Ma nonostante questi miglioramenti economici, in un altro senso la guerra aveva impo-sto un particolare onere interno all’Unione sudafricana. La decisione di andare in guerra aveva diviso la frazione bianca della società, riaprendo ed approfondendo vecchie ferite e persino creando delle divisioni all’interno dello stesso United Party al potere e del suo stesso Consiglio. Non appena la Gran Bretagna ebbe dichiarato guerra alle potenze dell’Asse, il Generale Hertzog, Primo Ministro, portò alla House of Assembly una mozione a favore della neu-tralità del Sudafrica. Facendo questo egli si mise contro ben otto membri del suo go-verno, tra questi il vice Primo ministro Generale Jan Smuts. Smuts si oppose alla mossa di Hertzog con un emendamento che proponeva la parteci-pazione alla guerra. In un drammatico confronto parlamentare fu Smuts ad avere la meglio per 80 voti con-tro i 67 del suo collega-rivale. E proprio in seguito a questo Smuts formò un nuovo go-verno e condusse il Sudafrica in guerra.

Smuts non ebbe mai dubbi sulla correttezza e l’opportunità della sua scelta interven-tista ma allo stesso modo non dubitava del fatto che quella stessa sua volontà di portare la nazione nel conflitto avrebbe comportato come corollario alcuni sacrifici.

10 J. Barber, South Africa’s Foreign Policy, Oxford University Press, London, 1973, p. 7. 11 Ibidem.

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Per Hertzog, e ancor più per il National Party, la decisione di Smuts di portare in guerra il Sudafrica fu un esempio lampante e disastroso del fatto che ancora una volta l’Unione fosse rimasta al seguito della Gran Bretagna per poi essere coinvolta in un conflitto importante ma che non aveva nessun interesso diretto per la nazione . Questo modo di veder le cose non era condiviso dalla grande maggioranza dei sudafri-cani anglofoni. La divisione non era semplicemente quella tra Afrikaner e anglofoni- lo stesso Smuts era Afrikaner- ma sembrava tanto richiamarsi all’antica spaccatura tra Bo-eri e Britannici che poteva riaprire da un momento all’altro vecchie ferite e, vale la pena ricordarlo, il cosiddetto race problem, cioè la questione delle relazioni tra gli Afrikaner e i bianchi di lingua inglese, da distinguere storicamente dal native problem , cioè quel-lo relativo ai rapporti tra i bianchi e i non-bianchi.

La principale opposizione alla guerra venne dal National Party, guidato dal Dr. D.F. Malan. I Nazionalisti, rimasti fuori dalla coalizione Hertzog-Smuts, vedevano loro stessi « come i portatori delle vere e pure tradizioni Afrikaner »12, tradizioni che mettevano in risalto e tendevano ad enfatizzare la posizione di unicità e i diritti degli Afrikaner in Sudafrica, e la necessità di una forma di governo repubblicana costruita sui principi del-le antiche Repubbliche Boere. Quelle tradizioni erano originariamente appartenute ad una popolazione rurale, quella boera, che spesso rappresentava gli anglofoni e i loro alleati Afrikaner come crudeli im-presari e commercianti.

A seguito del suo fallito tentativo di tenere la nazione sudafricana fuori dalla guerra, Hertzog e alcuni dei suoi sostenitori lasciarono lo United Party, rendendo più acuta la divisione all’interno della società bianca. Da lì in poi, lo United Party, nonostante avesse mantenuto i leader Afrikaner e il soste-gno di almeno una minoranza di questi ultimi, si troverà a contare più che mai sulla se-zione di lingua inglese della popolazione bianca. La disputa sulla decisione di andare in guerra o meno aveva dato forma ai due maggiori partiti politici bianchi che si confronte-ranno negli anni a venire dopo la guerra. E questa divisione, sebbene presto verrà offuscata dalla questione già citata delle rela-zioni tra bianchi e non-bianchi (native problem), sarà dura a morire. Durante la guerra i nazionalisti mantennero una forte e persistente critica nei confronti del coinvolgimento sudafricano. Non solo bollarono la guerra come “la guerra dei bri-tannici”, ma vi era tra di loro anche una certa simpatia nei confronti della Germania. Persino tra i Nazionalisti più moderati non si nascondeva una certa soddisfazione relati-vamente alle vittorie iniziali della potenza nazista contro gli inglesi, nel vedere « il vecchio bullo essere esso stesso oggetto di bullismo »13. Invece tra i Nazionalisti più radicali vi era un aperto sostegno alla Germania, e se è vero che questi elementi più e-stremi vennero disconosciuti da Malan e i loro leader furono imprigionati dal Governo, tra i loro ranghi c’erano allora futuri leader Nazionalisti come ad esempio un uomo che poi diverrà Primo Ministro:B.J. Vorster.

Per un periodo di tempo circoscritto Hertzog si unì al Partito Nazionalista, ma non riuscì a trovarvi la sua sistemazione ideale. I nazionalisti erano troppo severi e inflessi-bili per i suoi gusti,e sospettavano sempre troppo di lui. Ma per il National party era sempre Smuts il principale capro espiatorio e nemico mor-tale, e la cosa peggiore era il fatto che Smuts fosse un Afrikaner che « aveva mandato i figli del Sudafrica a morire per l’Inghilterra »14.

12 Ivi , p. 9. 13 Ivi , p. 10 . 14 Ibidem .

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Durante il suo premierato Smuts restò sempre una figura discussa all’interno del Suda-frica, mentre all’estero godette sempre di grande prestigio: ecco un’altra ragione per cui il governo sudafricano aveva fiducia nella sua posizione internazionale alla fine della guerra. Se infatti prima del conflitto l’Unione aveva sempre guardato a sé stessa come a un piccolo stato senza grandi pretese internazionali, in Smuts aveva avuto un grande sta-tista di fama internazionale. Egli, ricordiamolo, agì anche in qualità di Ministro per gli Affari Esteri, un accorgimento particolarmente adatto ai suoi interessi e che era stato adottato anche da precedenti Primi Ministri sudafricani. Smuts dominò quindi così tanto la politica estera sudafricana che molti sono stati portati ad analizzarla come una politica determinata dalla sua sol volontà. Dal momento che i suoi interessi stavano nella totalità della struttura del sistema inter-nazionale, egli mise in relazione gli interessi del Sudafrica con questa stessa struttura. Per lui la sfida predominante negli affari internazionali era quella di evitare per il futuro altre guerre come quella di quegli anni, e per vincere quella sfida Smuts sosteneva tre punti:la creazione di un organismo internazionale designato a preservare la pace; la re-staurazione di una Europa pacifica e prospera; il rafforzamento e l’espansione del Commonwealth britannico. Ma negli anni del dopoguerra le restrizioni particolari che il Sudafrica aveva di fronte non erano solo quelle geografiche o quelle relative alle limitate risorse: stavolta c’era di più. Infatti sebbene fosse stato uno statista dal passato onorato e dai disegni futuri di portata internazionale, Smuts era sempre e comunque un uomo della società sudafricana bianca, della quale condivideva attitudini e valori. Ma proprio quelle attitudini e quei valori a partire dal dopoguerra cominciarono a venir messi sempre più sotto pressione. Fu quindi presto chiaro che Smuts dovette abbando-nare sempre più i suoi grandi progetti per tornare su una posizione difensiva e proteg-gere la struttura della sua stessa società Le idee generali e le supposizioni di Smuts erano inconciliabili con i limiti cui l’Unione doveva confrontarsi dopo la guerra. Negli affari internazionali l’istinto di Smuts era quello di prendere l’iniziativa e di chiedere agli altri di seguirlo. Ma nel mondo che si profilava in quel dopoguerra mai gli fu permesso di far questo. Aveva cercato di lavorare su un piano differente rispetto agli altri politici , ma fu co-stretto a rinunciare ai suoi grandi progetti e a difendere semplicemente le politiche raz-ziali del suo Paese.

Cosicché le elezioni del 1948 si profilavano come un duro banco di prova per il Go-verno Smuts.Il trionfo del Partito Nazionalista e dei suoi alleati Afrikaner alle elezioni politiche del 26 maggio 1948, giunse inaspettato per tutti, e fu una sorpresa per gli stessi nazionalisti. Le precedenti elezioni,datate 1943, avevano visto una vittoria netta per Smuts e il suo United Party, o così almeno era sembrato.

Le prime elezioni del dopoguerra invece erano state una vittoria a metà per i Nazio-nalisti:infatti lo United Party aveva ottenuto quasi il 50% dei voti popolari, contro meno del 40% ricevuto dai Nazionalisti e dai partiti Afrikaner alleati; e tuttavia,dal punto di vista dei seggi parlamentari assegnati dal meccanismo elettorale, i risultati « furono un inconfondibile trionfo per i Nazionalisti »15.

In ogni caso quel che è vero è che i nazionalisti avevano condotto una campagna a-stuta e decisa. Essi avevano lasciato in secondo piano questioni come la scelta della forma repubblicana e quindi lo scioglimento di qualsiasi legame anche con il Com-monwealth, e preferendo invece sottolineare il fatto che non avrebbero perseguito una politica estera isolazionista, in quanto il Sudafrica - secondo loro e le loro idee- non sa-rebbe rimasto neutrale in caso di guerra tra blocco comunista e anti-comunista.

15 A. Vandebosch, SOUTH AFRICA and the WORLD. The Foreign Policy of Apartheid, The University Press of Kentucky, Kentucky USA, 1970, p. 127.

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Insomma durante la campagna politica i Nazionalisti avevano fatto della lotta al co-munismo una questione di vitale importanza. Addirittura il Primo Ministro in carica Smuts, fu accusato di avere «grosse responsabilità per la cattiva situazione mondiale»16, in quanto aveva ceduto alle pressioni russe tese a mandare in rovina la Germania, che all’epoca costituiva secondo molti il baluardo,anche fisico, contro la Russia comunista.

Gli esponenti del National Party avevano anche dato risalto alla questione razziale durante la loro campagna elettorale, e per primi usarono il termine apartheid per sottoli-neare ed indicare la loro politica di segregazione.

D.F. Malan aveva aperto la campagna elettorale con una mozione al Parlamento se-condo la quale l’atto con cui si era concessa la rappresentanza parlamentare agli Indiani avrebbe dovuto essere abrogato, e che la rappresentanza dei “nativi” sarebbe stata eli-minata, al pari del Natives Representative Council.

Sia ben chiaro, anche Smuts aveva poi accettato la politica di white supremacy.Ma al tempo stesso il leader dello United Party metteva l’accento sulle enormi difficoltà del problema razziale: « Noi abbiamo forse la posizione più difficile rispetto ad ogni altro Paese, ma non credo che nessun altro Paese abbia avuto successo dovendo affrontare ta-li difficili problemi come quelli sudafricani »17.

Quando gli si chiese conto delle richieste di eguaglianza, egli rispose sempre che si trattava di qualcosa di non ragionevole e di eccessivo,e più volte aveva sottolineato il fatto che da diverso tempo cresceva un certo « interesse mondiale riguardo a ciò che viene indicato come “diritti umani e punto di vista umano” »18.

Alle elezioni del 1948 l’elettorato sudafricano bianco si volse contro Smuts e il suo United Party, e ciò fu letto da molti proprio come una risposta all’attacco che era stato fatto in sede ONU alla politica razziale dell’Unione Sudafricana.

Per essere chiari, i sudafricani bianchi avevano avuto la sensazione che un mondo o-stile al Sudafrica stesse minacciando la loro supremazia all’interno del loro stesso Pa-ese. Il governo Smuts aveva contribuito a creare una situazione internazionale che gli Afrikaner ritenevano assolutamente ostile ai loro propri interessi.

Quindi l’apartheid può essere interpretato come la conseguenza delle critiche nega-tive mondiali rivolte alla politica razziale dell’Unione, e non come la causa di esse. Come disse uno studioso di questioni politiche sudafricane, «l’apartheid rovesciò Smuts»19: fu l’ultimo disperato tentativo da parte degli Afrikaner di arginare l’ondata crescente delle rivendicazioni dei non-bianchi.

Al momento di assumere l’incarico di Primo Ministro e quello di Ministro agli Affari Esteri, D.F. Malan volle almeno delineare la politica estera del suo governo. Gli interessi del Sudafrica, secondo le sue intenzioni, avrebbero dovuto essere sempre posti in prima posizione, ma questo non doveva significare che si dovesse sottoscrivere una politica estera di tipo isolazionista. Anzi, Dr. Malan dichiarò che il Sudafrica aveva accettato di entrare a far parte delle Nazioni Unite a patto chiaramente che non ci fos-sero «né interferenze domestiche nei nostri affari interni né alcun tentativo di immi-schiarsi a questioni inerenti i nostri autonomi diritti»20.

Il nuovo governo inoltre avrebbe desiderato continuare ad avere relazioni amichevoli con la Gran Bretagna e gli altri membri del Commonwealth britannico, ma il neo-Primo Ministro teneva a sottolineare il fatto che la cooperazione con essi sarebbe stata possi-bile solo se ciò non avrebbe sminuito lo status e la libertà del Sudafrica in quanto Stato sovrano e se ciò non avesse comportato quindi alcun intervento nei loro affari interni.

16 Ivi, p. 128. 17 Ivi, p. 129. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 130 20 Ibidem.

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Quelle dichiarazioni di Malan presagivano gli eventi a venire. Preoccupato per l’immagine che il suo governo poteva avere all’estero, nominò Charles te Water (ex-Alto Commissario a Londra e rappresentante dell’Unione Sudafricana presso la deca-duta Società delle Nazioni) quale ambasciatore “itinerante”.

Il Premier affermava che c’era «un grande pregiudizio nei confronti del Sudafrica, basato su semplici malintesi»21.

3. L’apartheid come minaccia per la pace

Oltre ad aver istituzionalizzato un sistema razziale, Pretoria costituì un serio pericolo per la pace e la sicurezza della regione meridionale dell’Africa a causa della sua azione militare e del rifiuto continuo di accettare le decisioni e le regole del diritto internazio-nale. Così, il Sudafrica si tenne stretta la Namibia- ex-Africa del Sud-Ovest- su cui eser-citò continuamente la sua occupazione militare nonché la colonizzazione economica, at-traverso un regime basato sull’apartheid, nonostante il suo mandato fosse decaduto dal 1966 e la risoluzione 435 dell’ONU avesse intimato a Pretoria di permettere, nel 1978, l’indipendenza immediata della Namibia.

A partire dall’indipendenza del Mozambico e dell’Angola nel 1975, poi con quella dello Zimbabwe nel 1980, il Sudafrica aveva dovuto abbandonare il suo progetto di co-struire una costellazione di Stati amici intorno a sé, in modo da comprendere in un’unica entità economica i bantustan, il Botswana, il Lesotho e lo Swaziland, «per im-pegnarsi in una serie di operazioni militari tese alla destabilizzazione di tutti i suoi vi-cini, sotto gli occhi della comunità internazionale»22. Innanzitutto Pretoria intervenne presso i piccoli Paesi suoi vicini, il Lesotho e lo Swaziland, nel primo caso con un raid su Maseru, nel secondo tramite un trattato segreto con lo Swaziland. Addirittura nel gennaio del 1986 i governanti sudafricani imposero un blocco al Lesotho al fine di otte-nere la salita al potere di un governo amico. Quello che i bianchi sudafricani cercavano di fare in questi 2 Paesi, praticamente strangolati dal più potente vicino, era togliere agli oppositori sudafricani la possibilità di avere a disposizione i territori dei 2 Stati limitrofi da cui poter organizzare la lotta armata e lanciare azioni di sabotaggio contro il regime di apartheid.

Ma la politica estera sudafricana si dimostrava aggressiva anche nei confronti degli altri Paesi come le ex-colonie portoghesi, la Tanzania, lo Zambia, anche questi propensi ovviamente ad aiutare i movimenti di liberazione sudafricani e namibiani: non furono risparmiati nei loro confronti diversi raid (contro Botswana e Zambia), sostegno al MNR (movimento dissidente in Mozambico), minacce alla regione zimbabwana del Matabeleland, attacchi e occupazioni reiterate dei territori angolani e aperto sostegno nei confronti dell’UNITA, il movimento che combatteva il governo ufficiale di Luanda. Ma la lista degli interventi sudafricani al di fuori dei confini statali potrebbe continuare, e tutte le operazioni avevano per scopo quello di asservire politicamente e militarmente dei piccoli Stati che già dipendevano largamente da Pretoria dal punto di vista econo-mico.

Nonostante le condanne ripetute da parte dell’ONU e del Consiglio di Sicurezza in particolare, le autorità governative sudafricane non si fermarono mai di fronte a niente pur di «mettere in ginocchio quei fragili Stati che costituivano i loro alleati ma anche una base naturale per gli oppositori sudafricani neri dell’ANC, che portavano avanti la

21 Ibidem. 22 J.-C. Barbier, O. Désouches, op. cit., p. 20.

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loro lotta armata dal 1961»23. La presenza militare cubana in Angola, che Pretoria indi-cava come il semplice strumento di una reale influenza sovietica nella regione, non ba-stava certo a giustificare questo interventismo cronico.

Non solo, ma se consideriamo il sostegno o quantomeno la complicità di cui il go-verno nazionalista sudafricano ha goduto presso i grandi Paesi democratici, dobbiamo dire che questo elemento era stato visto da diverse personalità e studiosi di politica in-ternazionale come un ostacolo alla creazione e allo sviluppo di relazioni Nord-Sud fon-date sui principi di uguaglianza e di rispetto reciproco dei Paesi interessati.

Quello che misero in luce diversi studiosi, tra cui Barbier e Désouches, è che nella questione della lotta all’apartheid non era in gioco solo la liberazione di 28 milioni di sudafricani oppressi, ma si trattava più in generale dell’insieme dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo intesi in senso simbolico. Il regime di Pretoria aveva adoperato in me-rito a tale problematica una soluzione istituzionale improponibile a livello democratico, esecrabile, in quanto metteva di fronte, per lo più all’interno degli stessi confini nazio-nali, un “Nord” ricco e prospero e un “Terzo Mondo”affamato ed esangue. Certo, quello che succedeva in modo “legale” all’estremo sud dell’Africa altro non era che «una mo-dalità estrema delle relazioni internazionali tra il Nord e il Sud»24. A tal proposito notevole è ciò che disse, a proposito delle sanzioni internazionali contro il Sudafrica, il presidente Botha nel luglio del 1986 in occasione della visita di Sir Geof-frey Howe, all’epoca Segretario di Stato britannico agli Affari Esteri e del Commonwe-alth, equivalente al nostro Ministro degli Esteri. Il capo di stato sudafricano in quell’occasione invocò, come condizione indispensabile per poter parlare di coerenza di azioni punitive nei confronti del suo Paese, la necessità di estendere tali azioni all’eliminazione su scala mondiale di tutte le manifestazioni raz-ziste, alla risoluzione della questione delle minoranze in tutti i Paesi e alla liberazione di tutti i prigionieri politici indipendentemente dalla loro provenienza. Quelle dichiarazioni sembrarono ai più un’argomentazione moraleggiante esplicitata so-lo per giustificare il mantenimento dello status quo in Sudafrica..

4. Il Sistema Atlantico

I movimenti anti-apartheid sono stati una parte del conflitto in questione. Parte che è scomponibile sicuramente in differenti elementi quali: leader di componenti razziali imprigionati o in esilio; opposizione interna all’apartheid; i diversi gruppi, par-titi, classi, organizzazioni nelle “homelands”; ma anche i movimenti all’esterno del Su-dafrica, fatti di intellettuali e organizzazioni (specialmente non-governative). Ma anche i governi ufficiali di tanti Stati possono essere annoverati a tutti gli effetti come rientranti all’interno del movimento anti-apartheid.

Non è però sicuramente facile individuare con esattezza chi all’epoca è stato vera-mente conto l’apartheid, fuori dai confini sudafricani: questo perché diversi Stati e gruppi hanno presentato le loro politiche come opposte strenuamente al regime di Preto-ria quando invece, in realtà, le cose erano differenti. Il movimento mondiale anti-apartheid, quindi fortemente composito, ci fa capire che sarebbe un errore pensare alla questione che stiamo affrontando come a una tematica solo africana. Da un lato infatti non si trattava semplicemente dell’opposizione all’apartheid interna al Sudafrica, ma di una rivolta mondiale contro il colonialismo a partire dal secondo dopoguerra; dall’altro

23 Ivi, p. 21. 24 Ivi, p. 22.

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proprio «questa rivolta mondiale aveva incoraggiato speranze e la militancy da parte dei neri sudafricani stessi, e infine reso più drammatico e tagliente il rifiuto mondiale dell’ordine imperialistico» 25 su cui si era retto il colonialismo.

Indubbiamente a molti studiosi è venuto spontaneo effettuare il paragone con il mo-vimento abolizionista anti-schiavitù che aveva raggiunto i suoi obiettivi ormai 2 secoli prima. Una delle più grandi differenze rispetto al passato è stata la portata della minaccia alla pace mondiale rappresentata da questo conflitto. Il pericolo che la guerra razziale nell’Africa meridionale sfociasse in un conflitto dalla portata e dagli effetti più ampi era davvero incombente. Le materie prime essenziali alle economie delle Grandi Potenze occidentali erano disseminate in buona parte del territorio del meridione africano, e lo stesso territorio è circondato da oceani importanti dal punto di vista strategico.

Se vogliamo, tornando al paragone schiavismo-apartheid, la liberazione delle vittime dell’apartheid ha un significato più rivoluzionario del modo in cui gli schiavi furono resi liberi- cioè tramite una “paternalistica” eliminazione di quella barbara usanza. L’abolizione della schiavitù fu essenzialmente determinata da un conflitto che metteva “contro” gruppi bianchi dominanti, mentre la liberazione dall’apartheid è stata cataliz-zata dall’impeto principale degli stessi oppressi, con gli abolizionisti a giocare un ruolo importante ma ausiliario. E certo non possiamo considerare gli eventi del Sudafrica come slegati dal resto del mondo.

Il governo di Pretoria era sicuramente parte di una rete di interdipendenze che lo rial-lacciava ad altre potenze economiche e politiche capitalistiche. Teniamo conto che in Sudafrica l’apartheid si è sviluppato in un contesto capitalistico e industriale: la separazione razziale ha permesso lo sviluppo di un mercato del lavoro a basso costo.

Il termine Atlantic System è stato usato, nell’ambito dello studio da noi affrontato, per indicare l’interdipendenza delle potenze industrializzate occidentali e la dipendenza del Sudafrica in questo sistema. Vediamo come. Il sistema atlantico è stato spesso in conflitto, a diversi livelli e con differenti intensità di scontro, con altri sistemi regionali del mondo, ad esempio con il blocco degli Stati comunisti, oppure con l’Organizzazione per l’unità Africana, ma anche con il blocco de-gli Stati produttori di petrolio rappresentati nell’OPEC. I maggiori Paesi del blocco atlantico e del sistema Sino-Sovietico erano a lungo in competizione per il controllo delle cosiddette aree periferiche.

All’interno del Sistema Atlantico, si potevano individuare aree centrali, aree semipe-riferiche ed aree periferiche. Il Sudafrica era sempre stato visto e considerato come una potenza semiperiferica del blocco occidentale, dal momento che aveva un elevato grado di dipendenza dalle po-tenze centrali quali Usa, Gran Bretagna, Germania e Francia. Il governo di Pretoria quindi fungeva come una filiale delle potenze capitalistiche occidentali nella fascia me-ridionale del continente africano. E in questa zona poteva portare avanti quell’opera di penetrazione economica tanto cara al “blocco atlantico” in funzione anti-sovietica.

Quindi possiamo ben dire che la relazione di dipendenza del Sudafrica nei confronti delle potenze occidentali poteva essere definita in diversi modi, ma in modo particolare in termini culturali, militari, tecnologici e, al livello più alto, economici. Non dobbiamo però esagerare nel considerare questo Stato, indubbiamente un pilastro economico all’interno dell’Africa subsahariana, come «una pura estensione del mondo atlantico in Africa»26.

25 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 10. 26 Ivi, p. 11.

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All’interno di questo sistema (definito quindi come Atlantic System), e anzi come parte non irrilevante della rete di interdipendenze e di relazioni che integrava il sistema stesso, noi facciamo rientrare anche quegli attori transnazionali che poi hanno fornito le basi per il conflitto. Parliamo di gruppi non-governativi fondati sulla base di interessi etnici, ideologici, ma anche di classe e di razza. Questi gruppi hanno sempre tagliato in modo trasversale i confini degli Stati, e spesso sono riusciti ad influenzare le decisioni politiche, culturali e razziali prese all’interno del sistema.

Alcuni di questi gruppi hanno agito sicuramente in stretta associazione con le politi-che ufficiali dei governi, mentre l’azione di molti altri vi si è opposta in modo diretto. Molte di tali organizzazioni non-governative per i diritti umani sono state non-violente sia a livello teorico/ideologico che dal punto di vista pratico. D’altra parte, i cosiddetti di movimenti di liberazione, pure loro agenti transnazionali, hanno racchiuso al loro interno un doppio elemento, cioè uno rivoluzionario e l’altro non-violento, e il prevalere dell’uno o dell’altro è dipeso dal frangente politico e sociale della lotta all’apartheid stessa.

5. Le ONG

Le organizzazioni non-governative svolsero un ruolo non irrilevante nell’assistere le Nazioni Unite ad identificare le ingiustizie perpetrate nei confronti delle popolazioni non-bianche e a riconoscerne i legittimi rappresentanti. Ora dobbiamo anche aggiungere che rappresentavano interessi religiosi, etnici, di razza, economici e soprattutto, è ovvio, umanitari.

Lo spettro di questi gruppi racchiudeva organizzazioni piccole ma già influenti ONG come la Lega internazionale per i Diritti dell’Uomo, unioni di lavoratori, ma anche mo-vimenti religiosi. Shepherd li definiva gli impotenti («the powerless»)27, in quanto a differenza dei go-verni che reggevano le Nazioni in cui erano stati creati, mancavano generalmente, al-meno all’inizio, di prestigio, ricchezza ma anche della forza delle armi.

Ma allora dove stava la loro forza? Certamente, nell’aver creduto fermamente nei lo-ro ideali e nell’aver voluto a tutti i costi estendere i diritti umani al maggior numero di persone possibile. Alcune delle ONG che si batterono per sostenere la lotta all’apartheid erano riconosciute in quanto direttamente associate a determinate agenzie specializzate delle Nazioni Unite; altre ebbero lo status di osservatore, che permise loro di avere ac-cesso ai meeting e agli uffici delle Nazioni Unite.

Tutte le O.N.G. impegnate in questa lotta, fossero o meno registrate presso l’O.N.U., avevano in comune il fatto di essere chiaramente non-dipendenti dai governi ufficiali, e ancor più indipendenti dal punto di vista finanziario e decisionale. Tutte attraversarono diverse fasi di sviluppo, mutarono più volte strategia e organizza-zione in base al successo o ai fallimenti delle loro attività precedenti. In effetti, molto spesso accadde che un’organizzazione si spostasse da politiche mirate a un moderato riformismo verso posizioni più forti e radicalmente favorevoli alla lotta armata o a sostenere perlomeno i movimenti di liberazione africani. Come all’epoca della lotta alla schiavitù, i conflitti non mancarono tra di loro, cioè tra un insieme, oggi diremo riformista che ricercava primariamente un cambiamento paci-fico della situazione di fatto, mentre un altro gruppo di O.N.G.-gli abolizionisti, come li definì Shepherd-era propenso già dall’inizio a domandare ai governi occidentali misure

27 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 24.

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concrete per catalizzare mutamenti totali e strutturali nella condizione socio-politica che determinava il persistere dell’apartheid.

Il ruolo che parecchie di loro giocarono nel saper influenzare, all’interno delle rispet-tive società nazionali, la direzione della politica dei loro governi richiamò un’attenzione sempre maggiore, ma nel lungo periodo ciò che sicuramente fu di gran lunga l’elemento più importante stava senza dubbio nel loro ruolo transnazionale, nel sapere in altre pa-role bypassare le politiche dei governi nazionali e portare avanti i loro ideali e le loro battaglie all’estero sino all’assise più importante, quella dell’O.N.U. É proprio questo fattore che ad un certo momento preparò il terreno per il conflitto finale tra i cosiddetti impotenti e il sistema dell’apartheid.

Il processo di decolonizzazione è stato sicuramente il maggiore precursore del movi-mento contro l’apartheid, sia perché seppe creare un dibattito e un’arena politica mon-diale nei quali i movimenti di liberazione poterono essere riconosciuti, assistiti e legit-timati, sia perché si cominciarono a produrre nuove relazioni tra le potenze dominanti ricche e gli Stati di nuova formazione, spesso assistiti dal blocco comunista.

In particolare, le società britannica e americana sono state quelle nelle quali storica-mente si è assistito alla nascita del maggior numero di organizzazioni non-governative, e questo può essere spiegato con lo storico loro interesse verso i diritti umani e il loro essere sempre stati a conoscenza degli immediati problemi della decolonizzazione, in quanto maggiori potenze atlantiche. A partire dal momento in cui nacque l’ONU, si eb-be una netta crescita di tante organizzazioni che «sostenevano e supportavano il rispetto dei diritti dell’uomo come scopo primario della loro attività»28. Come ci ha suggerito nel suo testo Shepherd, lo sviluppo di tali organizzazioni è stato analizzato e perio-dizzato secondo una ripartizione temporale in 3 periodi, e ognuno di questi periodi ri-fletteva il carattere e l’influenza di certe idee predominanti e delle stesse maggiori ONG attive in quel momento.

In particolare si ebbe un periodo iniziale di proteste focalizzato sulla richiesta di ri-forme giuridiche interne e costituzionali; il secondo periodo caratterizzato da una azione diretta e da un aumento del seguito di queste organizzazioni anche al livello di masse e di opinione pubblica; e il terzo periodo caratterizzato dal vero e proprio sostegno diretto ai movimenti di liberazione da parte delle organizzazioni non-governative.

Il primo periodo va all’incirca dalla nascita delle Nazioni Unite sino alla metà degli anni ’50, il secondo tra la metà dei ’50 e il 1960, mentre dopo l’eccidio di Sharpeville il supporto ai movimenti di liberazione si fece più diretto. Possiamo dire che mentre il conflitto si approfondiva nell’Africa meridionale, allo stesso tempo si accresceva la par-tecipazione dell’opinione pubblica e delle persone, individualmente o per gruppi, so-prattutto - si è già detto- in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e tutto questo non faceva che accrescere sempre più una certa coscienza “transnazionale”, con il conseguente gra-duale spostamento da una posizione più incline alle riforme moderate, a proposte di a-zione diretta e sostegno ai gruppi di liberazione africani, che, parallelamente a loro volta crescevano sempre più in potere e legittimazione internazionale.

Il periodo tra le 2 guerre mondiali aveva lasciato in eredità alla generazione succes-siva le basi per un interesse umanitario diffuso specialmente negli USA e nel Regno U-nito, mentre le idee che stavano dietro alla Società delle Nazioni (autodeterminazione e preparazione graduale all’autogoverno per le popolazioni delle colonie rientranti nei ter-ritori sotto mandato) avevano cominciato a svilupparsi. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, quindi il primo periodo in cui l’interesse per i di-ritti umani venne indirizzato spontaneamente verso l’organizzazione di attività transna-zionali fu caratterizzato dall’opera di individui e gruppi che riflettevano l’ottimistico li-beral-internazionalismo ( Shepherd lo definì «liberal internationalism»29) che in quegli 28 Ivi, p. 30. 29 Ivi, p. 32.

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anni sosteneva il credo e la speranza che un organismo internazionale avrebbe saputo comporre gli scontri tra i differenti interessi nazionali. Questo credo fu poi applicato an-che nella creazione dell’ONU, e portò alla convinzione che l’attuazione della Carta del-le Nazioni Unite si sarebbe realizzata tramite una decolonizzazione graduale e una cre-scente pressione per la condanna organizzata del razzismo. Relativamente all’apartheid, questa visione legalistica preconizzava la condanna univer-sale del razzismo, ma non presupponeva né voleva favorire una decisa azione contro il sistema economico e militare che lo sosteneva, in quanto questo avrebbe comportato un’opposizione netta agli interessi occidentali economici e di sicurezza.

Si pensava- o forse si sperava- invece che il cambiamento industriale nelle colonie, così come il sistema razziale sudafricano, avrebbe causato il sorgere di nuove condi-zioni di modernizzazione e fatto realizzare le riforme direttamente dall’interno di questi sistemi. Ma forse tutto ciò era davvero una semplice speranza dei governi occidentali e delle ONG, tanto più che questa concezione non faceva altro che rendere razionali e giustificare gli interessi delle potenze atlantiche occidentali ed era chiaramente attacca-bile dalle popolazioni dei territori ancora sotto dominio coloniale, dagli Stati di nuova indipendenza e dalle ONG emergenti realmente preoccupate dal non-rispetto dei diritti umani.

L’emergere in Sudafrica degli Afrikaner nazionalisti al potere e lo stabilirsi di una dottrina ufficiale dell’apartheid fu l’evento che fece cambiare le cose per gli anni a ve-nire, dando il la ai primi movimenti di opposizione pacifica. La rappresentazione orga-nizzata degli attivisti pacifisti cominciò con numerose nuove personalità e organizza-zioni, che erano pienamente motivate da reali preoccupazioni e interessi nei confronti dei diritti umani ed erano inoltre guidati da persone che «dissentivano profondamente con il prevalente gradualismo dei loro rispettivi governi ufficiali»30.Sia l’Africa Bureau che la Christian Action avevano origini che risalivano alla Anti-slavery Society, una delle prime organizzazioni contro lo schiavismo.

Negli Stati Uniti l’American Committee si era sviluppato dall’Americans for South A-frican Resistance creata da George Houser per dare sostegno e supporto al South Afri-can National Congress, e più tardi collegata al gruppo pacifista di Fellowship of Recon-ciliation (FOR). In tutti i suddetti gruppi, la leadership dominante era generalmente bianca, pacifista e di religione cristiana-protestante. Certo, tra i partecipanti non manca-vano neri e africani, che più tardi diverranno i futuri leader della resistenza, tra questi ricordiamo in Inghilterra senz’altro Kwame Nkrumah, che aveva organizzato il Con-gresso Panafricano a Manchester per poi ritornare in Costa d’Oro per guidare la Gold Coast National Convention , ma anche Hastings Banda e George Padmore, attivi nelle nuove ONG dell’epoca; negli Stati Uniti, Rustin, Sutherland e Browne furono fra i pri-mi organizzatori neri dell’American Committee on Africa. Importante certamente fu anche l’African American Institute, fondato nel 1953 a Wa-shington da ex-missionari e ufficiali di governo, che aveva carattere semi-ufficiale, in quanto buona parte delle sue risorse finanziarie derivavano dalle finanze del governo.

Queste organizzazioni furono effettivamente fra le prime a richiedere apertamente l’intervento delle Nazioni Unite e di altre agenzie internazionali contro « quello che era considerato, in quella fase, più come una violazione della dignità umana che una reale minaccia per la pace»31. Michael Scott, un ecclesiastico anglicano, fu il primo portavoce occidentale dell’Herero people of South West Africa, e riuscì ad ottenere per i popoli dei territori sotto Ammini-

30 Ivi, p. 33. 31 Ivi, p. 34.

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strazione Fiduciaria, il diritto di poter rivolgere richieste direttamente al Consiglio di Amministrazione Fiduciaria.

George Houser e un gruppo che includeva Peter Weiss, Bayard Rustin, Muste, Har-rington e altri, molti di loro connessi al Fellowship of Reconciliation, sostennero l’appello di Scott che domandava giustizia per gli africani prigionieri del sistema di apartheid. Il Canonico John Collins fu un altro pioniere di questa resistenza in Inghil-terra, anche lui un pacifista cristiano anticonformista.

La non-violenza a quel tempo era il credo anche dei movimenti di opposizione neri del Sudafrica così come di tutti i movimenti africani degli anni ’50, compreso l’ANC. Tutti i gruppi precedentemente citati potevano essere definiti transnazionali nel senso che adoperavano strutture internazionali per intercedere attivamente in nome dei diritti degli africani in Sudafrica pur avendo, chiaramente, differenti interpretazioni riguardo alle misure e alle tattiche più appropriate da usare: tutti però mettevano l’accento sull’autorità morale e giuridica delle Nazioni Unite in materie come queste, autorità che invece veniva negata dai governi interessati e dai loro supporters, fautori della visione di domestic jurisdiction così come appariva regolata dalla lettera del paragrafo 7 art. 2 della Carta ONU32.

Gli attivisti pacifisti stranieri, soprattutto dei movimenti britannici e statunitensi, fu-rono senza dubbio influenzati dal pensiero degli africani neri in esilio o emigrati con i quali essi lavorarono. In ogni caso i loro programmi partivano da quei principi che ave-vano dato vita alle procedure di risoluzione pacifica delle Nazioni Unite. Domandarono che i rappresentanti dei nazionalisti fossero ascoltati e che si discutessero le problematiche relative; le loro attese circa la velocità del cambio rivoluzionario in Sudafrica erano quelle per cui si sarebbe dovuto introdurre al più presto un governo del-la maggioranza, questo avrebbe condotto «all’abolizione completa dello sviluppo sepa-rato delle razze, nell’arco di un decennio o al massimo due»33. Houser, Scott e Collins, negli anni ’50, svilupparono un attacco al nucleo economico e militare del sistema che sosteneva l’apartheid. Un aspro dibattito allora si sviluppò non solo con i responsabili dei governi occidentali, ma anche con altri esponenti dell’opposizione all’intervento dell’ONU, tra i quali accademici sudafricani emigrati. Il clima prevalente nel mondo accademico e politico, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, era sempre contrario ad internazionalizzare la questione dell’apartheid.

L’attacco delle ONG a questo gradualismo dei governi fu marcato soprattutto da par-te dell’American Committee On Africa (ACOA) negli Stati Uniti e dall’Africa Bureau in Inghilterrra; intanto i movimenti di decolonizzazione cominciavano a farsi sentire. La dichiarazione d’intenti dell’Africa Bureau rappresentava in Inghilterra la reale pre-occupazione “degli uomini e delle donne” dei 3 principali partiti politici, e scopi dell’organizzazione erano sia quello di informare le persone inglesi (e non) riguardo ai problemi africani e riguardo le opinioni stesse degli africani, sia comunicare agli afri-cani rapporti accurati relativi agli eventi che accadevano in Inghilterra e che li riguarda-vano, nonché aiutare gli africani stessi ad opporsi alle ingiuste discriminazioni incorag-giando la cooperazione tra le diverse razze. Tra il 1956 ed il 1965 il pensiero e l’attività dell’Africa Bureau cominciò a far breccia nelle politiche inglesi, e ciò ebbe di conseguenza delle influenze presso le Nazioni Uni-te. In ogni caso il suo capo, Reverendo Michael Scott si era sempre opposto all’uso del-la forza da parte delle nazioni unite contro il Sudafrica.

32 L’art. 2, par. 7 dello Statuto ONU stabilisce che “Nessuna disposizione[…] autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato”. 33 Ivi, p. 35.

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Simili idee riflettevano il pensiero dell’American Committee on Africa, almeno agli ini-zi. La principale differenza tra le 2 organizzazioni stava nello stile più radicale dell’ACOA, anche a causa della significativa partecipazione di leader neri quali Robert Browne. Negli anni ’50 l’ACOA fu primariamente interessata all’indipendenza degli Stati africani. Il suo approccio al problema sudafricano dell’apartheid fu la sua richiesta di indagini fatta alle Nazioni Unite. Infatti nel settembre del 1955 invocò il governo degli Stati Uniti affinché supportasse il ristabilimento della Commissione ONU sulla situazione razziale in Sudafrica, cosa che le potenze occidentali ovviamente avversavano con il pretesto che questa Commissione avrebbe costituito un’interferenza negli affari interni di uno Stato in piena violazione-si è già visto - della domestic jurisdiction. L'ACOA richiese inoltre che le Nazioni Unite estendessero l’assistenza tecnica al Suda-frica e agli altri Stati africani, e allo stesso tempo espresse gran preoccupazione riguardo agli investimenti economici crescenti degli stati occidentali in uno stato razzista quale era il Sudafrica. Raccolse inoltre fondi negli Stati Uniti per difendere i leader politici a-fricani in diversi processi, come d’altronde faceva il Defence and Aid Group in Inghil-terra.

6. Anti-Apartheid Movement

Nel 1960, come già ricordato, cominciò un nuovo periodo inaugurato ignominiosamente dal massacro di Sharpeville. L’anno precedente diversi elementi dell’ANC si erano separati dal movimento in quanto ritenevano che questo esso si fosse orientato troppo in senso multirazziale, e sosteneva-no che fosse ormai necessario un approccio più forte basato su azioni di massa. Le divisioni sorte all’interno dell‘ANC derivavano anche dal fatto che nel suo establi-shment erano presenti personalità di diverse etnie e razze: e gli esponenti neri più radi-cali all’interno del movimento non pensavano che la collaborazione con Indiani, Colou-red e bianchi li avrebbe aiutati ad acquisire il controllo politico del Sudafrica. Nel 1955 infatti l'ANC aveva adottato la Freedom Charter, una Carta dei diritti che po-stulava una democrazia multirazziale: questa carta dei diritti non fece che acuire le divi-sioni all’interno del movimento, che appunto 4 anni dopo subirà la separazione ad opera di quel che si chiamerà Pan Africanist Congress (PAC) of Azania. Proprio alla fine del 1959 accadde che l’ANC aveva deciso di organizzare, per il 31 marzo dell’anno successivo, una manifestazione contro il decreto governativo dello Ur-ban Areas Act, informalmente chiamato pass law ("legge del lasciapassare"). Questa legge prevedeva che i cittadini sudafricani neri dovessero esibire uno speciale permesso se fossero stati fermati dalla polizia in un'area riservata ai bianchi. I lasciapassare veni-vano concessi solo ai neri che avevano un impiego regolare nell'area in questione. Il PAC, per non essere da meno né farsi superare in quanto d organizzazione dal movi-mento-rivale, stabilì dunque di preparare una manifestazione simile, che avrebbe dovuto aver luogo prima di quella predisposta dall’ANC, e cioè il 21 marzo. La mainfestazione, svolta di fronte alla stazione di polizia dei Sharpeville, doveva es-sere,e in realtà lo fu, assolutamente pacifica, ma venne stroncata con la forza, e in modo immotivato, dalla polizia, che, senza aver ricevuto ordini superiori, fece fuoco sui mani-festanti, uccidendone 89 e ferendone 186.

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A quel punto, in tutto il mondo «gli attivisti pacifisti, frustrati dall’apartheid (soste-nuto da un crescente investimento finanziario a da una continua complicità militare), passarono dalla non-violenza a tattiche di liberazione a supporto della lotta armata34.

L’emergere di un sostegno diretto ai gruppi di liberazione nell’Africa meridionale venne fuori dall’inasprito conflitto nella regione, specialmente nei territori portoghesi, e dall’accresciuta convinzione che il sostegno dei governi occidentali allo sforzo militare del Portogallo e del Sudafrica doveva essere fermato da un embargo delle armi e con al-tre azioni concrete, piuttosto che con mere promesse verbali da parte dei governi. In Sudafrica il crescente uso della forza e della violenza per sopprimere i movimenti na-zionalisti portò all’esilio di molti africani. Il fatto poi che i governi americano e britannico si opponessero ad ogni ricorso alla for-za contro l’apartheid o altri regimi sudafricani non fece che aggravare le tensioni. L’azione diretta divenne la nuova tattica, tramite marce e manifestazioni di massa. Nuovi gruppi, non legati a idee pacifiste e religiose, cominciarono ad entrare a far parte dei movimenti contro l’apartheid. In Inghilterra questi erano costituiti da membri della Campagna per il Disarmo Nucleare, che rappresentava universitari, sindacati, un gran numero di giovani e l’ala radicale del Partito Laburista, il Partito Comunista e altri gruppi marxisti.

L’Anti-Apartheid Movement, formato nel 1950 in Inghilterra da tutti questi elementi, divenne molto presto «l’agenzia centrale di coordinamento per le campagne di azione diretta, che operavano una pressione continua sulle politiche britanniche e sostenevano la posizione della maggioranza delle Nazioni Unite L’ideologia di fondo era ancora quella di un attivismo pacifico, ma gruppi più giovani e radicali portarono al suo interno una idea di “liberazione” che presupponeva dimostrazioni, boicottaggi, scioperi, ma an-che disobbedienza civile. Fu così che in Inghilterra si ebbero azioni di massa quali le dimostrazioni contro le armi negli anni ’60 e ’70 nonché l’azione ampiamente diffusa contro il razzismo nello sport, che sfociò nel «Stop the Seventy Tour campaign»35, campagna poi ampiamente allargata dalla rete anti-apartheid36.

La leadership del Movimento Anti-Apartheid(AAM) era stata frequentemente carat-terizzata dalla presenza di esuli bianchi sudafricani. Il principale elemento non-bianco tra gli esuli era Abdul Minty, un Indiano esiliato dal Sudafrica e residente nel Regno Unito dal 1957. Se chiaramente l’azione dei movimenti di liberazione africani ebbero un ruolo attivo nel lavoro dell’AAM, gli africani che stavano in Inghilterra e appartenevano a questo movimento, almeno inizialmente, avevano un seggio e possibilità di intervento all’interno del comitato organizzativo, organo costituito da 150 persone, ma non pote-vano partecipare alle votazioni interne. Certo, molti africani del movimento avrebbero gradito avere un ruolo più importante, ma nonostante tutto accettavano la situazione di fatto in quanto sapevano che il dominio della presenza bianca era giustificata dalla ne-cessità di fare appello ad un elettorato a schiacciante maggioranza bianca. La limitata partecipazione, all’interno del movimento, degli elementi britannici non-bianchi, deri-vava tanto dall’atmosfera paternalistica che caratterizzava, secondo Shepherd, le politi-che razziali inglesi di quel nuovo periodo, quanto dai timori degli stessi immigrati. In ogni caso, nonostante l’importanza di ex-sudafricani quali Ethel de Geyser, Ronald Segal, Ruth First e Abdul Minty nella gestione dell’AAM, essi «sarebbero stati impo-tenti senza la sostanziale rappresentanza, nell’opera attiva del movimento, di ecclesia-stici britannici, tra cui vescovi, ma anche dei sindacati, dei docenti universitari, nonché

34 Ivi, p. 36 35 Ivi, p. 38 36 Ibidem. La campagna “Stop the Seventy Tour”, ideate dal liberale inglese Peter Hain, aveva come sco-

po quello di ostacolare il tour che le nazionali sudafricane(bianche,ovviamente) di cricket avrebbero dovuto fare nel Regno Unito durante le estati del 1969 e 1970.

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di parlamentari sia laburisti sia liberali. La loro presenza mostrava la crescente politiciz-zazione della questione dell’apartheid all’interno della società britannica»37. Da ricordare anche che un gruppo associato strettamente all’Anti-Apartheid Movement era l’International Defence and Aid Fund, che era la principale agenzia per la raccolta di risorse finanziarie da destinare ai gruppi di liberazione , e in particolar modo a favore di quelli impegnati contro l’apartheid, e come scopo principale aveva quello di raccogliere fondi per l’assistenza legale delle persone di tutte le razze sotto processo per tradi-mento.

La penetrazione del pensiero dell’AAM all’interno di altri gruppi, più grandi e legati all’establishment socio-politico-quali erano i Partiti Laburista e Liberale,la stampa,la Chiesa Anglicana e quella Cattolica- era la parte più efficace della sua attività. Infatti, molte personalità in quelle aree della vita britannica furono perlomeno influenzate dall’AAM, sebbene non volessero essere troppo direttamente associate ad esso o perché non ne condividevano esattamente tutti punti di vista oppure perché lo ritenevano por-tatore di un’immagine “radicale”.

La stampa britannica, molto sensibile alla tematica dell’apartheid, aveva un punto di vista che,seppur pronto a denunciare il razzismo,era alquanto gradualista e poco pro-penso ad invocare l’azione diretta in favore della liberazione. Ad ogni modo, la visibi-lità concessa dagli organi di stampa britannici permise all’AAM di estendere presto la sua influenza in strati della società inglese non ancora toccati dai corrispondenti gruppi anti-apartheid USA all’interno della società statunitense.

37 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 38.

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Capitolo II. La politica estera dell’apartheid.

1. La politica nazionalistica sudafricana del dopo-guerra.

Il periodo tra il 1948 e il 1959, a cui per praticità possiamo far riferimento con l’espressione “anni ‘50”, vide i maggiori sviluppi relativamente agli affari internazio-nali. La Guerra Fredda raggiungeva il suo apice, e in Africa le potenze coloniali, con l’eccezione del Portogallo, cominciavano a spostare le loro politiche verso un sempre più probabile ritiro. Era un periodo in cui dominava la rivalutazione delle posizioni europee in Africa, ma anche di crescente incertezza nel continente. Dal punto di vista del Sudafrica però quel lasso di tempo fu caratterizzato da una certa coerenza politica dal momento in cui il nuovo governo si stabilì al potere. Il cambio al governo arrivò con la vittoria alle elezioni del 1948 riportata dal National Party. Come si è già avuto modo di dire quella fu «una vittoria di stretta misura e, per certi versi sorprendente e inaspettata anche per molti sostenitori del Partito Nazionalista »38. Negli anni immediatamente successivi alle elezioni del 1948 ci fu all’interno dell’Unione una discreta incertezza e una palpabile tensione, mentre il nuovo governo cercava di rendere più stabile il suo potere. Ma a partire dalla metà degli anni ’50, e ancor di più dalla fine dello stesso decennio, le cose sarebbero cambiate. Infatti i Nazionalisti, con 2 ulteriori e sostanziali vittorie elet-torali (1953 e 1958), riuscirono ad affermarsi come il vero partito al governo del Suda-frica: pensiamo alle elezioni del 1958, nelle quali il National Party ottenne 103 seggi parlamentari contro i soli 53 del secondo partito, lo United Party (UP).

In opposizione allo United Party, i Nazionalisti avevano sempre criticato Smuts per aver concentrato troppo le proprie energie e la propria attenzione sugli affari internazio-nali, perciò, quando loro salirono al potere, posero come interesse principale quello per gli affari interni all’Unione, quindi l’introduzione delle politiche del National Party all’interno del Sudafrica e rendere più saldo il controllo sul governo da parte del partito. In parte a causa degli impegni presi nei confronti della situazione interna, in parte a cau-sa del fatto che le opzioni internazionali aperte al Sudafrica si stavano progressivamente restringendo , gli obbiettivi di politica estera divennero sempre meno pretenziosi e sem-pre più strettamente legati alle politiche interne.

Gli interessi personali del Dr. D.F. Malan e di Mr. Johannes Strijdom, i primi due Primi Ministri Nazionalisti del dopoguerra, rifletterono il cambio di enfasi che si ri-scontrò nella politica sudafricana. Se come carattere i due non si rassomigliavano certo( Malan piuttosto calmo e ricco di charme, Strijdom diretto e aggressivo), entrambi avevano i maggiori interessi nella si-tuazione interna all’Unione. Certo è però che, per via del loro incarico e della costante interazione tra politica estera e interna, essi ebbero un ruolo significativo anche negli affari esteri.

38 J.Barber, op. cit., p. 45.

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Nel 1955 Strijdom compì l’importante passo di separare le cariche di Primo Ministro e di Ministro per gli Affari Esteri, nominando conseguentemente Eric Louw come Mini-stro allo stesso dicastero. Louw arrivò a quell’incarico con un notevole bagaglio di esperienza diplomatica che ri-comprendeva un periodo di rappresentanza alle Nazioni Unite. Era un uomo fiero e determinato, un sincero difensore delle politiche del governo, ma al tempo stesso era un tipo sempre pronto ad attaccar briga. È stato a lungo dibattuto, e forse lo è ancora oggi, se il suo stile militante e aggressivo e la veemenza con cui diceva agli altri in cosa sbagliassero, abbia aiutato o meno la causa sudafricana al cospetto del resto del mondo. Si è detto di lui che « lui vinse ogni battaglia ma perse tutte le campagne »39. A onor del vero va detto che Louw era dotato di una grande abilità nel sostenere qualsi-asi dibattito, e seppe guadagnarsi un grande rispetto all’interno del Dipartimento per gli Affari Esteri, e riuscì a portare una ventata di passione ed entusiasmo all’interno dello stesso Dipartimento, che altrimenti avrebbe probabilmente sofferto una perdita di fidu-cia a causa della costante pressione internazionale a cui era sottoposto.

Alla morte di Strijdom, divenne Primo Ministro dell’Unione Hendrik Verwoerd. Quest’ultimo mantenne la separazione tra l’incarico di Primo ministro e quello di Mini-stro per gli Affari Esteri lasciando al suo posto Louw sino alla morte di questi, avvenuta nel 1964, quando fu nominato Ministro Hilgard Muller. Il Primo Ministro in quel momento era un uomo dotato di un’immensa energia e di una buona dose di autostima, e giocò una parte dominante e centrale negli affari internazio-nali così come in tutte le altre sfere di governo.

Mentre le differenti personalità dei leader Nazionalisti ebbero un ruolo nel dare for-ma alla politica, il loro interesse comune,la preoccupazione che li accomunava tutti e li rendeva poco dissimili dai leader dello United Party che avevano governato prima di lo-ro, restò sempre quello della difesa della società bianca. E questo elemento comune si rifletté nel comune porsi di questi leader rispetto alla po-litica estera del Sudafrica. Addirittura Barber afferma che « non ci fu alcun cambiamento nel momento in cui il NP per la prima volta salì al potere »40, e l’argomento maggiormente proposto in tal senso (ma non sostenuto da Barber) è che Malan si interessò poco agli affari esteri,che non operò nessun gesto “drammatico” o spettacolare come per esempio l’abbandono del Commonwealth, che mantenne al loro posto anziani ufficiali e funzionari che avevano servito Smuts, e che quindi per questi motivi non ci fosse stato alcun cambiamento negli indirizzi di politica estera . Barber afferma invece che se si può essere d’accordo sul fatto che i cambiamenti non furono certo spettacolari, questi potevano essere rilevati, e anche dall’inizio. Si trattava di cambiamenti che derivavano non solo dalla situazione internazionale sem-pre più ostile, ma anche dagli obbiettivi e dagli ideali del National Party che venivano realizzati all’interno dell’Unione.

Il National Party , se da una parte aveva sempre reclamato una assoluta divisione tra bianchi e non-bianchi dall’altra si impegnò sempre più, in quanto partito prevalente-mente Afrikaner, a perorare la causa dei sudafricani discendenti dei Boeri. E sicuramente le politiche del governo nazionalista , in quanto riguardavano le relazioni tra le due comunità bianche, creavano amare dispute all’interno dell’Unione. Mentre dal punto di vista internazionale, l’attenzione principale della platea mondiale era concentrata certamente sulla struttura razziale del Sudafrica. Al contrario di Smuts, il NP non fu mai accusato di ipocrisia per aver ad esempio ap-poggiato solo a parole la cooperazione razziale mentre praticava discriminazione e se- 39 Ivi, p. 46. 40 Ivi, p. 47.

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gregazione. Tutt’altro,non ci furono mai dubbi riguardo agli scopi e ai principi del par-tito. Ma questo rifiuto di cercare compromessi e la mancanza di flessibilità resero molto più difficile il compito di trovare alleati a livello internazionale. “Apartheid” divenne parte del vocabolario politico internazionale dal momento che i problemi razziali dell’Unione venivano interpretati in un palcoscenico ormai mondiale. Le azioni del governo mirate alla segregazione e alla discriminazione cominciarono ad essere sempre più diffusamente riportate. Così come veniva data sempre più attenzione, all’estero, agli oppositori del governo, come Albert Luthuli41, o come ecclesiastici anglicani come Huddlestone e Michael Scott, che guadagnarono una discreta fama internazionale. Ci fu inoltre una diffusa simpatia internazionale nei confronti dell’Africa National Con-gress che aveva organizzato una campagna di resistenza passiva nel 1952 e un boicot-taggio delle scuole nel 1955 per protestare contro il Bantu Education Act del 1953. Ma anche i personaggi bianchi e non-bianchi contro i quali il governo agì si guadagna-rono quel sostegno internazionale che derivava loro dai bandi di cui furono fatti oggetto in Sudafrica, ma anche dai processi sommari e celebri come il Treason Trial42, che durò ben 5 anni.

Le reazioni internazionali ostili esasperarono i ministri sudafricani, uno per tutti Eric Louw. Egli accusò i giornalisti stranieri e i responsabili delle trasmissioni giornalistiche «di dare immagini false e distorte del Sudafrica»43. Il governo cercò di contrastare l’immagine negativa del Paese che veniva trasmessa all’estero con i suoi servizi di informazione, e fu così che lo State information Office venne trasferito dal Ministero degli Interni al Dipartimento per gli Affari Esteri. Dalla parte del governo le voci parlavano di un Sudafrica usato come bersaglio interna-zionale(«international butt»)44, e i responsabili governativi si rifiutavano di credere che l’ostilità e l’opposizione internazionale fossero veramente basati su principi saldamente radicati, e tendevano a spiegare questi atteggiamenti ostili nei confronti del Sudafrica in termini di opportunismo. Il governo accusò i nuovi stati afro-asiatici di voler attaccare il Sudafrica per distogliere l’attenzione internazionale dai difetti e dalle debolezze che in realtà li affliggevano.. E soprattutto si accusarono, sempre da parte governativa, i “vecchi” Stati di assecondare queste critiche non perché essi concordassero con esse, ma semplicemente perché que-ste stesse critiche erano adatte ai loro interessi, mirati ad attirarsi le simpatie (econo-mico-politiche) dei paesi di più recente formazione.

Il National Party era sempre incline a generalizzare le posizioni dei suoi avversari politici, così da poterli raggruppare tutti all’interno della categoria di «comunisti o sim-patizzanti comunisti»45. Non appena giunse al potere, il governo nazionalista creò un comitato per investigare sul comunismo all’interno dell’Unione. Commentando i risultati di quel comitato, C.R. Swart, l’allora Ministro della Giustizia, disse che il comunismo era «un pericolo che minacciava la vita nazionale, le loro demo-cratiche istituzioni e la loro filosofia occidentale»46. La relazione finale del comitato ebbe presto il suo corollario: il Suppression of Commu-nism Act del 1950. A partire da questo provvedimento, il Partito Comunista sudafricano

41 Albert John Lutuli, fu un importante uomo politico sudafricano, insegnante, e presidente dell’ANC per 15 anni dal 1952 al 1967. 42 Il Treason Trial fu il celebre super processo nel quale 156 persone(tra cui Nelson Mandela) furono ar-restate in seguito a un raid in Sudafrica e accusate di tradimento, nel 1956. 43 J.Barber, op. cit., p. 53. 44 Ibidem. 45 Ivi, p. 53 46 Ivi, p. 54.

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e le altre organizzazioni che fossero state colte in attività di promozione del comunismo sarebbero state dichiarate fuorilegge. Definizioni molto larghe furono date ai termini di “comunismo” e “comunista”, sino ad arrivare alla categoria che nei tribunali veniva chiamata “statutory Commu-nism”(comunismo definito dalla legge). Questo statutory Communism «associava al comunismo ogni dottrina o atto i cui scopi erano quelli di apportare cambiamenti politici,industriali, sociali o economici all’interno dell’Unione sudafricana attraverso la promozione di azioni di disturbo o disordini, o at-traverso atti punibili per legge, o per mezzo di omissioni, o per mezzo della semplice minaccia di tali atti od omissioni, o attraverso qualunque mezzo che includesse la pro-mozione di tali disordini, minacce, atti od omissioni»47.

La visione di un comunismo penetrante e dilagante poteva essere addirittura rassicu-rante per i sudafricani bianchi, e infatti era accettata da molti membri dello United Party e dello stesso National Party: se era possibile credere (e molti bianchi appunto, vole-vano crederlo) che una forza maligna operasse per minacciare il Paese - una forza in cui magari ricomprendere insieme oppositori interni, stati del blocco comunista, stati del blocco afro-asiatico, elementi liberali e di sinistra degli Stati occidentali- allora era più facile giustificare l’ampiezza e la forza di questa ostilità nei confronti del Sudafrica. Fatto ancora più rassicurante, per quella parte cospicua della popolazione bianca che credeva in questo “comunismo allargato” pronto a distruggere l’assetto globale della Nazione,era che se l’opposizione non-bianca interna al Sudafrica poteva essere asso-ciata al comunismo, nessuna richiesta o necessità di revisione radicale del sistema so-ciale nazionale poteva né doveva essere presa in considerazione. Questa visione aveva contribuito a razionalizzare e a rafforzare la determinazione dei bianchi, facendo credere loro ancor di più che le difficoltà interne del Sudafrica non e-rano da attribuire a loro proprie colpe, bensì a forze sovversive esterne. «“I non-europei in questo Paese” -disse una volta Malan- “sono incitati, e lo sono deli-beratamente, non solo da parte dei comunisti, ma anche dai liberali,e questo avviene dall’estero”»48.

Secondo Barber, i Sudafricani(bianchi) avevano anche sperato che la loro posizione fermamente anticomunista avrebbe attirato loro il sostegno degli stati occidentali. Ma al massimo questa speranza fu solo parzialmente soddisfatta. Anche durante gli anni ’50 gli sviluppi interni in Sudafrica furono fortemente criticati e le potenze occidentali divennero sempre più restie ad associarsi strettamente all’Unione. Dal punto di vista interno il National Party affermava che l’apartheid era l’unica solu-zione possibile per i “dilemmi razziali” del Sudafrica, ma mentre il partito si difendeva dagli attacchi internazionali, allo stesso tempo cercava catturare l’attenzione sul fatto che «l’apartheid non fosse una nuova politica, e che semplicemente aveva razionalizzato e regolato quelle distinzioni razziali che erano state precedentemente accettate sia all’interno del Sudafrica che da altri Stati»49. Perché allora, si chiedevano i Nazionalisti, si doveva essere condannati per aver perse-guito politiche precedentemente accettate?

Ovviamente lo United Party contestava questa interpretazione. Essi avevano ben definito ciò che per loro era la chiara distinzione tra le loro politiche e quelle che venivano perseguite dal National Party al governo. Loro erano certamente più pragmatici, meno impegnati a seguire una impostazione dot-trinaria rigida , e più desiderosi di guadagnarsi l’”accettazione” internazionale di quanto non fossero i Nazionalisti.

47 Ibidem. 48 Ibidem. 49 Ivi, p. 55.

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Per questo i membri dello UP argomentavano che essi avrebbero potuto arrestare il cre-scente isolamento internazionale. Probabilmente a causa della sua maggiore flessibilità lo United Party avrebbero fatto concessioni sulle questioni razziali, concessioni che forse avrebbero ammorbidito le po-sizioni critiche di alcune potenze occidentali. E forse, per via dell’importanza che il partito di opposizione dava ai legami con la Gran Bretagna e con il Commonwealth, lo UP sarebbe stato pronto ad eventuali cambiamenti per quanto riguarda le politiche interne pur di mantenere questi legami internazionali. Inoltre, i legami forti del partito con gli interessi commerciali internazionali gli avreb-bero consentito di avere degli interlocutori internazionali più comprensivi tra le potenze occidentali e lo avrebbero spronato a cercare una maggior cooperazione internazionale. Ma anche tenendo conto di questo, qualsiasi concessione che fosse stata accettabile per lo UP non avrebbe comunque saputo soddisfare neppure le più moderate richieste inter-nazionali e avrebbe solamente ottenuto di posticipare l’ostilità diplomatica internazio-nale contro il Sudafrica.

Le distinzioni che lo United Party aveva segnato tra sé e il governo del National Party erano irrilevanti al cospetto delle richieste dei loro principali critici internazionali. Entrambi i partiti erano legati al dominio della minoranza bianca. Quello che si richiedeva al governo dall’estero era non una rettifica qui e una riforma là, ma un radicale cambiamento nella società sudafricana. E il governo nazionalista non tardò a comprendere la debolezza della posizione degli oppositori. Nel maggio del 1957 quando de Villiers Graaf, leader dello United Party, at-taccò il governo per aver condotto il Sudafrica nell’isolamento internazionale per mezzo di politiche rigide ed ideologiche, Strijdom rispedì al mittente critiche ed accuse rispon-dendo:

« La politica ideologica a cui il mondo esterno porta le sue critiche è quella per cui noi non concederemo l’uguaglianza politica tra bianchi e non-bianchi. Questo è quello che loro ci chiedono. Loro dicono che noi non dovremmo trattare in modo diverso per leg-ge o in altro modo il bianco e il non-bianco. La nostra politica prevede che per proteggere l’uomo bianco sono necessarie queste leggi discriminatorie, per esempio riguardo alle con-cessioni, e questo per rimettere il potere di guidare il Paese nelle mani dell’uomo bianco, cosicché lui possa mantenere la sua supremazia»50

Poi Malan chiese allo United Party: « Si oppongono a questa legislazione discriminatoria che- io dico - ha l’effetto di mante-nere nelle mani degli uomini bianchi il potere di governare il Paese- perché questa è una legislazione discriminatoria?...Vorranno loro abrogare per esempio la legislazione del 1936 e reintr.odurre i nativi all’interno delle liste elettorali comuni? E se loro dicono di essere preparati a far questo, io chiedo quale sia allora la differenza tra quel partito e noi. Se noi siamo ingiusti nei confronti dei non-bianchi a tal riguardo, non lo sarebbero perciò anche loro?» 51.

2. Il Sudafrica in un mondo diviso

Analizziamo ora la posizione del Sudafrica nello scacchiere mondiale di quel periodo. Con la sua forte opposizione al comunismo,il governo sudafricano era incline ad inter-pretare la politica internazionale dell’epoca come una lotta politico-ideologica tra il co-munismo e l’anti-comunismo.

50 Ivi, p.56 51 Ibidem.

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Certamente questa era una interpretazione della situazione politica internazionale molto diffusa all’epoca della guerra fredda, ma per essere applicata al caso specifico del Suda-frica bisogna far riferimento ad un insieme specifico di credenze e convinzioni politi-che, che pochi altri governi condividevano. In ogni caso i sudafricani persistettero nelle loro pretese, facendo appello al sostegno e alla simpatia degli occidentali. Tra le altre cose che sostenevano vi era il fatto che « l’ostilità degli stati afro-asiatici era un riflesso diretto dell’influenza comunista »52, e che i territori coloniali erano così vul-nerabili all’infiltrazione comunista che -sempre secondo il governo nazionalista bianco- era necessario usare la più grande cautela nel concedere l’indipendenza a quegli stessi territori.

La paura del governo sudafricano di una possibile eversione comunista portò a una rottura nelle relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica nel 1956. I Russi avevano chiuso le loro ambasciate, e per tutta risposta i rappresentanti sudafri-cani vennero richiamati da Mosca. In una dichiarazione alla House of Assembly, il ministro degli Esteri Louw accusò i So-vietici di aver incoraggiato l’eversione e il malcontento all’interno dell’Unione e di es-sersi fatti beffe delle leggi interne sudafricane53. In particolare, le denunce andavano dall’aver contattato gruppi sovversivi all’aver orga-nizzato feste(drinks parties) per gruppi razziali misti. Qualche mese dopo, Louw parlò della diffusione delle attività sovietiche in Africa. Disse che i Russi si erano già infiltrati in Nord Africa e in Etiopia, che avevano già fatto diverse proposte di apertura al Ghana, fomentato disordini in Nigeria che stavano esten-dendo più in generale le loro attività trami tele loro ambasciate e la propaganda radiofo-nica. Il grande timore era che questa attività si potesse estendere anche al Sudafrica non-bianco. Secondo Malan il comunismo era un pericolo doppio per il Sudafrica, e in Sudafrica po-teva essere più distruttivo che altrove non semplicemente per la sua ideologia, ma per-ché esso faceva appello specificamente alla popolazione non-bianca del Paese,e sempre secondo il Malan « se i comunisti ottengono ciò che vogliono relativamente alla popola-zione non-bianca del Paese, le campane risuoneranno a lutto per la civiltà bianca in Su-dafrica »54. Le relazioni del Sudafrica con gli Stati comunisti furono ostili e univoche. I comunisti replicarono alle accuse sudafricane definendo l’Unione la “homeland del neo-fascismo” e il suo governo “nazista”55.Da quel momento nessuna delle due parti si aspettò più (né ovviamente ricevette) cooperazione o anche solo dimostrazioni di com-prensione dall’altra. Dopo aver rotto le relazioni diplomatiche con l’URSS, il Sudafrica non ebbe più contatti diplomatici diretti con gli stati comunisti al di fuori delle Nazioni Unite, organismo in seno al quale essi erano tra i principali critici del regime di Pretoria.

Le attitudini dei sudafricani bianchi nei confronti del gruppo di Stati definito vaga-mente “Afro-asiatico” erano caratterizzate de paure radicate nella loro stessa società. I nuovi stati rappresentavano, all’interno della comunità internazionale, la cronica paura di una sfida portata dai non-bianchi alla continua supremazia bianca all’interno dell’Unione. Il Governo sudafricano rigettava in modo persistente l’accusa secondo la quale in Sudafrica vi era una situazione essenzialmente coloniale,e si lamentava dell’inesperienza e dell’immaturità dei nuovi Stati.

52 Ivi, p. 57. 53 House of Assembly, 1 febbraio 1956. Altre ambasciate, incluse quelle USA e britannica, erano state criticate, di tanto in tanto, dal governo sudafricano per aver organizzato feste dello stesso tipo. 54 House of Assembly, 25 gennaio 1951. 55 J. Barber, op. cit., p.58

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A titolo di esempio si riporta ciò che Malan una volta si chiese: « Quale sarebbe la si-tuazione di qualsiasi famiglia oggi se i bambini e gli adulti venissero trattati in tutto e per tutto sullo stesso piano?»56. Malan quindi paragonava i nuovi stati, quelli cioè di nuova indipendenza, a dei bambini che, senza esperienza all’interno della comunità in-ternazionale,avrebbero solamente mantenuto attiva una continua campagna tesa a inco-raggiare il malcontento tra i non-bianchi all’interno dell’Unione. Secondo il governo nazionalista, il messaggio che continuamente veniva trasmesso ai sudafricani non-bianchi era quello per cui essi(i non-bianchi) erano oppressi e i loro di-ritti negati,per cui essi avrebbero dovuto resistere e organizzarsi contro il continuo do-minio della minoranza bianca.

Quando Eric Louw arrivò a Londra per la Conferenza Economica del Commonwe-alth nel novembre del 1952, egli affermò che tutti i disordini causati in Africa erano del-lo stesso tipo, e associò i Mau Mau del Kenya ai più recenti disordini che colpivano la Rhodesia del Nord. Disse che le cause principali di quei problemi andavano ricercate nell’incoraggiamento che gli Africani avevano ricevuto dalle Nazioni Unite, dai cosid-detti “liberals” europei e statunitensi, dai socialisti britannici e da uomini di chiesa mal consigliati. Lo stesso Louw affermava che i comunisti e la loro propaganda avevano in-fluenzato tutte quelle persone, e asseriva che « i critici del Sudafrica in Inghilterra e ne-gli Stati Uniti venivano usati come strumenti dall’India, per vendetta contro il Sudafrica e per la promozione del suo scopo di assicurarsi uno “spazio vitale” in Africa per i suoi miseri e affamati milioni»57.

Ovviamente era impossibile essere d’accordo e restare coerenti con tali semplicisti-che argomentazioni, e infatti in diverse occasioni altri Ministri del governo avrebbero in seguito per lo meno fatto delle distinzioni all’interno dei gruppi internazionali che si opponevano alle loro politiche razziali, correggendo in parte le affermazioni di Louw. Quando le politiche razziali stesse non occupavano la mente dei responsabili del go-verno, i ministri nazionalisti discutevano per cercare di attrarre gli stati afro-asiatici nel blocco non-comunista. Anche nel caso dell’India, Malan portò come una delle sue ragioni a favore del mante-nimento della partecipazione dello Stato asiatico al Commonwealth, la necessità di man-tenere la sua amicizia nei confronti dell’Occidente. Certamente c’erano particolari circostanze che permettevano di spiegare l’entusiasmo di Malan per la continuata partecipazione dell’India al Commonwealth, ma in ogni caso egli affermò pubblicamente che « nella battaglia tra Est ed Ovest é importante mante-nere la fiducia degli Indiani»58. Più tardi Malan arrivò addirittura a dire che l’India, come il resto del mondo, stava al-lora prendendo posizione insieme ai Paesi anti-comunisti, e che il gigante asiatico guar-dava al comunismo in Asia come a un pericolo, allo stesso modo in cui lui e l’Occidente- queste erano le parole del Premier sudafricano- guardavano al comunismo veramente come a un pericolo.

Se da una parte il governo sudafricano vedeva i comunisti e gli Stati afro-asiatici come naturali avversari, allo stesso modo essi vedevano gli Stati occidentali come natu-rali alleati. Questi Stati erano certamente anti-comunisti; molti di loro avevano posse-dimenti coloniali; e in fin dei conti era nell’Europa Occidentale che il Sudafrica aveva le sue radici. Nel 1951, Malan disse che il Sudafrica era un «Paese che condivide la civiltà dell’Europa occidentale, e noi vogliamo tutelarla»59.

56 Ibidem. 57 The Times, 25 Nov. 1952, in J. Barber, op. cit., p. 59. 58 J. Barber, op. cit. , p. 59. 59 Ivi, p. 60.

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Disse inoltre che gli interessi e i pericoli che l’Europa occidentale e il Sudafrica ave-vano di fronte erano identici, per cui era doveroso per essi lavorare insieme come “ami-ci intimi”.

I sudafricani bianchi non esitarono mai nel rivendicare un’identità occidentale. L’Unione era profondamente integrata nel sistema economico occidentale, era un alle-ato convinto anche se un po’ periferico durante il periodo della Guerra Fredda, c’erano legami di sangue e cultura accettati da alcuni europei occidentali, e c’erano inoltre sim-patia e comprensione tra le potenze coloniali nei confronti dei problemi che il Sudafrica aveva nel dover governare razze diverse di uomini. Ma il Sudafrica, in realtà, non si integrò mai completamente all’interno del blocco occi-dentale. Si trovava alla periferia, geograficamente parlando, del mondo occidentale, era afflitto da problemi razziali unici, ed era una realtà poco capita da parte di molti Stati. Se in un certo senso questo Paese rappresentava sicuramente un alleato prezioso, spe-cialmente per uno Stato come la Gran Bretagna che aveva degli interessi in Africa meri-dionale e sugli oceani circostanti, in un altro senso esso era innegabilmente..un alleato imbarazzante. Per gli stessi sudafricani l’identificazione con l’Occidente avveniva in modo alquanto cauto e selettivo. Per esempio, essi non avevano per niente simpatia nei confronti dei movimenti socialisti, né verso quelli “liberal”,né rispetto ad altri sviluppi culturali della società occidentale, specialmente la sua tolleranza e le sue attitudini mutevoli nei con-fronti della razza e dei suoi problemi.

Ancora una volta occorre dire che erano le politiche razziali interne del Sudafrica le responsabili dell’imbarazzo e della crescente alienazione dall’Occidente. Le teorie razziali naziste avevano lasciato al mondo intero un’eredità di disgusto per tut-te quelle idee e politiche basate su rivendicazioni di superiorità razziale. I sudafricani bianchi avrebbero potuto provare a convincere gli altri Stati occidentali che le circostanze in cui si trovavano loro erano molto differenti da quelle dell’Europa, che non era giusto giudicare il Sudafrica senza comprenderne appieno la situazione unica e tipica solo di quella realtà. Ma i giudizi venivano comunque “emessi”, e per di più dive-nivano progressivamente più critici. Questo causava rabbia e frustrazione. Malan disse nel 1954 parlando di fronte alla House of Assembly:« Ci si accorge oggi che nel mondo, specialmente in Inghilterra, è presente uno stomachevole sentimento nei confronti dell’uomo nero..Loro venerano una pelle nera »60.

I critici del Sudafrica non permisero mai agli Stati occidentali di scordarsi del Suda-frica e delle sue politiche razziali. La causa contro il regime di Pretoria veniva presen-tato come una questione morale ben definita. Ogni Stato doveva uscire allo scoperto. Il compromesso non era possibile, nel senso che chi non era contro l’apartheid era da considerarsi a favore. Nel 1951 il delegato indiano alle Nazioni Unite disse che se le po-litiche discriminatorie del Sudafrica avessero continuato a prosperare liberamente senza censura da parte delle democrazie occidentali, i popoli africani ed asiatici avrebbero po-tuto benissimo dar poco credito al desiderio-ammesso dall’Occidente- di unire i popoli per la pace e di realizzare la sicurezza collettiva basata sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

Immediatamente, dall’inizio del dopoguerra, le potenze occidentali si ritrovarono in-trappolate in questo dilemma, e questo non faceva che complicarsi con il tempo. Per quelle potenze ed in particolar modo per il Regno Unito, il problema persistente era quello di bilanciare il senso crescente di indignazione morale al cospetto delle politiche razziali dell’Unione, con gli interessi esistenti e tangibili, in particolare quelli econo-mici. Si trattava di un’inestricabile interazione di valori, attitudini e interessi.

60 Ivi, p. 61.

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Per molti degli oppositori del Sudafrica, la riluttanza da parte degli Stati occidentali, a impegnarsi direttamente in azioni contro l’Unione poteva essere spiegata quasi intera-mente dagli interessi economici. Dalla loro parte gli Stati occidentali esprimevano spesso comprensione nei confronti delle questioni morali sulle quali le politiche del Sudafrica venivano attaccate, ma se-condo loro quegli attacchi venivano spesso fatti in termini troppo emotivi ed estremi, e mai si traducevano in suggerimenti pratici per un’azione concreta. In più, le potenze occidentali condividevano l’approccio-diremmo noi di tipo “legali-stico”- del Sudafrica alle questioni internazionali, approccio che enfatizzava il mante-nimento dello status quo. Esse ponevano l’accento sul fatto che le procedure di una di-sputa, oltre che la sostanza, erano importanti. Allora cercarono di bilanciare la loro indi-gnazione morale con il desiderio di mantenere l’ordine, la stabilità e una condotta ac-cettata da tutti. Cioè, esse introdussero all’interno degli “affari internazionali” la carat-teristica ricerca del compromesso e del consenso. Mentre da una parte tentavano di mi-tigare gli attacchi che sempre più spesso venivano portati al governo sudafricano, dall’altra cercavano continuamente di persuadere lo stesso governo a correggere le sue politiche. In una situazione che era fortemente polarizzata, la politica delle potenze occidentali dava l’impressione di essere ambivalente ed incerta, con il risultato di causare risenti-mento e diffidenza sia tra i sudafricani, sia tra gli oppositori più aggressivi di Pretoria.

All’interno del blocco occidentale, le relazioni del Sudafrica con il Regno Unito ri-masero sempre le più importanti per i Nazionalisti al potere. Per questi ultimi si trattava di una questione confusa, complessa, un rapporto di amore-odio nel quale atteggiamenti del passato si mescolavano liberamente con giudizi del presente. I tradizionali sospetti e le ostilità dei Nazionalisti nei confronti della Gran Bre-tagna furono mitigati dal fatto che essa era in fin dei conti sì un “male”per certi versi,ma almeno non un male sconosciuto:essa infatti aveva un ruolo importante nella vita eco-nomica e culturale del Sudafrica. Inoltre, nel 1950 la Gran Bretagna non era ancora una potenza fisicamente remota: le colonie britanniche erano sparse in tutta l’Africa meri-dionale(gli High Commission Territories, ma anche le Rhodesie il Nyasaland che poi costituirono la Federazione dell’Africa Centrale nel 1953). Il fattore imperiale britanni-co era ancora una solida realtà in Africa meridionale.

Nonostante il sospetto e il risentimento che si mostravano da entrambe le parti, la Gran Bretagna fu probabilmente l’alleato diplomatico più affidabile del Sudafrica du-rante gli anni ’50. Londra sostenne ampiamente Pretoria alle Nazioni Unite relativa-mente al comma 7 dell’articolo 2, contro l’ingerenza, quindi, negli affari interni sudafri-cani. Inoltre i britannici raccomandavano solitamente moderazione agli avversari più aggres-sivi del Sudafrica. Ma nonostante questo i Nazionalisti sudafricani non abbandonarono mai del tutto i sospetti del passato. Il governo continuò quindi a soppesare i vantaggi di questa relazione allo stesso modo e con la stessa accuratezza con cui ne analizzava gli svantaggi.

Le relazioni diplomatiche tra i due governi restarono ragionevolmente buone, ma e-rano più fredde e più formali dei tempi in cui era Premier Smuts. Secondo Heaton Ni-cholls, che era stato Alto Commissario dello United Party, « l’atmosfera familiare per-lopiù scomparve, e al posto della situazione di amicizia per la quale l’Alto Commissario poteva far visita e parlare con qualsiasi ministro a Londra senza darne notizia alla stam-pa, tali visite cominciarono a sembrare sempre più visite tra rappresentanti di Stati stra-nieri…»61. Quella situazione fu aggravata dalle importanti divergenze politiche che e-mersero durante gli anni ’50, specialmente sugli sviluppi delle colonie.

61 Ivi, p. 63.

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Il governo si risentì alquanto quando percepì il tono delle critiche pubbliche della Gran Bretagna al Sudafrica. Ci si attendeva che la Gran Bretagna, con la sua esperienza coloniale e soprattutto con quella dell’Africa meridionale, avrebbero dimostrato una maggiore comprensione dei problemi che affliggevano l’Unione. Questo non avvenne, e grande fu il risentimento dei sudafricani, che a quel punto teme-vano davvero di essere rimasti senza più appoggi politici sicuri. Se dall’Unione Sovietica i Nazionalisti non potevano aspettarsi altro che critiche ed op-posizioni, cose che accettarono senza sorprendersi, dalla Gran Bretagna non potevano immaginarsi una tale mancanza di comprensione. Secondo loro, i Britannici «avrebbero dovuto capire» 62.

Alla sua maniera, Eric Louw si esasperò più che mai. Una delle sue esplosioni d’ira comparve in una lettera al The Times del 7 gennaio 1957. Questa lettera fu scritta quando Louw venne a sapere che Gerald Gardiner, futuro Lord Cancelliere di sua Maestà, era stato mandato in Sudafrica per assistere al Treason Trial per conto di tre organizzazioni, nello specifico Christian Action, Bar Council e Ju-stice(nella quale, secondo molti, molti soci facevano parte anche dei tre principali partiti politici britannici). Gardiner doveva riferire sull’andamento del processo, e agire come osservatore e “garante” delle libertà civili degli accusati. Louw protestò contro quello che a lui parve un calcolato insulto ai magistrati e giudici sudafricani. Rivendicò inoltre il fatto che – sempre secondo lui- gli standard di giustizia ed equità nei tribunali sudafricani erano elevati tanto quanto quelli di qualsiasi tribunale nel mondo, soprattutto elevati tanto quanto quelli dei tribunali britannici, e « più elevati di quelli di certi paesi che si pongono come i guardiani delle libertà civili e dei fonda-mentali diritti umani »63. Parlando poi delle tre organizzazioni che avevano sponsorizzato la visita di Gardiner, Louw si domandava come mai non fossero stati inclusi anche i comunisti. Egli disse anche che se quella interferenza negli affari interni sudafricani era da giustifi-care con il fatto che il Paese fosse membro del Commonwealth, allora la cosa migliore da farsi, per il governo, sarebbe stata quella di uscire al più presto dal Commonwealth stesso 64. Nella lettera del 7 gennaio 1957 Louw affermò anche che «l’atteggiamento di certe or-ganizzazioni, quotidiani e individui nel Regno Unito non era basato su un interesse per le libertà civili, ma era invece la manifestazione di una campagna di odio condotta con-tro il Sudafrica a partire dal 1948, da parte di una fazione della stampa britannica, dai comunisti, dai socialisti, nonché da individui come il Canonico Collins, Padre Huddle-stone e il Rev.do Michael Scott»65. E queste critiche- sempre secondo le parole dell’iroso ministro degli Esteri di Pretoria - nonostante il Sudafrica fosse il secondo maggior cliente economico della Gran Bretagna, e nonostante il grande aiuto che il Su-dafrica aveva dato ai britannici durante la guerra. Certamente la lettera di Louw non rappresentava esattamente il pensiero e la visione del governo sudafricano, in quanto fu chiaramente scritta in un momento di collera e causò un certo imbarazzo al governo stesso, ma è anche vero che restò un elemento sempre presente nella mente dei ministri del National Party che dovettero gestire le sempre più complesse relazioni con la Gran Bretagna.

Un altro motivo continuo di irritazione per il governo Nazionalista fu l’atteggiamento del Partito Laburista inglese all’opposizione. Anche quando i laburisti erano al potere, diversi membri del governo erano stati ampiamente critici nei confronti delle politiche razziali del Sudafrica. Una volta all’opposizione, queste critiche divennero più nette e

62 Ibidem. 63 Ibidem.. 64 Ibidem. 65 ibidem.

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forti. Alla Conferenza del partito del 1956 fu fatta una proposta per la quale il futuro governo laburista avrebbe espulso il Sudafrica dal Commonwealth. Nonostante questa mozione fosse poi stata respinta, le motivazioni di quel rigetto addotte da James Grif-fiths, Shadow Minister, non erano certo motivo di consolazione per i sudafricani. Dopo aver preso parola contro l’apartheid, egli argomentò che il miglior modo per ap-portare cambiamenti era quello di mantenere i contatti con Pretoria. Disse che era necessario mobilitare la moralità dell’opinione pubblica all’interno del Commonwealth e alle Nazioni Unite,e «sostenere al massimo grado quelli che in Suda-frica continuano a combattere contro questa politica»66. Il governo sudafricano, fortemente risentito per queste critiche, si chiese se, a quelle condizioni, sarebbe stato possibile cooperare con un eventuale futuro governo britan-nico laburista.

Nella loro ricerca di un’”amicizia occidentale”, i sudafricani riconoscevano l’importanza degli Stati Uniti. Ma, come nel caso della Gran Bretagna, gli USA dimo-strarono atteggiamenti spesso confusi e configgenti. Come una delle superpotenze, e come leader del mondo occidentale e del suo sistema economico, gli statunitensi avevano un’importanza ovvia per Pretoria. Ma mentre i sudafricani rispettavano la forza ed il potere economico degli Stati Uniti, e speravano in una cooperazione in funzione anti-comunista, le relazioni non furono mai facili. Inoltre, se da una parte entrambi i Paesi dovevano far fronte a problemi di popolazioni etnicamente miste, le differenze nelle circostanze e soprattutto nell’approccio a questi problemi tendevano a separare piuttosto che a unire Sudafrica e Stati Uniti. Per considerazioni sia interne che di politica internazionale, nessun governo statunitense poteva permettersi di essere considerato come un “intimo amico” del Sudafrica. In aggiunta a questo elemento, si poneva il tradizionale sospetto americano nei confronti del colonialismo euro-occidentale, sospetto che si associò, durante gli anni ’50 e poi an-che nei ’60, alla spinta statunitense ad ottenere la fedeltà dei nuovi stati non ancora alli-neati.

L’attitudine ambivalente del governo sudafricano nei confronti degli Stati Uniti è colto in un discorso pronunciato da Louw nel 1957. Cominciava quel discorso con il criticare quelli che facevano pressioni sulle potenze co-loniali affinché si ritirassero, e sebbene non menzionò esplicitamente gli Stati Uniti, era ovvio che la rimostranza fosse indirizzata a loro. Dopodiché fece riferimento specificamente agli interessi americani in Africa. Salutò con favore i tentativi statunitensi di contrastare il comunismo, compreso il Piano Eisenhower per il Medio Oriente. Espresse apprezzamento nei confronti dell’attività economica americana in Africa, che-parole di Louw - era spinta dalla ricerca di un mercato di sbocco e di materie prime. Invece, una attività che non venne salutata con favore era la stesura di relazioni negative dai visitatori americani in Sudafrica. Citò a tal proposito il resoconto del senatore Green che, dopo una fugace visita nell’Unione, aveva scritto un rapporto assai critico in cui si affermava che gli Stati Uniti avrebbero dovuto scegliere se continuare ad essere amici del Sudafrica oppure sostenere i diritti umani, la dignità e la libertà. Nonostante una simile critica, Louw concluse asserendo che, in generale, le relazioni con gli Stati Uniti erano buone e che il Sudafrica avrebbe continuato ad incoraggiare quell’amicizia.

Il Ministro asseriva ancora che le relazioni erano buone nel 1959 e che, nonostante le dichiarazioni ufficiali della sua politica, il governo USA , in quanto massima potenza occidentale, non avrebbe perseguito politiche “nemiche” dell’Unione sudafricana.

66 Ivi, p. 64

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Parlando degli Stati occidentali nel 1957, Louw affermava che essi non potevano « con-tinuare a dare ordini ai sudafricani oggi come hanno fatto negli ultimi undici anni, ed aspettarsi poi che domani noi li sosterremo su qualche questione »67.

3. La ricerca delle alleanze

Durante gli anni ’50 il governo Nazionalista fu spesso accusato dai suoi critici interni e internazionali di perseguire politiche isolazioniste. Se per isolazionismo si intende un rifiuto di modificare politiche interne in risposta alle critiche e di conseguenza rinunciare al sostegno internazionale e alla cooperazione, al-lora si può parlare del Sudafrica del secondo dopoguerra come uno Stato isolazionista. Ma con questo termine non si vuole certo indicare che il governo Nazionalista volle di proposito ritirarsi in sé stesso e cercò di tagliare o restringere i rapporti con gli altri Sta-ti. Infatti è pacifico che in quel decennio il governo di Pretoria cercò di stipulare accordi con gli Stati occidentali, specialmente con quelli direttamente coinvolti in Africa. Quindi si può affermare tranquillamente che «i Sudafricani desideravano la coopera-zione internazionale, ma non erano preparati a rinunciare alle loro politiche interne, che vanificavano ogni prospettiva di co-operazione »68.

Come tutti gli altri Stati, anche quello sudafricano era desideroso di avere un proprio senso di appartenenza, una propria identità all’interno della comunità internazionale. Questo in parte spiega la ripetuta enfasi posta dal governo sul ruolo importante che il Sudafrica avrebbe dovuto avere per gli Stati occidentali. Ma il riconoscimento di questa posizione non era l’unico obbiettivo. Infatti anche la ricerca della sicurezza fu certamente un punto centrale della politica e-stera, e infatti negli anni ’50 il Sudafrica cercò sempre di ottenere la membership all’interno di alleanze difensive del blocco occidentale. La ricerca di alleanze fu caratterizzata - secondo J. Barber – da tre fattori: innanzitutto dalla visione che di suoi politici al governo avevano del mondo, cioè quella di un mon-do diviso tra comunisti e anti-comunisti; in secondo luogo, dai loro particolari interessi in Africa; e infine dalla loro partecipazione prolungata al Commonwealth britannico.

Il comunismo era visto come la principale minaccia militare. All’interno dei confini dell’Unione era diffusa tra i bianchi la paura continua di una possibile eversione comu-nista e di una conseguente promozione e diffusione di idee all’interno della popolazione non-bianca, che potessero portare all’insorgere di disordini interni. Altrove- in Europa, in Medio Oriente e in Asia- i sudafricani vedevano il comunismo come un pericolo militare in espansione, lontano ancora dai confini del loro Stato ep-pure costantemente in movimento per minacciare nuove aree.

Il governo aveva le sue principali ambizioni militari all’interno del continente nero. Disse Malan nel 1951: «Scopo del Sudafrica è prendersi delle responsabilità, nella mi-sura in cui è possibile stringere accordi con altri Stati, per quel che riguarda territori che si trovano a nord del Sudafrica. Noi vogliamo contribuire a proteggere i nostri vicini»69. Sebbene i sudafricani volessero giocare un ruolo importante, dal punto di vista militare, in Africa, essi erano consapevoli del fatto che l’Unione fosse una piccola potenza, e ri-tenevano che l’onere maggiore della difesa del continente, e degli oceani circostanti, dovesse spettare ai maggiori Stati occidentali.

67 Ivi, p. 66. 68 Ivi, p. 81. 69 Ivi, p. 82.

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Altrove, in quel periodo della Guerra Fredda, , gli Stati occidentali organizzavano alle-anze per contrastare l’espansione comunista, i sudafricani volevano che una alleanza simile coprisse anche l’Africa. In particolare sarebbe stato gradito al governo di Pretoria che la NATO estendesse la sua copertura al Sud dell’Atlantico. Nel 1952, il Premier Malan, scrivendo a un quotidiano francese, affermava che mentre la NATO era confinata alle aree a nord del tropico del Cancro, ogni futura guerra non avrebbe potuto essere “ristretta” da simili limiti geografici ed enfatizzò anche il fatto che, visto che molti degli Stati firmatari del Trattato nordatlantico possedevano territori in Africa, essi avevano interessi diretti alla difesa del continente70.

Allo stesso modo il governo nazionalista accolse con favore la stipula di altri accordi di difesa ad opera di Stati occidentali, come per esempio la SEATO relativamente all’Asia sudorientale, e l’ANZUS, accordo stretto tra Stati Uniti, Nuova Zelanda ed Au-stralia. I ministri di Pretoria parlarono spesso in modo accorato della possibilità di e-stendere quelle alleanze in modo da comprendere la difesa dell’Africa meridionale, e talvolta si riferirono all’Unione come a una « ausiliaria dell’alleanza NATO »71.

Partendo dal presupposto che era l’isolamento geografico ad escludere il Sudafrica dagli accordi esistenti, il governo stabilì di contribuire a creare nuove alleanze che co-prissero il continente africano e gli oceani meridionali. La preoccupazione per la difesa dell’Africa si estendeva al Medio Oriente, considerata allora la via d’accesso all’Africa72. Nei primi anni ’50 mentre la Gran Bretagna stava tentando di costituire la MEDO (Or-ganizzazione per la Difesa del Medio Oriente), il Sudafrica accettò di unirsi alla costi-tuenda organizzazione e acquistò carri armati e velivoli specificamente per dare il suo contributo all’alleanza. Una dichiarazione governativa affermò che, in accordo alla sua dichiarata politica di as-sistenza alla difesa del Medio Oriente e dell’Africa dall’aggressione comunista, aveva deciso di «mandare “in tempo di guerra” forze di terra e di aria in Medio Oriente…Nel perseguire questo incarico l’Unione aveva accettato di partecipare al Commando medio - orientale»73. L’entusiasmo sudafricano per l’alleanza medio – orientale non corrispon-deva a quello di altri Paesi del Commonwealth, e fu così che la costituzione della ME-DO venne abbandonata, lasciando il Sudafrica senza la possibilità di svolgere un ruolo attivo nella questione medio - orientale. Dal punto di vista britannico questo fallimento non portava ulteriori problemi, nel senso che parte del compito pensato per l’alleanza appena fallita venne svolta quando la fian-cata meridionale della NATO fu estesa a Grecia e Turchia74, ma questo non fu certo di gran consolazione per Pretoria.

Il mancato coinvolgimento nella questione medio - orientale non distolse i Nazionali-sti dal continuare la ricerca di una più vasta alleanza africana. Insieme al Regno Unito allora essi presero l’iniziativa di sponsorizzare una Conferenza sulla difesa a Nairobi, nel 1951. Ad essa parteciparono le potenze coloniali che avevano interessi in Africa centrale e in quella Orientale( Gran Bretagna, Francia, Portogallo, Belgio e Italia), il Sudafrica, la Rhodesia del Sud e osservatori del governo statunitense.

70 La Revue Française, novembre 1952. 71 J. Barber, op. cit., p. 83.(Si veda anche G.R. Lawrie, “The Simon’s Town Agreement: South Africa, Britain and the Commonwealth”, South Africa Law Journal, vol. LXXXV, parte 2, Maggio 1968,pp. 157-77). 72 Ibidem. 73 Ibidem. 74 CENTO,(Central Treaty Organization), l’alleanza medio-orientale nella quale la Gran Bretagna fu poi coinvolta, fu originata dal Patto di Baghdad, un trattato bilaterale del 1955 tra Turchia ed Iraq alla quale poi aderirono in seguito Gran Bretagna, Pakistan e Iran.

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Il governo britannico ci tenne a precisare che la conferenza avrebbe trattato i modi e i mezzi con cui facilitare le comunicazioni e gli spostamenti di forze militari in quella parte dell’Africa, e il capo-delegazione di sua Maestà, Lord Ogmore, disse esplicita-mente, che quella stessa conferenza non doveva occuparsi di pianificazione o di concreti progetti per il futuro, ma di assicurare semplicemente il flusso di uomini, macchine ed equipaggiamenti in caso di conflitto.

L’ansia del governo sudafricano di vedere progressi nei loro progetti diplomatici e di sicurezza era dimostrata dalla loro amicizia e cooperazione. Addirittura rifiutarono mol-to modestamente l’offerta di co-presiedere la conferenza. I sudafricano vedevano la Conferenza di Nairobi non come fine a sé stessa, ma come il seme dal quale sarebbe potuta germogliare una importante alleanza. Ma questa era una speranza vana, in quanto lo stesso Ogmore ricordò che si trattava di una conferenza limitata nei fini (in quanto, giovava ripeterlo, non mirava a far uscire nessun progetto preciso) e avvertì che quel consesso di delegati poteva semplicemente esprimere raccomandazioni, non prendere decisioni. Come se non bastasse, alla fine della conferenza, il delegato portoghese ricordò a tutti i membri che il suo Paese non aveva preso impegni né sottoscritto obbligazioni in quella sede.

Un‘ altra Conferenza, maggiormente centrata sull’Africa occidentale fu poi organiz-zata nel 1954 a Dakar, e vide la partecipazione di Francia, Gran Bretagna, Belgio, Por-togallo e Sudafrica: i risultati non furono dissimili da quelli della conferenza di tre anni prima in Kenya. Ebbene, dopo quelle due conferenze, il Ministro sudafricano della Di-fesa, Erasmus, rivendicava il fatto che il Sudafrica avesse preso impegni sostanziali nel caso di un’aggressione comunista in Africa, e che si fosse legato strettamente agli altri governi nella difesa dell’Africa . Il problema era che se i Nazionalisti erano convinti di aver preso “impegni”, gli altri go-verno non lo erano affatto. Nessuna alleanza africana, poi, era emersa. Nonostante ciò, il governo non si perse d’animo, ed è nei termini di questa ricerca di al-leanze che si potrebbe spiegare l’Accordo di Simon’s Town.

4. Simon’s Town Agreement

Il Simon’s Town Agreement consisté in uno scambio di lettere e di memorandum tra Selwyn Lloyd (per conto del governo di sua Maestà) ed Erasmus in nome del governo sudafricano. Uno di questi memorandum riguardava la necessità di discussioni interna-zionali relativamente alla difesa “regionale”, e rifletteva in effetti gli obbiettivi del go-verno di Pretoria alle conferenze di Nairobi e Dakar. Il memorandum dichiarava che il Sudafrica e le rotte marittime intorno all’Africa meri-dionale dovevano essere rese sicure da aggressioni esterne, mentre la sicurezza interna dei territori interni restava di competenza dei singoli Paesi. Il Regno Unito avrebbe per-ciò contribuito con proprie forze alla difesa dell’Africa, inclusa l’Africa meridionale e il Medio Oriente, e il Sudafrica avrebbe contribuito a sua volta a mantenere quanto più lontano possibile dai suoi confini ogni potenziale nemico, ma anche a difendere l’Africa meridionale, il resto dell’Africa ed il Medio Oriente75.

I due governi si decisero così a sponsorizzare una conferenza per portare avanti la “pianificazione” già iniziata alla Conferenza di Nairobi e compiere congiuntamente de-gli sforzi per garantire la costruzione di un meccanismo che potesse permettere il perse-guimento,su una basa di continuità degli scopi di quella stessa conferenza. Sebbene ciò

75 Ivi, p. 85

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desse al governo del Sudafrica speranze per una alleanza, quello britannico non si sentì per niente legato a nessun impegno specifico. Quando essi registrarono questo accordo alle Nazione Unite come Trattato, vi allega-rono contestualmente una riserva alla parte Prima secondo la quale «[Il Trattato]non contiene alcuna sostanziale obbligazione, ma si registra[il Trattato] per facilitare la comprensione degli altri due Accordi »76.

Il governo sudafricano sperava comunque che due tipi di alleanza potessero prender vita dall’Accordo di Simon’s Town. Uno sarebbe stato un’alleanza “africana”, simile a quella che avevano cercato di far na-scere in occasione delle due Conferenze. L’altro sarebbe stato primariamente un’alleanza “marittima” incentrata sui due oceani e sulle coste intorno al Capo di Buona Speranza. Nell’aprile del ’56 il Primo Ministro Strijdom disse che sia il suo governo sia quello britannico desideravano che altre potenze occidentali all’Africa e alle coste della parte meridionale del continente divenissero parti dell’Accordo. Strijdom in particolare menzionò la Francia, il Portogallo e gli Stati Uniti. L’anno successivo, Erasmus e il governo britannico riaffermarono la loro intenzione co-mune di promuovere una conferenza. Ma non se ne fece mai niente.

Il governo sudafricano però continuò a sperare e a cercare di fare il possibile per mi-gliorare la sua pozione diplomatica. Nel luglio del 1958 il Ministro della Difesa dichiarò che la dislocazione di una riserva strategica britannica in Kenya e la costruzione di una nuova e grande base militare da parte dei belgi in Congo avevano creato « importanti baluardi contro l’avanzata del co-munismo a sud attraverso l’Africa »77. Lo stesso ministro disse anche che una conferenza tra Ufficiali di Marina di Gran Breta-gna, Francia,Belgio, Portogallo e Sudafrica si era svolta a Cape Town, ma lui sapeva anche che non si trattava della conferenza più importante prevista dal Simon’s Town Agreement. Alla fine, nel 1959, il Ministro si arrese. Parlò esplicitamente di «tragedia»78, riferen-dosi al fatto che le potenze occidentali non avessero progetti chiari per la difesa del Su-dafrica nonostante la sua «vitale importanza strategica, la sua ricchezza di minerali e il suo controllo delle rotte marittime attorno al Capo- la “Gibilterra dell’Africa meridio-nale”»79, e affermava inoltre certo che un giorno il mantenimento della civiltà occiden-tale sarebbe potuto dipendere da quelle regioni.

Perché il governo sudafricano aveva fallito nel convincere le potenze occidentali(con interessi in Africa) a formare un’alleanza? Una possibile spiegazione, fornita da Barber, è che il rifiuto dei Nazionalisti all’impiego di uomini neri nelle forze armate aveva distrutto ogni possibile speranza di coopera-zione con le potenze coloniali, che invece, dal canto loro, erano obbligate a fare affida-mento su troppe costituite da soli neri: le altre potenze avrebbero potuto pensare quindi, che se il governo sudafricano frapponeva questo ostacolo allora non era certo così desi-deroso di stringere accordi, o almeno non quanto ostentava di esserlo. Ma questa era solo una delle questioni che minavano alla base la possibilità di coopera-zione. È vero certo che il Sudafrica e le potenze occidentali avevano diverse questioni che li accomunavano, ma tante erano anche le differenze. Sicuramente tutti erano d’accordo nel riconoscere la minaccia comunista presente in Medio Oriente, ma quello che le altre nazioni non condividevano erano le grandi paure sudafricane di un imminente pericolo di penetrazione comunista in Africa.

76 Ivi, p. 86 77 Ibidem. 78 House of Assembly, 3 gennaio 1959 79 J. Barber, op. cit., p. 86.

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Poi entrava in gioco la questione delle differenti vedute riguardo gli sviluppi politici fu-turi dei neri africani, e in questo contesto si ritorna alla problematica poco sopra ac-cennata del rifiuto del governo di Pretoria di permettere ai neri di prender le armi nell’esercito. Il governo aveva sempre temuto lo scoppiare di sommosse armate nere, e così aveva sempre avuto una istintiva risposta di chiusura nei confronti della richiesta dei neri di entrare nell’esercito nazionale. E gli stessi timori aiutano a spiegare la continua volontà di mantenere lo status quo del sistema delle colonie. Ma persino le stesse potenze coloniali avevano forti dubbi riguardo la possibilità o an-che la desiderabilità di mantenere la struttura coloniale; negli anni ’50 si trattava solo di dubbi, e i governo delle nazioni colonizzatrici ancora non si erano decisi ad attuare un rapido ritiro come poi avverrà nel decennio successivo. Nel 1957 sarà poi la Gran Bretagna a metter fine alle incertezze e a dare il la l ritiro co-loniale concedendo l’indipendenza al Ghana.

Proprio l’incertezza relativa allo sviluppo della situazione coloniale rendeva più pe-santi i dubbi che le potenze occidentali avevano sull’opportunità di associarsi più stret-tamente al Sudafrica. Un’alleanza con l’Unione sudafricana sarebbe stata una scelta diplomatica impopolare, mentre dall’altra parte il contributo che Pretoria fosse stata capace di dare a qualsiasi al-leanza di quel tipo non sarebbe stato in grado di controbilanciare l’impopolarità di quel-la scelta: era chiaro che il gioco non valeva la candela per la Gran Bretagna e gli altri Stati del blocco occidentale. Il Sudafrica, sia nel caso del MEDO che in quello dell’Accordo di Simon’s Town ave-vano mostrato di essere pronti ad espandere le loro forze per poter sostenere eventuali nuovi obblighi internazionali, ma restava pur sempre una piccola potenza, e il maggior peso della fornitura di uomini e mezzi sarebbe ricaduto..altrove. Nonostante la loro ostentata «ansia di entrare a far parte di un’alleanza »80, il senso di paura che i governanti sudafricani provavano riguardo a un’immediata minaccia militare non era così forte come lo era nelle loro dichiarazioni pubbliche, e certamente meno for-te di quanto lo sarà negli anni ’60, quando grandi risorse verranno dirottate allo scopo di espandere le forze armate.

In assenza di un’alleanza formale, la cooperazione con la Gran Bretagna, basata sul collegamento rappresentato dal Commonwealth, continuò a fornire al Sudafrica il mag-giore supporto militare esterno. Addestramento e prove di difesa erano condivise, le informazioni militari venivano scambiate, e in più la Gran Bretagna restava la più importante fornitrice di armi per il Sudafrica. Come sottolineato da Dugard nel suo “The Simon’s Town Agreement”, l’accordo del 1955 poteva essere interpretato come una «diretta continuazione del vecchio legame del Commonwealth, in quanto copriva la stessa tematica di un accordo stipulato nel 1922 tra Smuts e il Premier britannico Churchill»81. Ciò che fu messo maggiormente in ri-salto con il più recente accordo di Simon’s Town era però la volontà del Sudafrica di contribuire maggiormente alla difesa navale delle rotte del Capo, e specificamente l’impegno di Pretoria ad acquistare sei fregate anti-sottomarino, e quattro navi di difesa guardaspiaggia dalla Gran Bretagna. Inoltre avveniva il passaggio di consegne per quan-to riguarda la responsabilità della base di Simon’s Town dalla Gran Bretagna al Suda-frica, pur se Londra manteneva il diritto permanente di uso della base. L’accordo poteva essere rescisso solamente per mutuo consenso.

80 Ivi, p. 88. 81 C.J.R. Dugard, “The Simon’s Town Agreement: South Africa, Britain and the United Nations”, South African Law Journal, vol. 85, May 1968, pp. 142-5.

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Fa sorridere pensare al fatto che l’unico accordo di difesa che il governo bianco nazio-nalista riuscì ad ottenere fu stretto proprio con i britannici, che rappresentavano il ne-mico storico nella tradizione Afrikaner, ed inoltre si trattava di un accordo che a ben guardare portava maggiori vantaggi al governo di Sua Maestà: infatti la Gran Bretagna continuava a godere di facilitazioni in Sudafrica che potevano essere sfruttata anche in tempo di pace, mentre sempre in base all’accordo il Sudafrica si impegnava a dare un contributo più grande alla difesa comune e aveva rinunciato, sempre per iscritto, al di-ritto di rescindere unilateralmente l’accordo. Per la Gran Bretagna quindi i dubbi sull’Accordo erano relativi al futuro, nel senso che essa si era formalmente legata al Sudafrica, e facendo questo si era esposta alle critiche di chi avrebbe potuto definirla «alleato dell’apartheid»82 .

5. Oltre Simon’s Town

Se l’Accordo di Simon’s Town dimostrava che la cooperazione anglo-sudafricana conti-nuava, l’atteggiamento più freddo e “meno impegnato” del governo Nazionalista nei confronti di Londra si affermò in pieno durante la crisi di Suez del 1956. Da molti punti di vista Suez appariva come la situazione ideale per un possibile coin-volgimento sudafricano: si trattava infatti di una circostanza che riguardava davvero il cosiddetto gateway to Africa- cioè, come già ricordato,“ l’entrata per l’Africa”; c’erano voci diffuse di attività di carattere comunista; si aveva la partecipazione combinata delle due maggiori potenze occidentali. All’interno del Sudafrica gli argomenti a favore del coinvolgimento venivano portati avanti innanzi al governo dallo United Party, il cui leader Strauss affermava che non si trattava (Suez) di una questione locale, e che doveva esser chiaro ai sudafricani che “ gli eventi in Egitto avevano una stretta connessione con le politiche espansioniste degli Sta-ti comunisti”83. Insomma il Sudafrica secondo Strauss avrebbe dovuto prendersi le sue responsabilità in quanto principale Stato africano.

Nemmeno le denunce di un coinvolgimento comunista nella vicenda di Suez basta-rono a convincere il governo di Pretoria. La posizione generale dei Nazionalisti era quella di un vivo interesse nei confronti degli sviluppi nel Vicino Oriente, del rispetto per gli interessi britannici e francesi, ma per essi la disputa sulla nazionalizzazione del canale di Suez non riguardava direttamente il Sudafrica. L’Unione non era stata tra i firmatari dell’Accordo degli utilizzatori del Canale, e le sue navi non vi transitavano. Il ministro Louw asseriva che dal momento in cui la Compa-gnia del Canale era registrata in territorio egiziano la disputa era un affare interno all’Egitto e il Sudafrica aveva da sempre enfatizzato il suo rispetto del principio di non-interferenza negli affari interni degli altri Stati. Le dichiarazioni ufficiali mettevano in risalto gli auspici sudafricani di una pacifica composizione della diatriba sul Canale, ma al tempo stesso indicavano la ferma inten-zione del governo di andare avanti mantenendo buoni rapporti diplomatici con tutte le parti in causa.

Ma perché questo atteggiamento di indifferenza? Come si poteva spiegare questo non voler essere coinvolti nella questione di Suez? Barber ci fa partecipi del suo sospetto secondo cui , oltre alle ragioni già citate, oltre ai continui dubbi riguardo al fatto di « combattere guerre della Gran Bretagna »84, ci fosse

82 Ivi, p. 89. 83 Ibidem . Citazione da James Eayrs, The Commonwealth and Suez: A documentary Survey(London, Ox-ford University Press, 1964), pp. 65-6. 84 Ivi, p. 90.

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stata una maldestra gestione della questione da parte degli inglesi, che avrebbero solle-citato i sudafricani a restar fuori dalla vicenda. Quello che è chiaro, a parte i dubbi, è che a un certo punto ci fu una rottura delle comu-nicazioni e delle consultazioni all’interno del Commonwealth, cosa che fece andare su tutte le furie il Ministro Louw, imbarazzare tantissimo l’Alto Commissario britannico Sir Percivale Liesching e rese la situazione diplomatica più difficile. Anche se da Pretoria ci fosse stata la più palese intenzione di sostenere militarmente In-ghilterra e Francia a Suez, ciò sarebbe stato impossibile, dal momento che il governo sudafricano, alla pari dagli altri governi del Commonwealth, erano stati tenuti fuori dai piani militari anglo-francesi. È chiaro che non vi era stata la possibilità di dare un soste-gno militare diretto. Restava solo, per il governo sudafricano, la scelta di far sentire la propria voce diplomatica in sede ONU e tramite dichiarazioni pubbliche. Ma al momento in cui in sede di Assemblea Generale ci fu la possibilità di votare la condanna dell’invasione di francesi e inglesi, la delegazione sudafricana si astenne man-tenendo ancora una volta una posizione ambivalente di neutralità.

Nella crisi che ne seguì i sudafricani rimasero non-compromessi e indifferenti quasi, eppure questo non significava che Pretoria mostrasse rispetto nei confronti del governo egiziano, che tra l’altro aveva maggiormente stretto i suoi legami con l’URSS e il suo sostegno per i movimenti nazionalisti africani. L’Egitto veniva normalmente contato, dal governo sudafricano, tra gli «Stati afro-asia-tici irresponsabili ed ostili »85. Qualche anno dopo, nel 1962, il Premier sudafricano Verwoerd affermò che lo sbaglio degli inglesi a Suez era stato quello di ritirarsi. “Se la Gran Bretagna - disse- fosse stata pronta e implementare la politica che riteneva essere giusta e non si fosse lasciata dissuadere, sono certo che oggi ci sarebbe stato me-no malcontento nel mondo ed in particolar modo in Africa”86. Il rammarico di Verwoerd per il fallito tentativo delle potenze occidentale di imporre la loro volontà riflette meglio l’atteggiamento storico del Sudafrica rispetto alle que-stioni del Vicino Oriente piuttosto che la posizione fredda e disimpegnata del 1956 per Suez.

Suez fu il classico esempio di rottura della cooperazione interna al Commonwealth. Ma era anche il chiaro riflesso di qualcosa che traspariva già da tanto tempo prima , cioè del fatto che il Commonwealth non fungeva più da “unità” per quanto riguarda le que-stioni militari. Con il potere mondiale della Gran Bretagna relativamente in declino, al-cuni Paesi dell’area Commonwealth avevano optato per alleanze regionali piuttosto che dipendere ancora dai legami obsoleti dello stesso Commonwealth. Ed è chiaro che con l’espansione quantitativa del Commonwealth sarebbe andata au-mentando la diversità tra i suoi tanti membri e alcuni di questi sarebbero voluti essere coinvolti in legami militari difensivi. Per quei governi che, invece, come il Sudafrica, desideravano proprio questo tipo di le-gami militari, la cooperazione nell’ambito della difesa comune, dell’addestramento, del-lo scambio di informazione e nella fornitura di armi restava molto utile, ma il sostegno britannico non era certo qualcosa che andasse oltre questo aspetto militare.

In termini generali, si potrebbe dire che il fallimento del governo nell’ottenere l’ammissione ad una alleanza del blocco occidentale, e la crescente ostilità da parte del-le Nazioni unite, avevano reso il legame del Commonwealth molto più attraente, ma in senso opposto operava il fatto che lo stesso carattere del Commonwealth stava conti-nuamente cambiando, andando verso una direzione che non stava bene a Pretoria.

85 Ivi, p. 91. 86 Ibidem.

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I sudafricani vedevano il Commonwealth principalmente come una relazione con la Gran Bretagna, e il dibattito intorno all’opportunità di mantenere legami con essa conti-nuò a salire sino ai livelli emotivi del passato per poi riabbassarsi con il tempo. Lo stesso United Party divenne meno pro-britannico, specialmente quando si capì che la loro politica coloniale era profondamente cambiata. D’altra parte , il Partito Nazionalista , senza mai perdere i propri sospetti, pensava che ci sarebbero stati vantaggi(più che svantaggi) nel mantenere i legami, e si parla di vantaggi quali le preferenze commerciali, il sostegno diplomatico britannico, la cooperazione in campo militare e la speranza mai sopita di un’alleanza in Africa.

Per i Nazionalisti, un ostacolo importante che sembrava ormai rimosso era l’accettazione dello status repubblicano (eventuale) del Sudafrica all’interno del Com-monwealth. Nel 1949 i leader del Commonwealth accettarono questo per l’India:la decisione fu ac-colta con un ‘esplosione di entusiasmo da parte del governo sudafricano; l’accettazione dell’India come repubblica indipendente all’interno del Commonwealth faceva sperare il governo nazionalista che di lì a qualche anno anche un Sudafrica repubblicano avreb-be potuto continuare a far parte del Commonwealth. Un argomento storico dello United Party era che il Sudafrica non poteva non poteva mantenere il suo posto all’interno del Commonwealth e al tempo stesso abbandonare l’assetto monarchico. Chiaramente questa preoccupazione non aveva più senso di esi-stere, in quanto il caso indiano aveva ormai segnato la strada, secondo i Nazionalisti, anche per il caso sudafricano.

Malan disse nel 1949 che il Commonwealth rappresentava ancora una « una forza potente in un mondo nel quale noi siamo di fronte ad un pericolosa situazione […] il trend degli eventi negli ultimi tempi ha rivelato un sentimento di solidarietà tra i vari membri del Commonwealth che probabilmente nessuno si attendeva nel mondo e che forse ha sorpreso anche membri dello stesso Commonwealth[…] essi, I membri, hanno una visone della vita comune, generale[…]anche nel caso dell’India, essa ha deciso di ricalcare la sua costituzione sulla costituzione Britannica e sulla nostra costituzione in questo Paese[…]L’India sta prendendo oggi la sua posizione al fianco dei Paesi anti-comunisti».

Il Commonwealth inoltre aveva dato al Sudafrica una possibilità di entrare dentro i circoli diplomatici internazionali ed avere accesso al servizio di informazione fornito dal governo della Gran Bretagna che sarebbe altrimenti restato inaccessibile a Pretoria. L’accesso al Commonwealth voleva anche dire che nonostante l’impopolarità diffusa, il Sudafrica era comunque un “addetto ai lavori” all’interno di un importante gruppo di Stati. Il governo Nazionalista apprezzava questo fattore. Strijdom, giungendo alla Conferenza del Commonwealth del 1956, sottolineò la necessità, in un’epoca come quella segnata dall’incertezza e dal pericolo-secondo lo stesso Premier sudafricano- di mantenere le-gami di amicizia e di promuovere la cooperazione almeno tra quegli Stati che condivi-devano gli stessi punti di vista.

I sudafricani volevano un Commonwealth essenzialmente anti-comunista, e all’interno del quale tutti gli Stati avessero simili forme di governo e atteggiamenti po-litici e rispettassero la regola di non-interferenza all’interno degli affari degli altri Stati-membri. Ma gli sviluppi all’interno del Commonwealth rappresentavano una sfida a quelle sup-posizioni:i vecchi membri restarono saldamente nel campo anti-comunista, ma i nuovi Stati afro-asiatici stabilirono di non prendere impegni né con l’uno né con l’altro bloc-co. Il governo sudafricano non accettava questa posizione mediana dei nuovi Stati, e cominciarono ad accusare la stessa India di cooperare strettamente con gli Stati della sfera comunista.

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Quando molti Stati, e particolarmente quelli Africani, giunsero all’indipendenza all’interno del Commonwealth, la depressione politica si diffuse nel governo sudafri-cano. Dal punto di vista sudafricano ormai, il Commonwealth era in grosso pericolo a causa dei nuovi Stati, i cui governi-sempre secondo Pretoria- erano « ostili al Sudafrica e pronti a interferire nei suoi affari interni »87. I sudafricani bianchi sottolineavano la lo-ro contrarietà alla concessione facile delle indipendenze, ed inoltre ricordavano che per l’ingresso nel Commonwealth non era necessaria solo l’approvazione della Gran Breta-gna, ma doveva esserci quella generale degli Stati già membri.

Nel 1951 Malan accusò i britannici di «aver ucciso il Commonwealth in seguito al loro annuncio che le colonie africane e delle Indie Occidentali sarebbero state condotte verso l’indipendenza, ma sempre all’interno del Commonwealth, e che sarebbero state trattate su un piano di uguaglianza con i vecchi membri»88. Per i governanti di Pretoria venivano a mancare i comuni interessi e l’omogeneità cultu-rale e politica che essi ritenevano presupposto indispensabile per la sopravvivenza del Commonwealth. In aggiunta al sentimento sudafricano di “alienazione” rispetto ai nuovi membri, si pose l’indignazione verso quegli altri membri del Commonwealth che, pur rispettandone le tradizioni e non mettendo in discussione affari interni degli altri Stati, si presentavano tra i principali critici del Sudafrica. I maggiori incriminati erano l’India e il Ghana a partire da metà anni ’50. Occasionalmente i ministri sudafricani avevano dei rari momenti di ottimismo nei quali rivendicavano il fatto che i loro rapporti all’interno del Commonwealth fossero ancora buoni, e che fosse possibile stabilire relazioni di amicizia anche con i nuovi arrivati qua-li Nigeria e Ghana.

Ma il normale atteggiamento del governo sudafricano era caratterizzato da rabbia e risentimento nel ritrovarsi spesso obbiettivi di ripetuti attacchi. nel 1953 Malan affermava che « l’India era un pericolo per l’Unione e per le potenze coloniali, e stava causando la disgregazione del Commonwealth »89; mentre il ministro Louw l’anno prima aveva definito inconcepibile il fatto che il ministro delle Finanze ghaniano, K.A. Gbedemah potesse insinuare che il colonialismo sarebbe morto nel giro di cinque anni e che « gli Stati africani non avrebbero tollerato il proseguimento della soggezione della maggioranza nera del Sudafrica nei confronti della minoranza bian-ca»90.

6. il 1960

Il 1960 fu un anno importante per la storia del Sudafrica: la parte bianca della popola-zione si sentì minacciata ed in pericolo come mai era successo prima. Il periodo era cominciato con una acuta crisi nel 1960, quando un senso di pericolo si diffuse e rischiò di sopraffare la società bianca. Poi nella seconda parte del decennio le tensioni lentamente si attenuarono, ma solo per-ché le minacce interne ed internazionali furono bilanciate da una crescente fiducia tra i sudafricani bianchi riguardo al fatto che essi potevano resistere ai vari pericoli. Il governo sudafricano aveva sempre enfatizzato la propria forza e la stabilità del Paese, mentre gli oppositori mettevano in luce la sua debolezza e i conflitti interni. Ciò che è chiaro è che per il governo si trattò di un periodo di enorme pressione e di tensioni, poi di maggiori dubbi e insicurezze.

87 Ivi, p. 94. 88 Ivi,p. 95. 89 Ivi, p. 96. 90 Ibidem.

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Il 1960 fu l’anno del referendum, annunciato dal capo del governo Verwoerd e che avrebbe dovuto stabilire l’assetto repubblicano o meno del Paese. Lo United Party, fortemente attaccato alla monarchia britannica, e temendo che la di-chiarazione della forma repubblicana avesse potuto condurre il Sudafrica verso una si-tuazione di maggiore isolamento internazionale e verso un peggioramento della sua si-tuazione all’interno del Commonwealth, costituì la maggiore forza di opposizione alla proposta referendaria. Nel tentativo di contrastare quei timori il ministro Louw era intenzionato ad ottenere, alla Conferenza del Commonwealth del maggio di quell’anno, una prima approvazione per il proseguimento della partecipazione del Sudafrica al Commonwealth stesso. Ma gli altri leader erano contrari a questo tentativo di Louw, e lo convinsero invece a discutere prima in modo informale sulle politiche razziali dell’Unione. Al referendum, Verwoerd ottenne una vittoria politica importante, dal momento che la forma repubblicana aveva avuto la meglio sull’opposizione rappresentata dallo United Party e sui dubbi che alcuni suoi colleghi nutrivano riguardo a quello che era il princi-pale obbiettivo degli afrikaner Nazionalisti. Anche se, ancora una volta, la divisione all’interno della società bianca era stata netta91. Il Sudafrica quindi nel 1961 divenne una Repubblica e lasciò il Commonwealth.

Il 1960 fu l’anno anche del discorso del Premier britannico Harold Macmillan di fronte al Parlamento sudafricano di Città del Capo, discorso poi definito del wind of change(vento del cambiamento) e che fu una pietra miliare nella storia della politica co-loniale, e anche dei rapporti tra gli Stati interessati. Il discorso ebbe un immediato e grosso impatto all’interno del Sudafrica: e di esso si ebbe larga eco negli articoli dei quotidiani, nei discorsi in Parlamento, e nella memoria dei sudafricani. Le ragioni di questo effetto stanno in parte nella posizione britannica di principale potenza occidentale coinvolta in Africa meridionale, e nella sua qualità di Stato-leader all’interno del Commonwealth. Macmillan sembrò parlare non solo in nome della Gran Bretagna, ma anche per conto di tutti gli Stati del blocco occidentale con i quali il Sudafrica aveva contatti. Ma la ragione della grande impressione che suscitò quel discorso va ricercata anche nel-le circostanze del discorso: dove fu tenuto, e cosa fu detto. Se il Premier britannico avesse fatto lo stesso tipo di discorso, ma al di fuori dei loro confini, i sudafricani lo avrebbero in fin dei conti giustificato come un altro esempio del tentativo di « scaldare gli animi dei neri »92. Ma quel discorso era stato fatto direttamente all’interno del loro Parlamento, proprio di fronte alle facce dei Nazionalisti. Ma soprattutto è da notare che con quel discorso Macmillan portò alla luce e rese pub-bliche le vere paure dei sudafricani bianchi: i loro timori riguardo gli atteggiamenti de-gli altri Stati occidentali, riguardo la forza crescente dei nazionalismi africani e relativi ai pericolo e alle incertezze che stavano di fronte a loro in un continente in rivoluzione. In precedenza, quelle paure si erano mescolate(per esserne sommerse) con le speranze di un positivo riscontro negli atteggiamenti dei partner diplomatici occidentali, speranze vane. Ora però quelle speranze venivano per giunta spazzate via da Macmillan, e per questa sua iniziativa il risentimento dei sudafricani fu amarissimo. Fred Barnard (segretario privato del Capo del governo Verwoerd) scrisse che il discorso di Macmillan era un preventivato attacco a sorpresa, una mossa calcolata per portare

91 Ovviamente, neanche a quel referendum furono ammessi i non-bianchi. Il risultato fu di 850.458 voti favorevoli alla forma repubblicana e 775.878 voti contrari. 92 Ivi, p. 122.

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Verwoerd all’angolo e metterlo in una situazione imbarazzante agli occhi del suo stesso Parlamento, del suo Paese e del mondo93. Il discorso occupava dieci pagine, che Barnard non esitò a descrivere come un « un in-sulto freddo e calcolato,una condanna ,scritta in modo cortese ma senza rimorso, della nazione di cui era ospite »94.

In termini generali il discorso di Macmillan esprimeva la certezza che i nazionalismi, che avevano spazzato l ‘Europa tempo addietro, e più di recente l’Asia, stavano in quel momento delineando il nuovo assetto politico dell’Africa. Che piacesse oppure no, era quella la realtà. Secondo il Premier britannico gli interessi degli Stati occidentali avrebbero potuto ave-re maggior possibilità di soddisfazione a patto che gli stessi Stati riconoscessero al più presto e accettassero l’evolvere dei nazionalismi.. Diceva Macmillan che la Gran Bretagna non agiva per opportunismo. Affermava che la politica britannica in Africa- e con questo mirava dritto al cuore del Sudafrica bianco- aveva come interesse non solo quello di far migliorare gli standard di vita, ma anche quello di creare una società che rispettasse i diritti degli individui[…]che includa la possibilità di una crescente condivisione del potere politico[…] una società nella quale solamente il merito individuale fosse il criterio per l’avanzamento politico od econo-mico dell’uomo”95.

Ciò che Macmillan tenne poi a rimarcare di fronte ai parlamentari di Città del Capo fu che la politica coloniale britannica si basava sul non-racialism, concetto che indica l’esatto opposto della politica interna di apartheid condotta dai Nazionalisti bianchi. Il Premier, pur conscio del fatto che questa loro politica avrebbe potuto causare diffi-coltà per i sudafricani bianchi, si diceva certo del fatto che questi ultimi “ si sarebbero resi conto che i britannici agivano in quel modo perché era un loro dovere farlo”96. Per cercare di rendere meno amara la pillola che il governo che lo ospitava stava man-dando giù, Macmillan affermò che il governo britannico era contrario a boicottaggi o sanzioni contro il Sudafrica, che le differenti vedute allora esistenti sarebbero coincise con il tempo, e che nel frattempo la cooperazione amichevole tra di loro sarebbe conti-nuata in un’ampia gamma di questioni. Ma quello che al governo Verwoerd era ormai chiaro fu che d’ora in avanti Londra non avrebbe più ostacolato alcun nazionalismo africano, e che perciò se Pretoria avesse de-ciso di mantenere le sue posizioni inalterate contro l’emancipazione dei non-bianchi, si sarebbe potuta ben dimenticare qualsiasi sostegno da parte britannica. Ma fu il tono, oltre che il contenuto del discorso a far andare su tutte le furie molti suda-fricani bianchi e spaventarne altri. Si trattò infatti di un discorso che alludeva all’inevitabilità storica ed indicava che se da una parte la crescita della “coscienza nazionale africana” aveva assunto diverse forme, essa non poteva essere fermata, in quanto era un processo storico che si stava svolgendo ovunque. « Il vento del cambiamento sta soffiando attraverso il continente97- disse Macmillan-,e continuava poi affermando che “ci piaccia o meno, questa crescita della coscienza na-zionale è un fatto politico »98.

93 Ivi, p. 122[ Citaz. da Fred Barnard, Thirteen years with Dr. H. F. Verwoerd (Johannesburg, Voortrek-kerpers Limited, 1967), p. 63]. 94 Ibidem. 95 Ivi, p. 123.. 96 Ibidem 97 Ibidem. 98 C.-M. Legum, South Africa: Crisis for the West, Pall Mall Press, London and Dunmow, 1964, p. 88.

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Il polverone sollevato dal discorso di Macmillan non si era ancora diradato quando il Sudafrica fu colpito dalla tragedia di Sharpeville. Il governo sudafricano aveva affermato che l’esplosiva situazione che aveva portato ai disordini di Sharpeville era stata creata da un sommarsi di influenze esterne, tra le quali il discorso del Premier britannico. Secondo Barber invece, aveva esacerbato una situazione già estremamente tesa. Ma non l’aveva certo creata. I Nazionalisti interpretavano la situazione come l’esito di un susseguirsi di critiche e-sterne, le quali avevano creato una situazione di frustrazione e malcontento che aveva poi portato alla situazione conflittuale e alla tragedia.

Sharpeville fu la più sanguinosa di una serie di confronti tra la polizia sudafricana e i dimostranti, chiamati dal PAC(Pan-African Congress)99 a sfidare le pass laws- quel si-stema in base al quale i non-bianchi erano costretti a portare sempre con sé i documenti di identità. Precisiamo ancora una volta che si trattava di una manifestazione pacifica, e che i dimo-stranti erano assolutamente disarmati. Lo stesso giorno a Langa, township nera vicino a Città del Capo, tre neri furono uccisi e circa 50 feriti. A causa dell’importanza della tragedia, Sharpeville avrebbe comunque costituito un e-lemento storico fisso nella memoria del Sudafrica, in qualsiasi momento fosse accaduto. Ma il fatto che fosse accaduto in quel momento, e non in un altro, ebbe la sua impor-tanza. Infatti non si trattava della prima volta né dell’ultima in cui la polizia sudafricana aveva aperto il fuoco e ucciso dimostranti pacifici, non la prima volta né l’ultima che gli Afri-cani avevano protestato con dimostrazioni pubbliche contro le pass laws. Ma mentre gli altri incidenti saranno dimenticati o quasi, Sharpeville resterà maggiormente impressa nella memoria e nella storia: in Sudafrica e nel mondo al di fuori dei confini nazionali, quella tragedia non fu interpretata come un accadimento ancora una volta “isolato”. Sharpeville cominciò presto ad essere vista come parte della lotta nella quale l’intera struttura della società sudafricana veniva messa in discussione. Robert Sobukwe, presidente del PAC, parlò di un «passo in vista dell’ottenimento della libertà e dell’indipendenza da parte degli Africani»100. Aglio occhi degli oppositori dell’apartheid, i dimostranti che furono sparati erano dei martiri, simboli dell’oppressione e della spietatezza del governo sudafricano, nonché l’ulteriore prova della mancanza di umanità dello stesso governo nei confronti dei neri.

In seguito alla strage di Sharpeville, il governo e i nazionalisti africani si ritrovarono sempre più contrapposti in una feroce lotta, nella quale i due maggiori movimenti di op-posizione africani, l’ANC e il PAC, organizzarono scioperi, dimostrazioni e periodi di lutto per gli africani morti e il governo reagiva in modo alquanto vendicativo adottando contromisure repressive. Da notare è anche che il governo negò sempre che i disordini interni e la crescita dei movimenti di resistenza avessero la loro causa nelle politiche razziali del Paese. Anzi, i ministri affermarono sempre e in modo persistente che i problemi erano stati causati da elementi sovversivi, sia comunisti che liberali, al di fuori del Sudafrica. La relativa tranquillità che seguì Sharpeville fu imposta anche con lo Stato d’Emergenza e con la messa al bando dell’ANC, degli altri movimenti di opposizione e di tutti i loro membri.

99 Il PAC si era formato nel 1959 in seguito alla separazione di un gruppo di esponenti dall‘ANC. 100 J.Barber, op. cit.,p. 125.

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7. La Outward Policy

Alla fine degli anni ’60 i sudafricani bianchi erano venuti fuori dai pericoli e dalle sfide degli anni precedenti apparentemente più forti e più fiduciosi di prima. Molte minacce, come vedremo, restavano in piedi, ma i disordini di inizio decennio a-vevano forgiato tra i bianchi la fiducia nella loro stessa abilità a sopravvivere e a pro-sperare. Il periodo di crisi degli anni precedenti aveva fatto si che la componente bianca accet-tasse l’isolamento internazionale e soprattutto imparasse a convivere con i pericoli e-sterni alla sua ristretta società. Uno dei compiti del governo sudafricano stava nel dover convincere le persone sia den-tro che fuori dalla Repubblica, del fatto che un cambiamento radicale non fosse per niente inevitabile, e che le critiche contro il Sudafrica erravano nell’affermare che sa-rebbe dovuta esserci una rivoluzione.

Nel tentativo di contrastare la “pubblicità” internazionale ostile, i Nazionalisti al go-verno decisero di potenziare il loro servizio di informazione e soprattutto di propaganda. Nel 1962 infatti fu creato un Dipartimento dell’Informazione, con il suo proprio Mini-stro, che aveva il compito di rilevare le funzioni dal vecchio State information Office. I suoi obbiettivi erano quelli di promuovere una immagine favorevole e una immagine positiva del governo, sia all’interno sia all’estero, dove il lavoro del Dipartimento ve-niva completato e rafforzato dalla South Africa Foundation, che tra l’altro, doveva di-mostrare le opportunità reali di investimento in Sudafrica e aiutare le esportazioni suda-fricane. Il messaggio principale che sia il Department sia la Foundation lanciavano era che :

«Il Sudafrica è forte e affermato, e sarebbe sia difficile che doloroso fare guerra , an-che economica, contro di esso; è stabile e costituisce un alleato sicuro e una base per gli Stati occidentale; l’immagine della situazione internazionale dipinta dagli opposi-tori militanti è una grossolana stortura della realtà, le condizioni per I non-bianchi, così come quelle dei bianchi, sono migliori all’interno della repubblica che in qualsi-asi altra parte del continente».101

All’interno, il governo era impegnato a rassicurare la società bianca sul fatto che l’isolamento dalle organizzazioni internazionali non fosse poi di così grande impor-tanza. Dal punto di vista militare, il governo nazionalista era d’accordo con le affermazioni di Sidney Waterson, parlamentare dello United Party ed ex-ministro del governo Smuts , il quale nel 1962 aveva individuato tre aree generali di pericolo, nello specifico: un possi-bile attacco dei nuovi stati neri, sostenuti dalle forze comuniste; un grande conflitto Est-Ovest nel quale il Sudafrica sarebbe stato coinvolto come parte del blocco occidentale; una azione internazionale congiunta portata contro il Sudafrica con “il pretesto”102di at-tuare in modo forzoso il diritto internazionale, possibilità che sembrava essere la più probabile.

Barber afferma che con il senno di poi quelle minacce militari avrebbero potuto es-sere giudicate come “tigri di carta”103, ma al momento si trattava di minacce che appari-vano alquanto realistiche. Ecco perché il governo si diede il compito di confortare e riassicurare la società bianca. E per farlo, ma anche per prepararsi all’eventualità che una delle suddette minacce si concretizzasse, il governo decise di espandere la quota del budget dedicata alla difesa e

101 Ivi, p. 182. 102 Ivi, p. 190. 103 Ibidem.

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soprattutto si ebbe un aumento, nella seconda metà del decennio, delle spese del go-verno relative all’acquisto di mezzi militari. L’espansione delle forze armate portò anche all’aumento dei sudafricani che furono chiamati alle armi, e tutti bianchi .Si trattava della mobilitazione della nazione bianca che voleva difendere sé stessa.

Inoltre, un altro pilastro su cui si costruiva la fiducia dei sudafricani bianchi nel corso degli anni ’60 fu il continuo successo dell’economia, senza il quale difficilmente il go-verno avrebbe potuto sviluppare le sue costose politiche atte a contrastare le minacce e-sterne – politiche quali l’espansione ed il riarmo delle forze armate e lo sviluppo dei Bantustans. Quindi nel valutare la stabilità politica, l’economia poteva essere definita come un ba-rometro della fiducia del Sudafrica bianco.

Perciò possiamo dire che le fondamenta della outward policy risiedevano all’interno del Sudafrica, cioè nella forza economica e militare del Paese e nella fiducia della so-cietà bianca nella propria capacità di superare i pericoli e di mantenere saldo il controllo dello Stato. Da questa base “interna”, il governo volle proiettarsi all’esterno (outward in inglese, appunto), per influenzare, e rendere più favorevole a sé l’”ambiente internazionale cir-costante” nel quale la politica estera della Repubblica prendeva forma. Gli obbiettivi politici generali erano simili a quelli che i governo sudafricani avevano perseguito per generazioni- un ruolo-guida in Africa; sicurezza militare specialmente in Africa meridionale e sugli oceani circostanti; una rete estesa di contatti economici; iden-tificazione e cooperazione con l’occidente; esclusione di interferenze esterne nei propri affari interni. Quello che però distingueva la outward policy dalle precedenti politiche estere sudafri-cane era innanzitutto l’accresciuta capacità del governo di influenzare l’ambiente ester-no (grazie alle maggiori risorse economiche disponibili ai mutati sviluppi delle relazioni internazionali, specialmente in Africa meridionale, che avevano aperto nuove opportu-nità per il Sudafrica), e in secondo luogo la fiducia ma anche l’”urgenza” con cui questa politica veniva ora perseguita. I politici nazionalisti vedevano il loro ambiente circostante come una serie di cerchi concentrici:primo quello dell’Africa meridionale, poi il continente per intero, e infine la comunità internazionale al completo ma con particolare riguardo agli Stati occidentali. Il governo si rendeva conto del fatto che un successo in uno di quei cerchi avrebbe po-tuto aprire la via per nuovi successi negli altri cerchi, e che alla fine degli anni ’60 le opportunità si stavano aprendo in ognuno dei tre cerchi. Per questo i Nazionalisti cercavano di prendere l’iniziativa e sfruttare quelle nuove op-portunità e, anche se non sempre con successo, questo atteggiamento segnava una nuova fase, più fiduciosa e aggressiva, della politica estera. Quando si chiedeva loro di definire con maggiori dettagli la outward policy, i ministri davano normalmente due risposte: in primo luogo essi la definivano una politica estera “africana”, e in secondo luogo “una politica che cresceva con l’espansione economica e che ricercava quindi sbocchi e aperture per il commercio”104.

Un aspetto esclusivo delle relazioni esterne del Sudafrica durante il periodo dell’outward policy fu il tentativo consapevole di sviluppare un nuovo schema di rap-porti internazionali nell’emisfero Sud, lungo un asse Est-Ovest che dall’Australia e dalla Nuova Zelanda si allungava attraverso gli oceani meridionali per giungere sino all’America del Sud. Certo i progressi nel lo sviluppo dei contatti relativi all’emisfero Sud non furono così rapidi come i sudafricani bianchi avrebbero voluto.

104 Ivi, p. 228.

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Ma un punto significativo da sottolineare è che la “politica verso l’esterno” non era una politica specifica. Non si trattava semplicemente di una politica economica o di una po-litica “africana”o una unione delle due. Si trattava più precisamente di un più generale tentativo- secondo Barber- attuato dal governo Nazionalista, di migliorare la propria posizione internazionale.

E il governo era consapevole anche del fatto che la loro politica dei Bantustan 105co-stituiva uno dei più importanti “ponti” tra affari interni e politica estera. Il governo Vorster continuò a seguire la strada tracciata da Verwoerd , che consisteva nel mettere in relazione lo sviluppo delle homelands con la loro politica nei confronti dei loro vicini Stati neri. Infatti ricordiamo che l’apartheid era realizzato, secondo i piani del National Party, su due livelli: uno di questi era il «grand design»(grande progetto)106, con l’impegno conti-nuo a sviluppare separatamente le unità nazionali-razziali del Paese; l’altro livello era rappresentato dal petty apartheid (piccolo apartheid), che consisteva nel separare le per-sone di razze diverse anche nelle loro quotidiane attività, quindi con bus separati, aree abitative diverse, servizi sociali ben differenziati, e tantissime altre regolamentazioni che avevano lo scopo di tenere separate i bianchi dai non-bianchi. Entrambi i livelli di attuazione dell’apartheid ebbero implicazioni sulla politica estera di Pretoria: infatti il “petty apartheid” produsse sempre una forte ostilità internazionale e creò seri problemi pratici in alcune questioni, ad esempio l’accettazione di diplomatici neri in territorio sudafricano; ma fu il “grand design” l’elemento su cui il governo co-struì le sue speranze di essere accettato internazionalmente. Fonti governative asserivano che «le relazioni della Repubblica con i nascenti Stati-na-zione Bantu(i Bantustans) avrebbero fornito il modello per le relazioni con gli altri Stati neri»107. Ma, purtroppo per il governo, proprio il “grand apartheid” fallì nell’intento di ottenere la piena approvazione popolare, addirittura all’interno della società bianca.

8.Aspetti generali della politica estera sino al 1970

Le relazioni esterne del Sudafrica, come visto, furono secondo Barber largamente con-dizionate dalla situazione interna del Paese, e fu la situazione stessa del Paese a creare i principali pericoli esterni. Le forti critiche e l’ostilità internazionale erano dirette alle politiche razziali del go-verno. C’era un largo consenso riguardo a questo fattore negativo, per cui le richieste dei governanti nazionalisti in sede diplomatica cadevano spesso nel vuoto. Al contrario, i maggiori interventi di critica politica internazionale enfatizzavano la con-centrazione del potere politico nelle mani dei bianchi e tutti quegli elementi che face-vano palesare il mancato rispetto degli elementari diritti dei non-bianchi. Il governo sudafricano fu quindi sempre sotto pressione. William Wallace aveva parlato di «freni sociali forniti dal sistema internazionale»108: con questo indicava il fatto che

105 Il termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid. Negli anni del regime dell'apartheid voluto dal National Party allora al governo, le diverse etnie nere furono costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le loro possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono fortemente limitate. I bantustan erano uffi-cialmente regioni autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall'autorità del governo sudafricano bian-co. Il termine ufficiale usato dal governo bianco era homeland ("terra natìa" in inglese, corrispondente all'afrikaans tuisland); "bantustan" veniva generalmente usata in senso peggiorativo dai critici dell'apar-theid, ed è rimasto come termine più comune. 106 J.Barber, op. cit.,p. 232. 107 Ibidem. 108 Ivi, p. 304 [Citaz. da William Wallace, Foreign Policy and the Political Process (London, Macmillan,

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l’opinione internazionale mondiale, ma anche i valori condivisi riguardo a quali com-portamenti fossero da accettare e quali no, così come il diritto internazionale, costitui-vano tutti elementi che costringevano il governo sudafricano a guardarsi sempre le spal-le, a stare attento in particolare a tenere sotto controllo le reazioni internazionali alle sue politiche interne. La continua minaccia che gravava sui Nazionalisti era quella degli oppositori esterni e interni che insieme potevano mettere fortemente in discussione l’ordine esistente. Il governo protestava asserendo che gli attacchi erano ingiusti e distorcevano la realtà. Accusò allora a sua volta gli altri governi di attuare una discriminazione maggiore di quella che si poteva trovare in Sudafrica. L’argomento che però ancora di più era utilizzato dai diplomatici sudafricani era che « era sbagliato percepire le relazioni internazionali in termini di morale ed ideali. Si do-veva porre l’accento piuttosto sugli interessi materiali e sulla realpolitik »109. L’accento posto sui legami economici tra il Sudafrica e gli altri Stati era importante per i tentativi dei governanti sudafricani di influenzare le diplomazie estere. Certo, forse la parola influenzare non rende bene il concetto, ma ciò che fu chiaro ai su-dafricani bianchi fu che essi avevano ben poche speranze di riuscire a persuadere gli al-tri ad accettare i valori fondanti delle loro politiche razziali. Era senz’altro più facile, e più conveniente, puntare tutto sulla loro ricchezza economica e la loro (potenziale) importanza militare, elementi questi che facevano in modo che molti Stati occidentali avessero un interesse alla continua stabilità e prosperità econo-mica del Paese. Questa forza economica diede l’opportunità al Sudafrica di estendere la sua influenza sia tra gli Stati occidentali, sia tra gli Stati africani, in particolar modo nell’area meri-dionale, tramite l’offerta di supporto tecnico ed economico.

In termini di diritto internazionale la situazione non era così ben definita. Certamente furono fatti diversi tentativi di rendere più forti gli attacchi al Sudafrica su questioni morali ed etiche supportati da un sostegno legale, ma anche il governo suda-fricano “sfruttava” il diritto, nel senso che enfatizzava lo status quo come mezzo per di-fendere la sua posizione internazionale. In particolar modo, i Nazionalisti ponevano l’accento sulla sovranità statale e sul diritto di qualsiasi governo di stabilire la propria politica interna senza subire interferenze. Anche dopo Sharpeville, se da una parte lo scontro internazionale dei valori morali in questione sfociava in ostilità diplomatica, le azioni concrete prese contro il Sudafrica erano davvero limitate. Una serie di ragioni può spiegare questo fatto.

Innanzitutto un elemento importante era rappresentato dall’”ambiente internazionale” circostante, cioè i contatti economici già esistenti; la limitata capacità delle organizza-zioni internazionali di persuadere gli Stati sovrani ad intraprendere azioni comuni, ma anche la debolezza interna degli Stati africani di nuova formazione, la forza relativa del Sudafrica all’interno del continente africano; nonché la circostanza che il Sudafrica fos-se lontano dalle aree principali del confronto Est-Occidente, e che fosse in ogni caso strategicamente importante per un altro motivo, cioè per le rotte marittime che passa-vano per il Capo.

Un altro limite che si frapponeva all’azione internazionale era il fatto che mentre molti governi potevano anche essere preparati o pronti a denunciare il Sudafrica, le loro politiche nei suoi confronti erano ispirate alla ricerca di interessi particolari, non certo alla realizzazione di una moralità internazionalmente accettata. Barber conferma quanto sottolineato da Warner Levi, cioè che «gli interessi nazionali sovrastano la moralità»110. 1971), p. 19]. 109 Ivi, p.305.

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I principali oppositori del Sudafrica dell’apartheid cercarono di trasformare la generale disapprovazione in argomenti precisi in modo da coinvolgere direttamente interessi de-gli Stati. Per esempio, il presidente zambiano Kaunda tentò di persuadere gli Stati occidentali del fatto che un grande conflitto razziale riguardante tutta l’Africa meridionale fosse ormai prossimo alla deflagrazione. Dalla loro parte, i sudafricani bianchi evitavano intenzionalmente di imbarcarsi o farsi trascinare in dispute precise, e di assicurarsi che gli interessi diretti degli altri Stati, in particolar modo dei vicini africani e delle maggiori potenze occidentali, fossero protetti attraverso il mantenimento della stabilità politica e sociale in Africa meridionale.

Ma come detto prima, anche i contatti economici avevano la loro importanza. Soprattutto all’inizio degli anni ’60 i legami economici stranieri da cui dipendeva il Su-dafrica erano visti da alcuni dei suoi oppositori come una potenziale causa di debolezza, non di forza. Questi oppositori asserivano che il Sudafrica era talmente dipendente da questi links economici, che se essi fossero stati messi in pericolo, il governo di Pretoria avrebbe potuto essere obbligato ad apportare cambiamenti importanti alla situazione so-ciale interna. In quel periodo diversi tentativi furono fatti nell’ottica di organizzare sanzioni economi-che, ma ciò che si notava era una certa ritrosia, anzi una marcata riluttanza a intrapren-dere azioni economiche concrete, specialmente da parte dei principali partner commer-ciali del Sudafrica, come vedremo anche più avanti.

Aiutata da queste circostanze ad essa favorevoli, il Sudafrica prese alcune misure particolari per difendere la sua posizione. Durante il governo Smuts, la sicurezza era un obbiettivo che veniva ricercato all’interno del Commonwealth. Poi il National party salì al potere, e agli inizi almeno la scelta fu quella di rimanere nel Commonwealth e di cercare di entrare a far parte di qualche alleanza occidentale. Questo in quanto il governo Nazionalista ostentava una continua paura dello spaurac-chio comunista, ma anche perché la speranza era quella di ottenere l’impegno di qualche Stato occidentale a difendere politicamente lo status quo interno al Sudafrica. Gli Stati occidentali – ad eccezione della Gran Bretagna, che aveva fissato interessi mi-litari in Africa meridionale (si veda il paragrafo sul Simon’s Town Agreement) - rifiuta-rono di imbarcarsi in accordi formali di difesa con il Sudafrica.

Il fallimento di questo aspetto della politica estera sudafricana, tesa ad assicurarsi una qualche alleanza con gli occidentali, assunse grande importanza nel momento in cui il governo capì che lo Stato bianco era rimasto quasi senza amicizie politiche e soprattutto e quando si sentì circondato dai pericoli. Ma il governo, riflettendo i valori della società bianca, era talmente dedito a mantenere il dominio dei bianchi sui non-bianchi, che anziché cercare politiche di compromesso (che avrebbero potuto attrarre perlomeno un minimo sostegno internazionale), andò a-vanti con le sue politiche di apartheid. Accetto di restare così isolato dal punto di vista diplomatico, non facendo più parte del Commonwealth. Il capo del governo Verwoerd, con la sua “reazione di granito”111, rifiutò di accettare tutti i consigli di condivisione del potere tra bianchi e non-bianchi all’interno dello Stato esistente. Mentre quell’intransigenza aveva creato parecchi problemi al Sudafrica nell’ottenere “simpatie” diplomatiche, i suoi partner più stretti cominciarono a valutare se valesse

110 Ibidem[Citaz. da Warner Levi, “The relative irrelevance of moral norms in international politics” in James Rosenau, International politics and foreign policy (New York, Free Press, 1969), pp. 191-8]. 111 Ivi, p. 307.

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davvero la pena cercare di imporre cambiamenti radicali a un avversario così recalci-trante. Inoltre, in risposta ai pericoli che avvertivano al di fuori, il governo bianco avviò una rapida espansione delle forze armate, cosicché nel momento in cui il ritiro delle potenze coloniali dall’Africa fu completato, la Repubblica restava tutti gli effetti lo Stato mili-tarmente più forte di tutto il continente.

Alla fine degli anni ’60 così il governo di Pretoria poteva sentirsi in una posizione sostanzialmente più forte di quella attesa, specialmente per quel che riguardava le rela-zioni internazionali del continente africano. Il ritiro degli europei dalle colonie africane aveva fatto nascere pericoli così come op-portunità, e i sudafricani avevano stabilito di sfruttare queste ultime attraverso la loro forza economica e la loro potenza militare. Il pericolo rappresentato da un’eventuale iniziativa militare congiunta dei nuovi Stati a-fricani si era gradualmente affievolito, così come la paura che quegli stessi Stati per-suadessero altri Stati maggiormente potenti ad intraprendere azioni contro il Sudafrica.

Nonostante l’isolamento diplomatico si accrescesse sempre più e permanesse il peri-colo rappresentato dalle attività di guerriglia che potevano diffondersi dai territori di co-lonizzazione portoghese o dalla Rhodesia, il governo di Pretoria fu capace di sfruttare le sue risorse economiche, relativamente cospicue, per estendere la sua influenza, spe-cialmente tra i suoi vicini geografici. Stava allora emergendo un blocco di Stati dell’Africa meridionale raggruppato intorno al Sudafrica: i territori ancora portoghesi dell’Angola e del Mozambico, il Lesotho, il Botswana, lo Swaziland, la Rhodesia del Sud e il Malawi Da una parte questo blocco poteva essere visto come un gruppo di difesa dei bianchi, raggruppato attorno alla più potente Repubblica per contrastare sanzioni ed eventuali pericoli rappresentati dalle sanzioni economiche e dagli attacchi della guerriglia delle colonie portoghesi, gruppo che attirava anche quei piccoli nuovi Stati neri che non potevano fare altro che coopera-re. Dall’altra parte quel blocco di Stati poteva essere interpretato come la proiezione ester-na della forza del Sudafrica, proiezione che si esplicava nella creazione di un gruppo di stati dipendenti che potevano offrire alla Repubblica sostanziali vantaggi militari ed e-conomici.

L’emergere di quel blocco di Stati dell’Africa meridionale era la più chiara indica-zione dell’inizio di un nuovo periodo di fiducia del governo nella propria politica estera, la cosiddetta «outward policy»112. All’interno di questa politica estera si ritrovavano gli obbiettivi del governo Nazionali-sta, e specificamente quello di estendere l’influenza sudafricana nel resto del continente tramite l’utilizzo dei contatti economici o tecnici; la ricerca di nuove opportunità eco-nomiche; la creazione di un gruppo di difesa contro gli attacchi esterni; le speranze, an-che, di guadagnare alla nazione rispettabilità internazionale e accettazione diplomatica. Ma questi obbiettivi, alla fine degli anni ’60, sembravano ai Nazionalisti non impossi-bili da realizzare, per via di un insieme di circostanze generale più favorevoli al Suda-frica rispetto alla situazione dei primi anni del decennio. A causa delle aumentate risorse economiche a disposizione del governo e dei più favo-revoli sviluppi della situazione internazionale, la politica estera del Sudafrica si dimo-strava in quel periodo più fiduciosa e forte.

L’importanza della forza economica del Sudafrica è stata già sottolineata, e si deve aggiungere il fatto che nessun governo bianco del Sudafrica aveva avuto come obbiet-tivo la semplice «massimizzazione della ricchezza»113.

112 Ibidem. 113 Ivi, p. 308.

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Infatti vi era una complessa correlazione politico-economica, nella quale la continua crescita economica veniva perseguita, ma solo nella misura in cui questa non costituisse una sfida alla supremazia dei bianchi. Di fronte a sviluppi economici nuovi, il governo si trovò spesso a modificare il sistema di realizzazione dell’apartheid, e in termini economici si può dire chela crescita econo-mica della seconda metà degli anni ’60 teneva insieme le diverse componenti razziali dello Stato, in quanto i non-bianchi erano comunque la forza-lavoro necessaria allo svi-luppo economico voluto dai bianchi. Ma non va dimenticato che le divisioni politiche e sociali venivano rafforzate in modo crescente, e quando considerazioni di tipo economico venivano interpretate come una sfida, un pericolo per quelle divisioni, il governo rigettava quelle considerazioni eco-nomiche, per non rischiare di intaccare il sistema politico-sociale esistente. Dentro e fuori il Sudafrica erano in tanti a scommettere sul fatto che la continua crescita economica avrebbe minato i tentativi del governo di mantenere una società strutturata in modo razziale, ma sino al 1970 il governo sudafricano fu abile nel mantenere in modo o nell’altro il controllo della situazione economica e politica. Ma dal punto di vista diplomatico, l’ostilità e la condanna morale era pressoché univer-sale. Il governo non aveva l’opportunità quindi di intraprendere alcuna iniziativa inter-nazionale. Come dice Barber, esso era «costantemente costretto sulla difensiva»114.

114 Ibidem.

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Capitolo III. Il Sudafrica e la comunità internazionale.

1.ONU

Le ONG occidentali hanno giocato un ruolo molto importante nel sostenere le Nazioni Unite nel corso del processo di identificazione delle ingiustizie e di riconoscimento dei legittimi rappresentanti delle persone senza potere, e hanno svolto questo lavoro tramite la raccolta di prove, la presentazione di petizioni, assistenza ai promotori delle stesse petizioni, e portando avanti azioni di lobbying presso i governi membri e le agenzie spe-cializzate all’interno delle ONU. Infatti, le Nazioni Unite cominciarono a mettere in pra-tica una vasta azione tesa alla liberazione dall’apartheid all’inizio degli anni ’60. Quale è stato il punto di svolta? Chiaramente il massacro di Sharpeville del marzo 1960 costituì un potente catalizzatore del cambio di attitudine "internazionale", almeno secondo le dichiarazioni ufficiali dei rappresentanti nazionali all’ONU.

Numerosi appelli, per porre fine alle discriminazioni, furono rivolti alle Nazioni Uni-te che, nel giugno del 1964, condannarono ufficialmente l’apartheid; il Consiglio di Si-curezza fu chiamato a portare avanti uno studio sulla situazione per decidere le sanzioni da applicare al Sudafrica. In seguito a questa condanna, nell’ottobre del 1966, l’Assemblea Generale si pronunciò per la fine del protettorato sudafricano sui territori del Sud-Ovest. Il governo sudafricano non diede peso alle decisioni prese dall’ONU e accelerò il processo d’integrazione economica del territorio della Namibia; ciò provocò la reazione dei guerriglieri dell’Organizzazione popolare del sud-ovest africano (SWA-PO) che oltrepassarono il confine dell’Angola e intrapresero ripetuti attacchi contro gli interessi sudafricani in Namibia. Il conflitto terminò, nel 1988, con il riconoscimento dell’indipendenza del paese.

La posizione delle Nazioni Unite relativamente alla questione dell’apartheid, era sta-ta definita primariamente dall’Assemblea Generale e, secondariamente, da diverse a-genzie e organi del Comitato delle Nazioni Unite per l’apartheid. La posizione maggioritaria, portata avanti dall’Assemblea Generale, va distinta da quel-la del Consiglio di Sicurezza, « la quale non fu in grado di tenere una simile linea politi-ca nei confronti del Sudafrica a causa dell’opposizione Di Stati Uniti, Regno Unito e Francia tutti e tre membri permanenti in possesso del diritto di veto»115.

Non si tratta di una semplice questione legale o giuridica, in quanto il problema risie-deva certamente nel fatto che le potenze occidentali erano i principali partner del Suda-frica per quanto riguardava la cooperazione economica e militare, e il successo o meno delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in materia dipendeva dalla prontezza, o me-glio dalla volontà delle suddette potenze di dar seguito alle risoluzioni stesse.

Il processo di legittimazione-potremmo chiamarlo così- della rivoluzione contro l’apartheid, portato avanti dai primi anni ’60 dalle Nazioni Unite, cominciava con riso-luzioni di carattere generale riguardanti l’indipendenza della Namibia116, i diritti degli Africani e delle maggioranze non-bianche, richieste di disimpegno diplomatico, em-

115 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 21. 116 Ricordiamo che Pretoria rivendicava sul territorio dell’Africa del Sud-ovest la continuazione dell’istituto del Mandato, istituto che, invece, doveva considerarsi decaduto insieme alla defunta Società delle Nazioni.

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bargo alle armi, aiuto per i movimenti di liberazione, e sanzioni economiche per rendere più efficaci e far rispettare quelle misure. Negli anni ’70 invece l’intervento si è tradotto in un più attivo supporto per mezzo di comitati, fondi e agenzie.

Tornando a Sharpeville, l’episodio indubbiamente segnò il momento di più marcata repressione delle proteste della maggioranza bianca, o almeno fu l’episodio che più su-scitò indignazione presso i movimenti anti-apartheid in tutto il mondo. Prima del sud-detto eccidio, in cui persero la vita decine di manifestanti, le politiche razziali interne del governo di Pretoria erano deplorate, e venivano giudicate però come essenzialmente rientranti nella cosiddetta domestic jurisdiction, materia quindi nella quale poco poteva essere fatto a livello di Nazioni Unite, in base alla stessa Carta dell’ONU.

Ma una volta che al mondo intero fu chiaro che la volontà del governo sudafricano era quella di schiacciare con la forza i movimenti africani non-violenti che si battevano per i loro diritti, l’opinione presso i circoli dei governi delle nazioni occidentali comin-ciò a spostarsi verso prese di posizione meno morbide, e fu adottata una risoluzione in seno al Consiglio di Sicurezza. Quella risoluzione da una parte si appellava al governo di Pretoria affinché mettesse fi-ne alla sua politica di imposizione continuata di misure repressive e discriminatorie, af-finché liberasse tutte le persone imprigionate, internate, o « soggette ad altre restrizioni per essersi opposte alla politica di apartheid »117, e dall’altra si chiedeva a tutti gli stati di interrompere la vendita di apparecchiature e materiali per la costruzione e la ma-nutenzione di armi nei confronti del Sudafrica.

Ma come spesso capita, quando si deve passare dalla teoria alla pratica, le cose si complicano quando ci sono di mezzo interessi economici. E, infatti, le potenze occidentali vacillarono, non furono cioè determinate nel supporta-re un embargo relativo agli armamenti, e la Francia fu sicuramente lo Stato che mag-giormente violò tale risoluzione O.N.U. I governi statunitense e britannico supportarono un embargo militare volontario sino al 1963, ma il tentativo di implementare questa misura fallì, e il Consiglio di Sicurezza, bloccato spesso come era dai veti incrociati, non arrivò a una decisione vincolante che vietasse il commercio di armi con il Sudafrica se non con la risoluzione del 7 agosto del 1963118.

Ciò che maggiormente distingueva la posizione della maggioranza dell’Assemblea Generale da quella delle maggiori potenze occidentali era il fatto che la prima aveva spinto per l’adozione di sanzioni economiche relative al commercio e agli investimenti in Sudafrica, mentre la seconda si opponeva sia alle sanzioni economiche sia al sostegno dei movimenti di liberazione. Relativamente agli Stati occidentali più piccoli, si può dire che essi contribuirono dall’inizio ad aiutare le vittime dell’apartheid attraverso il Fondo Speciale delle Nazioni Unite per il Sudafrica, e mostrarono un crescente sostegno al processo di legittimazione dei movimenti rivoluzionari contro l’apartheid. Essi inoltre supportarono sempre più forme di opposizione quali il bando nello sport contro il Sudafrica e una riduzione dei legami diplomatici con Pretoria.

L’organo che ricoprì il ruolo di forza trainante, all’interno dell’O.N.U., per quanto riguarda il processo di legittimazione della liberazione dall’apartheid fu sicuramente il Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid, istituito nel 1962 con risoluzione dell’Assemblea Generale allo scopo di esaminare le misure raccomandate dalla stessa,

117 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 22. 118 United Nations, The United Nations and apartheid 1948-1994,united Nations Department of Public Information, New York, 1994, p. 20. «On 7 August, it adopted -by 9 votes in favour[…]resolution 181 (1963), the first call ever for an arms embargo against a Member State» (il 7 agosto esso [il Consiglio di Sicurezza] adottiò con 9 voti a favore la risoluzione 181, la prima richiesta di sempre a favore di un em-bargo contro uno Stato Membro).

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quali sanzioni diplomatiche ed economiche. Le potenze occidentali, che sino al 1970 avevano sostenuto l’altro Comitato, (cioè il preesistente Comitato dei 24119), ostacola-rono e anzi a volte proprio ignorarono le attività del nuovo Comitato Speciale , proprio perché quest’ultimo incoraggiava il supporto ai movimenti di liberazione e propugnava sanzioni economiche contro Pretoria.

La posizione della neonata Organizzazione per l’Unità Africana esprimeva sostegno ai movimenti di liberazione, mentre Stati Uniti e Gran Bretagna si opponevano conti-nuamente all’uso della violenza. Questa contrapposizione emerse in tutta la sua durezza durante le consultazioni relative al Programma di Azione, presentato all’O.N.U. tramite il Comitato Speciale dei 24 nel 1970. Londra e Washington vollero opporsi alla proposta degli Stati Africani, e portarono una loro contro-proposta all’Assemblea Generale di quell’anno tramite una risoluzione al-ternativa, presentata congiuntamente a Italia e Norvegia, che richiedeva alle parti in causa l’adozione di una composizione non violenta della questione sudafricana dell’apartheid. Dal momento che venne approvata la richiesta degli Stati Africani di sostenere i movi-menti di liberazione e adottata la relativa risoluzione in sede di Assemblea Generale, Stati Uniti e Regno Unito si ritirarono dal Comitato Speciale dei 24.

Ancora a proposito dell’O.U.A., nel 1973 si tenne a Oslo la Conferenza O.N.U.-O.U.A. sull’Africa meridionale, e delle raccomandazioni vennero fatte in questa sede al fine di un’implementazione, da parte delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, di risoluzioni che sostenessero i movimenti di liberazione. Fu così che questi ultimi vennero riconosciuti, in ambito O.N.U., come «autentici rap-presentanti »120dei loro popoli. Alle successive sessioni dell’Assemblea Generale così si invitarono, in qualità di osser-vatori, i rappresentanti di quei movimenti di liberazione che fossero stati precedente-mente riconosciuti dall’O.U.A., e questo valeva in relazione ai lavori (dell’Assemblea Generale e delle sue agenzie) che per le questioni trattate fossero rilevanti per gli stessi movimenti. Se a questo poi si aggiunge che gli ormai ex-movimenti di liberazione nei territori di co-lonizzazione portoghese si stavano trasformando in veri e propri governi indipendenti, e che l’O.U.A. insisteva affinché fosse concesso lo status diplomatico anche ai restanti movimenti dell’Africa meridionale, si comprende come fosse ormai arduo, per le poten-ze occidentali, opporsi a questo processo di riconoscimento e legittimazione dei movi-menti di liberazione.

L’azione delle Nazioni Unite sicuramente non è stata resa facile dai contrasti interni, specialmente con riferimento al Consiglio di Sicurezza. Anche quando l’orrore nei confronti dell’apartheid era divenuto un sentimento univer-sale, furono necessari diversi anni di pazienti e persistenti sforzi da parte delle Nazioni Unite per costruire un consenso tra gli Stati membri sulla necessità e desiderabilità di andare oltre la semplice condanna del regime di Pretoria e di raggiungere un accordo per dare al più presto «l’assistenza necessaria ai popoli oppressi nella loro legittima lotta contro il governo sudafricano» (come a suo tempo scrisse Boutros-Ghali)121.

All’inizio, la condanna dell’apartheid da parte delle Nazioni Unite fu fonte di grande incoraggiamento per quei sudafricani che si opponevano strenuamente alla tirannia raz-

119 Il Comitato dei 24,creato nel 1961 in seguito all’adozione di una risoluzione dell’Assemblea Generale, aveva il compito di monitorare il processo di decolonizzazione in atto proprio a partire da quel periodo; tale Comitato rappresentava per la maggior parte Stati africani già indipendenti 120 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 24. 121 U.N. Department of Public Information, The United Nations and APARTHEID 1948-1994,United Na-tions Department of Public Information, New York, 1994, p.4.

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zista. Quando lo stesso Mandela fu accusato in tribunale di aver guidato un sabotaggio a livello nazionale, il futuro presidente della repubblica seppe far riferimento, durante la sua dichiarazione, alla risoluzione dell’Assemblea Generale del giorno precedente (6 novembre 1962), che reclamava l’adozione di sanzioni contro Pretoria; « Egli disse: “Io odio la pratica della discriminazione razziale, e in questo mio odio sono sostenuto dal fatto che la stragrande maggioranza del genere umani la odia allo stesso modo” »122 .

Negli anni successivi le Nazioni Unite costituirono un vero e proprio forum per i mo-vimenti di liberazione e intrapresero una campagna internazionale contro l’apartheid.

Non è irrilevante a livello politico il fatto che tra le decisioni prese ci fu quella di e-scludere i rappresentanti del governo sudafricano dagli incontri dell’O.N.U. e di rico-noscere invece come autentici rappresentanti del popolo sudafricano i movimenti di li-berazione. Inoltre si decise di dedicare tempo e risorse considerevoli allo sviluppo di pressioni internazionali sulle autorità sudafricane e all’assistenza del crescente movi-mento mondiale contro l’apartheid, e questo non solo tramite il coinvolgimento dei Go-verni rappresentati al palazzo di Vetro, ma anche chiamando in causa tutte le persone e i popoli nella campagna contro la segregazione razziale.

Secondo l’analisi di Butros-Ghali ci furono tre distinte fasi nell’opera delle Nazioni Unite di fronte all’apartheid a partire dal momento in cui il governo di Pretoria ebbe formalizzato le sue politiche di negazione dei diritti della maggioranza non-bianca.

1)Nel primo periodo, che è stato individuato come quello che va dal 1948 al 1966, l’O.N.U. ripetutamente fece appello al Sudafrica affinché rivedesse le sue politiche al fine di assicurare piena uguaglianza di diritti a tutto il popolo sudafricano. Poiché le autorità governative si rifiutarono di dare ascolto a tali appelli e in particolar modo dopo il massacro di Sharpeville del 1960, gli organi principali delle Nazioni Unite cominciarono a prendere in considerazione le misure- comprese le sanzioni economiche - da attuare per convincere Pretoria a ricercare una soluzione pacifica. Il Consiglio di Sicurezza appunto votò nel 1963 l’adozione dell’embargo militare, ma a causa del veto dei suoi 5 membri permanenti non ci fu l’adozione di misure economiche più vaste, misure che l’Assemblea Generale aveva ripetutamente richiesto. Intanto la stessa Assemblea Generale era riuscita a creare il Comitato Speciale contro l’Apartheid, attraverso il quale avrebbe in seguito potuto organizzare un’azione concer-tata a livello internazionale.

2)Nel secondo periodo, dal 1967 al 1989, ci fu, in seguito alla continua intransigenza ed aggressività delle autorità sudafricane, il lancio da parte delle Nazioni Unite della campagna internazionale, che fu infine estesa a tutto il globo e isolò sempre più il Suda-frica nella maggior parte delle sue relazioni internazionali. Indubbiamente all’interno degli organi principali le divergenti vedute degli Stati membri sulla necessità o meno di adottare in modo obbligatorio determinate sanzioni erano difficili da eliminare, ma le Nazioni Unite riuscirono lo stesso a promuovere vari embarghi contro il Sudafrica, tra cui quello relativo alle armi, e quello petrolifero. Non mancarono inoltre altre iniziative quali boicottaggi sportivi e culturali, e altre for-me di azione pubblica. La campagna internazionale riuscì ad attrarre supporto in tutti i Paesi, inclusi quelli che allora erano i principali partner commerciali e i cui governi erano restii ad imporre san-zioni contro il Sudafrica.

3) Nella terza e ultima fase -dal1990 al 1994- l’O.N.U. incoraggiò continuamente le autorità governative di Pretoria, mentre queste si accingevano a rendere legali i movi-menti di liberazione e a trovare soluzioni di negoziato.

122 Ivi, p. 5.

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Quando alla fine degli anni ’80 una soluzione di tipo negoziale divenne possibile, l’O.N.U. fu capace di giocare un ruolo centrale nel facilitare le consultazioni tra le parti sudafricane in lotta e nell’assistere attentamente la transizione a una forma di stato de-mocratico e non più razziale. L’Assemblea Generale aveva adottato la “Dichiarazione sull’apartheid e le sue conse-guenze distruttive nell’Africa meridionale”, e proprio da questa Dichiarazione partì il processo che arrivò alle storiche elezioni del 1994: «Le Nazioni Unite hanno giocato un ruolo cruciale nel promuovere i negoziati e nell’aiutare a garantire elezioni libere e puli-te, su richiesta non solo dei maggiori partiti ma anche della minoranza dello stesso go-verno sudafricano»123. Infine nel 1994 le Nazioni Unite coordinarono l’osservazione internazionale delle prime elezioni democratiche.

2. L’ambivalenza dei rapporti con l’Occidente.

Nel 1963 quindi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva deciso per l’adozione dell’embargo relativo alla vendita di armi al Sudafrica. Sottolineiamo che questo bando non era stato deciso sulla base del Capitolo VII della Carta, ma sulla base del VI, e quindi non si trattava di una misura “obbligatoria”(«mandatory»)124. In ogni caso era la prima volta che il Consiglio di Sicurezza prendeva una tale misura nei confronti di un membro ONU. Lo scopo era quello di rompere la relazione di supporto militare tra il cosiddetto sistema Atlantico e il Sudafrica: ma non riuscì certamente a bloccare il flusso di armi prove-nienti dall’Occidente, e nemmeno a cambiare, almeno nell’immediato, i rapporti di so-stegno militare. L’embargo aveva dato « l’illusione di una significativa azione morale in una situazione cambiata di poco »125. La tesi per cui le necessità economiche del momento rendessero necessario proteggere interessi primari delle potenze occidentali e giustificassero l’uso di basi militari sudafri-cana fu vigorosamente criticata dagli africani in genere e dalle loro alleate ONG. Nonostante tutto,i passi successivi compiuti dai governi britannico e statunitense anda-rono nella direzione di potenziare la base di Simon’s Town, sebbene ufficialmente se ne dovessero ritirare, e nella costruzione di una nuova base sull’atollo di Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Ciò indica che la relazione di collaborazione con il Sudafrica non veniva per niente in-terrotta. « Nonostante Stati Uniti e Gran Bretagna negassero ciò126, le prove contraddi-cevano le loro obiezioni »127.

Gli americani adottarono generalmente verso il Sudafrica un atteggiamento diploma-tico più ostile rispetto a Gran Bretagna e Francia (come vedremo). Gli Stati Uniti avevano dato il loro supporto al bando sulle armi e furono contrariati o-gniqualvolta i governi di Londra e Parigi lo violarono. In realtà le relazioni tra Washington e Pretoria non furono mai delle migliori.

123 Ivi, p. 6. 124 Ivi, p. 20. 125 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87. 126 Ivi, p. 84 127 La pubblicazione nel 1974 di un memorandum segreto del National Security Council (NSSM 39) indi-cava alcuni degli aspetti di questa continua complicità militare. 125 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87.

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Mentre entrambi i governi potevano ritrovare dei vantaggi in una limitata cooperazione politica, il governo statunitense non fu mai disposto a farsi troppo coinvolgere. Alcuni episodi che rivelarono la tensione esistente tra Stati Uniti e Sudafrica erano rela-tivamente insignificanti in sé: i sudafricani ad esempio si offesero, e non poco, quando gli americani invitarono elementi non-bianchi ad una festa in ambasciata. O anche, a un giocatore statunitense nero non fu concesso il visto d’ingresso in Suda-frica; si vennero a creare grande confusione e malinteso anche quando si trattò di con-cedere il permesso, ad alcuni marinai americani neri, di sbarcare sulle coste sudafrica-ne.

Eppure, nonostante ci fosse una certa tensione nei rapporti diplomatici tra i due go-verni, si trattava sempre di tensione repressa o nascosta. Secondo James Barber, gli sta-tunitensi, pur rilasciando dichiarazioni contro l’apartheid tramite, per esempio, i loro rappresentanti all’ONU Adlai Stevenson e Arthur Goldberg, vollero sempre evitare di essere coinvolti in una nuova crisi internazionale. Perciò gli statunitensi preferivano guardare al Sudafrica e all’Africa meridionale in ge-nere come ad una “low profile area”( area di basso profilo)128, usando le parole dell’allora Segretario di Stato William Rogers. Questo atteggiamento rifletté uno spostamento nel pensiero americano rispetto ai primi anni ’60 quando gli affari dell’Africa sembravano avere una crescente importanza inter-nazionale. L’incertezza dell’attitudine statunitense di fronte al problema africano deri-vava anche dal contrasto di interessi che in quel momento agitavano la politica interna degli USA. Più precisamente, ci fu un conflitto tra gli ideali di auto-determinazione ed uguaglianza tra le razze, e gli interessi consolidati economici e militari. Sommato agli interessi materiali, ci fu poi un notevole movimento ideologico decisa-mente di destra che ebbe l’effetto di produrre una “lobby” amica del Sudafrica bianco. Secondo McKay questa lobby si rafforzò durante gli anni ’60, e se da una parte il go-verno di Washington restava pubblicamente ostile al dominio bianco in tutta l’Africa meridionale, all’interno degli Stati Uniti si moltiplicavano le simpatie verso questi ul-timi, catalizzate da organizzazioni come l’American-Southern African Council. Lo stesso McKay aveva spiegato questa simpatia crescente verso i bianchi rhodesiani e sudafricani in parte chiamando in causa un certo sentimento anti-britannico, e in parte appoggiandosi alla teoria dell’effetto- domino, per cui se uno Stato stabile fosse crollato in Africa meridionale, gli altri Paesi circostanti avrebbero seguito la stessa sorte, por-tando al risultato di una situazione caotica che non avrebbe fatto piacere a nessuno, e meno che mai avrebbe fatto gli interessi degli Stati Uniti129. Come si può immaginare, una difficoltà di cui i ministri e le autorità di Pretoria si la-mentavano riguardo alle loro relazioni con gli Stati Uniti era che non erano mai sicuri su quale delle tante voci americane rappresentasse la politica ufficiale del governo .

Le autorità sudafricane spesso si trovarono di fronte a posizioni contrastanti da parte del Pentagono, che si diceva fosse generalmente disposto alla cooperazione con Preto-ria, e da parte del Dipartimento di Stato, ostile nei confronti del governo bianco nazio-nalista. Disse il Capo del Governo Vorster riguardo alla politica statunitense: «Francamente, non sappiamo quale sia. E comunque, quel poco che conosciamo riguardo alla politica statunitense verso il Sudafrica, non lo capiamo per niente […]Non riusciamo a capire perché il Dipartimento di Stato adotti questo atteggiamento nei nostri confronti. Presu-

128 J. Barber, op. cit., p. 291. 129 Ivi, p. 292 [Citaz. da Vernon McKay in William A. Hence (ed.), Southern Africa and the United States (New York, Columbia University Press, 1968), p. 24.].

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mibilmente è a causa della nostra politica interna, che però rappresenta esclusivamente un nostro affare interno»130. Nonostante la politica statunitense fosse difficile da identificare con precisione, con il passare del tempo emerse un generale atteggiamento ufficiale che rispetto a quello o-stentato dal governo britannico appariva meno coinvolto nella questione sudafricana e caratterizzato da una maggiore ostilità “verbale”, anche se – ci fa notare Barber – la sua politica e quella di Londra differivano ben poco riguardo agli scopi. In parole povere gli americani ricercavano un «sentiero che potesse evitare difficoltà e complicazioni[…] Essi disprezzavano la discriminazione razziale ma dubitavano che fosse possibile ottenere un qualsiasi cambiamento radicale nel breve periodo»131.

L’ambivalenza americana apparve ancora più chiara in seguito ad alcune dichiara-zioni del Segretario di Stato William Rogers e del Presidente Nixon. Nelle loro dichiarazioni gli alti ideali facevano a pugni con la realtà percepita. Le richie-ste di cambiamento perdevano forza a causa del rifiuto di impegnarsi e di essere troppo coinvolti, il sostegno morale alla causa dei neri africani era controbilanciato dall’interesse a mantenere l’ordine allora esistente. In particolare la dichiarazione di Rogers arrivò dopo una fugace visita presso una decina di Stati africani, tour che però non aveva incluso il Sudafrica. E proprio in riferimento alla Repubblica Sudafricana il Segretario di Stato statunitense disse che non vi sarebbe stato «nessun vantaggio per la sua nazione nel rompere i con-tatti con Pretoria», aggiungendo che però questa posizione di non-rottura «non implica-va assolutamente nessuna accettazione o giustificazione del suo sistema discriminato-rio»132. William Rogers, nel conflitto tra il governo bianco e la maggioranza non-bianca si iden-tificava sicuramente con i primi. Disse inoltre il Segretario di Stato: « Noi stiamo dalla parte dei fondamentali diritti u-mani in Africa meridionale »133. Ma dobbiamo anche rendere conto di una dichiarazione alquanto infelice del Vice-Presidente Americano Humphrey, in risposta alla richiesta d’aiuto del presidente zam-biano Kaunda. Durante la visita che Humphrey fece nel 1968 nell’ex - Rhodesia del Nord, Kaunda lo avvertì del fatto che una catastrofe si sarebbe rivelata inevitabile in Africa meridionale nel caso in cui gli Stati Uniti non fossero intervenuti rapidamente. Humphrey rispose dicendo « Noi non siamo timidi…siamo sulla vostra stessa linea po-litica». Ma dopo il Segretario di Stato disse ai giornalisti che Kaunda in realtà «stava ingigantendo la questione e stava sovrastimando quello che gli Stati Uniti potevano fare riguardo a essa»134. Riguardo al Presidente Nixon, ricordiamo il suo pensiero – o almeno quello che uffi-cialmente affermava essere il suo pensiero- secondo il quale «per ragioni sia morali che storiche gli Stati Uniti avrebbero mantenuto saldamente la posizione a favore dei princi-pi di eguaglianza razziale e di auto-determinazione»135. Ma poi disse anche che gli anni ’60 avevano dimostrato quanto fosse di difficile risolu-zione il problema razziale. Secondo il capo di Stato americano le tensioni dell’Africa meridionale si sarebbero giustificate per il fatto di essere state profondamente radicate nella storia della regione.

130 Ibidem (Citaz da Cockram, Vorster’s Foreign Policy, p. 193). 131 Ivi, p. 292. 132 Ivi, p. 293 . 133 Ibidem. 134 Ibidem. 135 ibidem.

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Quindi la posizione ufficiale di Nixon esprimeva sì la consapevolezza della necessità di risolvere il problema, ma anche la consapevolezza di trovarsi di fronte a un dilemma, quello relativo a come si potesse risolvere al meglio la questione sudafricana. Nixon rifiutava certamente la violenza, in quanto « la violenza e la contro-violenza che essa stessa inevitabilmente provoca avrebbero solamente reso molto più difficile il compito di quelli che, da entrambe le parti, si davano da far per portare dei progressi sulle questioni razziali»136. Perciò Nixon accolse con favore il Manifesto di Lusaka dei leader africani137, infatti il presidente aveva interpretato il Manifesto come qualcosa di “adatto” alla politica estera americana nei confronti del Sudafrica, in quanto, almeno in principio mirava ad una risoluzione pacifica della questione razziale, e questo permette-va a Nixon di non vedersi coinvolto più di tanto nella questione. Ma ciò che Nixon forse ignorava era che, se è vero che i leader incontratisi a Lusaka a-vevano affermato di preferire una risoluzione pacifica, essi avevano detto anche che se la liberazione dei popoli dell’Africa meridionale non fosse stata ottenuta tramite metodi pacifici, “altri metodi sarebbero stati usati”138, evenienza che tra l’altro ormai si veniva realizzando in seguito alla situazione di crescente guerriglia che interessava l’Africa meridionale. Diversi portavoce dell’amministrazione Nixon continuavano ad affermare che l’embargo stesse sempre funzionando, ma le cose erano cambiate in seguito a un « me-morandum relativo ad una decisione del NSC, pubblicato nel 1970, che rivedeva le li-nee-guida precedenti, cosicché ora la burocrazia tende ad approvare le proposte di ven-dita di armi che sarebbero state rigettate sotto le precedenti Amministrazioni»139. Possiamo affermare che se da una parte il bando alla vendita di armi era operativo nel 1973, non si trattava però certo dell’embargo militare generale degli anni precedenti, quando gli Stati Uniti furono governati dalle Amministrazioni Kennedy e Johnson. In parole povere gli standard chiaramente stabiliti sotto le due precedenti amministra-zioni erano stati, per così dire, dimenticati da quella successiva, che preferiva curare con più decisione lo sviluppo del commercio statunitense o magari non gradiva tali limita-zioni alle relazioni commerciali tra il suo Paese e il Sudafrica.

Se da una parte Regno Unito e Stati Uniti avevano accettato l’idea dell’embargo sulle forniture di armi al Sudafrica, la loro accettazione era in realtà da considerare “condi-zionata” sin dall’inizio. L’iniziativa dell’Amministrazione Kennedy di applicare un embargo sulle armi, prima ancora che agisse la Gran Bretagna, va vista nel contesto di quel determinato periodo. Infatti nei primi anni ’60 era massima l’influenza dei nuovi Stati africani e dei movi-menti di liberazione; molte nazioni erano appena diventate indipendenti e la loro pre-senza alle Nazioni Unite, al Palazzo di Vetro di New York, aveva attirato l’attenzione di tutta la comunità internazionale. I nuovi capi di Stato africani facevano spesso visita al Presidente USA Kennedy, e im-mancabilmente, in occasione di queste visite non si facevano sfuggire l’opportunità di sollevare la spinosa questione del Sudafrica. Gli Stati Uniti guidati da Kennedy quindi, furono la prima potenza occidentale a conce-pire l’embargo sulle armi contro il Sudafrica come mezzo per provocare un cambia-mento sociale.

136 Ivi, p. 294. 137 Il Manifesto di Lusaka dei leader africani fu l’atto ufficiale con cui, il 13 aprile del 1969, i rappresen-tanti di 14 Stati africani, riunitisi nella capitale zambiana, fecero il punto della situazione relativamente agli Stati indipendenti africani e fecero fronte comune a favore del governo della maggioranza nera in tut-te le nazioni africane. L’approccio del Manifesto e dei suoi firmatari era di opposizione nei confronti del regime di Pretoria, ma fautore anche di un dialogo pacifico piuttosto che di un conflitto armato in vista della risoluzione della questione razziale. Più tardi il Manifesto sarà pure accolto dall’ONU e dall’OUA. 138 J. Barber, op. cit., p. 294. 139 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 87.

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L’idea fu introdotta per la prima volta nel 1962 in modo unilaterale dall’Amministrazione Kennedy a seguito dell’accresciuto interesse degli USA nei con-fronti dei nuovi Stati Africani e a causa dei neri americani che, grazie anche alle loro manifestazioni, avevano ottenuto una discreta considerazione da parte di quella stessa Amministrazione. Quindi nell’agosto del 1963 gli Stati Uniti sostennero la risoluzione sull’embargo in se-de di Consiglio di Sicurezza, ma lo fecero a una condizione: a patto cioè, che « il Suda-frica fosse considerato un alleato in caso di conflitti futuri che avessero coinvolto inte-ressi statunitensi»140.

L’adesione degli Stati Uniti all’embargo militare fu inquadrata chiaramente dall’ Ambasciatore Stevenson fuori dalle previsioni del Capitolo VII della Carta delle Na-zioni Unite( quello che prevede misure coercitive), in quanto la visione del governo Kennedy riteneva che lo stesso embargo fosse una politica appropriata da perseguire ma all’interno delle previsioni del Capitolo VI (relativo alla risoluzione pacifica delle con-troversie): ciò non è irrilevante, perché rientrava nella consolidata posizione statunitense che giudicava l’apartheid come una violazione dei diritti umani piuttosto che una mi-naccia per la pace. Solamente dopo che fu chiaro a tutti che non si sarebbe trattato di una misura coercitiva, Gran Bretagna, Francia(astenutisi nella votazione della precedente risoluzione) e Stati Uniti contribuirono con il loro voto positivo all’adozione unanime di una seconda riso-luzione del Consiglio di Sicurezza, la numero 182 datata 4 dicembre 1963, la quale “ ri-chiedeva a tutti gli Stati di conformarsi alla risoluzione 181[ quella precedente, datata agosto], nella quale il Consiglio di Sicurezza aveva richiesto l’embargo sulle armi, e i-noltre richiedeva al Segretario Generale di costituire […]un piccolo gruppo di esperti riconosciuti per esaminare i metodi di risoluzione della situazione in Sudafrica”141. In questo modo il sistema di sicurezza del blocco atlantico veniva tenuto saldamente sotto controllo dagli Stati centrali, che semplicemente si limitavano a censurare la poli-tica di un loro alleato, piuttosto che minacciare l’uso della forza contro uno Stato tra-sgressore della pace.

Sebbene il Regno Unito avesse votato a favore della risoluzione del 1963, l’accettazione ufficiale del concetto stesso dell’embargo sulle armi non arrivò prima della fine del 1964, dopo che alle elezioni politiche il Partito Laburista, guidato da Wil-son, salì al potere. La differenza di vedute tra i Conservatori e i Laburisti a proposito dell’embargo fu netta dall’inizio. Molti membri del Partito Conservatore erano da sempre stati a favore dei “coloni” sudafricani, mentre la posizione della loro stessa leadership fu sempre quella di opporre resistenza a qualsiasi tentativo di estromettere il Sudafrica dal sistema di sicu-rezza occidentale. Mentre i Laburisti, sotto il primo governo Wilson, sostennero l’embargo sulle armi e si opposero all’estensione di nuovi accordi od obblighi internazionali al Sudafrica, il go-verno Conservatore di Heath continuò ad utilizzare la base navale di Simon’s Town, a promuovere l’uso della nuova base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano e ad adempiere agli impegni contrattuali sulle forniture presi dai governo conservatore. Il Presidente della Tanzania, Julius Nyerere, disse che, chiedendo alla Gran Bretagna armi per difendere le rotte intorno al Capo di Buona Speranza, il governo sudafricano reclamasse in realtà da Londra anche un « un riconoscimento di rispettabilità»142.

Durante i negoziati relativi alle armi, tra Gran Bretagna e Sudafrica, il governo di Pretoria cercò di usare “sia la carota che il bastone”.

140 Ivi, p. 88. 141 U.N. Department of Public Information, op. cit., p. 21 142 J.Barber, op. cit.,p. 289

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La “carota” consisteva nei benefici commerciali derivanti dalla vendita, le prospettive di una maggiore cooperazione difensiva, e un sostegno ai britannici nella ricerca di una so-luzione della questione rhodesiana. Il “bastone” invece era costituito dalle minacce sudafricane di ritirarsi dall’Accordo di Simon’s Town, di eliminare altre forme di cooperazione militare quale il diritti britanni-co di attraversamento aereo su territorio sudafricano, e di ridurre le importazioni di altri beni economici dal mercato britannico. Ma nonostante la convinzione dei Nazionalisti sudafricani di essere stati sufficiente-mente minacciosi, nel 1967 il Primo Ministro Wilson annunciò che « l’embargo sulle armi sarebbe continuato»143. Le relazioni diplomatiche sudafricane con la Gran Bretagna migliorarono profonda-mente , come detto, dopo la vittoria elettorale del partito Conservatore, nel 1970. I Conservatori offrivano maggiori possibilità per la risoluzione della situazione in Rho-desia, ma il miglioramento nei rapporti fu molto più marcato quando il Governo Heath annunciò (contro le forti pressioni all’interno del Commonwealth e persino in Gran Bre-tagna) «di essere pronto a riprendere la vendita di armi al Sudafrica per scopi di difesa esterna»144. Inoltre lo stesso governo aveva annunciato che di essere legalmente tenuto – secondo i termini dell’Accordo di Simon’s Town – a vendere elicotteri per equipaggiare navi mili-tari fornite al Sudafrica in precedenza sempre secondo lo stesso Accordo. Chiaramente il governo di Pretoria fu deliziato da quelle dichiarazioni: infatti secondo le loro previsioni il circolo dei governi fornitori di armi – contro le previsioni dell’embargo ONU – si sarebbe allargato; sarebbero aumentate le possibilità di iniziare future cooperazioni militari; questa iniziativa britannica avrebbe reso più agevole, per altri Stati, in futuro, infrangere il bando delle Nazioni Unite e stabilire relazioni più strette con la Repubblica.

L’adesione alla risoluzione del 1963 per anni fu presa in scarsa considerazione dalla Francia. I politici transalpini si astennero al momento del fondamentale voto della riso-luzione dell’agosto 1963, e non riferirono mai al Segretario Generale dell’ONU sul loro rispetto delle misure relative all’embargo, cosa che invece fecero le altre potenze. La vendita da parte loro di velivoli militari e la produzione di sottomarini in favore del Sudafrica dimostrò quanto la dirigenza politica francese si facesse beffe delle altre na-zioni che invece avevano accettato i loro obblighi internazionali. Ma non c’era nessun segnale, nelle relazioni tra Parigi e Pretoria, che facesse pensare a una volontà da parte francese di prendere altre iniziative e giocare il ruolo che i sudafri-cani si aspettavano avesse dovuto giocare la Gran Bretagna: i francesi infatti considera-vano i loro rapporti bilaterali con la repubblica sudafricana solamente come rientranti nei loro affari economici; niente suggeriva che i transalpini desiderassero essere coin-volti in una accordo militare difensivo relativo all’Africa meridionale e agli oceani cir-costanti. E tra l’altro, la Francia uscì relativamente “illesa”(diplomaticamente e politicamente parlando) dalla sfida che aveva condotto nei confronti dell’embargo ONU: probabil-mente l’assenza di precedenti coinvolgimenti storico-coloniali dei francesi in Sudafrica fece sì che le critiche internazionali piovute su Parigi fossero meno acute di quelle che avrebbe dovuto affrontare il governo britannico se avesse rotto l’embargo allo stesso modo in cui l’aveva fatto il governo francese.

La Germania Ovest invece aveva riferito al Segretario Generale di volersi e di essersi conformata pienamente alle risoluzioni relative all’embargo contro il Sudafrica sulle armi. In realtà – è necessario farlo presente – nel rapporto del 1970 stilato dal Comitato Speciale sull’Apartheid, fu rilevato che un aereo militare ottenuto dal Sudafrica era stato 143 Ivi, p. 287. 144 Ivi, p. 289.

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prodotto da un consorzio franco-tedesco; inoltre nel 1969 un team di piloti sudafricani fu mandato in Germania per ricevere formazione tecnica e pratica. Solo nel 1975 la Francia modificherà le sue posizioni allineandosi con le altre potenze.

Al contrario di Francia e Germania le nazioni scandinave avevano da subito giocato un ruolo-guida nel preparare e sostenere risoluzioni in sede ONU, mirate a rafforzare le sanzioni e l’embargo contro il Sudafrica: inoltre esse avevano iniziato a valutare in mo-do critico i collegamenti tra la NATO e il governo di Pretoria. Ad esempio la Norvegia sollevò in modo particolare la questione dell’utilizzo da parte del Portogallo di equipaggiamenti NATO in Africa, e facendo questo la Norvegia por-tava già una sfida alle relazioni del Sudafrica con la NATO.

3. Origine delle sanzioni internazionali

Nei confronti del governo sudafricano bianco, diverse furono le iniziative prese, sia da parte delle Nazioni Unite che da parte di singoli Stati. La caratteristica di questo fenomeno storico si ritrova nell’iniziale e perdurante opposi-zione dei governi occidentali( escluso qualche virtuoso esempio, si veda la Svezia) all’applicazione di sanzioni di vario tipo nei confronti di Pretoria. Come già accennato, la spinta verso l’applicazione di sanzioni internazionali venne in primo luogo da movimenti della società civile quali le ONG : già nel 1959, la Confede-razione internazionale dei sindacati liberi fece appello ai suoi 56 milioni di membri, di-stribuiti in un centinaio di Paesi, affinché mettessero in pratica un boicottaggio dei pro-dotti sudafricani. Barbier e Désouches citano anche l’esempio del Consiglio Ecumenico delle Chiese e il Consiglio mondiale delle Chiese.

Il primo, istituzione internazionale rappresentante la maggioranza delle Chiese orto-dosse, anglicane e protestanti, decise che, a partire dal 1969, la sua condanna dell’apartheid si sarebbe dovuta tradurre in atti concreti, specialmente tramite il soste-gno ai movimenti di liberazione, attuato con un solido aiuto finanziario sia alla SWAPO ( l’Organizzazione del popolo dell’Africa del Sud-Ovest), sia ai movimenti sudafricani dell’ANC e del PAC. L’aiuto però sarebbe stato concesso loro a patto che questo non fosse poi stato utilizzato per acquistare armi. La posizione dell’organizzazione era anche a favore di sanzioni economiche contro il Sudafrica bianco. Nel 1972 vendette innanzitutto tutte le sue azioni e obbligazioni lega-te ad investimenti in Africa meridionale e, nel 1977, chiese alla CEE, ai governi dell’America settentrionale e del Commonwealth, di interrompere la concessione di crediti all’esportazione destinati a Pretoria e di ottenere l’interruzione dei prestiti banca-ri e degli investimenti. Il Consiglio Mondiale delle Chiese invece, grazie alle risoluzioni del suo comitato cen-trale, rappresentò il centro di un vasto dibattito all’interno così come all’esterno del mondo cristiano.

Come già anticipato in precedenza, l’azione delle ONG fu ripresa dalle Nazioni Uni-te grazie al Comitato Speciale contro l’apartheid, direttamente collegato al Segretariato Generale, ma anche grazie al Consiglio delle Nazioni Unite per la Namibia, diventato nel 1966 l’amministratore legale di quel territorio. L’Assemblea Generale, forte della sua maggioranza sempre crescente di Paesi in via di sviluppo, divenne presto il principale interprete della posizione favorevole alle sanzioni riguardanti tanto le relazioni diplomatiche dei Paesi membri, quanto i legami economici, bancari, militari e nucleari, ma anche la collaborazione in ambito sportivo, scientifico e culturale.

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Ma il potere di veto che da sempre esercitano le grandi potenze in seno al Consiglio di Sicurezza ha reso e spesso tuttora rende ancora le risoluzioni dell’organo assembleare «largamente inoperanti in quanto sprovviste di alcun carattere obbligatorio»145. Barbier e Désouches ci propongono una tripartizione temporale per fasi relativamente alle sanzioni adottate dalle Nazioni Unite riguardo al problema sudafricano:

1) La prima fase, indicativamente durata dal 1960 al 1976.

Le prime richieste di sanzioni furono formulate di fronte all’Assemblea Generale a par-tire dal 1952; ma la prima vera risoluzione che l’organo assembleare espresse fu del no-vembre 1962, e fece seguito ad una conferenza di Stati africani di recente indipendenza tenutasi ad Addis Abeba nel giugno del 1960, che aveva stabilito di esprimere la solida-rietà con le vittime dell’eccidio di Sharpeville e a richiedere l’attuazione di sanzioni e-conomiche contro il regime bianco. Il Consiglio di Sicurezza, si espresse nel 1963 per un doppio embargo sulle esportazioni di armi, ma si escludeva qualsiasi misura di carattere coercitivo. Bisognerà attendere il 1967 affinché la Banca Mondiale, altra istituzione dell’ONU, e le sue due “filiali”, cioè la Società Finanziaria Internazionale e l’Agenzia internazionale per lo sviluppo, cessino i loro prestiti al Sudafrica. Il Fondo Monetario Internazionale invece, concederà prestiti a Pretoria sino al 1982.

2) La seconda fase (1976-1984). Furono i disordini di Soweto a dare un’accelerata all’azione dell’Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza. Nel Programma di Azione contro l’Apartheid, adottato dall’Assemblea Generale il 9 novembre del 1976, l’organo assembleare chiedeva a tutti i Governi di « porre fine a qualsiasi collaborazione economica col Sudafrica e, in particolare, rinunciare alla forni-tura di petrolio, prodotti petroliferi o altri materiali di importanza strategica al Sudafri-ca[…] proibire, ai portatori di interessi economici e finanziari rientranti nella loro giuri-sdizione nazionale, di cooperare con il regime sudafricano o con compagnie del po-sto»146 . Il Consiglio di Sicurezza riuscì a votare, il 4 novembre 1977, la prima risoluzione di sanzioni obbligatorie relativa alle esportazioni di armi. L’embargo era già applicato su base volontaria dalla Gran Bretagna a partire dal 1964 e da Parigi dall’agosto del 1977. Questo tipo di sanzioni fu applicato sino al 1984. All’interno del blocco occidentale, la Svezia si distinse rispetto ad altri Stati, in quanto nel luglio del 1979 decise di bloccare nuovi investimenti in Sudafrica e prestiti a Preto-ria.

3) La terza fase (1984-1989) Ricordiamo che il governo nazionalista nel 1985 dichiarò lo stato d’emergenza in Suda-frica, e allora il governo socialista francese decise di richiamare il suo ambasciatore e di attuare un cambiamento deciso, atto ad ottenere l’accordo degli altri partner comunita-ri(nonostante l’atteggiamento riluttante dei rappresentanti britannico e tedesco-occidentale) in occasione della riunione dei Ministri degli Affari Esteri della CEE tenu-tasi a Lussemburgo il 10 settembre 1985. Ma fu innanzitutto e soprattutto innanzi al Consiglio di Sicurezza che Francia e Dani-marca perorarono la causa delle sanzioni, e la risoluzione 569 del 26 agosto 1985 fu la prima decisione relativa a sanzioni globali, seppure su base volontaria e condizionata.

145 J.-C. Barbier, O. Désouches, Sanctionner l’apartheid. Quatorze questions sur l’isolement de l’Afrique du Sud, Éditions La Découverte, Parigi, 1987, p. 82 146 U.N. Department of Public Information, op. cit., p. 57.

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Tuttavia negli Stati Uniti solo la “ribellione” del Congresso (mobilitato dalle lobby a-mericane anti-apartheid) riuscì a superare, rendendolo nullo, nell’ottobre del 1986, il ve-to del Presidente Reagan contrario al rafforzamento delle sanzioni, seppur leggere, deci-se con il decreto-legge del 9 settembre 1985. L’impatto della decisione del Congresso( l’Anti-Apartheid Act) però fu attenuato dalla decisione del Governo del gennaio 1987, che stabiliva di escludere dieci tipi di minerali, alquanto strategici dal punto di vista economico, dal novero delle materie sotto embar-go.

Di fatto, alle sanzioni decise dalle Nazioni Unite si aggiunsero quelle adottate da al-tre organizzazioni internazionali quali l’OUA, il Movimento dei non-allineati e lo stesso Commonwealth, «la cui azione fu particolarmente utile per convertire le diplomazie sta-tali al principio stesso delle sanzioni»147. Se nel luglio del 1959 la Giamaica era l’unico Stato ad aver deciso unilateralmente di boicottare tutti i prodotti agricoli sudafricani, nel 1962 il ministro per gli Affari Esteri di Pretoria ammetteva che già numerosi Stati stessero boicottando il suo Paese: tra gli altri l’URSS, la Cina popolare, la Malesia, Antigua, l’Etiopia, il Ghana, la Liberia, il Niger, la Sierra Leone e il Sudan. Alla fine del 1963, già 25 Stati boicottavano il Sudafrica, e altri 21 avevano l’intenzione di applicare sanzioni contro il regime di Pretoria. Questo “movimento di Stati” contro il Sudafrica dell’apartheid, lanciato dall’India tra i Paesi in via di sviluppo, ricevette una accelerazione notevole in seguito alla progressiva emancipazione degli Stati ex-colonie, per poi conquistare, ma molto più tardi – dopo gli scontri di Soweto nel giugno del 1976 - i Paesi scandinavi.

Il Programma di Azione Nordico, lo si vedrà, sarà ripreso dall’insieme del blocco oc-cidentale solo nel 1985, e proprio tra il 1985 e il 1986 la parola d’ordine dell’isolamento internazionale di Pretoria si diffuse e fece maggiori passi in avanti di quelli constatati nei 25 anni precedenti. Questo progresso fu innanzi tutto dovuto al peso che giocavano i partner occidentali all’interno della bilancia commerciale del Sudafrica. Tuttavia il campo delle sanzioni occidentali non era esente da insufficienze o limiti, per cui l’efficacia non fu mai totale: se l’embargo militare e nucleare era diventato realtà, il governo di Pretoria manteneva comunque i mezzi e le capacità per poter accedere alle tecnologie informatiche. Allo stesso modo, se l’isolamento si era a poco a poco diffuso nell’ambito sportivo, esso si estese solo sporadicamente al campo della cultura.

4. Panoramica generale sulle sanzioni

Una vasta serie di sanzioni internazionali contro il Sudafrica quindi è stata posta in esse-re dagli anni ’60 in poi. Nel secondo dopo-guerra nessun Paese (ad esclusione della Rhodesia durante il periodo della Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza, 1966-1980) è stato mai assoggettato da una tale quantità di sanzioni da parte, tra l’altro, di co-sì tanti Stati. Precedentemente al 1985, le sanzioni maggiormente significative attuate contro il Suda-frica furono i vari embarghi internazionali relativi alle armi e l’embargo petrolifero dei paesi arabi. In più, la maggior parte dei Paesi occidentali negli anni ’80 stabilirono programmi per sostenere e portare assistenza ai sudafricani neri.

147 Ivi, p. 84

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4.1 Embargo sulle armi

Il primo embargo sulle armi ebbe inizio nel 1963 quando le Nazioni Unite richiesero ai Paesi membri la cessazione volontaria delle vendite di armi al Sudafrica. La maggior parte delle potenze occidentali, Francia esclusa, furono d’accordo nel rispet-tare l’embargo, ma vi erano grandi differenze da Paese a Paese relativamente alla defi-nizione dei beni coperti dal bando e anche riguardo alla rigorosità con cui il bando stes-so veniva applicato. Nel novembre del 1977, in reazione alla pesante repressione del governo nazionalista bianco contro l’opposizione interna in seguito alla sommossa di Soweto e alla morte du-rante la detenzione di Steven Biko, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite stabilì il divieto obbligatorio della vendita al Sudafrica di qualsiasi prodotto destinato a usi mi-litari. Ma in quel momento il Sudafrica aveva ormai sviluppato un’industria bellica in-terna capace comunque di coprire il 90% circa delle necessità militari del Paese. Tra le maggiori potenze militari, solamente gli Stati Uniti mantenevano funzionari mili-tari in territorio sudafricano ancora negli anni ’80.

L’efficacia dell’embargo sulle armi è stata a lungo oggetto di accesi dibattiti, ma Mi-chael Clough poteva tracciare alcune conclusioni che nel 1989 parevano mettere d’accordo molti studiosi:

A)Innanzitutto la maniera graduale e non omogenea con cui l’embargo fu imposto

aveva ridotto certamente la sua efficacia e, di fatto, « probabilmente aveva fatto sì che il Sudafrica divenisse meno vulnerabile rispetto alle pressioni internazionali»148;

B)L’embargo, secondo Clough, non sarebbe stato mai effettivamente applicato.

Si verificarono negli anni importanti violazioni del divieto, che permettevano al gover-no di Pretoria di costruire sofisticati apparecchi bellici che richiedevano capacità e tec-nologie non disponibili certo in territorio sudafricano.

C)Nonostante lacune e inganni, l’embargo aveva imposto al Sudafrica alcuni costi significativi e fatto sorgere problemi di vulnerabilità, specialmente in termini di forze aeree,«che limitavano la capacità del Sudafrica di dar vita a progetti di potenza milita-re»149.

4.2 Embargo petrolifero

Nel novembre 1973, in risposta a una richiesta, da parte dell’OUA, i produttori arabi di petrolio decisero di imporre l’embargo sulle spedizioni di greggio verso il Sudafrica. Restrizioni relative alle esportazioni petrolifere destinate al Sudafrica erano comprese anche all’interno della serie di sanzioni adottate dai Paesi occidentali nel biennio ’85-’86. ‘embargo petrolifero non bloccò le forniture di greggio per il Sudafrica, ma impose piuttosto dei costi pesanti all’economia nazionale, che Clough aveva valutato in 1-2 mi-liardi di rand all’anno. Quei costi si riflettevano nel sovrapprezzo pagato per il petrolio inviato in violazione dell’embargo e nelle spese per creare e mantenere grosse riserve di greggio.

148 H. Kitchen-M. Clough (a cura di), The policies of major democratic nations toward the Republic of South Africa [resoconto del Meeting indetto dalla Carnegie Corporation of New York il 28 e il 29 marzo del 1989.]-Carnegie Meeting Papers, Carnegie Corporation of New York, New York, 1989, Appendix D. 149 Ibidem.

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Nel novembre 1986, l’Assemblea Generale dell’ONU creò un gruppo intergovernativo per monitorare la fornitura e l’invio di petrolio e di prodotti petroliferi, «ma nessuna delle maggiori potenze occidentali fu coinvolta dalle attività del gruppo»150.

4.3 Sanzioni finanziarie

Nel 1985-86 si imposero significative restrizioni ai flussi di capitali in direzione del Su-dafrica. Tutte le maggiori democrazie industrializzate cominciarono allora, e sino al crollo del regime segregazionista, a proibire, restringere o disincentivare nuovi investi-menti e prestiti in Sudafrica. Ma anche prima che quelle politiche sanzionatorie espli-cassero il loro effetto, considerazioni economiche e politiche avevano fatto sì che inve-stitori privati e banche bloccassero il flusso di capitale privato diretto verso la Repubbli-ca sudafricana. Nell’88 due studi sugli effetti prodotti dalle sanzioni finanziarie sul Sudafrica riportaro-no conclusioni alquanto differenti. La relazione del luglio del 1988 per il Comitato dei Ministri per gli Affari Esteri del Commonwealth concludeva che – secondo quanto riportato da Clough e Kitchen – che, date le restrizioni sui prestiti finanziari dell’epoca e lo stato di incertezza della comunità finanziaria internazionale, il Sudafrica sarebbe stato un Paese ad alto rischio creditizio e soprattutto “ non sarebbe stato capace di raccogliere quel capitale estero necessario a sostenere un tasso soddisfacente di crescita economica”151. Invece secondo il rapporto del settembre di quello stesso anno, stilato dal Congresso degli Stati Uniti per il General Accounting Office( Ufficio per la Contabilità Generale), i prestiti finanziari verso il Sudafrica erano diminuiti, ma si indicava anche che la situa-zione dei prestiti in Sudafrica probabilmente stava migliorando.

Ma ciò che va notato è che nessuna delle maggiori potenze occidentali richiese mai, alle aziende nazionali che avevano partecipazioni finanziarie in territorio sudafricano, di ritirare i loro investimenti monetari. Furono altri fattori, come le considerazioni di tipo economico e politico a persuadere una grossa percentuale di compagnie occidentali a ritirarsi dal Sudafrica. Nonostante tutto, e questo va sottolineato, come risultato delle restrizioni imposte dal governo sudafricano all’esportazione di capitale e dell’aumentato reinvestimento dei guadagni interni, “il disinvestimento da parte degli occidentali non ridusse le riserve di capitale a disposizione dell’economia sudafricana”152.

4.4 Sanzioni commerciali

Un’ampia gamma di restrizioni al commercio con il Sudafrica fu imposta nel periodo 1985-86. La Comunità Economica Europea, come vedremo, mise al bando le importa-zioni di ferro, acciaio e monete d’oro, e inoltre furono vietate le esportazioni , dall’Europa verso il Sudafrica, di petrolio e di qualsiasi bene potesse essere usato dall’esercito e dalla polizia. Simili misure restrittive delle libertà commerciali furono applicate dal Commonwealth. In aggiunta alle misure stabilite dalla CEE, i paesi nordici imposero una serie più vasta di restrizioni commerciali, che includevano il divieto di commerciare beni agricoli, mi-nerali di importanza strategica e computer.

150 Ibidem. 151 Ibidem. 152 Ibidem.

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Ma il pacchetto più esteso di restrizioni commerciali attuate dagli occidentali fu quello contenuto all’interno del Comprehensive Anti-Apartheid Act, approvato dal Congresso statunitense nel 1986 in contrasto con la volontà del Presidente Reagan, come già ac-cennato. Questo provvedimento comprendeva il divieto di importazione di monete d’oro, di prodotti agricoli, militari, e di ferro, acciaio e carbone dal Sudafrica, nonché l’esportazione verso il Sudafrica di petrolio e computer ad uso del governo di Pretoria. Molti Stati occidentali poi diminuirono i loro sforzi diretti a promuovere il commercio con il Sudafrica.

Anche riguardo alle restrizioni sul commercio gli impatti non furono di facile valuta-zione. Nel già citato rapporto del General Accounting Office statunitense, si riportava che il Sudafrica aveva visto diminuire notevolmente le vendite di prodotti sanzionati dalle restrizioni statunitensi, che non era stato capace di rimpiazzare quelle mancate vendite con operazioni commerciali su altri mercati. Invece, secondo le statistiche compilate per i Ministri degli Esteri del Commonwealth, le perdite commerciali erano state nette per quei Paesi che avevano imposto sanzioni contro la Repubblica, ma « quelle diminuzioni erano state compensate grazie agli accre-sciuti commerci con altri Stati»153.

4.5 Restrizioni sul traffico delle persone

Gli Stati Uniti ed il Giappone vietarono anche i voli aerei diretti da e per il Sudafrica. Ma l’efficacia di questi divieti sul flusso di viaggiatori provenienti dal (o diretto verso) il Sudafrica era stata alquanto limitata Fu infatti anche presa in considerazione per un certo periodo l’ipotesi più estrema consi-stente nel vietare qualsiasi collegamento aereo tra il Sudafrica e gli Stati del blocco oc-cidentale nel loro complesso, ma questa ipotesi non trovò l’accordo necessario visto l’alto numero di Paesi interessati.

5. Il disinvestment

L’azione di “disinvestimento” maggiore dal territorio sudafricano , come detto, fu attua-ta dalle imprese statunitensi negli anni ’80. Ma il “disinvestment from South Africa”(disinvestimento dal Sudafrica) era stato richie-sto per la prima volta negli anni ‘60, per protesta contro il sistema sudafricano di apartheid. La sua attuazione però non fu messa in pratica in modo significativo, come visto, sino a metà degli anni ’80. La campagna di disinvestimento, dopo essere stata “tradotta” nella legislazione federale approvata nel 1986 dal Congresso statunitense, fu secondo molti capace di mettere sotto pressione il governo nazionalista bianco inducendolo praticamente ad intavolare tratta-tive e negoziati che alla fine portarono allo smantellamento del sistema di discrimina-zione razziale154.

Nel novembre del 1962, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva approvato la risoluzione 1761, più precisamente si trattava di una risoluzione non-vincolante che

153 Ibidem 154 George Fink, “Did an academic boycott help to end apartheid?” Nature, volume 417, Issue 6890 (2002), p. 690 .

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creava il Comitato Speciale delle Nazioni Unite contro l’Apartheid e richiedeva l’imposizione di sanzioni, economiche ma non solo, contro il Sudafrica. Ma Stati Uniti e Gran Bretagna non furono d’accordo con la richiesta di sanzioni, e per questo motivo boicottarono il Comitato155. In seguito all’approvazione di quella risoluzione, il britannico Movimento Anti-Apartheid si occupò di predisporre una conferenza internazionale sulle sanzioni, confe-renza che si sarebbe poi dovuta tenere a Londra nell’aprile del 1964. Scopo della conferenza era quello di analizzare la fattibilità di sanzioni economiche, nonché le loro implicazioni sulle economie del Sudafrica, del Regno Unito, degli Stati Uniti e dei Protettorati. Dato che era risaputo il fatto che l’opposizione più intransigente all’applicazione di sanzioni sarebbe venuta dall’Occidente, in particolar modo, come abbiamo avuto modo di vedere, dalla Gran Bretagna, il Comitato compì ogni sforzo possibile per cercare di attirare il maggior numero di relatori e di partecipanti, in modo che gli esiti della Conferenza sarebbero poi stati visti come “obiettivi” concreti e seri. Quella Conferenza poi fu realmente chiamata “Conferenza Internazionale per le sanzio-ni economiche contro il Sudafrica”; essa, scrive poi la Lisson nel 2000, “stabilì la ne-cessità, la legalità e la fattibilità di sanzioni organizzate internazionalmente, contro il re-gime di Pretoria”156.

La conferenza tuttavia non ebbe successo nel persuadere il governo britannico a met-tere in pratica sanzioni economiche contro il Sudafrica. Piuttosto, il governo di Londra restò saldamente dell’opinione per cui: «L’imposizione di sanzioni sarebbe incostituzionale in quanto noi non siamo d’accordo sul fatto che la situazione sudafricana costituisca una minaccia alla pace e al-la sicurezza internazionale, e noi in ogni caso non crediamo che le sanzioni avrebbero l’effetto di convincere il governo sudafricano a cambiare le sue politiche»157.

5.1 I Principi di Sullivan (1977)

Il movimento anti-apartheid statunitense si accorse che il governo di Washington non era certo desideroso di farsi coinvolgere nell’azione di isolamento internazionale contro Pretoria158. Il movimento allora reagì esercitando un’azione di pressione su imprese pri-vate e investitori istituzionali allo scopo di ottenere l’interruzione dei loro affari nel ter-ritorio di uno Stato, il Sudafrica, promotore dell’apartheid, e questa interruzione volon-taria dei loro affari diventava una questione rientrante nella loro responsabilità sociale aziendale. Quella campagna venne coordinata da diversi investitori istituzionali che insieme porta-rono alla creazione dell’Interfaith Center on Corporate Responsibility (Centro Intercon-fessionale sulla Responsabilità Aziendale), a cui aderirono diverse celebrità tra cui il cantante Paul Simon.

155 The Anti-Apartheid Movement, Britain and South Africa: Anti-Apartheid Protest vs. Real Politik. A History of the AAM and its Influence on the British Government's Policy towards South Africa in 1964. Dissertation by Arianna Lissoni, 15 September 2000, (www.anc.org.za/ancdocs/history/aam/). 156 Ibidem. 157 Ibidem. 158 http://richardknight.homestead.com/files/uscorporations.htm (Richard Knight, Sanctioning Apartheid (Africa World Press), Published by Robert E. Edgar, 1990 [Capitolo: Sanctions, Disinvestment, and U.S. Corporations in South Africa].

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Lo strumento chiave di quella campagna furono i cosiddetti Principi Sullivan, così chiamati in quanto creati dal reverendo Leon Sullivan. Sullivan era un predicatore afro-americano che, nel 1977, fece anche parte del consiglio del colosso aziendale General Motors, all’epoca il maggior datore di lavoro per i suda-fricani neri. I principi richiedevano, come condizione per poter fare affari, che una azienda assicu-rasse a tutti i lavoratori uguaglianza di trattamento all’interno di un unico ambiente di lavoro, senza alcuna segregazione di sorta né dentro né fuori dal posto di lavoro, e so-prattutto indipendentemente dall’appartenenza razziale del dipendente. Chiaramente questi principi entravano automaticamente in forte conflitto con le politi-che ufficiali di discriminazione razziale e di segregazione del Sudafrica dell’apartheid. e perciò rendevano praticamente impossibile, per le imprese che adottavano i principi suddetti, continuare a fare affari in territorio sudafricano. Se da una parte il movimento anti-apartheid portava avanti un’azione di lobbying pres-so uomini d’affari affinché adottassero e si conformassero ai principi di Sullivan, allo stesso tempo operava sul fronte degli investitori istituzionali. Oltre a richiedere a questi ultimi di ritirare ogni loro investimento diretto in società con sede in Sudafrica, gli atti-visti americani fecero ampie pressioni al fine di ottenere il più ampio “disinvestimento” possibile da parte di quelle aziende statunitensi che avevano interessi in Sudafrica e che non avessero esse stesse ancora adottato i principi Sullivan. Gli investitori istituzionali quali i fondi pensione pubblici furono tra i più sensibili agli sforzi degli attivisti americani anti-apartheid.

“Le società pubbliche con interessi in Sudafrica si dovettero confrontare con due li-velli di problemi: primo, le risoluzioni proposte dai preoccupati azionisti costituivano una seria minaccia alla reputazione dell’azienda più che al prezzo del titolo, secondo, le compagnie dovevano affrontare la pesante minaccia finanziaria rappresentata dal fatto che uno o più investitori istituzionali potevano da un momento all’altro decidere di riti-rare i loro investimenti dalla società”159.

5.2 Successo della campagna statunitense(1984-1989)

La campagna di disinvestimento negli Stati Uniti, che restò in piedi per diversi anni, raggiunse il favore dell’opinione pubblica in seguito alla resistenza politica dei neri alla Costituzione sudafricana del 1983, che includeva una complessa serie di camere segre-gate all’interno del parlamento. Richard Knight ci dice che «i neri sudafricani, rifiutando sprezzantemente l’apartheid, si mobilizzarono per rendere le township ingovernabili, i funzionari locali neri si dimisero in massa, e il governo dichiarò per questo lo Stato di emergenza nel 1985 e fece uso di migliaia di militari per sopprimere il “malcontento”.I telespettatori in tutto il mondo po-tevano vedere quasi ogni notte i reportage sulla resistenza di massa contro l’apartheid, la crescita di un movimento democratico, ma anche la risposta brutale di esercito e poli-zia»160. La conseguenza dell’ampia eco televisiva concessa alla risposta sudafricana fu, per Knight, il drammatico ampliamento delle azioni internazionali mirate ad isolare il regi-me dell’apartheid, azioni che si combinavano con la situazione interna e che insieme a quest’ultima imporranno drammatici cambiamenti nelle relazioni economiche interna-zionali del Sudafrica.

159 Ibidem. 160 Ibidem.

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5.3 Effetti sul Sudafrica

Se è vero i Paesi africani post-coloniali avevano già imposto sanzioni contro il Sudafri-ca per solidarietà con la Defiance Campaign(Campagna di sfida lanciata a livello nazio-nale dall’ANC nel 1951 allo scopo di sfidare alcune leggi considerate ingiuste e di-scriminatorie), è pur certo che gli effetti di quelle sanzioni furono minimi, in quanto le economie di quei Paesi, di recente indipendenza, erano ancora relativamente piccole, soprattutto rispetto a quella sudafricana. Come detto, la campagna di disinvestimento ebbe un certo impatto sul Sudafrica sola-mente dopo che le maggiori nazioni occidentali, compresi gli Stati Uniti, furono coin-volti a partire dal 1984. Da quel momento in poi, secondo Knight, il Sudafrica conobbe una notevole fuga di ca-pitali dal Paese, a causa sia della campagna di disinvestimento sia della restituzione dei prestiti esteri. Il deflusso netto di capitali dal Sudafrica fu notevole in quegli anni:

• "9.2 miliardi di rand nel1985" • "6.1 miliardi di rand nel 1986" • "3.1 miliardi di rand nel 1987" • "5.5 miliardi di rand nel 1988."

La fuga di capitale estero innescò una drammatica caduta del tasso di cambio della valu-ta sudafricana, il rand. Questo rese le importazioni più costose, fatto questo che a sua volta causò un aumento dell’inflazione in Sudafrica sino a tassi vertiginosi pari al 12-15% annuo161. Il governo sudafricano in realtà tentò davvero di ridurre il dannoso deflusso di capitale dal Paese, imponendo un sistema di stretto controllo sul cambio, in base al quale i resi-denti sudafricani non potevano di norma esportare i loro capitali fuori dal paese egli in-vestitori stranieri potevano farlo ma solamente passando per il rand finanziario, che a-veva un valore minore rispetto a quello corrente.

Ricordiamo inoltre che tra gli oppositori delle sanzioni economiche vi fu sempre lo

stesso presidente americano Ronald Reagan che, oltre ad essersi opposto con veto al Comprehensive Anti-Apartheid Act, aveva cercato di far prevalere la sua posizione, fa-vorevole al cosiddetto “impegno costruttivo” nei confronti del regime di Pretoria.

6. Impatti sul Sudafrica e risposte

Il pensiero prevalente tra i bianchi sudafricani era che l’abolizione dell’apartheid sareb-be stata controproducente in quanto avrebbe diffuso tra gli Afrikaner dominanti un sen-timento di «antagonismo nei confronti del processo di riforma e una mentalità difensi-va»162. Soprattutto all’inizio, sino agli anni 70, la visione collegata a questo pensiero riteneva che le sanzioni esterne non influenzassero significativamente le dinamiche politiche del Sudafrica. 161 Ibidem 162 R. Horowitz, “ South Africa: the Background to Sanctions”, Political Quarterly, April-June 1971, pp. 165-76. Quest’autore si era sempre opposto alle sanzioni economiche, ma accettava i boicottaggi cultu-rali e sportivi.

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Questo modo di pensare era basato su una teoria gradualista del cambiamento sociale, e dava per implicito che le élite reagissero se sottoposte solo a pressioni esterne moderate e ragionevoli, ma non rivoluzionarie. Eppure, secondo Shepherd, il caso del Sudafrica sembrava proprio l’opposto di quanto sostenuto dai gradualisti-riformisti: i cambiamenti nella politica nazionale sudafricana sarebbero stati adottati quando, e solo nel caso in cui, diverse pressioni internazionali si fossero con il tempo sommate. Pressioni esterne da parte delle ONG avevano collegamenti con gruppi di protesta inter-ni al Sudafrica, cosa che non faceva che rendere più rilevante l’impatto di quelle stesse pressioni internazionali.

Considerando l’intero spettro delle risposte alle sfide esterne portate al Sudafrica, bi-sogna tenere presente che i sostenitori della posizione che voleva abolire il sistema di apartheid avevano sempre costituito la maggioranza all’interno di tutti i gruppi razziali del Sudafrica. Il movimento anti-apartheid, nel senso più genuino del termine, era stato iniziato da uomini sudafricani, sia bianchi sia neri, all’interno del Sudafrica, e quando la repressio-ne rese impossibile, a molti di loro, proseguire l’opera di opposizione dentro i confini del loro Paese, essi diventarono la colonna portante delle organizzazioni abolizioniste che sorgevano all’estero. E inoltre, alcuni elementi coraggiosi, di tutte le razze, continuarono a mantenere la loro opposizione all’interno del Paese, nonostante le pesanti pene cui sarebbero andati incon-tro. Certo, il punto di vista rivoluzionario poteva essere ritrovato apertamente presso i por-tavoce in esilio di quelle organizzazioni anti-apartheid, mentre era sempre arduo ottene-re stime accurate riguardo alla forza e alla diffusione di quella visione abolizionista all’interno del Sudafrica, proprio a causa delle conseguenze che avrebbero certamente colpito le persone che fossero state sorprese ad esprimere opinioni non favorevoli al si-stema vigente e a causa della pesante censura.

I gruppi non-governativi esercitavano la loro influenza attraverso metodi indiretti, diversamente dai governi, che disponevano di mezzi più diretti per influenzare i rapporti diplomatici. I movimenti trans-nazionali avevano una certa influenza sulle attività culturali, ma an-che l’economia, l’opposizione politica, la politica militare nonché le aspettative dei so-stenitori della posizione rivoluzionaria. La risposta del governo sudafricano consistette nel cercare di controllare e limitare la penetrazione, il campo di azione e gli effetti di quei movimenti transnazionali all’interno del Paese. Questo tipo di reazione del governo, in sé stessa, comportava un minimo di cambiamen-to, nel senso che il governo non avrebbe mai potuto impedire totalmente l’esplicazione degli effetti del movimento anti-apartheid. Una campagna transnazionale pienamente efficace influenzava un vasto spettro di rispo-ste di gruppo, molte delle quali non potevano essere appunto controllate dal governo. Essa rafforzava l’opposizione interna e preparava gli elementi rivoluzionari a lottare per il loro importante obbiettivo di costruire una alternativa totalmente diversa all’élite na-zionalista bianca al governo. All’interno dei gruppi dirigenti sudafricani ci furono diverse e ampie risposte alle pres-sioni esterne, quali la nascita del Progressive Reform Party, l’emergere di un fronte “il-luminato”(«verlicht»)163 all’interno del Partito Nazionalista, l’adozione della politica delle homeland164 da parte del governo in modo da controbilanciare e respingere le ac-

163 G. W. Shepherd, Jr., op. cit., p. 205. 164 Il ruolo delle homeland fu esteso nel 1959 con il Bantu Self-Government Act, che stabilì il principio dello "Sviluppo Separato" (Separate Development), che includeva quello dell'autogoverno dei bantustan.

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cuse di razzismo contro il regime di apartheid, e infine una politica estera rivolta al re-sto dell’Africa, alla ricerca di alleati e dell’accettazione all’interno del continente nero. Altre politiche ufficiali, quali l’utilizzo di un potente apparato di polizia e dell’esercito allo scopo di contenere la minaccia rivoluzionaria e gli attacchi dall’estero, furono anch’esse influenzati dal movimento anti-apartheid.

6.1 Pochi cambiamenti, nessuno decisivo Il boicottaggio sportivo e culturale ebbe un profondo impatto sulla società sudafrica-

na, andando ad interessare le pratiche di segregazione nello sport e in quello che abbia-mo definito come “piccolo(petty) apartheid”. I sudafricani bianchi erano sempre stati consapevoli dell’importanza della cultura in senso lato e dello sport, perciò furono colpiti nel vedere negata alle loro squadre e ai lo-ro artisti l’opportunità di partecipare a tour e tournée internazionali. Molti sudafricani bianchi, soprattutto di lingua inglese, si opposero a lungo alla discri-minazione nello sport. Sotto la pressione delle associazioni sportive e degli organizzatori, i gruppi dirigenti bianchi si erano convinti a modificare in parte le regole delle competizioni sportive. Avendo stabilito che le rappresentative sportive del Transkie o del Kwa Zulustan fosse-ro da considerarsi nazionali “straniere”, i nazionalisti bianchi permisero che quelle squadre giocassero contro le rappresentative bianche in quelle che venivano definite – senza motivo logico – “competizioni internazionali”(international contest). E in più, i coloured, che pure parlavano, per la maggior parte, la lingua afrikaans, la stessa di molti bianchi, non potevano competere per squadre bianche. Il governo sudafricano aveva da un certo momento in poi permesso ai non-bianchi di far parte delle rappresentative sudafricane, ma solo all’estero, nelle competizioni interna-zionali e olimpiche. Ma in ogni caso, permanevano enormi barriere che svantaggiavano gli sportivi africani all’interno dei confini nazionali, nel cui territorio i non-bianchi non potevano mai entrare a far parte di team di bianchi. Quelli che volevano a tutti i costi mantenere lo status quo nel sistema di segregazione mettevano l’accento sul fatto che il governo aveva cominciato ad eliminare la segrega-zione tra gli spettatori, e che le rappresentative di gruppi razziali diversi potevano fi-nalmente sfidarsi tra di loro. Anche alcuni sportivi neri erano d’accordo nel considerare quelle novità come impor-tanti concessioni. Ma in realtà, i leader africani restavano critici circa le limitazioni che ancora colpivano gli atleti non-bianchi. Il cambiamento nella politica sportiva del governo sudafricano poteva ben essere defini-ta una pura “parodia”, una «charade» per usare le parole di Shepherd165. Infatti non bisogna scordare che la dottrina separatista degli Afrikaner cercava di tagliar fuori i non-bianchi dalla loro società: l’ineguaglianza di fondo restò a lungo immutata, nonostante alcune timide aperture come quelle sopracitate. L’effetto della campagna internazionale tesa a boicottare il Sudafrica dal punto di vista sportivo non ebbe certo un grosso successo, ma ebbe almeno il merito di mantenere alta la pressione interna sul governo al fine di eliminare altre importanti restrizioni. Il boicottaggio diede anche maggior peso e valore all’azione del Comitato Olimpico In-ternazionale che condannava e vietava la partecipazione alle rappresentative sudafrica-

Questo progetto fu messo in pratica sotto il governo Vorster come parte integrante dell’approccio, che lo stesso Primo Ministro definiva “illuminato”, nei confronti dell’apartheid. In realtà il vero scopo di questo nuovo approccio illuminato non era altro che privare i neri della cittadinanza sudafricana. 165 G. W. Shepherd, Jr., op. cit. p. 207

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ne. La segregazione si dimostrò sempre più una politica “costosa” da seguire per il go-verno sudafricano.

Per quanto riguarda invece le pressioni internazionali attinenti il mondo della cultura, si ritiene che il rifiuto, da parte di cantanti, musicisti, attori e studiosi, di visitare, girare e lavorare per il Sudafrica, ebbe un impatto considerevole sulla decisione di abbandona-re la stretta segregazione razziale attuata nei confronti dei rappresentanti culturali in vi-sita nel Paese. Dal 1970 infatti, gli afro-americani potevano viaggiare in Sudafrica, stare in hotel di bianchi e mangiare in alcuni dei loro ristoranti; persino alcuni eventi culturali di portata internazionale ebbero luogo in strutture non separate. I sudafricani maggiormente liberali e progressisti lodarono questi cambiamenti in quan-to importanti passi in avanti, e sottolineavano il fatto che le pressioni internazionali a-vevano in un modo o nell’altro costretto il governo a riconoscere la necessità di far ca-dere le barriere del cosiddetto petty apartheid.

Una buona parte dell’opinione pubblica sudafricana bianca, quella più liberale e pro-gressista, era sempre stata a favore dell’embargo sulle armi. A favore dello stesso divieto fu ovviamente la stragrande maggioranza degli africani ne-ri. Ma il governo ed in generale gli esponenti politici della parte destra dello spettro po-litico sudafricano reagirono ai diversi embargo stabiliti contro Pretoria con la ricerca di una autosufficienza militare, così come di una potenzialità accresciuta sul piano nuclea-re. E il governo continuò sempre a ricercare la creazione di nuove strategie di interdipen-denza con la NATO e con gli interessi statunitensi e britannici sull’Oceano Indiano. “I portavoce militari sudafricani mostravano di non considerare il bando sulla vendita di armi nei loro confronti, ma poi in realtà i diplomatici di Pretoria cercavano, senza grossa pubblicità, di trovare il modo per bypassarlo”166. Infatti la fornitura di armi da parte dell’Occidente era vista più come una garanzia del continuo sostegno militare occidentale che come una reale ed urgente necessità militare.

La principale reazione alle pressioni militari esterne da parte dell’Occidente contro il regime di apartheid fu la sostituzione alle precedenti relazioni ufficiali delle relazioni informali. I rapporti formali del passato furono a mano a mano abbandonati da Stati Uniti e Gran Bretagna, soprattutto da quando i rispettivi governi decisero di abbandonare gli accordi relativi alla base di Simon’s Town. Ci furono poi molti tentativi da parte del governo nazionalista, di incoraggiare una maggiore integrazione del sistema difensivo - militare sudafricano con la NATO. Le visite dei diplomatici sudafricani a Washington e di rappresentanti del Congresso americano in Sudafrica nel 1975 non furono altro che tentativi di ottenere una risposta importante da parte degli americani alle necessità difensive sudafricane nel contesto al-largato dell’area dell’Oceano Indiano. Durante i primi anni ’70 si assistette alla nascita del movimento nero, e più in generale africano, noto come Black Consciousness Movement (Movimento della Coscienza Ne-ra),. Si trattava di un movimento che coinvolgeva soprattutto i giovani neri, intransigenti nel loro rifiuto dell’apartheid e che rimproveravano ai loro genitori un’accettazione passiva dell’apartheid. Il Black Consciousness Movement iniziò a svilupparsi negli ultimi anni sessanta, so-prattutto a opera di Stephen Biko e Barney Pityana. Biko rimase sempre il leader princi-

166 Ivi, p. 210.

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pale del movimento, pur affiancandosi ad altre figure di rilievo come Bennie Khoapa, Pityana, Mapetla Mohapi e Mamphela Ramphele. Nel definire la linea del BCM, Biko si ispirò soprattutto a pensatori afroamericani come W. E. B. Dubois, Martin Delaney e Marcus Garvey, che avevano sostenuto la necessità, per i neri degli Stati Uniti, di fondare la propria lotta per l'emancipazione sul rifiuto dei pregiudizi razziali che i bianchi avevano trasmesso loro. Poiché intendeva la lotta per l'abolizione dell'apartheid anche e soprattutto come una lotta culturale, per Biko fu natu-rale abbracciare anche il principio della nonviolenza ispirandosi a Gandhi and Martin Luther King. Rispetto all'ANC (principale movimento di opposizione all'apartheid per oltre metà del XX secolo), il BCM ebbe fin dall'inizio posizioni più radicali rispetto al rifiuto della cultura bianca. L'azione del BCM era in gran parte volta a sensibilizzare i neri allo sco-po di emanciparli dalla visione del mondo imposta dai bianchi. Per questi motivi, il BCM dimostrava una certa ostilità anche verso i progressisti bianchi anti-apartheid, giudicando il loro interessamento verso i neri troppo paternalistico. Questa linea politica generò dapprima qualche tensione fra gli attivisti neri, molti dei quali propendevano per posizioni più moderate che consentissero un dialogo con i bianchi liberali (l'ANC, per esempio, aveva sempre mantenuto buoni rapporti con il partito comunista sudafricano). In seguito, tuttavia, la visione del BCM divenne quella predominante del movimento anti-apartheid sudafricano. Pur opponendosi alla partecipazione dei bianchi al movimento, i leader del BCM accet-tarono invece l'apporto delle altre etnie "di colore" del Sudafrica, e in particolare di quella (particolarmente rappresentata e importante) degli indiani. Il termine "black" in "black consciousness" venne quindi a indicare tutte le etnie non bianche. Coerentemente con quelli che erano i propri obiettivi, l'azione del BCM si svolgeva so-prattutto attraverso la propaganda e la diffusione di informazioni presso la popolazione nera. Per fare questo, il BCM organizzò una rete capillare di "scuole" clandestine in cui si insegnava ai neri l'orgoglio per la propria cultura, e al tempo stesso li si alfabetizzava per fornire loro gli strumenti per affrontare i bianchi sul piano culturale. Inoltre, il BCM forniva servizi alla popolazione nera, come l'assistenza sanitaria gratuita, e pubblicava una serie di giornali, come il Black Review, Black Voice, Black Perspective, e il Creati-vity in Development. Il BCM organizzò anche grandi manifestazioni di protesta e scioperi. Poiché la sua politica radicalizzava il conflitto con i bianchi, il BCM fu immediatamen-te preso di mira dai servizi di sicurezza del regime afrikaner del National Party. Una prima serie di arresti si ebbe nel settembre del 1975, e coinvolse molti leader del BCM che avevano avuto rapporti con il movimento di liberazione mozambicano Frelimo, e che furono accusati di terrorismo. Il conseguente aumento della tensione fra neri e bianchi raggiunse il proprio culmine nella violenta repressione degli scontri di Soweto, il 16 giugno 1976, in cui furono ucci-si centinaia di civili. Nei giorni che seguirono la rivolta, tutti i leader del movimento fu-rono identificati e messi al bando. Lo stesso Biko fu arrestato e morì nel carcere di Port Elizabeth il 12 settembre del 1977.[4] Un mese dopo la morte di Biko, il governo sudafricano dichiarò fuorilegge 17 gruppi associati al BCM. La repressione del movimento portò molti membri del BCM a tornare nelle fila dell'ANC o delle sue cellule armate. Al tempo stesso, nel BCM confluì una nuova generazione di attivisti ispirati proprio dal massacro di Soweto e dalla morte di Biko (fra questi c'era anche Desmond Tutu). Dalle ceneri del BCM nacquero così nuove organizzazioni, fra cui la Azanian People's Organization (AZAPO), il Congress of South African Students (COSAS), la Azanian Student Organization (AZASO) e la Port Elizabeth Black Civic Organization (PEBCO).

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I leader del movimento di liberazione in esilio furono i primi a spingere per un em-bargo sulle armi totale e obbligatorio, dal momento che essi guardavano a questo divie-to come a un’arma sia di propaganda sia pratica nella loro lotta. Quindi si può affermare che gli embargo contro il Sudafrica relativi alla vendita di armi furono salutati con favore da gran parte dei sudafricani ma soprattutto dai sudafricani in esilio. « Solo una parte della minoranza Bianca si opponeva ad esso. La grande maggio-ranza dei Sudafricani poteva essere definita[…] fortemente a favore dell’embargo sulle armi »167.

La reazione più sofisticata alla questione dell’embargo militare fu la guerra psicolo-

gica sudafricana. Essa rivelava che le forze armate non credevano realmente che le bat-taglie cruciali sarebbero state combattute con le armi; ritenevano invece che la campa-gna contro-rivoluzionaria del governo bianco avrebbe dovuto tenere conto dell’opinione pubblica, della morale, del lavoro di logorio e delle misure economiche messe in campo dai gruppi rivoluzionari. Sia i rivoluzionari sia i reazionari in Sudafrica capivano che la questione dell’embargo era innanzitutto una battaglia per conquistare l’opinione pubblica: e in quella lotta, gli oppositori del sistema sudafricano, grazie al sostegno transnazionale del movimento an-ti-apartheid e quello internazionale alle Nazioni Unite, era in vantaggio, e di molto.

La spaccatura nell’opinione pubblica sudafricana riguardo alla campagna per le san-zioni contro Pretoria aveva fatto avvicinare i bianchi alla questione della liberazione. I bianchi favorevoli alle riforme si erano sempre dichiarati contro il disimpegno econo-mico e le sanzioni, mentre una larga parte dell’opinione pubblica nera si era sempre det-ta a favore delle pressioni economiche sul Sudafrica e del disinvestimento. I bianchi avevano preso davvero sul serio la campagna di sanzioni contro il loro gover-no. La questione toccava da vicino lo stesso governo e tutto il mondo economico suda-fricano, da sempre in mano alla minoranza bianca. Il governo e molti bianchi ritenevano assolutamente che le cose stessero cambiando, lentamente ma nel senso giusto. Alcuni elementi più liberali all’interno della comunità bianca avevano trovato opportu-no indicare che quel cambiamento stava avvenendo troppo lentamente e che si rendesse necessaria un’accelerazione. I più liberali tra gli uomini d’affari invece facevano pres-sioni, in nome dei non-bianchi, affinché si mettessero in campo al più presto le riforme del mercato del lavoro, a dimostrazione dell’importanza anche economica che avrebbe potuto avere un miglioramento delle relazioni razziali. Tutto ciò portò ad un certo numero di miglioramenti a favore dei neri nel settore indu-striale, ma non fu chiaro quanto importanti furono quei cambiamenti.

Se da una parte, come detto prima, molti bianchi ritenevano che il disimpegno eco-nomico da parte degli occidentali non sarebbe stato il modo migliore per ottenere dal governo nazionalista quei cambiamenti necessari al sistema sudafricano, è anche vero che moltissimi sudafricani non-bianchi salutarono favorevolmente le sanzioni economi-che contro il loro Paese: il Movimento di Coscienza Nera, la Black Peoples Convention, la South African Student Organization e il movimento dei lavoratori erano tutti compatti a favore del disinvestimento e di sanzioni economiche di tutti i generi.

Da un punto di vista gradualista o riformista, comunque anti-apartheid, la questione

delle pressioni sulle compagnie era stata davvero fruttifera all’interno del Sudafrica.

167 Ivi, p. 213.

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Insieme agli scioperi dei lavoratori, quelle pressioni avevano avuto il merito di far otte-nere, almeno a una parte dei lavoratori non-banchi, una serie di miglioramenti nelle condizioni occupazionali e salariali. Ma non ci fu mai la prova chiara che il gap tra le condizioni lavorative dei bianchi e quelle delle altre razze fosse appianato, anzi, l’apartheid in quanto sistema si era svilup-pato durante la crescita industriale, anziché andare in declino. Il dibattito pubblico sulla questione delle sanzioni e sul disimpegno economico occiden-tale era stato in realtà molto limitato in Sudafrica; le maggiori discussioni ebbero luogo all’estero. E poiché l’esito di quei dibattiti avrebbe davvero influenzato, se non determi-nato, il “clima”(favorevole o meno) per gli investimenti nella Repubblica, la loro impor-tanza era notevole. Un altro effetto che ebbero le sanzioni fu quello di mantenere vivo lo spirito rivoluzio-nario sudafricano: la stessa campagna di disinvestimento costituì per i non-bianchi un segnale esterno inequivocabile del fatto che il movimento mondiale anti-apartheid ormai lottava al loro fianco contro il regime che li opprimeva.

6.2 Alcune conclusioni

L’impatto generale dei link esterni sul complesso razziale sudafricano quindi, aveva

generato una grande pressione per il cambiamento, secondo Shepherd. La conclusione fondamentale che ne trae è che « la politica ufficiale aveva fatto dei ten-tativi di adattamento attraverso cambiamenti limitati al “piccolo apartheid»168. I principali risultati a livello politico e sociale furono: la fioritura del movimento sinda-cale e di Coscienza Nera, che però dopo poco tempo furono immancabilmente colpiti da una repressione ancora più dura dalla seconda metà degli anni ‘70; inoltre, in seguito al-le campagne internazionali e alle prime sanzioni economiche, il governo attuò una poli-tica estera caratterizzata da una maggiore “distensione” – e dal dialogo alla ricerca di nuovi alleati tra gli Stati africani; la politica delle homelands, presentata dai nazionalisti al potere come una soluzione non-razziale per il soddisfacimento dei bisogni dei diversi gruppi etnici. Ma nessuna di quelle novità alterò mai la stratificazione di base, il sistema di classe e razzista che caratterizzava il Sudafrica.

Certo, la coscienza rivoluzionaria dei non-bianchi aveva ricevuto una spinta notevole dal sostegno, specie da parte delle ONG, occidentale: ricordiamo gli scioperi urbani e le rivolte iniziate a Soweto; ma anche all’estero l’attività dei movimenti di liberazione co-minciò a farsi sempre più sentire a partire dalla metà degli anni ’70. Allo stesso tempo si accendeva maggiormente la guerriglia ai confini con gli Stati vicini dell’Angola, del Mozambico e della Rhodesia del Sud.

Ma quello che apparve chiaro a tutti fu che nemmeno sotto l’amministrazione Botha le cose cambiarono in modo deciso: egli mantenne la linea politica dei suoi predecesso-ri, introducendo tuttavia alcune riforme costituzionali tra cui quella che ammetteva nel Parlamento membri meticci e di razza asiatica. Notiamo che ancora nel 1986 Oliver Tambo, storico presidente dell’ANC, scriveva ri-volgendosi all’ Organizzazione Internazionale del Lavoro di Ginevra: « Il regime di Pre-toria sta rispondendo nel modo che ci aspettavamo. Questo regime continua a voler mantenere in piedi il sistema di apartheid»169. In effetti, nonostante le pressioni internazionali, il governo nazionalista bianco non fa-ceva altro che chiudersi a riccio sulle sue posizioni, e questo anche a costo di proclama-re continuamente lo Stato di emergenza, cosa ripetutasi spesso negli anni ’80.

168 Ivi, p. 226. 169 E.S. Reddy (a cura di), Oliver Tambo and the struggle against apartheid, Sterling Publishers Private Limited, New Delhi, 1987, p. 86.

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Ma allora cosa si può dire riguardo agli effetti delle campagne internazionali anti-apartheid e delle sanzioni sul regime di Pretoria?

Le sanzioni maggiormente efficaci furono probabilmente quelle relative al disinve-stimento, in quanto la fuga di capitali dal paese creò davvero problemi economici seri al Sudafrica. Ma il problema che sempre rese meno efficaci i diversi embarghi fu che, pur quando essi divenivano obbligatori, come quello relativo alle armi stabilito dall’ONU, potevano pur sempre venire aggirati in modo segreto. Insomma per Pretoria il problema di come procurarsi le armi o il petrolio non si pose mai in maniera pressante.

Certo è che i maggiori costi, il sovrapprezzo causato dalla necessità di approvvigio-namento pur in presenza dell’embargo erano noti ai governanti sudafricani. Ma essi non vollero mai rinunciare alle loro prerogative di superiorità formale, oltre che sostanziale. I diritti della loro minoranza bianca dovevano ancora prevalere su quelli della maggio-ranza nera. L’isolamento seguito ai boicottaggi culturali e sportivi sembrò a un certo momento col-pire nel segno, specialmente nei primi anni ’80: la realtà fu che essi ebbero un effetto mediatico notevole, ma portarono a cambiamenti minimi all’interno del Sudafrica. Come riportato nei capitoli precedenti, l’economia doveva essere preservata, ma quando gli interessi economici mettevano sotto pressione il sistema sociale esistente, lo status quo giuridico - politico, allora il governo non doveva tentennare: la regola era quella di far pendere l’ago della bilancia dalla parte del mantenimento dello status quo, anche a costo di sacrifici economici o finanziari, quelli appunto dettati dalle sanzioni internazio-nali. Lo Stato di Emergenza: questa fu paradossalmente la risposta interna più utilizzata da Pretoria di fronte alle pressioni esterne; nel senso che, le sanzioni e i boicottaggi prove-nienti dall’estero avevano il potere di tenere viva la lotta all’interno del Paese, e soprat-tutto dalla seconda metà degli anni ’70 l’esercito e la polizia divennero realmente il braccio armato del governo per poter stroncare le rivolte e le proteste. La risposta esterna invece divenne ricerca di alleanze informali, dal momento che, a partire soprattutto dal 1976, quelle formali erano ormai pura utopia; si pensi all’Accordo di Simon’s Town, che dopo 20 anni venne abbandonato.

Si deve quindi appoggiare l’opinione di Tambo quando egli sottolineava che il go-verno dello stesso Botha, lungi dall’essere interessato alle riforme o ai cambiamenti, continuava a vedere come suo principale obbiettivo la distruzione di “ quelle forze che stavano combattendo per un Sudafrica unito, democratico e non-razziale”170. Quindi ancora nella seconda metà degli anni ’80 le sollecitazioni, ormai pressanti e sempre più univoche della comunità internazionale, non producevano i frutti sperati né all’interno del Sudafrica, né all’esterno, in quanto il governo nazionalista nemmeno ri-nunciava a portare avanti la sua politica di potenza in Africa meridionale allo scopo di circondarsi di Stati- satellite e perciò possibili alleati nella lotta contro i pericoli esterni. Gli attacchi voluti dal presidente Botha contro Botswana, Zambia e Zimbabwe rispon-devano alla precisa volontà politica di dominare la regione per renderla dipendente da Pretoria, politicamente ancor più che economicamente. La giustificazione fornita inter-nazionalmente dal governo sudafricano era che « il Sudafrica ha il ruolo naturale di po-tenza regionale»171. La vera svolta arriverà solo nel 1989, quando Botha si dimise e il riformatore F.W. De Klerk assunse il potere. Il presidente, nel nuovo contesto mondiale contrassegnato dal collasso del socialismo in Europa, annunciò pubblicamente (1990) la fine del razzismo e della guerra, rilasciando i prigionieri politici e legalizzando i partiti antirazzisti.

170 Ivi, p. 87. 171 Ibidem.

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Capitolo IV Europa, Svezia e Canada.

1. L’Europa e il Sudafrica nel dopo-guerra

Lo storico impatto che l’Europa ha avuto sulla storia africana e sudafricana in partico-lare continuò fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando la sua influenza di-venne meno diretta e più remota con la fine dell’epoca coloniale. Questioni quali l’autodeterminazione dei popoli, razzismo e diritti umani acquisirono una rilevanza mondiale, ma in Sudafrica questo trend veniva ostacolato e contraddetto dal Partito Nazionalista, vittorioso alle elezioni del 1948, che creò i presupposti per un inevitabile processo di alienazione, di allontanamento dell’Europa dal Sudafrica. Le nazioni europee cominciarono a trovare politicamente sempre più difficile continuare a mantenere le precedenti relazioni con il Sudafrica. La campagna delle sanzioni, l’alienazione e l’isolamento imposti dai paesi europei fu-rono tutti segnali del fatto che l’epoca dei rapporti speciali era finita e che da parte degli stessi stati europei vi era il nuovo impegno a sostenere il governo della maggioranza, a prescindere dalla razza, dalla classe sociale o dalla cultura dominante della maggio-ranza.

Dopo il secondo conflitto mondiale, le relazioni Sudafrica/Europa «assunsero un ca-rattere duale»172. Relazioni bilaterali, dominate da Regno Unito, Germania, Francia, Ita-lia e Olanda, continuarono ad esistere, mentre i rapporti con la Comunità europea (EC) cominciarono lentamente a prender forma per divenire davvero importanti solo dopo il 1994. A causa della condanna globale innescata dall’apartheid, sia le relazioni bilaterali con membri della Comunità Europea, sia quelle multilaterali con il governo europeo di Bru-xelles andarono nettamente deteriorandosi nell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Era comunque assai difficile ritrovare un consenso generale, riguardo all’approccio co-mune da tenere nei confronti del gigante africano: amministrazioni più politicamente conservatrici, come Regno Unito, Francia e Italia continuarono a mantenere buone rela-zioni con Pretoria, principalmente a causa della loro dipendenza dalle forniture sudafri-cane di materie prime, dal commercio, e anche a causa dell’importanza strategica geo-politica che il Sudafrica ai loro occhi aveva nel periodo della Guerra Fredda. Questa attitudine “dicotomica” si ritroverà anche nella politica della Comunità, all’interno della quale alcune nazioni metteranno in azione le sanzioni contro il Suda-frica con più vigore e impegno di altre.

Sebbene la CE avesse sempre mantenuto le distanze dal governo di Pretoria, essa in-traprese attivamente la campagna anti-apartheid abbastanza tardi. Solamente quando lo status del Sudafrica all’interno della comunità internazionale fu indiscutibilmente quello di paria, azioni concrete furono messe in pratica dalla CE, mentre già il regime di san-zioni delle Nazioni Unite era operativo.

Tra i fattori che velocizzarono il declino delle relazioni sudafricane con l’Europa vi erano:

• Il sentimento anti-britannico all’interno del governo e della comunità afrika-ner;

• Il ritiro forzato del Sudafrica dal Commonwealth in seguito alla proclama-zione delle Repubblica nel 1961;

172 G. Olivier, South Africa and European Union. Self-interest, ideology and altruism, Protea Book House, Pretoria, 2006, p. 24

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• Le crescenti pressioni multilaterali operate dai governi degli Stati del Terzo Mondo di recente dipendenza alla pari di quelle dei movimenti di liberazione interni quali ANC e United Democratic Front (UDF).

• L’ondata delle sanzioni punitive imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Na-zioni Unite contro il Sudafrica dopo pressioni insistite da parte principal-mente di Stati africani ed asiatici.

• Un’opinione pubblica internazionale sempre più ostile alla politica di apartheid attuata in Sudafrica, e le sanzioni internazionali, nonché l’isolamento, che ne seguì.

Le relazioni tra Sudafrica ed Europa non si deteriorano immediatamente dopo il 1948, ma divennero sempre più difficili dopo che la decolonizzazione in Africa prese slancio e dopo che un gran numero di Stati del Terzo Mondo di recente indipendenza diventarono membri delle Nazioni Unite, o di agenzie specializzate, ma anche dell’Organizzazione per l’Unità Africana, del Commonwealth e del Movimento dei Non-Allineati (NAM). Le organizzazioni ora citate costituirono le principali piattaforme con cui sostenere la campagna internazionale contro l’apartheid e l’isolamento del Sudafrica all’interno del-la comunità internazionale.

La CE e diversi suoi membri non furono certo alla testa di quella campagna. Alcuni Stati membri decisero realmente di applicare politiche severe nei confronti del Sudafrica al fine di isolarlo, «ma le misure della CE furono in generale inefficaci, men-tre altri preferirono seguire i dettami dei propri interessi economici piuttosto che i loro doveri morali»173. Poiché la formulazione della politica estera è un ambito di decisioni che rientra nella sovranità di ciascun singolo Stato membro, la Commissione Europea a Bruxelles può agire solamente dopo un precedente accordo intergovernativo tra i suoi membri. Questa mancanza di consenso, e la contemporanea presenza di interessi configgenti tra i diversi Stati forno la causa principale per cui la CE intraprese la politica anti-apartheid così tardi e in modo scoordinato. Quando infine furono stabilite misure sanzionatorie dalla CE contro il Sudafrica, si trat-tava di sanzioni che rientravano nella campagna mondiale contro l’apartheid, precedute, influenzate e dettate dalle diverse decisioni obbligatorie del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Come accennato prima, i membri della CE seguirono le proprie preferenze riguardo alle relazioni bilaterali con Pretoria. Alcuni Stati membri, vedremo più avanti, optarono per l’applicazione di severe misure, tagliando tutti i ponti con il governo nazionalista bianco; altri Stati invece, agendo die-tro i loro puri interessi economici, fecero il minimo indispensabile relativamente alle sanzioni. Per un piccolo lasso di tempo, i forti legami commerciali tra il Sudafrica e il Regno Uni-to, la Francia, la Germania, il Belgio e l’Italia, resero meno forti gli effetti dell’isolamento di Pretoria dall’Europa, sebbene le sanzioni imposte dalle Nazioni Unite prima, e infine dalla CE, costringessero questi Stati a ridurre al minimo le loro relazioni con il regime dell’apartheid. La risposta di quegli stessi stati citati qualche riga sopra, fu in primo luogo di applicare in parte solo alcune delle sanzioni, restando a malapena all’interno del quadro delle mi-sure obbligatorie approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Le divisioni politiche tra i diversi membri furono evidenti anche in sede di votazioni nell’ambito delle Nazioni Unite: «sino ai primi anni ’80, su 70 risoluzioni riguardanti

173 Ivi, p. 26

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l’apartheid, gli Stati membri della CE votarono nello stesso senso solamente 17 vol-te»174 . I cosiddetti “interessi essenziali” legati alla dipendenza dalle materie prime stra-tegiche fornite dal suolo sudafricano, trattennero in particolare i governi di Regno Uni-to, Francia e Germania Ovest dal seguire l’esempio dei principali sostenitori delle san-zioni, quali Danimarca, Olanda e Irlanda, che tra l’altro avevano una dipendenza dalle materie prime sudafricane relativamente minore rispetto a quella dei primi tre.

Sebbene si avesse un “cambio di umore” nei rapporti tra Londra e Pretoria in seguito al già trattato discorso del Premier Macmillan rivolto al Parlamento sudafricano il 3 febbraio del 1960, le sanzioni seguirono solamente molto più tardi rispetto a quell’evento. Ma il discorso di Macmillan aveva per così dire“rotto il ghiaccio”, nel senso che aveva segnato l’inizio di una nuova epoca nelle relazioni non solo tra Gran Bretagna e Suda-frica, ma anche, implicitamente, tra Pretoria e altri Paesi membri della CE, che gene-ralmente seguivano la leadership britannica sulla questione sudafricana. La posizione internazionale del Sudafrica peggiorò ancor più quando esso perse lo sta-tus di membro del Commonwealth in seguito alla trasformazione del Paese in Repubbli-ca nel 1961. Non essendo più membro del Commonwealth, il Sudafrica diveniva mag-giormente vulnerabile all’isolamento internazionale. La censura delle sue politiche interne da parte britannica divenne sempre più pesante, e un impulso ancora più forte alla politica globale di isolamento arrivò dalla campagna a favore delle sanzioni condotta dai Paesi di recente indipendenza.

Sino al 1977, la campagna europea era più forte dal punto di vista retorico e simbo-lico che in pratica. Infatti, la rottura con Pretoria da parte dell’Europa non fu mai totale o irreversibile, dal momento che, come vedremo, alcuni Stati non vollero chiudere tutti i canali commerciali o rompere i contatti diplomatici con il Sudafrica. Le sanzioni della CE erano ben lontane all’essere realmente efficaci, dal momento che « una rete di inganni, grazie alla quale il commercio e i legami con il Sudafrica continua-vano a restare in piedi»175, rendeva possibile, ad alcuni Stati, opporsi alle sanzioni seve-re contro il Sudafrica.

Da molti punti di vista, perciò, possiamo affermare che l’intensità con cui gli Stati europei, globalmente, lottarono contro il regime di apartheid, fu più bassa di quella messa in campo dai Paesi africani, scandinavi, asiatici, dell’Europa Orientale, dall’America Latina e dall’Unione Sovietica. Durante tutto il periodo in cui vigeva il regime di apartheid in Sudafrica, formali legami diplomatici furono mantenuti tra Pretoria e la maggior parte dei membri della CE, ad eccezione di Irlanda, Danimarca e Lussemburgo. I flussi commerciali non si fermarono, con l’eccezione di quello relativo alle armi, dei Kugerrand ( le monete d’oro sudafricane) e beni tecnologici utilizzabili per difendere l’apartheid: queste tre categorie di beni, infatti, rientravano nel novero delle materie fat-te oggetto di sanzioni obbligatorie dal Consiglio di Sicurezza. Sanzioni simboliche, sicuramente meno lesive degli interessi economici, riguardarono le scienze, l’educazione, la ricerca, lo sport e la cultura, e furono applicate più rigorosa-mente dagli Stati europei a partire dal 1976, quando l’indignazione contro l’apartheid si fece più forte in tutto il mondo; a quel punto, infatti, la CE e i suoi stati membri non po-tevano permettersi il lusso di restare impassibili o addirittura ignorare il crescente at-teggiamento di rabbia, a livello internazionale, e l’ondata di proteste che seguirono le rivolte iniziate a Soweto. L’imposizione dell’embargo obbligatorio sulle armi da parte delle Nazioni Unite, l’elezione di un attivista per i diritti umani, quale era Jimmy Carter, alla carica di Presi-

174 M. Holland, The European Community and South Africa. European Political Co-operation under strain, Pinter Publishers, London and New York, 1988, p. 61-72 175 Ivi, p. 109.

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dente degli Stati Uniti, l’impazienza e l’odio delle nazioni africane recentemente dive-nute indipendenti nei confronti del regime di Pretoria, resero politicamente scorretto e potenzialmente causa di imbarazzi la possibilità per l’Europa di restare al di fuori di questa ondata internazionale ostile al Sudafrica: l’Europa sarebbe stata in quel caso con-siderata, secondo Gerrit Olivier, « come una mosca bianca»176, si sarebbe posta contro la comunità internazionale. Secondo quanto afferma Martin Holland il Codice di Condotta, che tra il 1977 ed i l984 fu l’unico strumento-guida in mano alla CE per promuovere dei cambiamenti all’interno del Sudafrica, «era stato concepito per difendere i governi europei dalle critiche interna-zionali»177.

2. La politica della CE riguardo al Sudafrica

Dal punto di vista della Comunità Europea, il Sudafrica rappresentava una tematica non prioritaria né urgente sino al momento in cui il Regno Unito entrò a far parte della stes-sa CE, nel 1973. Martin Holland ha individuato alcune fasi generali relativamente allo sviluppo della po-litica comunitaria nei confronti del Sudafrica:

• Periodo precedente al 1977, durante il quale l’approccio della CE era de-terminato dalla leadership britannica: per cui si trattava non tanto dell’amalgama delle posizioni bilaterali di ciascuno degli Stati membri, quanto piuttosto dell’adozione e della ridotta applicazione, in ambito CE, di quella che era la politica di Londra verso Pretoria.

• Una seconda fase (1977-1984) durante la quale lo sviluppo di un con-senso riguardo alla politica della CE verso il Sudafrica trovò espressione nel Codice di Condotta.

• 1985-’86: fase in cui gli eventi interni del Sudafrica portarono ad una nuova valutazione critica, da parte della CE, rispetto alle sue relazioni con Pretoria, cui seguirono le misure sanzionatorie nei confronti del re-gime dell’apartheid.

• Dal 1987 in poi, la CE prima e l’UE dopo, continuando ad opporsi politi-camente e diplomaticamente al governo sudafricano, adottarono ed ap-plicarono, oltre a quelle sanzionatorie, misure positive di sostegno agli oppositori africani dell’apartheid, con programmi tesi a promuovere una transizione alla democrazia e aiuti allo sviluppo.

Sino al 1977 dunque la Comunità seguì la leadership informale britannica rispetto alle problematiche sudafricane. In quel periodo, come riporta Holland, «era spesso impossibile determinare l’esatta na-tura degli obbiettivi ricercati dalla CE»178. Sebbene l’eliminazione dell’apartheid e la liberazione dell’Africa meridionale dalla dipendenza economica da Pretoria fossero gli obiettivi centrali perseguiti da Bruxelles, «le politiche comunitarie mancavano di coe-renza e le decisioni venivano prese in termini ambigui»179.

176 G. Olivier, op. cit., p. 28. 177 M. Holland, op. cit., p. 33. 178 G. Olivier, op. cit., p. 29. 179 M. Holland, op. cit., p. 95-97.

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Si può affermare, ormai con cognizione di causa, che il ruolo della CE nel cercare di promuovere cambiamenti all’interno del regime sudafricano fu nel complesso inefficace almeno sino al 1977.

2.1 Il Codice di Condotta

Nel 1976 il Consiglio dei Ministri degli Esteri della CE emise la sua prima dichiara-zione, nella quale condannava la politica di apartheid del governo sudafricano. Desiderosa di essere perlomeno considerata come un’autorevole partecipante della campagna internazionale contro l’apartheid, la CE adottò nel 1977 un “ Codice di Con-dotta” rivolto alle imprese europee che avessero propri interessi in Sudafrica. Questo Codice, strumento oggi unanimemente ritenuto inefficace e quindi screditato a livello politico, restò l”ammiraglia” della politica comune europea anti-apartheid sino alla metà degli anni ’80. Il Codice fu il risultato di una «politica reattiva»180 della CE nei confronti dell’apartheid. Nel 1985 c’erano solamente 3806 sudafricani neri in posizioni manageriali, e il rapporto tra i redditi dei bianchi e dei neri in Sudafrica era di 11:1; con l’adozione del Codice ci si auspicava che la situazione di disparità nel mondo del lavoro si attenuasse, e che an-che ai non-bianchi fossero concesse possibilità di guadagno e carriera. Principale obbiettivo dichiarato del Codice era la promozione di migliori condizioni per i lavoratori neri impiegati nelle imprese private in Sudafrica, riferendosi sia alle condi-zioni prettamente lavorative, sia agli altri aspetti quali i rapporti di lavoro, la retribu-zione, i problemi dei lavoratori emigranti, degli standard di vita e della segregazione. Certo, le argomentazioni politiche e morali del Codice erano sostenute da incentivi più pragmatici: come lo stesso codice sottolineava, era “nell’interesse delle stesse imprese mantenere degli standard di impiego buoni in Sudafrica e soprattutto essere riconosciute per questo”181. Le principali condizioni contenute nel Codice del 1977 erano:

• Creazione di sindacati per i lavoratori neri. • Responsabilità sociale da parte delle imprese europee che dovevano impegnarsi

ad assicurare la libertà di movimento per i lavoratori neri e le rispettive famiglie. • Formulazione, da parte delle aziende europee, di specifiche politiche salariali te-

se a migliorare il reddito degli operai ben oltre la soglia di sussistenza. • Adozione del principio secondo il quale il lavoro di un operaio nero sarebbe sta-

to pagato alla stessa maniera di quello fornito da un lavoratore bianco; prepa-razione di programmi per dare possibilità a tutti i lavoratori di fare avanzamenti di carriera.

• Impegno delle imprese a fornire tutti quei benefici e aiuti necessari a migliorare lo standard di vita dei lavoratori.

• Abolizione completa della segregazione razziale all’interno delle imprese euro-pee.

• Pubblicazione, da parte delle società madri europee con filiali in Sudafrica, di una relazione annuale dettagliata sui progressi registrati, dalle aziende control-late, nell’attuazione delle disposizioni del Codice. Le relazioni sarebbero poi sta-te sottoposte ai rispettivi governi nazionali e analizzati dal Consiglio CE dei Mi-nistri degli Esteri.

180 Ivi, p. 74. 181 Ibidem.

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Ma ciò che mancò fu una prospettiva comune nell’attuazione delle disposizioni del Co-dice. Innanzitutto, nessuna istituzione CE era responsabile formalmente della supervisione e del coordinamento del Codice. In secondo luogo, non fu mai adottato un criterio comune in base al quale compilare le relazioni sull’attuazione del Codice, cosa che impediva di effettuare analisi precise e pa-ragoni tra Stato e Stato. Inoltre, la responsabilità per l’analisi dei rapporti presentati dalle compagnie ricadeva sullo stato, non direttamente sulla CE. Pensiamo poi al fatto che solo la Gran Bretagna sottomise sempre il suo rapporto annu-ale. E poi, il Codice si basava sulla volontarietà, nel senso che non erano previste san-zioni comunitarie per la mancata applicazione delle sue disposizioni. Nonostante si trattasse della politica comunitaria, gli Stati membri interpretarono a loro – per la verità molto vario- modo le disposizioni del Codice: il risultato fu però che lo sforzo globale comunitario fu implementato scarsamente e in modo non coordinato, per cui inefficace; e inefficaci furono anche il controllo e la gestione di quello sforzo co-mune. Il codice perciò poté raggiungere pochissimi fra gli obiettivi per cui era stato concepito. E la cosa peggiore, era che esso rappresentò l’unica azione praticata dalla Comunità Eu-ropea allo scopo di metter fine all’apartheid sino al 1984.

2.2 Misure restrittive della CE

Nel 1985, il deteriorarsi della situazione sudafricana persuase la CE a convocare in Eu-ropa gli ambasciatori degli Stati membri in Sudafrica, per delle consultazioni. Queste portarono alla decisione di inviare una missione diplomatica (la Troika Diplo-matic Mission) costituita dai Ministri degli Esteri di Lussemburgo, Italia e Olanda. Questa missione in seguito propose al Consiglio CE dei Ministri degli esteri una vasta serie di misure restrittive contro il governo di Pretoria, ma non propose nessuna san-zione economica. Allo stesso tempo, la missione aveva proposto altre misure, stavolta non sanzionatorie ma “positive”, nel senso che erano mirate a dare sostegno agli oppositori del regime di apartheid. Le misure punitive includevano il ritiro dal Sudafrica degli addetti alle questioni mili-tari, il bando relativo alla cooperazione militare e sul nucleare, il divieto di nuovi inve-stimenti in territorio sudafricano da parte di imprese europee, il divieto di vendere pe-trolio e prodotti tecnologici di importanza strategica, la fine dei contatti ufficiali degli accordi sulla sicurezza, l’embargo sull’esportazione di armi ed equipaggiamenti militari diretti al Sudafrica, e un almeno parziale boicottaggio in campo culturale e sportivo. Un’altra proposta che venne avanzata fu quella del finanziamento delle organizzazioni anti-apartheid non-violente, l’assistenza per le necessità delle comunità sudafricane non-bianche relative all’educazione e all’istruzione, e il sostegno alla SADCC182 e agli Stati che si trovavano a dover fronteggiare i tentativi sudafricani di destabilizzazione dell’Africa meridionale. Sin dall’inizio le misure repressive non furono unanimemente accettate né uniforme-mente interpretate e attuate dagli Stati membri, ma è oggettivo che nel corso del 1985 e

182 La SADCC (Southern African Development Coordination Conference) era la Conferenza per il coor-dinamento dello sviluppo in Africa meridionale, venne creata a Lusaka il 1° aprile del 1980 in seguito all’adozione della Dichiarazione di Lusaka (Southern Africa: Towards Economic Liberation) da parte di nove Stati fondatori(Angola, Botswana, Lesotho, Malawi, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbabwe). Come scopo principale aveva quello di rendere la regione meno dipendente dal Sudafrica.

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del 1986 esse facessero parte della risposta degli Stati membri, e della CE, al regime di apartheid. Nell’86 la campagna comunitaria contro il regime nazionalista bianco fu intensificata in seguito all’adozione del divieto parziale di importazione di ferro e acciaio dal Sudafrica, del divieto di nuovi investimenti e in seguito anche all’avvio dei progetti di risoluzioni CE relativi al divieto di importazione dei Krugerrand.

L’efficacia delle misure restrittive della CE e degli Stati membri tese a far crollare il regime di apartheid fu indebolita da alcuni fattori quali le divisioni tra gli stessi membri, le astrusità legali dei testi stessi delle risoluzioni, spesso ambigue, nonché l’inefficacia dell’attuazione e della gestione delle sanzioni. Tutte quelle misure però non servirono a migliorare i rapporti con l’ANC, principale movimento di liberazione sudafricano, che preferì mantenere le distanze dalla CE. Quando Sir Godfrey Howe visitò il Sudafrica nel 1986 in qualità di presidente del Con-siglio dei Ministri degli Esteri CE, nel tentativo di dare il contributo da parte europea, alla costruzione di una struttura politica che cancellasse l’apartheid, Nelson Mandela e altri membri del suo movimento rifiutarono di avere un incontro con lui (incontro che, tra l’altro, avrebbe avuto luogo in carcere). Questa reazione da parte dell’ANC, secondo Olivier, può essere stata il riflesso dei dub-bi, interni al movimento, relativi al fatto che il «programma di azione anti-apartheid, messo in pratica tardivamente dalla CE, fosse un atto di sincera compassione nei con-fronti dei popoli oppressi dal regime di apartheid oppure che le misure positive concepi-te a Bruxelles fossero semplicemente un atto inevitabile perché ormai necessario, politi-camente corretto e caratterizzato anche da un certo opportunismo»183. L’atteggiamento dell’ANC, in parole povere, avrebbe voluto essere di rimprovero nei confronti della CE per non aver preso prima, e in misura maggiore, tali misure contro il regime. Ma se questa ipotesi fosse vera, secondo Olivier, l’ANC non avrebbe tenuto in debito conto quale tipo di organizzazione fosse la CE e quali difficoltà legali e procedurali fos-sero insite in essa e rendessero difficile l’adozione di una politica comune contro l’apartheid. La politica comune verso il Sudafrica precedente al 1994 tra l’altro pareva essere in di-saccordo con il ruolo costruttivo che la CE aveva cercato di svolgere nell’aiuto allo svi-luppo del Terzo mondo sin dall’adozione del Trattato di Roma (quello istitutivo della Comunità), in particolare attraverso le Convenzioni di Lomé stipulata con 46 Paesi del gruppo ACP (Africa, Caraibi e Pacifico)184 e la Convenzione di Yaoundé185. Sebbene il Sudafrica fosse un’ex- colonia, un Paese in via di sviluppo e, tecnicamente parlando, un membro del gruppo ACP, venne escluso dagli aiuti allo sviluppo concessi dalla CE.

183 G. Olivier, op. cit., p. 30. 184 Le Convenzioni di Lomé firmata nella capitale del Togo nel febbraio 1975, è stata per venticinque anni lo strumento di gestione dei rapporti politici, economici e di cooperazione allo sviluppo tra i paesi ACP ed i paesi dell'Unione Europea. Sarebbe più corretto parlare di Convenzioni di Lomé, al plurale, perché la Convenzione è stata rinnovata diverse volte: Lomé II (1980), Lomé III (1985), Lomé IV (1990), Revi-sione di Mauritius (1995). I partecipanti erano gli allora nove paesi membri della Comunità Europea, e 46 paesi ACP. La Convenzione si basava sulle preferenze commerciali per i prodotti dei paesi ACP, che po-tevano entrare nella Comunità Europea senza pagare dazi, senza che la CE richiedesse lo stesso vantaggio per le sue esportazioni. Negli anni novanta i paesi europei avevano iniziato a richiedere garanzie sulla tu-tela dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto, come condizione per poter mantenere i van-taggi commerciali. 185 La Convenzione di Yaoundé è una convenzione firmata nella città di Yaoundé (Camerun) tra la Comu-nità Europea e l'ASMM (African States, Madagascar and Mauritius) nel 1963. Era basata principalmente sul precedente trattato stipulato tra la Comunità Europea ed i suoi territori oltremare; offriva vantaggi commerciali ed aiuti finanziari ed aveva validità di cinque anni.

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Questa politica, in realtà, era stata messa in pratica dalla CE prima ancora che la cam-pagna internazionale anti-apartheid prendesse piede e viene interpretata da Olivier come un tentativo onesto, da parte della Comunità Europea, di fare qualcosa di concreto con-tro le ineguaglianze e le cicatrici lasciate dal colonialismo.

3. L’assistenza CE alle vittime dell’apartheid

Come sottolineato, l’oggettivo ritardo della Comunità Europea nell’intraprendere azioni concrete contro il sistema dell’apartheid fu principalmente dovuto alla riluttanza dei suoi membri più grandi ad adottare politiche incisive. Tuttavia, una volta deciso che fosse necessario adottare un approccio più severo, un pi-lastro importante delle relazioni esterne del Sudafrica venne a crollare. L’Europa in senso lato era stata tradizionalmente la “patria” culturale, intellettuale e morale del Sudafrica (quello bianco, si intende), la terra dei suoi padri fondatori, il prin-cipale elemento del suo ristretto circolo diplomatico, ma anche e soprattutto il suo più grande partner commerciale e principale investitore straniero. Al Paese quindi veniva ad un certo punto praticamente negato l’accesso al commercio della CE e ai possibili vantaggi per lo sviluppo che venivano intanto concessi ad altre ex-colonie del gruppo ACP.

Prima del 1986, il ruolo della CE nella lotta contro l’apartheid si era limitato all’uso di strumenti diplomatici prevalentemente verbali e simbolici. La rappresentanza diplomatica di Pretoria restò a Bruxelles presso la Commissione Eu-ropea, mentre la CE rifiutò rappresentanze diplomatiche formali a Pretoria sino al mo-mento in cui l’apartheid crollò e fu eletto un nuovo governo, stavolta democratico, nel 1994. Per un breve periodo di tempo, tra il 1991 ed il 1994, la Comunità Europea mantenne nella capitale sudafricana il suo Programme Coordination Office. Precedentemente al 1991, l’atteggiamento della CE di non-cooperazione con il governo sudafricano trovò la sua espressione nella decisione di vietarne la partecipazione ai pro-grammi sponsorizzati dalla stessa CE, tra i quali principalmente la Convenzione di Lo-mé con i Paesi ACP, i programmi di aiuto allo sviluppo e gli accordi commerciali.

In seguito poi alla rimozione del sistema di apartheid e al cambiamento democratico in Sudafrica, la CE cominciò un graduale processo di ritiro delle sanzioni. Sebbene la CE prendesse progressivamente le distanze dal governo della minoranza bianca sudafricana a partire dal 1978, essa stessa comprese che, per ragioni umanitarie e simboliche, non poteva esimersi dall’affrontare il problema sudafricano: perciò si lanciò in un “Programma Speciale per l’assistenza alle vittime dell’apartheid”186, iniziato nel 1986 e portato avanti sino al 1994. Il programma, stabilito con una dichiarazione del Consiglio dei Ministri degli Esteri CE, comprendeva misure tese a:

• Assistere le organizzazioni non-violente contro l’apartheid; • Fornire assistenza al sistema educativo della comunità non-bianca, inclusi sus-

sidi alle università; • Sostenere la SADCC e gli Stati confinanti con il Sudafrica. • Far crescere la consapevolezza della situazione nei cittadini di Stati membri del-

la CE residenti in Sudafrica; • Intensificare i contatti con la comunità non-bianca in svariati settori.

186 G. Olivier, op. cit., p.32.

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Nell’implementazione di questo Programma Speciale la CE evitò, per ovvie ragioni, qualsiasi legame o contatto con il governo nazionalista bianco. Perciò, per la sua attuazione, la CE si appoggiò ad intermediari non-governativi, tra i quali organizzazioni ecclesiastiche, ed era il caso del Kagiso Trust, e sindacali, ed era il caso della Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi. Tra il 1986 ed il 1994, circa 450 milioni di ECU ( corrispondenti a 2 miliardi di rand su-dafricani) coprirono il costo di più di 700 progetti grazie al Programma Speciale. Il programma, con il suo budget di 125 milioni di ECU concessi all’anno, rappresentò il più grande programma di sviluppo del Sudafrica, e il più grosso programma di quel tipo mai attuato globalmente dalla CE. Questa grande attenzione rivolta ai programmi di aiuto allo sviluppo era finalizzata al sostegno del cambiamento pacifico e dei miglioramenti nei campi dell’educazione e del-la formazione, della salute e del benessere sociale, all’aiuto sociale e umanitario, allo sviluppo rurale e agricolo in generale ma anche alla coesione sociale, alla costruzione di un governo onesto, alla creazione di nuove possibilità di lavoro e all’assistenza legale. Tutti questi programmi erano stati concepiti per promuovere e facilitare la transizione pacifica verso una democrazia non-razziale in cui avesse potuto dominare il principio per cui solo il popolo può determinare il suo sviluppo. E questo massiccio impegno della CE ebbe un grande merito nel “risanare” l’immagine che i sudafricani neri avevano della Comunità Europea.

Le riforme politiche positive attuate successivamente in Sudafrica motivarono la CE a eliminare del tutto le sanzioni, anche se gradualmente. Nel febbraio del 1991, il divieto relativo ai nuovi investimenti da parte di imprese euro-pee in Sudafrica venne eliminato; nel 1992 molte altre sanzioni furono abbandonate. Le sanzioni militari vennero abolite il 27 maggio del 1994. In seguito alle elezioni democratiche e alla formazione del Governo di Unità Nazionale, il ruolo dell’Unione Europea nella cooperazione allo sviluppo del Sudafrica riprese vi-gore sostanzialmente. Il Programma Europeo per la Ricostruzione e lo Sviluppo ( EPRD) sostituì il Program-ma Speciale, con lo specifico intento di sostenere il Programma di Ricostruzione e di Sviluppo (RDP) del Governo di Unità Nazionale. All’inizio, i programmi della CE ( che dal novembre del 1993 diventa Unione Europea), venivano applicati piuttosto “a caso” nel senso che non erano ancora focalizzati su un preciso obbiettivo di sviluppo. La diffusa euforia seguita alla transizione pacifica dall’apartheid alla democrazia, parve influenzare, almeno momentaneamente, Bruxelles e indurre l’UE i suoi rigidi criteri di Assistenza Ufficiale allo Sviluppo (ODA) e a buttarsi a capofitto nel finanziamento di una serie di progetti in Sudafrica. Nel solo 1994, più di 50 progetti (con una media di 2 milioni di ECU a progetto) furono approvati e finanziati. Nonostante tutto, nel 1995, il numero dei progetti finanziati fu ridotto a 10 con l’obbiettivo di concentrare gli sforzi in modo più mirato e gestibile. Un grande impulso alla cooperazione seguì poi alla firma della “Dichiarazione di in-tenti” tra Sudafrica ed Unione Europea nel 1995, lo sviluppo del “Country Strategy Pa-per” nel 1996 e l’approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri dell’UE, di nuove basi giuridiche su cui fondare la cooperazione allo sviluppo con il Sudafrica. Possiamo affermare, riassumendo, che la reazione, lenta e inizialmente inefficace, della CE nei confronti dell’apartheid viene spiegata da Olivier e Holland con l’apatia che la stessa Comunità Europea provava al riguardo del regime di Pretoria. In effetti solamente quando la comunità internazionale aveva già avviato in modo più deciso la campagna anti-apartheid, la CE si decise a prendere misure concrete, avendo

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compreso che «non era più possibile nascondersi dietro “mezze misure”, per di più ina-deguate»187. Il regime sanzionatorio adottato a livello comunitario a metà anni ’80, ebbe un forte im-patto sulla situazione interna sudafricana, e il fatto che le sanzioni furono poi bilanciate da sostanziali programmi di aiuto a favore delle vittime dell’apartheid indicò chiara-mente quale importante ruolo la CE fosse in grado di rivestire. La normalizzazione delle relazioni tra Sudafrica ed Unione Europea arrivò solamente dopo l’abbandono dell’apartheid e l’elezione di un uovo governo democratico. A quell’epoca, l’Unione Europea si rivelava come un grande attore nell’arena econo-mica internazionale, mentre il Sudafrica iniziava un lento processo di cambiamenti e ri-forme tesi a cancellare le distorsioni nella struttura economica e sociale causate dall’apartheid. Oggi, il Sudafrica gode di benefici rapporti bilaterali con tutti i suoi tradizionali partner dell’Europa occidentale, così come con tutti gli altri Paesi europei d’altronde. L’unione Europea poi continua a rappresentare un pilastro centrale nelle relazioni estere del Sudafrica, soprattutto da un punto di vista economico e commerciale.

4. Posizione di alcuni Stati europei

4.1 Londra e Bonn

La politica del cosiddetto “impegno costruttivo”, ricercata dall’amministrazione Reagan negli anni ’80 riguardo al regime sudafricano e tesa a non rompere i legami con il go-verno bianco avrà un grande sostegno nella posizione dei conservatori britannici al po-tere già dal 1979. Tre fattori storici importanti, ereditati dalla colonizzazione, fecero di quella britannica, la posizione più ostile alle sanzioni all’interno della CEE:

• 1)l’ampiezza degli investimenti britannici in Sudafrica; • 2)L’importanza delle relazioni commerciali. • 3)Rapporti nel mondo finanziario e bancario.

Il governo conservatore britannico si oppose sistematicamente alle misure sanzionatorie che tendevano ad isolare Pretoria, ad eccezione dell’embargo sulle armi, misura peraltro stabilita durante l’amministrazione laburista nel 1964. L’embargo, comunque, non comprendeva la fornitura di tecnologie informatiche per usi paramilitari. Nel quadro della CE, così come all’interno del Commonwealth, la strategia britannica restava quella di accettare solamente proposte di sanzioni contro il Sudafrica che fossero blande e volontarie. E Londra costituiva inoltre il principale ostacolo all’applicazione di sanzioni su base multilaterale. Sulla stessa falsariga il governo della Germania Ovest, guidato dal cancelliere Kohl, si opponeva alle sanzioni contro Pretoria, e «il suo rifiuto di partecipare a misure punitive dipendeva dagli interessi economici tedeschi che ancora esistevano nell’ex-colonia dell’Africa del Sud-Ovest (poi Namibia)»188 . Inoltre sottolineiamo gli stretti rapporti esistenti tra il partito dei social-democratici cri-stiani della Baviera, guidato da Franz-Joseph Strauss, e i dirigenti politici sudafricani.

187 Ivi, p. 33. 188 J.-C. Barbier, O. Désouches, op. cit., p. 73.

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Pienamente impegnata nella collaborazione sul nucleare con Pretoria, la Repubblica Fe-derale Tedesca si oppose nel 1986 alle sanzioni comunitarie estese al carbone sudafri-cano, che i tedeschi continuarono ad importare. Il fatto poi che i due colossi automobilistici della BMW e della Mercedes-Benz avessero potenziato i loro affari in Sudafrica ci fa capire quanto il governo di Bonn non volesse lasciarsi sfuggire l’occasione di rimpiazzare il posto vuoto lasciato dalle società multi-nazionali americane in seguito alla campagna di disinvestment analizzata nel precedente capitolo.

4.2 Il ruolo della Francia

Se Parigi non rappresentava che un partner economico secondario per Pretoria, è vero anche che le relazioni franco-sudafricane restarono caratterizzate sempre dalla loro “an-tichità” e dalla loro natura strategica. In effetti si ricordi che le prime forniture francesi di armi furono spedite agli afrikaner al momento della guerra anglo-boera. Fu sotto la presidenza De Gaulle che le loro relazioni si trasformarono realmente «in scambi franco-apartheid»189. Non paga di aver insegnato le tecniche anti-guerriglia agli ufficiali militari sudafricani durante la guerra d’Algeria, la Francia nel 1960 accettò di fornire equipaggiamenti all’esercito sudafricano in cambio di oro e uranio. Così Pretoria cominciò ad approvvigionare Parigi con l’uranio, ricevendo in cambio la fornitura di tutte quelle conoscenze tecniche, scientifiche e tecnologiche necessarie per mettere in pratica il programma sul nucleare stabilito dal governo nazionalista bianco. Questa collaborazione sul nucleare toccherà il suo apice durante la presidenza di Gi-scard d’Estaing, quando il governo francese firmerà, esattamente nel 1976, il contratto con il quale si impegnava a far costruire la centrale nucleare di Koeberg, poi effettiva-mente realizzata. Soltanto quattro anni dopo il loro arrivo al potere i socialisti, durante la presidenza Mit-terrand, intraprenderanno la strada delle sanzioni contro Pretoria, sia con un’iniziativa nazionale (stop agli investimenti diretti), sia con una comunitaria (tramite la partecipa-zione alla Dichiarazione di Lussemburgo del settembre 1985 sulla politica estera comu-ne), sia internazionale, con il loro voto favorevole, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, alla prima proposta di risoluzioni globali su base facoltativa.

Ma questo rivolgimento diplomatico contro Pretoria sarà limitato e fragile. Infatti il valore giuridico di quelle sanzioni per il diritto interno francese restava debole, in quanto nessuna legge relativa alle sanzioni fu approvata dal parlamento francese. Le visita in Francia del presidente sudafricano Botha, la prima del giugno 1984 e la se-conda avvenuta nel novembre del 1986, indicò quanto importante ancora fosse il ruolo che Pretoria attribuiva alla Francia.

4.3 Olanda

La politica olandese si focalizzò sull’obbiettivo di accrescere le pressioni economiche internazionali sul Sudafrica e cercò di sostenere unilateralmente i gruppi di opposizione impegnati in Sudafrica nella lotta all’apartheid. «In contrasto con gli effetti deboli della politica di cooperazione europea, per più di die-ci anni l’Olanda aveva richiesto che si mettessero in atto azioni più credibili e coe-renti»190. In particolare, nel determinare la politica sul Sudafrica, il pensiero dei gover-nanti olandesi era che i vari elementi di quella stessa politica dovessero formare un “tut- 189 Ivi, p. 74. 190 M. Holland, op. cit., p. 103.

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to” coerente, nel senso che l’insieme di azioni e sanzioni da prendere avrebbero dovuto rafforzare mutualmente i loro effetti. Solamente con un coordinamento di quelle azioni, positive e/o negative, si sarebbero potuti ottenere gli obbiettivi comuni della politica e-stera europea. Durante gli anni ’80 poi, i tre Paesi del Benelux operarono di concerto sia in sede ONU sia a livello europeo. Ad esempio, in Olanda e Lussemburgo dal 1983 furono introdotte le richieste di visto d’ingresso per tutti i cittadini sudafricani in arrivo, e furono attuate delle politiche tese a restringere al massimo i contatti in ambito sportivo. Dopo la morte di Steve Biko nel 1977, l’accordo culturale tra Olanda e Sudafrica, sti-pulato nel 1951, fu sospeso, e fatto decadere infine nel 1981.

4.4 Danimarca

La Danimarca aveva adottato al suo interno un’estesa legislazione anti-apartheid dal 1978. A partire da quel momento, la risposta danese al Sudafrica dell’apartheid prese forma in base ai suoi impegni all’interno del Consiglio Nordico191, piuttosto che in base alla sua partecipazione alla CE. Da notare il fatto che, nella Dichiarazione annessa all’Atto Unico Europeo, la Dani-marca volle difendere quel suo doppio impegno, e sottolineò che la cooperazione poli-tica all’interno della CE riguardo alla politica estera “ non avrebbe influenzato od osta-colato la partecipazione della Danimarca alla cooperazione, all’interno del Consiglio nordico, relativa alla politica estera”192. Già dal 1978 il governo danese applicò sanzioni economiche contro il Sudafrica relati-vamente a molti settori di esportazione diretti verso quel Paese. Il parlamento danese approvò moltissime leggi che vietarono la vendita di petrolio al Sudafrica, così come altri decreti bandirono la vendita di armi, con la previsione di pene pesantissime in caso di violazione da parte di navi danesi. Il 19 ottobre 1985 il governo danese fu uno dei firmatari del Programma Nordico di A-zione (si veda il prossimo paragrafo) contro l’apartheid. Quel programma cercava, attraverso la standardizzazione delle leggi dei paesi firmatari, di rompere gradualmente tutti i legami economici tra i 5 Paesi nordici (Danimarca, Sve-zia, Islanda, Norvegia e Finlandia) e il Sudafrica, e cercava inoltre di attuare l’intero spettro di sanzioni sponsorizzate dall’ONU. Relativamente al carbone, dal momento che vi era una mancanza di consenso, all’interno della CE, riguardo a un possibile embargo, il parlamento danese nell’86 agì da solo e varò una propria legge al riguardo. Ad eccezione di pochi minerali e prodotti chimici, tutte le esportazioni e le importazioni da e verso il Sudafrica furono proibite per legge. La Danimarca inoltre fu l’unico membro della CE ad interrompere le importazioni di ferro e acciaio dal Sudafrica a partire già dal 1986. Infine, come gesto simbolico, teso a rendere più forte l’isolamento internazionale del Sudafrica, i collegamenti aerei diretti tra i Paesi scandinavi e Sudafrica furono interrotti nel 1985.

191 Il Consiglio nordico e il Consiglio nordico dei ministri sono un forum di cooperazione dei governi dei Paesi nordici. Il primo fu istituito dopo la seconda guerra mondiale e il suo primo risultato concreto fu l'introduzione nel 1952 di un mercato del lavoro comune, della sicurezza sociale e della libera circola-zione attraverso le frontiere per i cittadini degli stati membri. 192 M. Holland, op. cit., p. 105.

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4.5 Altri Paesi

Altri Stati europei, tra cui Belgio, Lussemburgo, Italia, Grecia e Spagna, espressero la volontà, a vari livelli, di dare attuazione alla politica comunitaria riguardo al Sudafrica tramite legislazione nazionale e procedure amministrative.

Notiamo però che la Grecia, nonostante non avesse mai avuto particolari rapporti

commerciali con il Sudafrica, adottò una politica in linea con quella comunitaria. In particolare questo valse negli anni ’80 relativamente al petrolio e alle armi. Il governo greco aveva sostenuto altre sanzioni, quali l’embargo sul carbone stabilito già dalla CE. Tuttavia, pur accettando il pacchetto di sanzioni del 1986 senza riserva al-cuna, continuò ad importare quantità sostanziali di ferro e acciaio dal Sudafrica.

Anche nel caso dell’Italia, poteri e procedure amministrative precedenti alle misure CE del biennio ’85-’86, furono impiegati per realizzare gli obbiettivi politici riguardanti il Sudafrica. Da aggiungere che i contratti per l’esportazione di petrolio greggio verso altri paesi contenevano sempre una clausola che impediva la rivendita di quel petrolio al Sudafrica; inoltre, dal 9 gennaio 1987 furono proibiti nuovi investimenti diretti di citta-dini italiani in Sudafrica.

5. Il PAN e la Svezia

5.1. Il Piano di Azione Nordico

Dopo il massacro di Soweto del 1976, la Norvegia decise di proibire nuovi investimenti da parte di sue imprese e suoi cittadini in territorio sudafricano. La Svezia prese l’iniziativa di portare una risoluzione all’Assemblea Generale dell’ONU, con la quale chiedeva al Consiglio di Sicurezza di considerare iniziative tese a bloccare ulteriori investimenti esteri nel Paese africano. «Ci fu un’iniziale resistenza a quella proposta, da parte degli Stati africani e di quelli non-allineati, ma infine essi si persuasero tutti dell’opportunità di una tale mossa, per cui la sostennero addirittura la promossero»193. La risoluzione fu allargato l’anno successivo per includere il divieto di prestiti finan-ziari, e funzionò per diversi anni. I nuovi investimenti svedesi in Sudafrica furono proibiti con legge del Parlamento di Stoccolma nel 1979.

Intanto il Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid aveva organizzato a Lagos, per l’agosto del 1977, la Conferenza mondiale per l’azione contro l’apartheid, con il patrocinio delle stesse Nazioni Unite - e in cooperazione con l’Organizzazione per l’Unità Africana e la Repubblica Federale della Nigeria - nella speranza di garantire significativi progressi nell’azione contro il regime di Pretoria. Il presidente del Comitato Speciale delle Nazioni Unite per l’apartheid, l’ambasciatore nigeriano Leslie O. Harriman, insieme ad E.S. Reddy ( membro dell’Istituto ONU per la formazione e la ricerca), consultarono i governi dei Paesi nordici relativamente ai prepa-rativi della Conferenza. I governi nordici ebbero una rappresentanza di primo livello alla Conferenza: Ordvar Nodli, Primo Ministro norvegese, e Olof Palme, allora leader del Partito Socialdemocra-

193 E.S. Reddy, Nordic contribution to the struggle against apartheid [ elaborato di una lezione tenuta du-rante un seminario dell’Istituto Scandinavo di Studi Africani di Uppsala il 19 febbraio del 1986], p. 13.

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tico nonché capo dell’opposizione svedese, assistettero in qualità di ospiti speciali alla Conferenza. Due mesi e mezzo dopo la Conferenza, il Consiglio di Sicurezza, come detto, stabilì con propria decisione di imporre un embargo obbligatorio sulla vendita di armi al Sudafrica. E proprio i Paesi nordici furono tra i primi a convertire in legge interna la risoluzione del Consiglio di Sicurezza, al fine di implementare al più presto le sue disposizioni e far operare immediatamente l’embargo contro Pretoria. Il 10 marzo 1978, i ministri degli Esteri dei Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Islan-da, Norvegia e Svezia) decisero di attuare un programma comune di azione contro l’apartheid. Il Programma di Azione Nordico (PAN) prevedeva:

• Proibizione o disincentivo di nuovi investimenti in Sudafrica. • Divieto di fornire equipaggiamenti sotto forma di credito. • Restrizioni riguardanti garanzie di prestiti bancari • Rifiuto di votare a favore dei prestiti provenienti dal Fondo Monetario Interna-

zionale. • Proibizione di acquisti statali, disincentivo al trasferimento di tecnologia, diver-

sificazione dei partner commerciali, stop a qualsiasi tipo di aiuto statale mirato alla promozione commerciale di attività sudafricane.

• Stop alla vendita e al commercio di armi e materiale militare, e alla vendita di materiale informatico all’esercito e alla polizia sudafricani.

• Stop all’acquisto di Krugerrand • Sospensione, sino al 1985, dei voli operati dalla compagnia aerea scandinava

(SAS) diretti verso il Sudafrica. • Limitazione agli scambi culturali, scientifici e sportivi. • Rafforzamento del supporto ai rifugiati, ai movimenti di liberazione e alle vit-

time dell’apartheid. Per la prima volta, si ebbe una seppur piccola rottura sulla questione delle sanzioni, nel senso che i cinque Paesi nordici avevano deciso di attuare misure sanzionatorie indipen-dentemente dal resto della comunità internazionale. Tuttavia, E.S. Reddy le ritiene delle «facili opzioni»194, nel senso che all’interno del pacchetto sanzionatorio previsto dal PAN, le uniche misure importanti erano quelle rela-tive alla proibizione dei nuovi investimenti. Gli investimenti nordici in Sudafrica, erano piuttosto piccoli, e inoltre non vi erano stati prestiti dei governi nordici al favore del Paese africano.

In Norvegia, l’azione del PAN ebbe scarso peso e visibilità in quanto vi erano pochi investimenti in Sudafrica, e la proibizione di nuove attività veniva implementata attra-verso il controllo dei flussi di valuta nazionale.

In Svezia invece, vi era un dibattito pubblico dal momento che alcune compagnie svedesi avevano sviluppato investimenti considerevoli; inoltre il divieto per i nuovi in-vestimenti era previsto per legge interna. Il dibattito pubblico svedese metteva in luce quanto fosse importante il ruolo degli inve-stimenti economici nel rafforzare la posizione dell’apartheid. Il comitato speciale ONU accolse favorevolmente l’azione di Norvegia e Svezia, ma non era capace di persuadere altri paesi occidentali ad attuare misure, anche limitate, per diversi anni, sino al 1985, come visto.

194 E.S. Reddy, Nordic contribution to the struggle against apartheid [ elaborato di una lezione tenuta du-rante un seminario dell’Istituto Scandinavo di Studi Africani di Uppsala il 19 febbraio del 1986], p. 14.

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5.2 La Svezia e l’apartheid

Il dominio della minoranza bianca, mantenuto in termini di discriminazione razziale e sfruttamento massiccio dei non-bianchi, fu condannato aspramente dagli svedesi. A partire dagli anni ’60, il regime di apartheid ricevette critiche dirette da parte delle au-torità sia in Svezia sia alle Nazioni Unite. A causa dell’immagine che essi avevano di loro stessi, cioè quella di «un popolo soli-dale con i Paesi e gruppi svantaggiati di tutto il mondo»195, gli svedesi sostennero in modo pieno qualsiasi forma di lotta in Sudafrica, ed erano compiaciuti dal fatto che il loro Paese fornisse assistenza alle vittime dell’apartheid. Sia dal punto di vista morale sia da quello politico, molte organizzazioni non-governa-tive in Svezia esprimevano il loro disgusto nei confronti delle nefandezze del regime di Pretoria. Nel 1976, il rappresentante svedese all’Assemblea Generale dell’ONU, Sua Eccellenza Olof Rydbeck, sottolineò il fatto che la politica sudafricana dei bantustan o homelands, definiti dal governo di Pretoria, “indipendenti” fosse « uno strumento utile, per il re-gime, al fine di consolidare il dominio bianco e far continuare lo sfruttamento econo-mico e sociale dei lavoratori neri» 196. Nella sua dichiarazione al Consiglio di Sicurezza, il 25 marzo 1977, Olof Palme, prece-dentemente primo ministro svedese, criticò pesantemente il regime di apartheid, e tra le varie assurdità da lui denunciate vi era il fatto per cui « un individuo veniva etichettato sin dalla nascita in base al colore della sua pelle»197. In quella stessa occasione Palme disse anche che le azioni, così come l'eventuale iner-zia, da parte delle Nazioni Unite, non dovevano essere usate come alibi, dagli Stati membri, al fine mantenere un atteggiamento passivo nei confronti dell’apartheid, richie-dendo quindi che tutta una serie di azioni punitive e positive venissero non solo prese in considerazione, ma anche applicate. Tra esse, Palme annoverava il blocco alle vendite di armi al regime sudafricano, lo stop all’esportazione di capitali e agli investimenti sia verso il territorio sudafricano che in Namibia, l’opposizione al riconoscimento dei co-siddetti indipendenti bantustan, il sostegno materiale e politico ai movimenti di libera-zione e agli altri Stati già autonomi che lottavano per l’indipendenza economica. Teniamo conto che tali critiche nei confronti dell’apartheid non provenivano solamente da rappresentanti del governo svedese, ma anche dai movimenti sindacali, per esempio, che rappresentarono a lungo l’avanguardia del sostegno alla lotta contro l’apartheid. Si distinsero in particolare la Confederazione dei sindacati svedesi (LO) e l’Organizzazione centrale dei lavoratori salariati svedesi (TCO). Dalle dichiarazioni dei sindacati, sempre ostili ai nuovi investimenti in territorio suda-fricano e allo sfruttamento della forza lavoro non-bianca, si ricavava che tutta la strut-tura sociale e l’intera opinione pubblica desideravano la fine dell’apartheid in Sudafrica. Ma perché la Svezia in particolare faceva della lotta all’apartheid una questione così importante?

195 A.K. Bangura, Sweden vs. Apartheid. Putting morality ahead of profit. Ashgate, Aldershot Hants, England, 2004, p. 1. 196 Ibidem. 197 Ivi, p. 2.

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5.3 La Svezia il Terzo Mondo

Come tutti gli altri Paesi industrializzati, la Svezia aveva bisogno del commercio con l’estero. L’economia svedese era costituita da molte compagnie transnazionali che, co-me le altre, cercavano di evitare le barriere costituite dalle tariffe; esse inoltre godevano di aiuti finanziari mirati all’apertura di nuove filiali estere, praticavano una politica di bassi salari e ricercavano sempre mercati con migliori opportunità. Quindi le relazioni della Svezia con il Terzo Mondo apparivano, secondo l’analisi di Bangura, autore di “Sweden vs. Apartheid. Putting morality ahead of profit” , caratteriz-zate da un doppio aspetto: da un lato le politiche nazionali verso i Pesi più arretrati era-no caratterizzate dalla ricerca degli interessi economici, dall’altro però, la Svezia si do-tava di una politica forte di sostegno e aiuto allo sviluppo nei confronti di quelle stesse economie in via di sviluppo. Per quanto riguarda la consistenza del commercio svedese con i Paesi in via di sviluppo, essa raggiungeva solamente il 12% del totale del commercio estero del Paese nordico. Per quanto concerneva le esportazioni, l’Algeria, il Brasile, l’Iran e la Liberia emersero quali maggiori mercati per i beni svedesi. Quei Paesi del Terzo mondo nei quali le compagnie industriali svedesi possedevano in-dustrie manifatturiere, emersero perciò come i principali destinatari dei prodotti svedesi. Nonostante il fatto che il commercio estero svedese fosse costituito solo per il 12% da operazioni commerciali con i Paesi del Terzo mondo, quelle esportazioni erano impor-tanti per la Svezia. La Svezia divenne perciò il principale investitore straniero in quei Paesi del Terzo Mondo. Infatti gli investimenti esteri svedesi stavano rapidamente aumentando negli anni ’70, e in particolare crescevano quelli diretti ai Paesi del Terzo Mondo. Per cui, se è vero che il coinvolgimento della Svezia nell’economia internazionale, e in particolare in quella dei Paesi sviluppati, non era così importante in senso assoluto, è vero d’altra parte che essa stava crescendo e cominciava ad essere consistente, se para-gonato al suo prodotto interno lordo, e soprattutto relativamente alle esportazioni. Quindi si comprende l’attenzione sempre crescente della Svezia nei confronti dei Paesi del Terzo mondo, verso il quale sviluppò presto una politica di aiuto allo sviluppo. La Svezia divenne presto il principale donatore di aiuti allo sviluppo tra i Paesi capitali-sti, in relazione al Prodotto Nazionale Lordo. E questo non rappresentò un fatto casuale. Fu al contrario il risultato di una serie di po-litiche mirate a fornire ai Paesi del Terzo Mondo gli strumenti per uscire dalla loro si-tuazione di povertà.

Già nel 1952 infatti la Svezia creò il Comitato Centrale per l’Assistenza Tecnica sve-dese ai Paesi meno sviluppati; nei primi anni ’60 poi Stoccolma cominciò a rivestire il ruolo di Paese - donatore. Ma un’importante domanda si pose in Svezia, riguardante quale fosse il modo migliore in cui dare questo aiuto ai paesi del Terzo Mondo: cioè, era da preferire un approccio bilaterale, quindi più diretto, instaurando un rapporto imme-diato con ciascuno dei governi destinatari degli aiuti, oppure sarebbe stato meglio con-vogliare gli sforzi tramite un’organizzazione internazionale, prima fra tutte le Nazioni Unite? Negli anni ’60, il governo svedese optò per la seconda soluzione, sia perché alla Svezia mancava la capacità amministrativa di incanalare adeguatamente la maggior parte dei suoi aiuti, sia perché nel Paese, all’epoca, il sentimento pro-ONU era il più diffuso ed era anche quello prevalente tra i membri del governo.

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Bangura nota come nella vita politica svedese vi era sempre una componente latente di moralità, accompagnata da un senso del realismo non comune in tutte le società politi-che. Inoltre, molti svedesi, cittadini comuni, avvertivano profondamente il sentimento per cui «la ricchezza dovesse portare con sé anche l’obbligo morale di migliorare la posi-zione delle persone meno dotate»198. Ma anche se all’inizio il governo svedese preferiva fornire l’aiuto in modo multilaterale, quasi metà di esso avveniva sotto forma di accordo bilaterale. Questo perché la Svezia teneva molto a stabilire relazioni strette con i Paesi del Terzo Mondo, e la maggior parte dei suoi aiuti erano costituiti da assistenza tecnica e forma-tiva, in opposizione agli aiuti sotto forma di crediti finanziari. La maggior parte degli aiuti svedesi andava anche a Paesi africani quali l’Etiopia, la Tanzania e il Kenia. Ma dagli anni’ 70, la Svezia decise di passare dalla cooperazione per lo sviluppo su base multilaterale, a una cooperazione su base bilaterale. L’Autorità Svedese per lo Sviluppo Internazionale (SIDA), divenne più grande, svi-luppò i suoi interessi e aumentò la quota totale degli aiuti, rendendo la questione del so-stegno allo sviluppo imprescindibile nel dibattito politico ed economico interno. Tutto questo dipendeva da due fattori:

1. I politici svedesi erano contrariati dal fatto che l’aiuto fornito tramite l’ONU fos-se diventato troppo macchinoso e imbrigliato da procedure burocratiche.

2. Un grande dibattito era sorto in Svezia relativamente alla selezione dei destina-tari degli aiuti, per cui sarebbe stato politicamente più opportuno andare avanti con progetti bilaterali da scegliere autonomamente rispetto a troppi altri Stati.

Perciò, la Svezia cercò di espandere la sua politica estera di aiuti in modo che fosse o-rientata meglio e più decisa. Suoi principali obbiettivi furono:

• Risvegliare l’opinione pubblica e rendere sempre più consapevoli gli svedesi ri-guardo al mondo in cui vivevano e riguardo al fatto che una società globale stava emergendo.

• Dare ai decision-makers un ruolo più attivo non solo in Svezia ma anche all’interno delle altre arene decisionali internazionali, rafforzare le agenzie na-zionali e quelle internazionali al fine di formulare politiche adeguate.

• Mettere i popoli dei Paesi meno sviluppati al centro dei programmi di coopera-zione allo sviluppo.

• Concepire la politica svedese verso i Paesi in via di sviluppo e la partecipazione della Svezia alle Nazioni Unite in modo da permettere alle autorità svedesi di sostenere sistematicamente, rafforzare ed attuare gli sforzi a favore dei Paesi più poveri nel loro complesso.

• Concentrare meglio le risorse della Svezia, cioè convogliarle su poche questioni e problematiche, nel tentativo di poter giocare un ruolo più importante riguardo allo sviluppo in quei settori.

• Le questioni relative alle popolazioni e ai loro diritti avrebbero dovuto ricevere la priorità più alta.

• Espandere e trarre pieno vantaggio dalle risorse svedesi, al fine di mettere i mez-zi della ricerca svedese a disposizione del lavoro internazionale a favore dello sviluppo.

198 Ivi, p. 22.

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• Cercare di trarre vantaggio dalle abilità e dalle risorse di tutte le persone deside-rose di partecipare al sostegno allo sviluppo: giovani, organizzazioni nazionali, società di affari, ecc.

Negli anni ’70 l’opinione pubblica svedese era diventata sempre più coinvolta nelle questioni riguardanti i diritti degli uomini, il dominio coloniale o i governi non demo-cratici, e dopo il Vietnam e la sua guerra, la società civile svedese fu sempre più colpita dalla situazione sudafricana, altro scenario internazionale in cui veniva a mancare il ri-spetto dei diritti umani.

5.4 La Svezia e il Sudafrica

Riguardo al problema Sudafricano, Nils Andrén, nel suo Power-Balance and Non-Ali-gnment, riteneva che poco fosse stato fatto sino alla fine degli anni ’60 da parte del go-verno svedese, in quanto « il dibattito sul Sudafrica aveva avuto luogo prevalentemente all’interno di gruppi esterni al mondo politico svedese in senso stretto, e che quindi que-sti gruppi non-politici (prevalentemente organizzazioni della società civile) possedevano una conoscenza limitata degli affari internazionali»199. Secondo lui l’azione della Svezia si sarebbe dovuta concretizzare innanzitutto in dichia-razioni pubbliche contro l’apartheid e nel sostegno per le risoluzioni ONU relative a quella questione, per far capire al più presto la propria posizione al riguardo.

Come sottolineato prima, la Svezia si oppose poi in modo veemente al sistema di-scriminatorio imposto da Pretoria, ma al tempo stesso non voleva subire gravi perdite negli affari economici riguardanti il Sudafrica. Mentre da un lato il paese africano aveva un’importanza secondaria rispetto al commer-cio estero svedese, gli svedesi impiegati nelle società economiche con affari in Suda-frica godevano di ottime condizioni economiche. E in più, i rapporti commerciali tra il Sudafrica e la Svezia avevano avuto un incremento impressionante tra gli anni ’60 e gli ’80. In generale però, le relazioni tra i due Paesi erano diventate particolarmente importanti per i politici svedesi già in seguito all’adozione della politica economica del secondo dopoguerra: esattamente, quella politica mirava principalmente a raggiungere la piena occupazione. E a partire dagli anni ’60, in Svezia, diversamente che in altri Paesi svi-luppati, l’accento non si pose solamente sulla crescita economica tout-court, ma sulla distribuzione regionale della crescita, sui problemi ambientali derivanti dalla crescita economica e sull’equa distribuzione della nuova ricchezza. E l’obbiettivo della piena occupazione fu ricercato non solamente in senso generale, ma anche con una particolare attenzione dedicata alle donne sposate, ai disabili e alle aree meno forti dal punto di vista economico.

Perciò, anche se la Svezia forniva supporto e sostegno agli Stati confinanti e ai mo-vimenti di liberazione che si opponevano al regime nazionalista bianco, è vero anche che Stoccolma rafforzò i suoi commerci in Sudafrica e continuò ad avere relazioni di-plomatiche con il governo, e questo per perseguire la sua politica economica: con ciò vogliamo sottolineare il fatto che il governo svedese non smise mai di ricercare la sod-disfazione degli interessi economici nazionali, continuando al tempo stesso l’opera di sostegno alla lotta anti-apartheid, e quindi l’obbiettivo dello sviluppo economico non offuscò l’impegno morale contro la discriminazione razziale. Questo infatti dipendeva dal fatto che sino agli anni ’70, il Consiglio di Sicurezza non aveva preso nessuna decisione obbligatoria nei confronti del Sudafrica e la Svezia, co-me fa notare Bangura, sino a quel momento aveva partecipato all’applicazione di san- 199 N. Andrén, Power-Balance and Non-Alignment, Almqvist and Wiksell Stockholm, Sweden, 1967, p. 25.

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zioni internazionali solamente dopo raccomandazioni o decisioni del Consiglio di Sicu-rezza, preferendo, come dicevamo prima, le sanzioni su base multilaterale. Infatti il governo svedese continuò a fare pressioni sul Consiglio di Sicurezza affinché decidesse su sanzioni economiche estese e obbligatorie contro il Sudafrica, e affinché non si perdesse ulteriore tempo. In sede ONU, la Svezia portò di fronte all’Assemblea Generale una proposta di risolu-zione, nel 1976, con la quale si richiedeva al Consiglio di Sicurezza di considerare mi-sure quali il divieto di nuovi investimenti esteri in Sudafrica, e successivamente vi fu una seconda proposta di risoluzione relativa a misure economiche quali l’interruzione dei prestiti finanziari al Sudafrica. Altre azioni supportate dalla Svezia contro il regime di apartheid includevano:

• Embargo sulle armi; • Embargo su petrolio e prodotti petroliferi; • Rafforzamento dell’aiuto a favore dei rifugiati e dei movimenti di liberazione e

delle vittime dell’apartheid tramite agenzie specializzate delle Nazioni Unite • Aumento delle pressioni ONU sul Sudafrica per l’indipendenza della Namibia

Certamente poi il vero salto di qualità fu compiuto dai Paesi nordici in generale, e dalla Svezia in particolare, con l’adozione del Piano di Azione Nordico, trattato sopra. L’aiuto svedese agli Stati di frontiera e quelli a vario titolo impegnati nella lotta contro Pretoria (Angola, Mozambico, Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbabwe, ma anche Le-sotho e Malawi) si inseriva nella politica di aiuto e di sostegno allo sviluppo di cui si è parlato prima.

Perciò, possiamo affermare che se da una parte la politica commerciale della Svezia nei confronti del Sudafrica continuò ad operare nonostante la sua ferma opposizione all’apartheid, dall’altra l’aiuto allo sviluppo che caratterizzava continuamente e tradi-zionalmente le decisioni politiche dei governi svedesi, fu oggettivamente sostanziale e utile sia nei confronti delle forze di liberazione sudafricane, sia verso gli Stati africani vicini. E si trattava, tra l’altro, di un sostegno anche maggiore rispetto a quello concesso ad al-tri raggruppamenti regionali africani. Però esiste un elemento che differenzia la Svezia da altri Paesi occidentali e ad econo-mia capitalista: il fatto che lo stesso governo rischiò, e lo fece volontariamente, di met-tere a repentaglio i propri interessi economici in Sudafrica tramite diverse sue proposte relative a sanzioni internazionali contro il Paese africano. Non solo, la Svezia votò sempre a favore delle sanzioni, superando così le tendenze del-la maggior parte degli altri Stati occidentali. Il governo di Stoccolma poi sviluppò programmi di aiuto economico e sostegno diplo-matico per i Paesi sottosviluppati e di recente indipendenza in Africa; non fece mai mancare il sostegno umanitario alle forze di liberazione; criticò sempre apertamente il regime sudafricano, non solo all’interno della Svezia, ma anche all’estero. E soprattutto, specie con l’adozione del PAN, «la politica svedese riguardo al problema sudafricano non fu mai dipendente dalle relazioni con il blocco degli Stati occidentali né con gli Stati del blocco comunista»200. Un elemento da non sottovalutare è che i Socialdemocratici mantennero sempre un alto numero di seggi al Parlamento svedese, il Riksdag, e questo significò che anche quando il partito di Olof Palme non era al potere, esso era comunque in grado di mantenere un ruolo importante nell’influenzare la politica svedese, mantenendo forti quei valori tipici del corpo sociale e politico svedese in riferimento alla giustizia sociale, a tutti i livelli.

200 A.K. Bangura , op. cit., p. 119.

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Il sostegno svedese al movimento anti-apartheid è sembrato in definitiva sincero. E que-sto sostegno è stato ancora più importante nei momenti in cui non vi era una politica comune internazionale tesa ad apportare con decisione cambiamenti in Sudafrica. La Svezia è stata sempre attenta a preservare la sua indipendenza nazionale e la pace; non ha mai subito l’invasione straniera né è mai stata governata da poteri esterni; inoltre si è mantenuta neutrale in entrambe le guerre mondiali. Ma la struttura della sua arena politica è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento cooperativo, alla ricerca del consenso tra i partiti, e questo ha spesso giovato alla conti-nuità e all’efficacia della sua politica estera. La Svezia è sempre stata coinvolta nel tentativo di creare un sistema legale e giuridico internazionale che potesse salvaguardare l’integrità e l’indipendenza dei piccoli Stati. Inoltre, la solidarietà sociale dei suoi cittadini spiega molto bene il perché del suo inte-resse tradizionale nei confronti dei diritti umani, per cui anche la politica estera dei go-verni svedesi non poteva che essere tra quelle più pronte a contrastare un regime discri-minatorio come quello sudafricano.

Non sorprende il fatto che quando, nel 1990, l’ex-presidente dell’ANC Oliver Tambo fu colpito da un ictus ed ebbe bisogno di cure mediche, andò subito in Svezia, a testimo-nianza e riconoscenza del fatto che il Paese nordico fu sempre un grande alleato del principale movimento di opposizione sudafricano.

6. Il caso Olof Palme

6.1 Chi era Olof Palme

Sven Olof Joachim Palme, nato a Stoccolma il 30 gennaio 1927, è stato un grande uomo politico svedese. Durante la sua carriera politica è stato presidente del Partito Socialdemocratico Svedese dal 1969 al 1986, primo ministro della Svezia dal 14 ottobre 1969 al 8 ottobre 1976, membro del governo dal 1976 al 1982 e poi di nuovo primo ministro dall'8 ottobre 1982 fino al giorno del suo assassinio, il 28 febbraio 1986. Sebbene egli provenisse da una famiglia agiata, il suo orientamento politico fu influen-zato da idee e ideali socialdemocratici. Viaggiò molto nei paesi del terzo Mondo e stu-diò negli Stati Uniti, e tutto questo gli permise di vedere con i propri occhi le profonde ineguaglianze sociali e la segregazione razziale, elementi che influenzarono la sua vi-sione politica. Come detto, dopo un periodo di studi universitari negli Stati Uniti, tornò in Svezia per studiare giurisprudenza. Già da studente universitario, Olof Palme si interessò di politica, lavorando con l’Unione Nazionale Studentesca Svedese (SNUS). Nel 1951, egli divenne membro dell’associazione studentesca dei socialdemocratici di Stoccolma. L’anno successivo venne eletto presidente della SNUS. Lui stesso attribuì il suo “essere diventato socialista” a tre fattori:

• Nel 1947, aveva assistito a un dibattito sulle tasse tra il socialdemocratico Wi-gforss, il conservatore Hjalmarsson e il liberale Andersson;

• Il periodo trascorso negli Stati Uniti gli fece capire quanto fosse profonda la di-visione sociale in America, e la portata del razzismo contro i neri;

• Un viaggio in Asia negli anni ’50 gli fece aprire gli occhi sulle conseguenze del colonialismo e dell’imperialismo europei.

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Nel 1953, Palme fu reclutato dal Primo ministro socialdemocratico Tage Erlander per lavorare nella segreteria del partito. Dal 1955 fu consigliere della Lega giovanile dei Socialdemocratici. Nel 1957 fu eletto parlamentare del suo partito. Ricoprì diverse cariche di governo a partire dal 1963. Nel 1967 divenne Ministro dell’istruzione, l’anno dopo venne aspramente criticato da studenti di sinistra a causa dei progetti del governo tesi a riformare il sistema universitario. Quando il leader del partito Erlander si dimise nel 1969, fu eletto come nuovo leader dal Congresso del Partito, divenendo anche Primo Ministro. Palme divenne così uno dei politici svedesi più noti a livello internazionale, anche gra-zie al fatto che il suo governo durò ben 125 mesi, al fatto di essersi sempre opposto alla politica estera statunitense, e anche a causa del suo assassinio. Il suo "delfino" e principale alleato politico, Bernt Carlsson, nominato Commissario ONU per la Namibia nel luglio del 1987, morì anch’egli di morte prematura. infatti re-stò in un incidente aereo il 21 dicembre 1988, proprio mentre si recava a New York per la cerimonia ufficiale, alle Nazioni Unite, per la sua nomina a Commissario, che si sa-rebbe dovuta tenere il giorno dopo.

6.2 L’assassinio

L'omicidio, il primo del genere nella storia della Svezia moderna, fu un grande trauma nazionale e politico; avvenne nel pieno centro di Stoccolma la notte del 28 febbraio 1986, mentre Palme stava rientrando a casa insieme alla moglie Lisbet dopo essere stato al cinema. La morte di Palme venne dichiarata ufficialmente il 1º marzo, sei minuti do-po la mezzanotte. Anche la moglie fu ferita, ma senza gravi conseguenze.

L'istruttoria processuale per il suo assassinio è stata la più lunga e la più costosa mai

portata avanti in Svezia e non è stata ancora chiusa, dal momento che l’assassino non è stato ancora catturato.

Il sospetto Christer Pettersson venne processato come assassino di Olof Palme e con-dannato all'ergastolo dalla Pretura di Stoccolma, ma fu successivamente prosciolto dalla Corte d'Appello per mancanza di prove. Il proscioglimento venne definitivamente con-fermato nel 1998 dalla Corte Suprema. Pettersson morì per problemi di droga nel 2004. Il codice penale svedese prevede un limite di 25 anni per lo svolgimento dell'istruttoria processuale per omicidio, ovvero fino al 2011, dopodiché il caso dovrà essere archi-viato. L'arma del delitto non è mai stata trovata. Dal momento che le accuse contro Petterson non furono comprovate, molte teorie alter-native furono proposte sulla possibile identità e sui moventi dell’assassino. Tra i diversi possibili mandanti dell’omicidio di Olof Palme, Bangura cita i seguenti:

• Membri della famiglia stessa dello statista; • Polizia svedese; • PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan; • Ustasja, gruppo croato fascista; • Lega Mondiale anti-comunista (WACL); • Agenti segreti iracheni o iraniani; • L’Armata Rossa della Germania Est; • KGB, i servizi segreti sovietici; • Organizzazione terroristica palestinese; • Mossad, il servizio segreto israeliano;

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• CIA; • BOSS, la polizia segreta del regime sudafricano.

Tra tutte le teorie, l’autore reputa quella relativa al Sudafrica come «la più forte»201.

6.3 Le attività di Palme contro l’apartheid

Come leader della nuova generazione di socialdemocratici svedesi, Palme venne spesso descritto come un “rivoluzionario riformista”. Dal punto di vista delle politiche interne, le sue opinioni socialiste gli crearono diverse ostilità da parte dei più conservatori tra gli svedesi. Poco tempo prima del suo assassinio, Palme era stato accusato da alcuni suoi avversari politici di non salvaguardare sufficientemente l’interesse nazionale della Svezia. In un’ottica internazionale, egli fu sicuramente una personalità di spicco in quanto:

1. Criticò aspramente la guerra in Vietnam condotta dagli Stati Uniti; 2. Espresse verbalmente la sua contrarietà alla repressione sovietica operata sulla

Primavera di Praga; 3. Fu sempre contrario alla proliferazione delle armi nucleari; 4. Criticò sempre anche il regime franchista in Spagna; 5. Si incontrò con il dittatore cubano Fidel Castro. 6. Sostenne sia politicamente che finanziariamente l’ANC sudafricano e l’OLP,

l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. 7. E soprattutto si oppose strenuamente al regime di apartheid, favorendo

l’adozione di sanzioni contro Pretoria. In particolare la sua ferma opposizione al governo nazionalista bianco in Sudafrica si caratterizzò per prese di posizione nette, ripetute e pubbliche, sia in Svezia sia all’estero, per esempio in occasione delle sessioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In un periodo durante il quale i governi occidentali davano risposte equivoche e spesso ipocrite al problema della decolonizzazione e del dominio razzista, Palme era un leader occidentale che dimostrò sempre la sua solidarietà con i popoli oppressi, sia a parole che con i fatti. Soprattutto in seguito al massacro di Soweto del 1976, il Primo Ministro si fece porta-voce dei diritti umani e in particolar modo dei diritti dei non-bianchi ad essere trattati allo stesso modo dei bianchi. Volle e ottenne l’impegno, da parte dell’Internazionale Socialista, a sostenere la lotta africana di liberazione in Sudafrica. Sfidò ripetutamente le maggiori potenze occidentali quali Stati Uniti e Gran Bretagna, restie ad applicare da subito sanzioni internazionali. Grazie a lui la Svezia nel 1965 fu la prima nazione occidentale a richiedere, in sede ONU, sanzioni vincolanti contro il Sudafrica. Lo stesso anno, la Svezia diede il suo primo contributo al Fondo per la Difesa e l’Aiuto, organizzazione non-governativa di tipo umanitario, e sostenne altre agenzie che ave-vano il compito di supportare i prigionieri politici in Sudafrica. Inoltre Stoccolma fu il maggior donatore di fondi tesi all’assistenza delle vittime dell’apartheid, ma anche per l’assegnazione di borse di studio a giovani sudafricani. Naturalmente il sostegno di Olof Palme e dei suoi governi si rivolse anche ai movimenti di liberazione africani nelle colonie portoghesi, cosa che « naturalmente gli attrasse l’attenzione ma anche l’astio del Portogallo e del vicino Sudafrica»202. 201 Ivi, p. 97. 202 P. Schori, The impossible Neutrality- Southern Africa. Sweden’s role under Olof Palme, David Philip Publishers, Cape Town, 1994, p. 24.

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Il suo fermo intento di porre fine alla situazione di discriminazione in Africa meri-dionale si basava sulle sue forti convinzioni, che portò avanti per convincere anche gli altri Stati della necessità delle sanzioni: «Coloro i quali continuano a permettere che i capitali esteri entrino in Sudafrica e Namibia si stanno accollando una grande responsa-bilità» 203diceva nel marzo del 1977 al parlamento svedese durante una sessione dedica-ta alla politica estera. Egli inoltre nel 1966 ricevette la visita, a Stoccolma, di Oliver Tambo, in seguito all’invito rivolto, per volontà dello stesso Palme, al leader dell’ANC: si trattò di un in-contro ufficiale, con tanto di passeggiata pubblica in occasione dei festeggiamenti del primo maggio per le strade di Stoccolma. Fu quello il modo più eclatante con cui Palme riconosceva e riconfermava il suo appoggio alla lotta contro l’apartheid, e in un certo qual modo, screditava il governo di Pretoria. In un discorso rivolto al Parlamento del Popolo contro l’apartheid204, il 21 febbraio del 1986 a Stoccolma, Olof Palme sottolineava il fatto che l’apartheid non potesse essere ri-formato: «Un sistema come l’apartheid non può essere riformato. può solo essere abo-lito. Il governo[sudafricano] deve adattarsi o morire»205. Quel discorso, intitolato proprio “Se il mondo decide di abolire l’apartheid, l’apartheid sparirà”, rappresenta quasi il testamento ideologico e programmatico del Primo Mini-stro, che di lì a una settimana sarà ucciso.

6.4 L’ipotesi sudafricana Nel febbraio del 1986 quindi si era riunito a Stoccolma il Parlamento del Popolo sve-dese contro l’apartheid, e di fronte a centinaia di simpatizzanti e sostenitori della lotta anti-apartheid, nonché personalità dell’ANC quali Oliver Tambo, Palme aveva letto il suo discorso, nel quale ancora una volta, e forse più delle altre volte, deprecava il re-gime di Pretoria, chiamava all’azione tutta la comunità internazionale, prediceva la fine della segregazione in Sudafrica. Come si è visto, la settimana dopo fu ucciso. Purtroppo le prime indagini non andarono a buon fine, per cui tantissime teorie, com-plottiste o meno, furono avanzate. Quella più accreditata, ma mai comprovata, rimanda alla possibilità che il regime di Pretoria avesse in qualche modo causato la morte dello statista svedese.

Nel 1996, verso la fine di settembre206, il Colonnello Eugene de Cock, ex-ufficiale di polizia del Sudafrica segregazionista, fornì delle nuove prove orali sulla questione, nel corso di un’audizione di un altro processo, di fronte alla Suprema Corte di Pretoria. De Cock asserì in quell’occasione che Olof Palme era stato sparato e ucciso per essersi opposto al regime di apartheid, e a causa dei sostanziosi contributi forniti dalla Svezia all’ANC 207. L’ex-ufficiale di polizia non si accontentò di rivelare ciò, ma disse di sapere anche il nome della persona responsabile dell’assassinio: si sarebbe trattato di Craig Williamson,

203 Ivi, p. 27. 204 Lo Swedish People’s Parliament against Apartheid fu una grande conferenza organizzata a Stoccolma, al fine di discutere dell’apartheid, dalla Swedish United Nation Association e dall’ Isolate South Africa Committee. Vi parteciparono circa un migliaio di svedesi tra delegati di tutti i partiti politici e rappresentanti di tantis-sime organizzazioni. Inoltre aprirono i lavori il Premier svedese Olof Palme e Oliver Tambo, leader dell’ANC 205 E.S. Reddy(a cura di ), Liberation of Southern Africa. Selected speeches of Olof Palme, Vikas Publish-ing House PVT LTD, New Delhi, 1990, p. 78. 206 Bangura A.K. ,op. cit., p. 104. 207 http://www.kurdistan.org/Washington/southafrica.html.

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un ex-collega di de Cock nonché potentissima spia al servizio della polizia segreta suda-fricana208. Pochi giorni dopo, il Brigadiere Johannes Coetzee, che era a suo tempo il capo della spia Williamson, identificò come il vero assassino di Olof Palme, un tale Anthony Whi-te, membro del Selous Scout della Rhodesia del Sud (reggimento di forze speciali in forza all’esercito rhodesiano durante il dominio della minoranza bianca guidata da Ian Smith). Anthony White aveva anche avuto legami con i servizi segreti sudafricani. In seguito una terza persona fu accusata di aver ucciso Palme: si trattava di Bertil We-din, era uno svedese mercenario che viveva a Cipro, nella parte turco-cipriota, dal 1985; l’accusa venne mossa da Peter Caselton, ex-membro di un’unità d’assalto che avrebbe compiuto l’assassinio. Nell’ottobre di quello stesso anno, la polizia svedese inviò i propri inquirenti in Suda-frica per far luce su quelle nuove e contrastanti accuse, ma essi non riuscirono a trovare prove che confermassero la tesi che voleva il regime sudafricano implicato, tramite po-lizia o servizi segreti, nell’omicidio di Olof Palme.

Nel corso degli anni si sono poi succeduti diversi colpi di scena, perlopiù originati da false notizie riportate su quotidiani sudafricani e svedesi. Ad esempio, nel 2003 fu rivelato che secondo un documento originale, datato 20 no-vembre 1985, una copia del quale era stata inviata al quotidiano di Stoccolma Dagens Nyheter, «l’assassino di Palme sarebbe stato un agente segreto sudafricano che avrebbe ricevuto l’ordine di uccidere direttamente dal consigliere capo del presidente sudafri-cano dell’epoca, P.W. Botha»209. Nello stesso anno le autorità svedesi confermarono di aver ricevuto documenti compro-vanti il coinvolgimento del Sudafrica nell’omicidio di Palme. Si sarebbe trattato di un ex-agente della polizia sudafricana. La notizia fu poi smentita dallo stesso governo. Insomma purtroppo per gli investigatori svedesi, le prove non sono sinora state suffi-cienti a provare alcunché né ad inchiodare alcuna persona. Certo, come fa notare Bangura, è curioso il fatto che la possibile connessione tra il go-verno sudafricano bianco degli anni ’80 e la morte di Olof Palme abbia prodotto in 20 anni una marea di indizi, di prove contrastanti e di versioni dei fatti ritirate.

Sicuramente il fatto che la morte del primo ministro, sia avvenuta pochi giorni dopo la sua arringa contro il regime di apartheid rende l’ipotesi del complotto sudafricano non improbabile, e inoltre le altre tesi avanzate sinora sono state smontate o si sono ri-velate inconsistenti dopo poco tempo.

L’unica teoria che abbia cercato di spiegare l’assassinio dell’ex-statista svedese in modo credibile e che non sia stata ancora smontata resta proprio quella del coinvolgi-mento del regime sudafricano in quel momento guidato dal Presidente Botha in modo indiretto, o in modo più diretto, della sua organizzazione poliziesca. La speranza è che l’indagine porti a qualche risultato concreto entro il 2011, altrimenti, come già ricordato, il caso dovrà essere archiviato dalle autorità svedesi.

208 http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9C06E1DB103CF93AA1575AC0A960958260. 209 Bangura A.K., op. cit., p. 107.

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7.Il Canada

7.1 Politiche del Canada riguardo l’Africa meridionale: 1945-1960

Le politiche del Canada verso l’Africa meridionale si sono evolute a partire dal 1965, in risposta al diverso modo con cui Ottawa cominciò a percepire gli interessi canadesi, in-terni ed esteri, relativi a quella regione. L’evoluzione della politica canadese può essere divisa, secondo Matthews e Pratt210, in due periodi: il primo iniziato con la fine della seconda guerra mondiale e durato sino al 1960; il secondo successivo a Sharpeville.

Durante il primo di questi due periodi, la maggior parte dell’Africa meridionale era ancora dominata dalle potenze coloniali europee. I portavoce del governo canadese affermavano che il Canada non avrebbe potuto, né dovuto, fare niente che avesse potuto turbare quel lento processo «di evoluzione costitu-zionale»211 che avrebbe alla fine condotto alle indipendenze. In quel momento storico, gli imperativi della lotta politica all’Unione Sovietica erano più forti, secondo i calcoli dei politici canadesi, di qualsiasi interesse teso ad accelerare il processo di decolonizzazione. In realtà durante il secondo dopoguerra il Sudafrica non aveva altri interessi diretti nella regione meridionale del continente nero, se non proprio in Sudafrica. In seguito allo stabilimento degli uffici commerciali canadesi di Città del Capo (1907) e di Johannesburg (1934), gli scambi tra i due Paesi cominciarono a fiorire subito dopo il secondo conflitto mondiale. Seppure poco significativo rispetto ai mercati americano ed europeo, il Sudafrica di-ventò presto uno dei dieci più importanti mercati di sbocco dell’economia canadese. In più, Canada e Sudafrica avevano condiviso il nemico tedesco durante entrambi i con-flitti mondiali, ed entrambi cercavano do ottenere sempre maggiore autonomia da Lon-dra, ma sempre all’interno del Commonwealth. Perciò, vista la comune partecipazione al Commonwealth, e vista la debolezza dei mo-vimenti anti-coloniali interni, Ottawa perseguì una politica definita di “distacco disinte-ressato”: questo portò il governo canadese a votare, in sede ONU, solamente quelle ri-soluzioni che si limitavano a condannare il razzismo, ma ad astenersi o a votare contro ogni raccomandazione più specifica o incisiva.

A partire dal 1960 tuttavia, la situazione internazionale era così cambiata, dopo Sharpeville, che la precedente politica canadese, caratterizzata da un deliberato distacco “moderato” dalle questioni coloniali e riguardanti il Sudafrica, non era più una tattica utile per gli interessi canadesi. Infatti la decolonizzazione aveva fatto passi da gigante in pochi anni, cosa che nessuno Stato occidentale aveva previsto: dal momento che il Canada, così come gli altri Paesi occidentali, avevano fallito nel prevedere i cambiamenti degli affari internazionali, i go-vernanti canadesi temevano che l’Unione Sovietica potesse cogliere impreparato il blocco occidentale e, sfruttando a proprio vantaggio la questione coloniale, diffondere un sentimento antioccidentale presso i nuovi stati, in particolar modo tra quelli africani. 210 R. Matthews & C. Pratt, “Canadian Policy Towards Southern Africa”, in D.Anglin, T. Shaw & C. Widstrand (a cura di), Canada, Scandinavia and Southern Africa, Scandnavian Institute of African Stud-ies, Uppsala,1978, p. 165. 211 Ibidem.

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7.2 Politica canadese (1961-1978)

Dopo la strage di Sharpeville Ottawa si era vista perciò costretta a rivedere le sue posi-zioni sulla politica razziale di Pretoria e sull’occupazione sudafricana della Namibia. Quando ormai fu chiaro che i nazionalisti bianchi al potere non sarebbero stati in grado- perché non lo volevano – di dare spazio alle opposizioni né di attuare cambiamenti alla struttura politica e sociale, il Canada trovò sempre più difficile restare “distaccato” da quei problemi, vista la condanna che lentamente stava cominciando a montare contro Pretoria sia in sede ONU che all’interno del Commonwealth. Tanto più che poi il Sudafrica si dovette ritirare dal Commonwealth nel 1961. Da quel momento i governi canadesi che si succedettero alla guida del Paese non esita-rono più a dar voce al loro dissenso nei confronti delle politiche interne ed estere del Sudafrica. Il Governo Pearson adempì la richiesta del Consiglio di Sicurezza relativa al bando del-le vendite e del trasporto di armi, munizioni e veicoli militari verso il Sudafrica. Nel 1970, il governo Trudeau estese l’embargo per includere i pezzi di ricambio mili-tari. Il Canada non si differenziò dalla maggior parte degli Stati occidentali nel resistere all’uso della forza, all’adozione di sanzioni economiche e finanziarie forti e all’espulsione dall’ONU e dalle altre organizzazioni internazionali. La giustificazione addotta ufficialmente dal governo canadese al riguardo fu che «il mantenimento di contatti con il Sudafrica, tramite rappresentanze diplomatiche, rela-zioni economiche o con i commerci, avrebbe facilitato i cambiamenti progressivi all’interno del Paese africano, molto più di quanto sarebbe potuto accadere se si fossero rotti tutti i ponti con Pretoria»212. Altra argomentazione dei politici canadesi tesa a giustificare le loro timide manifesta-zioni di contrarietà al regime sudafricano fu quella per cui, anche se il Canada avesse fedelmente esaudito i voleri della maggioranza dei membri dell’ONU, molti altri mem-bri non l’avrebbero fatto. Terza scusante addotta da Ottawa: in quanto si trattava di un Paese dipendente dal commercio con l’estero per il suo benessere, il Canada non poteva permettersi il lusso di interrompere i suoi scambi con il Sudafrica. Infine, secondo i politici canadesi al potere, non bisognava sottovalutare il fatto che molti canadesi erano immigrati da altri Paesi governati da regimi oppressivi, perciò, se il governo canadese avesse intrapreso qualsiasi azione forte nei confronti del Sudafrica, esso sarebbe poi stato «oberato da una moltitudine di richieste»213 tese ad ottenere da Ottawa le stesse azioni forti nei confronti di quei regimi oppressivi.

Il Canada comunque modificò in parte la sua posizione nei confronti del Sudafrica e delle questioni dell‘Africa meridionale, passando da una posizione di disinteresse e di distacco a una caratterizzata da un modesto coinvolgimento, coerentemente con la posi-zione di Stati uniti e Gran Bretagna, suoi maggiori alleati. In ogni caso, la posizione ufficiale dei governi canadesi sarà quella per cui, qualsiasi partito raggiunga il potere ad Ottawa, sarà comunque obbligato, a causa dei valori etici tradizionalmente appannaggio della società canadese, a condannare il colonialismo e il principio della discriminazione razziale su cui si cui si fondavano il Sudafrica e la Rho-desia del Sud. Tuttavia, i canadesi non avalleranno né tantomeno forniranno supporto, ai gruppi che si battevano per un cambio violento e improvviso. 212 Ivi, p. 168. 213 Ivi, p. 169.

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7.3 I fattori che determinarono la politica canadese verso il Sudafrica.

Le politiche canadesi verso l’Africa australe non potevano essere spiegate semplicemen-te in termini di interessi nazionali da soddisfare: il Canada infatti non aveva in quella regione nessun interesse economico vitale. Vediamo allora quali motivazioni influenzarono la politica di Ottawa verso l’Africa me-ridionale. Il governo canadese, secondo l’analisi di Matthews e Pratt, ha ricercato innanzitutto di massimizzare l’influenza e il potere del Canada all’interno della comunità internaziona-le: e questo richiedeva che il governo canadese mantenesse relazioni cordiali con il maggior numero di Paesi possibile. Ma la politica estera del Canada è stata influenzata anche da altri fattori.

1. Innanzitutto, la percezione ideologica con la quale il governo ed il Dipartimento degli Affari esteri definivano gli interessi nazionali canadesi nell’area e le que-stioni relative al Sudafrica: spesso questi interessi nazionali prevalenti erano quelli economici; questo però ha portato spesso i politici canadesi a credere, o a far credere, che il commercio internazionale e gli investimenti esteri, compresi quelli del Canada, avrebbero comunque apportato effetti benefici anche popola-zioni dei territori in cui quei commerci avvenivano. Questo quindi serviva a giu-stificare la non-adozione di sanzioni economiche da parte del Canada nei con-fronti del Sudafrica. Anzi, nel caso del Sudafrica, il mantenimento da parte del Canada, di commerci e investimenti non farà che accelerare il processo di sman-tellamento dell’apartheid

2. In secondo luogo, l’immagine del ruolo internazionale del Canada: il Paese nor-damericano è sempre stato sensibile all’opinione pubblica del Terzo Mondo, in quanto i canadesi stessi sono sempre stati orgogliosi del fatto di venire consi-derati nazione amica dei Paesi del Terzo Mondo, che comprendeva le loro diffi-coltà e necessità. Questo elemento ha agito nel senso di far percepire come mo-ralmente giusta la pressione che gli Stati africani del Terzo Mondo operavano sul Canada al fine di ottenere dal governo di Ottawa l’adozione di un atteggia-mento fermo e severo contro Pretoria.

3. Il ruolo di primo piano delle relazioni con USA e Regno Unito: il Canada ha a-

vuto da sempre una stretta associazione di interessi culturali, economici e poli-tici con gli Stati Uniti e con la Gran Bretagna. Questo ha portato i vari governi che si sono succeduti ad Ottawa a stare nella scia degli interessi britannici e sta-tunitensi anche riguardo al Sudafrica, perciò Ottawa non prese mai per prima decisioni importanti o iniziative, anche in sede ONU, di diretta opposizione al regime sudafricano; infatti per molto tempo, come abbiamo visto, sia Londra che Washington si astennero dal prendere una posizione decisamente contraria a Pre-toria.

4. Il tipo di decision-making seguito dai politici canadesi: vi erano all’interno dell’opinione pubblica canadese tre tipi di influenza relativi alle politiche versi il Sudafrica:

1 L’influenza di una parte della popolazione canadese che era solidale con la minoranza bianca, con la quale si è tentato di

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spiegare in Canada la mancata presa di posizione netta del go-verno contro Pretoria.

2 L’influenza esercitata da gruppi portatori di interessi umani-tari, liberali, cristiani e radicali, che invece avevano spinto il governo verso l’adozione di una politica “più giusta” e decisa nei confronti del Sudafrica: questa componente dell’opinione pubblica non riuscì mai ad ottenere misure sanzionatorie radi-cali, ma influenzò il governo sicuramente più di quanto seppe fare la componente che propendeva per la minoranza bianca in Sudafrica.

3 La terza influenza fu quella dei portatori di interessi commer-ciali e degli investimenti in Sudafrica. E fu questa la fascia di opinione pubblica maggiormente presa in considerazione da Ottawa, almeno sino agli anni ’70.

Matthews e Pratt ritengono che tra i quattro fattori determinanti nel dar forma alla poli-tica canadese nei confronti del Sudafrica, il più importante sia stato il primo, cioè la percezione ideologica con cui il Governo e il Dipartimento degli esteri concepivano gli interessi canadesi in Africa meridionale, in particolar modo in Sudafrica. Riassumendo, sembra condivisibile la posizione di Matthews e Pratt secondo cui il Ca-nada, dal dopoguerra in poi, ha sempre manifestato in modo notevole l’interesse a man-tenere un’immagine della sua politica alquanto “liberale” perciò poco propensa a inter-venire con sanzioni economiche che avessero potuto mettere a repentaglio gli interessi nazionali nella regione meridionale dell’Africa; e questo sempre sulla scia o in contem-poranea con Gran Bretagna e Stati Uniti. Tutto questo non inficia il fatto che in ogni caso il governo canadese fu costretto dopo il 1960 a prendere una posizione almeno più precisa riguardo alla questione dell’apartheid e che, dopo il 1977, come tutti i Paesi occidentali, dovrà adeguarsi alle sanzioni obbliga-torie stabilite in sede ONU.

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Conclusione

Nel corso di questo lavoro abbiamo avuto modo di analizzare diversi aspetti della que-stione sudafricana. Innanzitutto siamo partiti con la disamina della situazione sociale e politica del Suda-frica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, e abbiamo visto come la mino-ranza bianca, che peraltro già da tempo governava sulla maggioranza nera, fu decisa nel continuare il processo di discriminazione in atto nei confronti dei non-bianchi. Il Natio-nal Party ebbe però la grande colpa di istituzionalizzare e consolidare l’apartheid.

Si è visto come le giustificazioni, tanto a livello interno, quanto soprattutto nelle or-ganizzazioni internazionali, da parte dei politici bianchi al governo, tendessero sempre a presentare la situazione come “inevitabile”. Non solo, essa sarebbe stata, secondo i na-zionalisti afrikaner, anche opportuna per tutte le componenti etniche del Paese, in quan-to il sistema dell’apartheid prometteva e aspirava allo sviluppo separato di ciascuna del-le componenti etniche e razziali presenti sul territorio. Ma, posto che quella politica si rivelò presto fallimentare – ad esempio per quel che ri-guarda i bantustan – le giustificazioni in sede internazionale non servirono più di tanto quando, a partire dal 1960 (anno della strage di Sharpeville), e ancor di più dal 1961 (u-scita della Repubblica Sudafricana dal Commonwealth), sempre meno Stati, all’interno della comunità internazionale, sembrarono disposti a sostenere rapporti politici stretti con Pretoria.

Sia l’ONU, sia gli Stati africani cominciarono a criticare aspramente il Sudafrica per le politiche interne perseguite; le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza cominciarono ad orientarsi in senso sempre più ostile al governo nazionalista bianco: ma quello che abbiamo notato è che, nonostante il disprezzo politico per la sua condotta, ricevuto in modo pressoché unanime dal consesso degli Stati, Pretoria si sia avvantaggiata a lungo dei legami di tipo economico e militare stretti da diverso tempo con le nazioni occidentali, in particolare con Stati Uniti e Gran Bretagna. Se a questo fattore si aggiunge il fatto che sino a metà anni ’70, il Paese africano venne considerato di importanza strategica per le sorti occidentali nel contesto della Guerra Fredda, si spiega, come si è cercato di fare in questo lavoro, la ritrosia delle maggiori potenze oc-cidentali all’applicazione di sanzioni economiche contro il regime di Pretoria.

L’idea che mi ha accompagnato lungo tutto il lavoro di ricerca, e che è stata conti-nuamente riconfermata proprio da ciò che a mano a mano trovavo sul materiale a mia disposizione, è stata ed è tuttora quella di una contrapposizione continua tra l’opinione pubblica e la politica attiva (più spesso passiva ) dei governi della stragrande maggio-ranza dei paesi del blocco occidentale. Non sono mancati sicuramente esempi di politiche estere più “virtuose” di altre: tra tutte si veda quella svedese. Ma quello che vorrei trasmettere a chi legge è proprio questa contraddizione tra quello che la società civile richiedeva e ciò che i governi sapevano ( o meglio: volevano) e-sprimere. Perché mai un governo non dovrebbe farsi portavoce delle istanze morali del suo popo-lo? Nel caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna questa dicotomia è stata forse mag-giormente visibile e tagliente: i movimenti anti-apartheid erano ben presenti e costitui-vano una voce non indifferente della società civile americana e di quella britannica, e quindi possiamo a ragione affermare che il popolo aveva una ben precisa motivazione e richiedeva una politica estera ben precisa al governo eletto democraticamente. E invece i governi, sia per via unilaterale che in sede ONU, hanno preferito temporeg-giare a lungo, evitare di prendere posizioni troppo nette contro il Sudafrica: ma non cer-to perché temevano la potenza militare a disposizione di Pretoria.

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Il vero motivo invece traspare lungo le pagine di questa tesi: le motivazioni economiche e le considerazioni geo-strategiche “dovevano” avere la precedenza nelle scelte di poli-tica estera delle classi dirigenti nazionali, e questo anche a costo di tradire il senso mo-rale pubblico delle rispettive società civili. Chiaramente, non è la prima volta nella storia, e non sarà nemmeno l’ultima (vediamo ora come si evolve la questione tibetana), in cui, di fronte a violazioni evidenti dei diritti umani la comunità ha prodotto ”risposte a due velocità”: una risposta più genuina da parte delle persone comuni, delle organizzazioni della società civile; e l’altra, quella dei governi “ufficiali”, molto più moderata attenta a non intaccare i cosiddetti “interessi na-zionali”. A questo punto sarebbe però opportuno che in quei casi i rappresentanti di quei governi che si spacciano come i veri portatori degli interessi delle loro nazioni, facessero chia-rezza e spiegassero quali fossero per loro gli interessi nazionali. Perché a noi è sembrato proprio che mancasse questa chiarezza da parte di quasi tutti i governi occidentali durante il periodo dell’apartheid: nessun Capo di Stato fu mai chiaro nell’ammettere che gli interessi “nazionali” in realtà non erano poi tanto nazionali, ma erano espressione di parti della società, e cioè dei gruppi di pressione economici, i quali hanno sempre avuto massima importanza agli occhi dei governi per via del loro potere di sostenere economicamente la stessa classe politica.

Ecco perché i rappresentanti di moltissimi Stati occidentali, riguardo alla questione dell’apartheid, furono spesso ambigui rispetto ai veri interessi di cui si facevano porta-voce nelle assise internazionali come l’ONU: non avrebbero mai e poi mai avuto il co-raggio di prendersi la responsabilità di dire che la pressione degli interessi economici fosse più forte, e più importante, della volontà di milioni di persone che richiedevano la cessazione della segregazione razziale; sarebbe stata un’assunzione di responsabilità che l’ipocrisia e la ragion Stato non avrebbero permesso.

A questo punto pensiamo davvero che lo stato di salute della democrazia in Sudafrica non fosse poi così peggiore di quello della democrazia di molti Paesi occidentali; il pa-rallelo sembrerà azzardato, però se da una parte moltissimi governi occidentali non da-vano il giusto peso alle istanze etiche e morali della stragrande maggioranza della popo-lazione, dall’altra avevamo il governo sudafricano bianco che non voleva dar voce poli-tica alla ugualmente stragrande maggioranza della popolazione.

Chiaramente può sembrare eccessivo, e si trattava sicuramente di due tipi di “non-democraticità” assolutamente diversi, però aiuta a riflettere sulla scollatura, noi ritenia-mo tuttora esistente, tra la società civile e i governi degli Stati occidentali riguardo alle grandi questioni internazionali concernenti i diritti umani.

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• Microsoft® Encarta® 2006 [DVD], "Apartheid", Microsoft Corporation, 2005.

• Microsoft® Encarta® 2006 [DVD], "Sudafrica", Microsoft Corporation, 2005.

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